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DOTTRINA LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZA CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO Direttore Responsabile Dott. MARIO NOLA Comitato di Redazione Avv. CLAUDIO BERLIRI Prof. Avv. IVO CARACCIOLI Prof. Avv. VALERIO FICARI Dott. ROBERTO LUNELLI Prof. Avv. GIANNI MARONGIU Prof. Avv. FRANCO PAPARELLA Prof. Avv. GAETANO RAGUCCI Prof. Avv. FRANCESCO TESAURO Prof. Avv. MARCO VERSIGLIONI Segreteria e Redazione Via Cosimo del Fante, 16 - 20122 Milano Tel. 02.58310288 - Fax 02.58310285 e-mail: [email protected] sito internet: www.associazionetributaristi.it Anno V n. 1/ 2012 Periodico Quadrimestrale Registrato presso il Tribunale di Milano il 24/4/2008 con il n. 266 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1, Comma 2 - DCB Roma Service Provider: Register.it - Viale Giovine Italia, 17 - Firenze sito internet: www.associazionetributaristi.it Autorizz. Ministero delle Telecomunicazioni n. 243 del 28/01/1997 Impaginazione e Stampa Istituto Arti Grafiche Mengarelli Via Cicerone, 28 - 00193 Roma PERIODICO UFFICIALE DELL’A.N.T.I. – ASSOCIAZIONE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI

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DOTTRINA•

LEGISLAZIONE•

GIURISPRUDENZA•

CONVEGNI EDATTIVITÀ ANTI

LA RIFORMADELL’ORDINAMENTO

TRIBUTARIO

Direttore Responsabile

Dott. MARIO NOLA

Comitato di Redazione

Avv. CLAUDIO BERLIRI

Prof. Avv. IVO CARACCIOLI

Prof. Avv. VALERIO FICARI

Dott. ROBERTO LUNELLI

Prof. Avv. GIANNI MARONGIU

Prof. Avv. FRANCO PAPARELLA

Prof. Avv. GAETANO RAGUCCI

Prof. Avv. FRANCESCO TESAURO

Prof. Avv. MARCO VERSIGLIONI

Segreteria e RedazioneVia Cosimo del Fante, 16 - 20122 Milano

Tel. 02.58310288 - Fax 02.58310285e-mail: [email protected]

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Anno V • n. 1/ 2012

Periodico QuadrimestraleRegistrato presso il Tribunale di Milano

il 24/4/2008 con il n. 266

Poste Italiane S.p.A.Spedizione in abbonamento postale

D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/2004 n. 46)Art. 1, Comma 2 - DCB Roma

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n. 243 del 28/01/1997

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PERIODICO UFFICIALE DELL’A.N.T.I. – ASSOCIAZIONE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI

Neotera 112 COP pdf:Neotera 26-03-2012 17:18 Pagina I

ANTI - CONSIGLIO NAZIONALE

PRESIDENTE

Prof. Dott. Mario BOIDI, Torino

VICE PRESIDENTI

Avv. Claudio BERLIRI, RomaProf. Avv. Vito BRANCA, CataniaDOTT. ROBERTO LUNELLI, Udine

SEGRETARIO GENERALE

Avv. Giuseppe SERA, Napoli

VICE SEGRETARIO GENERALE

Dott. Massimo CONIGLIARO, Siracusa

TESORIERE

Gr. Uff. Rag. Giuseppe Antonio BARRANCO DI VALDIVIESO, Milano

CONSIGLIERI NAZIONALI (PRESIDENTI DI SEZIONE)

Dott. Riccardo ALBO Presidente Sezione Marche-AbruzzoProf. Avv. Vito BRANCA Presidente Sezione Sicilia OrientaleDott. Cosimo CAFAGNA Presidente Sezione PugliaDott. Carlo DEIDDA GAGLIARDO Presidente Sezione SardegnaProf. Avv. Gianfranco GAFFURI Presidente Sezione LombardiaAvv. Salvatore IANNELLO Presidente Sezione Sicilia OccidentaleAvv. Pasquale IMPROTA Presidente Sezione CampaniaDott. Roberto LUNELLI Presidente Sezione Friuli Venezia GiuliaProf. Avv. Gianni MARONGIU Presidente Sezione LiguriaAvv. Mario MARTELLI Presidente Sezione Emilia RomagnaProf. Avv. Francesco MOSCHETTI Presidente Sezione Veneto-Trentino Alto AdigeProf. Dott. Umberto PLATÌ Presidente Sezione CalabriaProf. Avv. Gaetano RAGUCCI Presidente Sezione Provinciale ComoDott. Ernesto RAMOJNO Presidente Sezione Piemonte-Valle d’AostaProf. Dott. Francesco ROSSI RAGAZZI Presidente Sezione LazioProf. Dott. Enrico FAZZINI Presidente Sezione ToscanaProf. Avv. Marco VERSIGLIONI Presidente Sezione Umbria

