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LA RIVISTA MULTIMEDIALE GRATUITA DI ASTRONOMIA CHE TI AGGIORNA SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI EXTRATERRESTRI ASTROFILO |’ rivista mensile di informazione scientifica e tecnica gennaio 2013 numero 1 0,00 www.astropublishing.com ita.astropublishing.com [email protected] Tau Ceti, una realtà da fantascienza Tau Ceti, una realtà da fantascienza • Ghiaccio d’acqua su Mercurio! • Il super mostro di NGC 1277 • Un nuovo modello per le pallasiti • Pianeti rocciosi attorno alle nane brune? • Toutatis e la mancata fine del mondo • La misteriosa materia oscura di Abell 520 PER VIDEO E ANIMAZIONI SI RIMANDA ALLA VERSIONE MULTIMEDIALE DELLA RIVISTA PRESENTE SUL SITO WEB http://ita.astropublishing.com/ 2 PUNTO 0

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LA RIVISTA MULTIMEDIALE GRATUITA DI ASTRONOMIA CHE TI AGGIORNA SUGLI ULTIMI AVVENIMENTI EXTRATERRESTRI

ASTROFILO| ’

rivista mensile di informazione scientifica e tecnica ● gennaio 2013 ● numero 1 ● € 0,00

www.astropublishing.com ● ita.astropublishing.com ● [email protected]

Tau Ceti, una realtà da fantascienzaTau Ceti, una realtà da fantascienza

• Ghiaccio d’acqua su Mercurio!• Il super mostro di NGC 1277• Un nuovo modello per le pallasiti

• Pianeti rocciosi attorno alle nane brune?• Toutatis e la mancata fine del mondo• La misteriosa materia oscura di Abell 520

PER VIDEO E ANIMAZIONI SI RIMANDA ALLA

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Un nuovo modello per le pallasitiUna ricerca pubblicata su Science propone un nuovo processoper la formazione di una classe di meteoriti particolarmenterare e affascinanti: le pallasiti. La vecchia ipotesi che le vedeva prendere forma alla periferia dei nuclei di grandi pla-netoidi primordiali è stata soppiantata da uno scenario...

a pagina 30

Pianeti rocciosi at torno alle nane brune?Stelle mancate con pianeti veri. I modelli teorici non lo preve-dono ma un recente studio condotto con ALMA sul disco della nana bruna Rho-Oph 102 conferma che anche attorno aquegli oscuri astri possono presentarsi condizioni adatte allaformazione di pianeti rocciosi.

a pagina 24

Toutatis e la mancata fine del mondoOgni quattro anni l’asteroide Toutatis torna a far visita allaTerra e nel corso dell’ultimo passaggio ravvicinato di dicembregli astronomi hanno raccolto una quantità di informazioni e im-magini grazie alle quali è stato possibile scongiurare una colli-sione con il nostro pianeta per diversi secoli a venire.

a pagina 14

Tau Ceti, una realtà da fantascienza È stato scoperto il sistema planetario nel quale Isaac Asimovcollocò il pianeta Aurora del suo racconto “Le grotte d’ac-ciaio” e dove Harve Bennett e Jack B. Sowards ambientarono“Star Trek II: l’ira di Khan”. Un pianeta di quel sistema po-trebbe essere davvero abitabile, ma prima di averne la...

a pagina 6

Ghiaccio d’acqua su Mercurio!L’ipotesi dell’esistenza di ghiaccio d’acqua su Mercurio stavaattendendo una conferma definitiva da oltre vent’anni. Oragrazie alla sonda MESSENGER quella conferma è arrivata ed èstata anche scoperta la presenza assieme all’acqua di compo-sti organici, provenienti anch’essi da comete e asteroidi...

a pagina 42

Il super mostro di NGC 127 7Prendete 17 miliardi di stelle uguali al Sole e pressatele in unasfera con raggio di circa 350 unità astronomiche. Lo spaven-toso oggetto che uscirà dalla pressione di tutta quella massasarà uno dei più grandi buchi neri esistenti nell’universo con-temporaneo. Come è potuto nascere quel mostro?

a pagina 36

Direttore ResponsabileMichele Ferrara

Consulente ScientificoProf. Enrico Maria Corsini

EditoreAstro Publishing di Pirlo L.Via Bonomelli, 106 - 25049 Iseo - BSemail [email protected]

Stampa copie promozionaliColor Art S.r.l.Via Industriale, 24-2625050 Rodengo Saiano - BS

DistribuzioneGratuita a mezzo Internet

Internet Service ProviderAruba S.p.A.Loc. Palazzetto, 4 - 52011 Bibbiena - AR

RegistrazioneTribunale di Brescia numero di registro 51 del 19/11/2008

Associazione di categoriaAstro Publishing di Pirlo L. è socio effettivo dell’Associazione NazionaleEditoria Periodica SpecializzataVia Pantano, 2 - 20122 Milano

CopyrightI diritti di proprietà intellettuale di tuttii testi, le immagini e altri materiali con-tenuti nella rivista sono di proprietàdell’editore o sono inclusi con il per-messo del relativo proprietario. Non èconsentita la riproduzione di nessunaparte della rivista, sotto nessuna for-ma, senza l’autorizzazione scritta del-l’editore. L’editore si rende disponibilecon gli aventi diritto per eventuale materiale non identificato.

PubblicitàAstro Publishing di Pirlo L.Via Bonomelli, 106 - 25049 Iseo - BSemail [email protected]

ASTROFILOl’

anno VI numero 1 gennaio 2013

rivista mensile di informazionescientifica e tecnica

I principali articoli di questo numero

Il resto all’interno. Dove non diversamente specificato, tutti i contributi si intendono opera del team della rivista l’Astrofilo. Materiale soggetto a copyright.

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editoriale

Con buona pace di Gutenberg, l’editoria ha ormai preso una direzione molto

chiara e abbiamo deciso di anticipare ciò che sarà inevitabile, cedendo subito

alle lusinghe delle nuove tecnologie che permettono di offrire ai propri lettori

riviste multimediali, molto più adeguate ai tempi e più ricche di contenuti di quanto

non siano quelle stessa riviste su carta o su formati digitali ormai ampiamente superati.

Ma non ci siamo accontentati di creare un prodotto innovativo, abbiamo infatti anche

voluto azzerarne il prezzo, e quindi da questo numero l’Astrofilo è un mensile gratuito.

Mantenendo il layout dei numeri precedenti, abbiamo integrato nelle pagine video,

animazioni varie e audio, compresa l’autolettura di alcuni articoli. I contenuti sono ora

gestibili con facilità praticamente da chiunque e nella massima libertà.

Senza dubbio, ci saranno molte cose da migliorare e le miglioreremo. Certo è che non

ci fermeremo qui, anzi, abbiamo appena iniziato e l’intenzione è quella di offrirvi un

prodotto sempre più fruibile. L’unico limite è la fantasia.

Michele Ferrara

l’Astrofiloversione 2.0

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ezpressle tue riviste in formato digitale

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ASTROFILOl’

PLANETOLOGIA

È stato scoperto il sistema planetario nelquale Isaac Asimov collocò il pianeta Auroradel suo racconto “Le grotte d’acciaio” e doveHarve Bennett e Jack B. Sowards ambienta-rono “Star Trek II: l’ira di Khan”. Un pianetadi quel sistema potrebbe essere davveroabitabile, ma prima di averne la certezzasarà necessario osservarlo direttamente.

GENNAIO 2013

Il genere letterario fantascientifico è irri-mediabilmente in crisi da diversi decenni,ovvero da quando la scienza ha iniziato a

mostrare scenari così sorprendenti da farimpallidire quelli prima solo immaginati.L’astronomia, in particolare, ha penetratocosì in profondità molti misteri dell’uni-verso, che ormai per costruire racconti fan-tascientifici privi di clamorose ingenuità èrichiesta non solo una fervida immagina-zione, ma anche importanti conoscenzedella materia trattata. Non di rado chi le pos-siede preferisce dedicarsi a tempo pieno alla

Tau Ceti, una realtà dafantascienza

Tau Ceti, una realtà dafantascienza

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In un celebre episodio dellasaga di Star Trek, al quale si

riferisce l’immagine di sfon-do, troviamo vicende am-bientate nel sistema planeta-rio di Tau Ceti. Ora quel si-stema è stato individuato eun giorno lontano potrebbedivenire una delle prime me-te interstellari dell’umanità.

In un celebre episodio dellasaga di Star Trek, al quale si

riferisce l’immagine di sfon-do, troviamo vicende am-bientate nel sistema planeta-rio di Tau Ceti. Ora quel si-stema è stato individuato eun giorno lontano potrebbedivenire una delle prime me-te interstellari dell’umanità.

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PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

ricerca, raccontando si-tuazioni reali, peraltrooggi non meno avvin-centi di quelle inven-tate. Quando decenni addie-tro gli autori di SF si re-sero conto che si potevaandare oltre Marte eche esistevano stellemolto simili al Sole a di-stanze tutto sommato“non proibitive”, alcunidei essi posarono l’at-tenzione sulla vicina Al-fa Centauri, scelta ov-via, mentre i più raffi-nati guardarono qual-che anno luce più in là,arrivando fino a TauCeti, astro di magnitu-dine 3,45 posto nelleregioni meridionali della Balena. Uno deiprimi a scegliere quella stella e i suoi ipoteticipianeti come set nel quale ambientare leproprie narrazioni fu l’inimitabile Isaac Asi-mov, nel suo racconto “Le grotte d’acciaio”,pubblicato in due versioni nel 1953-54. Latrama si sviluppa sul pianeta più interno diTau Ceti, Aurora, abitato da 200 milioni di

Sopra, un’am-bientazione

fantastica de “Legrotte d’acciaio”di Isaac Asimov. Inquel romanzol’autore imma-gina l’esistenza diun sistema plane-tario attorno allastella Tau Ceti. Ilpianeta più in-terno, inizial-mente chiamato“Nuova Terra” epoi “Aurora”,ospita una foltacolonia di terre-stri e numerosis-simi robot. Unaricerca di recentis-sima pubblica-zione rivela chequel sistema pla-netario ha fortiprobabilità di esi-stere realmente,ma che l’unicopianeta poten-zialmente abita-bile è il quarto. Asinistra Asimov euna sua massima.

coloni terrestri, coadiuvati nelle loro attivitàda 10 miliardi di robot. Anche all’internodella saga di Star Trek ci sono riferimenti aipianeti di Tau Ceti, come ad esempio nel film“Star Trek II: l’ira di Khan”, del 1982, e com-plessivamente fra carta stampata, televisionee cinema di riferimenti a quella stella e alsuo sistema planetario ve ne sono a decine.

