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1 Direttore responsabile Adolfo Lippi c.p. Direttore amministrativo Giovanni Pelà Cattedra Gloria Crucis Comitato scientifico Fernando Taccone c. p. - Piero Coda - Antonio Livi - Denis Biju-Duval Adolfo Lippi c. p. - Gianni Sgreva c. p. A. Maria Lupo c. p. Segretari di redazione Mario Collu c. p. - Gianni Sgreva c. p. A. Maria Lupo c. p. Collaboratori Tito Amodei - Max Anselmi - Vincenzo Battaglia – G. Bicocchi - Luigi Borriello - Maurizio Buioni - Giuseppe Comparelli – F. Giorgini - G. Marco Salvati - Flavio Toniolo - Gianni Trumello - Tito Zecca Redazione: La Sapienza della Croce Piazza SS. Giovanni e Paolo, 13 00184 Roma Tel. (06) 77.27.14.74 Fax 700.80.12 e-mail: [email protected] http./www.passionisti.it Abbonamento annuale Italia Euro 18,08, Estero $ 30 Fuori Europa (via aerea) $ 38 Singolo numero Euro 5,15 C.C.P. CIPI n. 50192004 - Roma Finito di stampare 31 marzo-2007 Stampa Tipografia Città Nuova ISSN 1120-7825 Autorizzazione del tribunale di Roma n. 512/85, del 13 novembre 1985 Sped. in abbon. post. Comma 20/c art 2 Legge 662/96 - Filiale di Roma LA SAPIENZA DELLA CROCE Rivista trimestrale di cultura e spiritualità della Passione a cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucis della Pontificia Università Lateranense ANNO XXII - N. 1 - GENNAIO-MARZO 2007 SOMMARIO Sacra Scrittura e teologia Il dramma in Dio Studio sulla soteriologia teodrammatica di H.V. v. Balthasar di GIUSEPPE DELLA MALVA 3-18 La metafisica del Dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano di GIAMPAOLO MANCA 19-46 Pastorale e spiritualità L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani (1978-1882) di DARIO DI GIOSIA C. P . 47-68 Le XXI “spade” della Via Mariae Una rilettura inedita del suo itinerario spirituale dall’infanzia alla croce (terza parte) di ROBERTO A.M. BERTACCHINI 69-87 Eventi Presentazione del volume Quale volto di Dio rivela il Crocifisso? di ROBERTO NARDIN 89-102 di MONSIGNOR IGNAZIO SANNA 103-106 Salvezza e culture L’Andy Warhol che si pente di TITO AMODEI 107-114 Un mito di ELISABETTA V ALGIUSTI 115-119 Rassegna della stampa di ADOLFO LIPPI C.P . 121-127 Recensioni 128-132

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Direttore responsabileAdolfo Lippi c.p.

Direttore amministrativoGiovanni Pelà

Cattedra Gloria CrucisComitato scientificoFernando Taccone c. p. - Piero Coda - Antonio Livi - Denis Biju-DuvalAdolfo Lippi c. p. - Gianni Sgreva c. p. A. Maria Lupo c. p.

Segretari di redazioneMario Collu c. p. - Gianni Sgreva c. p.A. Maria Lupo c. p.

CollaboratoriTito Amodei - Max Anselmi - Vincenzo Battaglia – G. Bicocchi - Luigi Borriello - Maurizio Buioni - Giuseppe Comparelli – F. Giorgini -G. Marco Salvati - Flavio Toniolo - Gianni Trumello - Tito Zecca

Redazione:La Sapienza della CrocePiazza SS. Giovanni e Paolo, 1300184 RomaTel. (06) 77.27.14.74 Fax 700.80.12e-mail: [email protected] http./www.passionisti.it

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StampaTipografia Città Nuova

ISSN 1120-7825

Autorizzazione del tribunale di Roman. 512/85, del 13 novembre 1985Sped. in abbon. post. Comma 20/c art 2Legge 662/96 - Filiale di Roma

LA SAPIENZA DELLA CROCE

Rivista trimestrale di cultura e spiritualità della Passionea cura dei Passionisti italiani e della Cattedra Gloria Crucisdella Pontificia Università Lateranense

ANNO XXII - N. 1 - GENNAIO-MARZO 2007

SOMMARIO

Sacra Scrittura e teologiaIl dramma in DioStudio sulla soteriologia teodrammaticadi H.V. v. Balthasardi GIUSEPPE DELLA MALVA 3-18La metafisica del Dono in E. Lévinas e lo statutodell’embrione umanodi GIAMPAOLO MANCA 19-46

Pastorale e spiritualitàL’annuncio di Cristo nel magistero di GiovanniPaolo II ai giovani (1978-1882)di DARIO DI GIOSIA C. P. 47-68Le XXI “spade” della Via MariaeUna rilettura inedita del suo itinerario spiritualedall’infanzia alla croce (terza parte)di ROBERTO A.M. BERTACCHINI 69-87

EventiPresentazione del volumeQuale volto di Dio rivela il Crocifisso?di ROBERTO NARDIN 89-102di MONSIGNOR IGNAZIO SANNA 103-106

Salvezza e cultureL’Andy Warhol che si pentedi TITO AMODEI 107-114Un mitodi ELISABETTA VALGIUSTI 115-119

Rassegna della stampadi ADOLFO LIPPI C.P. 121-127

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Il dramma in DioStudio sulla soteriologia teodrammaticadi H. U. v. Balthasar1

di GIUSEPPE DELLA MALVA

Seconda parte dell’articolo pubblicato in SapCr XXI (2006) 359-382.

2.1.4 L’abbandono di Dio

Il patristico “admirabile commercium”2 e l’“idea limite” di “sostituzio-ne vicaria”3 arrivano qui ad affermare l’«assunzione dell’abbandono di Dioefficacemente sostitutivo»4 da parte del Verbo fatto carne, adducendo la tesiche «il tormento espiatorio dev’essere consistito nell’incommensurabile pro-fondità del suo abbandono da parte del Padre»5.

1 Per le citazioni delle opere di Balthasar saranno usate, in questo testo, le seguen-ti sigle: GL = Gloria. Una estetica teologica, Queriniana, Brescia, 1 (1994); 2 (1985); 3 (1986);

4 (1986); 5 (1978); 6 (1991); 7 (1991);TD = Teodrammatica, Queriniana, Brescia, 1 (1987); 2 (1992); 3 (1992); 4 (1999); 5

(1995);TL = Teologica, Queriniana, Brescia, 1 (1997); 2 (1990); 3 (1992); SI = Lo Spirito e l’Isti-

tuzione, Morcelliana, Brescia, 1979; MP = Teologia dei tre giorni, Queriniana, Bre-scia, 1990 (Titolo originale Mysterium paschale); TS = Teologia della storia, Mor-celliana, Brescia, 1964.2 «L’esperienza di abbandono nella passione viene dal fatto che a Gesù in ciò che i

padri chiamavano “admirabile commercium” (Proclo di Costantinopoli dice: il commer-cio che suscita orrore) è dato di sperimentare e di soffrire i peccati del mondo» (ID., L’au-tocoscienza di Gesù, op. cit., 83. Il corsivo è nostro).

3 TL2, 211: «l’idea limite della sostituzione vicaria (Stellvertretung)» riceve «tratticoncreti solo dal destino irripetibile e unico di Gesù» che giunge all’«abisso della negazio-ne nell’abbandono», quale «destino finale previsto da Dio per l’uomo» (il corsivo è nostro).

4 TD4, 302.5 TD4, 463. L’autore confina in questa ipotesi gran parte di quanto, a suo parere, è

teologicamente dicibile intorno al “come” della sostituzione vicaria. Per il resto, infatti,

GIUSEPPE DELLA MALVA. SAPCR 22 (2007) 3-18

Sacra Scrittura e Teologia

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4 Giuseppe della Malva

La validità di tali asserti, tuttavia, risiede nell’unicità e universalità sal-vificamente inclusiva dell’“abbandono di Dio” sperimentato dal Figlio, chedovrà pertanto rivelarsi superiore alla solitudine di qualunque altra morteumana e in ciò capace di assumere questa e risignificarla «dal basso e dal didentro»6. Alla verifica di questi elementi, pertanto, concederemo notevole im-portanza.

Se quanto siamo andati dicendo finora è vero, cioè che la croce è l’«am-massarsi del morire escatologico del mondo peccatore nel giorno del giudiziodi Dio» assunto «in rappresentanza vicaria per tutti»7 e al posto di tutti porta-to come maledicente8 reiezione9, allora è conseguente dedurre che «la con-centrazione nel Figlio di tutto quello che si oppone a Dio viene sperimentatacome l’abbandono da parte del Padre»10 e come “distanza” da lui.

Ora, «come è unico il Figlio di Dio altrettanto è incomparabile il suo ab-bandono da parte del Padre»11. Vale a dire: la «profondità della derelizionedel Figlio da parte di Dio sulla croce diviene comprensibile solo in virtù dellasingolare relazione permanente del Figlio con Dio anche e proprio nella suacondizione di abbandono»12, termine oppositivo rispetto al presupposto intra-trinitario:

«L’esperienza profonda dell’abbandono, da realizzarsi nella passioneespiatoria per gli altri, presuppone l’esperienza profonda dell’intimità di

«In quale maniera la morte di Gesù ha portato l’aspetto tormentato immanente alla colpadel mondo non è possibile concepire o immaginare. Inutili le speculazioni circa il dolorelimitato o infinito» (TD4, 463. Il corsivo è nostro).

6 TS, 52.7 SI, 44. Tale, secondo l’autore, è la lettura staurologica anche della primitiva co-

munità cristiana (cf. ivi). 8 Già l’essere consegnato in mano dei nemici è, secondo l’Antico Testamento,

«ogni volta un atto di giudizio, ossia un atto dell’ira divina» (MP, 99) poiché «Chi è con-segnato in questo modo è “abbandonato da Dio” nel senso più vero del termine; non è piùDio, ma il nemico a disporre di lui (cfr. 1Sam 24,5)» (GL7, 204). In riferimento a Gesù,poi, questo fatto significa il ricadere di «tutto il peso di maledizione del peccato del mon-do... sull’unico che la porta (Gal 3,13)» (GL7, 205).

9 Il crocifisso come «colui che soffre è realmente il reietto al posto di tutti gli eletti,affinché tutti i peccatori reietti possano essere eletti al suo posto» (SC, 340).

10 ID., Il Rosario, op. cit., 69.11 MP, 79.12 SI, 364.

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Il dramma in Dio 5

Dio e della vita che viene dal Padre... Può trovarsi veramente in stato diabbandono (non semplicemente di solitudine) solo chi ha conosciutouna vera intimità di amore»13.

«Non v’è alcuno» infatti «che sappia come il Figlio che cosa significhivivere nel Padre, riposare nel suo seno, amarLo, servirLo. Nessuno pertantov’è che sappia pure, come Lui, che cosa significhi esserne abbandonato»14. Vada sé dunque che misurare la «distanza che separa... Iddio dal peccatore»15 esperimentare in sommo grado la solitudine che ne deriva al morire umano èpossibile solo all’«Abbandonato da Dio sulla croce»16: «La morte di Gesù fula più solitaria di tutte, poiché nessun uomo creato può essere così abbando-nato da Dio come l’eterno Figlio del Padre fatto uomo»17. Sarà quindi propriola sparizione dell’“esplicito” volto paterno, come eclissi d’un ineguagliabile“orizzonte dell’essere”, datore di vita e di senso18, a rendere il «morire-via delFiglio dal Padre»19 solitudine inaccessibile al semplice «morire-via daDio»20 di ogni uomo.

Va comunque detto di più. L’unicità della morte di Cristo, infatti, che ta-li riflessioni salvaguardano, sta certamente in diretta implicanza con la sua in-clusività rispetto ad ogni morire umano21, ma non la afferma ancora. Questainizia ad emergere qualora si consideri che, mentre il finire umano nella mo-

13 GL7, 197-198.14 TS, 53; cf. ID., Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?, op. cit., 37-38.15 TS, 52.16 ID., Il Rosario, op. cit., 73.17 ID., La semplicità del cristiano, op. cit., 57.18 Sulla scorta di alcune categorie di G. Scherer, Balthasar nota che si «può vedere

in ogni morte una perdizione del mondo stesso, perché per l’uomo che muore non preci-pita soltanto il suo proprio mondo-ambiente, ma tutto l’orizzonte dell’essere, in base alquale unicamente c’era per lui un essere e un senso. E senza dubbio c’è per ogni uomoimplicitamente, in questo orizzonte, il divino, e se è un credente c’è il Dio vivente, maunicamente come qualcosa a cui si mira nella fede. Invece per il Figlio di Dio questo oriz-zonte è il Padre, di cui egli di continuo immediatamente vive nello Spirito Santo e da cuiriceve in amore eterno la sua missione... Per lui sprofonda un orizzonte dell’essere e delsenso in un modo che nessuna creatura lo può avere o perdere» (TD4, 459-460).

19 TD4, 460.20 TD4, 174.21 MP, 150: «affinché la morte di Cristo possa essere inclusiva, deve nello stesso

tempo essere esclusiva e unica nella sua forza di espiazione sostitutiva» (il corsivo è no-stro).

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6 Giuseppe della Malva

dalità storica con cui è vissuto, è frutto del peccato, la croce è invece conse-guenza dell’«assoluta obbedienza» del Figlio ed è in questa che «il peccato èfatto morire sprofondato»22. La “morte al Padre”, dunque, coincide parados-salmente con la morte a tutto ciò che portava l’uomo “via da Dio”:

«Paolo lo dice: “Ciò che è morto è lui morto una volta per tutte al pec-cato (contro il peccato)”, perciò “la morte non ha più potere su di lui”(Rm 6,10.9). Dove non è da dimenticare che questo “morire al peccato”è un morire che attraversa tutto il peccato, è la maledizione che maledi-ce e cancella il sostanzialmente antidivino mediante lo Spirito Santo. Sipuò perciò certamente dire che il Figlio muore “al peccato”, ma vistopiù in profondità egli muore a Dio stesso, muore alla definitiva ripulsada parte di Dio di ciò che è incompatibile con la divina essenza»23.

Ed è ancora in forza della libera obbedienza del Figlio al consiglio trini-tario che questo suo «estremo allontanamento dal Padre» si converte nell’«ul-timo cammino verso di lui, dentro di lui» universalmente salvifico:

«Il paradosso di ogni missione cristiana: via da Dio come incontro conDio, si attua qui in maniera unica perché nel profondo trinitaria: mentreil Figlio compie fino all’ultimo la volontà del Padre per il mondo eglientra nel più intimo della volontà paterna: per ricapitolare tutto in cieloe in terra nel Figlio come nel capo (Ef 1,10)»24.

Lo sviluppo della riflessione impone di radunare a questo punto, pur inestrema complessità, molti degli elementi finora descritti. Inutile riproporli neldettaglio. Alla sintesi basterà considerare e approfondire la constatazione di ba-se che qui s’impone irrefutabile: che, cioè, del carattere redentivo-inclusivo del-la “derelictio Jesu” si può parlare unicamente in forza di quello rivelativo. E, ac-colto il principio secondo cui qui vale solo un linguaggio paradossale25, essadovrà aprire «il paradosso assoluto»: quello per cui «il Padre “non abbandona

22 TD4, 460.23 TD4, 460.24 TL2, 213. Il corsivo è nostro.25 «Dove la morte finita diviene espressione dell’amore infinito... verso i peccatori

come verso Dio il Padre, allora si può ulteriormente parlare solo per paradossi» (TD5,281; il corsivo è nostro). Ciò significa che una cristologia d’ispirazione trinitaria, nella

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Il dramma in Dio 7

neppure per un istante il Figlio nell’estremo abbandono”»26 e per cui l’«“inse-parabilità” del Padre e del Figlio è resa evidente dove la separazione di entram-bi sarà apparentemente perfetta»27.

Confermando la reciprocità ermeneutica croce-Trinità28, l’abbandono delVenerdì santo testifica che soltanto i presupposti del “Theo-drama”29 sono ingrado di illuminarne “il centro del centro”: la «peccaminosa distanza da Dio»,vicariamente sperimentata da Cristo nella sua derelizione, trova “inclusione” inquell’infinita “distanza” trinitaria per la quale si dà «l’assoluta alterità reciprocadelle persone intradivine»30 e l’abbandono della croce è ricompreso dentroquell’“abbandono” delle ipostasi che è dinamica di eterna mutua dedizione31.

morte vicaria di Gesù non potrà che vedere la “distanza” come “vicinanza”, la “tenebra”come “luce” (cf. TD4, 337; GL1, 428), il “dolore” come “gioia” (cf. GL7, 475-481; TD5,210. 216-218; ID., Frammenti a proposito della malattia e della salute, Communio 33(1977) 86), l’“impotenza” come “onnipotenza” (TD4, 312. 338; TL2, 123; TF, 170-171) ela stessa “morte” come “vita” (TD5, 214-215; Il Credo, op. cit., 44-45; MP, 81, SI, 364),apparendole chiaro che «i modus economici delle relazioni delle persone divine si trova-no nascosti nei modus immanenti, senza aggiungere ad essi elementi estranei» (TD5,229). Il linguaggio paradossale, inoltre, permette di tradurre la morte vicaria di Gesù teo-esteticamente come quella “forma senza-forma” che diventa trasparenza della “sovra-for-ma” trinitaria (cf. ID., La mia opera ed Epilogo, op. cit., 127-128; GL7, 81. 292; GL1,400. 428) e teo-logicamente come quella “non-parola della Parola” (cf. GL7, 75-86; TF,220-226) che offre la massima esegesi dell’amore di Dio (cf. ID., Dio è esegeta di se stes-so, Communio 85 (1986) 15-16; MP, 79-80; GL7, 193. 343).

26 TD5, 224. Il testo interno virgolettato è di A. von Speyr.27 TD5, 281. Il testo interno virgolettato è di A. von Speyr.28 «Solo per la croce e per l’abbandono della croce si rende manifesta la distanza

del Figlio dal Padre; lo Spirito che li unisce entrambi, il loro noi, appare nella perdita del-l’unità addirittura come pura distanza. Dal momento che il Figlio che porta in assoluto ilpeccato e l’alienazione da Dio, sembra aver perduto il Padre nella sua donazione e perdi-zione, le cose stanno come se questa rivelazione della Trinità economica soltanto rendapiena la serietà radicata nella Trinità immanente» (TD4, 297-298. Il corsivo è nostro).

29 Ci riferiamo qui in particolare alle riflessioni dell’autore intorno alla Ur-kenose,da noi già esposte nel paragrafo 1.2: “La libertà infinita come eterna ed assoluta autode-dizione”.

30 TD5, 219.31 L’“abbandono kenotico” del Verbo «è rivelazione d’un eterno modo d’essere di

Dio stesso» (SI, 48), poiché «in Dio... vi sono non solo tre modalità dello spirito uno, bensìautentico atto di consegna o abbandono di sé in proprietà tra Padre, Figlio e Spirito» (SI,361; il corsivo è nostro). Questa nozione, che traccia un filo diretto tra il liberissimo abban-dono immanente e quello economico del Figlio, è fondamentale per rileggere la passione e

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Il giudizio, attestante la distanza peccato-amore divino, è assunto e su-perato nella diastasi pneumatica32 Padre-Figlio, dove, come in una «adirataalienazione reciproca»33, «le linee dell’ira e dell’amore di Dio si toccano»perché «l’oggetto della giusta ira di Dio è inserito nell’eterna relazione d’a-more trinitario tra il Padre e il Figlio»34. Il peccato allora, assunto vicaria-mente dal Figlio e già sopravanzato dal suo amore liberamente obbediente35,trova posto solo come “condannato”36 in questa divina relazione agapica, la

8 Giuseppe della Malva

morte di Gesù in chiave di “libertà”. L’eucarestia nella quale Gesù “si consegna” e “si ab-bandona integralmente” (cf. SI, 190), corrispondentemente all’identità eucaristico-imma-nente del Figlio «già da sempre nell’atto di venir profuso» (SI, 192; cf. TD5, 226), è operanon solo di «colui del quale si dispone», ma anche di «colui che dispone» (MP, 90); «tutto ilprocesso giudiziario resta racchiuso entro i termini dell’amore del Padre che consegna (Gv3,16) e l’amore del Figlio che si lascia consegnare» (GL7, 205; il corsivo è nostro), eviden-ziando una dinamica che subordina la consegna degli uomini (MP, 103) e lo stesso «abban-dono del “Figlio diletto” “nelle mani degli uomini”, dei “peccatori”» al fatto che Cristo «inquesto suo essere dato si dà egli stesso» (TD3, 113); l’intera «passività della Passione conl’essere legato, flagellato, trafitto è l’espressione di una volontà di donazione estremamen-te attiva» poiché qui «il disporre di sé sconfina in un puro lasciar disporre e venir disposto»(ID., Nuovi Punti Fermi, op. cit., 66); «l’espiazione cristologica» infine «non potrà mai es-sere in alcun modo spiegata come un’opera di penitenza imposta dal Padre divino al Figlio»(TD3, 226; il corsivo è nostro), perché al “lasciarsi fare” “peccato” (2Cor 5,21) e “maledi-zione” (Gal 3,13) dal Padre (cf. TD3, 104), corrisponde, da parte del Figlio, non «una rasse-gnazione fatalistica di fronte ad una potenza superiore, bensì - al di là della forza naturale -un filiale e fiducioso abbandono di tutto se stesso all’amore di Dio sempre amato anche senon più sentito» (ID., L’impegno del cristiano nel mondo, Milano 1971, 41; cf. ID., La pa-rola si condensa, Communio 35 (1977) 33).

32 «Lo Spirito mantiene sussistente durante la passione la diastasi intradivina tra ilPadre e il Figlio morente, nell’“ultimo atto del suo amore”» (TD5, 223. Il testo internovirgolettato è di A. von Speyr).

33 TD4, 325.34 TD4, 324.35 «L’assunzione della tenebra del mondo nella luce intratrinitaria significa il mira-

colo della trasfigurazione, la distanza della peccaminosa notte viene superata e abbrac-ciata dalla distanza volontaria e obbediente del divino. L’ira di Dio contro la negazionedell’amore divino coglie un amore divino, quello del Figlio, che si espone a questa ira, ladisarma e la rende letteralmente priva di oggetto» (TD4, 327. Il corsivo è nostro).

36 TL2, 285: «nella croce la contraddizione del peccato, la sua menzogna e illogi-cità, viene assunta dentro la logica dell’amore trinitario, non veramente per trovarvi spa-zio, ma per essere in ogni verità “condannata” nella carne del Figlio». Altrove, con lin-guaggio metaforico, è detto che l’estraneità del peccato è portata, mediante il Figlio, al-l’interno del “fuoco” delle relazioni divine solo per esservi “bruciata” (cf. TD5, 229).

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Il dramma in Dio 9

quale, pur assumendo economicamente «il modus del rifiuto, della estranei-tà»37 e della derelizione a causa dell’«alienazione peccaminosa dell’uomo»38

che vi si introduce - anzi proprio in ragione di tale assunzione - si rivela nellasua “suprema vitalità”39 e insuperabile40 comunionalità41. Un lungo branotratto da Lo Spirito e l’Istituzione è brillante compendio dell’intera argomen-tazione:

Il «non essere solo di Gesù non può essere che la caratterizzazione in-trinseca della sua derelizione. Se Gesù è “Figlio di Dio”, come ricono-sce il centurione sotto la croce dopo il grande grido, allora il suo abban-dono, pur esso, non può avere se non un carattere trinitario. Ciò signifi-ca: esso è una forma di rivelazione “economica” e soteriologica dellerelazioni ipostatiche intradivine. Il Figlio esiste in Dio non altrimentiche come colui che viene dal Padre e va al Padre, e come “generato, noncreato”, in una maniera qualitativamente altra da come può essere enun-ciata a proposito delle creature. La realtà del peccato del mondo vieneinserita economicamente entro questo venire e andare, non come unostacolo esterno, ma come una realtà assunta dal Figlio entro di sé, co-me a lui appropriata in quanto persona, realtà che per sua essenza deveessere condannata e respinta da Dio. Così l’ineliminabile relazione traPadre e Figlio assume la modalità del ripudio, dell’interruzione dei rap-porti, dell’inaccessibilità da parte del Padre. E lo Spirito Santo che inDio è eternamente l’espressione di questa relazione reciproca, la man-tiene in atto ora nel modo del tener distaccati, che è l’opposto di un di-venire l’un l’altro indifferenti, anzi è amore assoluto, consapevole di séproprio a causa dell’assoluta privazione... Comunione divina come se-

37 ID., Crucifixus etiam pro nobis, op. cit., 28.38 SI, 364.39 Cf. TD5, 281. L’espressione è di A. von Speyr. 40 ID., Creazione e Trinità, Communio 100 (1988) 13: «nell’offerta del Figlio da

parte del Padre, nella “separazione” attuata dallo Spirito Santo di entrambi come supremaforma di amore, separazione che supera il peccato, viene mostrato che l’unità di Dio è co-sì grande che può dissolvere in sé persino quanto si oppone a Dio. La notte della crocenon è l’Inferno, ma il suo superamento» (il corsivo è nostro).

41 Nell’evento della croce Dio «si dimostra colui che è tanto intensamente vivo,tanto dinamico, da poter rivelare la sua vita proprio anche nella morte, la sua comuniona-lità trinitaria appunto nella stessa derelizione» (SI, 345).

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parazione umano-divina; questo è certamente l’elemento più difficile acomprendersi della verità dogmatica centrale»42.

La derelizione della croce, in definitiva, porta a coincidenza il vertice ri-velativo e quello redentivo, poiché «questo “abbandono” tra Padre e Figlio» sisvela «forma estrema del loro reciproco amore e del trinitario amore di Dioper il mondo»43, ossia di quel duplice amore a causa e in forza del quale teo-drammaticamente «il Cristo sofferente... strappa la punta e il dente avvelena-to allo spavento della solitudine: nessuno può più dire d’essere abbandonatonell’assurdo: c’è uno insieme con lui che è in un assurdo e in un abbandonoancora più grande»44.

Potrà allora aggiungere qualcosa l’“essere morto” del Sabato santo al“morire” solitario del Venerdì? Certamente no, poiché esso non è che confermalogica, conseguenza soteriologica e ultima profondità dell’abbandono della cro-ce. L’amore che sul Golghota si è spinto “sino alla fine” può, difatti, arrivare an-che «alla fine della notte del peccato, in quella discesa all’inferno dove il mo-rente ed il morto giunge in una solitudine e smarrimento senza tempo, nei qualinon soltanto non è più possibile una speranza nella fine, ma neppure uno sguar-do che si volga addietro verso l’inizio»45. Qui, «L’Uno, il cui nome è Gesù Cri-sto» non solo può, ma anche «deve discendere... per essere ed erigere, al di là ditutto ciò che l’uomo può intendere per figura, quella figura imperitura e indivi-sibile che congiunge Dio e il mondo in una nuova ed eterna alleanza»46.

2.1.5 La seconda morte

Affermare a questo punto che l’“essere morto” del Verbo è quanto dà allasua incarnazione un compimento naturale47, coerentemente solidale con la

10 Giuseppe della Malva

42 SI, 227. Il corsivo, nostro, intende evidenziare gli elementi fondamentali del dis-corso già più sopra richiamati.

43 ID., È “beato” il crocifisso?, Communio 92 (1987) 5-6.44 ID., L’uomo e la vita eterna, op. cit., 40-41.45 SC, 340. Il corsivo è nostro.46 GL1, 12.47 «Qui si affaccia un’idea limite: se “uomo” è l’essere vivo unitariamente corpo-

reo-spirituale e mortale, che noi conosciamo, e quest’uomo nella morte cessa di essere (inqualunque cosa possa trasformarsi dopo la morte), allora Gesù nella dedizione di se stes-so è andato fino alla fine del proprio esser-uomo ed essersi fatto tale» (SI, 342).

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struttura umana48, che nel suo finire si autofinalizza, sarebbe certamente corret-to, ma insufficiente a varcare la soglia dell’antropologico in direzione della sin-golarità cristologica49. Questa, ancora una volta, va cercata nel solco dell’uma-no, scavato però a quella profondità raggiungibile unicamente dal Figlio di Dio:

«Se Gesù ha sofferto i peccati del mondo sulla croce fino alla loro estremaverità, la derelizione da parte di Dio, egli deve esperimentare insieme con ipeccatori scesi nel mondo infero, in solidarietà con essi, la loro separazio-ne da Dio - in ultima analisi destituita di speranza - altrimenti non avrebbeconosciuto tutte le fasi e gli stati dell’essere uomo irredenti e da redimere...Anzi, procedendo a pensare rettilineamente in termini soteriologici, si do-vrà dire prima d’ogni altra cosa che l’esperienza della rappresentanza vica-ria, consistente nell’essere morto (in senso biblico) da parte del Figlio diDio di necessità dovette essere sofferta più profondamente, e anche talepoté essere, che non da parte di un qualsiasi uomo comune, poiché eglipossedeva un’esperienza, unica nel suo genere, del collegamento con DioPadre, e perciò era accessibile più in profondità d’altra creatura all’espe-rienza dell’essere morto e abbandonato (ancora in senso biblico)»50.

Il “descensus ad inferos”, secondo l’autore, è idea che qui può aiutare achiarire, solo però se separato da ogni mitica rappresentazione d’attività ultra-terrena51, cui anche sul piano semantico i suoi termini conducono52. L’estrema

Il dramma in Dio 11

48 «Un primo punto di vista è la solidarietà di Gesù morto in croce con tutti gli al-tri uomini morti» (MP, 142. Il corsivo è nostro).

49 «Per noi è importante che il vuoto e l’abbandono» sperimentati dal Figlio nello“iato” della morte «appaiano più profondi di quelli causati da una morte normale d’uomoo, in altre parole: quanto v’è di proprio nella teologia del Sabato santo non consiste nelcompimento di un atto finale di autodonazione del Figlio incarnato al Padre, così com’èstrutturalmente presente - in maniera più o meno ratificata da parte dell’individuo - nellamorte di qualsiasi uomo» (MP, 55).

50 SI, 339. Il corsivo è nostro.51 Non si tratta «in questo “sprofondare” nell’abisso estremo della morte, di un di-

scendere attivo, tanto meno d’una trionfale presa di possesso o anche solo di una lotta (didescensus), ma unicamente di un passivo trasferimento» (GL7, 209). Cf. MP, 131-132.135. 142; SI, 333-334. 343.

52 «Noi quindi metteremo provvisoriamente tra parentesi la parola “discendere”(descendere), semanticamente carica di attività, utilizzata dalla chiesa primitiva comeconcetto interpretativo forse necessario e più tardi (ufficialmente a partire dalla fine delIV secolo) inserita nel simbolo apostolico» (MP, 132).

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12 Giuseppe della Malva

vicarietà di Cristo, infatti, si può consumare soltanto nell’assoluta passività ca-daverica53. Tale è la condizione in cui il Cristo sperimenta non semplicementequella solitudine rispetto a Dio e agli altri che la cessazione di ogni possibilitàcomunicativa54 e di contatto55 impone ai morti, ma anche quella che può assu-mere, come suo “proprium”, solo l’Uomo-Dio nella sua singolarissima morte:

«questo “proprium” consiste in qualcosa di assolutamente unico che siesprime nell’“esperienza vissuta” di una completa assenza di Dio, cioè ditutto il peccato del mondo come dolore e sprofondamento nella “secondamorte” o nel “secondo caos”, al di fuori del mondo ordinato all’inizio daDio»56.

In questa “seconda morte” o “secondo caos” - condizione sovratempo-rale dove il peccato che Cristo ha assunto è definitivamente rigettato dal giu-dizio di Dio57 - il Figlio contempla passivamente il “peccato in sé” come l’es-senza stessa della morte58 e della “poena damni infernale” dovuta ai peccato-

53 «Il totale disarmo delle forze e delle potenze (Col 2,14s), l’ultima efficace irru-zione nella casa del forte per incatenarlo (Mc 3,24s), lo spodestamento delle “porte del-l’inferno” (Mt 16,18): tutto ciò può verificarsi soltanto dal di dentro, con l’aver parte allaassoluta passività della morte; soltanto così l’Innalzato può essere giunto a impadronirsidella “chiave della morte e degli inferi” (Ap 1,18)» (GL7, 209. Il corsivo è nostro).

54 «Non si dimentichi... che tra i morti non esiste alcuna comunicazione vitale. La so-lidarietà significa qui soltanto: trovarsi nella stessa solitudine» (MP, 147). Allo stesso modo«nello sheol la comunicazione con Dio ha termine, in quanto questa presuppone un sogget-to vivente (Sal 6, 6; 30, 10; 88, 11-13; 115, 17; Is 38, 18; Eccles 17, 27)» (MP, 74-75).

55 SI, 339: «il morto nel senso dei testi veterotestamentari classici è privo di vita, diforza, di efficienza operativa, soprattutto è staccato dal contatto con Dio e quindi anchecon uomini: nello sheol, nella fossa domina la tenebra della perfetta solitudine».

56 MP, 55.57 L’interruzione della vita di Gesù «non è solo quella quasi-naturale del morente

dell’Antico Testamento che scende nella fossa per ritornare alla polvere da cui era venu-to. Essa è la caduta del “maledetto” (Gal 3,13), lontano da Dio, del “peccato” personifica-to (2Cor 5,21) nel luogo dove viene “scagliato” (Ap 20,14) perché si “autodistrugga” (Ap19,3)... Qui infatti è l’essenza della seconda morte: ciò che è stato maledetto e scacciatodefinitivamente da Dio nel “giudizio” (Gv 12,31) sprofonda là dove deve cadere. In que-sto stato definitivo non si dà tempo» (MP, 54; il corsivo è nostro). Sulla sovratemporalitàdella “poena damni”: cf. MP, 147-149.

58 «Cristo appartiene ormai ai refa’im, ai “senza forza”; egli non può condurre unalotta attiva contro le “forze dell’inferno” e tanto meno può soggettivamente “trionfare”, inquanto presupporrebbe a sua volta vita e forza. La sua “debolezza” estrema può e deve

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Il dramma in Dio 13

ri59. Il fondo abissale della “distanza peccaminosa”, pertanto, il Verbo fattocarne non può toccarlo che qui:

«l’esperienza dell’abisso fatta da lui è in lui in modo così integrale (inquanto egli impara a conoscere in sé la piena misura della lontananzadei peccatori, morti, da Dio), come anche, integralmente, fuori di lui,poiché ciò che esperimenta è quanto gli è, senza residui, estraneo (es-sendo egli Figlio eterno del Padre): nel Sabato Santo, egli è se stessonella piena alienazione da sé medesimo»60.

Allo stesso tempo, però, proprio questa «visione interna della morte» o«visio (secundae) mortis»61, che ha per oggetto l’“inferno” e il “peccato insé”62, relativizza cristologicamente il primo63 e attesta, soprattutto, che il pec-cato è stato veramente assunto e separato dal peccatore mediante la croce, lacui efficacia il Figlio ora può contemplare passivamente in un «“trionfo”

però coincidere con l’oggetto della sua visio: la seconda morte, che è la stessa cosa che ilpuro peccato in quanto tale, non più il peccato dell’uomo individuale, incarnato nell’esi-stenza vivente di un singolo uomo, ma il peccato astratto da questa individuazione, con-templato nella sua nuda realtà, in quanto peccato (poiché il peccato è una realtà)» (MP,154. Il corsivo, nostro, evidenzia i concetti da porre ad eventuale verifica dogmatica).

59 GL7, 211: «ha ragione Nicolò Cusano a concludere: Gesù ha subìto fino in fon-do per tutti come unico la perfetta poena damni, allo stesso modo che come unico haespiato sulla croce tutto il peccato; e come già sulla croce l’escatologico abbandono diDio passa nel senza tempo, così al Sabato santo questo abbandono diventa definitivamen-te senza tempo nell’autentico stato di morte, nella perdita di ogni luce spirituale di fede,speranza e amore».

60 SI, 339-340. Il corsivo è nostro.61 GL7, 211-212.62 «L’oggetto di questa visio mortis... può essere costituito unicamente dalla pura

sostanzialità dell’“inferno” come peccato “in sé”» (MP, 154. Tranne il primo, gli altricorsivi sono nostri).

63 Non esistendo “prima” di Cristo (cf. MP, 158) - soltanto il Redentore, in forzadella sua kenosi, sperimenta che cosa esso sia (cf. GL7, 210-212; VC, 286-287) - «l’in-ferno è un prodotto della redenzione, che ha bisogno solo ormai di essere “contemplato”nel suo in-sé dal Redentore per diventare, nella sua perdizione assoluta, un “per-lui”: ciòsu cui egli riceve, nella risurrezione, il potere e le chiavi» (MP, 155). Da un punto di vistateologico «il concetto neotestamentario dell’“inferno”» pertanto «è in diversi sensi unconcetto cristologico» (GL7, 211).

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obiettivo (Col 2,15)»64, che non supera certo quello della croce né anticipaquello attivo della resurrezione65, ma manifesta l’uno66 e prepara l’altro67.

Con ciò si è già evidenziato l’aspetto salvifico di questa estrema dereli-zione del Figlio. Tuttavia, affinché sia colto nella sua peculiare inclusività, es-so va riespresso e meglio rapportato alle libertà, umana e divina, qui coinvol-te. Bisogna riprecisare, dunque, che questo “secondo caos”, come il peccatoche lo genera, è un prodotto della libertà umana68 la quale, opponendosi all’a-more di Dio e alla logica dell’autodedizione, sceglie per sé la solitudine69.Questa sarebbe la sorte definitiva del peccatore se al Figlio non fosse data,nella sua esperienza vicaria, l’«“impossibile possibilità” di poter seguire l’uo-mo anche nelle conseguenze più estreme della sua umana libertà. Di afferrarecome dal di sotto la forma del no... con un sì ancora più profondo, e di con-vertirlo nell’espressione dell’amore»70; impresa, questa, realizzabile ancorauna volta dalla libera obbedienza umano-divina del Verbum-caro:

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64 GL7, 212. Sinteticamente: «In questo stato il peccato è amorfo, forma ciò chepotrebbe essere chiamato secondo “caos”... e ciò che costituisce - attraverso la separazio-ne del peccato dall’uomo vivente - proprio il prodotto della sofferenza attiva della croce.In questo senso nello sheol dell’inferno il Redentore morto non contempla niente di og-gettivamente diverso dal proprio trionfo, ma questo... nell’unico stato permesso a questocontatto intimo: nell’assoluto svuotamento di vita, proprio dei morti» (MP, 154).

65 «Qualora ci si chieda quale sia stata l“opera” di Cristo nell’Ade o meglio (giac-ché l’abbiamo descritta come una “visione” passiva del peccato separato) quale ne sia sta-to il “frutto”, occorre in primo luogo guardarsi da qualsiasi precipitazione teologica o im-pazienza religiosa che vorrebbe anticipare da Pasqua al Sabato santo questo frutto, e cioèla redenzione eterna operata dalla passione temporale... trasformando quello che è untrionfo oggettivo e passivo in un trionfo soggettivo e attivo» (MP, 161).

66 «L’essere solidale con la condizione dei morti verrebbe quindi ad essere il pre-supposto dell’opera della redenzione che si manifesterebbe ed eserciterebbe i suoi effettinel “regno” dei morti, ma sarebbe fondamentalmente conclusa sulla croce (consummatumest!)» (MP, 133-134). Su questa linea va interpretato 1Pt 3,19; 4,6 (cf. MP, 134. 162-163;GL7, 209-210).

67 MP, 139: «la sepoltura di Cristo ed il suo “essere con i morti” sono ancora ne-cessari perché nel giorno di Pasqua possa avvenire - con il “primogenito Cristo” - la ri-surrezione comune ek ton nekron».

68 Cf. MP, 154.69 «Il peccatore è appunto quegli che vuol stare in sé e non in Dio» (ID., Il cristia-

no e l’angoscia, op. cit., 88; il corsivo è nostro) e che - in qualsivoglia grado di consape-volezza il suo peccato avvenga - «prende posizione e si trincera contro un amore assolutoil quale è sostanziato di pura e schietta donazione o dedizione di sé» (SI, 362).

70 ID., L’uomo e la vita eterna, op. cit., 40-41.

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«Dio può raggiungere e raccogliere la libertà della creatura che precipi-ta nel nulla della perdizione assoluta con una “riduzione a un nulla” an-cora più profondo perché propriamente divino: il vuoto dell’assolutaobbedienza d’amore al comando assoluto, a qualsiasi uso e “abuso”»71.

In termini più precisi, per il Figlio obbedire qui - in una specie di «al-lungamento della sua missione»72 oltre quella terrena, onde assumere la soli-tudine del peccatore che muore - significa scendere «fino al gradino più bassodella scala dell’obbedienza»73, laddove quest’ultima diventa “cieca”74,“estrema”, “cadaverica”75 quanto la “debolezza” passiva del morto76, e tantoumanamente “impossibile”77 da essere spiegabile solo a partire dal liberoamore trinitario78:

71 GL7, 197.72 L’espressione è di A. von Speyr, cit. in TL2, 310 n. 140.73 GL7, 208.74 ID., Fede e attesa imminente del Regno, Communio 167-168 (1999) 35: «sol-

tanto il Figlio della Luce assoluta può compiere gli ultimi passi nell’oscurità... Egli muo-re la nostra morte al peccato e deve scendere negli inferi per noi: e questa discesa è... l’u-nica e reale obbedienza cieca fino alla morte. Poiché in questa obbedienza egli in fine de-ve cercare il regno del Padre laddove non si trova in nessun modo: nell’inferno, che con-siste di tutto quel che Dio ha separato dai peccatori per poterlo scacciare dalla sua vista emaledirlo definitivamente» (il corsivo è nostro). Analogo significato riveste pure il con-cetto, mutuato ancora da A. von Speyr, di “superobbedienza”: cf. TL2, 310-311.

75 «L’essere del Redentore con i morti, o meglio con quella morte che per primacosa fa che i morti siano realmente tali, è l’ultima conseguenza della missione redentivaricevuta dal Padre. È quindi un essere nell’obbedienza estrema; e, giacché si tratta del-l’obbedienza del Cristo morto, è l’unica “obbedienza di cadavere” (l’espressione ha ori-gine da Francesco di Assisi) teologicamente esistente» (MP, 156. Il corsivo è nostro).

76 «Qui viene tanto superato, quanto criticamente vagliato l’errato trionfalismodella teologia cristiana primitiva e quasi di tutta la teologia del descensus: poiché l’“in-contro” del Cristo morto con lo sheol (di fronte a lui e tuttavia in lui) avviene nella per-fetta debolezza e derelizione (che non può aiutarsi ad uscirne); ma questa debolezza rima-ne funzione d’una perfetta obbedienza, che viene esercitata per amore libero» (SI, 341.Eccetto i primi due, gli altri corsivi sono nostri).