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Sommario

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO

“Perché questa scelta e perché questo tema” di Claudio Berliri 2

DOTTRINA

• Dallo Statuto Albertino allo … Statuto del contribuente 3

di Gianni Marongiu

• Verso quale direzione si muove il sistema fiscale federalista? 12

di Franco Gallo

• Nuove prospettive dell’accertamento tributario 17

di Augusto Fantozzi

• Le origini storiche dei principi di giustizia tributaria (uguaglianza e capacità contributiva) 25codificati negli artt. 24 e 25 dello Statuto Albertino

di Gaspare Falsitta

• La crisi nella produzione delle norme tributarie: soluzioni auspicabili e interventi possibili 31

di Massimo Basilavecchia

• Progetto di codice tributario 36

di Roberto Lunelli

• Audizione Anti presso Commissione Finanze del Senato 38

Relazione del Presidente ANTI prof. Mario Boidi

CONVEGNI ED ATTIVITÀ ANTI

43

PERCHÉ QUESTA SCELTA PERCHÉ QUESTO TEMA

La riforma dell’ordinamento tributario è un problema di grande attualità che forma og-

getto di studi, ricerche e proposte a tutti i livelli. Il nostro sistema tributario è divenuto

talmente farraginoso, complesso, in continua evoluzione limitata ai più diversi e specifici aspetti

impositivi, che ormai neanche gli addetti ai lavori sono in grado di dominare la materia.

Ed a rendere sempre più incerto il quadro complessivo, concorrono in egual misura il legislatore,

la giurisprudenza troppe volte oscillante e contraddittoria, e la stessa Amministrazione finanziaria.

L’ANTI, profondamente convinta della assoluta necessità di una riforma dell’ordinamento

tributario, di una semplificazione del sistema e di un maggior coordinamento dei vari tributi, ha

tenuto a Torino, nel novembre del 2011 in occasione del XXXI Congresso Nazionale un conve-

gno, dal titolo “La riforma dell’ordinamento tributario”, al quale hanno partecipato, in qualità di

relatori, alcuni tra i più qualificati esponenti del mondo tributario: il prof. Franco Gallo, giudice

della Corte Costituzionale, il prof. Augusto Fantozzi, ex Ministro delle Finanze, il prof. Gianni

Marongiu, il prof. Gaspare Falsitta, il prof. Massimo Basilavecchia.

È seguita una tavola rotonda che ha ulteriormente dibattuto i temi già svolti in mattinata ed

alla quale hanno partecipato – coordinati dal dott. Criscione, giornalista de Il Sole 24 Ore – gli

On.li Leo e Strizzolo, il dott. Betunio, alto dirigente dell’Agenzia delle Entrate, il dott. D’Im-

perio, consigliere nazionale dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili,

il prof. Manzitti, Responsabile del Progetto Fisco di Confindustria, l’avv. Vacca, Condirettore

dell’Assonime, il dott. Ferroni, Direttore Affari Fiscali e Societari della Ferrero S.p.A., il dott.

Lunelli ed il sottoscritto, Vicepresidenti dell’ANTI.

Successivamente a tale convegno – che ha riscosso notevole attenzione sulla stampa nazionale –

l’ANTI è stata invitata in audizione dalla Commissione Finanze del Senato sul tema della riforma

dell’ordinamento tributario, e la relazione è stata svolta dal Presidente dell’ANTI prof. Mario Boidi.

Ci è quindi sembrato opportuno dedicare al tema della Riforma del Diritto Tributario que-

sto numero di che contiene le relazioni dei cinque relatori al convegno dell’AN-

TI, un progetto di codice tributario del dott. Lunelli, e la Relazione del prof. Boidi alla Com-

missione Finanze del Senato.

