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1 La riforma liturgica e la pastorale [In: CredereOggi 27/5 (2007) n. 161, 7-24] Il recente polverone, sollevato dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI 1 , ha senza dubbio acutizzato la problematica, già viva, relativa alla riforma liturgica. Questa, infatti, è stata “compressa” soltanto in due interrogativi seppur essenziali: quello relativo alla ritualità, che ha portato al “permesso”, allargato a iosa, di poter utilizzare come “forma extraordinaria” (già l’aggettivo, in siffatto conio linguistico italiano, è in se stesso un programma!) la modalità rituale contenuta nel Messale Romano, edito nel 1962 da Giovanni XXIII, insieme a quella “ordinaria”, scaturita appunta dalla riforma del Vaticano II e confluita nel Messale Romano di Paolo VI del 1970. Si imputa il fallimento di quest’ultima al fatto che “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile” 2 . A ulteriore convalida papa Benedetto XVI riporta una propria critica personale: “Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue att ese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa” 3 . L’altro interrogativo, l’unico che ha avuto risalto negli organi di stampa, è quello relativo alla lingua latina nella liturgia, riconosciuta come quella che meglio veicola il mistero celebrato e permette i raduni internazionali di persone, in quanto rappresenterebbe l’autentica modalità di comunicazione tra i partecipanti, salvaguardando la sacralità del divino. In ogni caso, almeno nelle motivazioni che vengono solitamente addotte, costituisce l’elemento della “tradizione” nel senso ampio del termine. Come questo possa attuarsi, tenendo conto della magmatica situazione a livello pastorale, specialmente se considerata dal versante della partecipazione e dell’espressività giovanile, è lasciato totalmente alla fertile inventiva dei lettori. Senza dubbio i due elementi citati lasciano trasparire che non si sono del tutto acquisite sia le finalità specifiche, che la costituzione Sacrosanctum Concilium (=SC) assegnava alla cosiddetta “riforma” liturgica, sia le conseguenze prettamente pastorali che questa avrebbe comportato. È quanto si cercherà di focalizzare nel presente studio, che ricopre la funzione “introduttiva” ad altre problematiche più settoriali, le quali troveranno sviluppo nei successivi interventi del presente fascicolo della rivista. 1 BENEDETTO XVI, Motu proprio Summorum Pontificum (=SP) (7.7.2007) (=Magistero di Benedetto XVI/22), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007. La pubblicazione contiene anche la Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il «Motu proprio» sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, pp. 21-31 (d’ora in poi citato con: Lettera papale). 2 Lettera papale, p. 25. 3 Ibid.

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La riforma liturgica e la pastorale [In: CredereOggi 27/5 (2007) n. 161, 7-24]

Il recente polverone, sollevato dalla pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI1, ha senza dubbio acutizzato la problematica, già viva, relativa alla riforma liturgica. Questa, infatti, è stata “compressa” soltanto in due interrogativi seppur essenziali: quello relativo alla ritualità, che ha portato al “permesso”, allargato a iosa, di poter utilizzare come “forma extraordinaria” (già l’aggettivo, in siffatto conio linguistico italiano, è in se stesso un programma!) la modalità rituale contenuta nel Messale Romano, edito nel 1962 da Giovanni XXIII, insieme a quella “ordinaria”, scaturita appunta dalla riforma del Vaticano II e confluita nel Messale Romano di Paolo VI del 1970. Si imputa il fallimento di quest’ultima al fatto che “in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo Messale, ma esso veniva addirittura inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile”2. A ulteriore convalida papa Benedetto XVI riporta una propria critica personale: “Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”3. L’altro interrogativo, l’unico che ha avuto risalto negli organi di stampa, è quello relativo alla lingua latina nella liturgia, riconosciuta come quella che meglio veicola il mistero celebrato e permette i raduni internazionali di persone, in quanto rappresenterebbe l’autentica modalità di comunicazione tra i partecipanti, salvaguardando la sacralità del divino. In ogni caso, almeno nelle motivazioni che vengono solitamente addotte, costituisce l’elemento della “tradizione” nel senso ampio del termine. Come questo possa attuarsi, tenendo conto della magmatica situazione a livello pastorale, specialmente se considerata dal versante della partecipazione e dell’espressività giovanile, è lasciato totalmente alla fertile inventiva dei lettori. Senza dubbio i due elementi citati lasciano trasparire che non si sono del tutto acquisite sia le finalità specifiche, che la costituzione Sacrosanctum Concilium (=SC) assegnava alla cosiddetta “riforma” liturgica, sia le conseguenze prettamente pastorali che questa avrebbe comportato. È quanto si cercherà di focalizzare nel presente studio, che ricopre la funzione “introduttiva” ad altre problematiche più settoriali, le quali troveranno sviluppo nei successivi interventi del presente fascicolo della rivista.

1 BENEDETTO XVI, Motu proprio Summorum Pontificum (=SP) (7.7.2007) (=Magistero di Benedetto XVI/22),

Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007. La pubblicazione contiene anche la Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il «Motu proprio» sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, pp. 21-31 (d’ora in poi citato con: Lettera papale). 2 Lettera papale, p. 25.

3 Ibid.

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1. Le finalità pastorali della riforma liturgica Lo scopo della riforma e dell’incremento della liturgia, secondo il proemio di SC4, è quadruplice: * far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli: si riconnettono qui i molteplici tentativi pastorali, che in questi anni hanno fatto della liturgia un mezzo per alimentare la vita in Cristo, nel senso più vasto del termine. Già in un documento attuativo della riforma, nell’immediato postconcilio, si esortano apertamente i vescovi e i loro cooperatori nel sacerdozio, perché “facciano sempre più conto dell’insieme del loro ministero pastorale incentrato nella liturgia. Così, attraverso una perfetta partecipazione alle sacre celebrazioni, anche i fedeli attingeranno abbondantemente la vita divina e, divenuti lievito di Cristo e sale della terra, la proclameranno e trasfonderanno anche negli altri”5. E, proprio agli inizi degli anni duemila, i vescovi italiani richiamano ancora simile esigenza, osservando e auspicando: “Pare, talvolta, che l’evento sacramentale non venga colto. Di qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza della liturgia quale luogo educativo e rivelativo, facendone emergere la dignità e l’orientamento verso l’edificazione del Regno. La celebrazione eucaristica chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va sostenuta con una robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria, semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini”6. Un compito pastorale, quindi, di vaste proporzioni, indispensabile alla edificazione del Regno, che pure l’agire liturgico deve far emergere, tanto nella sua dignità, quanto nel suo orientamento di fondo. * meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti: è un’altra preoccupazione che ha accompagnato la riforma liturgica in questi anni, partendo, certo, a livello rituale, dove, secondo SC, si devono distinguere nella “riforma (instaurationem) generale delle liturgia” le parti immutabili, perché di istituzione

4 I due verbi latini, originari di SC, sono quanto mai espressivi. Anzitutto la riforma corrisponde al verbo

instaurare, di chiara matrice biblica: instaurare omnia in Cristo (cfr Ef 1, 10), cioè “ricapitolare in Cristo tutte le cose. Al riguardo così commenta un noto esegeta: “La storia è immaginata come un susseguirsi di epoche e avvenimenti salvifici che raggiungono la loro pienezza grazie al ruolo determinante della persona di Cristo che riassume in sé ogni frammento della storia salvifica precedente e la unifica come unico signore e capo di tutta la realtà. Al Cristo come Signore risorto è d’ora in poi «intestata» tutta la storia umana. È una visione grandiosa che ha entusiasmato i lettori cristiani di tutti i tempi” (R. FABRIS, Le lettere di Paolo, 3 [=Commenti biblici], Borla, Roma 1980, p. 221; cfr anche: H. SCHLIER, La lettera agli Efesini [Commentario teologico del Nuovo Testamento X/2], Paideia, Brescia 1973

2, pp. 89-93). Questa “intestazione” a Cristo si

attua appunto nella ritualità, che il Vaticano II ha inteso “riformare”. Tutto ciò è chiamato, sempre dall’apostolo Paolo, mistero, cioè pieno svelamento del progetto di salvezza in Cristo. In questo senso la liturgia è attuazione del mistero. E lo scopo della riforma del Vaticano II è appunto questo, primariamente. L’incremento, poi, corrisponde al verbo fovere, un evidente termine di “sviluppo” della realtà liturgica nel senso partecipativo, così come si è cercato di realizzare negli anni successivi alla SC, a vari livelli. 5 SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI, Istruzione Inter oecumenici (=IOE) (26.9.1964), n. 8, in: EV, vol. 2, 218.

6 EPISCOPATO ITALIANO, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato

italiano per il primo decennio del Duemila (=CVMC) (29.6.2001), n. 49, in: ECEI, vol. 7, 215.

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divina, e quelle suscettibili di cambiamento, in quanto nel corso dei secoli si sono insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della stessa liturgia o si sono resi meno opportuni (cfr SC 21). Ma la ritualità è stata sempre rapportata alla pastoralità. I piani CEI, ad esempio, degli anni settanta relativi alla dinamica evangelizzazione/sacramenti reclamavano già alcune esigenze di adattamento liturgico-pastorale: “Esistono problemi di metodo e di linguaggio, nella ricerca e nella individuazione delle vie che raggiungono l’uomo contemporaneo, per poterne interpretare, con lucida oggettività, le esigenze più vere. Di qui la necessità di un approfondimento e di una traduzione, in linguaggio moderno, del messaggio cristiano e di una testimonianza di vita, che ne accompagni e quasi ne convalidi l’annuncio. Tutto questo comporterà un serio rinnovamento delle nostre comunità cristiane, chiamate ad essere e a manifestarsi, nella loro vita, come visibile segno di salvezza per gli uomini. Né meno necessaria è, alla luce della dottrina del concilio Vaticano II, una migliore comprensione e una presentazione più pertinente dei sacramenti, che ne metta in evidenza la connessione con tutta la storia della salvezza, il rapporto con il mistero pasquale del Cristo e con la vita della Chiesa, la rilevanza in ordine all’animazione cristiana del mondo e dell’avvento del regno di Dio”7. Si può così arrivare, passando attraverso una buona messe di documenti, che sono stati “tradotti” dai vescovi e dai presbiteri per le varie comunità parrocchiali, perché li recepissero, agli ultimi pronunciamenti in ordine cronologico, dove ancora si afferma: “Per dare concretezza alle decisioni che abbiamo indicato –e che, ne siamo consapevoli, richiedono «una conversione pastorale»-, per imprimere un dinamismo missionario, vogliamo delineare i due livelli specifici, ai quali ci pare si debba rivolgere l’attenzione nelle nostre comunità locali. Parleremo anzitutto di quella che potremmo chiamare «comunità eucaristica», cioè coloro che si riuniscono con assiduità nella eucaristia domenicale e, in particolare quanti collaborano regolarmente alla vita delle nostre parrocchie; passeremo quindi ad affrontare la vasta realtà di coloro che, pur essendo battezzati, hanno un rapporto con la comunità ecclesiale che si limita a qualche incontro più o meno sporadico, in occasioni particolari della vita, o rischiano di dimenticare il loro battesimo e vivono nell’indifferenza religiosa”8. * favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo: questa istanza è stata senza dubbio tenuta costantemente presente nell’impegno di rinnovamento liturgico-rituale e pastorale. A puro titolo esemplificativo, basterà citare il capitolo mariano, uno dei più rinnovati dopo il Vaticano II. Ebbene, nella magna charta che l’ha ispirato, l’Esortazione apostolica Marialis cultus, si ammette esplicitamente: “Per il suo carattere ecclesiale, nel culto alla Vergine si rispecchiano le preoccupazioni della Chiesa stessa, tra cui, ai nostri giorni, spicca l’ansia per la ricomposizione dell’unità dei cristiani. La pietà verso la Madre del Signore diviene così sensibile alle trepidazioni e agli scopi del Movimento ecumenico, cioè acquista essa stessa una impronta ecumenica. La pietà verso la Madre di Cristo e dei cristiani è per i cattolici occasione naturale e frequente di implorazione, affinché ella interceda presso il Figlio per l’unione di tutti i battezzati in un

7 EPISCOPATO ITALIANO, Documento pastorale Evangelizzazione e sacramenti (12.7.1973), nn. 22-23, in: ECEI,

vol. 2, 409-410. 8 CVMC, n. 46, in: ECEI, vol. 7, 209.

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solo popolo di Dio. E ancora, perché è volontà della Chiesa cattolica che in tale culto, senza che ne sia attenuato il carattere singolare, sia evitata con ogni cura qualunque esagerazione che possa indurre in errore gli altri fratelli cristiani circa la vera dottrina della Chiesa Cattolica, e sia bandita ogni manifestazione cultuale contraria alla retta prassi cattolica”9. Anche recentemente si è ribadita la medesima preoccupazione da parte dei vescovi italiani, presentando l’ecumenismo come sfida fondamentale, perché costituisce una verifica della nostra fedeltà al Vangelo e una grande scuola di comunione, senza trascurare la valenza “pastorale”: “Proprio di fronte ai cristiani di altre Chiese e comunità ecclesiali –essi affermano-, palesemente «diversi» da me, sono chiamato a riconoscere quell’unità che, a dispetto delle differenze, ci lega e ci chiama a una comunione sempre più piena. Vivere l’impegno ecumenico può essere di grande aiuto anche per riscoprire le vie che portano alla riconciliazione in seno alle nostre stesse comunità parrocchiali e viceversa. Non si dà unità senza il rispetto delle differenze, senza portare i pesi gli uni degli altri, ma soprattutto senza cercare insieme la verità che è l’unica vera fonte di unità”10 * rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa: è l’istanza missionaria e di evangelizzazione, espressa nella terminologia degli anni sessanta. Tanto dal versante catechistico quanto da quello strettamente evangelizzante non sono mancate provocazioni al riguardo circa il ruolo della liturgia. Ci si limita a segnalare gli elementi essenziali. Si va dalla solida affermazione del prezioso documento CEI degli anni settanta che proclama la liturgia come “una preziosa catechesi in atto”11, alla dichiarazione, altrettanto solare e cronologicamente assai più vicina, che “se un anello fondamentale per la comunicazione del Vangelo è la comunità fedele al «giorno del Signore», la celebrazione eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed è diventato il Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far crescere i fedeli, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al corpo di Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con un animo apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza che abita i credenti. In tal modo la celebrazione eucaristica risulterà luogo veramente significativo dell’educazione missionaria della comunità cristiana”12. Non è stata, questa, che una carrellata documentativa, assai rapida, per esplicitare come la cosiddetta “riforma liturgica”, nelle intenzioni del documento “fondante”, quello conciliare di SC, non mirasse affatto a un puro cambiamento rituale, così che, come oggi si scrive, la reintroduzione dell’utilizzo del Messale del 1962 convalida “un uso duplice dell’unico e medesimo Rito”13. Già a ridosso della SC, infatti, si precisava chiaramente: “Prima di tutto è necessario che ognuno si convinca che scopo della costituzione del

9 PAOLO VI, Esortazione apostolica Marialis cultus (2.2.1974), n. 32, in: EV, vol. 5, 61-62.

10 CVMC, n. 56, in: ECEI, vol. 7, 234.

11 CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il rinnovamento della catechesi (=Catechismo per la vita cristiana/1), n.

114, Fondazione di Religione Santi Francesco di Assisi e Caterina da Siena, Roma 1988, p. 88. Come è noto, questo documento pubblicato il 2 febbraio 1970, è stato riconsegnato integralmente alla Chiesa italiana il 3 aprile 1988. 12

CVMC, n. 48, in: ECEI, vol. 7, 214. 13

Lettera papale, p. 24.

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Concilio Vaticano II sulla sacra liturgia non è tanto di cambiare i riti e i testi liturgici, quanto piuttosto di suscitare quella formazione dei fedeli e promuovere quella azione pastorale che abbia come suo culmine e sua sorgente la sacra liturgia. Infatti i cambiamenti che finora sono stati introdotti nella liturgia, o lo saranno in seguito, tendono a questo scopo”14. Convincimento che, a tutt’oggi, è rimasto soltanto sull’onda degli auspici, senza affondare nella realtà ecclesiale, almeno a livello magisteriale. 2. La riforma liturgica in rapporto alla specificità della pastorale Riandando ancora ai documenti iniziali della riforma liturgica, ci si imbatte nell’esplicita affermazione che lo sforzo (vis) dell’azione pastorale incentrata sulla liturgia, il quale costituisce lo scopo ultimo della sua riforma, “deve tendere a far vivere il mistero pasquale”15. Espressione alquanto sapida, che, se rispettata, non avrebbe mai trasformato la pastorale in un’operazione di pura «ingegneria ecclesiastica», come argutamente la definisce un recente documento dei vescovi italiani16. Questa, infatti, rischia di far passare sopra la vita della gente decisioni che non risolvono i problemi attuali né favoriscono lo spirito di comunione. Il “mistero pasquale”, invece, che tonifica l’azione pastorale, viene così focalizzato: “Il Figlio di Dio, incarnato e fattosi obbediente fino alla morte di croce, è talmente esaltato nella risurrezione e nella ascensione, da poter comunicare al mondo la sua vita divina, affinché gli uomini, morti al peccato e configurati a Cristo, «non vivano più per se stessi, ma per colui che morì e risuscitò per essi»”17. Al centro stanno, quindi, gli uomini, colti nel loro impegno di configurazione sempre più stretta a Cristo, così che, gradualmente, possano superare l’impostazione egoistica dell’esistenza, in quanto li fa agire solo in funzione di se stessi (cfr 2 Cor 5, 15), come si è appena affermato. La stessa SC ha riproposto la celebrazione come attuazione nell’oggi della Chiesa del mistero pasquale di Cristo. Infatti, “qualificando come Pasqua tutta l’opera redentrice di Cristo, non solo ha inteso porre questa come compimento reale di quello che la Pasqua profeticamente significava e preparava, ma le ha assegnato anche il posto unico e eminente che nella rivelazione del disegno di salvezza è riservato appunto alla Pasqua stessa, e cioè il posto centrale. Per questa ragione tutti i sacramenti, pur dando ognuno una particolare comunicazione al mistero totale di Cristo, sono in un modo o nell’altro legati all’Eucaristia, centro e culmine del mistero pasquale; per questo nell’anno liturgico ogni mistero del Signore, dalla nascita all’ascensione-pentecoste-parusia, viene celebrato e comunicato nel mistero pasquale della morte del Signore. La liturgia tende quindi essenzialmente a farci vivere la salvezza-mistero pasquale nei suoi singoli momenti e fa

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IOE, n. 5, in: EV, vol. 2, 215. 15

“Mysterium paschale vivendo exprimatur”: IOE, n. 6, in: EV, vol. 2, 216. 16

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (=VMP) (30.5.2004), n. 11, in: ECEI, vol. 7, 1484. 17

IOE, n. 6, in: EV, vol. 2, 216.

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questo attuando in noi lo stesso mistero pasquale preso nel suo momento culminante: morte e risurrezione di Cristo”18. Allora la vita cristiana, imperniata sulla fede e sui sacramenti, apre i credenti agli altri, avendo come centro e motivazione dell’agire la figura di Cristo e il suo Vangelo, che la liturgia costantemente attualizza, appunto nella dinamica pasquale. È questa la garanzia dell’attività pastorale, che non le permette assolutamente alcuna deviazione di percorso né alcuna mira efficientista. E, d’altra parte, se la celebrazione non influisce sulla vita, trasformandola, assolve al mero compito contemplativo, che si risente tante volte nella predicazione, soprattutto quando si afferma che nella liturgia “un pezzo di cielo scende sulla terra”, o similari. Si esplicita, in tal modo, la ragione per cui “si deve curare attentamente che tutte le opere pastorali siano in giusta connessione con la sacra liturgia e, nello stesso tempo, che la pastorale liturgica non si svolga in modo separato e indipendente, ma in intima unione con le altre attività pastorali”19. Tutto ciò ha portato la SC a coniare quella meravigliosa metafora di culmine e fonte, che, nel dettato originario20, così suona: “La sacra liturgia non esaurisce tutta l’azione della Chiesa. Infatti, prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, è necessario che siano chiamati alla fede e alla conversione. Nondimeno (attamen) la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù. Infatti le fatiche apostoliche sono ordinate a che tutti, diventati figli di Dio mediante la fede e il battesimo, si riuniscano in assemblea, lodino Dio nella Chiesa, partecipino al sacrificio e mangino la cena del Signore. A sua volta, la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei sacramenti pasquali, a vivere in perfetta unione, domanda che esprimano nella vita quanto hanno ricevuto con la fede” (SC 9-10). Una singolare ermeneutica, al riguardo, è fornita da un testo divenuto ormai classico proveniente da un autore protestante: “Non c’è troppo da meravigliarsi se si vedono le Chiese di tradizione «cattolica» dare al culto una portata determinante per la loro vita: esso è culmen et fons. Per le Chiese d’Oriente, la cosa è talmente pacifica che non c’è bisogno di una sottolineatura speciale. Ma ciò che è più interessante e forse più inatteso è leggere la stessa cosa in autorevoli autori protestanti contemporanei. Il culto, tutto sommato, è il criterio di attività della comunità ecclesiale. Un’attività comunitaria che non avesse più il culto per venire a raccogliervisi, confonderebbe impegno e agitazione, vigilanza e insonnia. Se invece il culto è veramente al centro della comunità cristiana, allora non è soltanto il criterio di vita di questa comunità, ma significa anche che, se esso si ferma, la Chiesa muore”21.

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S. MARSILI, La teologia della Liturgia nel Vaticano II, in: AA. VV., La Liturgia, momento nella storia della salvezza (=Anamnesis/1), Marietti, Torino 1974, pp. 98. 100. 19

IOE, n. 7, in: EV, vol. 2, 217. 20

Lo si riporta letteralmente, perché nell’utilizzo ecclesiale/magisteriale ha assunto e assume svariate elaborazioni semantiche: fonte e culmine, sorgente e apice… Una precisa puntualizzazione, al riguardo, è fornita da: O. VEZZOLI, Trasmettere la fede a partire dal mistero celebrato. La liturgia: culmen et fons della vita cristiana, in: G. CANOBBIO - F. DALLA VECCHIA – R. TONONI (a cura di), La trasmissione della fede (=Quaderni teologici del Seminario di Brescia/17), Morcelliana, Brescia 2007, pp. 297-331. 21

J.-J. VON ALLMEN, Celebrare la salvezza. Dottrina e prassi del culto cristiano, Elle Di Ci, Leumann 1986, p. 53. L’autore aggiunge un’immagine alquanto suggestiva, citata spesso anche nella predicazione: “La vita della Chiesa batte nel culto come nel cuore, e, come il cuore, con un movimento di diastole e di sistole. La Chiesa non ha da scegliere tra l’uno e l’altro: deve impegnarsi nell’uno e nell’altro” (pp. 53-54).