77 Cf. TL2, 311. Viceversa «questa obbedienza soltanto spiega Dio come amore tri-nitario» (TL2, 320).

78 «La perfetta autoalienazione dell’esperienza degli Inferi è funzione dell’obbe-dienza del Cristo fatto uomo, obbedienza la quale a sua volta è funzione del suo amore,così libero, verso il Padre» (SI, 341).

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«Il Figlio può andare negli inferi, là dove Dio è assente, perché egli in-tende questo cammino come un’espressione del suo amore per il Padre;ed egli è in grado di spingere il suo amore a un tal punto di obbedienzada avvertire fino in fondo la privazione di Dio, proprio come l’avvertelo smarrito»79.

Ora, proprio il fatto che il Figlio possa “con-essere” solidalmente coipeccatori80 nella “seconda morte” senza soccombere ad essa, ossia liberamen-te «ubbidire al Padre là dove (nel puro peccato) sembra cancellata ogni mini-ma traccia di Dio ed ogni qualsiasi altra comunione (nella pura solitudine)»81,testimonia che questa obbedienza è più profonda della contraddizione delpeccato82 e che l’amore trinitario che essa incarna è più tenace di ogni ostina-ta peccaminosa scelta di solitudine da parte della creatura. Non è la libertàumana, quindi, ad essere “elevata”, per coercizione, all’altezza della libertàdivina, ma è questa che in Gesù scende, per amore, ancora più in basso diquella, per abbracciarla “da sotto”83 nello stesso amore; dimodoché «chi havoluto scegliere per sé l’abbandono perfetto e, in tal modo, dimostrare la suaassolutezza davanti a Dio si imbatterebbe nella figura di uno che è abbando-nato in modo più assoluto di lui»84.

Un altro brano ricavato da Lo spirito e l’Istituzione sintetizza e avvia al-la conclusione queste riflessioni:

«al Sabato santo, v’è la discesa di Gesù morto agli inferi, vale a dire(esprimendo le cose con molta semplificazione) il suo solidarizzare nel“non-tempo” con coloro che sono perduti lontano da Dio. La loro scel-ta, con la quale si sono risolti per il loro io al posto del Dio dell’amore

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79 ID., Nuovi Punti Fermi, op. cit., 100.80 «Morto, per poter essere in assoluto nel “luogo” e nello stato dei morti. Poiché

qui si tratta di questo essere insieme, di questa solidarietà» (SI, 338. Il corsivo è nostro).81 GL7, 212.82 «L’obbedienza del Figlio ancora nella morte, ancora nell’inferno è ancora la sua

perfetta identità in ogni contraddizione e in tal modo anche il superamento dell’ultimacontraddizione mediante questa identità che passa sotto a tutto» (TL2, 311).

83 Non è casuale la riapparizione in questo contesto del cosidetto “sub-abbraccio”(cf. TD5, 239-243): proprio il suo definitivo, cosciente rifiuto (TD5, 243-248), infatti, co-stituisce la possibilità teologica di un “inferno” come condizione definitiva della libertàribelle. A tale questione la nostra tesi accenna nel capitolo: “La libertà liberata”.

84 TD5, 266-267.

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disinteressato, è per loro definitiva. Il Figlio morto discende in questadefinitività (della morte), non certo non agendo più, ma, fin dalla crocee in rapporto ad essa, spogliato d’ogni potere e iniziativa propria, comecolui del quale si è puramente disposto, come quegli che è abbassato apura materia, l’Obbediente (a modo di cadavere) nell’indifferenza asso-luta, senza residui, incapace di qualsiasi solidarizzare attivo, meno chemai di qualsiasi “predicazione” ai morti. Egli (ma per un amore supre-mo) è morto insieme con loro. E appunto perciò egli disturba l’assolutasolitudine cui anela il peccatore: questi, che vuol essere “dannato”, al-lontanato da Dio, nella propria solitudine ritrova Dio, ma Dio nell’im-potenza assoluta dell’amore... La libertà creaturale viene rispettata, marecuperata, raggiunta di nuovo da Dio alla fine della Passione e ancorauna volta afferrata dal basso (inferno profundior: Gregorio Magno).Solo nell’assoluta debolezza Dio vuole trasmettere alla libertà da luicreata il dono dell’amore che fa breccia in ogni carcere e scioglie ognispasmodico irrigidimento: nel solidarizzare dall’interno con coloro cherifiutano ogni solidarietà. Mors et vita duello... »85.

È unicamente da quest’amore obbediente e nelle profondità solo da essoraggiunte che può scaturire, non come “deus ex machina” o dimostrazione diritrovata potenza86, la resurrezione87 e dunque la redenzione.

85 SI, 350-351. 86 «Perciò non è che il Figlio morto nella sua più estrema impotenza abbia avuto

bisogno dell’onnipotenza del Padre per essere risuscitato, ma piuttosto tutt’e due le ma-niere dell’amore sono solo l’espressione dell’unico onnipotente amore del Dio trinitario,che si può esibire povero, sofferente e morto, senza cessare così di esprimersi nella suaonnipotente pienezza» (TL2, 123).

87 «Il Padre conduce il Figlio in questa contraddizione: ma nella misura in cui è lavolontà del Padre a condurlo, anche l’ultimo ostacolo, la contraddizione, l’inferno stessoè vinto, e da ciò consegue la resurrezione: cioè la dimostrazione che anche questo era con-tenuto nella trinitaria identità dello Spirito divino» (ID., Fede e attesa imminente del Re-gno, op. cit., 35-36).

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Quell’amore, difatti, che ha respiro trinitario, è già vita nella morte88,counione nella massima solitudine umana89, libertà nella soggiogata sorteestrema del peccatore90. Per esso soltanto, “da dentro” e “dal basso”, la mortee l’intera esistenza umana sono assunte e ricollocate nella logica dell’autode-dizione e in questa la libertà creaturale - restituita al suo senso originale - fi-nalmente liberata.

Drama in GodA study of the theo-dramatic soteriology of H. U. von BalthasarBy Giuseppe della Malva

Second part of the article published in SapCr XXI (2006) 359-382.

88 «Qualora si sia compreso che anche la kenosi estrema, in quanto è una possibili-tà nell’amore eterno di Dio, è inglobata ed assunta da questo amore, risulta anche supera-ta radicalmente l’opposizione tra una theologia crucis e una theologia gloriae - senza chele due possano confondersi» (MP, 81). Cf. SI, 343; SC, 314-315.

89 «Il ritorno del Figlio al Padre, che lo risuscita dai morti, non è che il farsi traspa-rente di questa modalità d’alienazione in ciò che essa è in verità: l’intimità eterna dell’a-more divino» (SI, 364. Il corsivo è nostro).

90 GL7, 210: «in questa solidarietà con i peccatori fin nel loro stato estremo Gesùcompie fino alla fine la volontà salvifica del Padre. È obbedienza assoluta che si prolun-ga oltre la vita e continua anche là dove negli altri casi domina soltanto la costrizione e lanon-libertà... In questo senso più profondo non psicologico egli è inter mortuos liber (Sal87, 6 LXX)».

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GIAMPAOLO MANCA SAPCR 22 (2007) 19-46

La metafisica del Dono in E. Lévinase lo statuto dell’embrione umano *

di GIAMPAOLO MANCA1

Dopo un articolo nel quale ha offerto un’esposizionedella Metafisica del Dono propria di Lévinas (SapCr XXI, 383-414), qui l’autore propone una riflessione sullo statuto dell’em-brione umano sulla base della Metafisca del Dono. Egli ritieneche continuare a discutere prioritariamente sulla presenza o me-no dell’individuo nell’embrione unicellulare, alla luce dei datibiologici, non consenta di ottenere frutti importanti per la tuteladella vita umana. Oggi è necessario porsi al di là del discorsopuramente ontologico sull’individuo. Questo “porsi” al di là èpossibile attraverso categorie che consentano una rinnovata me-diazione ermeneutica tra filosofia e teologia. Di qui le categoriedi dono, di donazione originaria e di alterità proposte da E. Lé-vinas; un pensiero importante su un “nuovo principio di indivi-duazione”, al di là della materia e della forma, un pensiero fon-dato sulla responsabilità etica.

In Lévinas la soggettività non è un “per-sé”, ma un “per-Altri”, dove laprossimità di Altri non si caratterizza per una vicinanza spaziale, o per una vi-cinanza di tipo parentale. L’Altro da sempre vive in relazione con me, per cuida sempre sono chiamato alla responsabilità verso di lui, un impegno eticoche nasce nella comunità, in seno alla relazione etica. Non è una struttura ditipo ontologico che, nella conoscenza, ci collega alla persona “conosciuta”,per cui la coscienza sarebbe coscienza di un oggetto, che si presenta nel sog-

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* Per una esposizione più ampia dell’argomento, rimando alla terza sezione del-l’opera: G. MANCA, Metafisica del Dono. Il pensiero sul “dono” in E. Lévinas e il rico-noscimento della persona nell’embrione umano, Napoli, Chirico, 2006.

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getto “in carne ed ossa”1: la prossimità dell’Altro non appartiene all’ambitodel noto, del conosciuto2.

Nell’approccio intellettualistico, il Chi è? si riduce al Che cosa è?, percui Altri svanisce. Solo nel linguaggio del comandamento è possibile sentirela voce di Altri, che mi prende di mira e mi parla. La sua voce: “Non uccide-re!” e questa esigente richiesta significa: «fai di tutto affinché l’altro viva»3:Altri è colui che non si può uccidere, non si ha il diritto di uccidere4.

Riteniamo che la prospettiva etica (il senso morale) è l’ottica indispen-sabile per scoprire in che cosa l’embrione umano differisca da tutto il restodel reale. L’embrione, accolto con occhi che ascoltano – in seno al progettoantropologico cristiano/cattolico – non si manifesta solo come fenomeno bio-logico, ma si rivela soprattutto come epifania dell’Infinito, dell’Assolutamen-te Altro: l’embrione è Altri! Il soggetto si rende conto dell’impossibilità dicomportarsi in termini di autonomia assoluta, oggettivante e tematizzante.Non sono abolite le competenze autonome del soggetto, anzi esse restano esono necessarie, perché permettono di riconoscere la chiamata provenientedalla diversità dell’Altro (Infinito/eteronomia) con cui si vive la relazione me-tafisica, che dà senso e solidità all’autonomia del soggetto stesso che deve in-vestire la sua libertà per il Bene.

Lévinas condanna qualsiasi proposta di metafisica centrata sull’essere esull’Io, perché altrimenti essa si manifesterebbe violenta, incapace di realiz-zare la pace; anzi, una tale metafisica sostiene ogni pensiero e ogni politica diguerra.

Ci pare di poter dire che la metafisica tradizionale (occidentale), di cuila Teologia Morale si è servita, in quanto metafisica segnata da aspetti intel-lettualistici, si è rivelata in una certa misura, “violenta” sull’Altro, poiché cen-trata su un soggetto chiuso nel suo deduzionismo, incapace di accogliere eascoltare la diversità dell’Altro-al-di-là-del-sistema. Dobbiamo assolutamen-te evitare di far emergere un soggetto isolato dall’Altro, preoccupato di sal-vaguardare se stesso, e chiuso nel proprio inter-ess-amento (conatus essendi).

20 Giampaolo Manca

1 EDE, 317 [265] (il numero tra parentesi quadra indica il riferimento all’edizioneitaliana. Alla fine dell’articolo abbiamo inserito l’indice delle abbreviazioni relative alleopere di Lévinas).

2 Cfr. EI, 93 [110].3 TRI, 41 [37], c.n.4 Cfr. A. PEPERZAK, “Introduzione a totalità e infinito”, in ECPP, [101].

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Attingendo alla tradizione biblico-giudaica, Lévinas propone un sog-getto che è tale perché relazionato con l’Altro, il cui volto costituisce il “fe-nomeno” originario, la prima verità che dona senso, ovvero Sinngebung rela-zionale per l’Io e per l’intera realtà: di qui una rinnovata armonia tra autono-mia ed eteronomia, per cui l’Altro non nega la mia libertà, anzi la fonda, ledona il giusto senso: Io non è “in-sé”, ma è Altri-nell’Io; dunque, il per-sé simuta in “per-Altri”, ovvero consapevolezza della propria responsabilità infi-nita, unica, insostituibile verso l’Altro, fino a morire-per-l’Altro, poiché l’Al-tro batte nel cuore stesso del Medesimo, il quale è “risvegliato al dono”.

Riteniamo che la proposta levinassiana sul primato assoluto dell’Etica,centrata sull’Altro, offra tanti aspetti positivi da accogliere più esplicitamen-te nella Teologia Morale e nella riflessione bioetica sul riconoscimento dellapersona umana. In effetti, il soggetto non muove mai i suoi primi passi dall’ily a, per esprimere il senso vero dell’umanità e dell’intera realtà. Dunque, an-che la prima cellula che nasce dall’incontro dei gameti maschile e femminile,riceve il giusto senso proviente dal volto d’Altri, che batte nel cuore stesso delsoggetto che accoglie la vita.

Nei dati non si può ritrovare il senso, poiché i dati restano davanti a noiper lo più muti o ambivalenti. La relazione sociale, il dipendere dall’Altro, sindagli inizi dell’esistenza, fa emergere il senso del reale: solo nel faccia-a-fac-cia con l’Altro, il soggetto può dire Io “contrapponendosi” all’Altro nella sua“unicità di unico”, riconoscendo l’Altro come totalmente diverso da se stes-so. Per-l’Altro e con-l’Altro posso relazionarmi al reale, alle cose, a ciò che è;in questo modo tutto diviene per-l’Altro, anche lo stesso soggetto, perchèl’Altro batte nel cuore, “sede” dell’opzione antropologica.

Per questi motivi, Altri (il volto, la Trascendenza) è donazione originaria,per cui l’essere (sostanza, essenza), viene interpretato alla luce di tale donazio-ne. In forza della donazione originaria di Altri, il soggetto si trova anarchica-mente investito di una responsabilità, della necessità di una risposta, in quantol’Altro nella società “parla” nel dinamismo del donare e del contro-donare. Ilsoggetto è già posto eticamente nel dinamismo di tale risposta, anche se la sualibertà può certamente chiudersi all’Altro con il potere dell’egoismo e della vio-lenza. Ci pare che la responsabilità, che Lévinas ritrova nel pensiero biblico, ov-vero la diaconia fino al dono-totale-di-sé, corrisponda esattamente a quell’a-more che noi cristiani chiamiamo carità; da essa nasce la saggezza dell’amoresu cui deve fondarsi tutta la riflessione filosofica. L’amore per l’Altro risuonacome un “imperativo”, espresso dal linguaggio umano con le parole “non ucci-dere”, che ritroviamo nelle tavole dei comandamenti del popolo ebraico e in

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 21

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tante altre culture. Attraverso l’imperativo che chiama a donare la vita, l’uomo“da sempre” si impegna a tutelare la dignità e la vita dell’Altro, credendo inquesto modo di tutelare se stesso e la comunità.

Il riconoscimento di Altri nella tradizione cattolica è risposta all’ascol-to del comandamento della vita, ma la dinamica ascolto-risposta si concre-tizza nel linguaggio che nasce nella relazione etica; esso certamente divieneanche “designazione rappresentativo-concettuale” (ontologia), ma fondato subasi etiche, e non meramente su basi logico-deduttive, come intende la meta-fisica ontologica tradizionale:

«La “visione” del volto non si separa da questa offerta costituita dal lin-guaggio. Vedere il volto significa parlare del mondo. La trascendenzanon è un’ottica ma il primo gesto etico» (TI, 189 [177]).

Il linguaggio – che porta in sé anche la designazione dell’embrione uma-no unicellulare persona umana – è fondato su una originaria risposta etica (re-sponsabilità), in forza della donazione originaria, che chiama la mia libertà, in-vestendola nella responsabilità, per cui il soggetto viene condotto a ricambiareal dono con la messa in comune di quanto è e possiede, in una prospettiva obla-tiva per il futuro della comunità nella tensione verso la pienezza del Bene.

Designando la realtà embrionale con la parola persona, la “strappiamo”dall’Hic et nunc empirico e la “universalizziamo”, nel senso che ci impe-gniamo responsabilmente per la realizzazione piena dell’Altro, nella diacro-nia della relazione etica, perché estrema promessa di Bene per tutti.

La relazione etica vissuta dinanzi alla vita umana generata (alla fecon-dazione) costituisce il flusso del vissuto storico-comunitario in cui si annun-cia l’Infinito della persona, ossia la non-in-differenza (differenza assoluta)iscritta nella vita umana personale nel suo cominciamento, perchè l’Infinito è,contemporaneamente, «tempo e umanità»5.

1. Natura umana e legge naturale

Uno dei problemi più “scottanti” nela riflessione sullo statuto dell’em-brione umano è quello relativo alla “dimensione naturale”, ovvero del sostra-

22 Giampaolo Manca

5 DVI, 88 [73]. Si veda anche: DMT, 126 [161].

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to biologico dell’uomo, in riferimento ai concetti di “natura” e di “legge na-turale” che la tradizione teologica cattolica ci consegna. Questo aspetto è im-portante, perché l’etica della vita si propone di argomentare su eventuali li-miti al di là dei quali l’uomo non deve inoltrarsi nel “manipolare” la dimen-sione biologica, soprattutto dinanzi alla possibilità del rischio di un dannograve per il singolo e/o per la comunità. Certamente nel secolo scorso c’è sta-to il passaggio da una visione che poneva al centro la persona (antroprocen-trismo) ad una visione più ampia o eco-logica, che considera l’intero pianetacome la dimora che ancora oggi consente all’uomo di vivere la sua vita bio-logica e relazionale, per cui ci si deve prendere cura di tale dimora e non so-lo servirsene liberamente6.

Ma, nonostante ciò, a noi pare che la prospettiva ontologica segnata dal-l’arido intellettualismo, sia ancora forte nella Teologia Morale odierna, perché,pur accettando il fatto che la persona non è completamente oggettivabile, si mo-stra profondamente troppo legata alla dimensione dei dati naturali o biologici,quasi interpretati come “normanti” in senso forte. Di qui la nostra impressioneche domini ancora un certo approccio intellettualistico, presupponendo “l’im-possibile competenza” di operare una lettura dei dati biologici escludendo laprecomprensione antropologica in cui è inclusa la scelta di “fede”.

La Teologia Morale ha usato e usa ancora con una certa insistenza il ter-mine natura, in particolare, acquisendo i fondamenti filosofici aristotelico-to-misti, che si occupano di natura razionale e di legge naturale. Il termine as-sume diversi significati: “fondamento dotato di senso”, “conoscenza dei datidi fatto”, “parte di una teoria”; inoltre, nel termine natura è anche implicito ilriferimento a realtà opposte come il disordine (contro natura) e il càos7.

È interessante notare che nel pensiero filosofico classico la legge natura-le non è interpretata come una serie di regole dettate dalla natura fisica, infattigià Aristotele pensava alla natura come realtà inserita nell’ordine universale,che ha dato valori comuni a tutti gli uomini, in virtù della natura umana8.

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 23

6 Cfr. S. BARTOLOMMEI, Etica e natura. Una “rivoluzione copernicana” in etica,Roma-Bari, Editori Laterza, 1995.

7 Cfr. D. MIETH, Che cosa vogliamo potere?, Etica nell’epoca della bioetica, Bre-scia, Editrice Queriniana, 2003, 509-510.

8 J.M. Aubert definisce la natura umana come «il principio di azione immanente atutto l’uomo e a tutti gli uomini, spingendo ciascuno a realizzarsi, secondo la propria li-nea, in vista della sua perfezione attuale» (J.M. AUBERT, “Le droit naturel, ses avatars hi-storiques et son venir”, Supplément, 81(1967) 282-322, ivi 287.

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Il concetto di natura è ancora fortemente presente in Teologia Morale,ed è usato anche dal magistero della Chiesa Cattolica, senza dimenticare il ri-ferimento alle correnti di pensiero ecologico che hanno come obiettivo prio-ritario la “moralizzazione della natura”9. Ma tale concetto è stato sottopostoa una verifica ermeneutica, per cui oggi si ritiene che esso non possa riferirsiesclusivamente ad un fatto biologico, ma è in forte connessione con la socia-lità, la cultura e le tradizioni10.

Nell’epoca premoderna, poiché dominava l’unità del sapere, in assenzadelle specializzazioni delle scienze naturali, si possedeva un’idea di naturaaproblematica, immutabile e astorica e l’uomo, segnato dal limite, apparivadominato da essa. Ma la comunità, nonostante tutto, confidava nella naturache sembrava rivelare una sorta di equilibrio e perfezione, ovvero un télos ra-zionale per il bene dell’uomo e della comunità. Nell’epoca moderna il dis-corso sulla natura comincia a rovesciarsi ed oggi non appare più con chiarez-za quel fine e quell’ordine cosmologico, soprattutto se si ascoltano le teoriescientifiche sul càos, la necessità, la meccanica quantistica e l’ineludibile teo-ria della relatività. Nell’epoca attuale dell’homo creator, in cui si vorrebbeprogettare l’uomo “di serie”, con la possibilità di scelta di diverse opzioni “digradimento” (cfr. gli sforzi scientifici verso la clonazione umana), bisogna ri-flettere in modo nuovo sul significato di natura e di natura umana11. Occor-re soprattutto una metodologia ermeneutica che recuperi l’integrazione sa-piente tra ragione e fede nella riflessione circa la natura, ai fini di una sem-pre più adeguata ed efficace tutela della dignità umana.

Anche il magistero cattolico ha compiuto un importante cammino dirinnovamento teologico, per cui oggi si riscontra l’abbandono e il rifiuto diuna concezione di legge naturale di tipo esclusivamente biologico e fissista;

24 Giampaolo Manca

9 Cfr. W. VAN DEN DAELE, “Die Moralisierung der menschlichen Natur und Natur-bezüge in gesellschaftlichen Institutionen”, Kritische Vierteljahresschrift für Gesetzge-bung und Rechtwissenschaft, 2[1987] 351-366, ivi 354.

10 Cfr. C. BORASI, “La bioetica fra naturale e soprannaturale”, in L. LORENZETTI

(ed.), Teologia e bioetica laica. Dialogo, convergenze, divergenze. Atti del Convegno te-nuto a Trento l’8-9 maggio 1991, Bologna, Centro Editoriale Dehoniano, 1994, 102.

11 «La tecnica scientifica traduce costanti antropologiche in opzioni. La naturaumana diventa contigente e può essere modificata secondo il nostro progetto. Tale con-tingenza è irrevocabile. Pure l’attaccamento alla natura esistente dell’uomo sarà in un fu-turo una decisione che dovremo prendere ben sapendo che potremmo anche fare diversa-mente» (W. VAN DEN DAELE, «Die Moralisierung der menschlichen Natur und Naturbezü-ge in gesellschaftlichen Institutionen», cit., 351-352).

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questa impostazione conduceva a vedere la natura – predisposta nel miglioredei modi – come il riflesso della volontà di Dio assolutamente immutabile;per cui intervenire su di essa, modificandone le leggi (contro-natura), sareb-be stato un atto di lesa maestà12. Dal Vaticano II, la riflessione etico-teologi-ca supera progressivamente tale rigida impostazione.

Paolo VI nella Humanæ vitæ scriveva:

«In rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa co-noscenza e rispetto delle loro funzioni; l’intelligenza scopre, nel poteredi dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana»(Humanæ vitæ, 10).

Ci pare che si ponga un certo accento sulle leggi biologiche, anche seesse non sono viste come realtà a se stanti, ma sono poste in relazione con lapersona umana e poiché fanno parte di essa sono moralmente normative (alcontrario di quanto si rileva negli animali)13.

Una maggiore chiarificazione l’abbiamo nella Donum vitæ in cui si dice:

«La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i do-veri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della personaumana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività sem-plicemente biologica ma deve essere definita come l’ordine razionalesecondo il quale l’uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e regolare lasua stessa vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del pro-prio corpo» (Donum vitæ, I, 3).

Questa interpretazione è ripetuta con rinnovato vigore nella Veritatissplendor ed è preceduta dalla seguente affermazione:

«Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa siriferisce alla natura propria e originale dell’uomo, alla “natura della per-sona umana” che è la persona stessa nell’unità di anima e di corpo, nel-l’unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 25

12 Si vedano, come esempio, i discorsi di Pio XII sulla fecondazione artificiale (I-IV, 1.2.3).

13 Cfr. B. JOHNSTONE, «La morale cristiana tra natura, cultura, rivelazione e magi-stero», in Aa.vv., Chiamati alla verità, Roma, Editrice Rogate, 1994, 67-81, ivi 76.

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tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento delsuo fine» (Veritatis splendor, 50).

Nel catechismo della Chiesa cattolica abbiamo un ulteriore approfondi-mento in direzione decisamente meta-legale e meta-ontica con il recupero delpensiero della tradizione cattolica espresso anche da Agostino e Tommasod’Aquino. Per cui – si legge nel Catechismo – la legge naturale

«Esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discerne-re, per mezzo della ragione, quello che sono il bene e il male, la veritàe la menzogna» (CCc, 1954).

«Mostra all’uomo la via da seguire per compiere il bene e raggiungereil proprio fine, indica le norme prime ed essenziali che regolano la vitamorale. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura de-gli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propriadella natura umana» (CCc, 1955).

Parlando di legge naturale, Berard Häring si è posto una domanda checi è di aiuto per un chiarimento ulteriore dei problemi di cui stiamo trattando:Esiste una natura in cui possiamo leggere la volontà di Dio? Il teologo ri-sponde affermando che la “natura” – nel senso di struttura biologica – nonpuò essere il criterio assoluto14. Certo, la natura biologica rivela un suo dina-mismo preciso, una logica nei dinamismi microcosmici e macrocosmici dellavita15, ma essa è aperta all’azione dell’uomo, che deve sempre chiedersi se lasua azione sia responsabile, ovvero se essa sia per la crescita integrale del sin-golo e della comunità, oppure per un loro danno.

La critica ad una lettura della legge naturale intesa biologisticamente vie-ne espressa attraverso la cosiddetta legge di Hume, rielaborata da George Ed-ward Moore (1873-1958) e da lui chiamata fallacia naturalistica, secondo cuinon è assolutamente corretto rilevare delle norme morali dai dati puramente de-scrittivi o dalle prevedibili conseguenze16. Detto altrimenti: l’esserenaturale/biologico (sein) non coincide necessariamente con il dovere essere

26 Giampaolo Manca

14 Cfr. B. HÄRING, Etica medica, Roma, Ed. Paoline, 1979, 110-111.15 A. Auer ha parlato di «razionalità della realtà» (A. AUER, Morale autonoma ed

etica della fede, cit., 1991).16 “Hume, legge di”, in N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, cit., 546-547.

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(sollen) in un dato modo17. Per esempio, tutti noi constatiamo che la riprodu-zione umana si realizza biologicamente in un certo modo, ma ciò non significache la pratica della GIFT18, quando si verificano condizioni che impediscano lafecondazione, sia contro la dignità della persona. Tutti noi constatiamo che l’or-ganismo umano svolge molto bene le sue funzioni fisiologiche con due reni, maciò non significa che è “volontà di Dio” che essi debbano stare sempre lì al lo-ro posto, escludendo la possibilità da parte di un donatore vivo di far dono diuno dei suoi reni ad una persona che presenta una gravissima non-funzionalitàrenale, che lo condurrebbe in poco tempo alla morte: il dono di un rene, da par-te di un donatore vivo, si pone al di là della natura, della “legge” biologica! Di-versamente si pone la possibilità del dono, per esempio, di un occhio o di un ar-to, in quanto non sono indispensabili per la vita della persona. Si può anche pen-sare alla dimensione genitale per la riproduzione della specie umana; ma l’e-sercizio della genialità è escluso nella scelta di vita consacrata in quelle tradi-zioni religiose che richiedono il nubilato e il celibato. Di qui la tesi che

«La natura è un indicatore di questioni, non è normativa. Sollecita la no-stra responsabilità, non la domina. Nell’equilibrio fra natura e ragione,la ragione è il luogo dove la natura perviene alla responsabilità»19.

In Teologia Morale il problema metafisico è legato soprattutto al con-cetto di verità morale, che in passato è stata troppo “ontologizzata”, dedotta al-la luce di un sistema intellettualistico (cfr. l’adæquatio rei et intellectus). Ma laverità morale oltre che alla dimensione oggettiva e alla struttura razionale delreale, è strettamente legata all’opzione antropologica, alla libertà situata e allepossibilità e condizionamenti/limiti della stessa libertà umana. In Lévinas la ve-rità è modalità della relazione tra il Medesimo e l’Altro: la verità è accoglienzae ascolto di Altri che illumina l’intelletto; l’opera dell’intelletto è aspirazione al-l’esteriorità, che è Desiderio e la conoscenza è discorso, è inter-legere20. Quin-

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 27

17 Cfr. J. FUCHS, Ricercando la verità morale, Cinisello Balsamo, Edizioni San Pao-lo, 1996, 32-56.

18 La sigla “GIFT” indica la tecnica medica del Trasferimento intratubarico dei ga-meti.

19 D. MIETH, Che cosa vogliamo potere?, cit., 522-523.20 «La verità non si svela semplicemente alla conoscenza che indaga la realtà, ma

che la stessa conoscenza possiede una funzione costitutiva della verità. La verità ha infat-ti un carattere progettuale che non può essere attuato in un cammino solitario ma solo conuno sforzo collettivo, in cui ogni partecipante apporta il suo contributo nella libertà e nel-la uguaglianza» (K. DEMMER, Introduzione alla Teologia Morale, cit., 106).

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di, la verità morale è legata alla persona nella sua complessità; persona in re-lazione, con gli altri nella comunità, con l’intera creazione e con Dio. La per-sona-relazionata (società) interpreta se stessa e il reale, cogliendovi il senso eil télos (teleologia)21. A questo punto è bene ricordare che Tommaso d’Aqui-no definisce la persona anche come “relazione sussistente”22.

La teleologia della natura e della natura umana, in specie, non è assolu-tamente ricavabile dai dati scientifici, biologici ed embriologici. I dati sonosolo dati e non costituiscono assolutamente delle norme legali; essi vanno let-ti e interpretati alla luce di un progetto antropologico: la teleologia della na-tura è “individuata” alla luce di un complesso dinamismo di ascolto e di in-terpretazione delle relazioni che l’uomo vive nel contesto comunitario, cherealizza il progetto antropologico aperto in avanti23.

A questa circolarità ermeneutica deve certo aggiungersi anche quella trascienza empirica e Teologia Morale. Le scienze empiriche della “natura”umana (Biologia, Genetica, Medicina, ecc.) sono importanti perché esse ciaiutano a “leggere” il reale e quindi a compiere il processo di comprensionee interpretazione della struttura razionale del reale e del suo télos, però sem-pre in seno ad un progetto antropologico.

Scienze della natura e scienze umane hanno certamente distinti livelli diindagine con statuto epistemologico specifico per ciascuna. Ma tra scienza em-pirica (biologia, embriologia, ecc.) e scienza morale esiste una “circolarità”, percui non si tratta di due saperi separati e totalmente impermeabili l’uno all’altro,

28 Giampaolo Manca

21 Un compito prioritario del Teologo morale è quello di interpretare la complessastruttura della verità morale, che si configura come unità profonda di bontà morale e cor-rettezza morale. Pertanto, la verità morale è unità-incontro tra soggettività e oggettività,che sono da intendere non come due realtà distinte e assolutamente autonome (dualismo),ma come due poli di una Unità. La bontà morale è relativa alla soggettività e alle moti-vazioni che stanno al fondamento di un’azione morale; la correttezza è relativa alla og-gettività dell’atto etico, come ri-sposta re-sponsabile alla realizzazione di un bene o il do-no di un bene per l’Altro, non in contraddizione con il télos della realtà o le inclinationesdell’Altro, cioè la “natura” della persona cui si vuole comunicare i beni.

22 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiæ, I, q. 29. a. 4.23 È interessante la definizione di K. Demmer di oggettività come il risultato di un

processo di inter-relazione tra la persona/comunità e il reale: un processo aperto alla tra-scendenza, cioè in un cammino storico verso la Verità assoluta: «L’oggettività è ricondot-ta ad un atto soggettivo, aperto alla trascendenza, dello scoprire e del porre che si spieganella comune natura umana» (K DEMMER, Interpretare e agire, cit., 48). Scrive ancora ilteologo: «[il concetto di oggettività] è il prodotto di un processo storico di comprensionee di interpretazione, che rimane aperto in avanti» (Ibid., 80).

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in quanto entrambi interagiscono l’uno nei confronti dell’altro in un vero rap-porto ermeneutico.

Dunque, anche il problema della personalità dell’embrione umano nonè risolvibile esclusivamente nell’osservazione dei dinamismi della natura e al-l’interno di una logica per lo più deduttiva, traendo delle conseguenze etico-giuridiche24. Il riconoscimento della persona comporta, invece, un complessoprocesso ermeneutico che implica necessariamente l’interpretazione religiosadella vita e del valore assiologico dell’uomo25. Così scrive K. Demmer:

«La natura empirica fornisce soltanto spunti ed indicazioni imprescin-dibili che danno da pensare alla persona […] La natura contiene unoschizzo da completare e perfezionare, e tutto questo sotto l’aspetto del-la sua capacità [dell’uomo] di condurre ad una sempre più ricca e diffe-renziata visione del ruolo affidato alla natura in vista del bene integraledella persona»26.

La “natura umana razionale”, nella comunità cristiana-cattolica, è il ri-sultato di un processo storico di accoglienza e di “scoperta”27 dell’Altro nel-la relazione etica del tempo, e la responsabilità verso la vita umana sin daisuoi inizi (concepimento) rende testimonianza del riconoscimento della per-sona.

A questo proposito dobbiamo stare molto attenti nel leggere le seguen-ti affermazioni della Donum vitæ:

«Le conclusioni della scienza sull’embrione umano forniscono un’indi-cazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personale

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 29

24 Così afferma M. Cuyas: «Secondo noi, il problema, così, è male impostato e nonha soluzione [...] Solo l’impostazione etica della questione può oggi fornire una rispostacoerente allo statuto dell’embrione umano» (M. CUYAS, “Dignità della persona e statutodell’embrione”, La Civiltà Cattolica, 140[1989] 438-451, ivi 450, c.n.).

25 «Pertanto siamo indotti a ritenere che i principi della bioetica non possano deri-vare con certezza da una legge naturale, ma siano il riflesso anche di una interpretazionereligiosa della vita e del valore dell’uomo» (C. BORASI, “La bioetica fra naturale e so-prannaturale”, in L. LORENZETTI [ed.], Teologia e bioetica laica, cit., 102).

26 K. DEMMER, Seguire le orme di Cristo. Corso di Teologia Morale fondamentale.Ad uso degli studenti. Roma, Università Gregoriana Editrice, 1996, 48, c.n.

27 La parola “scoperta” qui deve essere intesa anche come riflessione sul misterodell’uomo, totalmente altro rispetto ad ogni altra realtà terrena.

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fin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuoumano non sarebbe una persona umana?» 28.

Ora dobbiamo chiederci cosa significhi “discernere razionalmente”; ab-biamo infatti rilevato che i dati biologici vanno anche interpretati e il sogget-to compie l’azione interpretativa alla luce di una precomprensione antropolo-gica in cui si trova inscritta la fede del faccia a faccia. Per cui i concetti di vi-ta umana, di individuo e di persona non possono essere legati esclusivamen-te alla dimensione biologica, se pur necessaria, ma sono il risultato di un com-plesso processo ermeneutico (induzione metafisica), che vede coinvolti in es-so diverse dimensioni.

Ci pare importante chiarire le differenze emergenti tra le affermazionidella Donum vitæ e quelle dell’Evangelium vitæ. La Donum vitæ parla di pre-senza personale, su cui darebbero indicazioni preziose le conclusioni scienti-fiche. Noi evidenziamo che nella tradizione teologico-antropologica dellaChiesa, la persona è tale in virtù dell’anima razionale unita sostanzialmenteal corpo, e secondo la stessa tradizione l’anima è creata da Dio insieme al cor-po. Di fronte ad eventuali equivoci, ci pare che l’Evangelium vitæ si esprimaoffrendo un prezioso chiarimento, per cui afferma che «la presenza di un’ani-ma spirituale non può essere rilevata dall’osservazione di nessun dato speri-mentale» (Evangelium vitæ, 60).

Pertanto, le “indicazioni” di cui parla la Donum vitæ “danno da pensa-re” e sono da leggere in un contesto molto complesso, in cui è coinvolta an-che la fede antropologica e, per noi cristiani, la fede cristologica. Noi ag-giungiamo che tali “indicazioni”, nel “dare da pensare”, restano ambivalentiper diversi aspetti, per cui vengono lette in modi diversi alla luce delle diver-se precomprensioni antropologiche.

Nell’accogliere i contributi del pensiero levinassiano, noi riteniamo che ilproblema maggiore oggi sia di natura etica (relazione con l’Altro). Se tale rela-zione si riduce a individualismo e a utilitarismo e allo stesso tempo dimenticail mistero della persona – così come ce lo ha proposto Lévinas – ne scaturiràuna opzione di fede antropologica non competente nel riconoscere la personaalla fecondazione. Per noi la relazione con l’Altro è sostenuta dalla fede del fac-cia a faccia: credere nel Bene testimoniato dall’Uno-all’Altro, così come av-viene nella tradizione delle comunità ebraiche e cristiane, che si caratterizzano

30 Giampaolo Manca

28 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Donum vitæ, I,1. Queste affer-mazioni sono state riprese da Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae, 60.

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per la “tradizione del dono”. Di qui la proposta ragionevole della donazione ori-ginaria di Altri, da cui sorge una relazione etica in cui il soggetto si sente chia-mato a vivere la responsabilità anche nei confronti dell’embrione umano, alquale “doniamo” la vita: noi facciamo in modo che l’Altro “Sia”.

Abbiamo rivolto una critica alle prospettive ontologico-personaliste,che non ci conducono assolutamente ad affermare che la biologia è inutile;bensì vogliamo evidenziare che la dimensione ontologica (il y a), nei suoiaspetti biologici, ha un posto importante e necessario (“l’il y a c’è!”) nella ri-flessione sullo statuto dell’embrione, anche se costituisce un aspetto di un“processo” ermeneutico molto complesso, che vede in campo la presenza ditanti “attanti”, tra cui l’etica e l’antropologica, le quali portano con sé un pro-getto antropologico offerto dalla tradizione, insieme, necessariamente, alla fe-de vissuta dalla comunità e testimoniata nei secoli.

Alla luce degli apporti del pensiero levinassiano, argomentiamo che ladimensione empirica (i dati delle scienze biologiche/embriologiche) non puòcostituire assolutamente il “luogo ermeneutico priotitario” da cui partire perdefinire lo statuto dell’embrione umano. A noi pare che, identificare la realtàdell’embrione umano partendo dai dati biologici, costituisca ancora un ap-proccio di tipo intellettualistico, per cui l’embrione viene fatto rientrare in unsistema ontologico, che ci pone di fronte al serio rischio della negazione del-la sua stessa alterità, poiché l’Altro rischia di essere ridotto ad “un’idea a miamisura” e “a misura del suo ideatum”, ad una “idea adeguata”.

Lévinas ci ha indicato una via che procede dall’esperienza per eccel-lenza, la relazione sociale Soggetto-Altri, l’unica veramente portatrice di sen-so per l’il y a; la priorità della dimensione etica consente di riconoscere il pro-blema del cominciamento della persona nella donazione, che dà avvio a quel-l’esodo dalla razionalità strumentale alla razionalità relazionale, in cui si in-veste la libertà del soggetto fuori dalla violenza del sapere totalizzante; liber-tà vissuta nella responsabilità etica come attuazione del senso vero della vitaumana: pensare significa donarsi all’Altro!

Il soggetto non può accedere mai al suo cominciamento in prima perso-na (soggetto disimpegnato) ed io non vi accederò mai come il-mio-comincia-mento, perché sono “posto nell’essere” prima di poter vivere volontariamen-te il primo atto di libertà29. Di qui la conseguenza che l’embrione che “io so-no stato” è per me sempre un “oggetto”, un altro come cosa. Infatti, io non

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 31

29 Cfr. P. RICŒUR, Filosofia della volontà. 1. Il volontario e l’involontario, Geno-va, Marietti, 1990, 428.

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posso dire “esperienzialmente” «sono stato un embrione», perché è un’affer-mazione che si perde nel passato immemorabile, mai presente a me stesso, aldi là della presenza identificante, del sapere oggettivo30. Così scrive il nostrofilosofo sulla coscienza identificante: «La coscienza è l’impossibilità stessa diun passato che non sarà mai stato presente, che sia precluso alla memoria ealla storia» (HAH, 72 [111]).

L’accoglienza dell’embrione non scaturisce da un processo di identifi-cazione ontologica; ma è la responsabilità etica per Altri, in seno ad una ne-cessaria precomprensione etico-antropologica, che ci permette di cogliere ilcominciamento di Altri, e a partire da tale cominciamento anche il mio si ri-vela, nel senso che assume il suo vero senso31.

Lévinas ci ha proposto la fenomenologia del Desiderio come struttura for-male della rivelazione di Altri, perché Altri, in quanto donazione originaria è inme, consegnatomi “da sempre” nella relazione sociale. Il Desiderio evidenzia latensione della coscienza-relazionale a vivere le modalità di una relazione asim-metrica con l’Altro come donazione, che rende possibile il dono e il contro-do-no, promessa per la realizzazione di una vita buona. Il Desiderio dell’Altro nonè soddisfazione di un bisogno, non è utilitarismo, ma è diaconia, responsabili-tà etica nel far di tutto affinché l’Altro viva, e sia sempre più uomo; non si trat-ta solo di non attentare alla vita dell’Altro, ma necessariamente fare di tutto per-ché l’Altro viva in modo pieno32, e noi riteniamo che questa possibilità di con-trodonare ci è donata al momento dell’inizio della fecondazione.

2. L’embrione come “presenza mancata” e “donazione originaria”

Il ri-conoscimento dell’embrione come veramente Altri è un atteggia-mento decisivo per il soggetto che lo vive, perché in esso si gioca la visione

32 Giampaolo Manca

30 «Questo sforzo al limite delle possibilità del sapere oggettivo è in un certo sen-so il fallimento del sapere, ma mentre questo sapere si dileguerà, verrà suggerito un qual-cosa come la necessità in prima persona del mio cominciamneto» (P. RICŒUR, Filosofiadella volontà. 1, cit., 432).