Come sempre il numero riporta l’elenco dei più recenti convegni organizzati dalle varie Sezio-

ni dell’ANTI; mancano invece le rubriche relative alla legislazione ed alle circolari ministeriali,

nonché alla giurisprudenza più recente relativa al tema oggetto di .

Trattandosi infatti di un tema concernente non già la normativa vigente, bensì le prospettive

de jure condendo, non esiste in proposito né legislazione né giurisprudenza, ma solo la dottrina

dei proponenti, e i contributi al legislatore, riportati nelle pagine seguenti.

Claudio Berliri

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 3

Abstract

In occasione del 150° anniversario dell’unità d’Ita-lia si registrano luci e ombre sull’orizzonte fiscale.

Quanto alle prime v’è da registrare il largo con-senso che lo Statuto dei diritti del contribuente ha avuto e ha tra gli studiosi, nonché la sua quotidia-na applicazione da parte della Corte di Cassazione e delle Commissioni tributarie.

Di contro, il governo legislatore lo vive con enorme fastidio e ne fa strame: lo Statuto sancisce la eccezionalità delle norme interpretative e chi confeziona le leggi ne detta a man salva; il primo indica la irretroattività della legge come un princi-pio generale e il secondo continuamente deroga un precetto posto a garanzia della certezza del diritto; il primo cerca di contenere l’uso del decreto-legge in ambiti fisiologici e il secondo ne abusa quotidia-namente.

E proprio l’abuso del decreto-legge, ampiamen-te illustrato in questo lavoro, stravolge consolidati assetti istituzionali, creando un soggetto nuovo il burocrate-legislatore che viola l’art. 77 della Costi-tuzione, mortifica il ruolo del Parlamento e vanifica il plurisecolare principio del necessario consenso per la imposizione dei tributi.

Sommario

1. 1911: l’Italia libera, unita e settima potenza in-dustriale. 2. 1961: l’Italia repubblicana lanciata nel “boom” economico e socio fondatore della Comunità europea. 3. 2011: l’Italia stretta tra il grande debito e l’arresto della crescita. 4. Uno sguardo alla realtà econo-mica e l’abbandono di alcuni principi di equità fiscale. 5. Le leggi tributarie e le continue e immotivate deroghe allo Statuto del contribuente: in particolare l’abuso del decreto-legge. 6. La “naturale”arbitrarietà di qualsiasi tributo e la imprescindibile necessità del consenso. 7. L’abuso del decreto-legge e la rottura del delicato equi-

1 Testo della relazione tenuta a Torino l’11 novembre 2011 in occasione del congresso nazionale dell’A.N.T.I.

librio tra Parlamento e governo. 8. La cancellazione e/o la istituzione di alcuni importanti tributi affidata allo strumento, improprio, del decreto-legge: la reazione della giurisprudenza con riguardo alla “Robin tax”. 9. Lo stravolgimento anche di alcune discipline relative alle sanzioni, all’accertamento e alla riscossione. 10. Le conseguenti anomalie nelle concrete applicazioni. 11. Il pericolo della burocratizzazione dell’ordinamento tribu-tario nelle riflessioni della dottrina e della giurispruden-za della Corte di Cassazione. 12. Il necessario, generale rispetto del c.d. “patriottismo costituzionale”.

1. La relazione è intitolata, non a caso, dallo “Statuto albertino allo statuto del contribuente” perché, con il primo richiamo, ho inteso ricordare che il Regno di Sardegna fu l’unico Stato ad avere, dal 1848 al 1860, una Costituzione, uno statuto la cui vigenza lo rendeva simile ai pochi Stati liberali europei e che garantiva tutti i diritti di libertà e un governo parlamentare seppure a suffragio ristretto.

Scriverà la suocera di Richard Wagner, Maria d’Agoult, (nome de plume Daniel Stern) l’autri-ce della fondamentale “Storia della rivoluzione del 1848” che “una seduta del parlamento subalpino era spettacolo indimenticabile per competenza e per al-tezza di ingegno dei Deputati”: ed è difficile credere che quella grande intellettuale fosse stata assoldata da Cavour, cui l’Italia deve tanto e che non sarà mai suf-ficientemente lodato.