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Indubbiamente ciò che ha tenuto viva la Chiesa e la sua azione pastorale in questi anni è stata la prassi liturgica. Come si evidenzierà in altri studi, tanto il cammino iniziatico quanto quello catechistico hanno trovato impulso sempre dalla celebrazione, sia perché questa non rimanesse isolata nella sua ieratica “stabilità”, sia perché i vari cammini non fossero fine a se stessi, nel senso che risultassero una specie di “lezione teologica”, a scopo didattico-formativo. Pur non riconoscendo simile esigenza nella Chiesa, che in questi anni ha portato anche alla compilazione di un nuovo catechismo per gli adulti, tuttavia è chiaro che, a livello pastorale, ogni comunità ha bisogno di trovare apertura e solidità nell’esperienza liturgica, dove ciò che si è imparato lo si riconosce attuato in Cristo e nella Chiesa, mediante l’hodie celebrativo. È proprio questa preoccupazione a purificare i credenti e a mantenerli costantemente in quella dinamica, che la metafora di culmen et fons visibilizza, come filtro e luogo ermeneutico dell’agire ecclesiale. Sicché “la liturgia risulterà «culmen et fons» solo dopo averla proposta nella sua vera natura, cioè alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa, dopo averne compresa la funzione che occupa nella vita della Chiesa (SC 2). Se presuppone come essenziale costitutivo l’aspetto cristologico –tanto da parlare della presenza operante di Cristo, dell’esercizio del suo sacerdozio (SC 7)- quello messo in maggiore evidenza è l’aspetto ecclesiale: nella liturgia la Chiesa si manifesta nella sua propria natura, in modo privilegiato (SC 41) e da essa viene edificata in corpo di Cristo (SC 2). «Actio Christi», quindi, e «actio Ecclesiae» in inscindibile legame. Azione simbolica ed efficace che attualizza l’economia salvifica e predispone, associandola fin d’ora, alla liturgia celeste” (SC 8)”22. 3. La pastorale liturgica alimentata dalla celebrazione e finalizzata all’osmosi ecclesiale Un altro grande obiettivo che la riforma liturgica si proponeva e ha cercato di perseguire in questi anni è senza dubbio quello espresso dal documento CEI degli anni novanta. Così lo sintetizzava: “Favorire un’osmosi sempre più profonda fra queste tre essenziali dimensioni del mistero (catechesi-liturgia-carità) e della missione della chiesa. Se la comunità ecclesiale è stata realmente raggiunta e convertita dalla parola del vangelo, se il mistero della carità è celebrato con gioia e armonia nella liturgia, l’annuncio e la celebrazione del vangelo della carità non può non continuare nelle tante opere della carità testimoniata con la vita e con il servizio. Ogni pratico distacco o incoerenza fra parola, sacramento e testimonianza impoverisce e rischia di deturpare il volto dell’amore di Cristo”23. Ne scaturisce un invito esplicito a perseguire una pastorale organica e unitaria: “Ciò è possibile –si aggiungeva- se tutto il popolo di Dio e in esso i vari soggetti ecclesiali si

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R. FALSINI, La liturgia come «culmen et fons»: genesi e sviluppo di un tema conciliare, in: AA. VV., Liturgia e spiritualità (=Bibliotheca «Ephemerides Liturgicae». «Subsidia», 64), C.L.V. – Edizioni Liturgiche, Roma 1992, p. 43. 23

CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Documento pastorale Evangelizzazione e testimonianza della carità (=ETC) (8.12.1990), n. 28, in: ECEI, vol. 4, 2747.

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impegnano a crescere in uno spirito di comunione e operare secondo i comuni orientamenti, a servizio della chiesa e della sua missione”24. In altri termini, si è cominciato a prospettare un agire ecclesiale che fosse frutto di unitarietà, non solo a livello di attività (le tre dimensioni pastorali, appunto), ma anche di persone. La Chiesa, infatti, che si presenta come un grande “agglomerato” di ministeri, associazioni, movimenti… può arrischiare fortemente di perdere di vista l’intento di fondo della sua carismaticità, che già l’apostolo Paolo identificava nell’«utilità comune» (cfr 1 Cor 12, 7). Tale connotazione si rassoda se si pone l’uomo al centro, intendendo, con simile affermazione, che non lo si può ignorare. Non solo nel generico senso del “bene delle anime”, riaffiorato negli ultimi documenti sulla liturgia25, ma anche, e soprattutto, in quella osmosi, cioè comunione fondata sulla relazione, che ogni celebrazione intende favorire e che va sotto il nome di “partecipazione”, se tale termine non fosse interpretato “con particolare enfasi”26. Non va trascurato, infatti, che “l’aspetto decisivo da tener presente per la dimensione intersoggettiva della comunità celebrante è rappresentato dal fatto che la liturgia, come l’intera storia della salvezza, non si fonda sull’identità di un evento o di un atto, ma sull’incontro che si realizza in quell’evento e in quell’atto. L’incontro, a sua volta, non sospende la differenza che esiste tra coloro che si incontrano, non sospende la differenza tra Dio e l’uomo; Dio non salva l’uomo annegandolo nella propria divinità, ma restituendolo alla sua autentica libertà che pone l’uomo stesso come l’altro, il trascendente di Dio; anzi, Dio non salva affatto gli uni rispetto agli altri. Questo confronto che esalta le reciproche differenze è la comunione: la comunione su cui di fondano il rapporto trinitario, il rapporto teandrico, il rapporto interpersonale. La comunità cristiana, in quanto è tale comunione, fa la liturgia. Questo è il fondamento della dimensione intersoggettiva della comunità celebrante. Nella concreta assemblea liturgica, tale dimensione intersoggettiva assume le caratteristiche sia della partecipazione sia della ministerialità”27. Questi due termini sono davvero apparsi come il “tormentone” di questi anni postconciliari e la loro interpretazione non solo spesso non ha trovato adeguata unanimità, ma anzi ha generato contrapposizioni, trasformate spesso in lacerazioni del tessuto ecclesiale. La supposta venerazione del mistero, infatti, ha sovente oscurato la logica dell’incontro, alimentando la spiritualità quasi esclusivamente ripiegata sul proprio io. Conseguentemente la pastorale ne ha fortemente risentito: ecco perché i cosiddetti “organi di partecipazione” nella Chiesa attraversano forti crisi di identità e si rivelano, in

24

ETC, n. 29, in: ECEI, vol. 4, 2748. 25

Cfr SP, art. 9, § 1-2, pp. 16-17. 26

Così recita un recente documento pontificio: BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis (22.2.2007) (=Magistero di Benedetto XVI/19), n. 52, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, p. 83. 27

G. BONACCORSO, Celebrare la salvezza. Lineamenti di liturgia (=«Caro salutis cardo». Sussidi, 6), Messaggero – Abbazia di Santa Giustina, Padova 2003, p. 108.

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alcune circostanze almeno, come inutili perdite di tempo. Tali sono ritenute sia dai ministri ordinati che dai laici28. * Invece la partecipazione, con la caratterizzazione degli aggettivi che l’accompagnano (consapevole, attiva, fruttuosa, e similari) deve essere intesa e vissuta come una conformazione della mente con le parole e una cooperazione con la grazia divina, per non riceverla invano, secondo la logica di SC 11, a livello rituale. Tutto ciò per sentirsi ed essere poi, nell’azione pastorale, corresponsabili a pieno titolo, chiamati a divenire partecipi della vita della società, senza esenzioni, portando in essa una testimonianza ispirata al Vangelo e costruendo con gli altri uomini un mondo più abitabile. Allora “la valorizzazione della liturgia non mira a sottrarci al rapporto vitale con il mondo di ogni giorno, nel quale sono presenti opportunità per la nostra crescita cristiana, insieme a sfide che rendono agevole la nostra fedeltà ai valori evangelici. Per questo sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a maturare una fede adulta, «pensata», capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo”29. Un obiettivo sempre da raggiungere e che dà solida consistenza alle varie iniziative pastorali, perché non siano semplicemente programmazioni estemporanee di varie iniziative, ma primariamente e ostinatamente ricerca della comunione ecclesiale, a tutti i livelli. * A questo riguardo si innesta l’altra caratteristica irrinunciabile di ogni assemblea, che è la ministerialità. Questa ha ricevuto, nel dopo Concilio, una sua totale reinterpretazione, nel senso che non è più ristretta al solo ambito liturgico, ma spazia su quello pastorale, secondo le chiare indicazioni dell’episcopato italiano, relative ai due unici ministeri esistenti, quello del Lettorato e dell’Accolitato: “Ogni ministero è per l’edificazione del corpo del Signore e perciò ha riferimento essenziale alla Parola e all’Eucaristia fulcro di tutta la vita ecclesiale ed espressione suprema della carità di Cristo, che si prolunga nel «sacramento dei fratelli», specialmente nei piccoli, nei poveri e negli infermi, nei quali Cristo è accolto e servito. Ne consegue che l’opera del ministro non si rinchiude entro l’ambito puramente rituale, ma si pone dinamicamente al servizio di una comunità che evangelizza e si curva come il buon samaritano su tutte le ferite e le sofferenze umane”30. Anche i ministri ordinati, in particolare il diacono, mantengono la medesima prospettiva31.

28

“Gli organismi di partecipazione ecclesiale e anzitutto i consigli pastorali –diocesani e parrocchiali- non stanno vivendo dappertutto una stagione felice. La consapevolezza del valore della corresponsabilità ci impone di ravvivarli, elaborando anche modalità originali di uno stile ecclesiale di maturazione del consenso e di assunzione di responsabilità. Di simili luoghi abbiamo particolarmente bisogno per consentire a ciascuno di vivere quella responsabilità ecclesiale che attiene alla propria vocazione e per affrontare le questioni che riguardano la vita della Chiesa con uno sguardo aperto ai problemi del territorio e dell’intera società” (CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande «sì» di Dio all’uomo (=RSV) (29.6.2007), n. 24, Paoline Editoriale Libri, Milano 2007, p. 48. 29

CVMC, n. 50, in: ECEI, vol. 217. 30

COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse all’«Istituzione di ministeri», n. 3, in: ECEI, vol. 3, 495. 31

“Con il ripristino del diaconato permanente la Chiesa ha anzitutto la consapevolezza di accogliere un dono dello Spirito e di dare un’immagine più completa di sé e rispondente al disegno di Cristo e anche più adeguata a una società che ha bisogno di fermentazione evangelica e caritativa nei piccoli gruppi, nei

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In ogni caso, la ministerialità si va caratterizzando sempre più come indispensabile all’agire pastorale, e non coreografica. Tant’è che, sempre nel recente dettato CEI, si auspica apertamente: “C’è bisogno di laici che non solo attendano generosamente ai ministeri tradizionali, ma che sappiano anche assumerne di nuovi, dando vita a forme inedite di educazione alla fede e di pastorale, sempre nella logica della comunione ecclesiale. Riconoscendo l’importanza e la preziosità di questa presenza, si provvederà, da parte delle diocesi e delle parrocchie, anche alla destinazione coraggiosa e illuminata di risorse per la formazione dei laici”32. Allo stato attuale della situazione ecclesiale italiana, riletta nella sua “verità”, si è ancora distanti da simili prospettive. Gli stessi catechisti o ministri straordinari della comunione assolvono, per lo più, un ruolo essenzialmente funzionale, per quel compito da sbrigare che occorre. Anche gli educatori per il cosiddetto “cammino/itinerario” catecumenale, che stanno diffondendosi in varie diocesi, non si pongono in quest’ottica, in quanto manca loro quello “spirito” ministeriale, che scaturisce dall’esperienza celebrativa. Questa, infatti, contemplando ora i compiti liturgici come veri ministeri, esige propriamente che quanti li assolvono “siano permeati con cura, ognuno secondo la propria condizione, dallo spirito liturgico, e siano formati a svolgere la propria parte secondo le norme stabilite e con ordine” (SC 29). Allora nessuno ha una “funzione” da svolgere e basta. Si tratta di acquisire uno “spirito di servizio”, che rinsalda tutti nella comunione e non permette assolutamente di rendere l’esercizio del compito una specie di privilegio acquisito: “I fedeli nella celebrazione della Messa formano la gente santa, il popolo che Dio si è acquistato. Procurino quindi di manifestare tutto ciò con un profondo senso religioso e con la carità verso i fratelli che partecipano alla stessa celebrazione. Evitino perciò ogni forma di individualismo e di divisione, tenendo presente che hanno un unico Padre nei cieli, e perciò tutti sono tra loro fratelli. Formino invece un solo corpo, sia nell’ascoltare la parola di Dio, sia nel prendere parte alle preghiere e al canto, sia specialmente nella comune offerta del sacrificio e nella comune partecipazione alla mensa del Signore. Questa unità appare molto bene dai gesti e dagli atteggiamenti del corpo, che i fedeli compiono tutti insieme. I fedeli non rifiutino di servire con gioia il popolo di Dio, ogni volta che sono pregati di prestare qualche ministero o compito particolare nella celebrazione”33. Dettato chiarissimo che, partendo dalla liturgia e ritornandovi, rende la Chiesa in Italia come un grande cantiere aperto, in cui l’apporto ampio dei ministeri risulta fondamentale per rafforzare il senso di responsabilità e la volontà di operare per lo sviluppo di tutti gli uomini e di tutto l’uomo per le generazioni future: “In questo cantiere aperto il contributo dei credenti, sul piano etico e spirituale, culturale economico e politico è essenziale per concorrere a orientare il cammino dell’umanità. Sappiamo bene che non ci sono soluzioni a buon mercato o scorciatoie che sollevino dalla fatica e cancellino lo smarrimento. Di ciò è segno anche il crescente numero dei cristiani martirizzati. Questo è il nostro programma: vivere fino in fondo la Pasqua di Gesù. Da essa deriva una forza profetica

quartieri e nei caseggiati” (COMMISSIONE EPISCOPALE PER LA LITURGIA, Premesse all’«Ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi, n. IV, 3, in: ECEI, vol. 2, 3634). 32

CVMC, n. 54, in: ECEI, vol. 7, 230. 33

Ordinamento Generale del Messale Romano, Conferenza Episcopale Italiana, Librerai Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004, pp. 40-41.

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dalla quale noi per primi dobbiamo continuamente lasciarci plasmare. Il nostro unico interesse è infatti metterci a servizio dell’uomo perché l’amore di Dio possa manifestarsi in tutto il suo splendore”34. Conclusione La panoramica, è evidente, potrebbe ancora estendersi, ma quella tratteggiata sembra più che sufficiente per focalizzare lo status quaestionis al riguardo. Lo si potrebbe riassumere secondo due direttrici, che l’attività attuale della Chiesa, centrata sulla liturgia, cerca di perseguire: * anzitutto quella che viene definita pastorale integrata, cioè il tentativo –perché tuttora tale permane!- di integrazione tra i differenti soggetti ecclesiali. Distolta da qualsiasi parvenza di “ingegneria ecclesiastica” e incanalata nel più stretto rapporto tra le varie componenti pastorali, essa reclama un’espressione e una verifica concreta della comunione, che non si riduce mai a un’azione indifferenziata e accentrata, “ma, in un contesto di effettiva unità nella Chiesa particolare, riconosce il valore delle singole soggettività e fa leva sulla loro maturità ecclesiale. Una pastorale «integrata» mette in campo tutte le energie di cui il popolo di Dio dispone, valorizzandole nella loro specificità e al tempo stesso facendole confluire entro progetti comuni, definiti e realizzati insieme. Essa pone in rete le molteplici risorse di cui dispone: umane, spirituali, culturali, pastorali”35. È chiaro che, per entrare più efficacemente in comunicazione con un contesto variegato, bisognoso di approcci diversificati e plurali, com’è oggi, è assolutamente necessaria quella spiritualità di comunione, garantita dalla celebrazione liturgica, soprattutto nella sua attuazione rituale, scaturita dalla riforma del Vaticano II. Se ne ribadisce pertanto, in questo contesto, l’assoluta necessità, per rispondere a simile istanza pastorale, nella sua globalità di visione e di interpretazione. Il cammino conciliare esige di essere proseguito nella docilità all’azione dello Spirito, che, solo, “guida la Chiesa verso tutta intera la verità, la unifica nella comunione e nel servizio, la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, con i quali la dirige, la abbellisce dei suoi frutti. Con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione con il suo Sposo” (LG 4). * Non va disgiunta, proprio per la natura specifica della liturgia, la direttrice d’impegno che pone al centro la persona, nella varietà delle sue relazioni. Queste non precludono la strada a qualsiasi tentazione di estraneità, che minaccia gli uomini nella loro reciproca alterità e nasconde l’illusione di valorizzare il proprio io evitando il confronto con gli altri io, ma il proprio io è tale solo in quanto non è un tu, solo in quanto non è l’io dell’altro. L’esperienza liturgica, nella modalità rituale odierna, mira proprio a questo confronto, che, rispettando il mistero di Cristo e i fratelli, li fonde nella pienezza della comunione. Ne consegue che, a livello pastorale, “le relazioni tra le diverse vocazioni devono rigenerarsi nella capacità di stimarsi a vicenda, nell’impegno, da parte dei pastori, ad

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RSV, n. 19, pp. 41-42. 35

RSV, n. 25, pp. 49-50.

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ascoltare i laici, valorizzandone le competenze e rispettandone le opinioni. D’altro lato, i laici devono accogliere con animo filiale l’insegnamento dei pastori come un segno della sollecitudine con cui la Chiesa si fa vicina e orienta il loro cammino”36. Creare e sostenere costantemente questo stile di comunione è peculiare della liturgia, che costituisce, pertanto, un autentico tirocinio, perché lo spirito di unità raggiunga i luoghi della vita ordinaria. Il dono della comunione che viene da Dio deve animare, soprattutto attraverso i laici cristiani, tutti i contesti dell’esistenza e contribuire a rigenerarne il tessuto umano. È quanto già prospettava s. Agostino, imprimendo alla vita ecclesiale il principio ispiratore ed ermeneutico nel rapporto tra la liturgia e qualsiasi questione pastorale, allorché, con intuito davvero profetico, affermava: “Quel pane che voi vedete sull’altare, santificato con la parola di Dio, è il corpo di Cristo. Il calice, o meglio quel che il calice contiene, santificato con le parole di Dio, è sangue di Cristo. Con questi segni Cristo Signore ha voluto affidarci il suo corpo e il suo sangue, che ha sparso per noi per la remissione dei peccati. Se voi li avete ricevuti bene voi stessi siete quel che avete ricevuto. E in questo pane vi viene raccomandato come voi dobbiate amare l’unità. Grandi misteri dunque, veramente grandi! Non ti sembri di poco valore per il fatto che lo vedi. Quel che tu vedi, passa; ma l’invisibile che viene espresso nel segno, quello non passa, rimane. Vedete, esso si riceve, si mangia, si consuma. Ma si consuma forse il corpo di Cristo? Si consuma la Chiesa di Cristo? Si consumano le membra di Cristo? Niente affatto. Qui esse vengono purificate, lassù coronate. Perciò quello che viene espresso nel segno rimarrà, anche se quel che lo esprime sembra che passi. Perciò ricevetelo, ma pensando a quel che siete, conservando l’unità nel cuore, tenendo il cuore sempre fisso in alto”37.

Gianni Cavagnoli

36

RSV, n. 23, p. 47. 37

S. AGOSTINO, Discorso 227, 1, in: ID., Discorsi IV/1 (=NBA vol. XXXII/1), Città Nuova, Roma 1984, pp. 387. 391.

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FERRUCCIO LUCIO BONOMO

Varchi per un rinnovamento della parrocchia Unità pastorali alla prova

Con questo articolo mons. Ferruccio Lucio Bonomo, Vicario episco-pale per il coordinamento della pastorale della Diocesi di Treviso, ritorna sul tema delle unità pastorali a partire da una rilettura dell’e-sperienza del proprio territorio. La rifl essione affronta le evidenti fatiche della ristrutturazione organizzativa della pastorale, ma si con-centra soprattutto sui ‘varchi’ di un possibile rinnovamento, sotto-lineando le opportunità che una riconfi gurazione delle parrocchie offre a un orientamento più decisamente missionario della pastorale, che sappia porre al cento l’evangelizzazione e quindi, quale inevita-bile corollario, sia portata a valorizzare il contributo insostituibile dei laici. L’autore non si nasconde che la domanda sul futuro delle Unità/Collaborazioni pastorali rimane aperta anche per coloro che promuovono queste riforme, rappresentando la risposta che per il momento presente permette di garantire a ogni parrocchia un di-gnitoso servizio pastorale aperto all’evangelizzazione. «Il problema però rimane e, forse, è solo rinviato il “punto di rottura”, oltre il quale non è più possibile garantire questo tipo di pastorale e questa presenza ancora abbastanza “diffusa” del prete. […] Alla fi ne, quello che tutti auspichiamo, è che, grazie anche al progetto delle Unità/Collaborazioni, possa avvenire progressivamente quel cambio di mentalità necessario per una vera conversione pastorale e missio-naria delle nostre comunità ecclesiali e delle strutture (EG 27)».

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Le diocesi che da tempo hanno avviato o stanno avviando il progetto delle Unità o Collaborazioni o Comunità pastorali si ritrovano a dover ormai commisurare piani e progetti con questa nuova prospettiva la quale, per molti aspetti, sta diventando sempre più l’elemento unifi -cante e interpretativo del loro cammino, della riorganizzazione delle parrocchie, della missione e della vita dei preti. Ritengo che, dopo il rinnovamento promosso dal Concilio, quello delle Unità pastorali sia un altro e forse più impegnativo rinnovamento che sta avvenendo per le nostre chiese, perché non si tratta solo di aggiornare la pastorale per essere più contemporanei e prossimi all’uomo d’oggi e alla com-plessità della situazione, ma anche di modifi care i tradizionali rappor-ti prete-parrocchia-fedeli. Le rifl essioni che offro, e nelle quali userò indifferentemente le espressioni ‘Collaborazione pastorale’ e ‘Unità pastorale’, partono dall’esperienza che da alcuni anni sta vivendo la mia diocesi di Treviso con lo sguardo però allargato anche a quello che sta accadendo in altre realtà vicine1.

Una risposta ai segni dei tempi

L’esperienza delle Collaborazioni/Unità pastorali non può essere ri-dotta al puro ‘fare di necessità virtù’, a una strategia pastorale per ottimizzare le forze e far fronte all’emergenza, in particolare al calo del numero dei preti. Infatti, la scelta delle Unità/Collaborazioni è avvenuta nelle diocesi dopo lungo discernimento nel quale si è cer-cato di coinvolgere tutte le forze vive, convinti di rispondere ai segni dei tempi, ai nuovi appelli rivolti alla Chiesa, in particolare quello di pensare e attuare una nuova evangelizzazione nei nostri paesi di antica tradizione cristiana.