31 «On en revient donc toujours à la priorité du respect moral dans la position d’ê-tre d’autrui» (V. BOURGUET, L’être en gestation. Réflexions bioétique sur l’embryon hu-main, Paris, Presse de la Renaissance, 1999.

305).32 Cfr. TRI, 41 [37]. Si veda anche: H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica

per la civiltà tecnologica, Torino, Einaudi Editore, 166-168.

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dell’uomo e della comunità, che accoglie il dono della nuova vita o la rifiuta.Nel riconoscere la vita di Altri si entra nel dinamismo della relazione donan-te, per cui il soggetto va oltre il per-sé, assumendosi tutto il rischio che essocomporta. Così scrive J.T. Godbout:

«Il dono è l’esperienza della società che va al di là di se stessa e del-l’individuo che si assume il rischio della propria identità, e la mette ingioco. Il rischio del dono è il rischio dell’identità. È per questo che spes-so non si dona, è perchè si tiene, oppure si tiene donando»33.

C’è chi ritiene che il dono sarebbe persino pericoloso per la società, poi-ché non produrrebbe legame sociale, del quale solo lo scambio ne sarebbe larealizzazione34. Ma la nostra tesi è che dinanzi al volto dell’Altro, io ricono-sco quanto sia importante vivere donando se stessi al di là dell’inter-ess-amento, in virtù dell’annuncio della promessa di vita buona per il singolo eper la comunità.

Il soggetto è consegnato da sempre al dono di Altri, per cui non valel’affermazione self made man, ma il contrario: “Altri” made man. Pertantol’antico adagio conosci te stesso, rimane valido, ma estremamente rinterpre-tato: occorre ri-conoscere la voce d’Altri che batte nel cuore stesso del Me-desimo.

Il soggetto moderno ha però una identità fragile35 che viene trasforma-ta in violenza totalizzante. Scrive ancora Godbout:

«L’individuo moderno ha una identità fragile, proprio perché tende adessere definita interamente dalla società. Per reazione sviluppa il biso-gno della autenticità, di una definizione di se stesso che sia fuori dairuoli sociali che gli vengono attribuiti, questo lo porta spesso ad un at-teggiamento di ripiegamento, di resistenza al dono, poiché il dono mi-naccia l’identità. La minaccia dell’identità costituisce la buona ragione

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 33

33 J.T. GODBOUT, L’esperienza del dono, Nella famiglia e con gli estranei, Napoli,Liguori Editore, 1998, 143. Cfr. M. GODELIER, L’énigme du don, Paris, Fayard, 1996.

34 Cfr. R. ROSSANDA, “Gratuità a Montegiove”, Il Manifesto, 19 agosto 1998, 28.35 A proposito del soggetto fragile, per la sua solitudine e per il bisogno vitale del-

l’Altro, che mette a nudo la propria morte, si veda: L. PIALLI, Fenomenologia del fragile.Fallibilità e vulnerabilità tra Ricœur e Lévinas, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,1998.

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fondamentale per non donare. In questo senso il dono è l’esperienza diuna identità non individualista»36.

L’enciclica Evangelium vitæ ha affermato con decisione che il ricono-scimento della persona al momento del concepimento umano non appartieneall’ambito della conoscenza biologica, poiché la presenza di un’anima spiri-tuale non può essere rilevata dall’osservazione di nessun dato sperimentale(Evangelium vitæ, 60).

Esiste un altro “sapere” autentico, che non dice assolutamente che la co-noscenza scientifica è falsa, bensì afferma una dimensione ulteriore e diversadella verità, al di là del biologico, che comunque non esclude le caratteristi-che misurabili e sperimentabili. Così si legge nella Donum vitæ:

«Le conclusioni della scienza sull’embrione umano forniscono un’indi-cazione preziosa per discernere razionalmente una presenza personalefin da questo primo comparire di una vita umana: come un individuoumano non sarebbe una persona umana?» ( Donum vitæ, I,1)37.

Il “sapere al di là del sapere” è dato dalla relazione etica, che parla del-la persona come unicità del soggetto in ogni essere umano. La persona è qual-cuno, un essere singolo, inconfondibile e insostituibile, soggetto unico: perconoscerlo bisogna ri-conoscerlo e “incontrarlo”, nella risposta alla sua pros-simità, prima della domanda.

La “conoscenza” metafisica, così come l’abbiamo vista in Lévinas, faun cammino caratteristico, in quanto inizia il suo cammino non “dal visibiledella presenza”, ma bensì dall’invisibile del tempo, permettendomi l’incontrocon l’Altro che si manifesta, si “rivela” con la sua forza-debole e mi introdu-ce nell’esperienza metaempirica e religiosa: Altri è donazione originaria.L’Altro riconosciuto assume un carattere etico perché si presenta come “esse-re bisognoso”; non esiste principalmente perché io sono riuscito a pensare eformulare fondate teorie scientifiche che ne dimostrano l’esistenza. L’Altro,invece, si affaccia come “veramente altro”, come “qualcuno” inafferrabile edesigente. Egli non formula nessuna domanda di riconoscimento e pertanto lamia relazione con il volto dell’embrione – volto-“assente”-ma-“presente”, al-di-là-della-presenza inter-ess-ata – diviene, quindi, risposta ad una “esigenza

34 Giampaolo Manca

36 J.T. GODBOUT, L’esperienza del dono, cit., 144.37 Giovanni Paolo II riprenderà tali affermazioni nella Evangelium Vitæ, 60.

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di riconoscimento”, appello rivolto a me personalmente, appello etico allamia responsabilità38.

Nella relazione con l’Altro la ragione si rivela an-archica, perché deverispondere (obbedire) ad un ordine, rottura con l’intellettualismo del sapere39.Un’obbedienza che richiede un sì immediato, poiché non c’è il tempo perconsultare la tavola dei principi teoretici che la ragione speculativa vorrebbepresentarci.

Attraverso l’agire coraggioso per la vita, perché l’Altro viva in pienez-za, contro ogni pretesa soggettiva di asservimento, l’uomo diventa sempre piùcoraggioso-per-l’Altro (giusto) e comprenderà sempre meglio anche il sensodelle sue virtù come competenza nel donare-la-vita-all’Altro.

La proposta levinassiana della persona come «presenza mancata»40 – nelsenso di mai assolutamente presente, mai com-prendibile ma in-finita – ci aiu-ta a contrastare quella mentalità dell’io autonomo e chiuso, che produce unadeduzione secondo cui le persone sono delle entità separate, distinte, non-rela-zionate con il proprio corpo e con gli altri. La persona, invece, si pone al di làdella sussistenza e dell’essenza perché riconosciuta nel tempo-della-relazione-etica. La proposta “sostanzialista”, come nel personalismo ontologico, non faaltro che alimentare una corsa verso quella “presenza ontica” da cercare conuna certa chiarezza e distinzione, escludendo il tempo. Senza dubbio il mo-mento della penetrazione spermatica nell’ovulo costituisce per tutti un eventoimportante per il confronto, il dibattito e lo scontro. E questo perché ciò che siannuncia nell’incontro dei due gameti e nell’embrione unicellulare è total-mente altro da ciò che si annuncia nello spermatozoo o nell’ovulo non fecon-dato. Però la scienza non può procedere slegata dall’etica, in quanto essa èstrettamente connessa con la dignità di Altri. E l’etica, dall’altra parte, deve ab-bandonare l’assolutizzazione della via deduttiva, per un’attenzione all’espe-rienza per eccellenza, alla singolarità e al contesto, spiegato anche dalle scien-ze41. Lévinas ci aiuta a ri-conoscere non un inizio puramente cronologico, maun inizio diacronico-relazionale, in cui si annuncia un evento che è il kairòsdel cominciamento della persona, in senso etico, ovvero meta-fisico.

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 35

38 Cfr. TI, 60-61 [64].39 «L’inspiration rompt précisément avec l’intellectualisme du savoir: comme si

l’ordre se formulait dans la voix de celui-là même qui lui obéit» (AT, 54).40 DVI, 11 [12].41 C. ZUCCARO, Bioetica e valori nel postmoderno. In dialogo con la cultura libe-

rale, Brescia, Queriniana, 2003, 258-259.

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Al fine di riconoscere l’inizio della vita dell’altro uomo occorre “ap-propriarsi” di un criterio ermeneutico fondamentale, che Lévinas ci propone:è necessario essere-già-per-altri, perché solo così sorge il senso vero dellapersona umana, perché essere-già-per-Altri significa giustizia; riconoscerneil dono della relazione metafisica in virtù della donazione originaria di Altri,che produce il contro-dono della responsabilità infinita, ovvero la Bontà42. Larisposta all’appello della vita personale che si annuncia nell’embrione umanosi pone al di là della razionalità teoretica.

Per J. Derrida il donare è una risposta irrazionale, folle; per l’utilitarismoinvece ogni dono obbedisce alla razionalità strumentale poiché si dà al fine diricevere: il dono gratuito non esisterebbe. Per noi, seguendo Lévinas, è impor-tante rilevare la dimensione relazionale del dono, che edifica la società, poichéesprime il valore stesso dell’accoglienza dell’Altro con cui si afferma il sensodell’umano e il senso dell’umano sempre si rigenera nella relazione sociale. Larisposta donante, che fa esistere l’Altro, nel progetto antropologico cristianoesprime il senso vero della vita della persona e della comunità, che, secondo Lé-vinas, si rigenera sempre come umanesimo dell’altro uomo.

Di qui il nuovo principio di individuazione del soggetto umano al di làdell’ontologia, al di là dei principi ontologici di materia e forma:

«La responsabilità è un’individuazione, un principio di individuazione.Riguardo al famoso problema “l’uomo è individuo per mezzo della ma-teria o per mezzo della forma?”, io sostengo l’individuazione per mez-zo della responsabilità per Altri» (EN, 118 [143], c.n.).

Di qui la nostra considerazione che l’umanità del concepito possa esse-re colta solo al di là dell’atteggiamento di “potere”, inteso anche come pote-re di conoscerne la dimensione biologica a livelli sempre più profondi. Ma«l’umano si offre soltanto ad una relazione che non è un potere»43, in quantol’umanità si offre al di là della semplice lettura dei dati biologici, lettura ra-

36 Giampaolo Manca

42 «La società con Altri che segna la fine dell’assurdo ronzio del c’è, non si costi-tuisce come l’opera di un Io che dà un senso. È necessario essere già per altri – esisteree non soltanto operare – perché possa sorgere il fenomeno del senso, correlativo all’in-tenzione di un pensiero. Essere-per-altri non deve suggerire una finalità qualsiasi e nonimplica la posizione preliminare o la valorizzazione di chissà quale valore. Essere per al-tri significa essere buono» (TI, 292 [268], secondo e terzo c.n.).

43 EN, 20 [40].

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zionale e strumentale; ma l’umanità si offre come ascolto e parola44 nella re-lazione sociale, perché la persona è presenza mancata, ovvero mai assoluta-mente presente (non sin-cronizzabile), mai com-prendibile, perchè in-finita.

Poiché il volto è parola, che suscita la risposta della responsabilità, ildiscorso appello-risposta può avvenire solo nel tempo della relazione etica. Ildiscorso del Soggetto con Altri esclude la logica atemporale poiché il discor-so è passato, presente e futuro, overo relazione dall’Uno-all’-Altro(tempo/tradizione).

A questo punto affermiamo che, relazionandoci con la realtà dell’em-brione, sostenuti dalla precomprensione antropologica all’insegna del dono,come Lévinas ci indica, scopriamo che lo zigote, cominciamento di Altri, èpreliminarmente per-gli-Altri, prima che essere per-sé, è donazione origina-ria. Mi rivolge il suo “volto” perché noi vi ri-conosciamo il volto e prima diessere un tu è un Egli che si dona. Ma la donazione che si attua nel dono del-l’appello, richiede necessariamente un ricevente disposto ad accogliere il do-no. Tale accoglienza si realizza nella relazione etica che è imediatamente an-che il ricambiare (contro-dono) nella responsabilità etica: si ri-conosce la vi-ta dell’Altro quando il suo inizio è in mano al soggetto ri-conoscente45.

Farsi dono all’Altro perché Egli sia è allo stesso tempo azione libera eobbligatoria. C’è un dinamismo che tende all’obbligazione in forza della re-sponsabilità etica perché la società si fonda sul dono gratuito di Altri, un do-no al di là della totalizzazione: quando il soggetto è incapace di contro-do-narsi uscendo dal suo per-sé, si installa la violenza46. Il dono è certamente

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 37

44 EN, 20 [40], c.n.45 «La vita e la morte, sono a loro volta, sempre nelle mani di “altri”: ecco perché

la vita acquisisce in tutte le sue manifestazioni e forme, dai primi agli ultimi attimi, un ca-rattere di “sacralità”, accentuato dal fatto che – nel quadro cristiano – si crede che anchela seconda persona della Trinità divina ha voluto assumere una vita umana nel processodell’Incarnazione» (P. GIUSTINIANI, Quale progetto di persona per una bioetica oggi? Na-poli, Edizioni Scientifiche, 1998, 84).

46 «Il dono che fallisce genera la violenza» (J.T., GODBOUT, Il linguaggio del dono,Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 83).

Scrive ancora Godbout: «Perché si dona? A questa domanda, la risposta più cor-rente si riferisce al desiderio e alla volontà di far parte di un mondo dove le cose circola-no e tornano a noi. “È una ruota che gira”, si dice, o in inglese “what goes around comesaround”. C’è un dovere, ma anche un bisogno di essere membro di quel circolo strano chesi estende come una sorta di legge universale che ci supera, alla quale del resto si è liberidi partecipare oppure no, ma alla quale si desidera partecipare» (J.T., GODBOUT, Il lin-guaggio del dono, cit., 74-75).

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gratuito, al di là anche delle regole culturali e questo perché il dono sia sem-pre dono; il ricambiare dunque, non è un “obbligo giuridico”, ma è lo stessoatteggiamento gratuito del donare: si tratta dell’“obbligazione” inscritta neldono stesso, in quanto richiama atti liberi e originari da parte del soggetto, cheha sempre la facoltà di chiudersi nel per-sé.

Questo pensiero si pone in piena armonia con la tradizione cattolica cheGiovanni Paolo II ha espresso con le seguenti parole: «il senso più vero e pro-fondo della vita è quello di essere un dono che si compie nel donarsi» (Evan-gelium vitæ, 49).

Altri sarà riconosciuto come persona a prezzo del dis-inter-ess-amentodel soggetto, perché Altri non è un altro ego, un altro me, simmetria della co-noscenza teoretica.

Per comprendere l’asimmetria che si stabilisce tra noi e l’embrione, sipuò pensare all’asimmetria tra l’adulto e il bambino che invoca cura e prote-zione. Il bambino per vivere in pienezza ha bisogno degli adulti (genitori) chesiano responsabili e capaci di un amore accogliente. La debolezza del bambi-no, così come quella del malato, dell’anziano e del morente “obbliga” alla re-sponsabilità. Anche la fragilità dell’embrione, “obbliga” alla responsabilità aldi là della conoscenza identificativa, poiché nell’embrione si annuncia la piùbella promessa di Vita: questa è fede del faccia a faccia.

Senza questa relazione preliminare con l’Altro che esige accoglienza,l’ermeneutica si ridurrebbe al soggettivismo e all’utilitarismo. Pertanto, oc-corre ricordare che l’intelligenza storica non si caratterizza come intus-lege-re, ma si caratterizza come inter-legere, ossia capacità di interpretare le rela-zioni di unità, solidarietà e armonia Soggetto-Altri nel tempo. È nella comu-nità in cui si vive la relazione sociale che si riconosce qual è la vita migliorepossibile, che comporta necessariamente un cammino sociale per una vitaperseguita insieme, nella «relazione di amicizia nel faccia a faccia»47, ricor-dando però che «l’amicizia consiste nell’amare piuttosto che nell’essere ama-to»48. E questo perché l’uomo ha bisogno dell’Altro nel tendere al Bene e rea-lizzare così uno stile di vita che ha in sé l’eccellenza di comportamenti per lacrescita integrale di tutti e di ciascuno: senza amici «nessuno sceglierebbe divivere, anche se possedesse tutti gli altri beni»49. Per queste ragioni «le co-

38 Giampaolo Manca

47 P. RICŒUR, La persona, Brescia, Morcelliana, 1997, 44-45.48 ARISTOTELE, Etica nicomachea, 1158b 25.49 ARISTOTELE, Etica nicomachea, VIII, 1155a 1-6.

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munità sono manifestatamene parti di quella politica, e le specie particolari diamicizia corrispondono alle specie particolari di comunità»50.

Nella relazione con l’embrione, ci pare, che non sia prioritario com-prendere come un individuo è stato generato biologicamente da altre perso-ne51, bensì è prioritario ri-conoscere che “il figlio genera eticamente i sui ge-nitori”. Ecco perché una donna stuprata e rimasta incinta può vivere la suadiaconia verso il generato nel ri-conoscere che quella vita ri-genera lei e puòri-generare anche l’uomo che le ha osato violenza: il figlio in quanto Altri ècapace di far abdicare al potere violento del Medesimo; il figlio è così “Ma-dre-e-Padre” dei suoi genitori, poiché è Altri.

Essendo la morale fondamentalmente relazionale-partecipativa, dobbia-mo dire che Io “conosco me stesso ri-conoscendo l’Altro in quanto Altri”. Sitratta dell’esperienza dell’incontro, come passaggio/esperienza (ex-per-iri),esodo “senza ritorno alla totalizzazione” dal Même verso Autrui, un esodo er-meneutico all’insegna dell’ascolto che conduce “continuamente” a ciò che“dà senso”. Così, grazie all’incontro/relazione io posso riconoscermi comeessere cosciente, responsabile e libero, differente radicalmente da ogni altrouomo, cioè mi ri-conosco persona, irriducibile però al concetto. Di qui la con-clusione che la competenza circa l’ermeneutica della persona non è un attoteoretico del soggetto, ma si tratta di una competenza propria della comunità(società) in quanto partecipazione/comunicazione, che avviene nell’incontroetico con l’Altro/Terzo: la relazione del soggetto con l’Altro è il luogo erme-neutico dell’agire etico (res-ponsabile) dell’uomo, nel cammino storico versola piena realizzazione, verso il Vero Bene del singolo e della comunità.

3. L’umano riconosciuto al di là del “potere di conoscere”

Noi riteniamo, in relazione allo statuto dell’embrione umano e non solo,che oggi sia necessario riproporre i concetti filosofici di “individuo”, di “so-

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 39

50 ARISTOTELE, Etica nicomachea, VIII, 1160a 27-29.51 Questa è per esempio la prospettiva – che si distingue dalla nostra – di M. Chio-

di che scrive: «Ogni uomo – poiché ognuno è figlio – si comprende come uno che è ge-nerato da altri: l’identità specifica e singolare di ciascuno, la sua coscienza, scopre allapropria origine, un debito radicale. In questa relazione. » (M. CHIODI, Il figlio come sé ecome altro, Milano, Glossa, 2001, 375). Ovviamente quanto afferma Chiodi è vero, ma èimportante dire – e ci pare in sintonia con Lévinas – anche che i genitori, innanzitutto, sia-no generati dal figlio in quanto Altri.

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stanza” e di “natura razionale”, attraverso un linguaggio comunicabile nelcontesto culturale attuale, tenendo fisso l’obiettivo di eliminare gli aspetti di or-dine intellettualistico/razionalistico. Ci pare che questo compito oggi non ven-ga assolto con sufficiente impegno speculativo; anzi, riteniamo che per defini-re un principio di ordine deduttivo (teoretico), si faccia ancora uso di quellastessa metodologia razionalistica di cui si servono le altre correnti di pensierocome l’utilitarismo e il contrattualismo, per ottenere deduttivamente delle con-seguenze morali. A questo punto ci sembra alquanto fruttuoso prendere sul se-rio la possibilità di fermarsi a riflettere sulla proposta di Lévinas circa un “nuo-vo” principio di individuazione del soggetto umano. Un nuovo principio che cidis-colloca per-l’al-di-là dell’ontologia violenta, al di là dei principi ontologicidi materia e forma. Di qui le parole interessanti di Lévinas:

«La responsabilità è un’individuazione, un principio di individuazione.Riguardo al famoso problema “l’uomo è individuo per mezzo della ma-teria o per mezzo della forma?”, io sostengo l’individuazione per mez-zo della responsabilità per Altri» (EN, 118 [143], c.n.).

Ci pare importante rilevare che questa proposta filosofica evidenzia co-me l’umano possa essere riconosciuto solo al di là del “potere di conoscere”la dimensione biologica a livelli sempre più profondi, grazie ai progressi del-la scienza. Altrettanto forte è un’altra affermazione di Lévinas: «L’umano sioffre soltanto ad una relazione che non è un potere»52. Per cui il volto d’Altridell’embrione umano si offre come ascolto e parola53!

La verità che realizza l’uomo – il Bene al di là dell’essere – può essereaccolta, però, solo a prezzo di una fede antropologica che il filosofo francesechiama “fede del faccia a faccia”54, «relazione irriducibile ed ultima»55: è la“fede” nell’Altro, che continuamente contesta quella ragione non-relazionata,intellettualistica, sincronica ed intimistica (monade). È in tale fede antropolo-gica che Dio viene all’idea, poiché Dio si annuncia nel Volto dell’Altro.

Di fronte all’embrione umano noi cattolici, che abbiamo un progetto an-tropologico consegnatoci dalla tradizione della verità sull’uomo, ci sentiamo

52 EN, 23 [40]). E ancora: «La visione del volto non è più visione, ma ascolto e pa-rola» (EN, 23 [40]).

53 Cfr. EN, 22 [40].54 E. LÉVINAS, G. MARCEL, P. RICŒUR, Il pensiero dell’altro, Roma, Edizioni La-

voro, 1999.55 TI, 329 [303].

40 Giampaolo Manca

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chiamati a vivere questa fede antropologica che tiene certamente conto delladimensione biologica (nella circolarità ermeneutica), ma porta in sé la fedenell’Altro, che è “presente-assente” al momento della fecondazione. Si trattadi una scelta motivata antropologicamente ed eticamente, nel dinamismoasimmetrico del donare e del contro-donare, cosi come ce l’ha indicato Lévi-nas nella “rottura della simmetria”56.

La persona riconosciuta alla fecondazione è presenza-assenza, che si an-nuncia con una resistenza etica, ri-conosciuta e sperimentata non attraverso ladeduzione e le teorie scientifiche, ma mediante la saggezza dell’amore. L’Altroesiste perché mi interpella57 e io ri-conosco che Altri, per vivere ha ineluttabil-mente bisogno del mio sì, del mio eccomi, ovvero della mia responsabilità: de-vo aver fede nell’Altro, devo donargli la mia fiducia, devo donargli il “mio”tempo, perchè il dono-di-Altri «dona, chiede e prende del tempo»58!

L’esperienza pre-originaria della donazione ci rivela che il soggetto rea-lizza la propria identità soltanto attraverso la relazione etica (meta-fisica) enon esiste coscienza morale senza la relazione con l’Altro. Il soggetto può di-re “Io”, può narrare se stesso soltanto grazie alla relazione con l’Altro, poichéil soggetto è immerso in un contesto sociale e, pertanto, in una tradizione sto-rica: è qui che il soggetto si scopre debitore di ogni uomo59.

4. La coscienza morale che crede nel Bene

La relazione Soggetto-Altri appare ricca di scambi asimmetrici, cioè siesprime nel riconoscere una differenza assoluta (non-in-differenza) in ciò chesi riceve da Altri. Tutto ciò è vero per ogni uomo e, dunque, anche per il cri-stiano, che non può far a meno di confrontarsi con la comunità in cui è inse-rita la sua azione morale: nella relazione sociale (nella comunità) il cristianoriceve in dono la propria coscienza morale e la sua formazione, e quindi le

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 41

56 Si veda anche A. WODKA, “L’oblatività neotestamentaria e il discorso etico mo-rale”, Studia Moralia, 36(1998) 203-238.

57 «Esistere è resistere» (P. RICŒUR, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, 436).58 J. DERRIDA, Donare il tempo. La moneta falsa, Milano, Raffaello Cortina 1996, 44.59 «Non c’è forma della coscienza – della coscienza in genere, e della coscienza in-

tesa in accezione precisamente morale in specie – che non sia mediata praticamente. Ed’altra parte l’esperienza pratica suppone di necessità il riferimento ad un contesto socia-le, e quindi ad una tradizione» (G. ANGELINI, Teologia Morale fondamentale, cit., 567).

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motivazioni del proprio agire. La fede (sia quella antropologica sia quella teo-logico-cristologica) non può essere disgiunta dalla vita interpersonale vissu-ta, poiché essa è innanzitutto donata nel faccia a faccia.

Lévinas ha affermato che la coscienza morale è la relazione etica, per-ché in essa l’uomo è posto dinanzi all’Altro, unico e irrepetibile, “luogo ori-ginario”60, in cui il soggetto si mette in crisi (crescita), esperienza viva chenon può negare, e non può rifiutarsi di assumersi quella responsabilità all’in-segna della fede.

Riteniamo di poter dire che la coscienza non inventa il Bene e neppu-re lo ritrova nei dati, ma lo riceve in dono dall’Altro, nella relazione etica, incui la vita meta-fisica dischiude il senso della vita e “crea” la coscienza. Ildono del senso, viene altresì testimoniato nella stessa comunità umana e pas-sa continuamente dall’Uno all’Altro, rinnovandosi e arricchendosi: il sensodel dono e il dono del senso è tradizione, che per noi cristiani si arricchiscecon la pienezza del dono del Cristo, il quale si è “svuotato” (kènosis) per lavita di Altri61.

Accogliendo la proposta levinassiana, siamo ora maggiormente convin-ti del fatto che la Teologia Morale debba imparare continuamente a ripartiredal contesto relazionale in cui si rivela il discorso del per-Altri, ovvero del do-no di sé fino allo “svuotamento” (kènosis). Purtroppo, la Teologia Morale, neisecoli, è stata intaccata – e forse lo è ancora – da elementi di intellettualismidisincarnati, che hanno portato alla proposta di un soggetto separato e solip-sistico e ad una impostazione fortemente deduttiva e poco induttiva della mo-rale. Il sapere autentico, in cui s’inscrive anche il “sapere” della Teologia Mo-rale, riconosce il suo debito alla relazione etica, che produce la verità per laVita, verità che può essere vissuta. Così scrive G. Angelini:

42 Giampaolo Manca

60 «Il soggetto accede alla coscienza mediante l’agire, e dunque di necessità me-diante il rapporto con altri; perché appunto questo è il luogo originario dell’agire, il rap-porto con altri. Proprio per il fatto di essere mediazione della coscienza, quel rapporto ri-manda il soggetto a se stesso» (G. ANGELINI, Teologia Morale fondamentale, cit., 614).

61 «Il dare [nel senso di donare] si situa, dunque, non solo al livello creazionale del-l’essere e dell’esistere, ma costituisce anche l’anima dell’evento salvifico della croce. Do-po la radicale donazione di sé, fatta da Cristo sulla croce, ogni dare cristiano diventa unaproiezione storica del passaggio pasquale del Figlio di Dio nella sua umanità mortale.Comprendendo la risposta del Padre al dono del Figlio, la Pasqua di Gesù è completa conla risurrezione e con il dono definitivo dello Spirito» (A. WODKA, “L’oblatività neotesta-mentaria e il discorso etico-morale. II: il dono del dare (2 Cor 8-9)”, Studia Moralia,37(1999) 5-33, ivi 31, c.n.).

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«La stessa idea di verità nella sua accezione più radicale rimanda alla fi-gura del senso, della proporzione dunque del reale con il desiderio di vi-vere che è costitutivo dell’uomo. Sicché verità per eccellenza è soltan-to quella della quale appunto l’uomo può vivere»62.

Ci pare di poter interpretare la com-pro-missione con il Bene, che pro-viene da un passato anarchico, come la promessa della Vita umanamente rea-lizzata (vita buona), una promessa che per noi si annuncia con forza anchenell’embrione umano, ma che ci giunge attraverso la relazione etica fondatasulla fede del faccia-a-faccia, in quanto essa non si fonda su teorie scientifi-che, anche se tiene conto di quanto afferma la scienza biologica; anzi, riba-diamo che i dati genetici ri-cevono il senso anche dalla precomprensione an-tropologica. Il bene per l’embrione, in cui riconosciamo l’appello alla vitapiena, personale, è sempre “bene creduto” ed in quanto creduto può dirsi ve-ramente “Il Bene per l’embrione umano”. Esso è al di là del razional-scienti-fico, e proprio perché “ho fede” in esso, io vivo la responsabilità-per-l’Altroe non il contrario; cioè, non cerco conoscenze scientifiche per decidere in fa-vore della vita embrionale, scelgo il suo futuro non-ancora-ma-già-incarna-to, ri-conosciuto nella relazione etica.

La coscienza morale, in quanto fede del faccia a faccia è dunque co-scienza credente, che muove la responsabilità del soggetto verso l’Altro coni gesti più grandi di accoglienza voluti per fede, perché «volere si può soltan-to a prezzo di riconoscere nell’atto stesso la via promettente che sola consen-tirà a me di trovarmi»63.

Vivere la scelta della Vita-per-l’Altro sin dalla fecondazione, lasciandoche la mia libertà sia investita dalla donazione originaria, significa credere al-la promessa del Bene inscritta nella relazione etica, credere che l’Altro puòvivere, ed è promessa-di-bene-per-noi che egli viva in modo pieno.

Conclusioni

Il tempo etico, diacronico, permette al soggetto di riconoscere di “avercontratto un debito senza averlo mai contratto” (immemorabile) e addirittu-

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 43

62 G. ANGELINI, Teologia Morale fondamentale, cit., 569.63 G. ANGELINI, Teologia Morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Mi-

lano, Glossa, 1999, 569.

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ra «il debito aumenta nella misura in cui si salda»64. Si tratta di un tempo ir-riducibile alla presenza teoretica (sincronica), perciò inquietudine del Me-desimo e assenza dell’Altro “visibile”, che si traduce positivamente come“presenza” dell’Altro non tematizzabile: la persona è presenza mancata! Ladiacronia relazionale, dunque, ha a che fare con il non riposo, con uno sta-to di non quiete provocato dalla donazione originaria di Altri nel tempo dia-cronico della relazione etica; e l’embrione umano, lo ribadiamo con forza,ha bisogno del dono del tempo, necessita assolutamente che io gli doni il miotempo.

Di fronte all’embrione umano, la responsabilità etica, la fede del faccia-a-faccia, realizza il passaggio all’al di là («spossessamento originario»65) del-la realtà biologica pura e semplice: è la prima donazione66, il primo gesto eti-co67, l’offerta di se stessi nel-tempo (attesa-paziente) e del mondo ad Altri,perché Altri viva e viva in modo vero e pieno. Pertanto, affermiamo che laTrascendenza, da noi ri-conosciuta nell’embrione, «non è una visione d’altrima una donazione originaria»68.

Dinanzi all’embrione umano viviamo l’incontro con Altri, poiché ne“ascoltiamo il suo volto” e gli parliamo con la diaconia. È l’atteggiamento deldono che matura in seno ad una opzione antropologica molto complessa, chesi configura come per-Altri e che comporta necessariamente un’opera di sen-sibilizzazione e di “educazione al dono” nella testimonianza vitale della co-munità, in cui i membri si impegnano ad offrire se stessi e tutto quanto pos-siedono perché l’Altro viva, come ineludibile promessa di Bene per gli stessimembri della comunità.

Il pensiero di Lévinas fa emergere che il dono di sé ad Altri, in quanto pro-messa di realizzazione personale anche per il soggetto, costituisce la strutturaoriginaria della persona: l’uomo è donazione, e in quanto donazione origina-ria è persona. Lui solo prende consapevolezza, nella relazione etica, di esseretale donazione, poiché capace di cogliere la significazione di Altri e di Sé.

Il linguaggio del dono, come risposta ad Altri, dischiude la prospettivadel sensato nella e per la comunità. Questo perché:

44 Giampaolo Manca

64 AE, 27 [16].65 TI, 189 [177].66 TI, 189 [177].67 TI, 190 [177].68 TI, 189 [177].

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«La funzione originale della parola non sta nel designare un oggetto al-lo scopo di comunicare con altri, in un gioco di nessuna importanza, manell’assumere per qualcuno una responsabilità presso qualcuno. Parlarevuol dire impegnare gl’interessi degli uomini. Essenza del linguaggiosarebbe la responsabilità» (QLT, 46 [51].).

La Trascendenza, che noi riconosciamo nell’embrione umano, esprimele caratteristiche del soggetto autonomo-relazionato, che si pone nella pro-spettiva eterocentrico-oblativa; tale riconoscimento impone che l’embrionenon sia considerato puro “oggetto”, puro e semplice materiale biologico dasfruttare per benefici personali o di gruppo, ma lasciato “essere” nella sua di-versità, occorre dargli il tempo per rivelarsi mistero personale, ovvero Altri,ovvero Persona. A noi è richiesto di non uccidere, ponendo in atto l’opzioneresponsabile in-finita per-la-vita-di-Altri, nonostante la mancanza della“chiarezza” e “distinzione” nei dati scientifici che, a nostro parere, non lo sa-ranno mai chiari e distinti. La Trascendenza, riconosciuta in seno all’opzioneantropologica (opzione di fede), indica, pertanto, non una «sostanza al di làdel mondo»69, ma il primo gesto etico per la giustizia che dona la vita.

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Elenco delle opere di Lévinas citate con relative abbreviazioni

AE Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Paris, Kluwer Academic,1996 (1974) [Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Milano, Ja-ca Book, 1983].

DMT Dieu, la mort et le temps, Paris, Grasset, 1995 (1993) [Dio, la mortee il tempo, Milano, Jaca Book, 1996].

DVI De Dieu qui vient à l’idée, Paris, Vrin, 1992 (1982); seconde éditionrevue et augmenteé, 1986 [Di Dio che viene all’idea (conforme allaprima edizione), Milano, Jaca Book, 1986].

EDE En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Paris, Vrin,1984 (1949) [Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Milano,Raffaello Cortina editore, 1998].

La metafisica del dono in E. Lévinas e lo statuto dell’embrione umano 45

69 G. FERRETTI, La filosofia di Lévinas, Alterità e trascendenza, Torino, Rosenberg& Sellier, 1996.

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ECFP Etique comme philosophie premiére, Paris, Payot & Rivages, 1998(1982, [Etica come filosofia Prima, in Lévinas E. –PEPERZAK A., Eti-ca come filosofia prima, Milano, Guerini e Associati, 1989, 47-59].

EN Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Paris, Grasset, 1993(1991) [Tra noi. Saggio sul pensare all’altro, Milano, Jaca Book Me-langolo, 1998].

TI Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Paris, Kluwer Academic,1990 (1961) [Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Milano, JacaBook, 1990].

TRI Transcendance et intelligibilité. Suivi d’un entretien, Genevre, Laboret Fides, 1996 (1984) [Trascendenza e intelligibilità, Genova, Ma-rietti, 1984].

The metaphysics of gift in E. Lévinas and the statuteof the human embryoby Giampaolo Manca

Following on his article in which he offered an exposition on the Me-taphysics of the Gift of Oneself by Lévinas (SapCr XXI, 383-414), the au-thor here proposes a reflection on the study of the human embryo based onthe metaphysics of Gift. He sustains that to continue to discuss mainly thepresence or absence of the individual in a unicellular embryo, in the lightof known biological data, doesn't lead to any meaningful results regardingthe protection of human life. Today we need to situate ourselves beyond apurely ontological discourse about the individual. This "going beyond" ispossible thanks to categories which allow for a renewed hermeneuticalmediation between philosophy and theology. Hence the category of "gift,"of the original gift and of another's propounded by E. Lévinas; an impor-tant proposition regarding a "new principle of individuation," beyondmatter and form, an idea based on ethical responsibility.

46 Giampaolo Manca

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DARIO DI GIOSIA C.P. SAPCR 22 (2007) 47-68

L’Annuncio di Cristo nel magistero di GiovanniPaolo II ai giovani (1978-1982)

di DARIO DI GIOSIA C. P.

L’articolo parte da rilievi riguardanti il rapporto perso-nale di Giovanni Paolo II con i giovani prima ancora del conte-nuto della sua pastorale giovanile. Si tratta di un rapporto posi-tivo, pieno di speranza e non di pessimismo. Egli mette in rilievole caratteristiche positive dell’età giovanile. Su questa base ilPapa lancia il suo messaggio: il cristianesimo è la religione deigiovani. Cercate Gesù, amatelo appassionatamente. Cercate laverità e avrete la libertà, godrete della redenzione dell’uomo, viaprirete alla preghiera, diventerete capaci di evangelizzare a vo-stra volta gli altri. È importante osservare che questi atteggia-menti e questi annunci sono già presenti nei primi anni del pon-tificato di Giovanni Paolo II.

Introduzione

Giovanni Paolo II ha lasciato certamente un segno profondo nella storiadel nostro tempo, come anche una immagine viva di autenticità cristiana, im-mediatezza e calore umano.

Sono ancora sotto i nostri occhi le code infinite di persone che si reca-vano commosse al suo capezzale. Code senza precedenti, manifestazione diun affetto che il Pontefice aveva saputo conquistarsi negli anni, grazie alla suaindefessa attività di pastore universale.

Il suo pontificato è stato ricco di molti eventi, movimentato da grandeattività intellettuale e spirituale. Centinaia di viaggi, visite pastorali, incontri,udienze e quant’altro. Fare l’elenco di ventisette anni di papato è arduo. Ognisettore meriterebbe uno studio a se.

La nostra attenzione si focalizza sulla pastorale giovanile, che con Gio-vanni Paolo II diventa per la prima volta “mondiale”. Nessuno può negare chequesto Papa ha avuto un’ascendente particolare sui giovani. Le moltitudiniraccoltesi per le GMG sono testimonianza di un carisma che merita di essere

Pastorale e Spiritualità 47

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approfondito nei suoi aspetti, per cogliere, al di la dei luoghi comuni, i segnidi un dono che Dio ha fatto alla chiesa e all’umanità.

Il periodo iniziale esaminato in questo studio, negli anni che vanno dal-l’elezione del 1978 a tutto il 1982, ci consegna già diversi elementi utili di ri-flessione.

Un dono ricevuto

Giovanni Paolo II ha la coscienza di aver ricevuto in dono l’amore per igiovani. Essi sono i suoi prediletti, i suoi amati. In un paio di occasioni manifestaai giovani stessi, come in una confidenza tra amici, questa sua certezza interiore:

A voi posso confidarmi: Dio mi ha fatto la grazia - come a tanti Vescovie sacerdoti - di amare appassionatamente i giovani, certo differenti daun paese all’altro, ma tanto simili nei loro entusiasmi e delusioni, nelleloro aspirazioni e generosità!1

Questo amore, di cui parla, è una passione che lo trasporta. Una passio-ne per cui vorrebbe parlare ai giovani personalmente, vorrebbe parlare adognuno di loro come un amico parla ad un amico.

Le sue parole non sono frutto di una retorica studiata, ma la testimonian-za di un vissuto, per cui può dire con molta schiettezza che i giovani occupanoun posto speciale nel cuore del Papa. Ha con loro un rapporto di familiarità, e fasapere di sentirsi a proprio agio tra loro. Ancor più, tale rapporto assume il ca-rattere di un dono reciproco, per cui, se da un lato non cessa mai di profonderele sue energie in favore dei giovani, dall’altro il Papa trova in mezzo ad essi uncontraccambio di cui parla con i suoi collaboratori: “È sempre una gioia per ilPapa incontrarsi con i giovani. Ed è una gioia ricambiata. Quanto entusiasmoho sempre trovato in mezzo a loro!”2. E, come se attingesse forza dagli incontrigiovanili, stando tra i giovani dice: “La vostra giovinezza, la vostra vivacità, lavostra gioia, sono un grande tonificante e una spinta ad un sempre più intensoimpegno nel servizio delle vostre anime”3.

48 Dario Di Giosia, c. p.

1 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 1980 III/1, Messaggio ai giovani di Francia, Pari-gi 01/06/80, p. 1609. Sullo stesso argomento: Insegnamenti, 1982 V/2, Omelia della messa peri giovani, Lisbona 14/05/82, p. 1668.

2 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso ai collaboratori nel governo centrale, Vaticano28/06/80, p. 1898.

3 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai ragazzi e ai giovani in San Pietro, Vaticano07/02/79, p. 355.

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Una ricerca appassionata

L’amore del Papa per i giovani si manifesta immediatamente, come de-siderio di incontrarli in tutte le occasioni che il ministero petrino gli offre. Giàall’inizio del pontificato, per quasi tutto il primo anno, e poi saltuariamentenei tempi liturgici forti, le udienze del mercoledì hanno un particolare mo-mento dedicato ai giovani nella basilica vaticana. Scolaresche, pellegrinaggi,gruppi di studenti universitari sono i primi appuntamenti in cui il Papa mani-festa l’amore e l’attenzione per la gioventù.

Giovanni Paolo II esprime la sua ricerca dei giovani come un desiderioappassionato di incontrarli. Desiderio che emerge nei discorsi diretti nelle piùsvariate occasioni, come anche dall’attenzione loro dimostrata non tralascian-do mai, nei suoi discorsi, di rivolgere ad essi una parola.

All’accoglienza nella basilica vaticana, si unisce una ricerca appassio-nata dell’incontro particolare, nelle visite pastorali. Incontro che diventa pianpiano una consuetudine, fino ad occupare un posto centrale tra gli eventi pre-visti nei suoi viaggi. Ovunque vada, il Papa desidera incontrare e parlare coni giovani. E manifesta loro questa sua passione, questo suo desiderio ardenteche precede l’evento stesso: “Molto tempo prima che c’incontrassimo erava-te presenti nei miei pensieri e nelle mie preghiere” 4.Appare evidente la dedizione del Pontefice per i giovani. La sua premura ri-torna più volte nelle esortazioni ai vescovi, ai sacerdoti, agli insegnanti e aglieducatori in genere. Testimonia lui stesso che la sua sollecitudine pastorale havisto dei destinatari privilegiati nei giovani, nel corso della sua vita sacerdota-le e ora da Papa. Ai giovani radunati a Madrid dice:

È questo uno degli incontri più attesi della mia visita in Spagna, che mipermette di avere un contatto diretto con la gioventù spagnola, nellacornice dello stadio Santiago Bernabéu, testimone di tanti avvenimentisportivi. In tutte le mie visite pastorali, nelle diverse parti del mondo, hovoluto sempre incontrarmi con i giovani5.