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PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

Come spesso accade, le trovate fan-tascientifiche anticipano ciò che poiaccade nella realtà, e anche se at-torno a Tau Ceti non si svolgono(ancora) vicende che vedono coin-volti nel bene o nel male gli esseriumani, ci sono forti indizi per rite-nere che quel sistema planetarioesista davvero. Poco prima di Na-tale è stata infatti pubblicata suAstronomy & Astrophysics la possi-bile scoperta attorno a Tau Ceti diuna manciata di pianeti, il quartodei quali in ordine di distanza dallastella avrebbe qualche probabilitàdi ospitare acqua liquida (ed even-tualmente forme di vita) sulla suasuperficie. Il motivo per cui gli scrit-tori di SF prima e gli astronomi poihanno pensato a un sistema plane-tario per Tau Ceti è presto detto: lastella dista solo 11,9 anni luce ed èla più vicina fra quelle singole e si-mili al Sole per classe spettrale. Es-sendo anche più povera di metallirispetto al Sole, è un target idealeper la ricerca di pianeti di piccola massa, stan-te il loro più frequente ricorrere proprio at-torno a stelle dal basso contenuto metallico.A dispetto dei favorevoli presupposti, e no-nostante migliaia di osservazioni spettrosco-piche ad alta risoluzione effettuate con i

Adestra unasemplice rap-

presentazionegrafica del siste-ma planetario diTau Ceti. Il pia-neta in primo pia-no è HD 10700 f,il più esterno emassiccio pre-sente nel sistema.Il pianeta più vi-cino al centro del-l’immagine è in-vece HD 10700 e,l’unico inseritonella zona abita-bile della suastella e quinditeoricamenteadatto a ospitareforme di vita. [J.Pinfield for theRoPACS networkat the Universityof Hertfordshire]

La scoperta del possibilesistema planetario di Tau

Ceti ha scatenato vari au-tori di video, che hannocreato atmosfere suggesti-ve, come nel caso di quelloqui proposto, realizzato daMagnus Højmose Appel,che vede in quel sistemauna possibile meta dei fu-turi viaggi interstellari.

migliori strumenti a disposizione degli astro-nomi, nulla aveva mai lasciato intendere cheTau Ceti potesse ospitare pianeti di tagliasufficiente affinché il loro segnale (sotto for-ma di variazione di velocità radiale dellastella) potesse emergere dal rumore di

fondo. Con “rumore” si in-tende quella mescolanzadi segnali dall’origine edalle proprietà scono-sciute, che derivano daun’imprecisa conoscenzadella fisica stellare o dauna possibile sottostimadegli errori strumentali.

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PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

Il rumore ha una sua soglia e i segnali chenon la superano, anche se prodotti dal ci-clico orbitare di pianeti, rimangono dispersinel suo interno. Per fare un esempio, unastella può manifestare minime variazioni divelocità radiale dovute alla presenza di unpianeta (quindi si allontana e si avvicina dipoco rispetto all’osservatore), ma quel mo-vimento può essere facilmente coperto damoti della superficie stellare, legati a un’at-tività di tipo solare.Allo stato attuale della ricerca di pianeti piùo meno grandi come la Terra, attorno astelle simili al Sole, quel rumore ha un pesodeterminante perché è dello stesso ordinedi grandezza del segnale utile che si va cer-cando. Problema irrisolvibile? Possibile chenon esista un modo per estrarre un segnalecoerente dal caotico fondo rumoroso che losovrasta? Poiché nella fattispecie l’unica cosa certa èil rumore, è attraverso una più approfon-dita conoscenza delle sue proprietà che sipuò tentare di isolarlo ed è in quella dire-zione che si è mosso un team internazionaledi astronomi, coordinato da Mikko Tuomi(University of Hertfordshire).Per creare un modello attendibile in gradodi interpretare il comportamento del ru-more nel suo insieme è indispensabile valu-tare il peso di ogni sua componente sullavelocità radiale di Tau Ceti entro un periodoragionevolmente lungo, il che significaavere a disposizione una sequenza di osser-vazioni sufficiente a coprire almeno alcunianni. Le cose sarebbero agevolate se lastella oggetto di studio fosse anche moltopoco attiva a livello fotosferico e possibil-mente non variabile, oppure moderata-mente variabile ma con un periodo bennoto e con un comportamento prevedibile.Per Tuomi e colleghi, Tau Ceti era il candi-dato ideale al quale applicare una nuovatecnica capace di portare i ricercatori aun’accettabile modellizzazione del rumore.Dopo aver esaminato circa 6000 velocità ra-diali della stella, spalmate su un periodo di13,5 anni e registrate con alcuni dei miglioristrumenti al mondo in questo ambito, comeHARPS (ESO, Cile) e HIRES (Keck Observa-tory, Hawaii), il team di Tuomi ha prodottonumerose varianti di un modello previsio-

nale delle diverse componenti del rumore.Per capire quale di esse meglio interpretavala realtà, sono stati aggiunti al rumore com-plessivo alcuni segnali periodici artificialidalle proprietà note. La variante più adattaall’interpretazione delle proprietà del ru-more presente nella velocità radiale di TauCeti (e delle stelle ad essa simili) avrebbe la-sciato come residuo “inspiegabile” i segnali

O ltre ad averepianeti di ti-

po roccioso, comequello idealmentesopra raffigurato,il sistema di TauCeti ha anche unaltro elemento incomune con il no-stro sistema solare

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11PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

periodici introdotti a bella posta. Come au-spicato, l’esperimento ha avuto successo, senon che i ricercatori si sono ritrovati fra lemani 5 segnali imprevisti, con periodi di 13.9,35.4, 94, 168 e 640 giorni, non attribuibili anulla di conosciuto.Dal momento che la nuova tecnica adottatapermette a conti fatti di apprezzare scartinella velocità radiale due volte più piccoli ri-

spetto al passato, da ~0,6 a ~0,3 m/s, si intui-sce perché nonostante migliaia di misura-zioni non si erano finora trovati pianetiattorno a quella stella. Tutto stava nell’adot-tare la soluzione giusta per abbattere il ru-more. Si tenga presente che poter apprez-zare differenze nelle velocità radiali di ap-pena 0,3 m/s (per periodi vicini ai 200 giorni)significa poter scoprire un’altra Terra at-

ed è la presenza diun anello di detritidi varie dimen-sioni (nel riqua-dro), paragonabilealla fascia di Edge-worth-Kuiper, ri-masuglio dellaformazione deipianeti. [NASA]

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PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

Tau Ceti è allostato attuale

delle conoscenzel’unica stella oltreal Sole ad avereun sistema plane-tario e ad esserefacilmente visibilea occhio nudo. Inquesta mappa ce-leste, prodottacon il freewareStellarium, la posi-zione di Tau Ceti èindicata dal cer-chietto posizio-nato sulla partemeridionale dellacostellazione dellaBalena. Il cielo èquello serale dimetà gennaio.

torno a un altro Sole! Non a caso il nuovo si-stema planetario è il più leggero finora sco-perto, con i singoli componenti che, dal piùinterno al più esterno, hanno masse minimepari a 2.0, 3.1, 3.6, 4.3 e 6.6 masse terrestri.Sebbene sia ancora tutto da verificare, le ar-gomentazioni prodotte dai ricercatori sonopiuttosto convincenti e il sistema planetariodi Tau Ceti ha non solo concrete possibilitàdi essere reale, ma anche di essere moltostabile nel tempo, come dimostrerebbe ilrapporto di risonanza 5:2 che caratterizza iperiodi orbitali dei due pianeti più interni.Anche il fatto che attorno alla stella esistaun’ampia struttura esterna alle orbite pla-netarie, paragonabile alla nostra fascia diEdgeworth-Kuiper, depone a favore dellapresenza di pianeti. Se esistono, il più inte-ressante è sicuramente il quarto, HD 10700e, o Tau Ceti e, quello di circa 5 masse terre-stri, con periodo di 168 giorni. L’interesse stanel fatto che si trova nella zona abitabile diTau Ceti e questo perché la stella è sì simileal Sole dal punto di vista spettrale, ma hauna massa inferiore del 12% ed è meno lu-minosa, quindi meno calda, il che avvicina

sensibilmente la zona abitabile alla stella, ri-spetto alla sua posizione nel nostro sistemasolare. In breve, quel pianeta potrebbeavere acqua liquida in superficie ed essereadatto ad ospitare la vita. Data la massa nontrascurabile (sebbene sia il più leggero fraquelli sinora scoperti nella zona abitabile diuna stella di tipo solare), per noi terrestricamminarci sopra risulterebbe alquanto fa-ticoso, ci obbligherebbe a stare un po’ più“con i piedi per terra”, il che forse, almenometaforicamente, non guasterebbe.Per quanto scomodo, un giorno lontano HD10700 e potrebbe diventare la meta delprimo viaggio interstellare dell’umanità. Èinfatti probabilmente il più vicino fra quellipromettenti, visto che viene dopo il pianetadi Alfa Centauri B, che ha temperature in-fernali, e dopo il pianeta di Epsilon Eridani,che forse nemmeno esiste. In attesa di con-ferme e di poter studiare direttamente l’at-mosfera di HD 10700 e con i telescopi dellaprossima generazione, accontentiamoci perora di guardare ad occhio nudo Tau Ceti, ealmeno con la fantasia di arrivare là dovenessuno è mai giunto prima. n

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ASTROFILOl’

CORPI MINORI

Ogni quattro anni l’asteroide Toutatis torna a far visita allaTerra e nel corso dell’ultimo passaggio ravvicinato di dicembregli astronomi hanno raccolto una quantità di informazioni eimmagini grazie alle quali è stato possibile scongiurare unacollisione con il nostro pianeta per diversi secoli a venire.

GENNAIO 2013

Toutatis e la mancatafine del mondo

Adestra una sequenza di primi piani di Toutatis presi dalla sondacinese Chang’e-2, durante il flyby con l’asteroide effettuato il 13

dicembre 2012, a una distanza dalla Terra di circa 7 milioni di km. Lasonda è sfrecciata ad appena 3,2 km da Toutatis, riuscendo ad otte-nere immagini della superficie con una risoluzione massima di 10metri/pixel. [China National Space Administration].Sopra un’animazione realizzata con le migliori immagini radar raccol-te dall’antenna di 70 metri del radiotelescopio di Goldstone. [NASA]

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15CORPI MINORI

GENNAIO 2013

Verso metà dicembre è tornato ancorauna volta a far parlare di sé l’aste-roide (4179) Toutatis, che ogni 4 anni

si ripresenta dalle nostre parti e puntual-mente spinge i media generalisti più spre-giudicati a riproporre l’usurato tema delrischio di impatto contro la Terra, con an-nessa estinzione di massa. La concomitanzadell’evento con la presunta fine del mondoprevista dai Maya proprio per dicembre hareso il peraltro tranquillo passaggio di Tou-tatis ancora più allarmante del solito.Il motivo per cui al nome di Toutatis (nomederivante da quello di una divinità celtica)viene associato un certo allarmismo va ricer-cato nel fatto che l’asteroide rientra nellungo elenco dei Potentially HazardousAsteroids (PHAs, asteroidi potenzialmentepericolosi), che include oggetti da teneresotto controllo in quanto percorrono orbiterese piuttosto caotiche da incontri ravvici-nati con i pianeti, soprattutto quelli del si-stema solare interno. Sono dunque asteroidiin grado di transitare periodicamente in

ASTROFILOl’

mancata do

prossimità della Terra e di arrivare anche adistanze inferiori a quelle della Luna, cosapreoccupante soprattutto se si tratta di og-getti di qualche chilometro di diametro.Toutatis è uno dei PHAs più grandi, ma è inrealtà anche uno dei meno pericolosi, infattii suoi passaggi nelle vicinanze del nostropianeta non sono mai particolarmente ra-denti, mantenendosi l’oggetto sempre benal di là dell’orbita lunare, con una distanzaminima possibile negli ultimi secoli di circa900000 km. L’esigua inclinazione della suaorbita rispetto all’eclittica, solo 0,47°, e quin-di la quasi perfetta complanarità con l’orbitaterrestre, lo mantiene a tiro degli astronomiper un periodo sufficientemente lungo daeffettuare delle osservazioni approfonditetramite l’uso di tecniche radar applicate aradiotelescopi. Ciò ha permesso di determi-nare i parametri orbitali di Toutatis con unelevato livello di precisione, tanto da poteresser certi che nei prossimi 4 e forse 6 se-coli le probabilità di uno scontro con laTerra sono uguali a zero.