Da diversi anni i nostri vescovi nei loro documenti, e di recente papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, invo-cano una conversione missionaria delle parrocchie e una pastorale più di evangelizzazione2. Non tutto ci è chiaro, ma l’indicazione verso cui muoversi è inequivocabile: bisogna passare «da una pastorale di sem-plice conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (EG 15) o di evangelizzazione; una pastorale «in uscita» per non cadere in «una specie di introversione ecclesiale» (EG 27).

Come scrivono i vescovi nella Nota pastorale del 2004 Il volto mis-

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sionario delle parrocchie in un mondo che cambia, si rende necessaria una revisione pastorale che riguardi non solo le piccole parrocchie, ma anche quelle più grandi «tutt’altro che esenti dal rischio di ripie-gamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che è fi nito il tempo della parrocchia autosuffi ciente»3.

Per poter essere comunità in tensione verso una nuova evangeliz-zazione è necessario però rinnovarsi profondamente, perché non è possibile mettere vino nuovo in otri vecchi. Le Unità pastorali mira-no proprio a promuovere tale rinnovamento delle comunità cristiane, dando maggiore concretezza ed effi cacia all’opera missionaria e pasto-rale della Chiesa, avviando percorsi di primo e di secondo annuncio.

Si tratta di una chiamata dello Spirito a camminare verso una nuova comunione tra parrocchie, certamente esigente, ma che può e deve diventare autentica testimonianza evangelica. Come nel mistero di co-munione trinitaria nessuna persona è contrapposta all’altra, così deve sempre più avvenire tra parrocchie e soggetti ecclesiali; le parrocchie sono chiamate a vivere una fattiva collaborazione e vera comunione, nel dono reciproco di risorse, esperienze e persone. Il prete stesso dovrà necessariamente essere compreso non più come una ‘proprietà’ di questa o quella parrocchia, ma come colui che è chiamato a servire la comunione all’interno della Collaborazione.

È necessario ribadire queste cose per non correre il rischio di ri-durre tutto a una pura risposta al progressivo calo numerico del clero, anche se, occorre convenire, questa è una delle cause principali che hanno portato alla scelta delle Unità pastorali. Per molti aspetti ha funzionato un po’ da detonatore. Prova ne sia che 40-50 anni fa, in pieno rinnovamento conciliare, nessuno si poneva il problema delle Unità pastorali. Anzi, venivano un po’ ovunque istituite nuove par-rocchie al fi ne di servire meglio la crescente popolazione e trovare una sistemazione al numero ancora considerevole di preti. Piuttosto sono state avviate, con la formula dei preti fi dei donum, collaborazioni con altre chiese più bisognose, soprattutto in Africa e in America latina.

Si sa che le riforme, nella società e nella Chiesa, nascono sempre da una situazione di crisi e dall’incontro con nuove urgenze. È eviden-te che il calo numerico del clero, unitamente alla crisi generale della fede, ha provocato la ricerca di nuove strade e, quindi, ha aiutato a riscoprire valori che in altri tempi, pur percepiti idealmente, non han-no trovato traduzione pratica perché non se ne sentivano necessità e

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urgenza. Da questo punto di vista anche un elemento nuovo di crisi, come il calo delle vocazioni al sacerdozio, può essere letto come un segno dei tempi, una situazione in cui lo Spirito ci rivolge un appello a essere una Chiesa più condivisa e partecipata, aperta ai laici e al mon-do, più missionaria, più sobria ed essenziale.

Un cammino virtuoso, ma anche faticoso

Le esperienze in atto ci testimoniano che le Unità/Collaborazioni già avviate, pur non mancando i problemi, vivono una fase positiva e pro-positiva, assai diversa da quelle che ancora stentano a muoversi e dove le diffi coltà appaiono insormontabili. Nel suo insieme si è messo in moto un cammino virtuoso in quanto, almeno nei preti e negli opera-tori pastorali, sta cambiando la mentalità; si allentano certi pregiudizi e resistenze; viene apprezzato lo scambio e la nuova comunione che si instaura tra parrocchie, con un arricchimento anche in quelle più grandi; alcuni ambiti, come per esempio la pastorale giovanile, fami-liare, catechetica e della carità, in cui con maggior facilità si riesce tra parrocchie ad attivare la collaborazione, possono essere affrontati con minor dispendio di energie e producono buoni risultati; la tensione verso un progetto comune fa superare certe diffi coltà e stimola la ri-cerca di soluzioni ai problemi e di ciò che è essenziale.

Non si intende per questo negare fatiche e disagi che un tale pro-getto comporta, sia per i preti che per i laici. Spesso, infatti, si rende necessario modifi care tradizioni e stili di vita personali e pastorali con-solidati; mettere da parte certi desideri e aspirazioni, come: «quando sarò parroco fi nalmente sarò libero di fare a modo mio», «chiediamo un prete tutto per noi perché la nostra parrocchia è molto diversa dalle altre», ecc. La fatica aumenta maggiormente se si percepisce che il progetto dell’Unità pastorale non è sempre così chiaro e defi nito, in quanto ha bisogno di farsi e sperimentarsi sul campo.

Eppure si è anche coscienti che è impossibile muoversi verso qual-cosa di nuovo tenendo il freno a mano tirato o portandosi dietro tutte le masserizie. Un progetto così impegnativo non può essere affrontato guardando sempre indietro a quello che si lascia. Nel momento in cui si prende il largo è necessario volare un po’ alti, accettando il rischio che comporta il mettersi in gioco. Chi ha già avviato il percorso delle Unità pastorali sa bene che è ormai entrato nel guado e deve cerca- V

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re di approdare in tempi ragionevoli all’altra sponda. È evidente che ogni passaggio comporta paure, insicurezze, investimento di nuove energie, ma questa sembra essere l’unica strada che si può attualmente percorrere per poter avviare un rinnovamento in senso missionario delle parrocchie e della pastorale. Anche in questo caso le esperienze in atto ci segnalano alcune diffi coltà più ricorrenti.

Diffi coltà legate alla Unità/Collaborazione pastorale in sé

Ci sono alcune diffi coltà che più di altre incidono sull’avvio della nuo-va esperienza pastorale. Penso per esempio alla pretesa da parte di alcuni di aver tutto chiaro e che tutte le cose siano ben sistemate e defi nite, con indicazioni precise da parte del vescovo, dimentichi che l’Unità/Collaborazione pastorale è un punto di partenza e non di arri-vo, e che va arricchita sperimentandola. Oppure il ritenere che l’istitu-zione da parte del vescovo dell’Unità pastorale con gli eventuali orga-nismi di coordinamento previsti4 sia una pura formalità e che si possa lo stesso collaborare tra parrocchie, con una certa spontaneità e liber-tà, dimenticando, anche in questo caso, come un certo spontaneismo post conciliare abbia contribuito a mandare in crisi l’associazionismo laicale (si pensi all’AC), e come, a forza di procedere in autonomia rispetto ai cammini pastorali proposti dalla diocesi, la pastorale abbia fi nito con l’inclinarsi sempre più sul versante clericale e la parrocchia su quello della autoreferenzialità.

C’è anche il pericolo che qualcuno si costruisca una sua fi gura di Collaborazione o di Unità pastorale, senza essersi cimentato a suffi -cienza nel confronto con la diocesi e con le esperienze già avviate. Nessuno pretende di omologare e uniformare tutto o di tenere ogni cosa sotto controllo, ma in tempi di forte mobilità della gente e anche dei pastori, di sicuro gioverebbe a tutti, anche all’evangelizzazione, una sostanziale unità e una pastorale più condivisa e integrata.

Mi sembra, infi ne, che un freno provenga anche dalla paura che l’Unità pastorale comprometta, fi no a distruggerla, l’identità della par-rocchia, identità che però nessuno è in grado di declinare con chiarez-za, perché spesso viene identifi cata quasi esclusivamente con una serie di tradizioni religiose, iniziative locali come le sagre e manifestazioni varie, o con qualcosa di vago e generico.

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Diffi coltà che dipendono dai presbiteri

Molte diffi coltà dipendono evidentemente da noi preti anche se, oc-corre riconoscere, tolto qualche caso, non sono di per sé riconducibili a un problema morale, di disponibilità o di obbedienza o meno alla diocesi e al vescovo. I problemi, infatti, sono reali e comprensibili, e richiedono un certo tempo per essere decantati, accolti e risolti. A volte, per esempio, c’è una comprensibile diffi coltà nel farsi carico di un nuovo lavoro e nel collaborare tra preti, superando alcune incom-prensioni e pregiudizi. Non si può negare che alcune resistenze sono dovute al temperamento personale, a una certa pigrizia o diffi coltà nel mettersi in gioco, al desiderio di star tranquilli gli ultimi anni prima della pensione e, soprattutto, di non crearsi problemi scontentando la gente, negandole tutti quei servizi a cui fi no a poco tempo prima era abituata e affezionata e che essa identifi cava, essenziali o meno che fossero, con i doveri di un parroco. È indubbio che altre volte pesano comprensibili diffi coltà fi siche e psicologiche, il rendersi conto che le energie diminuiscono e, con il passare degli anni, la fatica aumenta. Qualcuno perciò rimane tranquillo sperando che, vista l’età e le diffi -coltà, il problema della Unità pastorale lo affronti chi verrà dopo e che il ‘Centro’ dimentichi di farsi vivo a sollecitare il nuovo impegno. Da notare che tali problemi vengono rilevati non solo tra i preti più anzia-ni che ormai hanno, per così dire, iniziato a fare il conto alla rovescia, ma anche in quelli più giovani perché nel nuovo progetto si sentono un po’ ingabbiati, non potendo più lavorare in autonomia, sganciati da una pastorale d’insieme.

Non mancano nemmeno diffi coltà che provengono da imposta-zioni pastorali troppo ‘originali’, legate alla persona di questo o quel prete un po’ carismatico o effervescente, e che mal si adattano a una pastorale d’insieme con scelte condivise. È vero che le parrocchie, e tanto meno i preti, non possono pensarsi come fotocopie. Tuttavia, una maggior accoglienza di proposte e itinerari offerti dagli Uffi ci diocesani e la condivisione di un progetto comune portano di sicuro benefi cio a tutti e diventano garanzia di sostanziale continuità allor-quando ci sarà il cambio del parroco o del suo vicario. Certe forme ‘pirotecniche’ di pastorale, con il cambio del parroco ‘creativo’ facil-mente si spengono o si sgonfi ano, lasciando a volte molti cocci per terra. V

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Ciò che crea però maggiori disagi e insicurezza nei preti è la co-scienza o la percezione che stia progressivamente mutando la fi gura e l’esercizio del ministero, con la conseguente fatica per le chiese locali di intravedere i contorni di una nuova identità e, come conseguen-za, di dare orientamenti e fare scelte adeguate. Questo perché, come preti, ancora ci pensiamo nel modo tradizionale, quello cioè di par-roco-parrocchia e dentro una pastorale prevalentemente di tipo sa-cramentale. Questo modo, dobbiamo riconoscerlo e ringraziare Dio, ha fi nora conferito una certa sicurezza e stabilità al ministero e alla nostra identità. Così che, come pastori, pur rendendoci conto che è necessario avviare qualcosa di nuovo e imboccare sentieri inesplorati, facciamo tuttavia fatica a lasciare o a ridimensionare quanto fatto fi -nora perché è quello che, nonostante la pesantezza, ci dà ancora una certa sicurezza e un po’ di gratifi cazione da parte della gente.

I varchi di un possibile rinnovamento

Sappiamo bene quante siano le urgenze e i fronti aperti che la pasto-rale si trova a dover affrontare. L’esperienza ci sta insegnando che le Collaborazioni/Unità, se vogliono avviare un profondo rinnovamento e una vera conversione della pastorale, non possono evitare la fatica di individuare e affrontare alcuni nodi nevralgici o di passare attra-verso alcuni varchi. Diversamente si ridurranno a gestire in modo più razionale e coordinato l’esistente, ma non promuoveranno un cambio di mentalità e di indirizzo della pastorale. Di tali varchi mi limito a segnalarne solo quattro.

Priorità all’evangelizzazione

Non sempre è facile capire che cosa signifi chi concretamente nei no-stri contesti dare priorità all’evangelizzazione. Non vorrei che sull’on-da di una nuova e salutare spinta missionaria cadessimo negli slogan a effetto, concludendo sbrigativamente che la nostra pastorale è tradi-zionale, di pura conservazione, per niente sensibile verso chi è lontano dalla Chiesa o verso quei molti battezzati che per diversi motivi hanno abbandonato la fede o sono entrati a far parte del vasto mondo dell’in-differenza religiosa. Una lettura così riduttiva, se da un lato potrebbe

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stimolare la ricerca di nuove vie per annunciare il vangelo, dall’altro potrebbe far ripiegare, soprattutto i preti, in una inconsolabile fru-strazione pastorale.

Occorre con onestà riconoscere che nelle nostre parrocchie ci si industria in ogni modo per incontrare il maggior numero di perso-ne. Basti pensare alle iniziative, sempre più mirate, rivolte ai giovani genitori che ancora chiedono i sacramenti per i loro fi gli e volentieri li ‘portano’ a catechismo o in oratorio. Oppure ai nuovi tentativi per avvicinare le coppie in diffi coltà e alle energie profuse per incontrare e annunciare il vangelo a tanti giovani che oggi sono sempre meno attratti dalla fede. Bisogna convenire che nelle parrocchie ci sono di-versi cantieri di annuncio aperti e che esse non sono affatto chiuse e insensibili all’evangelizzazione. Credo che un pastore, di fronte alle sacrosante sollecitazioni del magistero, più di qualche volta si sarà chiesto che cosa avrebbe dovuto fare di più o di diverso rispetto a tutto quello che fi nora ha già fatto o cerca di fare.

Conversione missionaria. Premesso ciò, non possiamo tuttavia ri-manere indifferenti ai tanti appelli che ci vengono rivolti per una con-versione missionaria della pastorale, adducendo il motivo che nulla può cambiare e, dunque, è inutile ogni sforzo (EG 275).

Dal 1975, con l’esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii Nuntiandi5, sino a quella di papa Francesco Evangelii Gaudium, la coscienza della Chiesa sulla necessità di una nuova evangelizzazione si è fatta sempre più chiara e i richiami alle comunità cristiane più insistenti.

Anche i vescovi italiani nel decennio precedente hanno ripreso più volte questo problema. Scrivono per esempio nella Nota pastorale del 2004 Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia6:

Ci viene chiesto di disporci all’evangelizzazione, di non restare inerti nel guscio di una comunità ripiegata su se stessa e di alzare lo sguardo verso il largo, sul mare vasto del mondo, di gettare le reti affi nché ogni uomo incontri la persona di Gesù, che tutto rinnova […]. Una pastorale tesa unicamente alla conservazione della fede e alla cura della comunità cristiana non basta più. È necessaria una nuova pastorale missionaria, che annunci nuovamente il vangelo, ne sostenga la trasmissione di generazione in generazione, vada incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo testimoniando che anche oggi è possibile, bello, buono e giusto vivere l’esistenza cristiana V

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conformemente al vangelo e, nel nome del vangelo, contribuire a rendere nuova l’intera umanità (n. 1).

Parole di grande attualità che papa Francesco, quasi dieci anni dopo, ripropone in Evangelii Gaudium:

Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una semplice amministrazione (n. 25).Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di ‘uscita’ e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia (n. 27).

Di sicuro, un nuovo impegno della pastorale sul versante missiona-rio e del primo annuncio determinerà con il tempo un nuovo volto di Chiesa e inciderà inevitabilmente sulla sua attuale struttura e sullo stesso esercizio dell’autorità.

Comprendiamo bene perciò come non sia irrilevante il tipo di pro-getto che sottostà alle Unità/Collaborazioni pastorali. Non è, infat-ti, indifferente se esse si fanno carico dei nuovi problemi posti alle nostre comunità dall’evangelizzazione oppure che adoperino per la pura conservazione e il coordinamento dell’esistente o di quanto si è sempre fatto.

Purtroppo c’è sempre il rischio che, in questi tempi in cui è diffi cile individuare e sperimentare percorsi di primo annuncio, tale pastorale si appesantisca proponendo e riproponendo, magari con modalità e rivestimenti nuovi e accattivanti e perdendo a volte il senso della mi-sura, le cose, le tradizioni e le iniziative di sempre. In fondo la gente, o una certa fascia di persone, risponde volentieri e poi, come si dice, va ‘sul sicuro’.

Fatto sta che in un tempo in cui parliamo molto di evangelizzazio-

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ne e di primo annuncio e in cui si sente la necessità di semplifi care la pastorale tradizionale anche con dei tagli ‘onerosi’ per far spazio a qualcosa di ‘nuovo’, questa invece si carica sempre più di pratiche devozionali, anniversari, giubilei, feste, convegni di ogni tipo e per ogni occasione, pellegrinaggi e molto altro ancora, i quali, se portano un certo benefi cio spirituale e culturale a chi vi partecipa, non giovano sempre e altrettanto ai pastori, che si trovano spesso con qualcosa di tradizionalmente ‘rinnovato’ a cui far fronte, da promuovere e soste-nere, pena il sentirsi in colpa o mal giudicati. La semplifi cazione della pastorale tradizionale dovrebbe partire anzitutto dalla preoccupazio-ne di trovare per ogni cosa la giusta misura, altrimenti non ci saranno mai spazi ed energie per nuovi progetti. Purtroppo, anche qui entria-mo nelle valutazioni soggettive, per cui il ‘troppo’ per uno può essere ritenuto ancora ‘troppo poco’ per un altro.

Una riforma ‘dal basso’? Per questo, quando si vuole avviare il pro-getto delle Unità pastorali, occorre aver chiari all’orizzonte, anche se non sono immediatamente realizzabili, alcuni obiettivi specifi cata-mente ‘missionari’, in modo da trovare la giusta misura per tutte le altre attività esistenti.

Con ogni probabilità, quello che si sta avviando in Italia con le Unità/Collaborazioni pastorali porterà lentamente a una riforma della Chiesa a partire ‘dal basso’, perché la prospettiva missionaria o della evangelizzazione per potersi attuare ha bisogno, come scrive Severino Dianich, di alcune scelte ineludibili che non possono non incidere nel-la vita ecclesiale. Per esempio, l’assunzione a ogni livello del metodo della sinodalità; una presenza e responsabilità più stringente dei laici in ordine alla missione e alla mediazione con il mondo; una semplifi ca-zione della pastorale che punti sulle cose essenziali per la fede; comu-nità cristiane più sobrie e povere di mezzi, perché l’evangelizzazione mal si coniuga con la ricchezza dei mezzi e l’opulenza delle strutture; l’accettazione di essere una Chiesa anche socialmente più debole, che non si contrappone al mondo e che ha a cuore non tanto la rivendica-zione di spazi e privilegi, ma il dialogo e il servizio7.

Il ‘secondo annuncio’. Il problema dell’evangelizzazione si pone, dunque, anche per le nostre parrocchie. Tuttavia, come annota giusta-mente Enzo Biemmi, nelle nostre comunità non ci troviamo di fron-te persone che sono tabula rasa nei confronti della fede. La maggior parte di esse, infatti, manda i fi gli a catechismo, conosce qualcosa del

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vangelo e della Chiesa e, a suo tempo, è stata iniziata e ha frequentato ambienti e iniziative parrocchiali.

Con queste persone battezzate, che sono la maggioranza, non si tratta a suo avviso di fare il primo annuncio, che riguarda in senso stretto coloro che non credono, quanto piuttosto un ‘secondo annun-cio’, caratterizzato da proposte e itinerari che dovrebbero mirare a riavviare alla fede persone che sono cristiane per abitudine o che han-no perso i contatti con essa e con la Chiesa. Il problema è che spesso i terreni sono ingombrati da pregiudizi, resistenze, esperienze negative, timori e da rappresentanze religiose che hanno veicolato immagini di Dio, della fede e della Chiesa distorte e dannose. Per Biemmi il se-condo annuncio «è davvero il problema fondamentale delle nostre parrocchie e la sfi da più grande del contesto culturale italiano»8.

Questo richiede un profondo rinnovamento di metodi, contenuti e prospettive; chiede di essere maggiormente attenti alla situazione di partenza delle persone che si accostano per svariati motivi alle inizia-tive della parrocchia aiutandole, attraverso l’accoglienza e il dialogo, a riscoprire o rimotivare una fede assopita9.

In tale prospettiva sarà forse necessario ripensare la pastorale e l’annuncio cominciando ad avere maggior attenzione ai cinque am-biti o ‘luoghi antropologici’ di Verona: vita affettiva, lavoro e festa, fragilità personale e sociale, trasmissione educativa e comunicativa, cittadinanza.

Una nuova identità della parrocchia

Da noi è ancora centrale la fi gura della parrocchia10, nonostante a vol-te la si ritenga superata di fronte all’intraprendenza e all’effi cacia di certi movimenti ecclesiali.

Scrive papa Francesco:

La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà a essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi fi gli e delle sue fi glie» (Cfl 26). […] È comunità di comunità, santuario

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dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato suffi cienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione (EG 28).

Essendo la parrocchia legata alla territorialità, essa diventa il modo concreto e più immediato con cui una Chiesa locale si prende carico della cura animarum di un determinato gruppo di persone; con cui Dio, mediante la mediazione della Chiesa, si fa vicino, ama tutti e vuo-le prendersi cura di tutti 11.

Nell’Instrumentum laboris del Sinodo sulla nuova evangelizzazio-ne, si dice che le parrocchie sono

come la più capillare porta d’ingresso alla fede cristiana e all’esperienza ecclesiale… luogo di pastorale ordinaria… hanno il compito di diventare centri di irradiazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, sentinelle capaci di ascoltare le persone e i loro bisogni12.

La parrocchia è lì per tutti, per tutti quelli che arrivano, per qualun-que necessità, senza dover esibire tessere di appartenenza. È la ‘fonta-na del villaggio’ a cui ognuno, quando vuole, può andare ad attingere acqua, anche per una sola volta; garantisce l’accesso a tutti senza porre condizioni.

Se questa è una ricchezza e una benedizione di Dio che ci con-fi gura realmente come Chiesa di popolo, al tempo stesso comporta anche delle pesantezze. Certamente la parrocchia non può pretendere di soddisfare tutte le esigenze e rispondere ai diversi cammini di fede che gruppi di persone hanno intrapreso. Essa offre piuttosto l’essen-ziale per diventare cristiani e per nutrire la fede; è la via ordinaria della formazione cristiana.