La sollecitudine del Papa favorisce ed esalta anche la ricerca e la rispo-sta dei giovani al Pontefice stesso. In più occasioni Giovanni Paolo II parla

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 49

4 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso ai giovani nigeriani, Onitsha 13/02/82, p. 389.5 Insegnamenti, 1982 V/3, Celebrazione della parola per i giovani, Madrid 03/11/82, p.

1114.

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delle lettere e dei messaggi ricevuti dalla gioventù. Esprime il suo ringrazia-mento. Manifesta un rapporto continuo, corrisposto, per cui se il Papa cerca igiovani, i giovani cercano il Papa. Il semplice fatto di leggere le loro lettere,di menzionare i messaggi, esprime la sua premura paterna. E quando a questelettere risponde pubblicamente, svela la sua sensibilità profonda verso i gio-vani6. In modo più evidente questo accade nel 1981, dopo l’attentato. Occa-sione in cui in modo particolare si rivolge ai giovani:

Desidero oggi rivolgere il mio ringraziamento – un ringraziamento spe-ciale – ai giovani di tutto il mondo, che in questo periodo di sofferenzemi sono stati particolarmente vicini con il loro affetto e la loro preghie-ra. Penso, per esempio, ai giovani della mia Cracovia, della mia Roma,a quelli della Svizzera che avrei dovuto incontrare nei giorni scorsi, e aimoltissimi altri di vari Paesi del Mondo, che hanno voluto essermi ac-canto spiritualmente e che mi è difficile qui nominare tutti. Sappianoche i loro messaggi e le loro preghiere mi sono stati veramente di soste-gno e di conforto, perché ho visto in essi il vero amore che ci ha rivela-to il Cristo. Li ringrazio di cuore7.

L’atteggiamento positivo

Seguendo i discorsi di Giovanni Paolo II, si evidenzia subito il rapportopositivo che il Pontefice intrattiene con i giovani. Tutti i pronunciamenti, sep-pur con sottolineature differenti, riportano la stima e la fiducia del Papa neiloro confronti.

In questo primo incontro desidero esprimervi, oltre che l’intensità deimiei sentimenti di affetto, la mia speranza. Sì, la mia speranza, perchévoi siete la promessa del domani. Voi siete la speranza della Chiesa edella società8.

Queste parole, pronunciate nella basilica vaticana, saranno un ritornellocostante che il Pontefice ripeterà non solo ai giovani, ma anche a quanti, aven-

50 Dario Di Giosia, c. p.

6 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso alla veglia con i giovani, Parigi 01/06/80, p. 1628.7 Insegnamenti, 1981 IV/1, Recita dell’Angelus, Vaticano 14/06/81, pp. 1250-1251.8 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai ragazzi e ai giovani, Vaticano 08/11/78, p. 105.

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do uffici educativi, hanno ascoltato dal Papa esortazioni ad amare i giovani ea dare loro fiducia.

Lo scopo del Pontefice non è quello di catturare la benevolenza del suouditorio, come farebbe un buon oratore, quanto piuttosto manifestare un at-teggiamento positivo tendente ad infondere fiducia ai giovani e nei giovani. Ilsuo tornare ripetutamente ad esprimere una speranza, che va ben oltre l’amo-revolezza, è frutto di una scelta ponderata, le cui motivazioni vanno ricercatenella prassi, fin troppo consolidata, di rivolgersi alla realtà giovanile conside-randola nei suoi aspetti problematici:

Nel parlare a voi, cari giovani, intendo non indulgere all’analisi, ripetutada troppe parti, degli aspetti negativi della vostra presente condizione. Èsenz’altro giunto il tempo di porre mano ai rimedi, con energica azione, esoprattutto con intrepida speranza, fondata sulla ricerca comune del verobene e sulla sicurezza dell’aiuto di Dio, che non può mancare a quantimettono le proprie risorse a servizio di cause nobili e meritevoli9.

Il Papa trova occasione di riprendere il suo atteggiamento anche citandole parole del Concilio Vaticano II, dove nel messaggio ai giovani si dice: “LaChiesa vi guarda con fiducia e con amore”. Ma con più profondità, espone an-cora il suo stile parlando ai vescovi francesi. Ad essi ribadisce che occorreparlarne in termini positivi, che il mondo ha un avvenire grazie ad essi, e chevi sono segni incoraggianti di tanti giovani. Tuttavia il Pontefice conosce an-che la fragilità della gioventù, per cui ribatte in più occasioni che l’atteggia-mento di fiducia non deve significare demagogia10.

La fiducia di Giovanni Paolo II si manifesta anche oltre le parole di sti-ma. Il Papa dà ai giovani responsabilità. Li invita ad assumere impegni rico-noscendo loro le qualità per farlo. Di fronte alle sfide del mondo moderno,egli ritiene che i giovani di oggi meritino la stessa fiducia di quelli di ieri e diogni tempo. E sottolinea costantemente che la loro adesione entusiasta, a pro-getti talvolta ardui, ne è una indubitabile conferma11.

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 51

9 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso al pellegrinaggio da Terni, Narni e Amelia, Vatica-no 20/03/82, p. 940.

10 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso ai vescovi francesi, Vaticano 23/03/82, pp. 974-975. Sullo stesso argomento: Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai vescovi francesi, Vaticano18/11/82, p. 1319.

11 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso ai giovani, Bologna 18/04/82, p. 1239.

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La gioventù come pienezza della fede

La visione di Giovanni Paolo II, circa la gioventù, non è riconducibilead un concetto univoco. E se la terminologia di “speranza del futuro” ricorrecostantemente, ciò è dovuto principalmente alla esigenza di manifestare fidu-cia, poiché, della gioventù egli descrive in diverse occasioni gli aspetti, conprospettive plurime, talvolta singolari e innovative.

Il Papa innanzitutto parla della gioventù come tempo di ricerca. I giova-ni cercano la verità, la solidarietà, la giustizia, cercano una risposta globale aiproblemi fondamentali dell’uomo, un significato essenziale ed esistenzialedella vita12. La gioventù oggi è più critica, avendo aumentato notevolmente ilpatrimonio culturale, e più portata a pensare e a riflettere. È una gioventù chevuole rendersi conto degli avvenimenti e invoca chiarezza sul proprio destino:

La vostra è l’età della domanda suprema: che senso ha la vita? E conse-guentemente, che senso ha la storia umana? È certo la domanda piùdrammatica ed è anche la più nobile, che qualifica veramente l’uomo nel-la sua natura di persona, intelligente e volitiva. Infatti, l’uomo non puòrinchiudersi nel limite del tempo, nel cerchio della materia, nel nodo diun’esistenza immanente e autosufficiente; può tentare di farlo, può ancheaffermare a parole e a gesti che la sua patria è solo il tempo e che la suadimora è solo il corpo. Ma in realtà la domanda suprema lo agita, lo pun-ge e lo tormenta. È una domanda che non si può eliminare13.

Il Pontefice parla anche della gioventù come “sofferente”, a causa dellacontraddittorietà delle ideologie che la colpiscono. Ritiene che le moderne fi-losofie atee, per cui il bisogno di senso è una malattia da cui guarire, spinga-no il giovane alla disperazione, all’evasione nella droga e nella violenza.

Giovanni Paolo II ha presente, però, anche una gioventù esigente, poichésensibile maggiormente ai valori dell’onesta, della giustizia, della coerenza14. I

52 Dario Di Giosia, c. p.

12 Cfr. Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai vescovi, sacerdoti e fedeli di Ungheria, Va-ticano 06/04/79, p. 814. Sullo stesso argomento: Insegnamenti, 1981 IV/1, Discorso ai parte-cipanti al “Convegno Veritas”, Vaticano 07/03/81, pp. 636-637.

13 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ad una rappresentanza di militari italiani, Cittàdel Vaticano 01/03/79, p. 492.

14 Insegnamenti, 1982 V/2, Omelia della messa per i giovani, Lisbona 14/05/82, p.1671.

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giovani sono capaci di grandi ideali, di grande dedizione e sacrificio, e per il Pa-pa sono una promettente carica di vita: La giovinezza è il sinonimo di entusia-smo, di generosità, di desiderio di costruire e di donare15.

La gioventù è anche tempo della preparazione. Giovanni Paolo II vi ri-chiama i giovani in varie occasioni. Talvolta parlando della gioventù come del-la quaresima: come in essa ci si prepara alla Pasqua così nella gioventù ci si pre-para alla vita. Le cose importanti non si improvvisano, ed esorta costantementeallo studio per una buona preparazione culturale e professionale; esorta agliesercizi fisici per coltivare la salute; esorta alla preghiera e all’approfondimentodella fede per affrontare i compiti della vita. La maturità integrale della persona,per il Papa, è la miglior garanzia di risultati soddisfacenti16.

La gioventù è tempo della semina e della disposizione del terreno perfuturi raccolti. Alla preparazione tecnico-scientifica occorre affiancare una vi-sione globale dell’uomo che sappia integrare tutte le scienze. E in continuitàcon l’attività scolastica, il Pontefice invita i giovani al gioco, valorizzandonela funzione ludica ed educativa, capace cioè di esaltare ulteriori dimensionidell’umanità nei sui aspetti sociali e relazionali17.

Un ultimo consiglio sulla formazione preme al cuore del Papa. Coloroche pensano di sapere già tutto hanno ben poche possibilità di imparare qual-cosa. Questo atteggiamento di superiorità, ravvisa il Pontefice, blocca la cre-scita personale in qualsiasi stagione della vita. L’umiltà, invece, è sempre ne-cessaria per imparare, e questa ancor più per i giovani che dipendono da chiha maggiore età e più esperienza e conoscenza di loro.

La gioventù è anche tempo delle scelte di vita. Tale considerazione ap-pare in modo chiaro nell’Esortazione Apostolica sulla Catechesi, la quale,esaminando le età della formazione cristiana, individua proprio in questoaspetto la peculiarità dell’età giovanile:

Con la giovinezza giunge l’ora delle prime grandi decisioni. Sostenutoforse dai membri della sua famiglia e dagli amici, e tuttavia lasciato a

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 53

15 Insegnamenti, 1980 III/2, Udienza generale, Vaticano 17/12/80, p. 1714.16 Insegnamenti, 1981 IV/1, Discorso ai giovani, Vaticano 01/04/81, pp. 843-844.17 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso agli studenti delle scuole romane, Vaticano

01/03/80, p. 492-496.

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se stesso e alla propria coscienza morale, il giovane dovrà prendere sudi sé la responsabilità del suo destino in maniera sempre più frequentee determinante. Bene e male, grazia e peccato, vita e morte si scontre-ranno sempre di più dentro di lui, certamente come categorie morali,ma anche e soprattutto come opzioni fondamentali, che egli dovrà ac-cogliere o rigettare con lucidità e con senso di responsabilità18.

Proprio per accompagnare il giovane nelle sue scelte, Giovanni Paolo IIritiene indispensabile che i giovani siano sostenuti da figure di educatori credi-bili. In questa direzione la chiesa deve compiere ogni sforzo affinché insegnan-ti di religione, catechisti, sacerdoti, siano il più possibile versati al servizio del-la gioventù. Allorché incontrano adulti di tempra solida, convinti, disinteressa-ti, educatori, i giovani accettano più facilmente di lasciarsi guidare da essi19.

Il Papa riprende questa visione della gioventù arricchendola, qualche an-no più tardi, di elementi antropologici originali. L’inquietudine dei giovani divivere per degli ideali, la loro ansia di bellezza, assume la tensione del “già enon ancora” proprio della chiesa. Mentre il bambino riceve tutto da dagli altri,ed è inserito in un mondo fatto dai genitori, dei fratelli e dalle sorelle, il giovanetenta costantemente il passaggio alla fase adulta, di avere un suo mondo:

Quando scopre le sue ricchezze e capacità, il giovane cerca di oltrepas-sare questa fase infantile del ricevere per passare alla fase del dare. Nonsi accontenta del mondo che ha ricevuto, vuole creare il “suo mondo”. Èil momento della grande opzione di vita. È il momento in cui si disegna esi prepara la orientazione basilare da imprimere al resto della vita20.

Il pontefice descrive questo passaggio, dal ricevere al dare, dalla dipen-denza alla responsabilità, come contrassegnato da inevitabili crisi di crescita edi maturazione. Il giovane molte volte si sente incompreso, né si comprendelui stesso. Molte volte vacilla, ma sembrano destarsi in lui tutte le potenziali-tà. Questo diviene il tempo maturo per la scoperta della fede, la quale riesce adare un senso e un indirizzo ai desideri e alle aspettative dei giovani. La vitaallora appare come un dono e un grande compito.

54 Dario Di Giosia, c. p.

18 Catechesi Tradendae n. 39.19 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 1982 V/1, Discorso ai vescovi francesi, Vaticano

23/03/82, p. 975.20 Insegnamenti, 1982 V/2, Omelia della messa per i giovani, Lisbona 14/05/82, p.

1674-1675.

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Il magistero di Giovanni Paolo II coglie un ulteriore profondità nel trat-tare della giovinezza: essa è come una proprietà specifica dell’esperienza cri-stiana della vita.

Tale pensiero è semplicemente abbozzato, tuttavia appare sicuro nellamente del Pontefice. Egli invita i giovani a conservare un senso giovane delVangelo, invita a coltivare un amore genuino, un amore capace di aiutare, dicorreggere con pazienza e di perdonare:

Vorrei dirvi che è per non invecchiare che dobbiamo tenacemente ag-grapparci a Gesù e al suo annuncio. Infatti, solo l’amore, che è l’animadel Vangelo, ci permette di essere sempre giovani. Voi conoscete gli epi-sodi di violenza dei nostri giorni: quante morti causano, e quante lacri-me! Ebbene, chi produce morte non solo è vecchio, ma è già morto dal didentro. La vita, infatti, germoglia solo dall’amore e quindi da un’altra vi-ta, oppure da una morte amorosamente affrontata, come quella di Gesù21.

Facilmente si può completare il discorso, considerando come l’amorecristiano costituisce un costante passaggio di ciò che riceviamo da Dio e do-niamo al prossimo. Passare dal ricevere al dare è la tensione propria della gio-ventù, che nella prospettiva evangelica che Giovanni Paolo II traccia, assumeun significato nuovo, per cui la maturità coincide con una gioventù semprerinnovata dal dono di Dio e confermata dalla risposta donativa dell’uomo:

Il cristianesimo è la religione dei giovani. Questa non è una frase fatta,e neppure, beninteso, una affermazione esclusivistica. La Parola del Si-gnore è destinata e adatta a tutti. Essa tuttavia rivela una particolareaffinità con l’età giovanile per la sua intima virtù di ricupero e di rige-nerazione, per la sua misteriosa capacità di rapportare continuamenteil ritmo dell’itinerario spirituale sullo slancio, la generosità, l’entusia-smo che sono tipici della stagione giovanile22.

L’annuncio di Cristo

I discorsi di Giovanni Paolo II ai giovani sono caratterizzati da una ri-correnza martellante dell’annuncio di Gesù Cristo. Si resta sorpresi dal costa-

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 55

21 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso agli studenti delle scuole romane, Vaticano01/03/80, p. 495.

22 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai giovani, Brescia 26/09/82, p. 582.

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tare che anche nelle occasioni più fugaci il Papa addita il Cristo ai giovani. Lofa anche nei brevissimi saluti nelle udienze generali.

I discorsi del Pontefice hanno una natura prettamente kerigmatica, men-tre solo in alcune circostanze occasionali si profonde a trattare di temi dottri-nali con un intento catechetico. Egli sottolinea che il desiderio principale del-la chiesa è far conoscere Cristo, perché Cristo è il significato della vita. L’uo-mo che vuole comprendere se stesso deve avvicinarsi a Cristo, deve avvici-narsi nonostante la sua debolezza, le sue contraddizioni, il suo peccato.

La modalità di questo annuncio segue la sensibilità dell’uditorio, adat-tandosi, nelle espressioni e nei colori, il più possibile ai bisogni dei giovani in-contrati. Tuttavia alcuni temi restano centrali.

Fin dal suo primo incontro con la gioventù, Giovanni Paolo II traccia unprogramma di vita per loro: “Cercate Gesù, amate Gesù, testimoniate Ge-sù”23. Questa consegna, ripresa poi in altri discorsi, contiene già l’essenzialedel pensiero che svilupperà in seguito in più circostanze.

“Cercate Gesù” perché Lui solo è capace di dare un senso all’esistenza,Gesù è «la via, la verità e la vita» (cf. Gv 14,6). Cercarlo attraverso la letturadel vangelo o di testi adatti, oppure nell’ora di religione o negli incontri par-rocchiali.

“Amare Gesù” perché Gesù non è solo un’idea, una dottrina. Gesù è unapersona da incontrare, da amare e da seguire. Gesù è presente nell’eucarestia,nella chiesa, nei poveri. Queste le vie concrete per incontrarlo e amarlo.

“Testimoniare Gesù” con il coraggio e l’innocenza della fede. Perché,lamentarsi dei tempi non serve. Occorre vincere il male con il bene, rifiutan-do coraggiosamente tutto quanto è contrario agli ideali cristiani.

Nei suoi discorsi il Papa sembra seguire piste differenti che possanoportare all’incontro con Cristo. Il tema della “verità” costituisce una di questepiste, che intersecano la ricerca di giovani.

Giovanni Paolo II intercetta il bisogno di senso dei giovani rispondendoalla loro domanda di “libertà”. Egli conosce la sensibilità giovanile per questotema, e seguendo il loro bisogno di espressione di sé, della loro libertà, li ri-conduce ad una riflessione esistenziale che coglie in profondità il significatodella stessa:

Gesù stesso collega la “liberazione” con la conoscenza della verità:“conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). C’è in questa

56 Dario Di Giosia, c. p.

23 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai ragazzi e ai giovani, Vaticano 08/11/78, p. 106.

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affermazione l’intimo significato della libertà che ci dona Cristo. La li-berazione è una trasformazione interiore dell’uomo, quale conseguenzaproveniente dalla conoscenza della verità24.

Gesù Cristo è la verità di tutto l’uomo. In Lui si trova il vero amore, ilsignificato e la pienezza della vita. L’approccio esistenziale centrato sulla li-bertà e sulla verità, attraversa i discorsi del Pontefice in modo costante anchequando vuole richiamare semplicemente il concetto. In qualche occasione,poi coglie il modo di soffermarcisi più approfonditamente. La libertà è com-pito e fatica. La sua esperienza deve fondarsi sul terreno delle verità ultime,che spiegano all’uomo il senso della vita e il suo destino. Il pragmatismo im-perante nella cultura della società contemporanea, tende a ridurre la domandasulla libertà, ad una domanda sull’utilità della libertà. In questo modo la sisvuota della sua capacità di dare all’uomo un significato totale alla vita, assu-mendo come verità solo ciò che serve ai propri scopi. L’uomo si riduce a spet-tatore, prendendo il posto datogli da altri, in quel percorso di vita che limitagli ideali all’interesse per il denaro o il prestigio.

La differenza è profonda, perché là dove l’uomo rifiuta la fatica di get-tare saldamente le radici della propria libertà nel terreno della verità,proprio in quel primo atteggiamento della sua coscienza egli cominciaad ipotecare la sua stessa libertà: il suo agire morale ne risulta giàcompromesso, in quanto distorto nel suo punto di partenza e nelle sueaspirazioni. Rifletteteci: chi non vuole commisurare l’uso della proprialibertà a quella decisiva verità circa la condizione e il destino dell’uo-mo, si espone a lasciarsi inghiottire da quelli che definirei come i mec-canismi dell’adattamento sociale25.

Il Papa va ancora più in profondità, giungendo a cogliere nel nichilismoe nell’ateismo sistematico delle ideologie contemporanee, la radice di moltimali della gioventù. L’uomo viene lusingato dall’idea di una libertà senza li-miti, e una volta sottratto Dio, perde anche se stesso. Questa situazione è unacondizione di asservimento sotto il controllo del più forte, che piega l’indivi-duo alla logica della necessità e del consumismo.

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 57

24 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai ragazzi e ai giovani, Vaticano 21/02/79, p. 437.25 Insegnamenti, 1981 IV/1, Discorso ai giovani di “Univ ’81”, Vaticano 14/04/81, pp.

937-938.

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Giovanni Paolo II invita ad essere liberi in Cristo, perché Cristo è «lavia, la verità e la vita» (cf. Gv 14,6). In Lui l’uomo ritrova se stesso, il signi-ficato della vita e la libertà di esprimerla al meglio possibile. La “qualità del-la vita” è lasciarsi condurre da Gesù26, il quale solo ha «la vita in abbondan-za» (cf. Gv 10,10).

L’annuncio di Cristo ha per il Papa una dinamica educativa di rievange-lizzazione. Il suo intento è quello di far si che si passi da una fede superficia-le, di tipo sociologico-tradizionale, ad una fede fondata su una opzione perso-nale per Gesù Cristo.

Una seconda pista dell’azione evangelizzatrice del Pontefice, tracciataper l’incontro con Cristo, è la presentazione di Lui come immagine perfetta diuomo, come uomo realizzato. Tale annuncio segue la narrazione del significa-to della creazione «ad immagine a somiglianza di Dio», per cui “L’uomo pos-siede lo spirito, l’intelligenza, la libertà, la coscienza; perciò egli somigliapiù a Dio che al mondo creato”27. Nell’uomo vi è la capacità di accogliereDio, capacità che non si trova in nessun altra creatura, ma l’uomo, a causadella disobbedienza, a causa del peccato, ha perso la comunione con Dio.L’annuncio di Cristo si pone in questo orizzonte come missione di salvezza,per cui Dio stesso si è fatto uomo. Questo stretto collegamento, tra l’incarna-zione e la creazione, è annuncio dell’uomo nuovo in Cristo Gesù:

Ecco la nostra certezza: noi sappiamo che Gesù è uomo come noi, main pari tempo è il “Verbo Incarnato”, è la Seconda Persona della San-tissima Trinità diventata uomo; e perciò in Gesù la natura umana, equindi tutta l’umanità, è redenta, salvata, nobilitata fino al punto di di-ventare partecipe della “vita divina” mediante la Grazia. In Gesù cisiamo tutti; la vera nostra nobiltà e dignità ha la sua sorgente nel gran-de e sublime avvenimento del Natale28.

Il Papa invita a guardare Cristo per comprendere la vera grandezza del-l’uomo. Gesù è la misura e la scala per valutare la vita29, la pienezza dell’es-

58 Dario Di Giosia, c. p.

26 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso ai partecipanti la concorso “Univ ’82”, Vaticano06/04/82, pp. 1121-1125.

27 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai ragazzi e ai giovani, Vaticano 06/12/78, p. 290.28 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai ragazzi e ai giovani, Vaticano 27/12/78, p. 428.29 Insegnamenti, 1979 II/2, Omelia alla messa per i giovani irlandesi, Galway

30/09/79, pp. 459-460. Sullo stesso argomento: Insegnamenti, 1980 III/1, Angelus, Vaticano27/01/80, p. 201.

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sere umano. Solo in lui è possibile raggiungere l’attuazione piena delle poten-zialità dell’uomo30. Cristo, nella sua umanità, è additato dal Papa come mo-dello. Lui bisogna imitare, poiché la sua vita assume la caratteristica di iconadi interpretazione dell’esistenza, creata per la comunione con Dio:

In Gesù Cristo, che noi riconosciamo come Figlio di Dio fatto uomo,generato dalla Vergine Maria, vediamo la perfezione dell’umanità e tut-ta la bellezza della manifestazione di Dio nel mondo. È Cristo che rive-la a noi, nella sua pienezza, il significato del mondo e la dignità e il de-stino dell’uomo31.

In alcune circostanze il discorso del Pontefice tocca i punti alti della fe-de cristiana. E, partendo dalla sofferenza umana, trova occasione per un’ulte-riore messaggio di significato e di vicinanza di Dio. Egli dice che, stando uni-ti a Cristo, si superano tutte le difficoltà, poiché anche l’afflizione acquista unnuovo contenuto, e prendendo in prestito alcune parole aggiunge:

Un grande poeta francese, convertito nella sua giovinezza, Paul Clau-del, scriveva: “Il Figlio di Dio non è venuto a distruggere la sofferenza,ma a soffrire con noi. Non è venuto a distruggere la croce, ma a disten-dervisi sopra. Ci ha insegnato la via di uscita dal dolore e la possibilitàdella sua trasformazione” (Paul Claudel, Positions et propositions)32.

L’argomento però assume un maggior spessore in una esposizione, dalcarattere catechetico, fatta agli studenti universitari:

Cristo è colui che ha accettato tutta la realtà del morire umano. E pro-prio perciò egli è colui che ha compiuto un rivolgimento fondamentalenel modo di capire la vita. Ha mostrato che la vita è un passaggio, nonsolamente al limite della morte, ma a una vita nuova. Così la Croce pernoi è diventata suprema cattedra della verità di Dio e dell’uomo. Tuttidobbiamo essere alunni – “in corso o fuori corso” – di questa cattedra.Allora comprenderemo che la Croce è anche la culla dell’uomo nuovo33.

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 59

30 Insegnamenti, 1979 II/2, Discorso agli studenti, New York 03/10/79, pp. 567. Lostesso argomento: Insegnamenti, 1980 III/2, Discorso ai giovani dell’oratorio, Frascati08/09/80, pp. 582.

31 Insegnamenti, 1981 IV/1, Incontro con i giovani, Tokio 24/02/81, p. 516.32 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai ragazzi di San Basilio, Roma 11/03/79, p. 525.33 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso agli universitari romani, Vaticano 05/04/79, p. 804.

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Il tema della croce, come detto, non appare preponderante nell’annun-cio di Cristo ai giovani, annuncio che il Pontefice non tralascia mai di fare.Giovanni Paolo II predilige la proclamazione di Cristo «via, verità e vita» e diGesù “rivelatore della dignità umana creata ad immagine di Dio”.

L’annuncio di Giovanni Paolo II segue ancora altre modalità particolari.Modalità tendenti a cogliere la dimensione affettiva della persona, più chequella, innanzi evidenziata, della razionalità. In più occasioni ribadisce che:“Il Cristianesimo non è soltanto una dottrina: è prima di tutto una Persona:Gesù Cristo, che deve essere amato e in conseguenza imitato …”34.

Il Papa esorta all’incontro con Gesù attraverso la sua Parola, attraversola liturgia, come anche, nel periodo estivo, attraverso le esperienze di ritiro edi pellegrinaggio.

La chiesa e i suoi ministri, dispensatori della grazia nei sacramenti, so-no il luogo privilegiato dell’incontro con Cristo e, strettamente legata ai sa-cramenti, lo è la preghiera:

È nella preghiera che veniamo a conoscere Dio: a scoprire la sua presen-za nella nostra anima, a sentire la sua voce che parla attraverso la nostracoscienza, e a far tesoro del dono che egli ci fa della responsabilità per-sonale per la nostra vita e per il nostro mondo. Attraverso la preghieranoi siamo resi capaci di una più limpida percezione della persona di Ge-sù Cristo e della totale aderenza del suo insegnamento alla nostra vita35.

Il Pontefice parla diffusamente della preghiera in alcune occasioni, do-ve l’argomento viene esposto come un tema di catechesi. La preghiera costi-tuisce sempre l’orizzonte dell’incontro con Cristo, il rimando necessario,quando l’invito alla fede diviene rapporto dialogico con la presenza di Cristo,con la sua Parola che interroga.

L’icona di questo dialogo, icona cara a Giovanni Paolo II, è la pagina evan-gelica del giovane ricco. In questo episodio egli individua delle costanti, dellequestioni di fondo. Dappertutto i giovani si pongono importanti quesiti: quesitisul significato della vita, sul retto modo di vivere, sulla vera scala dei valori:«Cosa devo fare? Cosa fare per conseguire la vita eterna? » (cf. Mc 10,17) 36.

60 Dario Di Giosia, c. p.

34 Insegnamenti, 1979 II/2, Discorso ai vincitori del “Concorso Veritas”, Vaticano25/11/79, p. 1240.

35 Insegnamenti, 1982 V/2, Discorso ai giovani del Galles, Cardiff 02/06/82, p. 2099.36 Insegnamenti, 1979 II/2, Omelia al Boston Common, Boston 01/10/79, p. 517.

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Il Papa evidenzia che questi interrogativi, sono il segno che i giovaniportano in se stessi una speciale apertura a tutto quanto è buono e vero. Unaapertura che rivela lo Spirito umano. In essa l’uomo può ritrovare se stesso,perché grazie ad essa può sperimentare l’amore di Cristo. Questa fu l’espe-rienza del giovane del Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: … vieni eseguimi» (cf. Mc 10,21). Giovanni Paolo II invita a rispondere alla chiamatadi Cristo, invita a scegliere Cristo:

Il messaggio di amore portato da Cristo è sempre importante, sempreinteressante. Non è difficile vedere come il mondo odierno, nonostantela sua bellezza e grandezza, nonostante le conquiste della scienza e del-la tecnologia, nonostante i ricercati ed abbondanti beni materiali cheoffre, è bramoso di più verità, di più amore, di più gioia. E tutto ciò sitrova in Cristo e nel suo modello di vita37.

La risposta negativa del giovane del Vangelo induce a riflettere: «andò viatriste, perché aveva molti possedimenti». Le ricchezze diventano un impedi-mento alla vera felicità. Il Papa dice che occorre dire si all’amore e no alla fuga:“Il vero amore è esigente. (...) L’amore richiede sforzo e impegno personale nelcompiere la volontà di Dio. Significa disciplina e sacrificio, ma significa puregioia e realizzazione umana38. Non bisogna aver paura, con l’aiuto di Cristo, at-traverso la preghiera, si può rispondere alla chiamata, resistendo alle tentazioni,agli entusiasmi passeggeri, e alle manipolazioni di massa. Occorre aprire il cuo-re al suo amore, alla sua gioia. Non andare via tristi.

Parlando ai giovani di Francia, il Papa riprende il tema, e approfondisce“l’amore esigente”, allacciando le richieste dei comandamenti e della sequeladi Cristo alla dignità della persona umana: l’uomo può essere felice solo nellamisura in cui è capace di accettare le esigenze che la propria umanità, la suadignità d’uomo gli impongono. Quelle esigenze che Dio stesso gli impone39.

Seguendo il discorso, Giovanni Paolo II torna ancora sul tema di “ama-re Gesù”, già annunciato nel suo primo incontro con i giovani. In questa oc-casione, però, il discorso è direttamente collegato con il commento al branodel giovane ricco, ed in particolare alle parole culminanti dell’episodio: «vie-ni e seguimi». Queste parole – dice il Pontefice – significano che non si puòimparare il cristianesimo come una lezione composta da capitoli numerosi e

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 61

37 Idem.38 Idem, p. 518.39 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso alla veglia dei giovani, Parigi 01/06/80, p. 1622.

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diversi ma che lo si deve associare sempre ad una persona, ad una personaviva: Gesù Cristo40.

Il coinvolgimento ecclesiale

Giovanni Paolo II si sofferma talvolta a raccontare episodi della sua vi-ta. Racconti che hanno il sapore della familiarità, del farsi vicino, comunican-do qualcosa di se41. Questo atteggiamento, strettamente legato alle parole difiducia che infonde nei giovani, ha fatto del Papa un personaggio molto ama-to. Familiarità, stima, immediatezza, hanno un effetto certamente coinvolgen-te nei giovani. Ma il Pontefice non si limita a legarli a se, vuole anche avvici-narli tra loro e alla chiesa.

Egli opera un’animazione, tendente all’approfondimento della parteci-pazione alla vita ecclesiale. Attraverso la sua persona, nella narrazione degliepisodi che lo vedono a contatto con i giovani, Giovanni Paolo II crea unacondivisione, che non mancherà di far maturare appartenenza.

Prima del viaggio in Messico, ad esempio, parla ai ragazzi nella Basili-ca vaticana della sua prossima partenza. Li invita a pregare per lui, come luipregherà per loro42. I giovani seguiranno certamente le vicende del viaggio, ein qualche modo si sentiranno coinvolti, partecipi degli eventi. Con la stessadinamica, una volta in Messico, invita i giovani messicani a raccontare agliamici ciò che hanno sentito dal Papa43. E, in un ideale continuum operativo,tornato in Italia, racconta ai giovani la sua esperienza con i giovani messicani,mandando a questi ultimi dei saluti44.

Si tratta di una specie di narrazione, che ogni volta coinvolge personedifferenti in un unica grande storia. Così ai giovani polacchi racconterà deigiovani romani e messicani45, e seguendo il ciclo visto per il viaggio in Mes-sico, ripeterà il suo invito ai giovani irlandesi, appena incontrati a Galway, aseguirlo con la preghiera nel viaggio in USA e alle Nazioni Unite46. Questa

62 Dario Di Giosia, c. p.

40 Idem, p. 1623.41 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai giovani, Vaticano 27/12/78, p. 427.42 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai giovani, Vaticano 24/01/79, p. 112.43 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai giovani cattolici, Città del Messico 30/01/79, p.

266.44 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai giovani, Vaticano 07/02/79, pp. 355-356.45 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso agli universitari, Cracovia 08/06/79, pp. 1496-1498.46 Insegnamenti, 1979 II/2, Omelia alla messa per i giovani irlandesi, Galway 30/09/79,

p. 462.

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dinamica si ripete costantemente, così anche i giovani americani sentirannoparlare dei giovani romani, messicani, polacchi e infine irlandesi47.

Tale narrazione avvicina idealmente i giovani di luoghi differenti e talvol-ta molto distanti, facendoli sentire parte di una famiglia che ha nel Papa il suocuore. Una comunione che il Pontefice arricchisce anche di gesti semplici, co-me i saluti che farà ai giovani portoghesi da parte dei giovani francesi48; oppu-re, talvolta in occasioni particolari come la guerra, mediante messaggi di pace49.

Al senso di appartenenza, Giovanni Paolo II aggiunge pennellate de-scrittive della chiesa ed inviti espliciti ad aderirvi senza riserve. La chiesa èsposa chiamata a ringiovanire; la chiesa è popolo di battezzati di tutte le na-zioni e culture. Ma soprattutto il Papa inviterà i giovani a vivere l’esperienzadi chiesa attraverso gli oratori, i centri giovanili, e i movimenti ecclesiali. Es-si sono “scuola di partecipazione alla vita della chiesa”50.

Più volte il Pontefice tornerà sull’importanza dei movimenti per la for-mazione e l’apostolato dei giovani. Condivide l’opzione dei vescovi francesidi sceglierli per la loro gioventù51; ne parla al Pontificio Consiglio per i Laici.Il Pontefice vede nei movimenti un dono dello Spirito, anche se non omette diconsiderarne i limiti:

Nella loro diversità, essi portano un prezioso contributo alla realizza-zione della missione della Chiesa. Sono un luogo in cui giovani e adultifanno esperienza della Chiesa, si aiutano a vivere da cristiani in unmondo poco credente e, fortificando la loro fede e la loro appartenenzaecclesiale, si preparano ad un dialogo apostolico. Perché essere apo-stoli oggi suppone un’identità cristiana solida. I differenti movimentinon sono sufficienti a sé stessi. Essi devono riconoscere la complemen-

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 63

47 Insegnamenti, 1979 II/2, Omelia, Boston 01/10/79, p. 516; Ancora si ripeterà, facendol’elenco di tutte le nazioni dove ha avuto occasione di incontro con i giovani: Insegnamenti, 1982V/1, Discorso in Gabon, Libreville 18/02/82, p. 611.

48 Insegnamenti, 1980 III/2, Omelia alla messa dei giovani, Belo Horizonte 01/07/80,p. 10.

49 Insegnamenti, 1982 V/2, Omelia, Buenos Aires 12/06/82, p. 2232 Ai giovani argentiniporta messaggi di pace dei giovani inglesi. L’occasione è dettata dalla guerra alle isole Fal-kland/Malvinas..

50 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai giovani, Padova 12/09/82, p. 437.51 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai vescovi della Francia, Vaticano 09/10/82, pp.

741-748.

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tarietà che esiste tra tutte le forze vive della Chiesa e collaborano con lestrutture postconciliari, cioè i Consigli pastorali a tutti i livelli52.

Giovanni Paolo II è consapevole soprattutto del rischio che i movimen-ti vadano a costituire una forma di chiesa elitaria, che non si raccorda adegua-tamente all’istituzione chiesa nella sua complessità. E in una occasione in par-ticolare ne parlerà diffusamente ai giovani.

La possibilità è data da una veglia di preghiera promossa dalla comuni-tà di Taizé, in cui i giovani stessi chiedono al Papa dell’opportunità di inserirei loro gruppi, di indole contemplativa, nella vita parrocchiale. Il Pontefice in-coraggerà fortemente questa opzione, poiché essa permette la circolarità deicarismi all’interno dalla Chiesa ed evita il ripiegamento su se stessi che i mo-vimenti possono produrre. Della vita parrocchiale, poi, ricorderà di aver par-lato in Catechesi Tradendae (n. 67); testo in cui si descrive l’istituzione comeluogo di accoglienza di tutto il Popolo di Dio53.

Il Papa, inoltre, ha presente un processo di socializzazione, che ha nellafamiglia la sua origine; quale luogo di confidenza, dialogo, educazione ai va-lori e accompagnamento verso le comunità educative più ampie della famigliastessa54. Il passaggio alla scuola e alla parrocchia, «officine» di preparazionea compiere la volontà di Dio55, diventa così anche una naturale disposizionedel giovane al successivo confronto con la società. Il Pontefice, però, ha pre-mura di creare identità di appartenenza ecclesiale, adesione affettiva alla chie-sa. Quindi non soltanto parla di chiesa come luogo educativo, ma invita co-stantemente alla partecipazione alla sua vita e alla sua missione, indicando inquesto un segno necessario della maturità della fede: Dove l’appartenenza al-la Chiesa, alla sua vita e al suo magistero, è soltanto formale e l’uomo rima-ne attaccato al suo individualismo, non può accadere il prodigio di una per-sonalità integralmente cristiana56.

64 Dario Di Giosia, c. p.

52 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso al Pontificio Consiglio per i Laici, Vaticano12/10/82, pp. 806-807.

53 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai giovani europei, Vaticano 30/12/82, pp. 1712-1724.

54 Insegnamenti, 1978/I, Discorso ai partecipanti al III Convegno Internazionale dellaFamiglia 30/10/78, pp. 80-82.

55 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso ai giovani, Vaticano 05/03/80, pp. 514-516.56 Insegnamenti, 1982 V/1, Discorso ai partecipanti al Congresso UNIV 82, Vaticano

06/04/82, p. 1124.

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I temi catechetici

I discorsi di Giovanni Paolo II non sono casuali. Il suo magistero ai gio-vani non è occasionale, dato semplicemente dalle circostanze, ma il frutto diun progetto di pastorale giovanile che, anche se non esplicito, è ben presentenelle sue intenzioni. Ciò è dimostrato dal fatto che ricorrono, nei suoi discor-si, citazioni di pronunciamenti fatti in precedenza ad altri giovani57; evidentesegno di una attenzione magisteriale particolareggiata per la gioventù. Comein un archivio ideale, il Papa ha ben presente non solo i luoghi e le occasioniin cui ha incontrato i giovani, ma anche gli argomenti che ha trattato con essi.Dimostra, così, di seguire un programma o delle linee direttrici, i cui sviluppinon tarderanno a dare frutti abbondanti.

I temi trattati dal Pontefice sono in gran parte dovuti al tempo liturgico,o a feste particolari. Così, in avvento e nel tempo di Natale parla di Gesù co-me nuovo Adamo, e della contemplazione dell’incarnazione come hanno fat-to i pastori e i magi; in quaresima parla dei temi propri della penitenza: pre-ghiera, digiuno, elemosina. Allo stesso modo nelle feste mariane o all’iniziodel mese di maggio invita alla recita del rosario e alla devozione a Maria.

Talvolta l’argomento è caratterizzato dalla particolarità dell’uditorio: inSud America parla di giustizia sociale, in Messico di impegno per la scolarizza-zione dei giovani, in Africa della necessità di conservare la cultura locale, ecc.

Altre volte, invece, il Papa ricorre ad un metodo che dice di aver appre-so nella sua esperienza di predicazione: il metodo delle domande! Rispondealle domande dei giovani francesi58, dei giovani giapponesi59, con i giovanieuropei riuniti nella Basilica vaticana60.

Le occasioni, in cui Giovanni Paolo II si rivolge ai giovani, sono date prin-cipalmente dalle udienze del mercoledì, delle visite pastorali e dai viaggi apo-stolici. Come già evidenziato l’intento fondamentale del Pontefice è l’annunciodi Cristo, anche se, alcune situazioni si sono maggiormente prestate ad un tipo di

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 65

57 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso agli universitari, Cracovia 08/06/79, pp. 1498-1499;1979 II/2, Discorso ai chierici del seminario romano, Vaticano 13/10/79, pp. 744-745; 1979 II/2,Udienza generale, Vaticano 17/10/79, pp. 774-775; Insegnamenti, 1980 III/2, Discorso ai giova-ni, Frascati 08/09/80, p. 582.

58 Insegnamenti, 1980 III/1, Discorso alla veglia con i giovani, Parigi 01/06/80, pp. 1617-1629.

59 Insegnamenti, 1981 IV/1, Incontro con i giovani, Tokio 24/02/81, pp. 518-525.60 Insegnamenti, 1982 V/3, Discorso ai giovani europei, Vaticano 30/12/82, pp. 1712-

1724.

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discorso più organico, su temi specifici quali la libertà, il bisogno di senso, lapreghiera, l’incarnazione, i doni dello Spirito, il Regno di Dio, l’amore.

Sono da evidenziare anche la ricercatezza delle citazioni, che il Papausa fare. Abbiamo già riportato il brano di Paul Claudel, ma tra i preferiti c’èanche Pascal, di cui sceglie mirabilmente una meditazione sull’uomo:

“L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una can-na pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo:un vapore, una goccia d’acqua bastano per ucciderlo. Ma, quand’anchel’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di ciò che louccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha sudi lui: l’universo non ne sa nulla” (Pascal, Pensieri, 347)61.