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CORPI MINORI

ASTROFILOl’

Sebbene l’orbita dell’asteroide non sia unesempio di rigidità dinamica, l’auspicabilestabilità nel tempo è garantita anche dallerisonanze che vincolano Toutatis alla Terra(1:4) e a Giove (1:3), il che non significa co-munque che l’attuale situazione durerà al-l’infinito, è infatti molto probabile che nonappena i delicati equilibri imposti dalle ri-sonanze verranno meno, forse entro pochimilioni di anni, Toutatis finirà sbalzatofuori dal sistema solare e si perderà neglispazi interstellari.Nel frattempo avremo numeroseoccasioni per studiarlo ad ogni av-vicinamento quadriennale. Daquando fu riscoperto nel 1989(dopo essere stato scoperto e su-bito perso nel 1934) gli astronomilo hanno seguito con interesse inognuna delle sei visite che ci ha

fatto, compresa l’ul-tima dello scorso di-cembre, con il mas-simo avvicinamentoche si è verificato lamattina del giorno12, quando l’aste-roide si trovava a 6,9milioni di chilometri,equivalenti a 18 vol-te la distanza Terra-Luna.Come già accadutonel corso delle cin-que occasioni prece-denti (dal 1992 al2008), anche questavolta Toutatis è statofatto oggetto di unacampagna di osser-vazioni radar con-dotte principalmen-

te con il radiotelescopio di 70 metri di dia-metro del Goldstone Observatory, sito neldeserto del Mojave, in California. Sfrut-tando la potenza dell’antenna abbinata aun nuovo sistema di imaging digitale in do-tazione allo strumento, dal 4 al 22 dicembreun team di ricercatori di NASA/JPL/Caltechha mappato l’asteroide con una ricchezzadi dettagli mai raggiunta prima, ottenendouna risoluzione migliore di 4 metri/pixel. Ilquadro d’insieme vede confermata la singo-

Immagine radardi Toutatis co-struita sulla basedelle osservazionicompiute con ilGoldstone SolarSystem Radardella NASA, fra il12 e il 13 dicem-bre 2012. Dalconfronto con lasequenza dellepagine precedentisi intuiscono lediverse direzionidi puntamentodella Chang’e-2 edel radiotelesco-pio. [NASA/JPL-Caltech]

Afianco troviamo un filmato delpassaggio di Toutatis in prossi-

mità della Terra, realizzato da MauroBroggi, di Cucciago (Como). Il movi-mento dell’asteroide sul fondo stel-lato è stato ottenuto componendo260 scatti di 30 secondi l’uno. L’aste-roide ha compiuto in sole 2 ore untratto di cielo ampio il doppio dellaLuna Piena. [Mauro Broggi]

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CORPI MINORI

ASTROFILOl’

lare forma di Toutatis, che si presenta comeuna gigantesca arachide lunga 4,5 km elarga fino a 2,4 km. Dei due lobi dell’”ara-chide”, quello più piccolo manifesta unadensità media superiore (del 15%-20%) aquella del lobo maggiore, la qual cosa la-scia sospettare che si tratti di due diversiasteroidi un tempo separati e successiva-mente saldatisi in un unico corpo per auto-gravitazione, probabilmente a seguito diun impatto a bassa velocità; i frammentiminori e la regolite prodottasi in epochesuccessive avrebbero definitivamente na-scosto la dualità dell’oggetto.

La superficie dell’asteroide ha rivelato consufficiente chiarezza strutture solo accen-nate in osservazioni precedenti, come ri-lievi collinari e crateri, ma anche puntibrillanti sparpagliati qua e là, assai mute-voli al minimo variare delle condizioni di il-luminazione, interpretati dai ricercatoricome massi liberamente rotolati sulla su-perficie a seguito di impatti meteoritici.La corposa sequenza di immagini raccoltecon la parabola di Goldstone ha permessodi realizzare un’animazione che evidenziaparte della rotazione dell’asteroide, noto-riamente caotica. A differenza della stra-grande maggioranza degli altri corpi delsistema solare, l’asse di rotazione di Touta-tis è infatti caratterizzato da una preces-sione molto accentuata, che introducevistose oscillazioni sul puntamento del-l’asse stesso. A fronte di una rotazione che

si compie in 5,38 giorni, la precessione com-pleta un ciclo in appena 7,38 giorni (controi quasi 26 000 anni della Terra), dando lasensazione che l’asteroide ruzzoli in modoscomposto lungo la sua orbita attorno alSole (un po’ come un ovale da footballamericano lanciato malamente). All’originedi tale comportamento c’è sicuramentel’evoluzione collisionale attraversata daToutatis, che ha prodotto l’attuale asimme-tria strutturale, ma possono essere interve-nuti anche altri fattori in grado dirallentare gradualmente il periodo di rota-zione, effettivamente molto lento per un

oggetto così pic-colo. Uno di queifattori può esseread esempio l’ef-fetto YORP (daYarkovsky-O'Kee-fe-Radzievski i -Paddack), che pro-voca un rallenta-mento della rota-zione a seguitodell’irraggiamen-to nell’emisfero inombra del caloreaccumulato duran-te l’esposizione airaggi solari.Tutte le osserva-

zioni condotte su Toutatis hanno trovato ri-scontro in un approccio ancor più spetta-colare messo in campo dall’agenzia spa-ziale cinese, la China National Space Admi-nistration, che è riuscita un po’ a sorpresaa far giungere nei pressi dell’asteroide lasonda Chang’e-2. Quella navicella era statalanciata verso la Luna nel 2010, all’inizio diottobre, e rappresentava la seconda di tretappe di un programma che ha come obiet-tivo finale lo sbarco di un rover sulla super-ficie lunare. Il compito della Chang’e-2 eraquello di individuare un luogo adatto al-l’atterraggio del rover, che sarà trasportatoquest’anno sulla Luna dalla Chang’e-3, at-tualmente in fase di messa a punto. Com-pletata la parte ufficiale della missione, laChang’e-2 è stata poi inviata nel giugno2011 verso il punto lagrangiano L2 del si-stema Terra-Sole, dove è arrivata nell’ago-

Animazionedell’orbita di

Toutatis, confron-tata con le orbitedei quattro pia-neti più interni delsistema solare, neimesi precedenti eseguenti il mas-simo avvicina-mento delloscorso dicembre.

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CORPI MINORI

sto successivo e dove è stata parcheggiata.Dopo averla utilizzata per mettere a puntooperazioni di tracciamento e controllo re-moto, i cinesi hanno deciso a metà aprile diquest’anno di svincolarla dal punto lagran-giano e di avviarla su un’orbita interplane-taria che le avrebbe permesso un rendez-vous con Toutatis, a una distanza inizial-mente stimata in circa 300 km. Strada fa-cendo, i tecnici di volo hanno affinato latraiettoria, riuscendo a far transitare la mat-tina dello scorso 13 dicembre la Chang’e-2ad appena 3,2 chilometri dall’asteroide, ilche ha permesso di riprendere immaginimolto dettagliate, visivamente più apprez-zabili di quelle ottenute via radar, ma ovvia-mente limitate a una sola parte della super-ficie, data la tipica rapidità dei flyby di queltipo (la sonda viaggiava a 10,73 km/s). Da notare che con questa impresa la Cinaentra nella ristretta élite dei Paesi che sonostati in grado di effettuare missioni inter-planetarie.Dalla somma di tutte le osservazioni com-piute dalla Terra e dallo spazio esce unquadro molto accurato di Toutatis, tantoche ormai questo asteroide può essere con-siderato uno dei meglio conosciuti e sicu-ramente il meno temibile dei PHAs.Il prossimo appuntamento con Toutatis è fis-sato tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017,ma in quell’occasione l’avvicinamento allaTerra non sarà dei più favorevoli per l’osser-vazione, trovandosi l’oggetto a 37,4 milionidi km di distanza. Per assistere a un nuovopassaggio “radente” bisognerà attendere il5 novembre del 2069, quando Toutasis torne-rà a quasi 3 milioni di chilometri dalla Terra.Purtroppo, per molti di noi quel giorno lafine del mondo sarà già arrivata…

P rima dell’ultimo passaggio di Toutatis inprossimità della Terra, i ricercatori avevano

già un’idea abbastanza precisa della sua strava-gante forma. Lo dimostra questa modellizza-zione al computer, ricavata dai rilievi radareffettuati nel periodo 1992-2008. Dal confrontocon le reali immagini dell’asteroide prese dallasonda Chang’e-2 durante il flyby del 13 dicem-bre scorso si evidenziano numerose analogie,non solo nella morfologia d’insieme, ma ancherelativamente a strutture superficiali. [ScottHudson, Washington State University]

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ASTROFILOl’

COSMOLOGIA

GENNAIO 2013

La misteriosa oscura di Abe La misteriosa oscura di Abe

In questa spettacolare immagine dell’ammasso di galassie Abell 520sono evidenziate con diversi colori le sue componenti fondamentali.Il giallo rappresenta la distribuzione della luminosità nel visibile e vi-cino infrarosso emessa dalle galassie; il verde la radiazione X emessadal gas libero; il blu la presunta distribuzione della materia oscura sullascorta del lensing gravitazionale evidenziato dalla Wide Field Plane-tary Camera 2 dell’HST. [NASA, ESA, CFHT, CXO, M.J. Jee, A. Mahdavi]

In questa spettacolare immagine dell’ammasso di galassie Abell 520sono evidenziate con diversi colori le sue componenti fondamentali.Il giallo rappresenta la distribuzione della luminosità nel visibile e vi-cino infrarosso emessa dalle galassie; il verde la radiazione X emessadal gas libero; il blu la presunta distribuzione della materia oscura sullascorta del lensing gravitazionale evidenziato dalla Wide Field Plane-tary Camera 2 dell’HST. [NASA, ESA, CFHT, CXO, M.J. Jee, A. Mahdavi]

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21COSMOLOGIA

Prima c’era, ora non c’è più.Un’anomalia nella distribu-zione della materia oscura inun grande ammasso di ga-lassie aveva creato un certosconcerto fra gli addetti ailavori. È stato sufficienteesaminare con maggiore at-tenzione gli effetti del len-sing gravitazionale prodottodall’ammasso stesso perconcludere che non esistealcuna anomalia.