Tuttavia, una parrocchia autoreferenziale che si accontenta dei soliti fedeli e si rassegna ad assistere al progressivo declino della fede, non potrà mai rinnovarsi e affrontare le sfi de che il mondo pone alla Chiesa. Ogni realtà autosuffi ciente e chiusa in se stessa prima o poi muore per asfi ssia. Quando perciò di fronte alle Unità pastorali si invoca la salva-guardia della identità della parrocchia occorre aver chiaro che cosa si intende. Signifi ca forse mantenere tutte le tradizioni e le consuetudini

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a scapito dell’assunzione di una prospettiva missionaria e dell’essenzia-le? Chi fa l’identità di una parrocchia? Il prete e il suo essere presente a tutte le cose che vengono fatte o promosse, oppure qualcos’altro? La parrocchia si può rinnovare portandosi dietro tutto l’esistente?

È evidente che ormai non è più possibile pensare all’identità del-la parrocchia prescindendo dal progetto delle Unità/Collaborazioni. La prassi porterà di sicuro a un suo ripensamento e anche ad alcuni sconvolgimenti rispetto all’impostazione classica tridentina, seppur aggiornata dopo il Vaticano II. Bisognerà quindi interrogarsi se la col-laborazione e la sinergia tra parrocchie, con il potenziamento della catechesi per gli adulti, un maggior coordinamento della pastorale giovanile, della carità e della famiglia e la sperimentazione di alcuni percorsi di nuova evangelizzazione, sia davvero preludio di un model-lo nuovo e più missionario di parrocchia e, quindi, di un nuovo volto di Chiesa, e non invece la riproposizione e il rafforzamento della tra-dizionale parrocchia che ben conosciamo. Avviare le Unità pastorali e riorganizzare la pastorale senza porsi tale domanda porterà presto a più di qualche delusione perché non saremo mai in grado, con i mezzi sempre più deboli che abbiamo, di far fronte alle richieste che ci ven-gono poste dalla prassi tradizionale.

Papa Francesco, dopo aver constatato che l’appello al rinnovamen-to delle parrocchie non ha ancora dato frutti suffi cienti (EG 28), so-stiene che è necessario, per dar vita a una parrocchia «missionaria», essere più audaci e abbandonare il comodo criterio del «si è sempre fatto così» (EG 33). Già, ma puntando su che cosa? Su quali scelte innovative? Su che progetto di parrocchia? Per alcuni, per esempio, l’avvio delle Unità pastorali potrebbe essere l’occasione provvidenzia-le per passare da ‘comunità di massa’ a ‘comunità a misura d’uomo’ più piccole, a ‘comunità di comunità’, capaci di integrarsi nella vita della parrocchia e di essere aperte e missionarie. Questo porterebbe davvero, anche se non senza rischi, a uno sconvolgimento dell’attuale impostazione della parrocchia e dell’azione pastorale.

Responsabilità dei laici nella nuova evangelizzazione

Un terzo aspetto, essenziale per il rinnovamento della parrocchia at-traverso le Unità pastorali, riguarda i soggetti interessati alla nuova

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evangelizzazione. Padre Raniero Cantalamessa, nel libretto Come la scia di un vascello13, suddivide l’attività evangelizzatrice della Chiesa in quattro fasi, in ognuna delle quali emergono altrettanti attori. Nei primi tre secoli la propagazione della fede nel mondo greco-romano dipendeva dall’intraprendenza di singole persone, come gli apostoli e i profeti itineranti, fi nché la comunità locale assunse e coordinò ogni iniziativa, diventando così il vero soggetto evangelizzatore14. A partire dal quinto secolo l’evangelizzazione del mondo barbarico vide invece, in ondate successive, come protagonisti i monaci, i quali testimoniano quanto sia importante per l’evangelizzazione la vita contemplativa15 mentre, con la scoperta delle Americhe, i veri protagonisti dell’evan-gelizzazione sono diventati i frati e gli ordini mendicanti16. Ora ci tro-viamo di fronte a un altro destinatario della nuova evangelizzazione che è il mondo occidentale secolarizzato e post-cristiano.

Ebbene, secondo Cantalamessa, dopo gli apostoli e i vescovi dei primi secoli, dopo i monaci e i frati ora, nel nuovo contesto, i laici sarebbero chiamati a essere i nuovi protagonisti dell’evangelizzazione, testimoniando la fede e operando dentro e a partire dagli ambienti di vita perché, come scritto in LG 17b, la seminagione del vangelo nel mondo è un compito che incombe a ogni discepolo di Cristo17. Sappiamo che quando Cantalamessa parla dell’apporto provvidenzia-le dei laici alla evangelizzazione pensa in particolare ai movimenti ec-clesiali, come la «realizzazione più avanzata in questo senso»18. Il pro-blema riguarda però tutti i battezzati delle nostre comunità, i quali de-vono sempre più sentirsi chiamati dal Signore e sollecitati dai pastori, a essere annunciatori e testimoni del vangelo del regno a partire dagli ambienti di vita. La nuova evangelizzazione, scrive papa Francesco, «deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati» e che ognuno, incontratosi con l’amore di Dio in Gesù Cristo, si senta sempre e solo un discepolo-missionario (EG 120).

Un cantiere aperto. Quello dei laici e della loro partecipazione cor-responsabile alla missione della Chiesa è, dunque, uno dei nodi e dei cantieri aperti per la nostra pastorale. Senza un loro pieno coinvolgi-mento non è possibile un rinnovato slancio missionario delle parroc-chie, né alcuna fecondità per le Unità pastorali. Essi sono la princi-pale mediazione con il mondo e sono nelle condizioni di rendere più credibile e ‘prossimo’ il volto della Chiesa19. È sempre attuale quanto Giovanni Paolo II scriveva in Christifi deles laici:

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Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana. Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni. Ora i fedeli laici, in forza della loro partecipazione all’uffi cio profetico di Cristo, sono pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa. A essi tocca, in particolare, testimoniare come la fede cristiana costituisca l’unica risposta pienamente valida, più o meno coscientemente da tutti percepita e invocata, dei problemi e delle speranze che la vita pone a ogni uomo e a ogni società. Ciò sarà possibile se i fedeli laici sapranno superare in se stessi la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità d’una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza (n. 34)

Come pure quanto scrivono i vescovi italiani negli Orientamenti pa-storali Comunicare il vangelo in un mondo che cambia:

Chiesa di Dio, insieme a noi, ministri ordinati, sono i laici; di loro il Signore si serve per la testimonianza e la comunicazione del Vangelo in mezzo agli uomini. Oltre a essere esperti in un determinato settore pastorale (carità, catechesi, cultura, lavoro, tempo libero…) devono crescere nella capacità di leggere nella fede e sostenere con sapienza il cammino della comunità nel suo insieme. C’è bisogno di laici che non solo attendano generosamente ai ministeri tradizionali, ma che sappiano anche assumerne di nuovi, dando vita a forme inedite di educazione alla fede e di pastorale, sempre nella logica della comunione ecclesiale. Riconoscendo l’importanza e la preziosità di questa presenza, si provvederà, da parte delle diocesi e delle parrocchie, anche alla destinazione coraggiosa e illuminata di risorse per la formazione dei laici (n. 54).

Nel rispetto della vocazione dei laici. Rimane però sempre aperto il problema della specifi cità della vocazione dei laici. I vari documen-ti conciliari (Lumen Gentium, Sacrosanctum Concilium, Gaudium et Spes) la pongono sotto la categoria di ‘apostolato’, aggiornato oggi con quella di ‘nuova evangelizzazione20.

Paolo VI nella Evangelii nuntiandi è molto chiaro nell’evitare di confi nare la vocazione e missione dei laici nell’ambito strettamente pa-storale e parrocchiale. I laici possono anche sentirsi, o essere, chiamati a collaborare con i pastori per la crescita e la missione della comunità ecclesiale, esercitando ministeri diversissimi (EN 73), non dimenti-

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cando mai che «loro compito primario e immediato non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale» perché, scrive Paolo VI,

Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia, così pure della cultura… e anche di altre realtà particolarmente aperte all’evangelizzazione, quali l’amore, la famiglia, l’educazione dei bambini e degli adolescenti, il lavoro professionale, la sofferenza. Più ci saranno laici impregnati di spirito evangelico, responsabili di queste realtà ed esplicitamente impegnati in esse, competenti nel promuoverle e consapevoli di dover sviluppare tutta la loro capacità cristiana spesso tenuta nascosta e soffocata, tanto più queste realtà, senza nulla perdere né sacrifi care del loro coeffi ciente umano, ma manifestando una dimensione trascendente spesso sconosciuta, si troveranno al servizio dell’edifi cazione del Regno di Dio, e quindi della salvezza in Gesù Cristo (n. 70).

Dobbiamo convenire che la prassi ecclesiale post conciliare ha sempre più letto lo specifi co o la missione del laico non primariamente sul ver-sante della secolarità («per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio», LG 31), ma su quello della pastorale, al punto che la pastorale si è ‘mangiata’ l’apostolato dei laici, nel senso che, scrive Luca Diotallevi, si è imposta la tendenza ‘nefasta’ per la comprensione e la missione del laico, di comprimere o ridurre l’apostolato dei laici alla pastorale21 o di ritenerli i quasi unici protagonisti della evangelizzazione nel mon-do Occidentale post-cristiano e secolarizzato. Una presenza questa che si colloca più sul versante operativo e che comunque, tolti alcuni movimenti, è rimasta sostanzialmente esecutiva. Con la conseguenza che i laici non direttamente impegnati nella pastorale rischiano anche oggi di rimanere ‘invisibili’.

Finché pensiamo la parrocchia nel modo tradizionale e non ‘in uscita’ sarà diffi cile coniugare esigenze e peculiarità della pastorale con le esigenze della particolare vocazione del laico cristiano: a esso sarà chiesto prevalentemente un servizio ‘nella’ comunità e per una pastorale che, pur cercando di farsi carico anche dell’evangelizzazio-ne, deve tuttavia continuare a garantire una miriade di attività, servizi e presenze per le quali è necessario un numero rilevante di personale o di volontariato ‘responsabile e corresponsabile’. Oltretutto, sia per i

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laici radicati nelle parrocchie sia per i movimenti legati a un carisma, rimane sempre il rischio di cadere nella vecchia tentazione di ricon-quista cristiana di una società che si è allontanata dalla fede e dalla Chiesa22.

Vita e ministero del prete. Le Unità/Collaborazioni pastorali per avviarsi e progredire hanno bisogno anche di una certa comunione e condivisione di vita tra i preti. Quando questo avviene la gente non manca di segnalare quanto sia effi cace ed edifi cante e come davvero incida sul buon andamento della collaborazione tra parrocchie.

Indubbiamente, la situazione che si è creata a motivo della contra-zione numerica del clero e dei conseguenti tentativi di riorganizzare le parrocchie sta incidendo molto sulla fi gura e sul modo di vivere e in-tendere il ministero del prete23. La gente inizialmente fatica a capire e ad accettare un cambio così profondo e a volte radicale dell’immagine che aveva della parrocchia e del parroco. Poi un po’ alla volta si adatta perché capisce che non si tratta di buona o cattiva volontà del prete, ma di uno stato di crisi irreversibile, a causa del quale è necessario ridimensionare certe cose e pretese e, se possibile, rimboccarsi tutti le maniche. Chi si adatta un po’ meno sembra sia proprio il prete perché vede che sta cambiando il modo di esercitare il ministero e, quindi, entra in gioco anche la comprensione della propria identità.

Tuttavia, pur tra qualche dubbio e resistenza, il progetto delle Unità/Collaborazioni sembra trovi una sostanziale accoglienza e si intravedono nei preti segni indicatori di una sincera ricerca in tale direzione: maggior coscienza che è necessario passare dall’autonomia pastorale alla comunione e da un ministero di conservazione a uno di evangelizzazione; percezione del presbiterio diocesano come real-tà effettiva e non astratta con l’esigenza di formare il presbitero al presbiterio; accresciuta convinzione che sia necessaria una maggiore comunione di vita, pur nella diversità delle forme e che sia necessaria una distinzione e al tempo stesso una circolarità tra comunità di vita e comunità di lavoro o di ministero; esigenza che di fronte al crescente carico di lavoro, la misura di ogni nuovo impegno pastorale debba sempre essere la serenità e la vivibilità della vita del prete, ecc.

Sullo sfondo però rimane l’interrogativo «quale prete per quale Chiesa?», perché tutto non può ridursi solamente a razionalizzare la pastorale o a inglobare parrocchie per far fronte all’emergenza. Tale problema non riguarda solo noi europei. Un confratello fi dei donum in

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Africa poneva ad alcuni di noi amici gli stessi interrogativi: «Che tipo di Chiesa stiamo costruendo?». Forse una Chiesa «semplicemente eu-caristica-missionaria» sul modello delle prime comunità cristiane nate dall’evento pasquale; «in questa Chiesa che stiamo costruendo qual è il posto e l’identità del prete?». E concludeva sostenendo che «la fi gura del prete oggi non è chiara qui in missione e forse neanche a Treviso», chiedendosi alla fi ne come fare per «rivedere la fi gura del prete affi n-ché ogni comunità possa vivere la propria identità eucaristica, in Africa come in Europa», salvaguardando l’essenziale del ministero: annuncio del Regno, fare memoria della Pasqua di Gesù, servire l’unità.

Conclusione

Ci sarà un futuro per le Unità/Collaborazioni pastorali? Una doman-da del genere non è affatto peregrina e a volte viene posta a quanti di noi sono impegnati nel promuovere questi ambiziosi progetti. Per la verità siamo i primi a porcela perché, al di là di ogni motivazione ec-clesiologica e spirituale, siamo coscienti che ciò che maggiormente ha stimolato l’avvio delle Unità pastorali è stato il calo continuo dei preti, con la conseguente necessità di garantire a ogni parrocchia un digni-toso servizio pastorale aperto all’evangelizzazione. Il problema però rimane e, forse, è solo rinviato il ‘punto di rottura’, oltre il quale non è più possibile garantire questo tipo di pastorale e questa presenza ancora abbastanza ‘diffusa’ del prete. Nemmeno con l’aiuto, sempre crescente in Italia, di preti provenienti da altri Paesi, perché, in ogni caso, ci sarebbe prima o poi una collisione tra mentalità e paradigmi pastorali a volte estremamente diversi.

Per come sono nate e si sono nel tempo strutturate le parrocchie ed è andata evolvendo la pastorale, quanto mai dipendente dall’infa-ticabile attività del prete e dalla sua capillare presenza nel territorio, sarà diffi cile immaginare e attuare un modello pastorale diverso che poggi, più di quanto già non avvenga oggi, sulla responsabilità dei laici, perché questo richiede il coraggio di scardinare in qualche modo l’impianto della stessa pastorale, la tradizionale fi sionomia della par-rocchia e il ruolo giuridico-canonico del parroco. Con in più, visto che parliamo di laici, l’attenzione a non ‘pastoralizzare’ ulteriormente la loro identità e missione.

Gli interrogativi, dunque, non mancano. Non mancano però nem-

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meno la speranza e la fi ducia nel Signore, il quale ci chiede di cogliere sempre le sfi de che il tempo ci pone, affrontandole con responsabilità, ma anche con grande libertà interiore, perché di assoluto e defi nitivo c’è solo il regno di Dio, mentre per tutto il resto «passa la fi gura di questo mondo» (1Cor 7,29-32).

Alla fi ne, quello che tutti auspichiamo è che, grazie anche al proget-to delle Unità/Collaborazioni, possa avvenire progressivamente quel cambio di mentalità necessario per una vera conversione pastorale e missionaria delle nostre comunità ecclesiali e delle strutture (EG 27).

1 Nella diocesi di Treviso si è preferito chiamare queste nuove realtà ‘Collaborazioni pastorali’ piuttosto che ‘Unità pastorali’ o altro perché si è voluto evidenziare che non si intende unifi care tutto, né sopprimere alcuna parrocchia, ma solamente avviare un percorso strutturato di collaborazione tra parrocchie e tra preti. Attualmente il vescovo G.A. Gardin ha istituito 24 Collaborazioni sulla cinquantina previste. 2 Francesco, Evangelii Gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del vangelo nel mondo attuale (=EG), LEV, Città del Vaticano 2013, nn. 25-30.3 CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 11 (Enchiridion CEI 7/1464).4 Nella mia diocesi con l’istituzione della Collaborazione pastorale il vescovo nomina anche il Consiglio della Collaborazione, formato dai presbiteri, i diaconi, i rappresentanti di consacrati/e, uno o due laici per parrocchia, e in esso il presbitero che avrà la funzione di Coordinatore.5 Paolo VI, L’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Esortazione apostolica (08.12.1975), in Enchiridion Vaticanum (1974-1976) 5, EDB, Bologna 1979, n. 1588-1716.6 Conferenza episcopale italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale (30.05.2004), in Enchiridion Cei (2001-2005) 7, EDB, Bologna 2006, n. 1404-15057 Cfr. S. Dianich, La Chiesa dopo la Chiesa, «Regno Attualità», 2013, 14, pp. 463-475. 8 Cfr. E. Biemmi, Il secondo annuncio. La grazia di ricominciare, EDB, Bologna 2011, pp. 36-37.9 In questa prospettiva, il ‘secondo annuncio’ dovrebbe percorrere la via inversa rispetto alla catechesi, ossia quella attestativa/testimoniale (ibi, p. 39-41). Biemmi, prendendo come paradigma le parabole del tesoro e della perla, indica per i percorsi di ‘secondo annuncio’ tre regole d’oro: far leva sul fatto che il vangelo ha la capacità di mostrare da sé il suo valore; mirare non tanto a richiamare le esigenze morali della fede o entrare nei comportamenti spesso problematici, ma suscitare prima di tutto stupore, sorpresa e gratitudine per l’amore di Dio che si manifesta anche ‘in questa mia situazione’ esistenziale; saper mostrare che il dono di Dio raggiunge le persone dentro la loro vita e che il vangelo è per una ‘vita buona’ (ibi, p. 90).10 Cfr. A. Borras, La parrocchia, casa di tutti, «La rivista del clero italiano», 94 (2013) , pp. 176-194. 11 Ibi, pp. 184-185.

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12 Sinodo dei vescovi, La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Instrumentum laboris, Lev, Città del Vaticano 2012, n. 81.13 R. Cantalamessa, Come la scia di un vascello, Ed. san Paolo, Cinisello B. (Mi) 2012.14 Sono secoli, scrive Cantalamessa, nei quali si semina a larghe mani senza preoccuparsi dei risultati, anzi, l’insuccesso dell’annuncio non ha mai scalfi to negli apostoli la fi ducia nel messaggio e questo perché hanno chiaro che prioritario è l’oggetto dell’annuncio (la parola di Dio) e non il soggetto agente: «Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere… Ora né chi pianta né chi irriga è qualche cosa, ma chi fa crescere: Dio» (1Cor 3,6-7). Dunque, conclude Cantalamessa, «se c’è qualcosa che possiamo fare, dopo aver seminato, è quella di irrigare, con la preghiera, il seme gettato» (ibi, pp. 7-20).15 Ibi, pp. 21-36. Con la fi ne nel 476 dell’impero romano d’Occidente e con l’emergere in Europa dei nuovi popoli, l’evangelizzazione assume un nuovo volto. Le molte iniziative per evangelizzare i popoli pagani furono coordinate anzitutto da san Leone Magno e videro come protagonisti, in ondate successive, i monaci, i quali attuarono anche una vera opera di civilizzazione e di inculturazione del messaggio evangelico, con non pochi problemi di fronte al vasto raggio di azione e alla varietà dei popoli interessati, primo fra tutti il fatto che in essi, seppur convertiti, riaffi orava a ogni occasione o conviveva con la fede anche il loro bagaglio idolatra e pagano perché non avevano mai bruciato del tutto quello che avevano fi no ad allora adorato. Anche oggi, secondo Cantalamessa, di fronte a nuove ‘invasioni’ di altre religioni, è necessario il dialogo, il quale non si oppone all’evangelizzazione, ma ne determina lo stile (RM 55).16 Ibi, pp. 37-52. Per Cantalamessa, dall’America Latina vengono segnalate alla Chiesa due cose, sulle quali la pastorale dovrebbe interrogarsi: la necessità di trovare una nuova sintesi tra l’anima attiva e l’anima contemplativa, tra la Chiesa dell’impegno sociale per i poveri e la Chiesa dell’annuncio della fede; il problema dell’esodo dei cattolici verso altre denominazioni cristiane o religiose.17 Ibi, pp. 53-65.18 Ibi, p. 63.19 Cfr. S. Dianich, La Chiesa dopo la Chiesa, cit., p. 473.20 G. Zanchi, I laici nella Chiesa. Fede evangelica e realtà secolare, «La rivista del clero italiano», 94 (2013), pp. 509-530.21 Cfr. L. Diotallevi, La parabola del laicato cattolico italiano, «La rivista del clero italiano», 93 (2012), p. 372.22 Cfr. Zanchi, I laici nella Chiesa, pp. 514-518.23 Cfr. F.L. Bonomo, Verso dove andiamo? Risorse, nodi problematici e cantieri aperti per le nostre comunità, «La rivista del clero italiano», 93 (2012), pp. 847-852.

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Presbyteri, n. 8, 2011

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3DTredimensioni 9 (2012), pp. 270·279

Sulla formazione degli adulti

Donato Pavone *

Il binomio «adulto-formazione»

L'adultità come questione

Parlando di adultità i più sono soliti utilizzare il termine «for-mazione», mossi dalla convinzione che quando si ha a che fare conl'adulto l'uso del verbo «educare» è di per sé contraddittorio. Infatti,da educare è propriamente il soggetto in crescita e l'età adulta è lastagione della vita che chiude strutturalmente il processo evolutivodella persona umana. In effetti, «adultus», participio passato del ver-bo «adolescere» (crescere), in dialettica con «adolescente», che di quelverbo è il participio presente, è il vocabolo che, almeno dal punto divista etimologico, segna una transizione da considerarsi irreversibile.

Di questi tempi, però, non sono pochi quelli che elaborano rifles-sioni sull'«educazione» degli adulti. L'operazione sembra avere unasua ragion d'essere, se si pensa che sono oggi molto più indefiniti glistessi tradizionali paradigmi di transizione dall'essere giovani al di-venire adulti, ma anche che l'adultità si manifesta spesse volte incom-piuta, se non addirittura reversibile. L'idea dell'adulto come di unoche vive la stabilità non regge più'. Se è vero che non è facile per gliadolescenti sdoganare verso l'adultità, è altrettanto vero che gli adultiappaiono fragili, da tanti punti di vista, in modo del tutto particolarequanto a capacità di trasmettere contenuti e modelli di valore, i quali,peraltro, sono comunicabili solo attraverso narrazione e testimonian-

• Psicologo, docente di Psicologia e Antropologia filosofica presso l'Istituto Teologico di Treviso-Vittorio Veneto.