C’è anche Raissa Maritain, della quale il Papa riferisce una riflessione suldramma della mancanza di senso, che la scrittrice aveva provato in gioventù:

“Tutto diventava assurdo e inaccettabile... L’assenza di Dio spopolaval’universo. Se dobbiamo rinunciare a trovare un senso qualunque alla pa-rola “verità”, alla distinzione del bene e del male, del giusto e dell’ingiu-sto, non è più possibile vivere umanamente. Non volevo saperne di unatale commedia - dice la scrittrice -. Avrei accettato una vita dolorosa, nonuna vita assurda... O la giustificazione del mondo era possibile, ed essanon poteva farsi senza una conoscenza veritiera; o la vita non valeva lapena di un istante di attenzione”. E concludeva con drammatico realismo:“Quest’angoscia metafisica che penetra alle sorgenti stesse del desideriodi vivere, è capace di divenire una disperazione totale e di sfociare nelsuicidio” (I grandi amici, Vita e Pensiero, Milano, 1955, pp. 73-75)62.

La ricercatezza di tali citazioni, su temi cari all’uditorio giovanile, mo-stra ancora una volta tutta l’attenzione del Pontefice per i giovani. Citazioni diquesto tipo abbondano soprattutto in quel terreno di dialogo tra fede e ragio-ne, su cui il Papa si muove talvolta per incontrare idealmente i dubbi e le pau-re dei suoi interlocutori.

66 Dario Di Giosia, c. p.

61 Insegnamenti, 1979 II/1, Discorso ai giovani, Vaticano 21/02/79, p. 438.62 Insegnamenti, 1980 III/2, Omelia ex drogati, Castel Gandolfo 09/08/80, pp. 347.

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L’attitudine connaturale all’evangelizzazione

Tra le responsabilità, che il Pontefice esorta ad assumere, un posto par-ticolare è riservato alla testimonianza della fede. Fin dal suo primo discorsoha invitato i giovani a testimoniare Gesù, rifiutando parole, gesti e atteggia-menti non conformi alla fede cristiana. Ma le esortazioni di Giovanni Paolo IIvanno anche oltre. Costantemente torna a chiedere una testimonianza coeren-te e generosa; una testimonianza da portare nelle famiglie, nelle scuole, nellepiazze. Invita alla disponibilità per le attività parrocchiali e diocesane, a colla-borare con ogni mezzo alla diffusione del vangelo. La confessione della fededeve essere fatta apertamente, senza imbarazzo. Gli altri giovani hanno biso-gno di questa testimonianza, hanno bisogno di incontrare Gesù attraverso icredenti, e la chiesa attende dai giovani cattolici questo servizio.

I giovani devono essere i primi apostoli dei loro coetanei, poiché chia-mati a partecipare della missione di Cristo. La fiducia del Papa per i giovani simanifesta in modo particolare su questo argomento, giungendo ad indicarenella gioventù una qualità peculiare dell’evangelizzazione:

Soprattutto, cari giovani, […], possedete una attitudine quasi connatu-rale per evangelizzare. Perché l’evangelizzazione non si fa senza l’entu-siasmo giovanile, senza la giovinezza del cuore, senza un insieme diqualità delle quali la gioventù è prodiga: gioia, speranza, trasparenza,audacia, creatività, idealismo... Sì, la vostra sensibilità e la vostra ge-nerosità spontanee, la tendenza verso tutto ciò che è bello, fanno diognuno di voi un “alleato naturale” di Cristo63.

Conclusioni

Sono presenti, già in questa prima parte del pontificato, tutti i presuppo-sti dell’intensa esperienza delle Giornate Mondiali della Gioventù, che a bre-ve prenderà vita sulla scena internazionale. Già in un incontro giovanile, nelviaggio in Spagna del 1982, Giovanni Paolo II ha visto la partecipazione dipiù di 500mila giovani64.

L’annuncio di Cristo nel magistero di Giovanni Paolo II ai giovani 67

63 Insegnamenti, 1982 V/2, Omelia della messa per i giovani, Lisbona 14/05/82, pp.1680.

64 Allo stadio Santiago Bernabéu di Madrid; Insegnamenti, 1982 V/3, Udienza generale,Vaticano 17/11/82, p. 1299.

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Il Papa li ha cercati in tutte le occasioni che il ministeri petrino gli offri-va. Ha saputo cogliere un loro bisogno di attenzione, e ha costantemente pro-clamato Gesù Cristo quale risposta alle loro domande di vita. La sua fiducianei loro confronti, la capacità di coinvolgerli in una appartenenza ecclesialedinamica e militante, già lascia intravedere lo spessore di un rapporto di ami-cizia che andrà sempre più in crescendo negli anni.

Ovviamente il successo del Pontefice con i giovani, non è da ridursi aduna tecnica. Il Papa non recita, i suoi atteggiamenti sono naturali. La grandecarica di umanità, che caratterizza i suoi gesti, sono parte della sua persona, esi manifesta in tutte le occasioni e con persone di ogni età.

La sua capacità di creare amicizia ed empatia, però, non sarebbero an-cora nulla se non nel complesso di una grande coerenza di vita. Giovanni Pao-lo II ha subito nel 1981 un attentato, che ha mostrato al mondo intero i rischiconnessi alle lotte che portava coraggiosamente avanti.

I giovani hanno certamente colto la simpatia del Papa polacco, ma han-no anche costatato, giorno dopo giorno, la dedizione e l’impegno di un gran-de testimone.

The Proclamation of Christ in the magisterium of John Paul II toYung People (1978-1982)

by Dario Di Giosia c. p.

The article is based on a survey regarding John Paul II's personalrelationship with young people in the years even prior to the contents ofhis outreach to youth. We see a positive relationship full of hope, not pes-simism. He stressed the positive nature of the years of youth. Based on thisthe pope proclaims his message: Christianity is the religion of young peo-ple. Seek Jesus and love him passionately. Seek truth and you will findfreedom, you'll enjoy mankind's redemption, you'll be open to prayer andyou in turn will become capable of evangelizing others. It's worth noticingthat these attitudes and proclamations were already present in the veryfirst years of John Paul II's pontificate.

68 Dario Di Giosia, c. p.

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ROBERTO A.M. BERTACCHINI SAPCR 22 (2007) 69-87

Le XXI “spade” della via MariaeUna rilettura inedita del suo itinerario spiritualedall’infanzia alla croce

di ROBERTO A. M. BERTACCHINI

Terza parte di un articolo pubblicato in SapCr XXI (2006), 291-312 e 415-429.

La sedicesima spada arriva con il grande discorso di Cafarnao, riportatoda Gv 6. Che Maria fosse o no presente, le arrivò comunque presto: ed ellaben comprese il senso delle parole sono il pane disceso dal cielo. Il suo Gesùmangiato dagli uomini! Piuttosto avrebbe voluto darsi lei miliardi di volte incibo. E sente su di sé quei morsi che si preannunciano sulle carni e già sull’a-nima dell’Agnello. Questa ferita si riaprirà con le parole di Gesù: «io sono laverità, la via e la vita».1 Per essere via bisogna farsi calpestare. E per Mariapensare il suo Gesù calpestato è un incubo. Lei, che in casa andava a piediscalzi per non svegliarlo! E non i suoi santi piedini nudi, ma i nostri rozziscarponi chiodati lo avrebbero calpestato… Uno spasimo: calpestato e sbra-nato. Come non ricordare il salmo?

Un branco di cani mi circonda,mi assedia una banda di malvagi;hanno forato le mie mani e i miei piedi [Sal. 22, 17]

E siamo ormai alla passione. Nell’orto infatti – diciassettesima spada –l’impensato avviene: Gesù deve lottare per accettare la volontà del Padre. Vi èun conflitto tra la sua volontà e quella paterna. Maria non c’era fisicamente, co-me non era presente alle tentazioni. Ma – di nuovo lui! – Lc 22, 41 precisa cheGesù si allontana dai discepoli quanto un tiro di sasso e tornato presso di loro litrova addormentati. Due elementi che alludono a una plausibile fonte terza, siaperché non si dice che Gesù gridasse, come farà in croce (e dalla distanza di un

69

1 Gv 14, 6.

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tiro di sasso, probabilmente separato anche dalla vegetazione, discepoli sonnac-chiosi difficilmente lo sentirono). In più abbiamo i dettagli lucani del sudore disangue, poco riferibili a testimoni oculari, che non è detto siano necessariamen-te interpolazioni tardive. Possiamo perciò pensare che in preghiera Maria abbiavissuto con Gesù le sue battaglie, e che forse proprio lei gli abbia ottenuto il con-forto angelico. Maria così è coinvolta nella tragedia della lotta trinitaria, dove ilPadre e il Verbo si annichiliranno entrambi nello Spirito. In una sua meditazionesulla morte, Chiara Lubich dice che l’amore ha l’ultima vittoria. E riprendendo-ne il pensiero, Giuseppe Zanghì chiosa: «Uscendo da sé Parola nell’esser tuttodetto dal Padre, il Logos dice il Padre in un Altro che non è Parola e che non è ilPadre».2 Io direi che entrambi «dicono» il proprio essere Amore, col linguaggiodell’Amore, ossia con un gesto proporzionato all’assolutezza dell’Amore stesso.E questo gesto è la morte, la volontà di morte (se il seme non muore…).3

Sul piano cristologico la cosa è evidente, perché Giovanni volutamentecorrela la morte di Gesù e l’emissione dello Spirito (cfr nota 25). Sul pianotrinitario lo è un po’ meno. Ma, nota ancora Zanghì appena prima: «Oggi, nel-la teologia la “dinamica” delle Persone divine è sempre più compresa comeamore, chenosi intratrinitaria».4 Ma se Gesù rivela il Padre (Gv 14, 9ss), nellasua morte rivela una morte reale del Padre, anche se è vero che nella vita eter-na la morte ha note solo parzialmente assimilabili a quelle della morte corpo-rea. Altra cosa è che in Gesù vi siano due nature, tutt’altra è che vi sia una so-la persona. Ed è appunto la persona che muore. Durante la preghiera nell’or-to, Maria forse non avverte ancora tutta la TRAGEDIA DIVINA, ma essa ini-zia a penetrare in lei con violenza. Vorrebbe morire al posto di, e non può. Maspiritualmente ella è in agonia, esattamente come Gesù e come il Padre.

Poi il tradimento di Giuda, diciottesima spada. È il messia tradito dal di-scepolo, il Figlio tradito dall’amico, Dio tradito dalla sua creatura amata.5 E

2 G. M. ZANGHÌ, «“Vivere in Cristo la vita trinitaria per trasformare la storia”: per unnuovo paradigma culturale (NMI 29)», in Path, 2005/1, p. 132.

3 Cfr Gv 12, 24.4 G. M. ZANGHÌ, «“Vivere in Cristo…», cit., p. 131.5 Oggi il tradimento è divenuto normale: prima in letteratura, poi nella vita, poi in una

sensibilità etica degenerata. È divenuto normale, perché si è perso il senso dell’amore e dellasua sacralità. Ma tradire non è normale: è quanto di più contrario allo Spirito possa esservi. E,quello di Giuda, è un tradimento voluto, e controremunerato di 30 danari d’argento: il prezzo diun podere. Le lenticchie di Esaù impallidiscono al confronto. Quel peccato in Giuda ritorna, etremendamente aggravato. Se si tradisce l’affetto, che resta? E se si tradisce persino l’affettoperfetto di Dio, cosa mai non sarà tradito?

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anche Maria si sente tradita sia in Gesù, sia da quel discepolo che pure comealtri aveva accolto nella propria casa. Tradimento della sua accoglienza, masoprattutto di Dio e dell’accoglienza del messia. In quel tradimento vi è laspada di ogni altro. Tutti i tradimenti della Storia si concentrano in una massaspirituale infinita la cui punta è il bacio di Giuda. E quel bacio penetra comeuna freccia avvelenata nel cuore purissimo di Maria. Un fiume di veleno tal-mente acido, che sarebbe bastato un bruscolo per provocare ribellione. Comeabbia fatto la Vergine a non ribellarsi, è difficile immaginare. Beati i puri dicuore, perché vedono Dio. Al-Hallagj anche nel martirio continuava a con-templare il Santo. Maria sente la trafittura, sente tutto. Agonizza, ma va oltre,restando fissa con l’attenzione su Gesù, e sul suo perdono che la difende daquella fiumana col controfiume del torrente di Fuoco divino. Gesù non tradi-sce, resta fedele al patto: per me stesso giurai. È la fedeltà di Dio che s’im-mola al suo popolo.

Poi catturano Gesù, e le diciotto spade si agitano tutte insieme. Soprat-tutto è la spada di Simeone che la devasterà nelle battiture e nella crocifissio-ne. Ma il malanimo del popolo non fu leggero, quel malanimo che già avevasentito in Erode, e poi nei notabili di Nazareth. E cosa avrà provato al grido:«Ho sete!»6? Quante volte Gesù aveva avuto sete, ma si era potuto in qualchemodo rimediare! E ora non c’era né acqua né latte per quel Figlio. La spadadei disagi si rifà violenta, e nessuna trafittura le è risparmiata. Arrestano Gesùe i discepoli evaporano; Pietro lo segue da lontano, come può, ma quando sen-te la propria vita a rischio lo rinnega. E tutto questo sommerge Maria comeuna valanga maleodorante in una lapidazione impietosa della sua anima, ope-rata dall’accumularsi delle pietre di tutte le durezze, le grettezze e le crudeltàdella Storia. E Maria agonizza…

Ma all’incoronazione di spine è la diciannovesima spada: il messia con-dannato,7 e poi irriso dal suo popolo, Dio irriso dagli uomini. È l’antitesi tra

6 Gv 19, 28.7 Questa non è ancora la damnatio ad crucem, e più o meno consapevolmente siamo

portati a depotenziarne il significato. Occorre invece tener presente che la flagellazione era pe-na così tremenda che in seguito a essa non di rado qualche schiavo moriva, anche dopo diversigiorni di agonia; e che Roma la riteneva così crudele da proibirne l’irrogazione ai propri citta-dini. In più c’è il problema teologico: perché Dio si lascia condannare? Perché ratifica la con-danna? Forse qualche luce viene dalla considerazione del peccato metafisico (lacerazione del-l’unum). Esso infatti è tale per cui anche se uno solo ne fosse colpevole, di fatto TUTTI ne pa-gano la conseguenza. Se l’unum è rotto, nessuno può chiamarsi fuori e dire: io non c’entro. Sipotrebbe dunque pensare che Dio ratificando la propria condanna assuma su di sé il peso della

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sapienza e insipienza, che molte volte torna nella Scrittura. Il beffardo è il ti-po dell’insipiente, che cade sotto l’ira divina.8 Ma qui tutto si rovescia. È laSapienza che si lascia irridere, che tace – Maria conosceva benissimo i silen-zi di Gesù, e comprende che quel silenzio è diverso: è il Verbo di Dio che ta-ce, perché muore –,9 che attira su di sé l’ira divina. Per fedeltà al suo popolo,Dio si mette dalla parte sbagliata, dalla parte dei peccatori. E per stornare lasua ira dai suoi figli, la rivolge a sé, «distruggendosi» per Amore, «distrutto»dal proprio Amore assoluto. Questo è il senso del perdono e della «morte»/ke-nosi nello Spirito Santo del Padre e del Verbo.10

Il perdono divino è dunque un atto – incondizionato e libero – di morte. Eper primo muore il giudizio retributivo: Dio è innocente, ma assume su di sé lacolpa. E Maria, sommersa dal mare di empietà della Storia, affonda. Ma affon-da con Dio, nello Spirito. È in questo scenario che alle parole: «Madre, ecco tuofiglio. Figlio, ecco tua madre»,11 il cuore le si spacca da cima a fondo, come ilvelo del Tempio poco dopo. In un solo modo gli uomini avrebbero potuto dive-

rottura dell’unum. Questo assumere è allora salvarci, è ripristinare la solidarietà universale. So-lo che non è lo stesso riconoscere che quando l’unum è rotto si è tutti «colpevoli» – e questo èil giudizio dello Spirito Santo – oppure chiamarsi fuori, e isolare in un Terzo la responsabilità.Facendo questo si va contro la Verità, contro la Giustizia, contro la Carità. Una tale condannaassume allora il senso del peccato teologale: ed è ciò che si realizza appunto nella condanna diGesù, sia perché Dio ne è oggetto, sia per il modo di essa (trasferimento di responsabilità). So-lo l’odio cieco può arrivare a tanto. E infatti la condanna di Gesù è propriamente satanica. Mase gli uomini non sapevano ciò che facevano, invece Maria ben capiva la tragedia che si stavaconsumando nella Storia. Il peccato teologale stava perfezionando il peccato metafisico, to-gliendo ad esso ogni possibile accidentalità. Ed è appunto il peccato teologale il vertice e lafonte di tutti i mali. Se la colpa è solo di Dio, in chi giudica non c’è Amore, né Giustizia, né Ve-rità. In questo ripudio egli crea l’inferno per sé e lo propaga in coloro che restano sedotti dalsuo giudizio. Questa la tragedia che Maria vede, la spada che la sconvolge.

8 Cfr per es. Pr 3, 34; 9, 7; 14, 6; 2Pt 3, 3.9 Il Verbo non aveva alternative: o morire o creare. Ma per amore di Satana la seconda

via è preclusa: con essa avrebbe usato la potenza divina prevaricando la libertà creata e renden-done vera l’accusa/tentazione. E questo è l’aspetto più difficile da comprendere dell’Amore in-finito di Dio e della sua fedeltà, perché Satana – facendo leva sul nostro egocentrismo – lo usacontro di noi suggerendone l’interpretazione sbagliata: se fosse Amore Dio non permetterebbela sofferenza innocente, la crudeltà, il male…

10 Questa rilettura teologica rende anche ragione dell’attaccamento cattolico al filioque.Infatti la spirazione sarebbe l’effetto di una doppia kenosi, ossia del Padre e del Verbo, che conessa evidenziano l’essere Amore di Dio.

11 Gv 19, 26.12 Cfr Corano, 23, 50.

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nire Figli di Dio: essendo da lei rigenerati. E, per esserlo, Maria doveva non so-lo essere spogliata della maternità divina, come ai dodici anni di Gesù; ma lamaternità divina doveva essere sostituita con un’altra maternità: quella dellaChiesa. Al posto di. Questa la ventesima spada. Ed ella risponde con l’adesionea una maternità universale, ossia a quella degli assassini del proprio Figlio, deitraditori di Dio, dei beffardi che irridono lo Spirito e la Sapienza (cfr nota 8).Non si rifiuta a nessuno: è l’asse (XIX) dell’assimilazione sacramentale al Pa-dre (Maometto dirà – in polemica coi giudei che la calunniano come adultera –che Maria è signum Dei).12 Così fa di se stessa l’immagine perfetta del Padre,perché come lui e insieme a lui dà il proprio e medesimo Figlio per la salvezzadi tutti gli altri, e se stessa in olocausto spirituale.13

Poi Gesù muore abbandonato da Dio (Mc 15, 34) e dagli uomini, ed è laventunesima spada, che Giovanni simbolizza nel grande grido di cui parla.Anche questa è una spada complessa, da esaminare con calma. In primo luo-go Marco e Matteo sottolineano un dettaglio: gli astanti credono che Gesùchiami Elia. Cioè non capiscono, fraintendono. Chi invece sicuramente com-prese assai bene fu Maria, ed è certamente a lei che dobbiamo la retta inter-pretazione di quelle parole, dato che né Matteo né Marco erano presenti. Eforse chi fraintese fu qualcuna delle discepole, ossia una persona buona.14 Ilsenso teologico di tutto ciò è molto profondo, e ha radice in Gv 1, 1: se lo stes-so Verbo di Dio è frainteso dagli uomini – non dunque un semplice profeta! –significa che l’autocomunicazione di Dio ai suoi figli è radicalmente proble-matica, e che la via della parola è insufficiente. E infatti Gesù fa di più: fa ilgesto assoluto dell’amore, dando la propria vita.

Dopo la sua morte i discepoli cominciano a capire. E qui giocano duefattori: la risurrezione e – soprattutto – la compunzione di cui Luca ci dà trac-cia in Atti 2, 37: alle parole di Pietro gli astanti katenúghesan, si sentirono tra-

13 Se Maria è sacramento del Padre, in qualche modo sia le sue ferite, sia le sue risposteamorose dicono qualcosa del Padre, e anche di molto intimo. Fin qui, però, la teologia ha bat-tuto poco questa pista, che tuttavia potrebbe essere illuminante.

14 Questo è un punto importante sia sotto il profilo teologico che ascetico. Infatti il frain-tendimento è una nota caratteristica del discepolato prepasquale, così come è presentato daiVangeli. La teologia giovannea rimarca il punto più volte: in Gv 2, 18s Gesù parla del suo cor-po, e gli astanti fraintendono; poco dopo è Nicodemo che non capisce, ed era un fariseo, proba-bilmente membro del sinedrio (cfr Gv 3, 1): come si vedrà dal seguito, una persona buona e nonintellettualmente rozza (cfr Gv 3, 10). Al cap. 4 prima è la samaritana che fraintende, e poi i di-scepoli che pensano che qualcuno gli abbia portato da mangiare. E il fraintendimento dura finoalla fine: quando Gesù dice che Lazzaro dorme i discepoli non comprendono che è morto, ecc.

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fitti. E questa è appunto – in piccolo – la trafittura di Maria: ed è in questa tra-fittura prodotta dall’amore il principio del superamento del fraintendimento.Torniamo dunque a lei: se i buoni fraintendono il Verbo di Dio, che speranzaresta? Questa la prima ferita della spada, che sanguina nel ricordo di tutti ifraintendimenti precedenti. Se i buoni fraintendono, pensano – come Pietro eMarta –15 che Dio si sbagli: cercano di insegnargli, invece di imparare. E se ibuoni stessi non comprendono, non accolgono. E non accogliendo, nell’oradella prova si squagliano come neve al sole. Un Dio incompreso dai buoni èun Dio fallito. E Maria non ha potuto nulla per evitare tale disastro, per quan-to con tutto il cuore avrebbe voluto.

A questo attacco Maria risponde con la fede, ma non semplicementenella risurrezione – che ci vuole a Dio per risuscitare un morto? Non era statorisuscitato Lazzaro da poco, il figlio della vedova, la figlia di Giairo? –, manella potenza infinita che Dio ha di toccare i cuori con la sua misericordia di-vina. Infatti anche il Risorto, senza la risurrezione dei cuori, che avrebbe con-cluso? Ma in quel momento, sotto la croce con Giovanni e poche compagne,credere era molto più che eroico: era pressoché impossibile. La ragione nonaveva un solo appiglio per sperare. Solo l’innamoramento portava alla fedel-tà, che è fedele perché la spinge un’adesione radicale all’amato, senza motiviulteriori. Un’adesione assoluta, senza subordinate, senza motivazioni diversedall’essere una cosa sola, un’anima sola. Questa fede-speranza si può consi-derare, per la sua radicale purezza, il XX asse della spiritualità mariana. Manon è tutto: veniamo dunque al secondo taglio della lama.

L’abbandono di Dio è pre-intuìto da Maria (comprende bene la connes-sione e gli effetti della kenosi trinitaria nello Spirito), ma pur sempre inaspet-tato (è la resistenza umana e umanissima dell’affetto davanti alla morte); inpiù Gesù muore, ucciso da quei figli di Abramo, tradito e abbandonato proprioda quei figli che ora Maria riconosce: miei. È la sovversione radicale dell’Or-dine, della Legge, della Giustizia, della Religiosità. Tutto è negato e capovol-to. E Dio si ritira dalla terra, che risponde a quell’assenza-distacco con un ter-remoto pauroso. Esso è solo una debole metafora del terremoto prodottosi nelcuore di Maria. Solo l’abitudine a consumare tutto in sé, le impedisce la ribel-lione. È l’ultimo aspetto dell’asse sacerdotale della sua spiritualità: quello discendere sino a farsi madre dei peccatori. Dio non c’è più.16 E in Maria è unatragedia, non un’ipotesi etica o intellettualoide. Etsi Deus non daretur, dirà

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15 Cfr Mt 16, 22; Lc 10, 40.16 Ovviamente in senso percettivo, non in senso oggettivo.

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Bonhoeffer di fronte all’orrore nazista. Il Figlio di Dio, scendendo agli inferi,la trascina spiritualmente con sé in quell’orrore. E la risposta della sacerdo-tessa-Vittima è la preghiera d’intercessione, omne consumatum. Ed è anchel’amoroso ammonimento dato a Giuda.17 Maometto dice di Maria che è don-na di verità.18 La madre del Verbo resta madre della Verità anche quando si famadre dei peccatori. Obsequium amicos, veritas odium parit, diceva Teren-zio.19 Essere sacerdoti è essere vittime, perché si annuncia con franchezza laVerità. E la parresia eroica è il XXI asse della spiritualità mariana.20 È daquesta cattedra che il perdono sacerdotale è il perdono stesso di Cristo.

Per capire cosa significhi mater peccatorum, occorre riflettere che Ma-ria non potrebbe esserlo ritirandoci la fiducia per questo o quel peccato, giu-dicandoci inaffidabili, come oggi è così di moda: se lo facesse, chi si salve-rebbe? Persino Pietro rinnegò… Sono dunque gli infiniti atti di mancata fidu-cia verso il prossimo anche di persone buone e religiose, i loro giudizi di inaf-fidabilità con cui talvolta bollano la reputazione altrui,21 che dicono l’eroismoassoluto di Maria. Che dicono l’altezza della sua «via». Ma, in più, abbiamo

17 E che ripete in tante e sempre più frequenti visioni, almeno da Fatima in poi.18 Cfr G. Finazzo, I musulmani e il cristianesimo, Studium, Roma 2005, p. 63.19 Qui occorre una breve, onesta, riflessione. Girolamo, in una visione, fu giudicato da

Gesù e fatto battere severamente, perché ciceroniano. Gesù voleva che Cicerone fosse letto al-la luce del Vangelo, non il contrario. E che sarà allora di quei cristiani che siano divenuti teren-ziani, che piuttosto di crearsi nemici idolatrano l’ossequio? Non di rado Padre Pio scacciavaqualche penitente dal confessionale. Molti tornarono realmente pentiti, qualcuno restò scanda-lizzato. Tuttavia se Padre Pio cacciava dal confessionale, facendolo dava fiducia e pagava inproprio per quell’anima. La franchezza non divergeva dalla capacità di attendere. Ecco dunquela differenza rispetto a quei comportamenti dove invece cadono insieme sia la franchezza, sial’attesa paterna di Tobi (cfr Tb 10, 1-7).

20 Voler vedere la parresia in Maria può sembrare una forzatura. In effetti se in genera-le i testi sono poveri, in questo caso sembrano esserlo all’ennesima potenza. Tuttavia qualchetraccia significativa non manca. In primo luogo occorre tener conto del contesto sociale in cuiella vive: non poteva permettersi atteggiamenti pubblici irricevibili. Tuttavia nel magnificatprofetizza il sovvertimento sociale, e a Cana tiene testa a Gesù. Con garbo, ma anche con deci-sione. Se consideriamo il poco che direttamente parla di lei, si tratta di indizi non trascurabili,perché avvalorati dalla franchezza trasgressiva dell’agire, e anche dallo stile di Gesù, che non atorto si può pensare in debito all’educazione ricevuta.

21 Nei trattati di ascetica tradizionali spesso si dava ampia trattazione delle cosiddettepersecuzioni dei buoni, ossia da parte di persone che non hanno l’intenzione diretta di andarecontro Dio. Per es. santa Bernadette fu martoriata in clausura, da suore buone che pensavano diaiutarla a redimersi dall’orgoglio, ecc.

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visto che l’azione satanica arriva a stravolgere le menti, fino a vedere il de-moniaco in Dio stesso. E qui è il peccato contro lo Spirito Santo per il qualenon vi è perdono in eterno.22 Maria lo sa, ma accetta come figli anche questeanime devastate, esattamente come il Padre non rinnega mai la propria pater-nità. E qui siamo alla vera Gloria di Maria, che non è però tanto semplice daspiegare.

In primo luogo la maternità è un essere abitati, ciò che non è meno rea-le sul piano spirituale che su quello fisico. Veniamo dunque a considerare ilrapporto con l’inferno. Vi è un essere-in, che si realizza nella discesa agli in-feri, che è privazione di Dio, abbandono. Già questo è terribile, ma in un cer-to senso è ancora poca cosa. Ma poi vi è l’avere-in, che è il rovesciamentodell’esperienza precedente: non il soggetto nell’inferno, ma l’inferno nel cuo-re e nella mente del soggetto. E questo è essere-abitati dall’inferno, dal demo-niaco. I morsi e gli spasimi che si provano sono inenarrabili. Ma quando peramore e con amore si è trascinati in una tale esperienza, si comincia a vedereil mistero del Padre. Si comprende, cioè, che il paradiso ha come condizionedi possibilità il fatto che il Padre chiude nel suo cuore il demoniaco, renden-dolo invisibile ai beati. Questa è la Gloria vera. Ma questa Gloria il Verbo ot-tenne dal Padre, ossia di accogliere in sé l’inferno per sottrarlo a lui. E questaè la Gloria di Maria, che la fede popolare dice paradiso di Dio. Non si puòreggere l’inferno nel cuore, se non per opera dello Spirito Santo. È dunquequando nascondiamo l’inferno che è in noi, e rispondiamo con soavità, che loSpirito ci sta divinizzando, e trasferisce su di noi la Gloria che il Verbo rice-vette dal Padre, ma che non ritenne un tesoro geloso. Qualitativamente dive-niamo come Dio, e Dio ci riconosce come figli diletti. Resta la differenza trachi dell’inferno accoglie nel cuore e nasconde una scintilla, e chi ne accogliee nasconde la totalità. Da questo punto di vista Maria è unica, perché solo inlei si ripete perfettamente il mistero d’amore trinitario. Tuttavia Maria misticapartecipa di questo mistero altrettanto perfettamente, ed è questo il suo sacer-dozio eterno e la sua Gloria.

Allora il Paradiso per Maria mistica sarà un inferno? Qui occorre tenereinsieme il sì con il no, benché asimmetricamente. Sì, nel senso che solo l’apo-catastasi potrebbe dissolvere l’inferno. No, perché in Maria mistica abita in pie-nezza lo Spirito Santo, e questo cambia: la forza dell’infinitudine dell’Amoreconsuma tutto, quasi dispiaciuta che sia ancor poco. Ma, soprattutto, no perché

22 Cfr Mc 3, 29.

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Maria mistica ha la tripla gratitudine del Padre, del Verbo e dello Spirito. E co-sa sarà la gratitudine di Dio, se già per la gratitudine degli uomini ci smemoria-mo delle nostre sofferenze? Se già l’affetto di una persona cara ci toglie lo scon-forto? In Paradiso tutti godranno la Pace, ma non tutti con le medesime sfuma-ture. E la gratitudine divina è il nettare dei supereletti, ossia dei superannullati.Nella sua bontà infinita il Padre è così magnanimo e creativo nello Spirito, datrovare il modo di far assaggiare a ciascuno almeno una goccia della sua grati-tudine, che essendo purissima e divina da sola basta a dare non solo pienezza digioia, ma sovrabbondanza. Ma cosa non sarà per coloro che saranno stati comelui perfetti, facendo sorgere il sole del proprio affetto sui giusti e sugli ingiusti?E Maria ha dato e dà affetto infinito alle schiere di Giuda.

Maria dopo la risurrezione

La successiva condivisione di vita con Giovanni, e i rapporti maternicon la Chiesa nascente, furono essenziali per orientarne il cammino. Ma perMaria la salita è finita: Gesù è risorto, e ora la sua cura è di compiacerlo nelsostenere e formare i suoi discepoli. Certo, Maria soffrì alla lapidazione diStefano, alle devastazioni ecclesiali paoline che non risparmiavano neppure ledonne,23 alla fustigazione di Pietro e Giovanni e in genere per ogni vessazio-ne e persecuzione si presentasse. Ma vi è un motivo forte per il quale possia-mo dire che la salita era finita: le tenebre avevano cercato di soffocare la Lu-ce, ma proprio nella loro apparente vittoria la Luce era rifulsa inestinguibile.Già nel magnificat, pur esultante, Maria si mostra consapevole di una lotta co-smica tra Dio e i disegni dei superbi. Sa che il Messia vincerà, ma il contestodi lotta le è chiaro. E già nel sogno di Giuseppe, che certo ella conobbe dallosposo, le prime nuvole adombrano il cielo: «lo chiamerai Gesù; egli infattisalverà il suo popolo dai suoi peccati».24 Il nome di Gesù è un programma disalvezza religiosa. Che poteva significare? Non c’era già il sacerdozio?

Come si è detto, gli interrogativi che il sogno di Giuseppe avevano susci-tato, con la profezia di Simeone si schiariscono tragicamente. E da quel mo-mento Maria è trafitta dalla consapevolezza di un’ora di dolore tremendo, difronte al quale il parto è poca cosa. Tutta la vita terrena di Gesù si trasforma inun tempo di gestazione spirituale, il cui esito è il parto dello Spirito.25 E la ri-

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23 Atti 9,2.24 Mt 1, 21.

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surrezione è appunto il segno della vittoria di Dio, ossia della Vita sulla morte:in linguaggio mulìebre è il segno che il parto è andato bene, e che non ci saràpiù notte,26 perché la Luce ha vinto definitivamente le tenebre. La spina che halacerato Maria per circa quarant’anni, le è tolta dalla definitività della vittoria.Una volta per tutte, dice la Lettera agli Ebrei (9, 12). Ed è appunto questo cheper la Vergine cambia tutto: Gesù è vivo, perché Dio ha vinto per sempre.27

Maria è la regina dei profeti, di tutti i profeti. In preghiera con loro, co-me loro e meglio di loro, accoglie lo Spirito Santo e insegna alla giovaneChiesa i segreti per trattenerlo, come in un Tempio santo, come regale Sacer-dozio.28 Altri dolori non mancheranno, come prima ve ne furono, che perònon abbiamo considerato spade. La «spada» è infatti un dolore particolarmen-te forte e profondo, che ristruttura il rapporto con Dio e con i suoi figli. Il dis-tacco da Gerusalemme per seguire Giovanni verso Efeso fu certamente dolo-roso, perché la diaspora spezzava gli affetti che avevano cementato la Chiesanascente, e in più Gerusalemme era cara a Maria non solo per il Tempio, maanche di più per i luoghi che Gesù aveva santificato con la sua passione, e checertamente furono occasione per lei di molte catechesi ai primi cristiani, conlei in devoto pellegrinaggio.

Tuttavia Maria parte, per vivere da straniera in una nuova Nazareth. Sipuò immaginare che abbia fatto il possibile per avere notizie delle altre scin-

25 Cfr Gv 19, 30 e 34.26 Ap 22, 5.27 E qui vengono a luogo due note. La prima concerne l’oscuramento di chi ritiene la ri-

surrezione un mito tardivo. Siamo arrivati anche a questo: che cristiani disorientati ritenganoche, risorto o no, che differenza fa? Paolo ha scritto che se Gesù non fosse risorto, vana sareb-be la nostra fede? Ma quel fariseo di Paolo che vuoi che sapesse? Ecco dunque il risultato otte-nuto dalle Tenebre: di revocare in dubbio che la vittoria di Gesù fu definitiva. Ossia di insinua-re che sono loro a governare il mondo. Satana talvolta non si cura neppur tanto di allontanarcisubito dall’Eucaristia: si preoccupa di svuotare di contenuto autentico la nostra fede. Fatto que-sto, al momento opportuno crollerà anche il resto, ossia l’esteriorità di un culto divenuto insi-piente. Infatti la croce non si può reggere senza umiltà. E disprezzare la parola di Dio è schie-rarsi dalla parte del proprio avversario. La seconda nota è che le Tenebre pensano di essere ilmoggio che oscura Dio. Sono ridicole. E sono ridicoli gli uomini che nella loro insipienza se nefanno discepoli. Dio non si oscura. E anche quando si uccide un profeta, si ottiene solo di far ta-cere una voce fedele. Ma il messaggio che Dio vuole dare non può essere oscurato da nessunmoggio, né umano, né diabolico. Anzi, più si contrastano i profeti, più splende in loro la Lucedivina.

28 Cfr 1Pt 2, 5.

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tille ecclesiali disperse in vari luoghi, e per farle circolare. Ma chi è stato aMeryem Ana ha visto molto bene i «gusti» sociali di Maria. Era un vero romi-torio, per quanto non troppo distante da Efeso. E lì visse i suoi ultimi anni damamma, occupata nella quotidianità domestica, nella preghiera, e nella vita dicarità e accoglienza che rigenerava la presenza mistica di Gesù. E qui occorreriprendere il discorso già annunciato su «Gesù in mezzo». La teologia gio-vannea lo esprime con le formule rimanete in me, se le mie parole rimangonoin voi,29 ecc., legando questo permanere di Dio in noi al nostro amore reci-proco. La seconda parte del citato versetto: chiedete quel che volete e vi saràdato, rende evidente il parallelismo con Mt 18, 19ss (se due di voi sopra laterra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è neicieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io so-no in mezzo a loro). Dunque perché Gesù mantenga stabile la sua presenza tranoi è indispensabile la reciproca carità. Tuttavia Matteo precisa: riuniti nelmio nome, e non è dettaglio da poco. Il motivo di questo è che Giovanni, pre-so da solo, potrebbe essere travisato in senso localistico. Ci vogliamo bene,abbiamo Gesù tra noi, fine della storia.30

Contro questa eresia soccorre l’indicazione matteana, purché si abbia ilcriterio di scavarne il senso, tornando a Mt 1, 21 e 1, 23. Gesù, l’Emmanuele-Dio-con-noi, significa Jahweh salva. Il Verbo si incarna per essere l’Emma-nuele, il Dio-con-noi, e insieme per portarci la salvezza. Essere uniti nel nomedi Gesù significa dunque compartecipare alla sua missione di salvezza. Que-sto significa che il localismo è subito da escludere, perché la salvezza di Dioè per tutti i popoli.31 Gesù muore per tutti, è vittima per tutti. Perciò essere ri-uniti nel suo nome significa essere tralci innestati alla vite, membra vive delSuo Corpo Mistico. Agostino parlava del Christus totus, del Cristo totale, co-smico, universale. «Due o tre» dice tralcio, «nel mio nome» dice vite, univer-salità, pienezza.

29 Gv 15, 7.30 Contro questa seduzione sottile Chiara Lubich ha sviluppato la spiritualità della pas-

sione per la Chiesa. La tentazione sarebbe quella di pensare che chi è fuori dalla nostra intimi-tà «si arrangi»: NOI (avendo «Gesù in mezzo» a noi) siamo la cattedra da cui Dio insegna almondo (questa l’idea di alcuni cristiani – forti dell’appartenenza a qualche movimento/carismaoggi particolarmente apprezzato –, ma teologicamente immaturi). La fusione in questo atteg-giamento di superbia, presunzione ed eresia è ovvia (in definitiva si riduce localisticamente ilCorpo Mistico). Ma le seduzioni di Satana sono sottili, e prendono alle spalle talvolta in modoinaspettato.

31 Cfr per es. Is 25, 6; 56, 7.

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La nostra stessa finitezza impedisce riunioni cosmiche. Le adunanze deicristiani saranno sempre necessariamente locali. Ma altra cosa è una riunionelocale con spirito universale, tutt’altra con spirito settario (anche inconsape-vole). E come si fa a sapere che il nostro spirito universale è reale, e non me-ra illusione, pia intenzione astratta? Lo si vede per es. nel conflitto. Non è Ma-ria che viene meno nella propria maternità spirituale a Giuda, ma Giuda chenon accetta la propria figliolanza mariana: è diverso. Maria ammonisce Giudaperché si penta, ma non lo scaccerebbe mai. È lui che se ne va. Ma lei resta inuna posizione di attesa, prega perché torni. Se dunque neppure a Giuda deveessere negata accoglienza, molto meno essa dovrebbe essere negata a chi cicontrasti in nome dello Spirito. Ed è qui il punto sottile da cogliere. Potrebbeinfatti sembrare che, se siamo riuniti nella reciproca carità, chi ci contrastacontrasti non noi, ma Dio tra noi. E questo può effettivamente accadere, manon necessariamente. Altra cosa è infatti la volontà e l’affetto, altra l’intellet-to. La presenza di Dio tra noi è certamente Luce, che però non annulla i limi-ti delle nostre interpretazioni, legate alla nostra educazione, umiltà intellettua-le e talenti naturali e soprannaturali. Perciò la Presenza reale di Dio non è ip-so facto comunicazione della sua onniscienza. E dunque il rischio di caderenel delirio ideologico è alle porte, ed è una delle prime carte che l’avversariogioca, proprio perché in immediato gli è difficile attaccare sul lato degli affet-ti e della volontà. E così insinua la volontà di dominio (o di predominio), cheè una ferita tremenda allo Spirito Santo.

Essere riuniti nel nome di Gesù significa dunque conformarsi alla Suamagnanimità, all’umiltà intellettuale di Maria, sempre disposta a salvare ilgiudizio altrui, per quel che poteva. In questo il Loyola, richiamando Tomma-so nel praesupponendum degli Esercizi, è molto chiaro. E quando in coscien-za non si può accogliere il giudizio altrui? La Storia della Chiesa ci dà unesempio assai illuminante. Successe che in Oriente si diffuse l’abitudine dicelebrare la Pasqua il XIV giorno del mese, mentre in Occidente si scelse lacelebrazione mobile. Verrebbe da dire che o di qua o di là si fosse fuori dal se-minato. Invece nel sec. II la controversia fu composta non perché si trovò unpunto comune di convergenza, ma perché si riconobbe la reciproca buona fe-de, e il fatto che nel secolo precedente le Chiese erano rimaste fraternamentein pace, pur essendo già chiare quelle differenze rituali.

Nel conflitto di giudizio occorre dunque la prudenza di saper attendere.Forse anche nell’altro c’è una parte di ragione che oggi non vediamo. GiovanniPaolo II ha dovuto chiedere scusa per il rogo di Hus e la persecuzione come ere-tici di coloro che ne onoravano con rettitudine la memoria. Per non dire di altri

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consimili casi. Purtroppo non sempre il comportamento ecclesiale fu conformea quella magnanimità e pazienza che fu della Chiesa apostolica, formata da Ma-ria.32 In breve, essere riuniti nel nome di Gesù è un fatto, se e solo se è anche einsieme un programma di accoglienza illimitata, che si esprime in una continuacapacità di mettersi in discussione anche davanti all’ultima delle novizie, comescrive S. Chiara nella sua regola.33 Detto in altri termini, la comunione ha con-dizioni di possibilità esigenti, che non si esauriscono sul piano morale soggetti-vo, tuttavia necessario perché essa sia communio sanctorum. Non ogni cultu-ra/mentalità, infatti, è compatibile con l’edificazione della comunione. E ilparadigma di Nazareth è opposto a quello mondano,34 anche perché per un ver-

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32 Per es. nel movimento francescano ben presto gli spirituali furono attaccati e poiapertamente perseguitati. E di questi casi ve ne sono più che non si pensi, dalla Porete (e ancheprima) fino a don Zeno di Nomadelfia (e dopo).