GENNAIO 2013

Abell 520 è una gigantesca strutturanata dallo scontro fra almeno treammassi di galassie e per tale mo-

tivo rappresenta un laboratorio ideale nelquale studiare il comportamento della ma-teria oscura. Circa un anno fa era uscita unanotizia in base alla quale un gruppo di ricer-catori coordinati da James Jee (University ofCalifornia), utilizzando dati raccolti con l’-Hubble Space Telescope, aveva scopertoche nelle regioni centrali di Abell 520 il rap-porto fra materia visibile e materia oscuraera eccessivamente sbilanciato a favore diquest’ultima. Il fatto appariva inspiegabile,perché in tutte le precedenti occasioni in cuiera stato possibile determinare la distribu-zione della materia oscura all’interno degliammassi di galassie, la si era sempre trovataassociata alla componente galattica, cosìcome i teorici si aspettano che sia.

ASTROFILOl’

La misteriosa materiaoscura di Abell 520La misteriosa materiaoscura di Abell 520

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Aquesta immaginedi Abell 520 è stata

sovrapposta una graficache indica in bianco icontorni della distribu-zione della materiaoscura nello scenarioproposto dal team di Jee.I numeri indicano le re-gioni di maggiore den-sità. La regione 3 è quel-la inizialmente conside-rata anomala ma poi ri-sultata del tutto normalenella successiva ricercadel team di Clowe.

COSMOLOGIA

ASTROFILOl’

Eppure non sembravaesserci alcun dubbiosulla bontà dei risul-tati: nel bel mezzo diAbell 520 c’era unaforte concentrazionedi materia oscura,non giustificata da unadeguato numero di galassie. La proceduraimpiegata per giungere a quei risultati erabasata sul lensing gravitazionale, comesempre in questi casi. In sintesi funzionacosì: la luce (e quindi l’immagine) di lonta-nissime galassie incontra nel suo tragittoverso la Terra un ammasso di galassie, ilquale incurvando lo spazio in ragione dellasua massa devia quella luce su percorsitanto più ampi e contorti quanto più ele-vata è la massa e quanto più complessa è lasua distribuzione spaziale. Dal nostro puntodi osservazione, l’immagine delle lontanis-sime galassie (riconoscibile dal redshift) ap-pare in tal modo sparpagliata all’esterno eall’interno del campo celeste occupatodall’ammasso che funge da lente, e apparesotto forma di brevi archi, di piccoli tratti edi punti più o meno irregolari. Tramite op-portuni modelli matematici è possibile tra-sformare tutte quelle strutture luminose ininformazioni sulla distribuzione della massatotale all’interno dell’ammasso. Sottraendoad essa la massa attribuibile alla materia vi-sibile si ricava la massa della materia oscurae la sua distribuzione.Prima dell’annuncio dato dal team di Jeenon erano mai state osservate significativeseparazioni fra materia visibile e materia

oscura, nemmeno negli ammassi in evidentefase di compenetrazione. La componentegalattica di un ammasso che si scontra conun altro ammasso passa da parte a partequasi senza interagire con l’altra compo-nente galattica, e ci si aspetta che la materiaoscura vincolata alle galassie faccia altret-tanto, non essendo in grado di interagirenemmeno con sé stessa. Solo le componentigassose ad altissima temperatura che avvi-luppano gli ammassi risentono degli effettidella collisione, proprio perché per le lorocaratteristiche occupano lo spazio in modomolto più uniforme. Il risultato è che men-tre le galassie continuano indisturbate laloro corsa come in una giostra medievale, lepiù omogenee componenti gassose diffuse,scontrandosi frontalmente, si frenano rima-nendo pertanto attardate nel moto e fi-nendo col raccogliersi prevalentemente alcentro della nuova struttura nata dalla fu-sione. Stando ai risultati ottenuti dal teamdi Jee, nel caso di Abell 520 la materiaoscura si comporterebbe alla stregua dellacomponente gassosa e quindi interagirebbecon sé stessa, cosa non prevista da nessunmodello e non riscontrata altrove nell’uni-verso. Nel tentativo di mettere una pezza siè cominciato a ipotizzare che le misteriose

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COSMOLOGIA

ASTROFILOl’

particelle che costitui-scono la materia oscu-ra possano effettiva-mente interagire nonsolo gravitazionalmen-te, sebbene non si sap-pia come. C’è anchechi ha proposto che l’a-nomala massa di mate-ria oscura al centrodell’ammasso in que-stione sia in realtà unsemplice effetto pro-spettico dovuto alla di-namica della fusione.Fatto sta che per di-versi mesi gli specialistidel settore sono rima-sti perplessi, finchéDouglas Clowe (Ohio University) e il suoteam si sono convinti che andava fatta lacosa più ovvia, verificare.A differenza di Jee, che per individuare glieffetti del lensing gravitazionale aveva uti-lizzato immagini prese con la Wide Field Pla-netary Camera 2 (WFPC2) dell’Hubble,Clowe ha preferito optare per quelle otte-nute dall’Advanced Camera for Survey(ACS), anch’essa in dotazione all’Hubble, in-tegrandole con una serie di immagini regi-strate dal Magellan Telescope (6,5 metri didiametro) del Las Campanas Observatory.Aver preferito l’ACS alla WFPC2 è stato l’ini-

zio della soluzione del problema, perchécon i filtri in tre bande della prima è statopossibile riconoscere con maggiore preci-sione le galassie realmente appartenentiall’ammasso da quelle più vicine e più lon-tane (questa operazione non è semplicis-sima, visto che Abell 520 dista circa 2,4miliardi di anni luce dalla Terra). Una piùprecisa conoscenza della distribuzione dellegalassie nell’ammasso ha fornito indicazionisu dove attendersi le maggiori concentra-zioni di materia oscura. Il resto l’ha fatto lanotevole risoluzione delle immagini utiliz-zate, che hanno fornito una mappa detta-gliata come non mai delle tracce del lensinggravitazionale, il che ha permesso di ricalco-lare la quantità e la distribuzione della ma-teria oscura corresponsabile con le galassiee il gas libero di quel fenomeno.I nuovi risultati ottenuti dal team di Cloweparlano chiaro: il rapporto fra materiaoscura e materia visibile non è di 6 a 1 comesostenuto da Jee e colleghi, bensì di 2,5 a 1,e soprattutto non c’è alcuna anomala con-centrazione di materia oscura nelle regionipiù interne dell’ammasso. Secondo Clowe, lamacroscopica differenza ottenuta dai dueteam è da attribuire ai diversi strumenti uti-lizzati nell’imaging. La WFPC2 introdurrebbedelle anomalie nelle tracce del lensing gra-vitazionale, portando a una sovrastima dellemasse e a una loro errata distribuzione.Anche questo è però da verificare.

Idue diversi sce-nari contrapposti

usciti dalle ricer-che sulla distribu-zione della mate-ria oscura all’in-terno di Abell 520:a destra, mappadel team di Clowe;sotto, mappa delteam di Jee. Comesi nota facilmentedal confronto, al-l’interno della re-gione centrale(delimitata daipuntini) dellamappa di Clowec’è molta menomateria oscura(rappresentata dalchiarore azzurro)di quanta non vene sia nellamappa di Jee, cheviene così confu-tata, risolvendole delicate que-stioni che avevasollevato. [NASA,ESA, and D.Clowe, (Ohio Uni-versity)] [NASA,ESA, and J. Jee(University of Ca-lifornia, Davis)]

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24

ASTROFILOl’

PLANETOLOGIA

Stelle mancate con pianeti veri. I modelli teorici non lo prevedono maun recente studio condotto con ALMA sul disco della nana bruna Rho-Oph 102 conferma che anche attorno a quegli oscuri astri possonopresentarsi condizioni adatte alla formazione di pianeti rocciosi.

GENNAIO 2013

Pianeti rocciosi attorno alle nane brune?

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25PLANETOLOGIA

GENNAIO 2013

Il settore dei pianeti extrasolari non finiscemai di stupire e non di rado le scoperteche vi avvengono riescono a sconvolgere

le certezze dei ricercatori. Ora non solo co-nosciamo sistemi planetari di varia foggia econfigurazione orbitale attorno a stelle diclassi spettrali diverse, ma iniziano a essercisospetti che persino le stelle mancate, le co-siddette nane brune (o grigie, o marroni,come si preferisce) possano ospitare pianetirocciosi, simili a quelli del nostro sistema so-lare interno. Che attorno a quel tipo di naneesistano pianeti giganti gassosi (pochissimiper la verità) è cosa praticamente certa, mali si ritiene nati direttamente dalla frammen-tazione della nube protostellare, se non ad-dirittura per scissione del nucleo della nana,quando questa già si trovava in avanzatostato di formazione, scenari comunque inlinea con i modelli che descrivono quel tipodi sistemi. Ben più sorprendente sarebbescoprire che attorno alle nane brune si muo-vono anche pianeti di dimensioni molto piùpiccole, dalla struttura essenzialmente roc-ciosa. Vediamo perché.I pianeti nascono (prevalentemente) all’in-terno di dischi di gas e polveri disposti (so-litamente) attorno a stelle giovanissime.Tutto inizia da urti casuali fra particelle mi-croscopiche, le quali si incollano le une allealtre formando prima qualcosa di similealla fuliggine e poi granelli sempre piùgrandi, simili a quelli della sabbia, che urtodopo urto crescono di dimensioni fino a di-ventare dei centri di aggregazione per ilmateriale disperso che incontrano sullaloro orbita. La crescita esponenziale conti-nua fino alla formazione di planetoidi didecine di chilometri di diametro, la cui reci-proca collisione e fusione termina con laformazione di pianeti veri e propri.Affinché tutto ciò possa realizzarsi è indi-spensabile che la densità delle polveri neldisco protoplanetario superi un determi-nato livello, in modo tale che i granelli chevengono a formarsi non si ritrovino troppoisolati gli uni dagli altri, in caso contrario gliurti aggregativi sarebbero numericamenteinsufficienti a creare oggetti in grado di ca-talizzare il materiale disperso nel disco. Inol-tre, al crescere della dispersione dei granellicresce anche la loro velocità orbitale, cosa

ASTROFILOl’

osi

Sullo sfondo una rappresentazione di un disco di polveri si-mile a quello che circonda la nana bruna Rho-Oph 102.