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za. Sono i dati di fatto a indicare la questione dell'identità dell'adultocome una tra le più rilevanti dell'odierno panorama culturale, socialee religioso. Interrogare l'adultità, sotto il profilo teorico. e pratico in-sieme, è per tutti compito urgente e indifferibile. È così che la condi-zione dell'adulto, il suo profilo ideale e la sua capacità di propiziare ilpercorso di crescita delle giovani generazioni sono diventati temi diestrema attualità 2

L'agireformativo, tra continuità e discontinuità

Forse è per tutti questi motivi che il termine «educazione», nel suosignificato originario e pregnante, tende ad allargarsi e a stemperarsifino ad estendersi a tutto l'arco dell'esistenza umana. Del resto, seapprocciato da un punto di vista fenomenologico, il binomio «adul-tità-educazione» non è del tutto fuori luogo. Il fatto è che parlandodi educazione degli adulti si potrebbe correre il rischio di alimentareprecisamente l'idea che si vuole contrastare, vale a dire che l'adultitàcome stagione della vita non esiste o che non vi si possa mai del tuttoapprodare.

Non va dimenticato, poi, che le questioni di carattere etimologico,qui appena enunciate, ne vanno ad incrociare altre di più rilevanti efondamentali riguardanti i contenuti e le modalità dell'agire pedago-gico. A tal proposito, notiamo come nei nostri ambienti ecclesiali l'ap-proccio al mondo degli adulti tenda a scimmiottare quello riservatoai ragazzi o agli adolescenti. Proprio per questo, oltre le rette intenzio-ni, il modo stesso di pensare la formazione degli adulti, il tentativo diorganizzare e realizzare eventi o itinerari a loro misura e lo sforzo digestire le dinamiche di una realtà gruppale che li vede protagonisti,non di rado risultano, a conti fatti, inadeguati e inefficaci. È ormaiurgente trovare le strategie più opportune per evidenziare con chia-rezza e forza, agli occhi di chi opera nel settore, la necessità che sulpiano della prassi, con il passaggio dall'età.giovanile a quella adulta,avvenga un reale scarto di qualità e una certa qual discontinuità. Unadi queste è senza dubbio la scelta di un linguaggio capace di veicola-re, almeno sul piano simbolico, un particolare tipo di approccio agliinterlocutori in questione e alla loro condizione di vita. È soprattuttoper questi motivi che ci sembra preferibile usare il binomio «adultità-formazione», seppur con alcune particolari attenzioni.

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Una singolare idea di formazione

Un'azione che dà forma

La parola «formazione» è ormai usata in diversi ambiti e settoridella vita sociale, dalla scuola al mondo del lavoro, comunemen-te, però, con riferimento agli aspetti concreti e tecnici dell'appren-dimento di quelle conoscenze e competenze che sono necessarieall'esercizio di una certa responsabilità. In realtà, nel suo senso piùtradizionale e pregnante, il termine «formare» significa aiutare unessere umano a «prendere forma», quella in cui l'identità personale,culturale e sociale si fondono insieme e delineano il profilo unico eoriginale in cui, in maniera singolare, ciascuno si realizza ed espri-me. In questa prospettiva, la formazione è di per sé un'azione chedà forma e, in termini cristiani, un processo di conformazione aCristo". La forma compiuta della fede non è uno dei molteplici aspet-ti dell'identità personale, ma quel filo rosso che ne attraversa ognidimensione e ambito. Si tratta di un modo di essere e stare a questomondo, quindi di ragionare, sentire e comportarsi. L'adulto nella fe-de pensa, ama e vive come Gesù. Se questo è vero, allora si dà comenecessario un ripensamento radicale del nostro modo di fare forma-zione, da farsi alla luce del cristocentrismo veritativo, relazionale edesistenziale. Tale operazione è ancor più urgente quando ad essernedirettamente interessato è l'adulto.

Una formazione integrale e integrata

L'agire formativo ha come obiettivo la crescita globale della perso-na. Questo è vero in ogni caso; lo si applica, però, in modo particolarenell'ambito della formazione degli adulti, che deve saper interessare ecoinvolgere il soggetto nella sua interezza. L'integrazione auspicata sipersegue, prima di tutto, preoccupandosi che le diverse iniziative sia-no in grado di toccare la cognizione, gli affetti e la conazione di chi vipartecipa, giacché la persona è una, sempre e comunque. È necessarioconsiderare come ogni ambito della vita fisica, psichica e spiritualedel soggetto sia importante ai fini della strutturazione della sua fedematura". La formazione «umana» e quella «spirituale» sono, dunque,da saldarsi e intrecciarsi tra di loro in maniera inscindibile, tanto dacostituire un unico grande processo.

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Sulla formazione degli adulti 273

Questo significa sostanzialmente due cose. La prima è che non èpossibile formare all'autentica vita di fede senza avere a cuore l'uomo,considerato in tutte le sue dimensioni costitutive, secondo una visio-ne antropologica «olistica».Laseconda è che l'incontro con Gesù nonpuò essere considerato come un fatto aggiuntivo all'«umano», ad essoestrinseco o cronologicamente successivo, dal momento che è preci-samente ciò che permette a ciascuno di conoscersi e riconoscersi nellapropria autentica identità, perciò di sperimentare e comprendere lagrandezza, la profondità e la dignità della propria natura.

Dai valori alla persona di Gesù

L'integrazione rimane l'orizzonte ultimo del nostro impegno ela qualità della formazione che proponiamo, ma va perseguita qui eora, tenendo conto che la persona adulta ha un modo di approcciarela realtà del tutto singolare. Di norma, infatti, gli schemi cognitivi,affettivi e conativi tipici dell'adultità si differenziano da quelli dellefasi precedenti per il loro grado d'integrazione, quindi non solo sulpiano della quantità, ma anche e soprattutto su quello della quali-tà. Ciò significa che l'adulto non è un bambino che, cresciuto, sa osente di più. Egli conosce in maniera differente, perchè è capace diquell'oggettività mediata dai significati che le strutture mentali di cuiè dotato gli rendono possibile. Non soltanto ora possiede uno spettropiù ampio di emozioni, ma è nelle condizioni di vivere i medesimisentimenti in modo intenso o pacato, vale a dire secondo sfumaturedifferenti. Qualitativamente diversa, rispetto a prima, è pure l'imma-gine sentita di Dio di cui l'adulto è capace. Si tratta di quella rappre-sentazione mentale dalla quale dipende, in qualche modo, la relazio-ne che egli è in grado di stabilire con lui. È evidente, allora, come losviluppo religioso non si risolva nell'allargamento dello spettro delsapere o del sentire su Dio, ma si compia nell'acquisizione strutturaledi una modalità più matura e integrata di vederlo, sentirlo e «viverlo».Da tali considerazioni, il formatore guadagna la consapevolezza chel'adultità è la stagione non della differenziazione, dell'identificazionee della sperimentazione, alla stregua di quelle precedenti, ma dell'in-tegrazione e dell'internalizzazione, quindi dell'adesione libera e con-sistente al bene in sé.

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274 Donato Pavone

Anche all'adulto vanno comunicati i valori nella loro oggettività,ci mancherebbe, ma secondo la logica dell'essenzialità e della ge-rarchizzazione. Dal punto di vista cognitivo, infatti, il soggetto habisogno di risalire a quel principio primo che, nella sua semplicità,è capace di unificarne ogni livello personale e ambito esistenziale.In altre parole, le verità di fede devono essere, ancor più di prima, ri-condotte, orientate e ordinate a Gesù: è lui la Verità, cioè l'origine e ilcompimento di ogni altra verità. In secondo luogo, chi lavora con gliadulti deve sapere che se è vero che, a certe condizioni, i contenuti dipensiero sanno convincere, è altrettanto vero che, da soli, non muo-vono all'azione. Troppe volte, purtroppo, i valori sono proposti comese fossero essenze di ordine logico, entità materiali o puramente for-mali, astoriche e asettiche. Quando dovesse accadere, giacché prividella forza di attrarre e appassionare, essi non avrebbero la dinami-cità sufficiente per motivare l'adulto, né per suscitare in lui l'effettivalibertà di cambiare gli atteggiamenti profondi. Del resto, la realtàoggettiva del valore non è assimilabile a quella di una «cosa», ma vapensata nella «forma della relazionex'. Questo non vuol dire sem-plicemente che per essere efficace, la comunicazione dei valori devepassare per la testimonianza di chi li annuncia. C'è qualcosa di moltopiù importante, infatti, da rilevare: è «legando si» affettivamente ed ef-fettivamente alla persona di Gesù, che l'adulto può scoprire che nellaricerca del bene in sé sta la promessa di compimento del bene per luie che l'autotrascendenza ha come suo effetto l'autorealizzazione.

Un sano protagonismo

I soggetti della formazione

Dell'intero percorso formativo lo Spirito Santo è il principale pro-tagonista": la soggettività ecclesiale, nelle sue molteplici e variegatepresenze, il contesto essenziale è la mediazione indispensabile': lalibertà del soggetto la condizione imprescindibile. L'efficacia del pro-cesso formativo, dunque, oltre che l'intervento potente della Grazia,ha come prerogativa fondamentale la consapevole e libera decisionedel singolo, cioè la sua deliberata scelta di prendersi cura di sé e delsuo rapporto con il Signore. Questo vale specialmente per l'adulto,che è il primo responsabile della propria formazione". È lui che media

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attivamente tra gli stimoli formativi che riceve e la sua vita. La sin-tesi personale e l'unità esistenziale avvengono principalmente nellacoscienza, spazio del dialogo profondo dell'uomo con se stesso e loSpirito Santo. Del resto, lungi dall'essere una realtà chiusa o autorefe-renziale, la coscienza è per sua natura aperta, dinamica e relazionale.

Accompagnare e «[aciluare»

Da qui derivano, a nostro parere, alcune osservazioni riguardantila prassi.

L'esperienza di chi lavora con l'adulto insegna che, quanto ad ef-ficacia formativa, discriminante non è primariamente la competenzadi chi opera a suo favore, i sussidi o gli strumenti che il gruppo o lacomunità di riferimento è in grado di mettergli a disposizione (me-diazioni utili), lo è piuttosto la sua adesione personale, sincera, libe-ra, consapevole e attiva. La verità è che ai nostri giorni, alcuni adultisono seduti e apatici, altri, invece, graniticamente arroccati sulle loroposizioni e poco disponibili a rimettersi in gioco spingendosi oltre ilgià capito, sentito e sperimentato. Per questo motivo sta diventandosempre più decisiva la capacità del formatore di propiziare la decisio-ne del soggetto di assumersi la responsabilità della propria formazio-ne (auto -formazione) .'

Più che di fornire risposte immediate, spetta al responsabile l'im-pegno di accendere il desiderio di riavviare la ricerca, alimentare laconvinzione dell'urgente necessità di formarsi, risvegliare domandesopite, suscitare nuovi interessi, talora incoraggiare a rialzarsi e a ri-mettersi in cammino. Se non in alcuni casi particolari, nella relazionediadica il formatore è chiamato più ad accompagnare che a guidare.All'interno di un gruppo di adulti il suo ruolo è prevalentementequello del facilitatore. Questo esige non solo saggezza e perseveranzanel pensare la formazione, ma anche pazienza e creatività nel realiz-zarla. Chi considera l'adulto come soggetto, poi, gli dà voce in fase diprogrammazione e di verifica: in luoghi opportuni e per vie praticabi-li, lo coinvolge e lo ascolta. Mosso dalla convinzione che le esperienzeda lui proposte devono semplicemente «far accadere qualcosa» negliadulti che vi partecipano, il formatore pensa agli eventi e agli itinerariformativi come a preziose opportunità atte a propiziare e sostenere ilcammino personale. La realizzazione concreta di tutto questo passa

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per la scelta di modalità pedagogiche adeguate non solo alla con-segna di criteri di riferimento per l'interpretazione e la valutazionedella realtà, ma anche al suggerimento di tempi, luoghi e strumentidi approfondimento tematico.

Proprio perché l'adulto non è il semplice utente di percorsi deltutto pensati, definiti e condotti da altri, va opportunamente stimo-lato a partecipare consapevolmente, attivamente e responsabilmenteall'andamento complessivo delle esperienze, nel rispetto e nella valo-rizzazione delle sue personali capacità e competenze. Il formatore hail compito non solo di avviare la ricerca, di cui non necessariamenteha già previsto il punto d'approdo, ma anche di offrire ai soggetti inquestione la possibilità di potervisi esercitare insieme. Pur essendoper certi versi rischioso, perché pilotabile fino ad un certo punto dalfacilitatore, con gli adulti questo metodo formativo (costruttivista)alla fine si dimostra molto fruttuoso. Ecco allora che il dibattito inassemblea, il confronto nei piccoli gruppi, la narrazione del vissutoe la reciproca testimonianza della fede sono alcune tra le molteplicipossibilità di realizzazione di quel sano protagonismo che favorisce ilcoinvolgimento delle persone e le pone nelle condizioni di esercitarsinella mutua-formazione. A fondamento di una tale metodica, vi èprima di tutto la coscienza della natura della comunione ecclesiale: èanche così che si maturano sèntimenti, atteggiamenti e scelte di veracondivisione, corresponsabilità e collaborazione, che sono al tempostesso condizioni e segnali indicatori di una maturazione cristiana incontinuo divenire.

Una dinamica esperienziale

In prospettiva diacronica e sincronica

L'aderenza alla vita è un tratto fondamentale della formazionedegli adulti. In prospettiva diacronica, questo significa che, essendoun evento, non un fatto, il processo formativo è di sua natura «per-manente»: non si dà una volta per sempre, ma avviene lungo tutto ilcorso della vita (life-long). La responsabilità di ogni adulto è di man-tenersi costantemente in cammino. Anche per questo, l'attenzionenei suoi riguardi non può ridursi, come già dicevamo, ai contenutidell'apprendimento, operazione peraltro indispensabile, ma deve al-

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largarsi al processo che lo rende possibile. In fondo, la scommessa deiformatori si traduce molto concretamente nello sforzo di attrezzare lapersona a imparare ad apprendere, cioè a stare in piedi nella comples-sità, con un' identità chiara e solida, ma al tempo stesso con quellaflessibilità che gli permetta di rispondere qui e adesso, in fedeltà alVangelo, alle richieste della storia. Dal punto di vista sincronico, poi,affermare che l'aderenza alla vita è uno dei tratti più rilevanti dellaformazione degli adulti vuol dire riconoscere all'esperienza quoti-diana, con le sue gioie e prove, una valenza straordinaria: è la stradamaestra che il soggetto ha a disposizione per continuare a maturare.Del resto, è soprattutto in riferimento agli adulti che l'azione forma-tiva risulta efficacese si traduce nella capacità di «dare significato alleesperienze quotidiane, interpretando la domanda di senso che alber-ga nella coscienza di molti». Oggi più che mai, «le persone devonoessere aiutate a leggere la loro esistenza alla luce del Vangelo,così chetrovi risposta il desiderio di quanti chiedono di essere accompagnatia vivere la fede come cammino di sequela del Signore, segnato dauna relazione creativa tra la parola di Dio e la vita di ogni giorno »9. Èa questa condizione che l'adulto può approdare alla tanto agognataunità interiore, all'armonizzazione tra essere e agire, all'integrazionetra la relazione con il Signore e l'impegno nel mondo".

Una circolarità virtuosa

Stando ai dati della ricerca, tra la significanza esistenziale dellaformazione e la motivazione a formarsi vi è un rapporto di circola-rità. È per questo motivo che quando gli eventi formativi propostisono generici, astratti e disincarnati, cioè incapaci di incrociare ledomande esistenziali e profonde delle persone che vi partecipano,producono in loro disinteresse e disaffezione. Con questo non si vuoldire che dovrà essere la soddisfazione di chi vi aderisce a decideredella qualità dell'esperienza formativa. Paradossalmente, infatti, èproprio una proposta non rispondente alle attese immediate dei suoiutenti ad essere spesso efficacesul piano della loro maturazione com-plessiva, perché stimolante un'autentica purificazione d'intenzioni euna maggiore radicalità di vita. È pur vero, tuttavia, che certi nostriincontri di formazione non sanno interessare gli adulti veri, quelliche vivono nel mondo. La formazione dovrà al contrario prendere in

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considerazione i problemi reali delle persone ed essere davvero «utilealla vita»". Vista la complessità del presente e la delicata condizio-ne dell'adulto, i formatori saggi sanno tener conto delle diverse fasidell'adultità, dei molteplici stati di vita degli interessati, dei loro diffe-renti livelli di fede e della pluralità d'interrogativi con i quali ai nostrigiorni sono costretti a misurarsi. La formazione degli adulti, dunque,non può non tradursi nell'offerta qualificata di percorsi differenziati,contrassegnati da flessibilità e modularità.

Tra il desiderio e il limite

L'integrazione non è poi così semplice da raggiungere. Ladultitàè la stagione della vita in cui il futuro del passato diventa presente.Per questo è spesso anche l'età delle disillusioni, della rassegnazione,del calo della tensione ideale o, per contro, di quel radicalismo disin-carnato, privo di reality testing, che è il residuo, talora arrabbiato, diun'adolescenza non del tutto risolta. Infatti, ci sono degli adulti chetendono ad appiattire l'idealità accontentandosi di poco. Tale lorodinamica intrapsichica porta con sé la perdita di significato del quoti-diano, la banalizzazione della propria scelta vocazionale, un diffusosenso di monotonia e diverse forme di compromesso. Per contro, vi èl'adulto che vive l'ordinario come impedimento e minaccia al propriodesiderio di sognare in grande. All'origine di questo atteggiamentonei confronti del mondo in genere, vi è la frustrazione per la scopertadi una vita percepita come poca cosa rispetto a quella progettata inprecedenza. In questo caso, tanta è la nostalgia del passato e la vogliadi rivivere quel tempo mitico in cui ogni cosa si colorava di promessadi compimento.

Il formatore deve sapere che uno degli indicatori dell'avvenutopassaggio dalla giovinezza all'età adulta è proprio la capacità del sog-getto di tenere insieme, in maniera armonica e matura, l'ideale e ilreale, il desiderio e il limite. La persona matura, infatti, è quella che saintegrare nel presente, il passato e il futuro, tra accettazione e trasfor-mazione. La domanda che l'adulto maturo si pone è la seguente: checosa mi è realisticamente possibile fare qui e adesso, dentro a questamia concreta situazione di vita e nella prospettiva della realizzazionedell'ideale? Ladultità, del resto, dovrebbe essere la stagione della vitain cui l'individuo, capace ormai di quell'equilibrio dinamico che lo

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abilita a mettere ordine nella propria vita, sa porre in relazione i benial Bene, sa cioè attribuire a ogni cosa (persone, relazioni, beni mate-riali ... ) l'importanza, l'attenzione e l'investimento affettivo che me-rita nell'economia del progetto salvifico di Dio. Si tratta di un ordine(orda amoris) che interessa affetti e pensieri, atteggiamenti profondi ecomportamenti.

La formazione degli adulti deve darsi questa priorità, seppur nellaconsapevolezza che l'operazione di fare ordine nella propria vita nonè facile per nessuno e non si fa una volta per sempre. Il formatorericordi che l'adulto ha bisogno di tempi e luoghi in cui far interagireil reale e l'ideale, il vissuto soggettivo e la verità oggettiva, vale a diredi occasioni di discernimento in cui, mediante il confronto con i suoicompagni di viaggio (mutua-formazione), poter giungere all'indivi-duazione di ciò che è chiamato a fare da Dio qui e ora, a livello fami-liare, piuttosto che professionale e politico. Da questo punto di vista,anche alla persona adulta è saggio proporre il confronto con una per-sona di fiducia e la stesura, continuamente rivista e aggiornata, di unavera e propria regola di vita essenziale, flessibile e individualizzata.

NOTE

l Cf C.M. Mozzanica, Uadultità: una sfida e una promessa, in «Dialoghi», 2 (2009), pp. 56-67; P. Bignar-di, Il senso dell'educazione. La libertà di diventare se stessi, AVE, Roma 2011, pp. 15-22; D. Demetrio, Chiè l'adulto: una lettura della condizion~ adulta, in Aa.vv., Raccontare gli adulti. Gli adulti si raccontano, AVE,Roma 2005, pp. 30-41; L. Alici, Vivere nel cambiamento: adulti e trasformazioni, in Aa.vv., Raccontare gliadulti..., cit., pp. 42-59.

2 CE!, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali del l'Episcopato italiano per il decen-nio 2010-2020 (4 ottobre 2010), n. 55.3 CfCEI, Educare alla vita buona del Vangelo ... , cit., n. 22; Comitato per il progetto culturale della Con-ferenza Episcopale Italiana (a cura di), La sfida educativa, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 8-10; AzioneCattolica Italiana, Perché sia formato Cristo in voi, AVE, Roma 2004, pp. 21-22.4 Cf A. Cencini, Formazione permanente e modello dell'integrazione, in «Tredirnensioni», 2 (2005), pp.276-286; P. Triani (a cura di), Educare, impegno di tutti, AVE, Roma 2010, pp. 22-25; G. Cucci, La ma-turità dell'esperienza di fede, LDC, Torino 2010, pp. 49-54.'Cf F. Botturi, Fondazione e oggettività del bene pratico, in «Tredirnensioni», 7 (2010), pp. 120-132.6 Cf CE!, Educare alla vita buona del vangelo ... r cit., nn. 22-24.7 Cf lbid., nn. 20-21 e 35.8 A. Cencini, Formazione permanente: ci crediamo davvero?, EDB, Bologna 2011, pp. 55-58; P. Tr iani, Lastruttura dinamica della formazione, in «Tredi mension i», 2 (2005), pp. 236-237., CE!, «Rigenerati per una speranza viva» (1Pt 1,3): testimoni del grande «SÌ» di Dio all'uomo. Nota pastoraledell'Episcopato italiano dopo i14° Convegno ecclesiale nazionale, 29 giugno 2007, n. 17.ro Cf E. Parolari - D. Pavone, Ministero alla prova. Per una lettura sapienziale delle relazioni del prete, in «LaRivista del Clero Italiano», 92 (2011), pp. 566-584.11 Cf E. Biernrnì, Compagni di viaggio. Laboratorio di formazione per animatori, catechisti di adulti e opera-tori pastorali, EDB, Bologna 2008, pp. 141-147.