33 S. Chiara ben vedeva che Dio è libero di parlare a chi vuole, e che sovente sceglie lesue voci tra il popolo, anche e proprio per correggere chi sia più in alto. Caterina da Siena, og-gi santa, alla sua epoca era una popolana che si permetteva di ammonire il Papa. Non semprecriticare chi sia più in alto è hybris, arroganza, superbia. E fare del motto ne sutor supra crepi-dam un asse ascetico è buono per un verso e rischioso per un altro (cfr nota 32). Abramo che in-tercede per i sodomiti con una trattativa levantina, non dispiace affatto a Dio. Eppure gli sta di-cendo: attento a non essere troppo severo. Quando dunque chi sia più in alto si senta ammoni-to da un inferiore, per prima cosa consideri con che cuore ciò avvenga, da cosa sia mossa la cri-tica. E distingua il modo in cui essa è formulata, dal merito. Si possono dire bene cose sbaglia-te, e male cose giuste. Se uno dice male una cosa giusta, lo si corregga con amore, come sug-gerisce il Loyola, ma si accolga il giusto che dice, anche se ciò costringe a rivedere qualche no-stro giudizio. Il conflitto è dunque il grande banco di prova della carità cristiana, dove rifulge loSpirito Santo se in esso la comunione non cade. Il mondo, infatti, il conflitto non lo regge. E quinon è semplicemente in gioco un problema di elasticità, è in gioco il rapporto tra finitudine eInfinitidiune divina, che sul piano del giudizio talvolta emerge attraverso la molteplicità dellelibertà create. Ma è sempre Dio che le ha create, e che va accolto in esse.

34 Per es. secondo Aristotele il sapere passa dal docente in cui è in atto al discente in cui èin potenza. In questo schema la kenosi/accoglienza è da una parte sola (quella del discente). Man-ca cioè l’elemento simmetrizzante/dinamizzante della presenza di Dio in entrambi. Viceversaquesto è il di più dello schema di Nazareth (dove è ben vero che Gesù imparò da Maria l’aramai-co e non solo, ma altrettanto che non poca Grazia passò da Gesù a Maria, e fin dall’inizio), che fufatto proprio dalla Chiesa antica fino alla doppia kenosi di Sisto e Lorenzo martiri («dove vai, pa-dre, senza tuo figlio?» «mi seguirai tra poco…»); e dalla tradizione spirituale monastica nellaprassi del rispetto religioso per la vocazione anche dell’ultimo dei novizi. Non è però vero che ilparadigma di Nazareth caratterizzi come una costante la vita della Chiesa in tutti i luoghi e in tut-ti i tempi. E ciò anche per un certo deficit di riflessione teologica sul punto. Del resto solo assai re-centemente si è cominciato a riflettere sull’incidenza dei paradigmi nelle varie civiltà.

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so chi è di più (Gesù) è sottoposto a chi è di meno (Maria); ma d’altra parte Ma-ria è ben consapevole di chi sia suo Figlio, e di esserne al servizio. S. Chiara ten-tò appunto di recuperare/tradurre in norma il paradigma di Nazareth, e fu lode-vole. Che tuttavia resti molta strada da fare, sembra innegabile.

3. Conclusioni

La lunga cavalcata biblico-storica esige ora qualche commento riassun-tivo. In primo luogo il nostro itinerario, per quanto inedito, si innesta armo-niosamente in una tradizione multisecolare di devozione mariana, che pro-gressivamente ha cercato di scoprirne sofferenze e virtù. La presente ricostru-zione contemplativa esigeva la precisazione di fatti e circostanze, che sul pia-no storiografico restano per lo più illazioni. Ma sul piano spirituale esse sonoillazioni plausibili, perché il dato dogmatico ci assicura che vedere in Mariauna virtù esercitata in modo eminente non è un errore; e il dato antropologicorigetterebbe come stranezza che la Vergine sia stata così insensibile da nonsoffrire per la Tragedia di un Dio incarnato e rifiutato dalla Storia. Se dunqueMaria soffrì, soffrì non in astratto, ma corrispondentemente anche a quei det-tagli che i Vangeli hanno tramandato, proprio per il loro alto valore teologico.In breve la chiave per alzare il manto della Donna vestita di sole è lasciarsi fe-rire dalla domanda: come avrà vissuto Maria questa e quest’altra circostanzadella vita di Gesù? Questa domanda ciascuno può porsela nel contemplare ilVangelo, e a ciascuno parlerà in modo personale, illuminando la propria via.

Sul piano oggettivo i 21 assi della spiritualità mariana enucleati non sipuò pensare che esauriscano le bellezze del giardino prezioso che ella è; posso-no però aiutarci meglio a ripercorrerne la via. La schiavitù sacra è ciò che nellatradizione monastica fin dall’inizio era la scelta di Dio, con l’implicito ricono-scimento di una sua signoria assoluta sull’anima. Anche del nascondimento si èparlato tradizionalmente, ma forse senza evidenziarne a sufficienza il rapportocon la femminilità. E questo può invece essere importante oggi, proprio per il ri-schio diffuso di perdere il senso soprannaturale del fascino. Il Vangelo non re-prime la bellezza, ma ne persegue invece la perfezione spirituale.

Sulla magnanimità il Vangelo è chiarissimo: Matteo torna più volte sultema (per es. capp. 6 e 18), proprio per evidenziarne l’importanza e la centra-lità. Viceversa nella pastorale tradizionale non sempre si è insistito su questotasto. Emblematico è che talvolta in letteratura si indichi come suo vizio op-posto la pusillanimità, ma si trascuri la grettezza. Molta mediocrità cristiana

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ha dunque all’origine questo tipo di divergenza – magari frequentemente nonvoluta, ma effetto di semplice incomprensione – dalla via Mariae. Al contra-rio sull’abbassamento molto si è scritto e insistito. Non però fino alla discesaagli inferi. E di nuovo c’è da chiedersi se ciò abbia a che fare col punto prece-dente, perché in effetti se l’abbassarsi non è effetto di grandezza d’animo, al-la fine insipidisce e, talvolta, fino al servilismo (non per caso poco trattato neimanuali ascetici cattolici tradizionali).

Su fede e timor di Dio poco vi è da aggiungere, nel senso che certo inMaria tali virtù furono eminentissime; ma per fortuna la tradizione cristianane ha mantenuto una memoria dignitosa, sforzandosi di proporle nelle vie spi-rituali. Molto diverso il discorso per la trasgressività, che è indubitabilmenteuno degli assi teologici più significativi e originali del Vangelo, ma che di fat-to molto presto uscì dal novero delle virtù, per rimanere solo in quello dei vi-zi come parábasis. Invece non si può correttamente comprendere la profeziacristiana mettendo il moggio sulla trasgressività. E infatti il rapporto dell’e-scatologico al categoriale è necessariamente trasgressivo. Maria è regina deiprofeti per null’altro che questo: per un radicamento escatologico così perfet-to da essere denuncia dell’imperfezione storica. È da qui che scende la fran-chezza eroica del XXI asse. Ma parlare di radicamento escatologico o di abi-tare il vortice è equivalente. Infatti la Storia è mossa dal principio sintropicodi finalità. E qui ci sarebbe molto da dire, ma si uscirebbe dal genere lettera-rio della sintesi. Però è vero che la pastorale tradizionale raramente ha avutola capacità di far proprie tali prospettive alte. E non è che ciò sia avvenuto so-prattutto per cattiva volontà, ma per un deficit di riflessione che poi si è pro-pagato in deficit educativo.

L’asse della sacerdotalità è uno dei più problematici da commentare. In-fatti è innegabile che la tradizione ascetico-pastorale abbia tradizionalmenteinsistito sul senso di sacrificio, sull’eroismo cristiano, ecc. Altrettanto innega-bile è che l’agiografia abbia conservato memoria di esempi preclari. Che peròil sacerdozio si sia costantemente letto nella prospettiva della Lettera agliebrei, e in quella della 1Pt, non si può sostenere a cuor leggero. E ciò ha pro-dotto nei secoli delle divaricazioni inerziali nell’autocoscienza ecclesiale ri-spetto al paradigma neotestamentario. Tornare a Maria è dunque l’occasionedi rettificare il tiro su un altro punto non da poco. Anche la transitività è unavirtù da riscoprire. Possiamo chiamarla trasparenza o nudità spirituale, e conciò ci si riallaccia a una terminologia più consueta. Ma esaminando questavirtù in Maria, si vede subito che tradizionalmente l’abbiamo compresa soloparzialmente. Si è infatti battuto quasi esclusivamente sul lato dell’autoaccu-

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sa, che anche in Maria si può trovare, ma disgiunto da colpa. Dunque ciò chein lei è centrale è piuttosto la trasparenza della vita nello Spirito, che ben ve-diamo nella comunione d’anima con Elisabetta. Ed è questo che non fa pro-prio parte della normalità dell’esperienza parrocchiale cristiana. Perché?

Il pudore soprannaturale è la controvirtù che dà equilibrio alla traspa-renza, impedendo di gettare le perle ai porci.35 In quanto non sia riducibile al-la semplice umiltà è un’altra virtù che andrebbe un po’ rivalutata. E resta evi-dente che se non c’è comunicazione spirituale, neppure se ne avverte il pre-gio. Certo la tradizione di vita consacrata qualcosa ha conservato; ma nonsempre articolando all’edificazione della vita comunitaria questi tesori. Pur-troppo sovente la prospettiva prevalente fu e resta quella del perfezionamentoindividuale: che non è tutta da gettare, se ricondotta alla nuzialità mistica. Mache non è neppure il vertice della spiritualità evangelica, dove invece l’unumnon è riducibile in termini di rapporto tra anima e Dio. La paroikia fu inizial-mente così fondamentale, che il termine stesso parrocchia quasi certamente neè etimologicamente un derivato. Ma (come talvolta accade) rimasto il nomecambiò il contenuto, e il significato – sottoposto a slittamenti semantici pro-gressivi – finì per uscirne quasi stravolto. Il senso di una comunità peregri-nante verso la Gerusalemme celeste è rimasto talvolta in qualche gruppo divita consacrata, ma non è più l’esperienza ordinaria dei battezzati. Stesso dis-corso per l’intimità soprannaturale, di cui indirettamente si è già parlato.

La soavità invece ha una certa memoria sia in dottrina ascetica che inagiografia. Che però su di essa si sia scritto assai, forse no. Trovare una tratta-zione delle varie forme di soavità e della loro connessione a qualche tipologiadi prova spirituale non è poi tanto semplice. Qualcosa di simile vale anche perla spiritualità dell’attenzione. Dare attenzione a Dio si può dire che lo inse-gnino tutti i maestri di preghiera. Dare attenzione all’attenzione di Dio è giàinvece un esercizio meno scontato. E infatti talvolta si parla moltissimo dellaVolontà di Dio, ciò che non si farebbe se si insegnasse a vivere sotto il suosguardo. È un rapporto diverso quello dell’innamorata: non ha bisogno di co-mandi che, per il vero, Dio non è per nulla ansioso di dare. Egli infatti si sen-te ben più amato e capito da chi ne scruta lo sguardo/desiderio, piuttosto cheda chi distrattamente ne attenda la voce imperiosa.

Sulla protensione al Regno che dire? Vale ciò che si è detto per la pre-ghiera. La si insegna e la si pratica anche (non molto oltre la vita consacrata,però). È sull’intelligenza che se ne ha che talvolta si può nutrire qualche dub-

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35 Mt 7, 6.

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bio. Stesso discorso per la cattolicità, che nessuno mette in discussione, mache in pratica non è quasi mai incisiva.36 Nella Chiesa antica quando un cri-stiano si spostava in un’altra città, l’accoglienza era concreta, tangibile e nonpuramente rituale. Oggi una tale prassi si può dire che sia rimasta solo all’in-terno di gruppi particolari. Siamo passati da un’appartenenza forte a un’ap-partenenza debole. E non è stato il minore dei danni. Ma se l’appartenenza siannacqua, è praticamente impossibile che alla lunga ciò non si rifletta in unapatologia della fede.

In breve, la via Mariae è una grande medicina, di cui abbiamo bisognoa livello individuale, ma anche collettivo. Del resto, com’è possibile vivere lafraternità cristiana, se di molti aspetti della spiritualità della nostra Mammaabbiamo perso persino la memoria? Dobbiamo infatti imparare a guardarci gliuni gli altri attraverso i suoi occhi. E così siamo all’infanzia spirituale: la pro-va del nove che essa non solo è reale, ma di eccellenza, è nel fatto che la no-stra mano sia nella mano della Mamma. E dove ci guiderà, se non sul suo stes-so sentiero?

Ecco allora che riconsiderare le «spade» e i dolori che la ferirono diven-ta lo specchio cui attingere la conoscenza della nostra salute spirituale, del no-stro reale amore per Dio: basta girare la contemplazione in domanda persona-le, o anche collettiva (ciò che purtroppo non si fa quanto necessario).37 Saltia-mo il distacco dagli affetti, che almeno nella vita consacrata è quasi sempreun punto acquisito (molto meno nel popolo).38 Abbiamo mai sentito l’oppres-sione di una condanna per impurità religiosa? Maria fu allontanata dal Tem-pio, dal luogo della Presenza di Dio, dalla sua casa di preghiera. Ci è capitatoqualche volta qualcosa di analogo? E come reagiamo quando anche solo unasemplice censura ci pare sproporzionata? Maria ha un sogno bello, e Dio per-

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36 Il motivo è che essa assume realtà teologica nella cittadinanza della Gerusalemme ce-leste, che denota appartenenza a una Patria trascendente (cfr Ebr 11, 14ss). E ciò esige un taglioreale, effettivo e affettivo con altre appartenenze.

37 A un esame di coscienza in prima persona plurale difficilmente siamo stati educati.Tuttavia se quello personale è sufficiente finché non abbiamo responsabilità sociali; dal mo-mento in cui iniziamo ad averne, la cosa cambia. È qui che alle domande al singolare andreb-bero affiancate anche quelle-NOI. Senza di esse la comunione non può crescere con quel rigo-glio di Vita che Dio vorrebbe. E dopo esserci interrogati nella preghiera, risaliti dal bagno bat-tesimale, tali domande andrebbero umilmente girate anche a coloro di cui siamo responsabili. Èl’aratura che precede la semina divina.

38 Naturalmente anche Maria soffrì, ma aderì cordialmente al giudizio di Dio. E avevapochi anni…

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mette che salti per aria: ossia che sia irrealizzabile in quella forma che Mariaimmaginava. I nostri sogni sono altrettanto alti e puri? E se saltano, reagiamospossessandoci del dono di Dio? Cosa succede quando il nostro giudizio siscontra con l’imperscrutabilità di Dio?39 Con l’eccedenza della sua Infinitudi-ne? Siamo veramente in grado di rispondere non solo con umiltà morale, maanche intellettuale?40

Ma supponiamo di poter dare una risposta consolante: di umiltà intellet-tuale ne abbiamo almeno abbastanza da riconoscere che il nostro giudizio èinadeguato. Come reagiamo? Desideriamo essere corretti? E se sì, è per umil-tà, o per presunzione? Cosa pensiamo quando poi la punizione arriva o nonarriva? Veniamo alla sesta spada. I giusti dubitano di noi, e mettono a rischioil piano di Dio. Siamo capaci di stare fermi? Siamo capaci di difenderli e diprendere su di noi la responsabilità? Siamo capaci di essere trasgressivi in ub-bidienza amorosa a Dio, e di portare noi il peso della trasgressione? Siamo ca-paci di prendere su di noi il peccato altrui, giudicando sinceramente di esser-ne causa? Noi chiamiamo Maria avvocata nostra, ed è doveroso. Ella ha in-fatti realmente un’azione paracletica senza limiti. Ma noi? Se infatti fossimoTempio stabile dello Spirito Santo, dovremmo anche come lei essere avvoca-ti gli uni degli altri. È questa la nostra realtà ecclesiale? Talvolta certamentesì. Ma è anche la normalità cristiana? E al rifiuto, come reagiamo? Pensiamoche è ingiusto, o pensiamo al danno che ne può derivare a Dio? Per cosa sof-friamo, se ci sentiamo messaggeri rifiutati? Restiamo noi al centro, o vediamole sofferenze che il rifiutarci provoca in altri che ci amano e ci sono vicini, ene siamo lacerati?

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39 Cfr Rm 11, 33ss. Si noti che siamo agli ultimi versetti della parte dogmatica, mentrecol cap. 12 inizia la parte parenetico-morale. Dunque la premessa immediata dell’etica cristia-na è il confronto con l’eccedenza del giudizio divino. Per Paolo ciò fu molto chiaro, e fin dal-l’inizio, perché persecutore della Chiesa. Convertirsi fu necessariamente, per lui, confrontarsicon l’INASPETTATO del giudizio divino, e accoglierlo. È così anche per noi?

40 Purtroppo questa è una domanda che esige di esser trattata senza anestesia. Infattiquando oltre la metà dei battezzati – lo dicono statistiche recenti, riportate da organi di stampacattolici – non segue il Papa e i Vescovi nelle direttive morali che danno, e oltre a questo pen-sano pure di essere loro nel giusto, non rendendosi nemmeno conto che in realtà seguono altrimaestri – ossia l’etica laicista, così densa in alcune diffuse strutture politico-mediatico-giudi-ziarie di potere –, è troppo evidente che di umiltà intellettuale non si può proprio parlare. E, seessa manca, significa che nella formazione cattolica (i Vescovi hanno più volte sottolineatol’urgenza di rafforzarla) come minimo non si ha sufficiente cura di educare a essa. Infatti i fe-nomeni sociali hanno sempre cause strutturali, per quanto non neghino la libertà individuale.

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Poi Gesù nasce. Ci tocca davvero il suo rifiuto sociale? E le ferite fisi-che di Gesù, le sentiamo con la stessa intensità, come se si trattasse di un fi-glio, o di un genitore? E il fatto che il Verbo sia contrastato, non capito, rifiu-tato, è veramente qualcosa che ci sconvolge? Siamo consapevoli del danno in-finito che ciò produce nella Storia? Per giunta Dio è offeso, perseguitato di-rettamente e indirettamente. Come reagisce la nostra sensibilità? Come ci po-niamo di fronte al peccato teologale: ne siamo realmente lacerati?41 Mi fermoqui. La via per trarre frutto da queste pagine è chiarita. Lasciamo dunque chelo Spirito susciti le domande che ci sono necessarie per fare quei passi che siattende da noi.

The XXI swords of the via MariaeA new and unedited reading of his spiritual itinerary from infancyto the cross.

By Roberto A. M. Bertacchini

Third part of the article published in SapCr XXI, 291-312 e 415-429.

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41 Sul peccato teologale, purtroppo, la riflessione non abbonda. Esso è anche contrarioalle virtù teologali, come pure offensivo allo Spirito Santo. E, ciò che si sottolinea poco, ha ra-dice nel giudizio. Difficilmente assume negli uomini una forma radicale (che è quella che pro-duce la dannazione); tuttavia i riti di isolamento ne sono spesso forme partecipative, sebbenenon mortali. Da qui la loro pericolosità oggettiva, sia per la vita spirituale che sociale.

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ROBERTO NARDIN SAPCR 22 (2007) 89-102

Cattedra Gloria Crucisdella Pontificia Università Lateranense

Presentazione del volumeQuale volto di Dio rivela il Crocifisso?

di ROBERTO NARDIN

Il professor Nardin, docente di teologia dogmatica nel-l’Università Lateranense e di Storia della teologia nel P. AteneoSant’Anselmo, presenta gli Atti del Forum realizzato nel maggiodel 2005 dalla Cattedra Gloria Crucis. Segue l’intervento diMonsignor Ignazio Sanna, vescovo di Oristano, già Pro Rettoredell’Università Lateranense.

Premessa

Il messaggio cristiano fin dalle origini ha trovato nella croce del Signo-re Gesù uno “scoglio” da superare tra i più difficili1 sia nell’annuncio para-dossale di un Dio crocifisso (onnipotente?) e che crocifigge (vendicativo?),sia nella riflessione su un mistero tra i più profondi da indagare e nel qualel’intellecus fidei è spinto a cogliere, da un lato, l’intimità/alterità del rapportotra il Figlio, il Padre e lo Spirito Santo e, dall’altro, la densità dell’offerta concui Cristo si dona per la salvezza dell’uomo. Ecco, allora, che nonostante lacroce sia vista come «stoltezza» o «scandalo» (cf. 1Cor 1,21.23; 2,14), pro-prio la morte in croce del Figlio di Dio risulta un elemento centrale nella ri-flessione e nella predicazione «della potenza e della sapienza di Dio» che sal-va il mondo (cf. 1Cor 1,24).

Eventi 89

1 Cf. per es. L. PADOVESE, Lo scandalo della croce. La polemica anticristiana nei primisecoli, Dehoniane, Roma 1988.

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Per promuovere la ricerca in cui approfondire la valenza teologica dellacroce di Cristo, i Passionisti italiani hanno promosso presso la Pontificia Uni-versità Lateranense la Cattedra «Gloria Crucis», una nuova struttura scientifi-ca inaugurata nell’ottobre 20032, che si propone di organizzare incontri di stu-dio su questa tematica. Il Comitato scientifico della Cattedra ha organizzatoun Forum alla Lateranense dal 4 al 6 maggio 2005 sul tema: Quale immaginedi Dio rivela il Crocifisso? Gli interrogativi di oggi. Il libro che presentiamocostituisce la pubblicazione degli Atti di quell’incontro.

Il volume si presenta sostanzialmente diviso in due parti: nella primasono riportate le relazioni presentate al Forum, nella seconda vengono pubbli-cati diversi contributi suscitati dalle precedenti relazioni. Ad impreziosire il li-bro, alla prima parte sono state anteposte una “Presentazione” del prof. Fer-nando Taccone, passionista, direttore della Cattedra «Gloria Crucis» e docen-te all’Istituto Pastorale Redemptor hominis della Lateranense, e una “Introdu-zione” del prof. Adolfo Lippi, direttore della rivista «La sapienza della cro-ce». Chiude la prima parte un “Bilancio” del Forum a cura di Maria Lupo, se-gretaria della Cattedra Gloria Crucis, mentre la conclusione del volume è pre-sentata dal prof. Taccone con un contributo dal titolo “Ricercatori dell’identi-tà del volto di Dio”.

Tutti questi interventi preliminari o a margine delle relazioni offronol’orizzonte della ricerca del Forum aprendo al tempo stesso a ulteriori ambitidi confronto che il volume degli atti vorrebbe stimolare, come «un Congressointernazionale per presentare all’uomo del nostro tempo il volto di Dio chebrilla nel Crocifisso» (p. 9) incontro che si desidererebbe «possibilmente aGerusalemme» (p. 14).

Per presentare in modo organico la tematica dell’Immagine di Dio rive-lata dal Crocifisso, la prima parte del volume è stata suddivisa in quattro am-biti di ricerca: I Questione filosofico-antropologica, II Questione etico-politi-ca, III Questione teologico-ecumenica e IV Questione dal mondo delle reli-gioni. Ogni singola “Questione” è stata affrontata attraverso una sorta di dia-logo tra un membro del comitato scientifico della cattedra, il quale ha presen-tato l’orizzonte della tematica e le conclusioni, e il relatore che ha offerto lapropria riflessione come contributo principale. Ogni “sezione”, quindi, è statapresentata in una scansione di tre tempi: premessa, relazione e prospettive.

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2 L’inaugurazione delle attività della Cattedra per l’anno accademico 2006/2007 è statatenuta presso la Pontificia Università Lateranense (24 ottobre 2006) dal card. Walter Kasper epubblicata: La croce come rivelazione dell’amore di Dio, in Lateranum 72 (2006/3) 417-435.

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1. Le tematiche affrontate

La “Questione filosofico-antropologica” è stata introdotta dal prof. Ro-berto Di Ceglie, docente nella facoltà di filosofia dell’Università Lateranense,con un contributo dal titolo «La ragione dinanzi al mistero». L’intervento, evi-denziando il rapporto tra ratio e revelatio, ha sottolineato non solo la legitti-mità della domanda filosofica davanti alla rivelazione ma anche la feconditàdi tale domanda, la quale ha permesso il cammino della riflessione su sentieriinesplorati, o consentendone di offrire una luce radicalmente nuova, quali, peresempio, alle nozioni di persona, storia, libertà e creazione. Una riflessione fi-losofica che si lascia provocare dal mistero della Croce, quindi, ha terminatoil prof. Di Ceglie, può condurre a inediti percorsi sul dolore, sulla morte e sulmale.

La relazione è stata affidata al prof. Massimo Donà, docente nella facol-tà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, dal titolo «La folliadella croce. Sulle aporie del cristianesimo». Il contributo, dopo una articolatatrattazione sulle (apparenti) contraddizioni della morte in croce del Figlio che«sa» e «non sa» di essere Dio, ha rilevato come l’abbandono, segnato dal gri-do di Gesù in croce, non indichi necessariamente morte di relazione tra Dio eGesù. Non solo. Proprio la croce segnerebbe la libertà di Cristo: liberato dallegame con Dio che, però, paradossalmente, lo fa scoprire essere lui stessoDio. Il relatore, nella parte conclusiva del proprio intervento, ha sottolineatol’importante considerazione che la “follia” della croce, compiendosi nella re-surrezione, apra la strada al superamento del vincolo della ratio per la qualemorte e vita sono opposti e reciprocamente escludenti.

La sezione filosofico-antropologica viene chiusa con le prospettive delprof. Di Ceglie attraverso un denso contributo dal titolo «La filosofia dinanzia Cristo crocifisso e risorto», in cui vengono affrontate tematiche come la fi-losofia e il mistero (di Dio), la razionalità della fede – per cui si può parlare diparadosso ma non di contraddizione nella fede – e pertinenti puntualizzazionisu “aporia” e “follia” della croce.

La “Questione etico-politica” è stata presentata dal prof. Denis Biju-Du-val, Preside dell’istituto Pastorale Redemptor hominis dell’Università Latera-nense, in cui si è posto in rilievo come sia illusorio pensare che esista una“neutralità religiosa” da parte dello Stato relegando alla sfera del privato-indi-viduale la questione del “sacro”. La dimensione religiosa, infatti, ha puntua-lizzato il relatore, sarà presente anche senza la Croce, perché, allora, il potere

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si trasformerà in idolo, come al tempo dell’impero romano e come di fatto as-sistiamo con il ritorno occulto di poteri che vogliono essere adorati come dèi:dalla finanza ai media, dall’ideologia “gay” al relativismo assoluto, dalla ma-nipolazione del corpo umano al laicismo.

Il prof. Claudio Vasale, docente di Storia delle dottrine politiche all’U-niversità “La Sapienza” di Roma, ha offerto la relazione centrale dal titolo «IlCrocifisso alle radici dell’identità laica», in cui, dopo una premessa sul rap-porto ragione-fede nel contesto culturale dell’Occidente e la sottolineaturache anche nella storia dell’umanità dalla croce nasce la vita nuova, ha rileva-to, da un lato, il crollo delle ideologie nel XX secolo e, dall’altro, la temperieculturale postmoderna centrata nel particolarismo-individualismo. Particolar-mente interessanti e sinteticamente acuti si sono registrati i rilievi di caratterestorico-genetico sullo Stato moderno, sulla laicità e sulle ideologie.

Le prospettive sono state segnalate ancora dal prof. Biju-Duval affron-tando varie tematiche di grande attualità, in particolare del dialogo interreli-gioso e dell’ambito socio-politico e, di conseguenza e rispettivamente, il po-sto della Croce all’interno di un’etica universale (dei valori, come il dono disé fino alla fine e il rispetto per l’uomo sofferente) e della vita sociale (delrapporto tra esercizio del potere e bene comune). Ne è emerso come la Crocenon possa essere ridotta a semplice valore o riferimento, per quanto nobile econdiviso, se non è ancorata alla e nella Croce storica di Cristo.

La “Questione teologico-ecumenica” è stata introdotta dal prof. GianniSgreva, docente di teologia patristica presso l’Istituto Francescano della Fla-gellazione di Gerusalemme, il quale, dopo aver posto in evidenza la rivelazio-ne biblica e la riflessione patristica sull’agape di Dio rivelatasi nella kenosidel Figlio, ha sottolineato, da un lato, la rilevanza della theologia crucis perLutero e la Riforma e, dall’altro, il rapporto tra agape e ousia in Pavel A. Flo-renskij nonché tra amore e sacrificio in Sergej Bulgakov. Se la prospettivaprotestante è quella paolina, ha proseguito il prof. Sgreva, della sapienza del-la croce (dal basso), quella ortodossa è giovannea, della glorificazione (dal-l’alto).

La relazione centrale è stata affidata al prof. Natalino Valentini, docentepresso l’Università di Urbino, il quale ha offerto una riflessione dal titolo «Lacroce della kenosi e della gloria nel pensiero ortodosso». Il relatore ha presen-tato ampiamente la theologia crucis del pensiero russo del Novecento in cuiha posto subito in evidenza come la riflessione teologica, ma anche filosofica,dell’Oriente cristiano trovi il proprio fondamento ontologico e salvifico nel

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dialogo intra-trinitario dove la reciproca donazione delle Persone ha nellaCroce il suo centro e la suo punto più alto. Il prof. Valentini ha quindi presen-tato le due prospettive, paradossali, della cristologia ortodossa: l’agnello diDio che si offre, nell’estremo abbassamento kenotico, come vittima innocen-te per la redenzione (Cristo crocifisso) e la trasfigurazione deificante dell’u-manità di Cristo portatore dello Spirito (Cristo pneumatoforo). Se il primo è ilDio della kenosi, il secondo è il Dio della gloria.

Le prospettive vengono illustrate ancora dal prof. Sgreva il quale ha evi-denziato come la Croce di Cristo sia essenzialmente “icona” dell’identità di-vina, quindi l’unica ermeneutica adeguata per accedere a Dio, non riducibile aconcetti o a esperienze.

La “Questione dal mondo delle religioni” è stata introdotta dal prof. Pie-ro Coda, docente alla facoltà di teologia della Pontificia Università Latera-nense, il quale ha rilevato come parlando del rapporto tra il Crocifisso e le re-ligioni si debbano evidenziare due prospettive. La prima è colta da due puntidi vista: diacronico e sincronico. L’orizzonte diacronico spinge a rifletteresulla domanda: L’evento singolare e unico del Crocifisso cosa dice all’espe-rienza religiosa universale e alle sue molteplici realizzazioni storiche? L’oriz-zonte sincronico, ha proseguito il prof. Coda, interpella da vicino i cristianicon la domanda: Il Crocifisso, che è Risorto, come plasma il cuore con cui idiscepoli di Gesù guardano ai seguaci delle altre religioni? La seconda pro-spettiva è quella in cui si possono cogliere la dimensione teologica e quellaantropologica del Crocifisso e che permettono di entrare nell’interiorità stes-sa del Figlio che chiama Dio Abbà, ma che sulla croce lo invoca come abban-donato.

La relazione della “Questione” è stata presentata dalla prof.ssa PatriziaManganaro, docente nella facoltà di filosofia della Pontificia Università Late-ranense, con un intervento dal titolo: «Verità e religioni. Prospettive cristolo-gico-trinitarie su filosofia della religione, rivelazione e mistica». L’ampia eargomentata relazione, come rivela il titolo dell’intervento, ha affrontato ladomanda centrale – il Crocifisso e le religioni – attraverso una scansione nel-la quale in un primo tempo si è indagata la rilevanza epistemologica della fi-losofia della religione, della rivelazione e della mistica, quindi, in un secondotempo, si è articolata una riflessione che ha aperto ad un orizzonte cristologi-co-trinitario. La domanda di fondo e prioritaria affrontata dalla relazione èstata la messa a tema del rapporto tra Verità e Religioni. Domanda, questa,ineludibile per capire il dinamismo e l’interazione tra la Verità di/in Dio Rive-

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lata nel dono del Crocifisso e il valore delle molteplici manifestazioni dell’e-sperienza religiosa che costituiscono le diverse Religioni. I due estremi cheleggono in chiave parziale il rapporto Verità/Religioni, ha proseguito la rela-trice, sono: da un lato il fondamentalismo, alla cui base vi è una prospettivaideologica e, dall’altro, il relativismo, in cui l’orizzonte di fondo è la debolez-za della ragione. Tra i molti spunti offerti dalla relazione, si segnalano l’inda-gine epistemologica del rapporto tra Rivelazione e mistica che segna non soloil profondo legame tra il mistero (teologico) e la mistica, non riducendo que-sta al misticismo (emozione, sentimento), ma anche, come è stato posto in evi-denza, il ri-pensamento della ratio filosofica, non riducibile solo alla ratio lo-gica concettuale e categoriale del principio di non-contraddizione. Si tratta,quindi, di una philosophia che si lascia crocifiggere non per morire, ma per la-sciare spazio e condividere con la revelatio un’esperienza di verità. Inoltre,sempre sulla rilevanza della peculiarità della mistica cristiana quale profondorapporto con il mistero, la relatrice ha posto in evidenza le affinità/differenzecon le mistiche orientali del vuoto, del nulla, della notte e del sé.

Le prospettive sono state illustrate dal prof. Coda il quale ha posto inevidenza i filoni di ulteriore ricerca che si aprono. In particolare la dimensio-ne epistemologica del rapporto tra ratio e revelatio caratterizza una filosofiache indaga il significato universale della rivelazione cristologica nel suo mo-mento soggettivo (il nous di Cristo) e oggettivo (la Verità che è Cristo). Altriaspetti che dovranno essere approfonditi, e che sono stati rilevati, sono ricon-ducibili in particolare al fondamento biblico, neo e vetero-testamentario, e al-la comprensione teologica della croce all’interno del nexus mysteriorum so-prattutto del mistero pasquale in prospettiva trinitaria.

La seconda parte del volume è costituita da studi che sono stati elabora-ti a partire dalla discussione del Forum e che quindi a pieno titolo sono statipubblicati negli Atti. Si tratta di:

“Il mistero pasquale mistero trinitario” (Mario Collu); “La morte di Ge-sù come dono dello Spirito? (Gv 19,30). Una lettura giovannea tra descrizio-ne fenomenica e dimensione pneumatologica” (Roberto Nardin); “Solitudinedell’uomo contemporaneo davanti al Crocifisso” (Gennaro Cicchese); “DopoAuschwitz: filosofia e sapienza della croce” (Umberto Galeazzi); “La visionedi un nuovo umanesimo nel descensus ad inferos” (Vittorina Marini); “La li-berazione dalla cattedra della croce” (Valeria Maggi).

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2. Osservazioni e rilievi conclusivi

2.1 Note di carattere metodologico

Il volume rispecchia lo stesso andamento del Forum di cui costituiscegli Atti, con i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta.

Da un lato, quindi, si assapora una ricca mole di interventi, non solo perl’ampio ventaglio con cui viene coperta l’indagine attraverso quattro “Que-stioni” cruciali, ma anche per la polifonia di riflessioni suscitate dall’incontroe riportate nelle singole prospettive di ogni “sezione”. È significativo, infatti,e per molti versi originale, almeno in ambito italiano, che il terzo intervento diciascuna “Questione” non solo ha cercato di mettere in risalto i punti cardinedella relazione, ma, accogliendo le reazioni “a caldo” suscitate nel dibattito,ha aperto a ulteriori orizzonti di ricerca. La stessa pubblicazione di interventia-posteriori rispetto al Forum propriamente detto, ma da esso derivati, trat-tandosi di studi elaborati a partire dalle questioni dibattute durante le variesessioni dei lavori, in particolare nelle discussioni a seguito delle relazioni enella tavola rotonda, e che costituiscono la seconda parte del volume, arric-chiscono ulteriormente la polifonia di riflessioni.

D’altro lato, se un Convegno tende a con-venire, a muoversi (venire) in-sieme (con) per giungere a una conclusione, la struttura del Forum si presen-ta come una collatio, un “mettere insieme” e “incollare” i diversi contributiregistrandone la ricchezza e le varie prospettive ma, talvolta, risulta arduocompiere il lavoro di sintesi organica e critica. Difficoltà accresciuta quando icontributi presentano divergenze non armonizzabili, come, nel nostro caso, larelazione del prof. Donà rispetto al contributo del prof. Galeazzi. Questo limi-te “strutturale”, però, non ostacola l’obiettivo primario ed esplicito del Fo-rum, il quale non si era proposto di offrire “conclusioni”, ma di suscitare do-mande «che potranno avere una qualche risposta in un prossimo CongressoInternazionale Staurologico» (p. 153) di cui il presente volume potrebbe co-stituire una tappa intermedia.

2.2 Le domande filosofiche e teologiche

Per quanto riguarda le tematiche affrontate, i contenuti proposti e le pro-spettive aperte dal Forum e dagli Atti, possiamo presentare alcune suggestio-ni, oltre a quelle già riferite.

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2.2.1 Un primo ambito è dato dalla domanda filosofica

La pertinenza della domanda filosofica, con cui la ratio indaga la reve-latio3, consente di ottenere una nuova luce su diversi versanti. Sul piano logi-co le nozioni come “aporia”, “paradosso”, “follia”, “non contraddizione” tro-vano nel mistero (logico) della croce nuove e inedite precisazioni nel tentati-vo di formalizzare logicamente, coniugandoli insieme, aspetti quali: il Padreche ama/abbandona il Figlio; Cristo che muore in croce sapendo/non sapendodi essere abbandonato/amato dal Padre; il Figlio di Dio che ignora/sa di esse-re come/diverso dal Padre. Inoltre, la riflessione antropologica – in particola-ri tematiche come il dono totale di sé, la testimonianza, ma anche il dolore, ilmale e la morte – acquista un rilevo e un senso più profondo e più vero quan-do l’intellectus accoglie la provocante verità del Figlio dell’Uomo Crocifisso.In questo orizzonte, la portata valoriale di talune dimensioni della vita umana,forse le più drammatiche, assumono una densità e una valenza radicalmentenuove, perché non esauriscono il loro senso sul piano immanente4.

La domanda filosofica, quindi, dovrà essere colta in una prospettiva nel-la quale la ratio si manterrà aperta su tutto il reale, anche trascendente, e nonchiusa in se stessa in una presunta autoreferenzialità di cui diventerebbe nar-cisisticamente schiava senza nemmeno rendersene conto. La domanda filoso-fica, allora, per trovare un’adeguata risposta, non solo dovrà coniugarsi con ladomanda epistemologica, ma dovrà chiedere un referente al di là della (sola)ratio, perché l’autentica risposta a tale domanda, ossia ciò che radicalmentecerca la ratio, non è la scienza (episteme), ma la verità5. L’apertura della ratio

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3 Per una bibliografia ragionata sul rapporto tra riflessione filosofica e rivelazione cri-stiana, cf. P. GIUSTINIANI, Verità della Rivelazione: indicazioni bibliografiche per l’approfon-dimento, in R. DI CEGLIE (ed.), Verità della Rivelazione. I filosofi moderni della “Fides et ra-tio”, Ares, Milano 2003, 285-310.

4 «È necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri,perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa ve-rità dei valori, l’uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad accoglierla an-che nelle dimensioni che lo trascendono»: GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Fides et ratio(14.09.1998), 25, in EV 17, 1230.

5 «L’uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conqui-sta di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna del-le sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare ilsenso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto. Grazie al-le capacità insite nel pensiero, l’uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità»:Fides et ratio, 33, in EV 17, 1243.

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alla totalità del reale, implica anche che venga accolto un dato che trascendela comune esperienza, ma che è donato: la revelatio. Qui, da un lato, la do-manda filosofica si apre alla dimensione mistica e, dall’altro, diventa doman-da teologica. La presenza della revelatio garantisce che la ratio non si riducaa logica e la philosophia a episteme. Inoltre, l’adesione alla revelatio, che po-trebbe sembrare una “crocifissione” della ratio (logica), permette, in realtà,che la stessa ratio possa “risorgere” esprimendo la massima potenzialità (mi-stica). Si renderà necessario uno sguardo sapienziale che ancora l’EnciclicaFides et ratio pone come orizzonte d’indagine delle scienze (naturali), ma chea maggior ragione dovrà essere presente in una vera philo-sophia6. In questosguardo più profondo, la ratio non potrà limitare l’indagine del mistero allalogica e al linguaggio che ha nella forza del concetto (aristotelico) l’unico eassoluto referente. Occorrerà lasciare spazio anche ad un logos che non pre-tende di circo-scrivere i propri risultati in definizioni, ma che de-scrive7 lapropria continua ricerca anche con un linguaggio simbolico ed evocativo. Sitratterà di una ratio che, pur non rinunciando alla propria dimensione logica,non vorrà dimostrare il mistero, ma mostrare la sua convincente bellezza. Unautore che a prima vista sembrerebbe strettamente logico e “calcolante”, mache in realtà, a mio avviso, mostra senza dimostrare la verità della rivelazio-ne, anche in un’apertura mistica, è Anselmo d’Aosta8. L’orizzonte sapienzialenon dovrebbe essere solo della scienza e della filosofia, ma anche della teolo-gia, anzi l’intellectus fidei teologico non si declina semplicemente comescientia fidei ma propriamente come sapientia fidei9.

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6 «Lo scienziato è ben consapevole che “la ricerca della verità”, anche quando riguardauna realtà limitata del mondo o dell’uomo, non termina mai; rinvia sempre verso qualcosa cheè al di sopra dell’immediato oggetto degli studi, verso gli interrogativi che aprono l’accesso almistero»: Fides et ratio, 106, in EV 17, 1397.

7 Circo-scrivere significa racchiudere in un cerchio, circus, e quindi limitare attraversolo scrivere, il dire, il logos. De-scrivere, invece, indica scrivere, quindi dire, non chiudendo,ma nelle almeno due prospettive del prefisso de: sia limitandosi a parlare di, sia come rispostaa un dono dall’alto. Si tratta, allora, di un de-scrivere forte, “metafisico”, consapevole che larealtà è depositaria di un dono di Dio, è vestigium Dei, direbbero i medievali, quindi non esau-ribile dalla ratio logica.

8 Mi permetto di rinviare a: R. NARDIN, Metafisica e Rivelazione in sant’Anselmo, inPATH 5 (2006/2) 341-363; ID., Anselmo d’Aosta. Una mistica senza Cristo?, in Filosofia e teo-logia 20 (2006/2) 364-381.

9 Per alcune brevi considerazioni, cf. R. NARDIN, La teologia sapienziale tra medioevoe postmodernità, in Lateranum 70 (2004/3) 573-581, nonché il volume curato dallo stesso au-tore e dallo stesso titolo, di prossima pubblicazione per Città Nuova.