Contrariamente a quanto previsto dalla teoria, all’interno diquella struttura sono stati scoperti agglomerati solidi con dia-metri sensibilmente superiori al millimetro, indice del fattoche anche attorno alle stelle mancate potrebbero nascere pia-neti rocciosi. [ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)/M. Kornmesser (ESO)]

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GENNAIO 2013

PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

Sullo sfondo, una presa ad ampio campo e in luce visibile della re-gione di formazione stellare Rho Ophiuchi, posta circa 1° a sud del-

l’omonima stella. Questo complesso nebulare si trova a circa 430 anniluce di distanza dalla Terra e contiene una massa equivalente a quelladi 3000 soli. [ESO/Digitized Sky Survey 2]Sopra, uno spettacolare video che porta l’osservatore del cielo notturnofin dentro il disco che circonda la nana bruna Rho-Oph 102, dove i gra-nelli di silicati hanno raggiunto dimensioni impreviste. [ESO]

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GENNAIO 2013

PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

che finisce col trasformare gli incontri co-struttivi in scontri distruttivi, dove anzichécrescere di dimensioni i granelli si frammen-tano, favorendo il moltiplicarsi di piccoliproiettili posti su orbite caotiche con para-metri molto sfavorevoli per i successivi avvi-cinamenti.I modelli sulla prima evoluzione dei corpi so-lidi nei dischi circumstellari prevedono chela densità sia favorevole all’accrescimento dipianeti solo nel caso in cui l’astro centralesia sufficientemente massiccio da innescarenel nucleo la fusione dell’idrogeno. In lineadi massima, più è massiccia la stella na-scente, più denso è il disco di gas e polveriche la circonda e più facilmente le polveripossono aggregarsi in oggetti planetari (inrealtà, oltre una certa massa le cose si com-plicano a causa dei venti stellari).Non è dunque previsto che le nane, le stellemancate per eccellenza, siano circondate daun disco sufficientemente massiccio e densoda evolvere costruttivamente in un sistemaplanetario. Dimostrare il contrario vorrebbedire mettere in discussione una non trascu-rabile parte di quello che sappiamo sulla na-scita dei pianeti, cosa tutt’altro cheauspicabile. Ma proprio il contrario è statoinvece dimostrato da un gruppo di ricerca-tori, in prevalenza italiani (e operanti al-l’estero), i quali utilizzando l’Atacama LargeMillimeter/submillimeter Array (ALMA)dell’ESO hanno individuato nel disco di pol-veri che circonda una nana bruna segni ine-quivocabili di un’aggregazione costruttivadel materiale che lo costituisce.La nana in questione è Rho-Oph 102, un og-getto di circa 60 masse gioviane (0,06 massesolari) collocato nella regione di formazionestellare dominata dalla stella Rho della co-stellazione di Ofiuco. Da precedenti osser-vazioni si sapeva che la nana è circondata daun disco polveroso visibile nell’infrarosso,ma i limiti di risoluzione degli strumenti uti-lizzati non avevano permesso di andareoltre quella semplice constatazione. La piùrecente indagine condotta con ALMA ha in-vece consentito una più precisa caratteriz-zazione di quella struttura, benché iricercatori abbiano avuto a disposizione solo1/4 delle antenne che saranno complessiva-mente operative nel 2013 (l’inaugurazione

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PLANETOLOGIA

ASTROFILOl’

è prevista per il 13 marzo). Come dice ilnome stesso dello strumento, ALMA racco-glie luce emessa a lunghezze d’onda pros-sime al millimetro, nella fattispecie emessedalle polveri del disco riscaldato dalla nanabruna. Quest’ultima, infatti, per quanto siapriva di reazioni termonucleari, emette non-dimeno calore come conseguenza della sualenta contrazione gravitazionale e irradia lospazio circostante di luce infrarossa. I gra-nelli del disco la assorbono, si riscaldano e lariemettono sia in un infrarosso più lontanosia a lunghezze d’onda submillimetriche emillimetriche, quindi nel dominio di ALMA.Un’importante proprietà di quei granelli è

quella di non emettere molta radiazione alunghezze d’onda che superano le lorostesse dimensioni, il che comporta una ca-duta di luce abbastanza netta una volta su-perate quelle dimensioni (se per ipotesi igranelli avessero tutti dimensioni di 0,5 mm,il disco sarebbe quasi invisibile nel dominiomillimetrico). ALMA è pertanto lo stru-mento ideale per individuare il punto in cuila luce cade e quindi misurare le dimensionimassime dei granelli.Sfruttando questa preziosa opportunità, ilgruppo di ricercatori coordinato da LucaRicci (Department of Astronomy, CaliforniaInstitute of Technology) ha osservato il disco

L’immagine inbasso è una

zoomata ad altarisoluzione dellazona più internadel complesso ne-bulare Rho Ophiu-chi. Il campo ècentrato sulla po-sizione della nanabruna Rho-Oph102, indicata daitratti bianchi.[ALMA (ESO/NAOJ/NRAO)/DigitizedSky Survey 2]

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PLANETOLOGIA

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zione spaziale, il cheimpedisce tra l’altro distimarne con precisioneampiezza e inclina-zione, anche se per laprima Ricci e colleghipropongono un mas-simo di 80 UA, mentrela seconda può esserededotta da deboli gettidi materia che fuorie-scono dal disco (visibiliin luce bianca) e dallaquasi simmetrica mor-fologia di un flusso dimonossido di carbonioche risulta anch’esso inuscita dal disco. Sia l’esi-stenza di tale flussogassoso, sia la massa deldisco, stimata in 0,3%-1% della massa dellanana, sono anch’esse

caratteristiche tipiche di stelle giovanissime,come ad esempio le T Tauri, e il tutto com-plica ulteriormente la vita ai modelli in auge.Per completezza diremo che ci sono già ri-cercatori all’opera per tentare di salvarecapra e cavoli. È il caso di un lavoro di pros-sima pubblicazione, a firma di Pinilla et al.,nel quale verrà proposto uno scenario in cuiun disco come quello di Rho-Oph 102 puòospitare granelli di dimensioni rilevanti inpresenza di livelli di turbolenza molto bassi,in grado di calmierare le collisioni veloci, edove la migrazione di quelli più grandi versoil centro del disco verrebbe ostacolata dacomplessi meccanismi innescati dal campomagnetico della nana. Con queste scappa-toie teoriche si vorrebbe scongiurare la na-scita di pianeti rocciosi attorno alle nanebrune. Staremo a vedere...Una risposta definitiva agli interrogativi sol-levati dal team di Ricci verrà probabilmenteda quello stesso team non appena avrà lapossibilità di puntare su Rho-Oph 102 laschiera di antenne di ALMA al gran com-pleto. Solo allora sarà possibile mappare ladistribuzione di gas, polveri fini e granelli piùo meno grandi all’interno del disco, verificarecome interagiscono fra loro e se là in mezzoc’è qualcosa che somiglia a un pianeta.

di Rho-Oph 102 alle lunghezze d’onda dicirca 0,89 mm e 3,2 mm, riscontrando nelpassaggio alla lunghezza d’onda maggioreuna caduta di luce decisamente inferiorealle aspettative teoriche, indice del fatto chealmeno una parte non irrilevante dei gra-nelli ha dimensioni superiori al millimetro.Già questo è in contraddizione con i modellicorrenti. Se poi si considera che quegli stessimodelli prevedono che i granelli più grandie veloci dovrebbero popolare esclusiva-mente le regioni più interne del disco ed es-sere pertanto inosservabili, ecco che non sipuò escludere l’esistenza attorno alla nanadi discrete quantità di granelli con diametrimisurabili in centimetri.Il disco di Rho-Oph 102 ha in definitiva ca-ratteristiche proporzionalmente simili aquelle dei dischi ospitati da normali stelle dipre-sequenza principale, con la giusta den-sità e la giusta distribuzione delle velocitàorbitali, affinché gas e polveri possano evol-vere verso la formazione di pianeti. Se qualcosa di più importante di semplici sas-solini già esiste nel disco in questione non èdato sapere, perché attualmente non c’èmodo di andare oltre i risultati appena otte-nuti. Il disco può infatti solo essere osservatocome insieme, senza una dettagliata risolu- n

Ecco come po-trebbe apparire

il disco di Rho-Oph 102 visto dalsuo interno conuna lente di in-grandimento:un’interminabiledistesa di granellisimili a sabbia, checrescono di di-mensioni aggre-gandosi gli uniagli altri. Questoscenario era rite-nuto possibilesolo attorno astelle vere e pro-prie, mentre ora ècerto che può pre-sentarsi anche at-torno alle nanebrune. [ALMA(ESO/NAOJ/NRAO)/L. Calçada (ESO)]

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ASTROFILOl’

CORPI MINORI

Una ricerca pubblicata su Science propone un nuovo processoper la formazione di una classe di meteoriti particolarmenterare e affascinanti: le pallasiti. La vecchia ipotesi che le vedeva prendere forma alla periferia dei nuclei di grandiplanetoidi primordiali è stata soppiantata da unoscenario molto più convincente.

GENNAIO 2013

Uno dei risultati più interessanti dellamissione Dawn attorno a Vesta è sta-to scoprire che quel grande asteroide

era sicuramente dotato in un lontano pas-sato di un campo magnetico, il che significadifferenziazione della struttura interna, conun mantello solido che sovrasta un più den-so nucleo, rimasto liquido per qualche de-cina o centinaia di milioni di anni. Sebbeneci fossero state avvisaglie in tal senso da ri-cerche precedenti, non era unanime la con-vinzione che un oggetto planetario tantopiccolo (solo 525 km di diametro medio) po-tesse mantenere attivo un campo magne-

Un nuovo modelloper le pallasiti

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31CORPI MINORI

GENNAIO 2013 ASTROFILOl’

dello ti

Nella foto a piena pagina vediamo una “fetta”di pallasite, con le sue caratteristiche gemme

di olivina, che se viste controluce offrono un no-tevole spettacolo. Alcuni ricercatori sono riusciti aindividuare in quelle gemme tracce di magneti-smo, aprendo così una nuova via nell’interpreta-zione dell’origine di queste rarissime meteoriti.

tico. L’idea di massima era infatti che anchegli asteroidi più grandi non fossero in gradodi accumulare abbastanza calore al loro in-terno da possedere un nucleo fuso, requi-sito essenziale allo sviluppo dell’effettodinamo che sta alla base dei campi magne-tici dei corpi planetari. La nuova realtà evidenziata dalla sondaDawn ha fornito ai ricercatori lo spunto perrisolvere in modo originale un problemache si trascinavano dietro dalla fine del Mil-lesettecento, quando dopo aver capito lavera natura delle meteoriti ne era stata no-tata una molto diversa dalle altre. Ritro-vata in Siberia, appariva costituita dagemme vetrose traslucide incorporate inuna matrice metallica brillante. Il primo

scienziato che si prese la briga di esa-minare con una certa attenzionealcuni frammenti di quell’insolita

meteorite (pesante ben 680kg) fu il naturalista tedescoPeter Pallas, dal cognome

del quale derivò poi iltermine “pallasite” at-tribuito a tutte lemeteoriti simili rin-venute successiva-mente (nulla a che

fare, dunque,con l’astero-ide Pallas).