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Lumen  Fidei  Papa  Francesco  

 Capitolo  terzo  

Vi  ho  trasmesso  quello  che  ho  ricevuto    (cfr.  1  Cor  15,3)  

   

 

La  Chiesa,  madre  della  nostra  fede  

37.  Chi  si  è  aperto  all’amore  di  Dio,  ha  ascoltato  la  sua  voce  e  ha  ricevuto  la  sua  luce,  non  può  tenere  questo  dono  per  sé.  Poiché  la  fede  è  ascolto  e  visione,  essa  si  trasmette  anche  come  parola  e  come  luce.  Parlando   ai   Corinzi,   l’Apostolo   Paolo   ha   usato   proprio   queste   due   immagini.   Da   un   lato,   egli   dice:  «Animati  tuttavia  da  quello  stesso  spirito  di  fede  di  cui  sta  scritto:  Ho  creduto,  perciò  ho  parlato,  anche  noi  crediamo  e  perciò  parliamo»  (2  Cor  4,13).  La  parola  ricevuta  si  fa  risposta,  confessione  e,  in  questo  modo,   risuona   per   gli   altri,   invitandoli   a   credere.   Dall’altro,   san   Paolo   si   riferisce   anche   alla   luce:  «Riflettendo   come   in   uno   specchio   la   gloria   del   Signore,   veniamo   trasformati   in   quella   medesima  immagine»   (2   Cor   3,18).   È   una   luce   che   si   rispecchia   di   volto   in   volto,   come  Mosè   portava   in   sé   il  riflesso  della  gloria  di  Dio  dopo  aver  parlato  con  Lui:  «[Dio]  rifulse  nei  nostri  cuori,  per  far  risplendere  la   conoscenza  della  gloria  di  Dio   sul  volto  di  Cristo»   (2  Cor  4,6).  La   luce  di  Gesù  brilla,   come   in  uno  specchio,   sul   volto   dei   cristiani   e   così   si   diffonde,   così   arriva   fino   a   noi,   perché   anche   noi   possiamo  partecipare  a  questa  visione  e   riflettere  ad  altri   la   sua   luce,   come  nella   liturgia  di  Pasqua   la   luce  del  cero   accende   tante   altre   candele.   La   fede   si   trasmette,   per   così   dire,   nella   forma   del   contatto,   da  persona   a   persona,   come   una   fiamma   si   accende   da   un’altra   fiamma.   I   cristiani,   nella   loro   povertà,  piantano  un  seme  così  fecondo  che  diventa  un  grande  albero  ed  è  capace  di  riempire  il  mondo  di  frutti.  

38.  La   trasmissione  della   fede,  che  brilla  per   tutti  gli  uomini  di   tutti   i   luoghi,  passa  anche  attraverso  l’asse  del  tempo,  di  generazione  in  generazione.  Poiché  la  fede  nasce  da  un  incontro  che  accade  nella  storia  e  illumina  il  nostro  cammino  nel  tempo,  essa  si  deve  trasmettere  lungo  i  secoli.  È  attraverso  una  catena  ininterrotta  di  testimonianze  che  arriva  a  noi   il  volto  di  Gesù.  Come  è  possibile  questo?  Come  essere   sicuri  di   attingere  al   "vero  Gesù",   attraverso   i   secoli?  Se   l’uomo   fosse  un   individuo   isolato,   se  volessimo   partire   soltanto   dall’"io"   individuale,   che   vuole   trovare   in   sé   la   sicurezza   della   sua  conoscenza,   questa   certezza   sarebbe   impossibile.   Non   posso   vedere   da   me   stesso   quello   che   è  accaduto  in  un’epoca  così  distante  da  me.  Non  è  questo,  tuttavia,  l’unico  modo  in  cui  l’uomo  conosce.  La   persona   vive   sempre   in   relazione.   Viene   da   altri,   appartiene   ad   altri,   la   sua   vita   si   fa   più   grande  nell’incontro  con  altri.  E  anche  la  propria  conoscenza,  la  stessa  coscienza  di  sé,  è  di  tipo  relazionale,  ed  è  legata  ad  altri  che  ci  hanno  preceduto:  in  primo  luogo  i  nostri  genitori,  che  ci  hanno  dato  la  vita  e  il  nome.   Il   linguaggio   stesso,   le   parole   con   cui   interpretiamo   la  nostra   vita   e   la   nostra   realtà,   ci   arriva  attraverso   altri,   preservato   nella  memoria   viva   di   altri.   La   conoscenza   di   noi   stessi   è   possibile   solo  quando  partecipiamo  a  una  memoria  più  grande.  Avviene  così  anche  nella  fede,  che  porta  a  pienezza  il  modo  umano  di   comprendere.   Il   passato  della   fede,   quell’atto  di   amore  di  Gesù   che  ha  generato  nel  mondo  una  nuova  vita,  ci  arriva  nella  memoria  di  altri,  dei  testimoni,  conservato  vivo  in  quel  soggetto  unico  di  memoria  che  è   la  Chiesa.  La  Chiesa  è  una  Madre  che  ci   insegna  a  parlare   il   linguaggio  della  fede.   San  Giovanni  ha   insistito   su  quest’aspetto  nel   suo  Vangelo,   unendo  assieme   fede   e  memoria,   e  associando  ambedue  all’azione  dello  Spirito  Santo  che,  come  dice  Gesù,  «vi  ricorderà  tutto»  (Gv  14,26).  L’Amore  che  è  lo  Spirito,  e  che  dimora  nella  Chiesa,  mantiene  uniti  tra  di  loro  tutti   i  tempi  e  ci  rende  contemporanei  di  Gesù,  diventando  così  la  guida  del  nostro  camminare  nella  fede.  

39.  È  impossibile  credere  da  soli.  La  fede  non  è  solo  un’opzione  individuale  che  avviene  nell’interiorità  del  credente,  non  è  rapporto  isolato  tra  l’"io"  del  fedele  e  il  "Tu"  divino,  tra  il  soggetto  autonomo  e  Dio.  Essa   si   apre,   per   sua   natura,   al   "noi",   avviene   sempre   all’interno   della   comunione   della   Chiesa.   La  forma  dialogata  del  Credo,   usata  nella   liturgia  battesimale,   ce   lo   ricorda.   Il   credere   si   esprime   come  risposta   a   un   invito,   ad   una   parola   che   deve   essere   ascoltata   e   non   procede   da  me,   e   per   questo   si  

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inserisce   all’interno   di   un   dialogo,   non   può   essere   una   mera   confessione   che   nasce   dal   singolo.   È  possibile   rispondere   in   prima   persona,   "credo",   solo   perché   si   appartiene   a   una   comunione   grande,  solo  perché  si  dice  anche   "crediamo".  Questa  apertura  al   "noi"  ecclesiale  avviene  secondo   l’apertura  propria  dell’amore  di  Dio,  che  non  è  solo  rapporto  tra  Padre  e  Figlio,  tra  "io"  e  "tu",  ma  nello  Spirito  è  anche  un  "noi",  una  comunione  di  persone.  Ecco  perché  chi  crede  non  è  mai  solo,  e  perché  la  fede  tende  a   diffondersi,   ad   invitare   altri   alla   sua   gioia.   Chi   riceve   la   fede   scopre   che   gli   spazi   del   suo   "io"   si  allargano,  e  si  generano  in   lui  nuove  relazioni  che  arricchiscono  la  vita.  Tertulliano  l’ha  espresso  con  efficacia  parlando  del  catecumeno,  che  "dopo  il  lavacro  della  nuova  nascita"  è  accolto  nella  casa  della  Madre  per  stendere  le  mani  e  pregare,   insieme  ai   fratelli,   il  Padre  nostro,  come  accolto   in  una  nuova  famiglia.  

I  Sacramenti  e  la  trasmissione  della  fede  

40.  La  Chiesa,  come  ogni  famiglia,  trasmette  ai  suoi  figli  il  contenuto  della  sua  memoria.  Come  farlo,  in  modo  che  niente  si  perda  e  che,  al  contrario,  tutto  si  approfondisca  sempre  più  nell’eredità  della  fede?  È  attraverso  la  Tradizione  Apostolica  conservata  nella  Chiesa  con  l’assistenza  dello  Spirito  Santo,  che  noi  abbiamo  un  contatto  vivo  con  la  memoria  fondante.  E  quanto  è  stato  trasmesso  dagli  Apostoli  —  come  afferma  il  Concilio  Vaticano  II  —  «racchiude  tutto  quello  che  serve  per  vivere  la  vita  santa  e  per  accrescere   la   fede  del  Popolo  di  Dio,  e  così  nella  sua  dottrina,  nella  sua  vita  e  nel  suo  culto   la  Chiesa  perpetua  e  trasmette  a  tutte  le  generazioni  tutto  ciò  che  essa  è,  tutto  ciò  che  essa  crede».  

La   fede,   infatti,   ha  bisogno  di  un  ambito   in   cui   si   possa   testimoniare   e   comunicare,   e   che  questo   sia  corrispondente   e   proporzionato   a   ciò   che   si   comunica.   Per   trasmettere   un   contenuto   meramente  dottrinale,   un’idea,   forse   basterebbe   un   libro,   o   la   ripetizione   di   un  messaggio   orale.   Ma   ciò   che   si  comunica   nella   Chiesa,   ciò   che   si   trasmette   nella   sua   Tradizione   vivente,   è   la   luce   nuova   che   nasce  dall’incontro  con  il  Dio  vivo,  una  luce  che  tocca   la  persona  nel  suo  centro,  nel  cuore,  coinvolgendo  la  sua  mente,  il  suo  volere  e  la  sua  affettività,  aprendola  a  relazioni  vive  nella  comunione  con  Dio  e  con  gli  altri.  Per  trasmettere  tale  pienezza  esiste  un  mezzo  speciale,  che  mette  in  gioco  tutta  la  persona,  corpo  e  spirito,  interiorità  e  relazioni.  Questo  mezzo  sono  i  Sacramenti,  celebrati  nella  liturgia  della  Chiesa.  In  essi  si  comunica  una  memoria  incarnata,  legata  ai  luoghi  e  ai  tempi  della  vita,  associata  a  tutti  i  sensi;  in   essi   la   persona   è   coinvolta,   in   quanto   membro   di   un   soggetto   vivo,   in   un   tessuto   di   relazioni  comunitarie.  Per  questo,  se  è  vero  che  i  Sacramenti  sono  i  Sacramenti  della  fede,  si  deve  anche  dire  che  la   fede  ha  una  struttura  sacramentale.   Il   risveglio  della   fede  passa  per   il   risveglio  di  un  nuovo  senso  sacramentale  della  vita  dell’uomo  e  dell’esistenza  cristiana,  mostrando  come  il  visibile  e  il  materiale  si  aprono  verso  il  mistero  dell’eterno.  

41.  La  trasmissione  della  fede  avviene  in  primo  luogo  attraverso  il  Battesimo.  Potrebbe  sembrare  che  il  Battesimo  sia  solo  un  modo  per  simbolizzare   la  confessione  di   fede,  un  atto  pedagogico  per  chi  ha  bisogno  di   immagini  e  gesti,  ma  da  cui,   in   fondo,  si  potrebbe  prescindere.  Una  parola  di  san  Paolo,  a  proposito  del  Battesimo,  ci   ricorda  che  non  è  così.  Egli  afferma  che  «per  mezzo  del  battesimo  siamo  […]  sepolti   insieme  a  Cristo  nella  morte,  perché  come  Cristo   fu  risuscitato  dai  morti  per  mezzo  della  gloria   del   Padre,   così   anche   noi   possiamo   camminare   in   una   vita   nuova»   (Rm   6,4).   Nel   Battesimo  diventiamo  nuova  creatura  e  figli  adottivi  di  Dio.  L’Apostolo  afferma  poi  che  il  cristiano  è  stato  affidato  a  una  "forma  di  insegnamento"  (typos  didachés),  cui  obbedisce  di  cuore  (cfr.  Rm  6,17).  Nel  Battesimo  l’uomo   riceve   anche   una   dottrina   da   professare   e   una   forma   concreta   di   vita   che   richiede   il  coinvolgimento   di   tutta   la   sua   persona   e   lo   incammina   verso   il   bene.   Viene   trasferito   in   un   ambito  nuovo,  affidato  a  un  nuovo  ambiente,  a  un  nuovo  modo  di  agire  comune,  nella  Chiesa.  Il  Battesimo  ci  ricorda  così   che   la   fede  non  è  opera  dell’individuo   isolato,  non  è  un  atto  che   l’uomo  possa  compiere  contando  solo  sulle  proprie   forze,  ma  deve  essere  ricevuta,  entrando  nella  comunione  ecclesiale  che  trasmette   il   dono  di  Dio:   nessuno   battezza   se   stesso,   così   come  nessuno  nasce   da   solo   all’esistenza.  Siamo  stati  battezzati.  

42.  Quali  sono  gli  elementi  battesimali  che  ci  introducono  in  questa  nuova  "forma  di  insegnamento"?  Sul  catecumeno  s’invoca  in  primo  luogo  il  nome  della  Trinità:  Padre,  Figlio  e  Spirito  Santo.  Si  offre  così  fin  dall’inizio  una  sintesi  del  cammino  della  fede.  Il  Dio  che  ha  chiamato  Abramo  e  ha  voluto  chiamarsi  suo  Dio;  il  Dio  che  ha  rivelato  il  suo  nome  a  Mosè;  il  Dio  che  nel  consegnarci  suo  Figlio  ci  ha  rivelato  pienamente   il  mistero  del   suo  Nome,  dona  al  battezzato  una  nuova   identità   filiale.  Appare   in  questo  modo   il  senso  dell’azione  che  si  compie  nel  Battesimo,   l’immersione  nell’acqua:   l’acqua  è,  allo  stesso  

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tempo,  simbolo  di  morte,  che  ci  invita  a  passare  per  la  conversione  dell’"io",  in  vista  della  sua  apertura  a  un  "Io"  più  grande;  ma  è  anche  simbolo  di  vita,  del  grembo  in  cui  rinasciamo  seguendo  Cristo  nella  sua   nuova   esistenza.   In   questo  modo,   attraverso   l’immersione   nell’acqua,   il   Battesimo   ci   parla   della  struttura  incarnata  della  fede.  L’azione  di  Cristo  ci  tocca  nella  nostra  realtà  personale,  trasformandoci  radicalmente,  rendendoci  figli  adottivi  di  Dio,  partecipi  della  natura  divina;  modifica  così  tutti  i  nostri  rapporti,   la   nostra   situazione   concreta   nel   mondo   e   nel   cosmo,   aprendoli   alla   sua   stessa   vita   di  comunione.   Questo   dinamismo   di   trasformazione   proprio   del   Battesimo   ci   aiuta   a   cogliere  l’importanza  del  catecumenato,  che  oggi,  anche  nelle  società  di  antiche  radici  cristiane,  nelle  quali  un  numero  crescente  di  adulti  si  avvicina  al  sacramento  battesimale,  riveste  un’importanza  singolare  per  la   nuova   evangelizzazione.   È   la   strada   di   preparazione   al   Battesimo,   alla   trasformazione   dell’intera  esistenza  in  Cristo.  

Per   comprendere   la   connessione   tra   Battesimo   e   fede,   ci   può   essere   di   aiuto   ricordare   un   testo   del  profeta   Isaia,   che   è   stato   associato   al   Battesimo   nell’antica   letteratura   cristiana:   «Fortezze   rocciose  saranno   il  suo  rifugio  […]   la  sua  acqua  sarà  assicurata»  (Is  33,16).   Il  battezzato,  riscattato  dall’acqua  della  morte,  poteva  ergersi  in  piedi  sulla  "roccia  forte",  perché  aveva  trovato  la  saldezza  cui  affidarsi.  Così,  l’acqua  di  morte  si  è  trasformata  in  acqua  di  vita.  Il  testo  greco  la  descriveva  come  acqua  pistós,  acqua  "fedele".  L’acqua  del  Battesimo  è  fedele  perché  ad  essa  ci  si  può  affidare,  perché  la  sua  corrente  immette  nella  dinamica  di  amore  di  Gesù,  fonte  di  sicurezza  per  il  nostro  cammino  nella  vita.  

43.  La  struttura  del  Battesimo,  la  sua  configurazione  come  rinascita,  in  cui  riceviamo  un  nuovo  nome  e  una  nuova  vita,  ci  aiuta  a  capire   il  senso  e   l’importanza  del  Battesimo  dei  bambini.   Il  bambino  non  è  capace  di  un  atto  libero  che  accolga  la  fede,  non  può  confessarla  ancora  da  solo,  e  proprio  per  questo  essa   è   confessata   dai   suoi   genitori   e   dai   padrini   in   suo   nome.   La   fede   è   vissuta   all’interno   della  comunità  della  Chiesa,  è  inserita  in  un  "noi"  comune.  Così,  il  bambino  può  essere  sostenuto  da  altri,  dai  suoi   genitori   e   padrini,   e   può   essere   accolto   nella   loro   fede,   che   è   la   fede   della   Chiesa,   simbolizzata  dalla   luce   che   il   padre   attinge   dal   cero   nella   liturgia   battesimale.   Questa   struttura   del   Battesimo  evidenzia  l’importanza  della  sinergia  tra  la  Chiesa  e  la  famiglia  nella  trasmissione  della  fede.  I  genitori  sono  chiamati,  secondo  una  parola  di  sant’Agostino,  non  solo  a  generare  i  figli  alla  vita,  ma  a  portarli  a  Dio  affinché,  attraverso  il  Battesimo,  siano  rigenerati  come  figli  di  Dio,  ricevano  il  dono  della  fede.  Così,  insieme  alla  vita,  viene  dato  loro  l’orientamento  fondamentale  dell’esistenza  e  la  sicurezza  di  un  futuro  buono,  orientamento  che  verrà  ulteriormente  corroborato  nel  Sacramento  della  Confermazione  con  il  sigillo  dello  Spirito  Santo.  

44.   La   natura   sacramentale   della   fede   trova   la   sua   espressione   massima   nell’Eucaristia.   Essa   è  nutrimento   prezioso   della   fede,   incontro   con   Cristo   presente   in   modo   reale   con   l’atto   supremo   di  amore,  il  dono  di  Se  stesso  che  genera  vita.  

Nell’Eucaristia   troviamo   l’incrocio  dei  due  assi  su  cui   la   fede  percorre   il   suo  cammino.  Da  una  parte,  l’asse  della   storia:   l’Eucaristia   è   atto  di  memoria,   attualizzazione  del  mistero,   in   cui   il   passato,   come  evento   di  morte   e   risurrezione,  mostra   la   sua   capacità   di   aprire   al   futuro,   di   anticipare   la   pienezza  finale.  La  liturgia  ce  lo  ricorda  con  il  suo  hodie,  l’"oggi"  dei  misteri  della  salvezza.  D’altra  parte,  si  trova  qui  anche  l’asse  che  conduce  dal  mondo  visibile  verso  l’invisibile.  Nell’Eucaristia  impariamo  a  vedere  la  profondità  del  reale.  Il  pane  e  il  vino  si  trasformano  nel  corpo  e  sangue  di  Cristo,  che  si  fa  presente  nel   suo   cammino   pasquale   verso   il   Padre:   questo   movimento   ci   introduce,   corpo   e   anima,   nel  movimento  di  tutto  il  creato  verso  la  sua  pienezza  in  Dio.  

45.   Nella   celebrazione   dei   Sacramenti,   la   Chiesa   trasmette   la   sua   memoria,   in   particolare,   con   la  professione  di  fede.  In  essa,  non  si  tratta  tanto  di  prestare  l’assenso  a  un  insieme  di  verità  astratte.  Al  contrario,  nella  confessione  di  fede  tutta  la  vita  entra  in  un  cammino  verso  la  comunione  piena  con  il  Dio  vivente.  Possiamo  dire  che  nel  Credo  il  credente  viene  invitato  a  entrare  nel  mistero  che  professa  e  a   lasciarsi   trasformare   da   ciò   che   professa.   Per   capire   il   senso   di   questa   affermazione,   pensiamo  anzitutto  al  contenuto  del  Credo.  Esso  ha  una  struttura  trinitaria:  il  Padre  e  il  Figlio  si  uniscono  nello  Spirito  di  amore.   Il   credente  afferma  così  che   il   centro  dell’essere,   il   segreto  più  profondo  di   tutte   le  cose,   è   la   comunione   divina.   Inoltre,   il   Credo   contiene   anche   una   confessione   cristologica:   si  ripercorrono   i   misteri   della   vita   di   Gesù,   fino   alla   sua   Morte,   Risurrezione   e   Ascensione   al   Cielo,  nell’attesa  della  sua  venuta  finale  nella  gloria.  Si  dice,  dunque,  che  questo  Dio  comunione,  scambio  di  amore  tra  Padre  e  Figlio  nello  Spirito,  è  capace  di  abbracciare  la  storia  dell’uomo,  di  introdurlo  nel  suo  

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dinamismo  di   comunione,   che  ha  nel  Padre   la   sua  origine  e   la   sua  mèta   finale.  Colui   che   confessa   la  fede,  si  vede  coinvolto  nella  verità  che  confessa.  Non  può  pronunciare  con  verità  le  parole  del  Credo,  senza  essere  per  ciò  stesso  trasformato,  senza  immettersi  nella  storia  di  amore  che  lo  abbraccia,  che  dilata   il   suo  essere  rendendolo  parte  di  una  comunione  grande,  del  soggetto  ultimo  che  pronuncia   il  Credo  e  che  è  la  Chiesa.  Tutte  le  verità  che  si  credono  dicono  il  mistero  della  nuova  vita  della  fede  come  cammino  di  comunione  con  il  Dio  vivente.  

Fede,  preghiera  e  Decalogo  

46.  Altri  due  elementi  sono  essenziali  nella  trasmissione  fedele  della  memoria  della  Chiesa.  In  primo  luogo,   la   preghiera   del   Signore,   il   Padre   nostro.   In   essa   il   cristiano   impara   a   condividere   la   stessa  esperienza  spirituale  di  Cristo  e   incomincia  a  vedere  con  gli  occhi  di  Cristo.  A  partire  da  Colui   che  è  Luce  da  Luce,  dal  Figlio  Unigenito  del  Padre,  conosciamo  Dio  anche  noi  e  possiamo  accendere  in  altri  il  desiderio  di  avvicinarsi  a  Lui.  