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2.2.2 Un secondo versante è dato dalla domanda teologica

La prima considerazione da porre è l’attenzione al Soggetto Crocifisso equindi all’evento cristologico della croce, evitando indebite riduzioni in cuil’evento salvifico (realtà) diventa simbolo di salvezza (significato). Infatti, «siè incorsi frequentemente, nei modelli soteriologici, in questo procedimento diastrazione del fatto cruento della croce, dalla sua singolarità e dal suo conca-tenamento con le cause storiche con cui è inseparabilmente connesso perproiettarlo nel mondo delle categorie esplicative e delle cifre significative. Unmodo eloquente di questo processo di idealizzazione si trova nel modo concui sia K. Barth che R. Bultmann interpretano la croce “segno della collera edel giudizio di Dio sul mondo” per cui la croce, che nasconde così il Croce-fisso, divenuta “categoria teologica”, appare un messaggio che esprime ilsimbolo dell’azione di Dio e perde ogni connessione con la storia di Gesù,con il carattere documentario di questa storia che passa completamente in se-conda linea e viene marginalizzata»10.

Da questo punto fondamentale si aprono rilevanti implicazioni. In primo luogo viene ulteriormente svelata l’inaudita profondità dell’i-

dentità messianica in quanto «al di sotto di tutte le incrostazioni postpasqualipermane un nocciolo resistente di verità storica: la crocefissione di Gesù subPontio Pilato deve essere attribuita senza dubbio alla sua pretesa, insopporta-bile per le orecchie giudaiche, di essere l’interprete, superiore perfino alla To-rà, della volontà e della sapienza di Dio, di rappresentare Dio in modo cosìpersonale da assumersi il diritto di perdonare i peccati e da prendere in nomedi Dio la parte dei peccatori contro quelli che tentavano di giustificarsi davan-ti a Dio»11. L’identità messianica letta a partire dalla Croce, inoltre, permetteun sapiente raccordo tra esegesi e teologica sistematica12. Non dobbiamo di-menticare, infatti, che se è vero che la Scrittura ci offre la fonte primaria peraccedere a Gesù13, tuttavia «il biblista sa di non fare un discorso esaustivo su

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10 M. BORDONI, Gesù di Nazaret. Signore e Cristo. Saggio di cristologia sitematica, III,Il Cristo annunciato dalla Chiesa, Herder-PUL, Roma 1986, 477-478.

11 H. U. VON BALTHASAR, Esegesi e dogmatica, in Communio 29 (1976) 4-13, qui 5.12 Ibidem. L’autore si riferisce in particolare al rapporto tra fine del mondo ed evento

della croce, cf. pp. 10-13.13 Sulla morte di Gesù dal punto di vista biblico, segnalo: H. SCHÜRMANN, Gesù di fron-

te alla propria morte. Riflessioni esegetiche e prospettive, (or. ted., Freiburg im B. 19782),Morcelliana, Brescia 1983; X. LÉON-DUFUR, Di fronte alla morte. Gesù e Paolo, (or. fr., Paris

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Gesù Cristo, e che oltre le fonti di sua competenza esiste l’esperienza vivadella Chiesa, sia di quella dei secoli passati, sia di quella contemporanea»14.

L’identità messianica che emerge dall’evento della croce, strutturalmen-te legato alla Resurrezione, come da tutto l’evento cristologico, dovrà essereesito di una indagine teologica che guarda in due direzioni: quella verticale(trinitaria) e quella orizzontale (soteriologica).

Per la prima, sarà necessario, come ha posto in rilievo uno dei maggioriteologi del Novecento, «comprendere la morte di Cristo e il mistero trinitariovicendevolmente: l’evento della croce ci introduce alla comprensione dellarealtà trinitaria, la quale a sua volta si rivela come l’unico orizzonte correttoper effettuare l’ermeneutica della croce»15. È in questo duplice orizzonte chesi illuminano a vicenda il Cristo stauroforo del Dio della kenosi e il Cristopneumatoforo del Dio della gloria, come ci ha mostrato il Forum riferendodell’Ortodossia Russa. Se la prima è una cristologia crucis la seconda è unapneumatologia crucis, quest’ultima in gran parte ancora da approfondire perla teologia occidentale e che potrebbe segnare ulteriori sviluppi in ambito tri-nitario-cristologico, come in quello antropologico-soteriologico16.

Per quanto riguarda la prospettiva orizzontale della croce, quella soterio-logica, emergono varie tematiche come la mediazione, la redenzione, la ripara-zione, il riscatto, la liberazione, la divinizzazione, la giustificazione, il sacrificio,l’espiazione sofferente, la propiziazione, la soddisfazione, la sostituzione/rap-

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1979), LdC, Torino-Leumann 1982; AA. VV., Gesù e la sua morte. Atti della XXVII SettimanaBiblica, Paideia, Brescia 1984; G. ROSSÉ, Il grido di Gesù in croce: una panoramica esegeticae teologica, Città Nuova, Roma 1984.

14 R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neo-testamentaria, I, Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 19.

15 P. MARTINELLI, La morte di Cristo come rivelazione dell’amore trinitario nella teolo-gia di Hans Urs von Balthasar, Jaca Book, Milano 1996, 339. Cf. anche A. MODA, La gloriadella croce. Un dialogo con Hans Urs von Balthasar, Messaggero, Padova 1998.

16 Per il Cristo pneumatoforo nella morte in croce mi permetto di rinviare al mio con-tributo – «La morte di Gesù come dono dello Spirito? (Gv 19,30). Una lettura giovannea tradescrizione fenomenica e dimensione pneumatologica» – pubblicato nel volume qui presenta-to. La teologia dell’Occidente, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, ha sempre di più ap-profondito la presenza e il dinamismo dello Spirito Santo. Ciò ha cominciato ad essere studia-to anche in rapporto alla cristologica, colta non solo nell’orizzonte pasquale-trinitario, ma spe-cificatamente pneumatologico. In questo senso, cf. M. BORDONI, Cristologia e pneumatologia.L’evento pasquale come atto del Cristo e dello Spirito, in Lateranum 47 (1981) 435-466; ID.,La cristologia nell’orizzonte dello spirito, Queriniana, Brescia 1995.

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presentanza (penale, vicaria, solidale), la pro-esistenza, la riconciliazione17.Questi diversi approcci alla soteriologia si possono considerare delle varianti(anche se a volte sostanziali) di due prospettive che sono state dibattute nel cor-so del Novecento e che hanno avuto origine all’inizio del secolo scorso con l’ac-ceso dibattito tra la soddisfazione vicaria (J. Rivière) e l’espiazione penale (Chr.Pesch). Per il primo il peccato segna una colpa da soddisfare e la redenzione èprincipalmente dovuta all’obbedienza amorosa di Cristo (Dio è amore). Per ilsecondo il peccato comporta una pena da espiare e la redenzione è dovuta prin-cipalmente alla sofferenza di Cristo (Dio è vendicativo)18. Al di là dell’orizzon-te amartiocentrico delle due prospettive e della visione di Dio estremamente par-ziale che ne può risultare, l’evento della croce, comunque, dovrà illuminare lasoteriologia in due ambiti poco armonizzabili, perché, pur mantenendo un’asso-luta priorità ontologica e logica nell’amore kenotico di Dio, tuttavia dovrà ren-dere ragione della sofferenza del Figlio, senza pretendere di capire l’uno igno-rando l’altra, o viceversa, come talvolta è accaduto. È quanto è stato autorevol-mente rilevato, affermando che «l’impegno primario della teologia, in questoorizzonte, diventa l’intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per lamente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte possa-no esprimere l’amore che si dona senza nulla chiedere in cambio»19.

Un’ulteriore e ultima riflessione soteriologica riguarda la comprensionedell’evento salvifico di Cristo alla luce della categoria della mediazione. Il teo-logo luterano svedese Gustaf Aulén a partire dagli anni Trenta del secolo scor-so20, ha elaborato la tesi, ripresa poi da altri autori21, secondo la quale tra il pri-mo e il secondo millennio si ha il passaggio da una comprensione della media-zione cristologica discendente a una ascendente. Da una redenzione del primo

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17 Per un’analisi storica e sistematica di tutte queste prospettive soteriologiche segnaloB. SESBOÜÉ, Gesù Cristo l’unico mediatore. Saggio sulla redenzione e la salvezza, (or. fr., Pa-ris 1988), Paoline, Cinisello Balsamo 1991.

18 Ho già trattato una sintetica presentazione delle due prospettive presenti nella teolo-gia del XX secolo, con indicazioni bibliografiche, in R. NARDIN, Cristologia: temi emergenti,in P. CODA - G. CANOBBIO (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, II, Prospettive siste-matiche, Città Nuova, Roma 2003, 23-87, in particolare la nota 192.

19 GIOVANNI PAOLO II, Fides et ratio, 93, in EV 17, 1374.20 G. AULÉN, Die drei Haupptypen des christlichen Versöhnungsgedankens, in Zeitsch-

rift für Systematische Theologie 8 (1930) 501-538; ID., Christus Victor, an Historical Study ofThree main Types of the Idea of Atonement, Society for Promoting Christian Knowledge, Lon-don 1931, 19502, 19753 (tradotto in tedesco e in francese).

21 Per es. L. BOUYER, Il figlio eterno. Teologia della Parola di Dio e cristologia, (or. fr.,Paris 1974), Paoline, Alba 1977 e il già citato Sesboüé.

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millennio opera esclusiva di Dio, quindi discendente da Dio all’uomo attraver-so Cristo, il quale vince il male e libera l’uomo dal peccato, dalla morte e daldiavolo; ad una redenzione nel secondo millennio in cui accanto all’opera salvi-fica di Dio si pone l’azione soddisfatoria dell’umanità di Gesù, quindi una sal-vezza ascendente dall’uomo a Dio attraverso Cristo, il quale offrendosi in sacri-ficio al Padre soddisfa la giustizia divina. Secondo questa tesi, la svolta nella ri-flessione soteriologica è segnata dal cur Deus homo di Anselmo d’Aosta22. Sen-za entrare nella valutazione dell’interpretazione soteriologica anselmiana, tutta-via, se questa tesi è vera, come sembra, verrebbe da chiederci: se nel primo mil-lennio la soteriologia è segnata da una mediazione cristologia discendente, il se-condo millennio da una ascendente, il terzo come sarà?

2.3 Conclusioni

Di certo la luce che proviene dalla Croce dovrà ancora, anche nel terzomillennio, fecondare e illuminare l’umanità.

Fecondare come mysterium crucis, quale dono di una vita ontologica-mente nuova perché il punto centrale della soteriologia del Nuovo Testamen-to è che «Gesù Cristo, nell’unità del suo evento di morte e risurrezione, ponein una situazione nuova la libertà umana: la redime, la rivela a se stessa, larealizza indirizzandola a pienezza. Tanto che Paolo può parlare di nuova crea-zione (Gal 6, 15; 2Cor 5, 17), intendendo con ciò affermare una nuova onto-logia del cristiano»23.

Illuminare come sapientia crucis, non come semplice “categoria” con laquale interpretare la storia, ma come evento, singolare e unico, che dà sensoalla storia – dell’umanità e del singolo – perché in essa il tempo diventa ecodell’eternità24.

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22 Per uno studio su questa opera di Anselmo mi permetto di rinviare a: R. NARDIN, IlCur Deus homo di Anselmo d’Aosta. Indagine storico-ermeneutica e orizzonte tri-prospetticodi una cristologia, Lateran University Press, Roma 2002. Si veda anche N. ALBANESI, CurDeus homo: La logica della redenzione. Studio sulla teoria della soddisfazione di S. Anselmoarcivescovo di Canterbury, PUG, Roma 2002 di cui segnalo la mia recensione in Lateranum 70(2004/3) 585-588.

23 P. CODA, Il logos e il nulla. Trinità religioni e mistica, Città Nuova, Roma 2003, 215-216. Corsivo dell’autore citato.

24 «Dalla sapienza della Croce deriva come un grande ammonimento perché l’uomo ri-sorga dalla croce della sua sapienza: l’umiliazione della ragione in un relativismo soggettivi-stico che ne blocca le capacità metafisiche, riducendola a ragione strumentale, pragmatica, uti-

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Possiamo rileggere il mistero/evento cristologico della Croce alla lucedell’orizzonte soteriologico neotestamentario segnato da diversi “modelli” diuomo nuovo25. Da un lato, nella prospettiva etica, per cui Gesù diventa un nuo-vo modello di riferimento nelle scelte comportamentali, alternativo al modelloimperiale greco-romano (Gesù umile e servo: Luca), ma anche a quello farisai-co (Gesù compie e supera la Legge con l’amore ai nemici: Matteo). Dall’altro,“nuovo” in senso teologico per il quale ad essere nuovo non è tanto un modelloma l’uomo stesso perché fondato in Cristo (Paolo) e inserito in lui attraverso lafede (Giovanni)26. Il modello soteriologico etico sembra corrispondere alla sa-pientia crucis, mentre quello teologico discende dal mysterium crucis.

Una ulteriore riflessione sulla pneumatologia crucis potrebbe rendere ra-gione del rapporto tra mysterium/sapientia crucis e il poliedrico orizzonte sote-riologico del modello di “uomo nuovo” inaugurato da Cristo, il quale, da qua-lunque prospettiva lo si guardi e in qualunque modello soteriologico sia collo-cato, nella Croce, rende presente e rivela l’inaudito misterium amoris di Dio.

Chair of Gloria Crucis of the Pontifical Lateran University

Presentation of the book, "Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?"(Which face of God Reveals the Crucified One?)

By Roberto Nardin

Professor Nardin, who teaches dogmatic theology at the LateranUniversity, as well as history of theology at the St. Anselm PontificalAthenaeum, presents the Minutes of the Forum held in May 2005 by the Chairof Gloria Crucis. There follows a talk by Monsignor Ignazio Sanna, bishop ofOristano, at present the Pro Rector of the Lateran University.

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litaristica, a servizio di un uomo anch’egli ridotto alle condizioni materiali della sua esistenza,senza quel respiro di ulteriorità che sta alla base di ogni ricerca umana del senso»: A. STAGLIA-NÒ, Teologia e spiritualità. Pensiero critico ed esperienza cristiana, Studium, Roma 2006,100. Corsivo dell’autore citato.

25 Anche se l’espressione uomo nuovo è presente in modo esplicito solo due volte in tut-to il Nuovo Testamento (Ef 2, 15; 4, 22-24) è equivalente a nuova creazione di Gal 6, 15 e2Cor 5, 17, cf. G. SEGALLA, Quattro modelli di “uomo nuovo” nella letteratura neotestamen-taria, in Teologia 18 (1993/2) 113-165, qui 115.

26 Per i vari modelli di “uomo nuovo” che si evincono nei Vangeli e in Paolo, a cui hofatto riferimento, si veda l’articolo di Giuseppe Segalla citato nella nota precedente.

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Quale volto di Dio rivela il Crocifisso?

di MONSIGNOR IGNAZIO SANNA

Oggi come oggi ci sono tanti modi di concepire Dio, e tanti modi di pre-garlo. Questi non sempre corrispondono alla sua vera natura di creatore e li-beratore, per cui è necessario purificare i modi di concepirlo e quelli di pre-garlo. Il concetto di Dio va purificato, in modo particolare nel nostro tempo,perché il Dio di Gesù Cristo corre il rischio di essere ridotto a un dio imperso-nale, a un garante della convivenza civile, in cui si riconoscono credenti e noncredenti, cristiani e non cristiani, laici devoti e laici atei.

Nelle vicende della cultura filosofica del postmoderno si può scorgere ilgenerale tentativo umano di ridurre Dio a misura d’uomo, di ridurre, cioè Dio, aqualcosa che si può pensare, gestire, ingrandire o rimpicciolire, a seconda deidiversi schemi di pensiero e dei diversi punti di partenza. La cultura moderna econtemporanea dà spesso il primato della conoscenza alla sola ragione, e, chiu-de le porte della mente alla potenza dell’infinito. Heidegger era convinto che so-lo un dio ci potrebbe salvare. Ma il suo dio non è il Dio cristiano, Padre di GesùCristo. Kant sosteneva che solo la ragione ci potrebbe salvare. Ma la sua ragio-ne è chiusa al trascendente. Per costoro, Dio, al massimo, potrebbe essere ilguardiano dell’ordine morale. La storia passata e presente, però, insegna chequesto dio non è servito a molto, e che il ricorso alla sola ragione non ha elimi-nato il mistero dalla vita. Si possono, poi, trovare valide regole per vivere e vi-vere bene. Sia i sistemi democratici che quelli totalitari hanno saputo trovareproprie regole di convivenza pacifica. D’altra parte, mentre la vita onesta nonha bisogno di Dio, Dio ha bisogno di una vita onesta, di uomini onesti, per rive-larsi, per comunicarsi, per essere testimoniato.

Questi tentativi, tuttavia, di diverso spessore teorico, e di diversa inci-denza culturale e religiosa, non arrivano a scalfire la fede cristiana nel Dio, ilquale rimane in ogni caso “più grande dell’uomo” (Gb 33, 12). La rivelazionedella sua natura nel roveto ardente come di un Dio che è colui che è (Es 3,14),che è stata la base della metafisica “forte”, della concezione ontologica “forte,è inverata dalla professione di fede giovannea come di un Dio che è amore

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MONSIGNOR IGNAZIO SANNA SAPCR 22 (2007) 103-106

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(1Gv 4, 8.16). Questo Dio essere supremo ed onnipotente è il Dio amore che“ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque cre-de in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). E questo Figlio uni-genito che era di natura divina, “non considerò un tesoro geloso la sua ugua-glianza con Dio; ma spogliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte ealla morte di croce” (Fil 2, 6-8).

Secondo la celebre riflessione bonhoefferiana, “Dio si lascia cacciarefuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appuntosolo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17,che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della debolez-za, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi reli-gione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenzadi Dio nel mondo, Dio è il deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’im-potenza e alla sofferenza di Dio; solo Dio il sofferente può aiutare. In questosenso si può dire che la descritta evoluzione verso la maggiore età del mondo,con la quale si fa piazza pulita di una falsa immagine di Dio, apra lo sguardoverso il Dio della Bibbia, che ottiene potenza e spazio nel mondo grazie allasua impotenza”. L’onnipotenza del Dio cristiano, Padre di Gesù Cristo, non ècertamente l’onnipotenza dello Spirito assoluto hegeliano. Quest’ultimo siidentifica con la ragione universale che si serve dei popoli e degli individuicome semplici strumenti per realizzare i suoi fini reconditi. I popoli e gli indi-vidui sono destinati a perire e a diventare vittime del loro stesso successo, per-ché mentre essi scompaiono la ragione rimane! La storia del mondo non è al-tro se non la manifestazione di questa ragione assoluta che si afferma e si in-vera in una molteplicità di vicende e di destini. Secondo la filosofia della sto-ria hegeliana, “una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è cosìimpotente da non saperne determinare il grande contenuto”.

L’onnipotenza del Dio cristiano, Padre di Gesù Cristo, è immolata, è mi-surata dall’amore, è rivelata nel Crocifisso, e, come tale, denuncia i limiti diogni falsa religiosità. Essa spinge il credente a trovare nella propria debolezzail presupposto della propria forza, secondo la legge della vita cristiana indica-ta da San Paolo: “quando sono debole, è allora che sono forte”(2Cor 12,10)”.D’altra parte, “la profondità della sapienza rivelata, scrive Giovanni Paolo II,spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affattoin grado di esprimerla in maniera adeguata. L’inizio della prima lettera ai Co-rinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l’even-

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to storico contro cui s’infrange ogni tentativo della mente di costruire su argo-mentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell’esi-stenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Ge-sù Cristo. Qui infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre apura logica umana è destinato al fallimento.” (FR, 23).

L’evento di Gesù Cristo crocifisso e risorto è, dunque, la chiave di lettu-ra del mistero di Dio, perché, secondo Pascal, non soltanto conosciamo Diounicamente per mezzo di Gesù Cristo, ma conosciamo noi stessi unicamenteper mezzo di Gesù Cristo. Noi non conosciamo la vita, la morte se non permezzo di Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo che cosa sia la no-stra vita o la nostra morte, Dio e noi stessi. La conoscenza di Dio per mezzo diCristo fa sì che alla divinità sapiente dei greci, in grado di fondare ogni gene-re di aspirazione umana, ed alla divinità potente dei giudei, in grado di vendi-care ogni ingiustizia, subentri la divinità crocifissa, stoltezza dei sapienti escandalo dei potenti (cf 1Cor 1, 23).

Un Dio crocifisso, in effetti, rappresenta la distanza infinita tra la con-cezione del Dio cristiano e la creazione degli innumerevoli idoli della religio-sità umana. Ma allo stesso tempo, un Dio crocifisso rivela la possibilità di sal-vezza dell’uomo non dalla morte ma nella morte, e trasforma l’enigma più in-solubile della storia in un passaggio di speranza verso una vita che non cono-sce tramonto. I vangeli che ci narrano la vita di Gesù sono ben lontani dallostile delle Vite degli eroi, molto popolari nel mondo greco-romano. Il primovangelo che la Chiesa delle origini ha ordinato e steso in forma compiuta nonè quello di Marco o di Matteo. Uno dei primi testi fatti circolare era quasi cer-tamente un racconto della passione e morte di Cristo, aperta però alla luce del-la risurrezione, e ciò ha fatto dire a qualche esegeta che i vangeli sono storiedella passione con una introduzione particolareggiata. Del resto, già durantela sua vita terrena Gesù aveva posto al centro della sua attenzione il misterodel dolore. Il vangelo di Marco è quasi per metà un racconto di Cristo in com-pagnia di malati. I miracoli di Gesù non sono gesti spettacolari di autopromo-zione, destinati a sollecitare applausi e successi, visto che molte volte egli im-pone il silenzio al malato guarito, ma piuttosto orientati a liberare l’uomo dalmale e dal dolore.

L’evento di Gesù Cristo crocifisso e risorto obbliga, per un verso, al-l’abbandono della ragione dialettica, che ha dominato la stagione della mo-

Quale volto di Dio rivela il Crocifisso? 105

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dernità, e, per l’altro verso, all’assunzione di una nuova logica che rispettimaggiormente la frammentarietà e paradossalità della realtà. Questa nuovalogica non può venire né dal pensiero di una trascendenza assoluta, che vogliaabbracciare il mondo intero, né dal pensiero di una trascendenza debole, cheriduce l’alterità a metafora, ma dall’ambito della fede. Solo in questo ambitosi può parlare di Dio non come del deus mortuus, troppo lontano nella sua tra-scendenza e troppo impassibile nella perfezione, né come del deus otiosus, re-so superfluo ed inutile dalla potenza umana della tecnica che sfida la sua on-nipotenza divina, ma come il Dio della vita nella morte, della forza nella de-bolezza, della sapienza nella stoltezza, del tutto nel frammento.

Concludo con una esperienza personale. Nella mia prima visita da ve-scovo ai santuari del dolore ho fatto il segno di croce sulla fronte di un neona-to venuto al mondo da pochi minuti, e su quella di un vecchio che lottava conl’agonia della morte. In quei momenti, ordinari ed eccezionali allo stesso tem-po, ho quasi varcato la soglia del mistero della vita e della morte, e mi sonoaffacciato ai confini dell’esistenza umana, dove un semplice gesto ed una pa-rola giusta diventano momenti di grazia. Mai prima di allora avevo sperimen-tato il peso soprannaturale dei miei gesti di sacerdote. Ho riflettuto sul fattoche il primo gesto che è stato compiuto sulla nostra fronte all’ingresso nellavita della grazia, al nostro battesimo, è stato il segno della croce. Da quel ge-sto più comune e più dimenticato, più profondo e meno capito, più frequentee meno vissuto, bisogna ricominciare per ridare consapevolezza e smalto allanostra testimonianza di cristiani.

Which Face of God's Reveals the Crucified One?

by bishop Ignazio Sanna

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TITO AMODEI SAPCR 22 (2007) 107-114

L’Andy Warhol che si pente

di TITO AMODEI

Andy Warhol, il popartista più famoso d’America, tra glianni ’60 e ’80 del secolo scorso godeva di un prestigio mai rag-giunto dagli altri suoi colleghi dello stesso movimento. Era con-siderato una star, alla stregua dei divi più popolari.

La critica d’arte e il mercato non perdevano occasioni perimporne l’opera, mettendo in risalto anche il comportamento so-ciale dell’artista che non doveva essere da meno di quello di undivo. Trascurando o tacendo il suo comportamento religioso.

Grazie alla grande mostra organizzata a Roma “pentiti enon peccare più”, ci è stato consentito di sapere quanto, invece,egli fosse attento ai valori della fede. Questo scritto ha lo scopodi informare i nostri lettori proprio su Warhol religioso.

Nell’Autunno del 2006 nel chiostro del Bramante a Roma è stata alle-stita un’ampia mostra del pittore pop americano Andy Warhol1. Ma l’avveni-mento poteva risultare rutinario se non fosse stata la sua titolazione a render-lo una sorpresa ed una scoperta, almeno per buona parte dei visitatori.

“Pentiti e non peccare più”, questo il titolo il quale ha bisogno di unacircostanziata spiegazione.

Salvezza e culture 107

1 WARHOL ANDY (Filadelfia 1928), artista pop statunitense, di origine cecoslovacca.Diplomatosi al Carnegie Institute of Technology di Pittsburg, si trasferisce nel 1949 a NewYork, dove lavora inizialmente come grafico pubblicitario e vetrinista. Nel 1953-55 dirige conun amico un piccolo teatro dell’Ovest East Side. A partire dal 1962 adotta stabilmente la tec-nica serigrafia per le sue opere, a carattere volutamente impersonale, emblematiche di una so-cietà massificata ad avanzata tecnologia. Le immagini di zuppa in scatola (la famosissimaCampbell Soup), le effigi delle dive e dei big del momento (da Marilyn Monroe a Nixon eMao), fino ai “travestiti” degli anni settanta, così come la parallela produzione cinematografi-ca, testimoniano ed evidenziano una volontà di anonimato e di stereotipizzazione, riflesso ba-nalmente fedele di una condizione esistenziale contemporanea. Muore nel 1987.

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Nel fermento artistico dell’America postbellica, provocatrice di innova-zioni linguistiche, tra le più vitali e per la fioritura di talenti ai quali anche lavecchia Europa era costretta a guardare, la star che li rappresenta e li riassu-me, fu indubbiamente il popartista2 Andy Warhol, mito ancora da vivo. E fuun mito alla pari delle molte celebrità le cui immagini egli mutò in icone, di-venendo egli stesso icona dell’arte in quella America che sa creare miti anchedall’effimero.

Nella sterminata bibliografia di questo artista mancava quel tassello cheriguardava la sua fede e la pratica della sua fede. Una disattenzione forse do-vuta all’assenza di un pur vago riferimento al sacro in molti dei suoi lavoritanto celebrati e soprattutto perché l’artista stesso non l’esibiva, giacchè ne fa-ceva un affare strettamente privato.

Anche quando egli, verso la fine della sua vita (anni ottanta), si accinsea rivisitare i grandi maestri italiani del ‘400 e ‘500 la sua opera fu sempreguardata nell’ottica della sua ricerca stilistica e non per una dichiarata nostal-gia del tema sacro, come poteva bene apparire nella rivisitazione quasi ma-niacale dell’Ultima Cena di Leonardo o della Madonna Sistina di Raffaello.

Non se ne sono accorti, i suoi ammiratori, neppure quando egli uscì al-lo scoperto con le grandi serigrafie delle croci a tutto campo o in serie nellostesso spazio.

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2 Pop art, (formula abbreviata di popular art) movimento artistico diffusosi negli StatiUniti intorno al 1959-60. il termine p.a. nato nei circoli artistici londinesi, fu usato dal criticoinglese Lawrence Alloway per indicare che la corrente affermatasi a New York era caratteriz-zata dall’interesse per le espressioni di massa. Prendendo l’avvio dalla problematica esisten-ziale degli espressionisti astratti, gli artisti della p. a. mirarono, attraverso la mediazione deineodadaisti Johns, Rauschenberg e Twombly, a privare l’operazione artistica del suo caratteredi esperienza soggettiva per ricondurla nella sfera delle situazioni che coinvolgono l’uomo co-mune. Protagonista diretta della p. a. è la realtà della vita americana di massa, contrassegnata,in un paesaggio urbano anonimo e innaturale, dall’ossessiva presenza dell’apparato pubblici-tario, dall’invasione dei prodotti della civiltà dei consumi, dal martellamento dei messaggi deimass media (fumetti, réclames ecc.); gli artisti lavorano manipolando immagini e oggetti giàfabbricati con tecniche che ne potenziano le implicite qualità espressive. I maggiori rappre-sentanti della p. a. sono Dine, Oldenburg, Segal, Rosenquist, Lichtenstein e Warhol. Warhol,interessato al problema della ripetitività, riproduce il medesimo soggetto (si tratti della botti-glia di Coca Cola o della Gioconda o del volto di Elizabeth Taylor) in lunghe serie di foto-grammi, a sottolinearne la carenza di significato. Invadendo lo spazio con la fisicità dell’og-getto, la p. a. rappresenta il punto d’arrivo dell’arte americana degli ultimi decenni, dominatadall’intento di superare la funzione strettamente estetica dell’opera d’arte.

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Un altro segnale esplicito doveva essere raccolto nella serie di teschi se-rigrafati negli anni ’70 e in modo più emblematico quando questo teschio eglise lo pone su una spalla nell’autoritratto (sempre in serigrafia) del 1978.

La mostra di Roma con quel titolo, “pentiti e non peccare più”, final-mente consente di completare la personalità dell’artista rivelandone la di-mensione di credente. “Repent and sin no more!”.

Ma chi era veramente Andy Warhol come uomo e come artista e ag-giungiamo come credente?

Da genitori immigrati cecoslovacchi, di religione cattolico-uniati, eglieredita la ricchezza spirituale di una lunga e sofferta testimonianza di fede.Con un simile bagaglio, nato e cresciuto in una America affluente, riesce a co-glierne tutte le contraddizioni con palese distacco, tanto da registrarne quegliaspetti più caratterizzanti che inchioda con lucida freddezza nelle sue imma-gini le quali riducono le persone più che a simbolo a marchio di fabbrica.

Come capita ad altri artisti, anche per Warhol ci sono delle opere che neevocano subito il ricordo. O meglio che identificano l’opera con l’autore. L’o-pera ne costituisce la firma, e l’autore viene letto e analizzato dal suo codiceespressivo.

Anche se nato negli Stati Uniti egli deve sentirsi soprattutto uno spetta-tore di quanto lì accade: è sempre un immigrato con radici altrove e della nuo-va patria lo colpisce la rutilante superficie, la copertina levigata e la corsa alsuccesso con la faccia patinata.

Negli anni ’70 e ’80 tutta l’America che conta, quella degli attori arri-vati, degli scrittori, degli artisti, della finanza passano per la polaroid di War-hol che li fissa (è il caso di dire) nelle sue grandi serigrafie sulle quali inter-viene poi con gli acrilici.

Così la Marilyn Monroe, la Jackie Kennedy, la Liz Taylor, Truman Ca-pote, Mao o Lenin nelle loro dilatate superfici, inesorabilmente colte nella as-senza di qualsiasi pathos e solo sigle portatrici di una condizione sociale, main superficie, danno la misura della capacità di distacco dell’artista, ma nelcontempo della sua analisi spietata della società in cui si trovava ad operare.

Questa società standardizzata occupa l’ultimo decennio della sua vita,ma a rappresentare una America che si potrebbe identificare nel prodotto diconsumo egli inizia fin dagli anni ’60 con la serie delle bottiglie di Coca-Co-la, dei barattoli di Cambell e delle confezioni Brillo.

Ma l’America, per Andy Warhol si identifica nel suo dollaro. E il dolla-ro piaceva tanto anche all’artista: “Mi piace il denaro appeso al muro. Mettidi comprare un quadro da 200.000 dollari, credo che dovresti prendere queisoldi e appenderli al muro. Così se qualcuno viene a trovarti la prima cosa che

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vede sono i soldi al muro”. Dollaro come ossessione sua e della società in cuiopera. Disegna il dollaro fin dagli anni ’60; dice che tra tutte le divise, quellaamericana è meglio disegnata. Dal biglietto completo degli anni ’60, negli an-ni ottanta passa a disegnarne solo il simbolo in dimensioni gigantesche (oltredue metri) e li colora in maniera da renderli affascinanti, quasi golosi.

Il rovescio di questi miti è una società che subisce o crea morte, disastriper il solo fatto che i suoi componenti sono costretti a stare insieme. E stareinsieme in modo meccanizzato, nel quale la morte e quella più raccapriccian-te è il prezzo richiesto come pedaggio ineluttabile.

La morte esibita nella quotidiana stampa e dal cinema e quella sparata,tutti i momenti, dalla televisione.

Morte per processo fisiologico o procurata per violenza liberamentecercata, ma in modo speciale quella che la società degli uomini perbene in-fliggono ai loro simili delinquenti con la sedia elettrica.

La sedia elettrica, nei lunghi anni della sua oscena esistenza non avevatrovato mai chi la riproponesse come opera d’arte o che ispirasse artisti.

Di Andy Warhol ci sono delle serigrafie degli anni ’60 che la ritrae informa seriale e a colori; colori glaciali che ne accentuano la drammaticità esuscitando un rigetto per quello che essa è, ancora prima per quello che essasa fare.

Negli spazi dilatati di queste opere quello strumento terrificante è solo,smisuratamente piccolo e freddo: pare il vero imputato. Manca il condanna-to, non ci deve essere la rappresentazione dell’esecuzione. Il rigetto nasce dalpotere che essa ha sull’immaginazione di distruggere una vita.

L’imputato qualche volta l’artista l’ha serigrafato solo, ma in bianco enero, sgranandone la superficie, quasi volesse trasfigurarlo positivamente pri-ma della morte.

C’è indubbiamente in queste opere sulla morte un coinvolgimento per-sonale; può essere denuncia ma può essere anche paura. Perché nel 1968 l’e-saltata femminista Valérie Solanas gli spara ed egli si porterà per il resto del-la vita i segni di quell’attentato e una guardia del corpo.

Negli anni ottanta quel ricordo è ancora bruciante tanto che i soggettidel suo lavoro saranno spesso coltelli e pistole. Tutte immagini dilatate neisuoi spazi cromatici particolarmente freddi e specchianti.

La celebrità così vasta di cui ha goduto e gode questo artista non è co-munque figlia delle sue scelte che collimano con la condizione di vita creataabbastanza ad arte dalla società in cui egli è vissuto. La sua celebrità e la suacrescita nel tempo è affidata alla qualità della sua arte.

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L’arte non può raccomandare e giustificare la sua esistenza se non nellapropria qualità espressiva.

Per esprimersi Warhol ha scelto il veicolo più immediato ed efficace delsuo tempo; molto contiguo alla pubblicità più fascinosa; si è servito dellamacchina fotografica e dei sistemi seriali più aggiornati. La sua grandezza pe-rò è consistita nell’evitare la passività che questi procedimenti possono inge-nerare, ma soprattutto di intervenirvi con uno sguardo indagatore e selettivoda indurre anche noi a vedere i quotidiani accadimenti con lo stupore dellaprima volta. I suoi temi spesso banali, come possono essere i ritratti, che so-no solo ritratti, si rivelano, nelle sue opere, come delle spirituali epifanie. Per-ché le immagini comuni, appunto, i ritratti, la sedia elettrica o la pistola, tut-te immagini che la cultura corrente assorbe nell’anonimato, in Warhol le sco-pri nuove e ne hai il brivido.

Egli dilata i confini; ne sottolinea i caratteri, ne accende i contorni masoprattutto indugia su quanto può far sembrare un soggetto un prodotto diconsumo. Sicché non ci interessa più la cosa o la persona presa a soggetto,bensì quella particolare superficie che ci rivela il pittore. E subito dopo lo stu-pore e la sorpresa per quelle immagini che il pittore ha reso uniche, fissate oraquasi come emblemi che non rappresentano più il caduco quotidiano ma gliidoli di una società che vuole fingere a qualunque costo.

Ma di che cosa doveva pentirsi Andy Warhol e in che cosa non dovevapiù peccare?

I suoi contemporanei pare non conoscessero le sue idee religiose. Né egline esibiva la pratica. Di lui si conosceva l’attaccamento ai soldi e al successo;non gli dispiaceva la celebrità raggiunta e godeva di essere considerato una star.La fede riteneva che fosse un affare privato. Qualcuno diceva di averlo vistospesso in chiesa ad accendere la sua solita candelina e a fermarsi a pregare. Si èscoperto anche che aiutò un amico a convertirsi. Si sa che prestava aiuto ad unamensa per bisognosi e sosteneva le spese del seminario per un suo nipote.

Se si entra infine in casa sua, si inginocchiava con la madre a pregare da-vanti all’altare eretto in una stanza e accanto al suo letto aveva il suo libro di pre-ghiere: insomma un ambiente di gente praticante.

“Pentirsi e non peccare più” frase del rituale liturgico del sacramento del-la penitenza poteva essere bene una specie di tormentone che gli ricordava la suacondizione di peccatore. E se Andy aveva coscienza, e non poteva non averla, diessere anche lui peccatore l’avrà dovuta ripetere con convinzione. Egli sapevabene che la sua condotta non sempre era conforme al vangelo se rifletteva sul suoattaccamento ai soldi, alla fama e ad altri disordini della sua vita. Il quadro del1985, due anni prima della sua morte, che reca questa scritta, dovrebbe confer-

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mare questa condizione del suo spirito, come un grande esame di coscienza. Econferma questa sua sensibilità ed attenzione al trascendente e alla coscienzal’altra sua frase: “Il paradiso e l’inferno sono divisi appena da un soffio”.

Siamo ad un consuntivo morale davanti alla propria coscienza. Suffra-gato questo concetto, dalla sua attenzione quasi ossessiva all’Ultima Cena, ilcapolavoro di Leonardo. Tentando una non improbabile analisi del suo spiri-to, che presentiva la morte appena un anno prima dell’evento, egli rivisita conpassione quel capolavoro. Lo ripropone in vastissime serigrafie, ne dilata lasuperficie fino a raggiungere gli oltre sette metri di lunghezza, vi intervienesopra con pittura a polimeri, investendo le figure dei protagonisti con conci-tate macchie cromatiche e ne ottiene una quiete come dopo la tempesta. Men-tre in una altra serigrafia di oltre 1005 cm, solo in bianco e nero e a punta dipenna, sorprende per l’abilità con cui è riuscito a cogliere la psicologia cheLeonardo dette ai personaggi. Ma la sua preferenza per la serialità lo spingea ripetere la testa del Cristo per ben 112 volte in una superficie lunga 1069cm. Alla sua morte fu trovato nel suo studio un modello in ceramica di fattu-ra commerciale del capolavoro vinciano. Ne aveva avuto bisogno come sti-molo o appello soprattutto negli ultimi istanti della sua vita.

Prima dell’Ultima Cena si era soffermato sulla immagine della croce: l’-ha riproposta in serie o isolata, sempre in grandi dimensioni. Noi ne riprodu-ciamo una (rossa nell’originale) alta più di due metri. Può apparire ovvia ed ele-mentare. Nella pittura serigrafica ed acrilica si impone per la sua forza icasticae per quello scarto di profondità rilevato nel suo lato destro. Ecco, Andy War-hol ridà all’ovvio e allo scontato il peso che le cose nascondono ai distratti. Enella croce egli vi trova indubbiamente l’assoluzione dei suoi errori.

The Penitent Andy Warhol

By TITO AMODEI, cp

Andy Warhol, the most famous pop artist in the United States, during the1960s through the 80s enjoyed a prestige never equaled by any of his professionalcolleagues. He was considered a top star on a par with the greatest around.

Art critics and the market never passed over a chance to laud his work,even stressing his social behavior which was expected to be what corresponded toa true celebrity. They overlooked or were silent about his religious behavior.Thanks to a huge exhibit organized in Rome under the title of “Those whorepented and those who never did it” became known to what a degree he wasconcerned for faith values. Sop this article seeks to inform our readers about thereligious Warhol.

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ELISABETTA VALGIUSTI SAPCR 22 (2007) 115-119

Un mito

di ELISABETTA VALGIUSTI

Bobby è il film ispirato a Robert Francis Kennedy, il se-natore democratico ucciso durante le elezioni presidenziali ame-ricane nel 1968. Non è la storia della sua vita o della sua car-riera politica ma un ritratto dal vivo eseguito utilizzando i ma-teriali filmati dell’epoca inseriti in una trama di storie che sisvolgono il giorno della sua morte. È un quadro interessante evivo dell’America di quegli anni, è un tributo a un grande mitodella nostra storia.

Il film BOBBY di Emilio Estevez fa rivivere la giornata in cui fu as-sassinato il senatore Robert Kennedy, candidato alla Casa Bianca. È il 5 giu-gno del 1968 nell’hotel Ambassador di Los Angeles. Qui, lo staff di Kennedy,che ha organizzato la campagna per il voto delle primarie presidenziali nellostato della California, e moltissimi sostenitori attendono impazientemente i ri-sultati e l’arrivo del candidato.

Diverse storie si intrecciano in un clima di grande entusiasmo. Alcunedi queste storie sono state ricostruite sui resoconti di personaggi effettiva-mente presenti quel giorno. Fra di loro figurano alcuni dei feriti nella spara-toria in cui Kennedy, subito dopo il discorso per la grande vittoria appena ot-tenuta, fu colpito a morte da un giovane di origine giordana Shiran Shiran.

Quale Robert Kennedy presenta il bel film di Estevez? È proprio lui, unMito, lui, lo straordinario, affascinante, amabile, coraggioso, giovane, uomo po-litico americano che ci parla con la forza della speranza in un mondo migliore.È il suo volto deciso e sorridente che appare in una lunga sequenza di filmati direpertorio all’inizio del film e poi in altri momenti a illuminare lo schermo. È ilKennedy che attraversa l’America più povera, che si intrattiene con tutti, i la-voratori, la classe media, la gente di colore, gli emarginati, i giovani. È l’uomoche, dopo l’assassinio di Martin Luther King e del fratello Presidente J. F. K.,osa candidarsi per non far morire i loro ideali e rilanciarli con energia.

È un americano che il 4 aprile del 1968, quando ad Indianapolis vieneucciso Martin Luther King, aveva annunciato:

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Ho brutte notizie per voi, per tutti noi cittadini, e per la gente che amala pace in tutto il mondo, e la notizia è che Martin Luther King è stato uccisoquesta notte. Egli ha dedicato la sua vita all’amore e alla giustizia per i suoisimili ed è morto per questo sforzo.