Negli ul-timi due

secoli

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sono state trovate solo una cinquantina dimeteoriti sicuramente classificabili comepallasiti, e dalle proprietà chimico-fisiche deisingoli campioni è stato possibile capire chehanno come progenitori solo tre diversi og-getti protoplanetari o poco più.Opportunamente sezionate, le pallasiti mo-strano la loro straordinaria struttura semi-trasparente, caratterizzata dalla presenza dicristalli più o meno puri di olivina, un com-posto dall’aspetto vitreo a base di silicio, os-sigeno, magnesio, ferro e altro ancora,abbastanza comune sia sul nostro pianetasia su altri corpi solidi del sistema solare. I cristalli di olivina offrono un contrasto stri-dente con la matrice a prevalente base diferro e nichel nella quale appaiono immersi.Piccole quantità di questi metalli sono visi-bili anche all’interno dei cristalli di pallasitesotto forma di minuscole impurità.L’alternanza fra le due componenti vetrosae metallica è così spiccata da conferire allepallasiti sezionate un fascino tutto partico-lare, tanto che occasionalmente vengonoutilizzate anche in gioielleria per la crea-zione di preziosi monili. Ma perché quelle due componenti, tantodiverse fra loro, sono mescolate in tal guisa?Dopo un paio di secoli senza una rispostaconvincente, si è alla fine consolidata l’ideache le pallasiti fossero frammenti dellostrato di transizione fra nucleo e mantellodi planetoidi primordiali andati distrutti inepoche remote. Poiché il raffreddamento diun oggetto di quel tipo inizia negli stratipiù esterni per poi continuare verso il cen-tro, dove si concentrano i metalli più pe-santi, vi è sicuramente un periodo in cui ilmateriale fuso del nucleo preme contro lastruttura già solidificata e parzialmente po-rosa del mantello, iniettando all’interno diessa metalli liquidi che vanno a riempiretutte le fessure che trovano. Una volta chele intrusioni si raffreddano verrebbe a cre-arsi la tipica struttura delle pallasiti, e la suc-cessiva distruzione dei planetoidi perreciproche collisioni spargerebbe il preziosomateriale nello spazio interplanetario.L’idea nel suo insieme è buona, ma c’è unaspetto che dà adito a più di un dubbio:perché le pallasiti sono tanto rare se il mec-canismo della loro formazione può aver in-

Questa impressionante illustra-zione di Don Davis immortala ef-

ficacemente il meccanismo che nel lonta-no passato portò alla genesi delle pallasiti:un massiccio asteroide si schianta contro unben più grande planetoide e l’immenso calore chesi sviluppa fonde il nucleo metallico del primo, fa-cendo infiltrare parte del materiale liquefatto nel sotto-suolo del secondo, dove si mischia con le gemme di olivina.

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CORPI MINORI

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teressato la struttura interna di un grannumero di oggetti primordiali? e perché ipotenziali progenitori delle pallasiti finoraclassificate sono solo tre o poco più? Viene da pensare che forse il processo allabase della formazione delle pallasiti sia unaltro e anche la loro collocazione all’internodei progenitori sia diversa. La scoperta che anche oggetti piccoli comeVesta possono aver ospitato campi magne-tici durante le prime fasi della loro evolu-zione ha creato i presupposti per spiegarediversamente l’origine di quelle meteoriti.Come noto, diversi minerali contengonoelementi che hanno la capacità di registraredirezione e intensità dei campi magneticiche li permeano allorché si trovano allostato liquido e di fissarne le proprietà nelmomento in cui raggiungono lo stato so-lido. Per avere valori di magnetizzazioneapprezzabili è però necessario che essisiano fissati con un certo anticipo rispettoal venir meno del campo magnetico stesso,quindi nella fattispecie prima del raffredda-mento del nucleo del planetoide. Se le pal-lasiti si fossero realmente formate nellostrato di transizione fra nucleo e mantellodi alcuni oggetti primordiali del sistema so-lare non dovrebbero contenere tracce signi-ficative di un campo magnetico, essendo ilmetallo di cui sono composte raffreddatosipressoché contemporaneamente a quellosottostante. Non restava che verificare que-sta ipotesi, cosa della quale si è fatto caricoun team di astrofisici e geofisici, coordinatoda John A. Tarduno e Rory D. Cottrell, delDepartment of Earth and EnvironmentalSciences, University of Rochester. Per le loro analisi i ricercatori si sono procu-rati alcuni frammenti di due famose palla-siti, quella di Esquel, ritovata in Patagonianel 1951, e quella di Imilac, rinvenuta neldeserto di Atacama nel 1822, entrambequasi certamente provenienti dal medesimoprogenitore. A differenza di analisi simili ef-fettuate in precedenza da altri ricercatori,Tarduno e colleghi non hanno indirizzato lapropria attenzione verso la quasi indifferen-ziata matrice che avvolge i cristalli di oli-vina, bensì verso quest’ultima e verso leintrusioni che in essa si trovano isolatesotto forma di piccoli grani metallici.

Due animazioni che mettono a confronto l’aspetto esterno delle pallasitiancora integre dopo la caduta al suolo, con il prodotto della loro ridu-

zione in sottili sezioni. In ogni caso si tratta di oggetti di grande valore.

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È infatti praticamente certo chel’assenza di chiare tracce di ma-gnetismo finora riscontrata nellepallasiti sia da attribuire al fattoche la diffusa componente abase di ferro-nichel, molto similea quella delle classiche sideriti,non è in grado di conservare in-formazioni utili sul magnetismoche l’ha interessata e questa perla forte anisotropia che la con-traddistingue. In sintesi, troppeinterferenze fra elementi ferro-magnetici.L’idea vincente della nuova inda-gine è stata quella di cercare eisolare grani metallici microsco-pici all’interno dei cristalli di oli-vina, dove una maggiore libertàdi movimento (all’epoca dellostato fuso), garantita da una mi-nore densità del materiale circo-stante, avrebbe permesso loro diallinearsi più agevolmente e fe-delmente nella direzione dei polimagnetici del planetoide.Per raccogliere le necessarie in-formazioni sull’intensità delcampo magnetico e poter carat-terizzare la dinamo posta allasua origine, Tarduno e colleghihanno utilizzato vari tipi di mi-croscopi (da quelli a luce tra-smessa a quelli a scansioneelettronica) per esaminare su di-versa scala il contenuto dei cri-stalli di olivina, individuandoinclusioni metalliche con dimen-sioni anche inferiori ai 10 µm (1centesimo di millimetro), compo-ste essenzialmente di ferro-ni-chel. I ricercatori hanno quindiriscaldato i piccolissimi grani tra-mite un raggio laser, fino a rag-giungere la temperatura diCurie, quella alla quale un ele-mento perde le sue proprietàmagnetiche. Raffreddando poi igrani in presenza di un campomagnetico di intensità nota emonitorando il processo construmenti estremamente sensi-

Asinistra e so-pra vediamo

delle bellissimesezioni di pallasitecon differenti con-dizioni di illumi-nazione. Il fascinodi queste meteo-riti viene accre-sciuto dalla loroestrema rarità, in-fatti sono classifi-cate come pallasitisolo una cinquan-tina di meteoriti,mentre un’altraventina sono inforse. Questo suun totale di circa33000 meteoritidiverse conosciu-te. La rarità dellepallasiti ne fa deiveri gioielli e in-fatti sul mercato èpiù facile trovarlesotto forma dimonili piuttostoche di frammentimeteoritici. Ovvia-mente i prezzisono adeguati eper avere uno diquei gioielli pos-sono non bastarecentinaia di euro.[Galerie Alain Ca-rion-Paris]

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bili, gli stessi ricercatori hanno rimagnetiz-zato i grani fino ad ottenere una situazionecome quella originaria, il che ha permesso distimare l’energia del campo magnetico delprogenitore e, attraverso opportuni modelli,di caratterizzare con sufficiente precisione ilprogenitore stesso. Questo era un plane-toide primordiale di circa 400 km di diame-tro, il cui nucleo è rimasto fuso per almeno200 milioni di anni, in un’epoca collocabilefra 4,4 e 4,2 miliardi di anni fa. All’interno diquel lasso di tempo, un asteroide di qualchedecina di chilometri di diametro è andato a

schiantarsi sul planetoide con un’energiasufficiente a vaporizzare la componente roc-ciosa e a liquefare quella metallica del nu-cleo dell’oggetto più piccolo, che perl’enorme pressione sviluppatasi si è trasferitanel mantello del planetoide, fino a diversichilometri di profondità, infiltrandosi fra icristalli di olivina e persino nei più piccoli an-fratti dei singoli cristalli.Nel corso del successivo raffreddamento delmateriale iniettato, i composti metallici sen-sibili al campo magnetico del planetoidehanno avuto il tempo di assecondarne le

linee di forza, registrandone direzionee intensità ben prima che svanisse acausa del raffreddamento del nucleodel planetoide.Essendo questo scenario sull’originedelle pallasiti molto più soddisfacente diquello proposto in precedenza, se nededuce che quella speciale classe di me-teoriti è verosimilmente il frutto dellacommistione di due progenitori diversi,il che spiegherebbe la loro rarità ri-spetto ad altre meteoriti, per la produ-zione delle quali basta un qualunquetipo di impatto anche fra oggetti di di-mensioni molto sproporzionate e senzaparticolari vincoli di tempo e composi-zione chimica, mentre nel caso delle pal-lasiti è indispensabile una giusta combi-nazione fra tutti gli ingredienti. Non èdunque un caso che persino le meteo-riti di origine marziana finora ritrovatesul nostro pianeta siano numericamen-te il doppio delle pallasiti.

In basso, una se-zione della me-teorite di Esquel,la più famosadelle pallasiti.Questo esemplareè indicativo dicome le compo-nenti vetrosa emetallica si divi-dano circa a metàil volume a dispo-sizione. [Field Mu-seum, Chicago]

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BUCHI NERI

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Il supermostro diNGC 1277

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37BUCHI NERI

Prendete 17 miliardi di stelleuguali al Sole e pressatele inuna sfera con raggio di circa 350unità astronomiche. Lo spaven-toso oggetto che uscirà dallapressione di tutta quella massasarà uno dei più grandi buchineri esistenti nell’universo con-temporaneo. Come è potutonascere quel mostro?