È   altrettanto   importante,   inoltre,   la   connessione   tra   la   fede   e   il   Decalogo.   La   fede,   abbiamo   detto,  appare  come  un  cammino,  una  strada  da  percorrere,  aperta  dall’incontro  con  il  Dio  vivente.  Per  questo,  alla   luce   della   fede,   dell’affidamento   totale   al   Dio   che   salva,   il   Decalogo   acquista   la   sua   verità   più  profonda,  contenuta  nelle  parole  che  introducono  i  dieci  comandamenti:  «Io  sono  il  tuo  Dio  che  ti  ho  fatto   uscire   dal   paese   d’Egitto»   (Es   20,2).   Il   Decalogo   non   è   un   insieme   di   precetti   negativi,   ma   di  indicazioni  concrete  per  uscire  dal  deserto  dell’  "io"  autoreferenziale,  chiuso  in  se  stesso,  ed  entrare  in  dialogo  con  Dio,  lasciandosi  abbracciare  dalla  sua  misericordia  per  portare  la  sua  misericordia.  La  fede  confessa   così   l’amore   di   Dio,   origine   e   sostegno   di   tutto,   si   lascia   muovere   da   questo   amore   per  camminare   verso   la   pienezza   della   comunione   con   Dio.   Il   Decalogo   appare   come   il   cammino   della  gratitudine,   della   risposta   di   amore,   possibile   perché,   nella   fede,   ci   siamo   aperti   all’esperienza  dell’amore   trasformante   di   Dio   per   noi.   E   questo   cammino   riceve   una   nuova   luce   da   quanto   Gesù  insegna  nel  Discorso  della  Montagna  (cfr.  Mt  5-­‐7).  

Ho   toccato   così   i   quattro   elementi   che   riassumono   il   tesoro   di  memoria   che   la   Chiesa   trasmette:   la  Confessione  di  fede,  la  celebrazione  dei  Sacramenti,  il  cammino  del  Decalogo,  la  preghiera.  La  catechesi  della   Chiesa   si   è   strutturata   tradizionalmente   attorno   ad   essi,   incluso   il   Catechismo   della   Chiesa  Cattolica,   strumento   fondamentale   per   quell’atto   unitario   con   cui   la   Chiesa   comunica   il   contenuto  intero  della  fede,  «tutto  ciò  che  essa  è,  tutto  ciò  che  essa  crede».  

L’unità  e  l’integrità  della  fede  

47.  L’unità  della  Chiesa,  nel  tempo  e  nello  spazio,  è  collegata  all’unità  della  fede:  «Un  solo  corpo  e  un  solo  spirito  […]  una  sola  fede»  (Ef  4,  4-­‐5).Oggi  può  sembrare  realizzabile  un’unione  degli  uomini  in  un  impegno  comune,  nel  volersi  bene,  nel  condividere  una  stessa  sorte,  in  una  meta  comune.  Ma  ci  risulta  molto  difficile  concepire  un’unità  nella  stessa  verità.  Ci  sembra  che  un’unione  del  genere  si  opponga  alla   libertà   del   pensiero   e   all’autonomia   del   soggetto.   L’esperienza   dell’amore   ci   dice   invece   che  proprio  nell’amore  è  possibile  avere  una  visione  comune,  che  in  esso  impariamo  a  vedere  la  realtà  con  gli   occhi   dell’altro,   e   che   ciò   non   ci   impoverisce,   ma   arricchisce   il   nostro   sguardo.   L’amore   vero,   a  misura  dell’amore  divino,  esige  la  verità  e  nello  sguardo  comune  della  verità,  che  è  Gesù  Cristo,  diventa  saldo   e   profondo.  Questa   è   anche   la   gioia   della   fede,   l’unità   di   visione   in   un   solo   corpo   e   in   un   solo  spirito.  In  questo  senso  san  Leone  Magno  poteva  affermare:  «Se  la  fede  non  è  una,  non  è  fede».  

Qual   è   il   segreto   di   questa   unità?   La   fede   è   "una",   in   primo   luogo,   per   l’unità   del   Dio   conosciuto   e  confessato.  Tutti   gli   articoli  di   fede   si   riferiscono  a  Lui,   sono  vie  per   conoscere   il   suo  essere  e   il   suo  agire,  e  per  questo  possiedono  un’unità  superiore  a  qualsiasi  altra  che  possiamo  costruire  con  il  nostro  pensiero,  possiedono  l’unità  che  ci  arricchisce,  perché  si  comunica  a  noi  e  ci  rende  "uno".  

La  fede  è  una,  inoltre,  perché  si  rivolge  all’unico  Signore,  alla  vita  di  Gesù,  alla  sua  storia  concreta  che  condivide   con   noi.   Sant’Ireneo   di   Lione   l’ha   chiarito   in   opposizione   agli   eretici   gnostici.   Costoro  sostenevano   l’esistenza   di   due   tipi   di   fede,   una   fede   rozza,   la   fede   dei   semplici,   imperfetta,   che   si  manteneva  al  livello  della  carne  di  Cristo  e  della  contemplazione  dei  suoi  misteri;  e  un  altro  tipo  di  fede  più   profondo   e   perfetto,   la   fede   vera   riservata   a   una   piccola   cerchia   di   iniziati   che   si   elevava   con  l’intelletto  al  di  là  della  carne  di  Gesù  verso  i  misteri  della  divinità  ignota.  Davanti  a  questa  pretesa,  che  continua  ad  avere  il  suo  fascino  e  i  suoi  seguaci  anche  ai  nostri  giorni,  sant’Ireneo  ribadisce  che  la  fede  

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è  una  sola,  perché  passa  sempre  per  il  punto  concreto  dell’Incarnazione,  senza  superare  mai  la  carne  e  la  storia  di  Cristo,  dal  momento  che  Dio  si  è  voluto  rivelare  pienamente  in  essa.  È  per  questo  che  non  c’è  differenza  nella  fede  tra  "colui  che  è  in  grado  di  parlarne  più  a  lungo"  e  "colui  che  ne  parla  poco",  tra   colui   che   è   superiore   e   chi   è   meno   capace:   né   il   primo   può   ampliare   la   fede,   né   il   secondo  diminuirla.  

Infine,  la  fede  è  una  perché  è  condivisa  da  tutta  la  Chiesa,  che  è  un  solo  corpo  e  un  solo  Spirito.  Nella  comunione  dell’unico  soggetto  che  è  la  Chiesa,  riceviamo  uno  sguardo  comune.  Confessando  la  stessa  fede  poggiamo  sulla  stessa  roccia,  siamo  trasformati  dallo  stesso  Spirito  d’amore,   irradiamo  un’unica  luce  e  abbiamo  un  unico  sguardo  per  penetrare  la  realtà.  

48.   Dato   che   la   fede   è   una   sola,   deve   essere   confessata   in   tutta   la   sua   purezza   e   integrità.   Proprio  perché   tutti   gli   articoli   di   fede   sono   collegati   in   unità,   negare   uno   di   essi,   anche   di   quelli   che  sembrerebbero  meno  importanti,  equivale  a  danneggiare   il   tutto.  Ogni  epoca  può  trovare  punti  della  fede   più   facili   o   difficili   da   accettare:   per   questo   è   importante   vigilare   perché   si   trasmetta   tutto   il  deposito   della   fede   (cfr.   1   Tm   6,20),   perché   si   insista   opportunamente   su   tutti   gli   aspetti   della  confessione  di  fede.  Infatti,  in  quanto  l’unità  della  fede  è  l’unità  della  Chiesa,  togliere  qualcosa  alla  fede  è  togliere  qualcosa  alla  verità  della  comunione.  I  Padri  hanno  descritto  la  fede  come  un  corpo,  il  corpo  della  verità,  con  diverse  membra,   in  analogia  con   il  corpo  di  Cristo  e  con   il  suo  prolungamento  nella  Chiesa.   L’integrità   della   fede   è   stata   legata   anche   all’immagine   della   Chiesa   vergine,   alla   sua   fedeltà  nell’amore  sponsale  per  Cristo:  danneggiare  la  fede  significa  danneggiare  la  comunione  con  il  Signore.  L’unità  della  fede  è  dunque  quella  di  un  organismo  vivente,  come  ha  ben  rilevato  il  beato  John  Henry  Newman  quando  enumerava,  tra  le  note  caratteristiche  per  distinguere  la  continuità  della  dottrina  nel  tempo,  il  suo  potere  di  assimilare  in  sé  tutto  ciò  che  trova,  nei  diversi  ambiti  in  cui  si  fa  presente,  nelle  diverse   culture   che   incontra,   tutto   purificando   e   portando   alla   sua  migliore   espressione.   La   fede   si  mostra   così   universale,   cattolica,   perché   la   sua   luce   cresce   per   illuminare   tutto   il   cosmo   e   tutta   la  storia.  

49.  Come  servizio  all’unità  della   fede  e  alla  sua  trasmissione   integra,   il  Signore  ha  dato  alla  Chiesa   il  dono  della  successione  apostolica.  Per  suo  tramite,  risulta  garantita  la  continuità  della  memoria  della  Chiesa   ed   è   possibile   attingere   con   certezza   alla   fonte   pura   da   cui   la   fede   sorge.   La   garanzia   della  connessione  con  l’origine  è  data  dunque  da  persone  vive,  e  ciò  corrisponde  alla  fede  viva  che  la  Chiesa  trasmette.  Essa  poggia  sulla  fedeltà  dei  testimoni  che  sono  stati  scelti  dal  Signore  per  tale  compito.  Per  questo   il   Magistero   parla   sempre   in   obbedienza   alla   Parola   originaria   su   cui   si   basa   la   fede   ed   è  affidabile   perché   si   affida   alla   Parola   che   ascolta,   custodisce   ed   espone.   Nel   discorso   di   addio   agli  anziani  di  Efeso,  a  Mileto,  raccolto  da  san  Luca  negli  Atti  degli  Apostoli,  san  Paolo  testimonia  di  aver  compiuto  l’incarico  affidatogli  dal  Signore  di  annunciare  «tutta  la  volontà  di  Dio»  (At  20,27).  È  grazie  al  Magistero   della   Chiesa   che   ci   può   arrivare   integra   questa   volontà,   e   con   essa   la   gioia   di   poterla  compiere  in  pienezza.  

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VERSO “AQUILEIA 2”: LA FEDE DEL NORD-EST

Mentre si preparano al secondo Convegno di Aquileia (12-15 aprile 2012), che a distanza di un ventennio dal primo riunirà tutte le Chiese del Nord-est per discernere il cammino percorso, i vescovi delle diocesi del Triveneto si sono interrogati su quale sia la situazione della popolazione che vive nell’Italia del Nord-est dal punto di vista della religiosità. E hanno incaricato l’Osservatorio socio-religioso triveneto di condurre un’approfondita ricerca, che viene qui descritta dal presidente dell’OSRET Alessandro Castegnaro in una rielaborazione della presentazione fatta agli stessi vescovi il 18 febbraio. Ne emerge un quadro di transizione molto rapida verso identità religiose, identità confessionali e forme di spiritualità al plurale, e verso un cattolicesimo «con meno Chiesa», che tuttavia nel Nord-est tende ancora a pensarsi, almeno per ora, come un cattolicesimo «non senza Chiesa». Con uno iato profondo rispetto alla generazione dei ventenni, ma anche con potenzialità che invocano da parte delle Chiese del Triveneto un radicale ripensamento delle forme della propria presenza e lo stile dell’azione pastorale.

In preparazione al secondo Convegno di Aquileia (cf. riquadro a p. 128) i vescovi del Triveneto hanno incaricato l’Osservatorio socio-religioso triveneto di condurre un’approfondita ricerca sulla religiosità della popolazione, che riguardasse l’intero Nord-est. L’indagine ha richiesto un notevole sforzo, sia in termini di risorse investite sia d’impegno scientifico. Essa è sicuramente la più estesa e impegnativa mai realizzata su questi temi nel Nord-est e una delle maggiori condotte in Italia. Le domande cui essa ha cercato di dare risposta possono essere così sintetizzate: – in primo luogo in che cosa credono gli abitanti del Triveneto? Che idea hanno di Dio? – in secondo luogo, che consistenza assume l’esperienza religiosa nella vita delle persone? È proprio vero che alcune predisposizioni di base rispetto alla dimensione religiosa si stanno perdendo? O piuttosto stanno crescendo nuove forme di spiritualità? – in terzo luogo, che livelli di pratica (frequenza alla messa, preghiera ecc.) caratterizzano gli abitanti del Triveneto? – in quarto luogo, come s’identificano sotto il profilo socio-religioso? Quale grado di appartenenza manifestano nei confronti della Chiesa cattolica? Quale ruolo le assegnano? Quale immagine ne hanno? Di contorno a queste, che sono le quattro dimensioni costitutive della religiosità, sono state sondate altre due aree: – quella valoriale e morale (senza pretesa di esaustività), su temi sia di morale civica sia di etica privata; – quella dell’immagine delle altre religioni, comprese nella loro relazione con quella di appartenenza. METODOLOGIA DELLA RICERCA La ricerca ha preso in considerazione una fascia della popolazione autoctona residente di età comprese fra i 18 e i 74 anni. La scelta di concentrarsi sulla popolazione autoctona deriva da due motivazioni: la prima di merito, e cioè l’interesse per descrivere i cambiamenti rispetto al passato nella religiosità delle popolazioni locali in una fase che probabilmente sarà di svolta; la seconda di tipo metodologico, derivante dalla sostanziale impossibilità di utilizzare elenchi diversi da quelli elettorali per definire il campione su cui condurre l’indagine, elenchi che come è noto escludono la popolazione immigrata. Quest’ultima considerazione spiega anche la delimitazione verso il basso (i 18 anni) che è del resto comune a tutte le indagini nazionali sulla religiosità, mentre la limitazione verso l’alto (74 anni) consente di evitare la fatica della compilazione di un questionario complesso alle persone più anziane e l’incertezza dei risultati che ne conseguono. Stante la numerosità della popolazione così definita – oltre 7 milioni di unità – si è optato per un’indagine campionaria basata su 2.500 interviste, numero massimo compatibile con le

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risorse disponibili e comunque sufficiente per consentire una rappresentatività del territorio per grandi aree. Il piano di campionamento si è realizzato a due stadi. Nel primo stadio i 1.125 comuni del Nord-est sono stati suddivisi in base a tre caratteristiche che si sono ipotizzate come rilevanti per l’oggetto della ricerca e tali da permettere una disaggregazione significativa di tipo territoriale, ovvero: – macro area geografica: sono state individuate quattro aree: Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Veneto quadrilatero «bianco» (costituito dalle province di Treviso, Padova, Verona e Vicenza) e restanti province del Veneto (Venezia, Belluno e Rovigo); – dimensione demografica, espressa dal numero di residenti (meno di 5.000; 5-15.000; 15-80.000; più di 80.000); – numero di nati da madre italiana non coniugata. Questa caratteristica è apparsa molto significativa, in quanto capace di rilevare un comportamento in passato fortemente stigmatizzato dalla tradizione locale, cristiana e non. La sua diffusione può essere considerata perciò un buon indicatore del cambiamento culturale e di secolarizzazione dei costumi. Successivamente si è realizzata l’estrazione di un certo numero di comuni per ogni strato (raggruppamento di comuni), scelta effettuata con criterio casuale e probabilità proporzionale al numero di abitanti. I comuni selezionati sono stati 108. Nel secondo stadio si è operata un’estrazione puramente casuale dei nominativi da intervistare, ricorrendo agli elenchi elettorali. Lo strumento adottato per condurre l’indagine è stato un questionario complesso formato da 92 domande a risposta chiusa, che hanno permesso di rilevare 171 variabili relative agli intervistati. La metodologia di somministrazione è stata l’auto-compilazione con consegna all’interessato, sua istruzione presso la residenza e raccolta, sempre a domicilio, dopo alcuni giorni, in modo che la compilazione potesse avvenire con la calma e la riservatezza necessarie. Non si è dunque trattato di un’intervista telefonica, come è diventato abituale. Quanto alla rappresentatività del campione, l’indagine si è svolta dal marzo al luglio del 2011 su di un campione programmato di 2.500 unità ridottosi a 2.136 a causa della necessità di non prolungare ulteriormente la fase di rilevazione, cosa che avrebbe reso indisponibili i risultati in tempi compatibili con il convegno «Aquileia 2». Si tratta comunque di un consistente tasso di copertura del numero originariamente previsto (85,4%), che non ha alterato la rappresentatività del campione. Il raffronto tra le composizioni percentuali della popolazione triveneta e quelle determinate sul campione consente di metterne in rilievo l’elevato grado di rappresentatività, che presenta un margine di errore medio dell’1,08%. QUALI DIFFERENZE TRA NORD-EST E ITALIA? A un primo sguardo il Nord-est, preso nel suo insieme, appare assai poco differenziato dal quadro nazionale sotto il profilo degli orientamenti religiosi e di valore. Non è diverso per quanto riguarda: – l’atteggiamento verso gli immigrati (2 intervistati su 10 moderatamente contrariati dalla loro presenza, molto contrariato; minoranze dunque, anche se non trascurabili); – l’approccio alle religioni diverse da quella cattolica, alle quali la grande maggioranza attribuisce il possesso di verità importanti da scoprire (3/4 degli intervistati); – i temi di morale civica, come ad esempio pagare le tasse, ottenere dallo stato benefici cui non si ha diritto, ammissibilità del lavoro nero (tutti comportamenti duramente condannati, con percentuali che vanno dall’85 al 95%); – i temi di morale privata, come: divorziare quando non si va più d’accordo, infedeltà, vivere insieme senza essere sposati, preferenza per il matrimonio religioso nel caso ci si dovesse sposare o risposare oggi (61%); – l’assunzione di droghe leggere (85% di contrari). Contrariamente a una certa immagine, dunque, sulle questioni di morale pubblica il Nord-est non appare meno accogliente e più lassista, semmai lo è di meno (ma con differenze poco significative). Su quelle di morale privata non vi è alcuna differenza davvero interessante, se non in particolari sottogruppi. Rispetto al matrimonio, ad esempio, i celibi e le nubili, che sono in prevalenza giovani, sono assai più facilmente orientati alla convivenza prematrimoniale rispetto al campione nazionale (45,6% contro il 26%).

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Se consideriamo la religiosità il panorama che emerge dalla comparazione non differisce se non per aspetti di dettaglio: – il credere nell’esistenza di Dio registra percentuali analoghe, con 2-3 punti in meno di atei-agnostici (sono il 9,3%) e qualche punto in più di credenti con sicurezza (sono il 56%); – nessuna differenza si manifesta in fatto di: credere con sicurezza che Gesù Cristo sia figlio di Dio (53,1%), convinzione che con la morte non tutto finisca (87%), credenza convinta nella risurrezione (29,8%, e si noti la differenza con la percentuale precedente); – la percentuale di cattolici nella popolazione autoctona è la stessa (84%); – la frequenza con cui si prega è solo leggermente superiore nel Nord-est (+6,5% coloro che pregano ogni giorno: sono il 39%; +4,5% coloro che pregano almeno una volta la settimana: sommati ai precedenti sono il 53,3%); – la frequenza alla messa festiva dichiarata rileva il 28,8% di praticanti assidui (tutte le domeniche) contro percentuali che vanno dal 26,5 al 30% a livello nazionale a seconda delle indagini cui ci si riferisce; il 45,6% che dice di andarci almeno una volta al mese o più, contro il 42,3-46% nel campione nazionale; – poche differenze emergono su temi come: presenza del crocifisso nelle scuole (90,4% di favorevoli), atteggiamento verso l’ora di religione (da mantenere per il 66,8%, eventualmente con variazioni), favorevoli alla possibilità per i preti di sposarsi (leggermente di più nel Nord-est: 74% contro 66% in Italia). Alcune differenze esistono, ma riguardano tematiche circoscritte e verranno riprese più avanti. La somiglianza tra Italia e Nord-est contraddice molti dei discorsi che si sono finora sentiti sulla specificità di queste regioni, discorsi che appaiono sempre più parte di un’ideologia del Nord-est o di un pregiudizio piuttosto che della sua realtà. Questa somiglianza può dare l’idea di un certo appiattimento, ma essa è il risultato di un avvicinamento del Nord-est al quadro nazionale. E quando c’è un avvicinamento, ad esempio degli indici di religiosità, dentro tendenze generali all’abbassamento (nel Nord-est come in Italia), vuol dire che il cambiamento è stato più rapido. Lo si vede anche solo esaminando la quota di intervistati che dicono di aver fatto parte in passato di gruppi religiosi: il 35% nel Nord-est contro il 20% in Italia, segno di un radicamento ben maggiore in passato del cattolicesimo. Lo si vede nella somiglianza ormai raggiunta di un insieme di comportamenti relativi al tema famiglia e gestione della sessualità. E lo si nota nei «sorpassi», che pure ci sono, come la maggior propensione dei giovani del Nordest verso la convivenza prematrimoniale rispetto a quella dichiarata dai loro coetanei italiani, come la maggior quota di matrimoni che si concludono con la separazione, come infine la maggior quota di nati da madri non coniugate, che caratterizzano il Nord-est. I TRATTI GENERALI DELLE TRASFORMAZIONI SOCIO-RELIGIOSE La ricerca ha fotografato il Nord-est in una fase che è ancora di forte mutamento del quadro socio-religioso. Si potrebbe anzi dire che con la generazione che sta ora diventando adulta si evidenzia un salto di qualità e un momento di svolta. Il mutamento in parte ha cause esogene, è effetto del fenomeno immigratorio che sta rapidamente delineando una situazione caratterizzata da pluralismo di religioni, ma ha anche – e soprattutto – cause interne. È cioè il derivato di una differenziazione e di una personalizzazione dei modi di intendere il cristianesimo-cattolicesimo e più in generale le religioni. Per quanto riguarda il pluralismo religioso «esterno», i cattolici, pur essendo maggioritari, sono ormai scesi a poco più di tre su quattro nella popolazione residente (immigrati compresi), mentre erano circa il 90% vent’anni fa, nel periodo in cui si celebrava il primo convegno di Aquileia. I dati sui battesimi confermano: l’incidenza dei battezzati in una chiesa cattolica sui nati si è ridotta tra 1989 e 2009 di 22,7 punti percentuali. Anche se ci si limita alla popolazione autoctona la riduzione non appare trascurabile (-9,2% in vent’anni). Per quanto riguarda l’evoluzione «interna», relativa cioè alla popolazione autoctona, si possono fare alcune osservazioni generali Quanto al credere (grafico 1), rimane largamente maggioritaria la credenza fondamentale nell’esistenza di Dio, ma si allargano le posizioni di incertezza, del «possibile ma non certo», del «probabile, ma non sicuro», del «mi piacerebbe, ma non so». Il livello di condivisione inoltre è molto variabile a seconda del tipo di credenza