È un giorno difficile, in un tempo difficile per gli Stati Uniti, è forse be-ne chiederci che nazione siamo e in che direzione vogliamo muoverci.Per quelli fra voi che sono neri – considerando l’evidenza, visto che evi-dentemente sono dei bianchi ad essere stati responsabili— potete riem-pirvi di amarezza, di odio, e di desiderio di vendetta. Possiamo muo-verci in quella direzione come nazione, in una grande polarizzazione –neri fra neri, bianchi fra bianchi, pieni di odio l’uno contro l’altro. Op-pure possiamo fare uno sforzo, come ha fatto Martin Luther King, percapire e per comprendere, e per sostituire quella violenza, quella mac-chia di sangue sparso da un capo all’altro del nostro paese, con uno sfor-zo per capire con compassione e amore. Per quelli di voi che sono nerie hanno la tentazione di riempirsi di odio e sospetto per un tale atto, con-tro tutti i bianchi, io posso solo dire che sento nel mio cuore lo stesso ti-po di sentimento. Ho avuto un membro della mia famiglia ucciso, ma èstato ucciso da un uomo bianco. Però dobbiamo fare uno sforzo negliStati Uniti, uno sforzo per capire, per andare al di là di questi tempi piut-tosto difficili. Il mio poeta preferito era Eschilo. Scriveva “Nel nostrosonno, il dolore che non possiamo dimenticare cade goccia a goccia sulnostro cuore finché, nella nostra disperazione, contro la nostra volontà,arriva la saggezza attraverso la solenne grazia di Dio.” Negli Stati Uni-ti non abbiamo bisogno di divisioni (…) ma di amore e di saggezza, edi compassione l’uno verso l’altro (…) Così stasera vi chiederò di tor-nare a casa, di dire una preghiera per la famiglia di Martin Luther King,questo è vero, ma cosa ancora più importante di dire una preghiera perquesta nostra nazione, che tutti noi amiamo – una preghiera per la com-prensione e per quella compassione che dicevo. Noi possiamo averesuccesso in questo paese. (…) Dedichiamoci a quello che i Greci scri-vevano tanto tempo fa: domare la ferocia dell’uomo e rendere nobile lavita del mondo. Dedichiamoci a questo e a dire una preghiera per il no-stro paese e la nostra gente.1

1 Discorso di Robert Kennedy alla morte di Martin Luther King, www.rfkmemorial.org.

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Il regista Estevez con la sua scelta di privilegiare il volto del vero Ro-bert Kennedy dimostra una delicatezza artistica dettata dall’affetto, dalla co-scienza dell’irripetibilità di un volto rimasto negli occhi dei contemporanei,dell’irrepitibilità di un mito conosciuto in diretta.

Fra l’altro, per chi lo ricorda, la morte di Robert Kennedy fu uno dei pri-mi eventi mediatici globali in diretta, la tragedia di una famiglia, di una na-zione, anticipato qualche anno prima dalle sconvolgenti immagini del primouomo a mettere piede sulla luna. Appartengono agli stessi anni le immaginidella atroce guerra in Vietnam.

Ed è questo il clima che il film propone, sono attimi delle storie di tantipersonaggi, fra speranza di pace e guerra in corso, fra scontri razziali e deside-ri di giustizia, fra miseria e successo, fra dubbi e tradimenti, fra vita da hippy erivolte studentesche. Il tutto all’interno del meraviglioso hotel Ambassador conpersonaggi interpretati da un cast di grandi attori. Anthony Hopkins è nel ruolodel portiere in pensione dell’hotel, è rimasto vedovo ed è diventato un clienteabituale del bar dove trascorre tutto il giorno leggendo il giornale e giocando acarte con un vecchio amico interpretato da Harry Belafonte.

Sharon Stone è nel ruolo dell’estetista del salone di bellezza e WilliamMacy in quello del direttore dell’albergo ed interpretano una coppia sposatain piena rottura per un tradimento in atto.

Demi Moore è una straordinaria cantante famosa e alcolizzata con unmarito-manager insofferente e depresso, ottimamente interpretato dallo stes-so regista Estevez.

Troviamo anche il famoso attore Martin Sheen nel ruolo di un anzianofacoltoso, supporter di Kennedy.

Sono molti gli interpreti famosi fra i quali spiccano alcuni attori giova-ni. Uno è particolarmente esilarante, Ashton Kutcher, un giovane bellissimodi volto e di figura che interpreta un trafficante di droga che convince due ra-gazzi dello staff, interpretati da Brian Gerarghty e Shia Labeouf, a provare unacido sostenendo con convinzione che sia il migliore modo per conoscereDio. Il viaggio in acido dei tre ragazzi è un’antologia di immagini suoni psi-chedelici con tutta la novità della pop- art americana.

Lindsay Lohan interpreta una ragazza impegnata politicamente controla guerra in Vietnam e sta sposando un compagno del college ( Elijah Wood)per aiutarlo ad evitare il servizio militare. Poi i due si innamorano sul serio.

Jacob Vargas è nel ruolo di un giovane inserviente della cucina che de-ve rinunciare alla partita di rugby per un turno imprevisto e nelle cui bracciacadrà Robert Kennedy ferito a morte.

Un mito 117

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Quasi tutti questi personaggi si ritrovano nella cucina dell’albergo doveKennedy, dopo il discorso di trionfo, passa per salutare e ringraziare il perso-nale seguito dal fucile dell’attentatore Shiran Shiran.

L’ultima parte del film mostra Kennedy prima, durante e dopo l’arrivoall’Ambassador.

È un lungo piano sequenza in movimento che inizia sulla strada e pro-segue nell’interno dell’hotel. Vediamo Kennedy incontrare la gente di Cali-fornia e risentiamo passaggi famosi dei suoi discorsi.

La macchina da presa lo segue di spalle mentre scende dall’auto ed en-tra. Viene poi circondato dalla folla festante per la vittoria.

Ma è il vero Kennedy in trionfo sul palco dell’Ambassador che parla.Di nuovo sono immagini di repertorio montate ad arte con le immagini di fin-zione ed effettate della sala che lo ascolta e lo applaude. Una lunghissima se-quenza finale comprende gli ultimi momenti della vita di Kennedy, il suo vol-to, il suo sorriso, in fotogrammi strappati alla storia che sono come lampi diverità incisi su una trama sottile come l’anima di una pellicola 8 mm.

Sono secondi, attimi di verità, di senso della fine di un sogno stupendo,inframmezzati da variegatissimi dettagli della folla intorno a Kennedy, mani,occhi, montati come contorno, corona di quel volto, della sua figura. A tratti, siinsinua il dettaglio in soggettiva del mirino di una pistola che segue Kennedypuntando sulla sua schiena, la sua testa, ma la mira è continuamente disturbatada altre braccia, corpi, teste, che si muovono, attraversano il campo, spingonovia senza sapere o vedere quella maledetta pistola calibro 22.

I suoi spari infrangono tutto il movimento, sospendono il mondo, im-mobilizzano gesti e sguardi, rivoltano e schiacciano Bobby per terra, insan-guinano pance, facce, mani, gambe, di tanti. Il terrore incredulo prende il so-pravvento sull’entusiasmo, l’allegria fa quasi fatica a smorzarsi davanti allamorte di chi aveva saputo vivere con coraggio.

Il ritmo delle immagini rallenta, di nuovo sprazzi di verità di un voltoche scompare dietro il portellone di un’ambulanza.

Tutto il film è impostato su un grande movimento di caratteri e scenecon una grande vivacità di battute e situazioni della cultura americana e del-lo stile di vita degli anni ’60 ben ricostruiti nei dialoghi della sceneggiaturadello stesso Estevez, nelle fotografia di Michael Barrett, nelle bellissime sce-nografie di Patti Podesta, nei costumi di Julie Weiss. Il montaggio di RichardChew combina con eleganza i diversi ritmi di scene che variano di registro incontinuazione. Il materiale di repertorio è usato con grande maestria e parsi-monia e viene amalgamato accuratamente con le scene di finzione.

118 Elisabetta Valgiusti

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Nella scelta delle musiche di Mark Isham, risaltano alcuni pezzi musi-cali d’epoca di grande effetto, magnificamente riproposti dalla stessa DemiMoore e dalla voce straordinaria di Aretha Franklin.

Il film ha partecipato a numerosi festival e premi, come la Mostra delcinema di Venezia, Hollywood Film Festival, Golden Globe Award.

Il 16 marzo del 1968 Robert Kennedy aveva dichiarato annunciando lasua candidature alla presidenza degli Stati Uniti: Non mi candido per oppor-mi a qualcuno ma per proporre una nuova politica. Mi candido perché sonoconvinto che questo paese sia in una fase pericolosa e perché ho sentimentimolto forti su cosa deve essere fatto, e mi sento obbligato a fare tutto quelloche posso. Mi candido per cercare nuove politiche – politiche per terminarela guerra in Vietnam e nelle nostre città, politiche per chiudere le divergenzeche ora esistono fra bianchi e neri, fra ricchi e poveri, fra giovani e vecchi, inquesto paese e nel resto del mondo. Mi candido perché voglio che il PartitoDemocratico e gli Stati Uniti rappresentino la speranza invece che la dispera-zione, la riconciliazione degli uomini invece del rischio crescente di una guer-ra mondiale.2

A Myth

By Elisabetta Valgiusti

"Bobby" is a film inspired by the figure of Robert Francis Kennedy, theDemocrat senator murdered during the presidential campaign in 1968. Thisis not a history of his life or his political career, but rather a living portraitmade following the news filmed at the time inserted into an historical web ofevents which transpired the day of his death. It is an interesting and vividportrayal of the America of those years and constitutes a tribute to a greatmyth of our history.

Un mito 119

2 Citazione del discorso di annuncio della candidatura di Robert Kennedy, www.rfkme-morial.org.

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di ADOLFO LIPPI

LILLY SPIZZICHINO, Con gli occhi dell’altro. Viaggio nel mondo ebraico frapregiudizio e identità, Ancora, Milano, 2000.

1. Il pregiudizio verso Israele e la separazione propria di Israele

Cara Lilli,

Preferisco esprimere le risonanze sorte in me dopo la lettura del tuo li-bro in forma di lettera aperta, sia per la conoscenza ormai lunga che ho di te,sia perché mi pare che favorisca l’atteggiamento del dialogo. Condivido conconvinzione l’incipit del tuo bel libro con la citazione di Jabès: “Non chiede-re la strada a chi la conosce, ma a chi come te la cerca”(p. 7). Mi metto in unatteggiamento di ricerca. Condivido anche la riflessione sul pregiudizio, sulpeso che i pregiudizi hanno avuto e in parte continuano ad avere su tutti, maparticolarmente sul popolo ebraico. “Il mercante di Venezia” di Shakespearerappresenta un perfetto esempio della rigidità del pregiudizio ed anche dellapotenza dell’autoreferenzialità di un gruppo, nel caso quello dei cristiani, chesi autoesalta e condanna gli altri.

Trovo giusto che, preoccupandoti del pregiudizio, tu affronti subito ilproblema che sorge dalla tipica separazione del popolo ebraico provenientedalla sua stessa fede, cioè dalla Parola di Dio, in particolare dall’osservanzadelle mitzwoth, specialmente dei precetti alimentari. Facendo questo ci con-duci a riflettere sulla tipica pedagogia con cui Dio ha formato il suo popolo,rendendolo testimone presso tutta l’umanità della sua esistenza e della suaazione e lo fai sulla base di testi dei quali ci fai percepire la santità anche ri-producendoli nella lingua originale ebraica, le cui lettere sono già di per séuna gioia per gli occhi. Grazie per questo.

Personalmente, il discorso sulla separazione insita nell’elezione, cioènella chiamata ad essere il popolo che vive dell’ascolto di Dio, il popolo santo,qadosh, non soltanto non mi disturba, ma mi interessa moltissimo. Ciò che tuscrivi alle pp. 66-67 mi pare a questo proposito fondamentale e vale la pena cheio lo riproduca qui per i nostri lettori, anche se sarà una citazione un po’ lunga:

Rassegna della stampa 121

ADOLFO LIPPI C.P. SAPCR 21 (2006) 121-127

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“Abbiamo visto in precedenza come i dieci comandamenti e tutto il cor-redo di norme e di precetti rappresentino il contratto fra Dio e Israele;queste leggi devono essere la guida al ben operare, a una condotta saggiae responsabile del popolo. L’aver accolto queste prescrizioni assumendo-le come stile di vita determinò una Qedushah degli ebrei, dichiarata at-traverso una separazione, una distinzione in senso positivo da tutti i po-poli che praticavano idolatria, sacrificio umano, adulterio. ‘Siate santi’vuol dire ‘Siate perushim (separati), come Dio è parush (separato)’.Siate perushim (separati) – spiega Rashì - dagli atti incestuosi, dalle pas-sioni carnali, dal peccato. Si può dire che, fino a che il popolo risiedettenel deserto, la distinzione dagli altri fu possibile in virtù del continuo no-madismo, di una vita priva di legami non basata sulla proprietà ma sul-l’essere. Il fatto poi di non avere fissa dimora, l’ampia distesa di terrenoarido e quasi privo di vegetazione, alimentò nel popolo, durante i qua-rant’anni di erranza, un processo di introspezione collettiva, una crescitaspirituale, un cammino di apprendimento nel quale venivano esclusil’autocompiacimento e l’egoismo, in virtù della possibilità di essere untutt’uno con la propria famiglia, con la propria tribù, con il popolo. ‘Ri-cordati la strada che il Signore tuo Dio ti fece percorrere … per mettertialla prova, per conoscere quello che avevi nel cuore (Dt 8, 2)”.

Una coscienza riflessa delle conseguenze che scaturiscono da quella ca-ratteristica tipicamente ebraica che è l’elezione la acquistai partecipando a unconvegno dell’Amicizia ebraico-cristiana a Camaldoli1 e leggendo un saggiodel noto romanziere israeliano A. B. Yehoshua, intitolato Elogio della norma-lità. Saggi sulla Diaspora e Israele2. Questi faceva un discorso riguardante lanatura dello stato di Israele nel quale è nato e vive, essendo lui un sabra, unebreo nato in Israele, e polemizzando, in qualche modo, sia con gli ebrei chepreferiscono vivere nella Diaspora, sia con gli ebrei ortodossi. Il suo ragiona-mento era fondamentalmente questo: lo stato di Israele deve diventare unostato come tutti gli altri e affinché questo avvenga bisogna che il popolo di ta-le stato sia un popolo come tutti gli altri, sempre salve naturalmente le pecu-liarità e la creatività di ciascun popolo, ma escludendo ogni idea di divine pre-rogative. Per ottenere questo bisogna indebolire l’idea di elezione, indebolen-

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1 Ne furono pubblicati gli Atti nel libro AA. VV., La terra di Israele ci interpella, Ca-maldoli, 1992.

2 Trad. italiana Giuntina, Firenze, 1991.

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do, o meglio riducendo alla giusta misura l’influenza che la religione - e inparticolare le sue frange più rigide - hanno sul popolo d’Israele.

“Tra i primi atomi che compongono la nostra identità – scriveva – èiscritta l’esigenza di essere altri, diversi, unici e particolari, separati da tutti glialtri popoli… ‘Un popolo che risiederà da solo e non si mescolerà con le na-zioni’. Un popolo diverso, totalmente a parte. Il termine ‘essere come tutti glialtri popoli’ ha un’esplicita valenza negativa agli occhi dell’ebreo”3.

A Camaldoli incontrai il pittore e saggista Stefano Levi della Torre, colquale feci anche un viaggio in macchina che ricordo con nostalgia: egli avevapresentato al convegno una sua lettura dell’elezione di Israele4, la cui tesi fon-damentale ho ritrovato con piacere alla p. 21 del tuo libro come tema ispira-zionale di un capitolo. Altrove egli osservava che si può distinguere un’ele-zione tautologica, comune a tutti i gruppi umani nei momenti di prosperità edominio e un’elezione paradossale, tipica di Israele, che si verifica proprioquando Israele è polvere fra i popoli5. Nel testo che tu hai citato egli collega –mi pare – questa distinzione fra diverse idee di elezione con elementi moltoprofondi presenti nella tradizione ebraica, elementi che Lévinas collegava, asua volta, con la concezione cristiana della kenosi di Dio: Dio che si ritrae.Questo è il tema che tu riprendi:

“Il termine ‘elezione’ richiama una vocazione alla supremazia, e ciò asua volta una vocazione a espandersi. Ma nell’idea ebraica di ‘elezione’, ilvettore principale non è di tipo espansivo, ma al contrario ritrattivo: separate-vi, dice il Signore, ritraetevi dagli altri popoli” (p. 21).

2. L’idea di elezione e la fondazione dell’etica

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, la lettura del libro di Ye-hoshua non mi fece rallegrare che anche tra gli ebrei si desiderasse un universa-lismo di cui il cristianesimo si è sempre vantato di fronte al particolarismoebraico. Sentii quanto è importante anche oggi che si tenga viva l’idea di ele-zione, con quanto di separazione questa comporta. Fui aiutato ad approfondire

3 Id. ibid., 47-48.4 S. LEVI DELLA TORRE, Essere fuori luogo. Gli ebrei e la terra di Israele: una risposta

a A. B. Yehoshua, in La terra di Israele ci interpella, cit., 13-58.5 S. LEVI DELLA TORRE, L’idea di’popolo eletto’, in AA. VV., Filosofia ed Ebraismo. Da

Spinosa a Lévinas, Giuntina, Firenze, 1993, 129.

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questa problematica dalla lettura delle opere di Lévinas, particolarmente di Dif-ficile liberté. Per Lévinas l’etica non si fonda bene sopra una simmetria della re-sponsabilità, potremmo dire sopra l’idea di una giustizia distributiva uguale pertutti, ma sopra una dissimmetria proveniente dall’idea di elezione.

“L’intuizione fondamentale della moralità consiste forse nell’avvertireche io non sono l’eguale di altri, e ciò in senso stretto come segue: mivedo obbligato nei confronti di altri, e per conseguenza sono infinita-mente più esigente con me stesso che rispetto agli altri. ‘Più sono giustoe più severamente sarò giudicato’, dice un testo talmudico. Donde deri-va che non esiste coscienza morale che non sia coscienza di questa posi-zione eccezionale, che non sia coscienza di elezione”6.

Se l’etica non trova fondamento nell’idea di una giustizia distributivauguale per tutti, la persuasione di essere diversi perché eletti, da motivo di riva-lità, si rovescia in motivo di comunione. Ritengo che a questo proposito, siaestremamente importante condividere la ricerca della via di cui tu parlavi all’ini-zio citando Jabès, al di là delle barriere, soprattutto delle barriere che nei secolisi sono elevate fra ebraismo e cristianesimo. Sull’universalismo ebraico – sem-pre presente a fianco del più noto particolarismo ebraico - sono stati fatti tantistudi che non posso qui neppure richiamare. È certo che esso si trova nella bib-bia ebraica. Basterebbe pensare alla promessa di benedizione per tutte le gentifatta da Dio ad Abramo (cf Gen 12, 3 e passi paralleli), chiamato nel Nuovo Te-stamento comune Padre della fede (cf Gal 3, 7). Ma quale ne è la giusta inter-pretazione? Nel rispetto della coscienza di fede di ciascuno di noi, sono intantopersuaso che un universalismo che appiattisce tutto, annullando il valore dell’e-lezione ebraica, quale è prevalso almeno a livello superficiale e divulgativo nel-le teologie cristiane, non è in sintonia né con l’Antico né col Nuovo Testamento.

Nella visuale Lévinasiana mi pare che l’interpretazione di questo uni-versalismo consista in una specie di esemplarità ebraica rispetto al camminodi fede di ogni altra coscienza, come se nella coscienza ebraica avvenisse pri-mariamente e dovesse poi riprodursi in ogni altra coscienza, la scoperta della

124 Adolfo Lippi

6 LÉVINAS E., Difficile libertà, La Scuola, Brescia, 1986, 79. Rimando, per un approfondi-mento di questa tematica, al mio libro Elezione e Passione. Saggio di teologia in ascolto dell’E-braismo, Elle Di Ci, Leumann, 1996. V. anche A. LIPPI, Il Dio kenotico di un non cristiano. Pensa-re Dio, pensare Israele, pensare l’uomo in dialogo con Lévinas, in Sap Cr, XXI (2006), 241-266.

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traccia di Dio nel mondo e la congiunzione con Lui. Lévinas conosceva benel’opera di Rosenzweig, che riconosce, nel disegno di Dio, un posto per l’ebrai-smo e un posto per il cristianesimo, non escludentisi, ma convergenti e inte-grantisi. Il pensiero di Rosenzweig, a questo proposito, mi pare che resti unesempio ancora ineguagliato. Non si tratta di aderirvi dogmaticamente, ma,credo, di prenderne ispirazione.

I precetti noachici

Mi ha meno convinto una teoria che tu riprendi qua e là nel tuo libro, cheio avevo conosciuta in precedenza, attraverso Benamozegh e altri autori. Èquella dei precetti noachici attraverso cui sarebbero giustificati gli altri popoli,mentre Israele è chiamato a osservare una legislazione ben più esigente, quelladella Torah con tutte le mitzwoth (pp.22-23 e altrove). Sono persuaso che questateoria viene esposta con le migliori intenzioni verso tutti i non ebrei e che perciòti sorprenderai nel sentire che non mi è molto gradita. Recentemente l’avevotrovata esposta con entusiasmo nel libro di un cristiano convertito all’ebraismo,Aimé Pallière, discepolo di Elia Benamozegh, che, come il maestro, insistevasu questa dottrina dei precetti noachici attraverso i quali i non ebrei possono es-sere amici di Dio e salvi7. Si comprende bene l’ottima intenzione di chi ha for-mulato questa teoria (fu il primo Maimonide che tu citi a p. 22?) certamente perallontanare l’idea che gli israeliti si considerino gli unici amici di Dio e gli uni-ci uomini destinati alla salvezza (un po’ era così tra i cristiani di un tempo: Ex-tra ecclesiam nulla salus e lo è ancora per i fanatici di tutte le religioni).

Al tempo di Elia Benamozegh (e in molti settori anche oggi), prevalen-do, nella cultura dominante laica e positivista, una mentalità secolarista ten-dente a sgravarsi di dosso precetti e paure religiose, la teoria dei precetti noa-chici poteva apparire generosa e piacevolmente permissiva. In realtà, ciò chequesta umanità desiderava era il godere i beni della secolarità, senza esseredisturbati da osservanze religiose. Ma quale impressione fa questa teoria sutante persone che sono persuase che la vita vale per quanto ci si dona, perquanto ci si impegna e per quanto si assume di responsabilità anche con sacri-ficio? Per quanto tu riconduca la teoria dei precetti noachici al senso profon-do della giustizia, che, secondo la meravigliosa espressione di Ben Zakkai,

7 A. PALLIÈRE, Il santuario sconosciuto. La mia conversione all’ebraismo, Marietti1820, Genova, 2005.

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“espia per tutti i popoli della terra” (54), essa fa sempre l’impressione che ilrapporto fondamentale dell’uomo con Dio sia un rapporto di sottomissione auna legge sostenuta da una sanzione, premio o castigo magari eterni. Non cre-do proprio che il rapporto di Israele col suo Dio si riduca a questo, anche se laLegge non vi manca (tuttavia non ridurrei mai il senso della parola Torah aquesto deteriore senso di sottomissione interessata a una legge). È chiaro, pe-rò, che neanche il rapporto del cristiano col Dio di Israele e di Gesù si può ri-durre a quel rapporto di sudditanza. Manca in esso l’idea di una elezione, diuna promessa, di una vocazione, di una missione e, in genere, di un rapportofra Dio e l’uomo concepito come un rapporto fra padre e figlio (43), comeun’alleanza, come una chiamata alla condivisione di responsabilità.

Come sono persuaso che oggi nessun cristiano può accomunare gliebrei in una categoria unica con tutti i non cristiani (e, in questo senso non homai visto bene che la trattazione del Concilio sulla religione ebraica si trovi,anche se non esclusivamente, nella Nostra aetate, insieme a quella delle altregrandi religioni non bibliche), così penso che l’ebreo di oggi dovrebbe distin-guere accuratamente la propria considerazione del cristianesimo da quella diogni altra religione, se non altro perché il cristianesimo, come ha ben rilevatofin nel titolo di un suo libro David Flusser, è una religione ebraica8.

Mi piace molto l’idea che Israele sia il popolo sacerdotale a favore di tut-ta l’umanità. Apprezzo persino la persuasione di molti ebrei secondo cui l’os-servanza delle mitzwoth serve all’intera umanità. Come cristiano, però, non misento di essere dispensato, di avere la vita facilitata dal solo legame dei precettidei benè Noach. Noi cristiani convinti, in particolare, ci sentiamo di far partedella famiglia della fede e non semplicemente della religione. Non ci sentiamoentusiasti di una qualsiasi religione antropologica – di quelle appunto che studial’antropologia culturale come componenti fondamentali di ogni cultura – mapensiamo che il tipo di religione che viviamo, se cosi si può chiamare, sia natodall’ascolto della Parola di Dio, esattamente come per i fedeli ebrei. Più ancorasentiamo di aver accolto l’iniziativa del Dio vivente, del Dio che interpellaIsraele, che fa di Israele il suo popolo, un popolo sacerdotale e – diremmo nelnostro linguaggio – un vero e proprio sacramento di salvezza. Pur essendo natigojim, siamo persuasi di essere stati aggregati al popolo sacerdotale e di esserediventati veri figli di Abramo (cf ad es. Gal 3, 7 ss).

126 Adolfo Lippi

8 D. FLUSSER, Il Cristianesimo. Una religione ebraica, Paoline, Cinisello B., 1992.

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Aggiungo solo una riflessione sul fatto che nel tuo libro apri uno squar-cio sopra la dialettica interna allo ebraismo, quella fra ebrei più o meno osser-vanti. Giustamente presenti tale dialettica collegandola alle vicende storichedell’ebraismo, particolarmente degli ultimi secoli, in seguito all’emarginazio-ne o ghettizzazione prima e all’emancipazione poi. La vicenda di Rahel Van-hagen può essere tipica, anche per la notorietà che le ha dato Hannah Arendt,ma di storie analoghe ce ne sono tante. La narrativa ebraica, così imponente eimportante, ne è una testimonianza. Io sono persuaso – e mi riferisco ancorauna volta a Lévinas, che l’ebraismo è una realtà assai più vasta di quella che sipotrebbe chiamare la sua main road, l’ebraismo rabbinico. Era un’obiezioneche avrei voluto fare all’amico Piero Stefani per la sua Introduzione all’ebrai-smo9, che mi è sembrata troppo una introduzione all’ebraismo rabbinico. Lamia deformazione professionale di teologo mi porta ad affermare che l’ebrai-smo come tale, e non solo l’ebraismo degli ebrei osservanti, rappresenti unmistero, esprima in qualche modo un mistero di Dio nella creazione. Lévinaschiama espressivamente la storia di Israele una divina commedia e, se non unaprova, almeno un dispiegamento dell’esistenza stessa di Dio, un dispiegamen-to concreto fino alla Diaspora, nella quale Dio seguì Israele10.

E qui tornerei a Rosenzweig, auspicando un dialogo al di là delle barrieredi religione, un vero interesse di un gruppo per la vita e per la fedeltà dell’altro.È soltanto un auspicio, un lavoro tutto da svolgere, un modo nuovo di porci e didisporci di fronte all’altro che, in questo caso, è veramente prossimo, forse tan-to più sentito come rivale quanto più è prossimo. Questo nuovo modo di porcicomincia e culmina con la preghiera, nella quale si attua una circolazione delloSpirito, di quella Ruah che compare all’inizio della creazione, ma è presente eoperante in tutti i profeti, fino al culmine della Rivelazione. La Ruah che sem-pre promuove la Vita, la Ruah il cui effetto nella coscienza si percepisce, cometu dici, in quanto presenza ed attenzione a Dio e alla sua Torah (86).

P. Adolfo Lippi

9 P. STEFANI, Introduzione all’ebraismo, Queriniana, Brescia, 2004.10 Cf E. LÉVINAS, L’aldilà del versetto, Guida, Napoli, 1986, 74-75.

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DI EUGENIO PIERLUIGI C.P., Sotto la Croce, appassionatamente, seconda edi-zione rivista ed ampliata, San Gabriele Edizioni, Isola del Gran Sasso, Teramo2006, pp. 390, cm. 15,3x21,00, Euro 19,00.

Pierluigi di Eugenio: nato a Colledara (TE), ha emesso i voti religiosi nellaCongregazione dei Passionisti nel 1959 ed è stato ordinato sacerdote nel 1967. Li-cenziato in Teologia con specializzazione in Catechetica, presso la Pontificia Uni-versità Lateranense in Roma, ha insegnato Lettere antiche e Religione. Giornalistae pubblicista collabora da anni con la rivista L’Eco di San Gabriele. Attualmente ri-copre la carica di Vice Provinciale e Consultore per la Vita spirituale e Formazionepermanente della sua Provincia Religiosa.

Ha pubblicato: Morire per la fede, biografia del Beato Eugenio Bossilkov Cp.(1998); Ciao Gabriele, incontri familiari con il santo del sorriso (2003); La paro-la e il sangue, Lettere Pastorali del Beato Eugenio Bossilkov (2003); Venerabile P.Fortunato De Gruttis, Abitare il confessionale (2004).

San Paolo della Croce (1694-1775), fondatore dei Passionisti, era persuasoche la vocazione passionista fosse una via sicura verso la santità e non mancavamai di ricordarlo né ai suoi religiosi, né ai laici che si accostavano alla congrega-zione per condividerne la spiritualità.

Fin dai primi tempi era chiaro che la spiritualità passionista, derivante dalvoto specifico di vivere la memoria dell'amore di Dio rivelato e comunicato dal-la vita e passione di Gesù, fosse una valida scuola di santità, una vera e propriapalestra, dove esercitare con amore ogni virtù. La spiritualità passionista è fon-data sulla memoria della passione e morte di Gesù, e sulla sequela Christi, comepassio in cordibus. La condivisione spirituale di questa Santa Passione si espri-me nei religiosi attraverso la continua preghiera ed il silenzio interno ed esternoche conducono ad un rapporto intimo con il Sommo Bene. La via più breve e si-cura, alla vita mistica è proprio la sequela di Gesù che nella sua passione e mor-te tutto si consegna al Padre, datore di ogni bene. Intensa vita fraterna, povertàestrema e radicale penitenza diventano i mezzi concreti attraverso i quali i reli-giosi giungono ad una vera e propria morte mistica, per aprirsi rinnovati nello spi-rito, alla divina natività, dove con maturità spirituale si sforzano di completare insé ciò che manca ai patimenti di Cristo.

Tutto ciò fa di essi veri araldi del Vangelo, uomini e donne concreti, capa-ci di indicare ai fratelli il Crocifisso come via unica e sicura per la santità.

Padre Pierluigi non presenta semplicemente un libro, ma l’esperienza con-creta di quanto abbiamo tentato di esprimere sopra. Egli non esprime tanto con-cetti ma piuttosto presenta i volti, le storie e tratti salienti di quanti, uomini e don-ne, hanno saputo fare di questa spiritualità il loro cammino di vita e di perfezione.

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È un procedere per volti, per esperienze, il suo appare più lo svolgersi di unfilmato, che un libro vero e proprio. La carrellata che ci presenta comprende bentrentasette storie di vita e di amore che ha saputo condensare in poche pagine.

Da buon artista, con linguaggio giornalistico, avvincente e scorrevole eglinon si propone di dipingere completamente ogni quadro, ma piuttosto di fare co-me degli accurati bozzetti che da una parte ritraggono le linee fondamentali e dal-l'altra lasciano all’occhio dello spettatore l’incarico di completare le parti appenaabbozzate. Così P. Pierluigi ci presenta la concreta realizzazione di una spiritua-lità che ha saputo diventare scuola di vita e di santità.

Il pregio dell'opera sta proprio nell’aver saputo presentare in modo nuovoed efficace lo svolgersi storico dei frutti di santità che la scuola della spiritualitàpassionista ha saputo produrre in questi oramai trecento anni di vita. I quadri chel'autore dipinge sono brevi e agili e lo scritto semplice, ma profondo, ne fa unopera a portata di tutti. L'opera è può essere un buon mezzo per avvicinare la spi-ritualità passionista ed un ottimo stimolo per approfondirla proprio a partire daisui frutti di vita e di santità.

Fr. Maximus a S.R.P. Cp.

FORTE BRUNO, La bellezza di Dio. Scritti e discorsi 2004-2005, San Paolo, Cini-sello Balsamo 2006, pp 397, cm 14x21, Rilegato con sopracoperta, Euro 19,00.

Passionis causa: nella ricerca e nell’insegnamento della teologia, nel mini-stero episcopale, nel servizio alla Chiesa italiana. Ascoltiamo Mons. Forte che fala prolusione all’anno accademico della nuova Facoltà teologica pugliese, innal-zando una simbolica cattedrale a Colui che è “bellezza antica e sempre nuova”,dopo le stagioni delle lumiéres illusorie e della notte del senso, mentre si annun-cia l’alba di un rinnovato stupore di fronte alla Bellezza che, sola, può salvare ilmondo: il più bello dei figli dell’uomo, il Servo di JHWH, “…quell’amor divi-no/ch’aperse, a prender noi, ‘n croce le braccia”. Apriamo (un comodo e praticodépliant, proprio come una lettera!) la sua lettera pastorale per l’anno 2006-2007alla sua diocesi di Chieti-Vasto: “La Parola per vivere”. Il leit-motiv del “tutto nelframmento” mutuato da uno dei suoi grandi Maestri (von Balthasar) si radica nel-la lunga e appassionata ricerca alla base della “Simbolica della fede”, della “Dia-logica dell’amore”, della “poetica della speranza”.

La bellezza di Dio racchiude icasticamente una serie di interventi che mo-dulano questo trascendentale teologico che illumina i primi mesi di ministero epi-scopale che gli auguriamo, e ci auguriamo tutti, lungo e fecondo: “Una sorta di‘canto fermo’ di lode, di gioia, di proposta, di affidamento, di fede, di speranza e

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d’amore portati al pensiero, consegnati alla parola per divenire cammino comu-ne”. Nella compagnia dei grandi padri e maestri, da Dionigi l’areopagita a San-t’Agostino, al Nisseno, da Tommaso d’Aquino alla grande stagione filosofica te-desca, ma anche Carlo Maria Martini e Joseph Ratzinger. Forte, relatore al Con-vegno ecclesiale di Loreto (1985), consultore del Pontificio Consiglio per l’unitàdei cristiani e di quello per il dialogo con i non credenti, docente e preside dellaFacoltà Teologica di Napoli, presidente del gruppo di lavoro che ha redatto il do-cumento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato” (2000) ciaiuta a riflettere sul Concilio, il cristianesimo e l’Europa, la santità sacerdotale,l’evangelizzazione, l’impegno cristiano in politica, l’eucarestia e la domenica…

Passionis causa….

Salvatore Spera

BRJANCANINV IGNATIJ, Sulle tracce della Filocalia. Pagine sulla preghiera esi-casta, Paoline (“Letture cristiane del secondo millennio” 38), Milano 2006, acura di Richard Cemus SJ, pp 368, cm 13x20, rilegato con sopracoperta, Eu-ro 29,00.

Monaco, sacerdote e vescovo, dopo aver abbandonato la vita della Corteimperiale che gli competeva come membro di una nobile, antica famiglia russa,Dimitrij Aleksandrovic (1807-1867), fu archimandrita, riformatore della vita mo-nastica e, soprattutto un vero starec, un padre spirituale in grado di esortare e con-sigliare anzitutto con la personale esperienza ma anche con opere scritte con sen-sibilità apostolica, una occupazione preferita, una necessità interiore. Figuraesemplare nel rinnovamento spirituale in un secolo pieno di tensioni sociali, unaChiesa ortodossa soggiogata al potere politico e stretta nelle pastoie burocratiche,un monachesimo rilassato e svigorito. Sulla scia del grande Serafino di Sarov edel prestigioso monastero di Optina, Ignatij riprese la tradizione della Filocalia diNicodemo Aghiorita e Macario di Corinto: ascesi corporale e mentale, intellettoed esperienza sensibile (coscienza della grazia), vita attiva e contemplativa (pra-xis-theoria), il combattimento spirituale (nepsis: vigilanza spirituale, sobrietà del-la mente e del cuore solleciti a cogliere la presenza di Dio), la preghiera (corpo-rale, mentale, del cuore). Un cammino lungo, faticoso, per liberarsi dalle passio-ni, dalle fantasie e immaginazioni e raggiungere l’apatheia, la serenità interioredella spiritualità esicasta (quiete, raccoglimento) di chi è tutto pervaso dall’amo-re di Dio che inibita in lui.

Ebbe a patire molte contrarietà dalle autorità statali che controllavano la vi-ta della chiesa e i monasteri, dai monaci che non apprezzavano la sua riforma,

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sempre afflitto da una salute molto cagionevole. Ma fu forte e deciso nel portareavanti il suo programma, trovò sostegni decisivi che lo salvarono provvidenzial-mente da sanzioni ancora peggiori di quelle che ebbe a soffrire per la decisa con-danna dei mali morali in cui versavano la società, la chiesa, il monachesimo del-l’epoca. Vita e dottrina autenticati dal fatto che la Chiesa ortodossa russa, dal1988, lo annovera tra i santi.

Una piccola ma significativa nota a margine: lo scritto autobiografico Ilmio lamento, nella coscienza di essere peccatore bisognoso di misericordia, chia-mato al “martirio” di una testimonianza contro la Chiesa ufficiale, la ricerca del-la vera fede, lo apparentano al coevo Kierkegaard.

Salvatore Spera

MOLESTI ROMANO (ed.) Giuseppe Toniolo. Il pensiero e l’opera, Franco-Angeli,Milano 2005, prefazione di Domenico Sorrentino, pp 293, cm 15x23, Euro 20.

Nel 40° di vita, Studi economici e sociali del “Centro Studi Giuseppe To-niolo” di Pisa, raccoglie una serie di saggi già pubblicati, dedicati al professorepisano (1845-1918) cui il Centro è dedicato. Domenico Sorrentino, che firma an-che il contributo sul programma toniolano di “civiltà cristiana” ed è postulatoredella causa di beatificazione, plaude all’iniziativa sottolineando la statura del-l’uomo credente, la spiritualità, la testimonianza cristiana, la fervida operosità.Distingue lucidamente alcuni aspetti formali e sostanziali caduchi e i molti tutto-ra validi e fecondi. Professore a Pisa per molti anni, Toniolo iniziò le pubblica-zioni (un corpus di venti volumi, Libreria ed. Vaticana, 1947-53) con un signifi-cativo Dell’elemento etico quale fattore intrinseco delle leggi economiche: av-versario del liberismo selvaggio come dello statalismo, la sua visione del rappor-to Stato-società-economia era tutta ispirata ai principi della “sussidarietà” e della“solidarietà”. Il Curatore lumeggia la figura del dinamico animatore del mondosociale cattolico in un difficile ambiente massonico, socialista, anticlericale chespiega, per antitesi, la sua esaltazione del valore assoluto dell’etica cristiana, del-la civiltà cattolica da riproporre sulla scorta dell’esemplare societas christianamedievale (Storia dell’economia sociale in Toscana nel Medio Evo). Concettoelaborato nel fondamentale Trattato di economia sociale (2 voll, 1908-21): “ci-viltà…partecipazione del più alto grado possibile della società umana al bene es-senzialmente morale, coordinato a quello supremo ultramondano, in cui è perfe-zione e felicità, nonché ai beni subordinati che lo preparano e avvalorano”. LaChiesa cattolica con il pontificato, deve costituire “il supremo organismo etico-

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giuridico, indispensabile all’equilibrio e alla grandezza pacifica di tutte le nazio-ni”. Un ideale “guelfo” oggi insostenibile, ma che non compromette il concettodi democrazia (La democrazia cristiana, 1900), la critica del socialismo (Il so-cialismo nella storia della civiltà, 1902), il cooperativismo, ugualmente lontanodalla “lotta di classe” come dal paternalismo autoritario fascista, inteso invece“alla emancipazione della classe operosa”.

Salvatore Spera

HOURCADE JANINE, L’eterno femminino. Donne mistiche, Adp, Roma 2006 (tr.dal francese di Valentina Conte), pp 165, cm 12x19, Euro 15,00.

L’espressione più nota, è del Faust di Goethe: “E l’eterno femmino, semprepiù in alto ci attira”. Ma non poteva mancare Dante e poi Baudelaire, Claudel, Mal-rauz… Con Teilhard, che così intitola una sua opera specificamente studiata dal Pa-dre de Lubac, si evidenzia la “funzione spiritualizzante”, in sintonia con Soloviev(Il significato dell’amore) e Gertrude von Le Fort (La donna eterna).

Non poteva esserci migliore attualizzazione, sul piano teologico ed eccle-siologico, di quella di Giovanni Paolo II, in particolare con la Lettera alle donnee la Mulieris dignitatem,

La Hourcade, ben nota per le sue pubblicazioni sulla donna nella chiesa, ri-percorre il mistero della donna, non privo di ambiguità ma affascinante, attraver-so le figure di Santa Genoveffa, Santa Caterina da Siena, Santa Brigida di Sve-zia, Santa Chiara d’Assisi, Santa Teresa d’Avila e Santa Teresa di Lisieux, SantaTeresa Benedetta della Croce (Edith Stein), la Beata Elisabetta della Trinità, perfinire con Madre Teresa di Calcutta e Madeleine Delbrel. Proprio a partire dal te-ma proposto e, a mano a mano sviluppandolo con il realismo “di buona qualità”,il gusto della pace, le nozze mistiche, la maternità spirituale, il senso della Chie-sa (“Sono figlia della Chiesa”), si intrecciano come in una danza le figure gra-ziose e forti, dolci e robuste, mansuete e terribilmente volitive che segnano la sto-ria della Chiesa e la storia dell’umanità. Per concludere, come ben delineato inDante come in Goethe, come in Claudel, con “Una donna coronata di stelle”.

Edificazione solida e ulteriore occasione di riflessione, anzitutto all’internodella Chiesa, come la stessa Teresa (la Grande!) intendeva: “Signore dell’animamia, quando eravate su questa terra, non avete disprezzato le donne, anzi le ave-te sempre favorite con molta benevolenza e avete trovato in esse tanto amore epiù fede che negli uomini…” Giovanni Paolo II è stato grande anche per questo.

Salvatore Spera

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