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NGC 1277 è una delle migliaia di ga-lassie del gigantesco ammasso delPerseo e non ha apparentemente

nulla di strano. Dista circa 230 milioni dianni luce, è di tipo lenticolare S0, quindi èa metà strada fra un’ellittica e una spirale,e non è nemmeno particolarmente gran-de, per quanto se confrontata con la ViaLattea risulti più compatta. Neanche dalpunto di vista della produzione stellare ènotevole, anzi, risulta praticamente inerte.Eppure, al centro di quella apparentementenormale struttura è stato appena scopertoqualcosa di totalmente inatteso, uno dei piùtitanici buchi neri supergiganti che si cono-

ASTROFILOl’

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BUCHI NERI

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scano, forse il più grande in assoluto, un im-pressionante mostro di 17 miliardi di massesolari, che se fosse posto al centro del nostrosistema solare lo occuperebbe completa-mente, estendendosi fino a una distanzaoltre 10 volte superiore all’orbita di Nettuno.Come spesso accade, lo sproporzionato buconero non provoca alcun effetto vistoso sullagalassia che lo ospita, tanto da essere rima-sto perfettamente nascosto fino a quandouna ricerca sistematica di oggetti di quelgenere, condotta negli ultimi due anni conl’Hobby-Eberly Telescope del McDonald Ob-servatory, non l’ha stanato.Autori della scoperta sono Remco van denBosch (Max-Planck-Institut für Astronomie)e alcuni suoi collaboratori delle universitàdel Texas e del Michigan. Il loro programmadi ricerca prevedeva l’osservazione spettro-scopica di circa 700 galassie abbastanza vi-cine (fino a qualche centinaio di milioni dianni luce) da consentire alla strumentazioneutilizzata di risolvere la cinematica di stellee gas nelle regioni più interne, dove dominail potenziale gravitazionale (la sfera d’in-fluenza) del buco nero supermassiccio even-tualmente presente. Le probabilità di avver-tirne quanto meno la presenza sono gene-ralmente elevate, perché la gran parte dellegalassie di una certa taglia ne ospitano unoe questo altera sensibilmente i moti dellestelle ad esso più prossime. Per poter apprez-zare quel tipo di alterazioni a centinaia dimilioni di anni luce di distanza è però indi-spensabile un telescopio di grande diametro,come appunto l’Hobby-Eberly, che col suospecchio di 11,1×9,8 metri, composto di 91tasselli esagonali, possiede una delle piùampie superfici riflettenti al mondo.Fra tutte le galassie esaminate dal team divan den Bosch, 6 hanno mostrato un’elevatadispersione delle velocità nelle regioni cen-trali, indice di una forte “agitazione” dellestelle, provocata dalla forza gravitazionaledi un’importante massa invisibile. Più veloceè il moto delle stelle e alta la dispersione, piùè grande la massa perturbatrice. Per stimareil suo valore è però indispensabile determi-nare con elevata risoluzione spaziale il con-tributo della massa stellare attraverso un’ac-curata fotometria, ovvero tramite immagi-ni estremamente dettagliate. Poiché l’unico

Sullo sfondo lo spettacolare ammasso del Perseo, con al centro,indicata dalla freccia, la compatta galassia lenticolare NGC 1277.

Al suo interno si annida uno dei più giganteschi buchi neri finorascoperti. Con la sua inimmaginabile massa di 17 miliardi di soli stasconvolgendo gli attuali modelli sulla formazione delle galassie.[David W. Hogg, Michael Blanton, and the SDSS Collaboration]

Sullo sfondo lo spettacolare ammasso del Perseo, con al centro,indicata dalla freccia, la compatta galassia lenticolare NGC 1277.

Al suo interno si annida uno dei più giganteschi buchi neri finorascoperti. Con la sua inimmaginabile massa di 17 miliardi di soli stasconvolgendo gli attuali modelli sulla formazione delle galassie.[David W. Hogg, Michael Blanton, and the SDSS Collaboration]

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è un problema, perché non sembravano es-serci dubbi sul fatto che l’evoluzione delledue componenti procedesse di pari passo,con buco nero e bulge (e quindi galassia) chesi influenzano vicendevolmente. Ciò presup-pone l’esistenza di un equilibrio innato, chein NGC 1277 e nelle altre galassie con le me-desime caratteristiche viene decisamentemeno. Molti dei più recenti modelli dedicatiall’interpretazione delle proprietà delle ga-lassie fanno affidamento su quella correla-zione, che ora non solo è messa in discus-sione dai casi accertati di buchi neri ipermas-sicci, ma anche da quelli altrettanto accertati

di buchi neri eccezionalmente leggeri (sononoti almeno 3 casi). Si potrebbe a questopunto ipotizzare che almeno nel caso piùeclatante, quello di NGC 1277, il buco nerosia così massiccio semplicemente perché, perqualche oscuro motivo, ha divorato la granparte delle stelle del bulge. È però un’ipo-tesi che non sta in piedi e per almeno duevalidi motivi. Il primo è legato all’evoluzionegerarchica delle galassie, che crescono di di-mensioni attraverso la fusione con altre ga-lassie. NGC 1277 quindi non è sempre statacome la vediamo e il suo buco nero non hapotuto agire sempre nelle stesse condizioni.Il meccanismo dell’accrescimento per fu-

strumento in grado di fornirle è il telescopiospaziale Hubble, van den Bosch e colleghihanno attinto dal suo database, trovandoimmagini di NGC 1277 adatte agli scopi per-seguiti. A quel punto i ricercatori hannoprodotto un modello dinamico della galas-sia, contenente tutte le possibili orbite stel-lari (circa 600000), cercando fra tutti gliscenari possibili quello che meglio si adat-tava alla realtà osservativa. I primi risultatiusciti dalla riduzione dei dati sono apparsitanto incredibili che il team di van denBosch ha dedicato un anno alla loro verifica,ma alla fine non si è potuto che accettare

l’evidenza: il buco nero presente al centrodi NGC 1277 ha una massa di circa 17 mi-liardi di masse solari, a fronte di una galassiadi 120 miliardi di masse solari. Da questi va-lori si evince che l’oggetto collassato pesacome il 14% dell’intera galassia, una percen-tuale che diventa ancor più spropositata sesi prende come termine di riferimento la re-gione galattica più importante dal punto divista evolutivo, il bulge, del quale il buconero rappresenta circa il 60% della massa. Èun valore spaventoso, se si considera che inmedia nel bulge delle galassie quel valore siaggira attorno allo 0,1%!Questo fatto è di fondamentale importanza,perché il rapporto di 1 a 1000 fra massa delbuco nero supermassiccio e massa del bulgegalattico (o dell’intera galassia nel caso delleellittiche) era finora considerato una sorta dicostante, tanto da venir utilizzato per misu-rare le masse dei primi dalla semplice valuta-zione delle masse dei secondi. Le certezzesulla bontà di quel metro non erano state mi-nate nemmeno dalla scoperta di qualche ec-cezione, come NGC 4486B, il cui buco nerorappresenta l’11% del bulge (in qualchemodo una spiegazione sarebbe saltata fuori,senza dover mettere tutto in discussione).Ora però le eccezioni cominciano a esseretroppe e ciò pone seri dubbi sull’universalitàdella forte correlazione di cui sopra. E questo

Nel diagramma a fianco è rappresentata la di-mensione del buco nero supermasiccio di

NGC 1277 rispetto all’orbita di Nettuno, che vienesuperata di oltre dieci volte. L’orbita della Terra,indicata dalla freccia, è su questa scala indistin-guibile, mentre il Sole non è neppure rappresen-tabile. [D. Benningfield/K.Gebhardt/StarDate]

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sione è ormai ampiamente acclarato e pre-vede che a partire da circa mezzo miliardodi anni dopo il Big Bang tutte le galassie ab-biano iniziato a scontrarsi e a fondersi fraloro, generando strutture sempre piùgrandi. Le prime fusioni avrebbero generato(o quanto meno iniziato ad alimentare se-riamente) i primi buchi neri supermassicci,che sarebbero via via cresciuti fusione dopofusione, così come di pari passo sarebberocresciuti i bulge. Poiché sembra ragionevoleammettere condizioni di partenza ugualiper tutte le galassie, perché un buco nerodovrebbe crescere centinaia di volte più deisuoi simili?Il secondo motivo per cui non è possibile li-quidare l’anomalia adducendo un sempliceeccesso di voracità lo fornisce l’età avanzatadelle stelle che popolano NGC 1277. Tuttehanno infatti almeno 8 miliardi di anni, il chesignifica che in quella galassia negli ultimi 8miliardi di anni non si sono verificati episodisignificativi di genesi stellare, cosa impossi-bile se il titanico buco nero centrale avessenel frattempo continuato a “banchettare” alritmo forsennato richiesto per dar contodella situazione attuale. Gli effetti derivantidall’attività di un buco nero di quella taglia,a cominciare dall’immane energia rilasciatadalle stelle in caduta al suo interno, non pas-serebbero inosservati. E sebbene quella stes- n

L’effetto provo-cato dalla tita-

nica massa delbuco nero di NGC1277 sulle stellead esso più pros-sime è ben evi-denziato (e grafi-camente esage-rato) nell’anima-zione qui a fianco.[NASA/ ESA/An-drew C. Fabian/Remco C. van denBosch (MPIA)]

sa attività possa inibire (non sempre) la na-scita di nuove stelle nelle immediate vici-nanze del mostruoso oggetto per l’eccessivoriscaldamento e per il caos gravitazionaleprodotti sull’ambiente, l’esatto contrario av-viene invece a distanze galattiche maggiori,dove il riflesso dell’attività del buco nero agi-sce positivamente sulla formazione stellare.L’unica alternativa in grado di giustificare lalunghissima inattività della galassia è che ilbuco nero abbia ingurgitato quei 17 miliardidi masse solari nei primi 4-5 miliardi di annidi vita dell’universo, cosa inverosimile.Secondo van den Bosch, NGC 1277 potrebbeaver avuto “problemi di crescita”, non riu-scendo a trattenere durante le fusioni lestelle necessarie a far quadrare i conti, op-pure si potrebbe ipotizzare che la correla-zione fra masse di buchi neri e bulge siameno rigida di quanto constatato finora eche galassie come NGC 1277 rappresentinol’apice della distribuzione dei rapporti.Qualunque sia la giusta interpretazione,resta il fatto che d’ora innanzi pesare i buchineri supermassicci sulla sola base delle pro-prietà fotometriche del bulge potrebbe es-sere discutibile. Forse bisognerà ripensare imodelli sull’evoluzione delle galassie con-centrando l’attenzione sul giovane universo,dove il buco nero di NGC 1277 si formò edove ancora si nasconde la verità.

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PLANETOLOGIA

L’ipotesi dell’esistenza di ghiaccio d’acqua su Mercuriostava attendendo una conferma definitiva da oltre

vent’anni. Ora grazie alla sonda MESSENGER quella con-ferma è arrivata ed è stata anche scoperta la presenza

assieme all’acqua di composti organici, provenientianch’essi da comete e asteroidi caduti sul pianeta.

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Ghiaccio d’acqua suMercurio!

Ghiaccio d’acqua suMercurio!