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preso in esame: ancora alta ad esempio, anche se in flessione, quella nell’idea che Gesù Cristo sia figlio di Dio, molto meno diffusa quella nella risurrezione o il pensare l’aldilà in termini di condanna e salvezza eterni (o di paradiso e inferno). Il credere inoltre assume forme meno semplicistiche e più complesse. In tema di «Provvidenza», ad esempio, il gruppo maggioritario (43,7%) ritiene che Dio sia coinvolto nelle faccende umane, ma in modo non direttamente attivo, mentre coloro che pensano a un coinvolgimento direttamente attivo sono il 33,2%. Un secondo esempio: solo una minoranza ritiene il Vangelo del tutto attendibile (38,9%), mentre il gruppo maggioritario lo considera solo in parte attendibile (46,9%). Non pare vero che le disposizioni di base che possono dar luogo a un sentimento religioso si siano atrofizzate. Ad esempio, la grande maggioranza della popolazione (86%) sostiene di vivere numerose esperienze, durante le quali si arriva a percepire l’esistenza di qualcosa che va oltre la materialità delle cose. Continua tuttavia la flessione della frequenza alla messa (grafico 2), ma con ritmi meno intensi che in passato. Ciò non ha impedito che proseguisse l’invecchiamento delle assemblee domenicali. Il 40% dei cattolici assidui tra 18 e 74 anni ha superato i 60 anni. La pratica della preghiera (grafico 3), pur anch’essa in flessione, rimane assai più estesa di quella alla messa (39,1% quella giornaliera, + 14,2% quella settimanale). Negli ultimi anni nel Nord-est, così come a livello nazionale, si è sviluppato un atteggiamento maggiormente critico nei confronti della Chiesa cattolica. I cattolici senza riserve sono nella popolazione autoctona una minoranza (19%); un altro 35% vi aderisce con qualche riserva. La Chiesa viene spesso sentita come lontana (52,3%) e severa (44,4%), più un’istituzione (44%) che una comunità. Il saldo tra avvicinati e allontanati è negativo in tutte le classi di età, salvo che tra gli anziani. Le critiche maggiori vertono su: la distanza avvertita tra ciò che dicono papa e vescovi e ciò che la gente vive (70%), il modo in cui essa usa i suoi beni (66,1%), il modo in cui concepisce la morale sessuale (65%), il modo in cui interviene nelle decisioni politiche (56,1%). Si manifesta una forte spinta all’autonomia delle scelte in campo morale rispetto a quanto sostenuto dal magistero della Chiesa (grafico 4). È la coscienza individuale in primo piano quando si tratta di distinguere ciò che è bene da ciò che è male (84,3%) e in secondo luogo la legge di Dio (66,1%), mentre papa e vescovi vengono indicati solamente dal 32,4% degli intervistati. Da un lato si mette in questione la mediazione della Chiesa, vissuta come troppo invasiva e tale da sostituirsi alla coscienza personale: quasi il 60% degli intervistati pensa che si possa essere buoni cattolici anche senza seguire le indicazioni dei vescovi sulle questioni sociali, e circa due terzi degli intervistati pensano la stessa cosa rispetto alla morale sessuale, senza differenze apprezzabili con quanto pensano gli italiani. Colpisce invece il fatto che nel Nord-est il giudizio sulla confessione risulta essere più pesante rispetto a quello espresso a livello nazionale, e che la sua pratica almeno annuale qui coinvolga solo il 35,3% (e il 41% dei cattolici) contro il 44% in Italia (e il 49% dei cattolici). Dall’altro lato però, e questa è una seconda specificità, qui si avverte più che a livello nazionale il bisogno di un riferimento di Chiesa e di una religione a cui legare la propria ricerca spirituale: l’idea che si possa vivere la propria vita spirituale anche senza avere a che fare con una religione trova d’accordo solo la metà delle popolazioni del Nord-est contro l’81% a livello nazionale; l’affermazione «non c’è bisogno dei preti e della Chiesa, ognuno può intendersela da solo con Dio» trova qui consensi nel 33,8%, mentre a livello nazionale si raggiunge il 45,2%. In sintesi potremmo dire che molte persone, probabilmente la maggioranza: – rispetto al credere, più che essere incredule o indifferenti o chiuse verso la dimensione trascendente vivono una situazione di contrasto tra il desiderio di credere e la difficoltà a trovare ragioni del credere, tra la nostalgia per la pienezza che viene associata al credo religioso e l’attrazione per letture immanentistiche, che appaiono più ragionevoli e «adulte»; – rispetto al rapporto con la Chiesa vivono di nuovo il contrasto tra il bisogno avvertito di potersi riconoscere in una tradizione religiosa e in una realtà credente e il contemporaneo bisogno di rimanere distinti, di conservare una propria autonomia e di sperimentare percorsi di ricerca propri (grafico 5). È come se si stesse andando verso un

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cattolicesimo con-poca-Chiesa, ma che vorrebbe nello stesso tempo essere non-senza-Chiesa. IL «SALTO» CON L’ULTIMA GENERAZIONE L’analisi per classi di età evidenzia la rapidità con cui si manifesta il mutamento della religiosità con l’ultima generazione (cf. tabella). Da questo punto di vista si può dire che la ricerca ha intercettato il Nord-est in un momento di svolta. Com’è noto gli indicatori di religiosità danno risultati più alti tra le persone anziane. Tra le età intermedie (30-44 e 45-59) le differenze che emergono dalla ricerca sono poco significativ, prevale la stabilità. Mentre invece si notano variazioni notevoli e in questa misura inaspettate tra le età di mezzo e i giovani (18-29). Rispetto a chi ha tra 45 e 59 anni gli interessati alle cerimonie religiose si dimezzano, e così vale per la pratica e la preghiera. La somma di coloro che sentono di appartenere alla Chiesa cattolica senza alcuna riserva e di quelli che vi appartengono con qualche riserva passa dal 55% al 30%. I cattolici «a modo mio» diventano il 39%. Coloro che sentono di essere del tutto estranei alla parrocchia passano dal 26,4% al 42,7%. I giudizi critici verso la Chiesa cattolica passano dal 40,5% al 61%. La convinzione che il testo del Vangelo sia del tutto attendibile passa dal 43,3% al 17,4%; la condivisione totale del messaggio morale e spirituale di Gesù dal 61,8% al 38,3%. L’insieme costituito da coloro che esprimono un giudizio negativo sulla Chiesa cattolica e/o dichiarano di esserne più lontani di qualche anno addietro passa dal 34,6% e al 69,6% dei giovanissimi. Un’analisi più raffinata, condotta tra chi ha un’età compresa tra 18 e 26 anni, che possiamo considerare cioè «figli», e chi una compresa tra 48 e 56, che possiamo ritenere come «genitori », dice in sostanza che tutti gli indici di religiosità non solamente diminuiscono, ma si dimezzano. E ciò interessa tutte le dimensioni della religiosità. Se tuttavia si esaminano l’interesse per la dimensione spirituale, il saldo tra chi avverte una crescita e chi una diminuzione in questo campo e la frequenza con cui si vivono esperienze che fanno percepire l’esistenza di «altro» al di là del tangibile, le differenze tra le generazioni si annullano. In altre parole, se abbandoniamo il lessico del religioso e passiamo a quello dello spirituale i risultati cambiano, e di molto. C’è in sostanza un distacco in atto di una parte non trascurabile del mondo giovanile dall’universo religioso che la Chiesa cattolica rappresenta e questo distacco, pratico ancor prima che spirituale (pochi giovani oggi, ricevuta la cresima, frequentano la parrocchia), comincia a manifestare i suoi effetti anche sul modo in cui ci si relaziona con la figura di Gesù Cristo. Si tratta tuttavia di un distacco che non sembra essere la diretta conseguenza di una corrispondente e radicale afasia spirituale (grafico 6, 8). UOMINI E DONNE Molti dei mutamenti appena descritti riguardano sia gli uomini sia le donne, ma le modificazioni sono assai più evidenti lungo la linea femminile, tanto che buona parte delle trasformazioni avvenute sono da attribuirsi a un mutamento di atteggiamento delle donne. Le tradizionali differenze di religiosità legate al genere si stanno perciò attenuando fino a quasi scomparire, in particolare per quanto riguarda la pratica religiosa e il rapporto con la Chiesa. Le donne nate intorno al 1940 che attribuivano «molta» importanza alla religione erano, secondo i loro figli e figlie, più del 50%, mentre gli uomini erano solamente il 26%; oggi le ragazze nate attorno al 1990 che assegnano molta importanza alla religione sono il 14,5% contro il non molto diverso 11,6% dei loro coetanei. Diversamente dagli uomini, gli indici di religiosità manifestano una «gobba» tra le donne in corrispondenza dell’età 39-45, che corrisponde al periodo in cui i figli vengono avviati al percorso di iniziazione cristiana. Ma non si tratta di una ripresa stabile: quando i figli crescono gli indici diminuiscono, riportandosi su livelli simili a quelli dell’età precedente (32-38). L’avvicinamento tra uomini e donne c’è, ma è meno avvertibile sul piano del sentimento religioso (le ragazze continuano a pregare più dei ragazzi: 45,3% almeno qualche volta al mese, contro 29,3% dei loro coetanei) e in parte per il credere, ma non per tutti i tipi di credenze: l’interesse per la figura di Gesù continua a essere in una certa misura maggiore tra le ragazze, mentre la fede nella risurrezione le distingue assai poco dai

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ragazzi (18,9% di convinte contro 14,2%). C’è da osservare, inoltre, che mentre tra gli uomini la disaffezione dal modello di religione che con Luckmann potremmo chiamare «di Chiesa» non appare dipendere in maniera chiara dai livelli di scolarizzazione, tra le donne invece il legame è evidente. Le donne più scolarizzate sono tendenzialmente più autonome e più critiche nei confronti della Chiesa cattolica dei loro coetanei: i giudizi critici tra le laureate giungono a coinvolgerne il 58%, contro il 48% dei laureati (grafici 7, 9, 10 e 11). Nello stesso tempo le donne laureate sono quelle spiritualmente più dinamiche (il saldo tra chi dichiara una crescita e chi una diminuzione dell’interesse spirituale è pari al +37,6% contro un +17,7% dei laureati). Le donne con scolarizzazione superiore sono il 37% tra chi dichiara di aderire alla Chiesa cattolica senza riserve, mentre sono il 55,6% tra le cattoliche «a modo mio» e l’80,6% tra le «senza appartenenza religiosa». In estrema sintesi si potrebbe dire che la Chiesa cattolica manifesta difficoltà di rapporto con i giovani e le donne di una certa cultura. Il fatto che i mutamenti in corso interessino soprattutto le donne è la principale ragione per cui si è portati a pensare che i tradizionali «riavvicinamenti», nelle successive età della vita, saranno da qui in avanti meno numerosi che in passato e che i cambiamenti si riverbereranno sulle generazioni successive. La comunicazione della religione essendo sempre stata, nella realtà italiana e nordestina, un compito eminentemente femminile. INSEGNAMENTI DELLA CHIESA E ORIENTAMENTI DELLA POPOLAZIONE Le trasformazioni descritte possono essere interpretate come il risultato dell’avanzare di quei processi di secolarizzazione che hanno interessato molte nazioni, soprattutto europee, e che si erano già manifestati con più forza in altre parti d’Italia. Oggi sappiamo che essi non implicavano un’eclissi della religione e un’atrofizzazione della domanda spirituale, ma innanzitutto un’individualizzazione-personalizzazione del credere che costituisce una sfida per tutte le Chiese. Tali trasformazioni in qualche misura indicano però una difficoltà della Chiesa cattolica a entrare in sintonia, o quanto meno a confrontarsi positivamente, con le nuove sensibilità culturali e le nuove domande spirituali. Uno degli interrogativi che stanno facendo da filo rosso alle riflessioni in preparazione del convegno «Aquileia 2» riguarda proprio la misura in cui le difficoltà attualmente incontrate anche dalle Chiese del Nord-Est dipendano da un processo in sostanza non influenzabile (la secolarizzazione) o quanto invece pesino alcuni limiti della stessa proposta ecclesiale. La ricerca ha inteso contribuire a rispondere a questa domanda anche studiando gli orientamenti espressi dalla popolazione e dai cattolici ecclesialmente impegnati su una serie di temi di grande interesse. Non è possibile parlarne diffusamente in questa sede. Riassumeremo qui a grandi linee gli atteggiamenti espressi su di un solo tema, quello della famiglia e della sessualità (cf. grafici 12 e 13). Le popolazioni del Nord-est attribuiscono grande valore alla famiglia, sia sul piano simbolico, sia come rete protettiva. In questo sostengono che l’insegnamento della Chiesa cattolica conti (39% abbastanza e 40% molto). Esse pensano ancora che «quando ci si sposa è per sempre» (34% abbastanza e 47% molto d’accordo). E sono anche convinte che sia grave avere una relazione con un’altra persona quando si è impegnati in una vita di coppia (66,5% molto e 26,7% abbastanza grave). Esse pensano tuttavia che divorziare quando non si va più d’accordo non sia un fatto grave (61% poco o niente); e dicono che l’insegnamento della Chiesa su questo non conta molto (23% per niente e 29% poco). Per metà pensano che per formare una nuova famiglia sia necessario il matrimonio (51%) e per metà che basti volersi bene e vivere insieme (49%). In ogni caso non considerano disdicevole la convivenza (79% poco o per niente grave). Ritengono infine sia normale che i giovani possano avere esperienze sessuali prima del matrimonio (73% abbastanza + molto d’accordo). E riconoscono che per quanto riguarda il tema sessualità, rapporti prematrimoniali e contraccezione la Chiesa conti assai poco (per niente 27,3% e poco 37,5%). Se consideriamo i cattolici impegnati (intesi qui come coloro che frequentano stabilmente o saltuariamente un qualche gruppo religioso), quelli con meno di 45 anni, per cogliere la prospettiva verso cui si sta andando, notiamo che essi sono in maggioranza ancora convinti che divorziare sia un fatto grave (ma il 43% non lo ritiene più); pensano di

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nuovo in maggioranza che per formare una nuova famiglia sia necessario il matrimonio (ma il 39% non lo ritiene necessario se due persone si amano); in ogni caso non considerano disdicevole la convivenza, e in proporzioni non molto diverse dalla popolazione nel suo insieme (71% poco o per nulla grave). Essi infine pensano sia normale che i giovani possano avere esperienze sessuali prima del matrimonio, tanto quanto gli altri (69% abbastanza + molto d’accordo). Se consideriamo un tema come l’eutanasia, intesa come «decisione di porre fine alla propria vita quando si è affetti da una malattia incurabile», i giudizi si fanno più guardinghi. Gli intervistati nel loro insieme la ritengono in maggioranza un fatto abbastanza (25,1%) o molto grave (30,9%), mentre i cattolici impegnati ne danno un giudizio più severo (32,7% abbastanza, 42,1% molto grave). Trattandosi di una prassi che entra in conflitto contro uno dei principi che il magistero considera «non negoziabili», ci si attenderebbe però da questi ultimi un giudizio ben più rigoroso. In effetti solo una minoranza di loro esprime una valutazione sull’eutanasia corrispondente alla «non negoziabilità». Mediamente la si ritiene una scelta «abbastanza» grave e, in un elenco di 13 comportamenti rispetto a cui si è chiesto di esprimere la valutazione di gravità, essa viene collocata solo al decimo posto, a notevole distanza da una condotta come «fare uso di droghe leggere» e poco al di sopra di «acquistare beni del tutto superflui». In sostanza, su questioni di grande rilievo per la vita delle persone si manifesta una notevole distanza tra alcuni aspetti dell’insegnamento della Chiesa cattolica e non solamente gli orientamenti della popolazione nel suo insieme, ma anche le sensibilità di parti maggioritarie o comunque non trascurabili di cattolici impegnati. O non si condividono certi contenuti, o il modo in cui essi vengono pensati e verrebbero proposti è profondamente diverso. La spinta all’autonomia del giudizio morale, già sottolineata in precedenza a proposito della popolazione nel suo insieme, si manifesta del resto anche tra i cattolici impegnati: quasi la metà di essi, il 47,2% di chi – avendo meno di 45 anni – frequenta un gruppo religioso e il 49,5% di chi – nella stessa età – va a messa assiduamente, pare non riconoscere a papa e vescovi la possibilità di «indicare che cosa è male»; essendo questo un compito attribuito alla coscienza individuale (89%), in rapporto diretto e personale con la legge di Dio (85,6%). Non sorprende dunque costatare che i cattolici impegnati i quali affermano che a far problema della Chiesa cattolica è «la distanza tra ciò che dicono papa e vescovi e ciò che la gente vive» siano in proporzioni solo di poco inferiori alla popolazione nel suo insieme (60 contro 70%). Che un fossato fosse andato delineandosi tra coscienza e magistero è cosa che alcuni sostengono da tempo, ma che per lo più finora era sfuggita alle rilevazioni, perché ci si era limitati a sottolineare le opinioni della popolazione nel suo complesso, cosa che di per sé non può essere ritenuta dirimente. Ben diverse e più stringenti sono le implicazioni di uno iato che tende a manifestarsi con le sensibilità di parti rilevanti dei cattolici attivi. Tutto questo non spiega da solo il distacco in corso, in particolare in quella parte della popolazione – i giovani – che di più vive molte delle problematiche qui riprese, ma non può nemmeno essere considerato irrilevante. PROSPETTIVE, SPAZI, RISORSE, POTENZIALITÀ Come si è detto, la ricerca ha colto una fase di accentuata trasformazione del profilo religioso del Nord-est, testimoniata dalla discontinuità che da questo punto di vista caratterizza la generazione in ingresso nella vita adulta. Si sta andando verso identità religiose, identità confessionali e forme di spiritualità al plurale e dunque: – verso una cultura della libertà religiosa, intesa sia come libertà di religione, sia come libertà nella religione; – verso un cattolicesimo «con meno Chiesa», che tuttavia nel Nord-est tende ancora a pensarsi, almeno per ora, come un cattolicesimo «non senza Chiesa». Queste trasformazioni sollecitano le Chiese del Triveneto a ripensare le forme della propria presenza e lo stile dell’azione pastorale. Vi è oggi al loro interno una diffusa consapevolezza che occorre orientarsi verso una maggiore disponibilità all’ascolto e alla vicinanza con quanto le popolazioni del Nord-est vivono e soffrono. Il quadro che emerge dall’indagine, caratterizzato dalla transizione verso nuove forme di

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religiosità, non induce ancora a pensare a esiti predeterminati. Vi sono al contrario ragioni per ritenere che gli spazi per una crescita spirituale e religiosa non siano chiusi, che qui nel Nord-est siano anzi più aperti che altrove e che le Chiese abbiano qui energie e potenzialità migliori. Dal punto di vista valoriale non vi sono ragioni vere per ritenere che ogni riferimento a criteri di valutazione dell’agire morale sia venuto meno, come qualche volta si sostiene. Al contrario, dei criteri esistono e, pur con modificazioni nei modi di intenderli e di applicarli, si trasmettono attraverso le generazioni. Il presente e il futuro non è fatto solo di individualismo, un orientamento che certo esiste, ma di persone che cercano di definire un proprio percorso di vita e una propria identità, anche religiosa, cui è giusto guardare con rispetto e «simpatia». Sotto questo profilo il Nord-est non pare essere né migliore, né peggiore del paese nel suo insieme. Dal punto di vista della religiosità l’incertezza del credere, pur estesa, non significa chiusura rispetto a una prospettiva trascendente. Come si è detto, il Nord-est non è fatto di increduli e indifferenti, ma di persone «che vivono il contrasto», tra credere e non credere, tra bisogno di appartenenza e desiderio di autonomia. Emergono inoltre nuovi spazi di spiritualità, diversi da quelli che hanno caratterizzato il passato, ma dinamici e interessanti. Vi è un’ampia area di persone che pregano quotidianamente o almeno settimanalmente, anche se non praticano in modo assiduo (i «quotidianamente, non assidui» sono il 17,8% della popolazione, i «settimanalmente» sono il 9,3%). Se è vero che diminuiscono le persone che si definiscono «religiose», sono in aumento quelle che si definiscono «spirituali anche se non religiose». Da una generazione all’altra questo è il gruppo che cresce di più: dal 4% di chi ha più di 60 anni al 19% dei giovani (grafico 6). Vi è cioè una forte domanda spirituale che si manifesta in forme nuove e ha bisogno di essere interpretata (grafico 8). Le domande incentrate sul bisogno di ricevere istruzioni vincolanti in base a cui orientare la vita da un punto di vista etico perdono di rilievo rispetto a quelle incentrate sul bisogno di condurre una vita realizzata, armoniosa, spiritualmente significativa, di non perdere e di trovare sé stessi. In ciò pesa anche il fatto che le persone sono molto gelose della propria autonomia – non a caso il rispetto dell’altro è professato come il valore più grande oggi –, ed è a questa condizione che esse accettano di interloquire con una proposta di salvezza intesa in senso anche religioso. Le Chiese del Triveneto inoltre possono contare da un lato sul fatto, più volte ricordato, che si fa più fatica qui nel Nord-est a pensare alla propria vita spirituale in assenza di qualsiasi riferimento di Chiesa, dall’altro possono fare leva su alcune importanti risorse interne. – Un clero qui ancora numeroso, nonostante il calo, certamente affaticato, ma radicato, capace di capire quello che la gente vive, socialmente riconosciuto. Dall’indagine emerge che i parroci sono conosciuti dalla grande maggioranza della popolazione: un quarto circa (25,4%) conosce bene il proprio; più della metà ha rapporti verbali con lui (57%), solo il 12,7% non sa chi sia; – Una parrocchia meno centrale di un tempo, certamente più in difficoltà, ma ancora valutata positivamente da molti, anche quando vi appartengono poco. Il giudizio sulla vivacità della parrocchia è infatti positivo: solo il 23,2% tra chi è in grado di esprimere un giudizio perché la conosce la considera «spenta» e non viva. Meno lusinghiero quello sulla sua capacità di offrire stimoli per la vita morale e spirituale. Quasi la metà ritiene che essa non offra mai o solo poche volte stimoli importanti per la propria vita morale e spirituale. Si potrebbe dire che la parrocchia è più vitale dal punto di vista sociale-relazionale che dal punto di vista della capacità di interloquire con la domanda spirituale attuale. Questa è una delle sfide più importanti che le Chiese del Nord-est si troveranno ad affrontare nei prossimi anni. – Una partecipazione estesa a gruppi religiosi (soprattutto parrocchiali, di associazioni e di volontariato; meno incidenti da un punto di vista quantitativo sono nel Nord-est i movimenti religiosi). La partecipazione ai gruppi religiosi coinvolge una quota notevole della popolazione (12%),superiore a quella italiana.

Alessandro Castegnaro

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