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Sembra paradossale che su un pianetaroccioso la cui superficie ha una tempera-tura che all’equatore raggiunge i 420°C

possa esistere del ghiaccio. Eppure non cisono più dubbi, su Mercurio il ghiaccio c’è ela notizia è resa ancora più interessante dalfatto che si tratta di ghiaccio d’acqua.Come ben sappiamo, Mercurio è il più pic-colo e interno pianeta del nostro sistema so-lare, quello che più di altri ha subito le“ingerenze” gravitazionali del Sole (di-stante circa 58 milioni di km), tanto da ritro-varsi con i tempi di rivoluzione (88 giorni) erotazione (59 giorni) inchiodati nella riso-nanza 2:3. La lunghezza del giorno su Mer-curio è tale che la parte di superficie espostaal Sole diventa una fornace in grado di scio-gliere il piombo e non sembra quindi ilposto ideale dove andare a cercare elementivolatili come l’acqua, per di più sotto formadi ghiaccio. Mercurio ha però una particola-rità: l’inclinazione del suo asse di rotazioneè inferiore a 1° e ciò fa sì che i territori piùprossimi ai poli ricevano sempre un’insola-zione estremamente radente. Di conse-guenza qualunque rilievo, scabrosità e de-pressione della superficie può presentarezone d’ombra permanente, nelle quali la ra-diazione solare non giunge mai diretta-mente. Su un pianeta dotato di atmosfera ilcalore del Sole giungerebbe ugualmenteper diffusione anche nei punti più nascosti,ma Mercurio non ha un’atmosfera significa-tiva e la superficie solida non è altrettanto

ASTROFILOl’

In questo video viene illustrata la manovra diinserimento della sonda MESSENGER nella sua

orbita polare attorno a Mercurio. Sebbene i pia-neti interni del sistema solare siano tutto som-mato relativamente vicini alla Terra, portare lesonde a orbitare attorno ad essi richiede dellemanovre decisamente complesse. [NASA]

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efficiente in quel senso. Di conseguenza, inprossimità dei poli del pianeta potrebberoesistere siti adatti alla conservazione dighiacci, pensiamo ad esempio a rilievi mon-tuosi con pendii esposti al polo, oppure acrateri da impatto con parte del bordo econ il pavimento in perenne oscurità.Questa possibilità iniziò ad essere valutatadagli astronomi già decenni addietro, marimase una mera ipotesi fino al 1991,quando a seguito di una campagna di os-servazioni radar condotta con il radiotele-scopio di Arecibo (isola di Puerto Rico)furono registrate delle zone insolitamentebrillanti presso i poli del pianeta, in corri-spondenza delle quali l’impulso radar ve-niva riflesso con una modalità compatibilecon la presenza di ghiaccio d’acqua. Confrontando la posizione si quei siti adalta riflettenza con le strutture superficialifotografate dalla sonda Mariner 10 nelcorso dei suoi flyby con Mercurio negli anni’70, gli astronomi trovarono una netta cor-rispondenza con alcuni grandi crateri daimpatto: il probabile ghiaccio sembrava na-

scondersi al loro in-terno. La mappaturadella Mariner 10 eraperò incompleta, co-prendo meno dellametà della superficiedi Mercurio e partedelle zone brillantipotevano essere in-terpretate anche di-versamente; quindinon fu possibile giun-gere a una conclu-sione unanime e laquestione rimase a-perta.Molto più recente-mente, nell’aprile del2011, lo studio di Mer-curio ha fatto un bal-zo decisivo con l’en-trata in orbita polareattorno al pianetadella sonda MESSEN-GER (MErcury Sur-face, Space ENviron-ment, GEochemistry,

and Ranging), il cui compito principale èquello di produrre mappe topografiche,termiche e geologiche con la sua schiera distrumenti scientifici, primi fra tutti il Mer-cury Dual Imaging System (MDIS) e il Mer-cury Laser Altimeter (MLA). L’obiettivo èovviamente quello di indagare le proprietàchimico-fisico-morfologiche della superficiee del sottosuolo, per ricavare un quadroevolutivo del pianeta quanto più completopossibile.Grazie ai dati raccolti dalla MESSENGERsono già stati realizzati numerosi lavori chehanno prodotto pubblicazioni di indubbiointeresse scientifico, incluse tre uscite suScience Express a fine novembre che risul-tano decisive circa la presenza di ghiacciod’acqua su Mercurio. I team di Gregory A.Neumann (NASA Goddard Space Flight Cen-ter), David A. Paige (Department of Earthand Space Sciences, University of California,Los Angeles) e David J. Lawrence (The JohnsHopkins University Applied Physics Labora-tory, Laurel), hanno affrontato il problemada diverse prospettive, giungendo a risul-

L’immagine a si-nistra è la map-

pa radar della re-gione polare norddi Mercurio rea-lizzata con il ra-diotelescopio diArecibo. Le re-gioni più chiare,rappresentatecon una tonalitàdi giallo, sonoquelle a più altariflettenza. Fraqueste si ricono-scono facilmentele fattezze di al-cuni grandi cra-teri. L’elevataluminosità diquelle strutture,così come quelladi strutture ana-loghe presenti at-torno al polo sud,indicavano giàoltre vent’anni fala possibile pre-senza di ghiacciod’acqua sul ro-vente pianeta.[National Astro-nomy and Iono-sphere Center,Arecibo Observa-tory]

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ASTROFILOl’

tati analo-ghi. I ricer-catori delteam diNeumannhanno sco-perto che ivalori mas-simi dellariflettivitàsuperficia-le delle re-gioni po-

lari sono sovrapponibili alle latitudini piùsettentrionali con le precedenti mappatureradar. Due crateri in particolare risultanomolto brillanti in entrambe le bande elet-tromagnetiche impiegate dagli strumenti(radio per Arecibo, infrarosso per MLA),avvalorando l’ipotesi dell’esistenza al lorointerno di ghiaccio. È però sufficiente scen-dere anche di poco in latitudine rispetto aquei crateri per notare un fatto curioso:strutture che appaiono brillanti sulla mapparadar diventano molto scure sulla mappainfrarossa. Il motivodi tale differenza an-dava probabilmentericercato nella diver-sa capacità di pene-trazione nel terrenodei due diversi im-pulsi luminosi e/o nel-la temperatura dellestrutture osservatee/o nella loro compo-sizione.I vari tasselli del puz-zle si sono ulterior-mente ricomposti gra-zie al team di Paige,che ha sviluppato unmodello termico del-le regioni polari norddi Mercurio, sulla ba-se dei rilievi topogra-fici, della riflettivitàsuperficiale e dellecaratteristiche rota-zionali del pianeta. Ilmodello simula l’illu-minazione a latitu-

dini diverse e in periodi diversi, fornendoprecisi valori della temperatura superficialee subsuperficiale, che suggeriscono dove ilghiaccio può essere stabile e più o menoesposto all’ambiente esterno. Dalle simula-zioni realizzate attraverso il modello si èpotuto appurare che le chiazze invariabil-mente brillanti corrispondono a regioni incui può esistere stabilmente ghiaccio d’ac-qua in superficie (ovviamente depositatosul fondo di crateri e altri siti perenne-mente in ombra), mentre nelle zone che ri-sultano brillanti nelle onde radio ma oscurenell’infrarosso il ghiaccio può essere stabilesolo se ricoperto da almeno 1 metro di ma-teriale isolante, che nella fattispecie sembraessere una miscela di ghiaccio e molecoleorganiche complesse. La loro origine, cosìcome quella dell’acqua, chiama in causal’impatto contro Mercurio di comete e aste-roidi ricchi di elementi volatili. Questi ul-timi, dopo essere rimasti in sospensione allostato gassoso per un certo lasso di tempo,formando una tenue atmosfera, sono statilentamente intrappolati negli unici am-

All’immagineprecedente è

stato qui sovrap-posto un mosaicodi immagini dellemedesime areerealizzato con lostrumento MDIS.La corrispondenzafra le aree bril-lanti nelle onderadio e la posi-zione dei crateri èperfetta. Nell’immagine adestra sono stateinvece ulterior-mente sovrappo-ste, con unatonalità di rosso,tutte le aree cheagli strumenti diMESSENGER risul-tano essere per-manentemente inombra. È facileconstatare cometutti i depositi dighiaccio risiedanoproprio entroquelle areefredde. [NASA/Johns HopkinsUniversity Ap-plied Physics La-boratory/CarnegieInstitution of Wa-shington/NationalAstronomy andIonosphere Cen-ter, Arecibo Ob-servatory]

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46 PLANETOLOGIA

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bienti in cui potevano raggiungere lo statosolido, i crateri polari, il cui pavimento si èprogressivamente ricoperto di vari elementighiacciati, fra i quali l’acqua sembra fare laparte del leone.Ma quanta acqua c’è su Mercurio? La rispo-sta la dà il team di Lawrence, attraverso idati raccolti con il Gamma-Ray and NeutronSpectrometer (GRNS), grazie al quale è statopossibile misurare le concentrazioni medie diidrogeno, e quindi indirettamente di acqua,nelle aree che appaiono più brillanti nelleosservazioni radar. Sfruttando la sollecita-zione degli elementi superficiali da parte deiraggi cosmici, questo particolare strumentomisura i flussi di particelle rilasciate e sullabase della loro intensità ed energia consentedi risalire alla quantità e alla natura del ma-teriale sollecitato. Sulla base delle proprietàdei flussi di neutroni associabili alle zone og-getto degli altri lavori, Lawrence e colleghisono stati in grado di confermare la pre-senza di strati subsuperficiali di ghiacciod’acqua particolarmente puro, spessi alcunedecine di centimetri, posti al di sotto di stratipiù superficiali, spessi 10-20 cm, di ghiacciomeno puro, verosimilmente “inquinato” daicomposti organici concentratisi a seguitodella sublimazione dello strato di ghiacciopiù esposto all’ambiente esterno. Tre ap-procci completamente diversi all’argomento

hanno dunque fornito una risposta univocae affermativa circa la presenza di ghiacciod’acqua su Mercurio, il cui quantitativo com-plessivo viene ora stimato fra 20 e 100 mi-liardi di tonnellate, dunque una massatutt’altro che trascurabile. Le vecchie osservazioni di Arecibo hanno in-somma trovato una definitiva confermadalla combinazione degli attuali rilievi effet-tuati dalla MESSENGER, nonché dal nuovomodello termico di Mercurio.Restano ora da chiarire solo alcuni aspetti se-condari, per così dire, come ad esempio unapparente scurirsi nei decenni di alcuni deisiti che ospitano ghiaccio, cosa che risulte-rebbe dal confronto fra tutti i dati a dispo-sizione dei ricercatori e che Paul Lucey(University of Hawaii) interpreta come unarecessione o un assottigliamento del ghiac-cio. Se così fosse, secoli o millenni fa Mercu-rio avrebbe potuto avere qualcosa di similea delle calotte polari, ma ciò sembra davverodifficile da sostenere, meglio ipotizzare unaltalenare dell’estensione dei ghiacci su pe-riodi molto più contenuti per motivi ancoradel tutto ignoti. Per quanto incerto, anchequesto argomento contribuisce comunque arendere sempre più intrigante lo studio diun pianeta ritenuto per lunghissimo tempouna semplice copia della Luna, solo un po’più grande e più calda. n

Da questa pa-noramica dei

territori a più ele-vata latitudinenord si evincecome allontanan-dosi dal polo si ri-ducano propor-zionalmente i sitiadatti ad ospitareghiaccio d’acqua(rappresentato ingiallo). L’animazione nelriquadro, descriveil complesso per-corso seguito dal-la sonda MESSEN-GER prima di en-trare in orbita at-torno a Mercurio.

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