Ecco perché la prima capitale d’Italia fu Torino cit-tà nella quale nel marzo 1861 una Nazione che esisteva da secoli (per dirla con le parole di Luigi Salvatorelli) trovò, per la prima volta, uno Stato libero, indipen-dente e unito, per dirla con le parole del napoletano Benedetto Croce.

Ma questo Stato bisognava crearlo e le difficoltà po-litiche, economiche e sociali erano enormi.

Non a caso il 17 marzo 1861 Vittorio Emanuele II, salutando i Deputati e i Senatori, disse, con parole mi-surate e prudenti: “Affido alle vostre mani l’Italia libera e unita quasi tutta”.

Evidentemente quelle mani furono esperte (come non ricordare qui due grandi ministri delle finanze, Quintino Sella e Marco Minghetti e un presidente del

Dallo Statuto albertinoallo Statuto del contribuente*1

di Gianni Marongiu

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 4

Consiglio quale Giovanni Giolitti che guidò l’Italia dal 1901 al 1914)2 se l’Italia che nel 1861 era un paese po-vero, largamente analfabeta, sostanzialmente agricolo, definito nelle cancellerie europee un “cadavere finan-ziario”, nel 1911 vedeva consolidato lo Stato unitario, allargata la base democratica e guadagnata una rapida modernizzazione anche attraverso la industrializzazione.

Con la vittoria nella prima guerra mondiale l’Italia liberale poteva dire di avere fatto bene la propria parte.

Non così può dirsi della successiva esperienza fascista se non altro perché, in esito a una guerra disastrosa e in nome di un velleitario imperialismo, riuscì a perdere preziose parti d’Italia.

* * *

2. Dopo la seconda guerra mondiale le scelte politiche furono felici: la Repubblica, la Costituzione, l’ammis-sione alle Nazioni Unite e alla Nato, la fondazione della Comunità economica europea,l’entrata in funzione del-la Corte costituzionale.

Altrettanto opportune furono le scelte economiche (in primis l’uscita dall’ autarchia e l’apertura ai mercati internazionali) che diedero l’abbrivio a una larga cresci-ta economica.

Tra il 1950 e il 1973 il reddito per abitante, che au-mentò in media del 5,3% l’anno, passò dal 38 al 64% di quello statunitense.

E non possono certo sottacersi le importanti novità ri-formatrici volute da quel grande ministro delle finanze che fu il prof. Ezio Vanoni, la introduzione della dichiarazione dei redditi unica, annuale e obbligatoria, l’istituzione di un moderno tributo sulle società (1954) e la redazione del testo unico delle imposte dirette del 1958: certo in quel momento Vanoni era già morto (morì tragicamente nel 1956) ma il progetto e l’impianto erano a lui attribuibili.

E nell’anno 1961 (centesimo anniversario dell’unità d’Italia) era tutto un fiorire di studi e di iniziative che, attraverso l’opera soprattutto del prof. Cosciani (mi ri-ferisco a quel prezioso volume edito da Giuffrè nel 1964 con il titolo “Stato dei lavori della Commissione per la riforma tributaria), culminarono nella legge delega del 1971: questa, sì, una vera legge-delega che, nel pieno ri-spetto dell’art. 76 della Costituzione, indicava i principi e i criteri direttivi per la voluta riforma dell’ordinamento tributario italiano.

* * *

2 In questi anni il prodotto interno lordo (a prezzi costanti in miliardi di lire 1938) salì da 74,9 miliardi a 95 e il reddito annuo pro capite ( sempre in lire 1938) aumentò da 1.906 lire a 2.259.

3. La crescita rallentò negli anni 70 e 80 ma restò più elevata di quella dei Paesi avanzati: nel 1990 il Pil per abitante raggiunse il 76% di quello statunitense, il pro-dotto per ora lavorata addirittura l’86 per cento.

La lunga rincorsa dell’Italia si ferma attorno al 1991. Inizia allora un processo ventennale di “divergenza” che riporta il nostro reddito pro capite al 64% di quello sta-tunitense. Va in fumo tutta la faticosa rincorsa compiuta a partire dal 1973.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso, la crescita, pur rallentata all’1,7% annuo, fu superiore a quella di Germania e Giappone ma l’alba del ventunesimo secolo è stata crudele per l’Italia: una crescita media dello 0, 5% tra 2000 e 2007 e nel 2010 il reddito medio degli italiani è stato pari a quello del 1999.

Che cosa si può fare oggi per la ripresa della crescita che è tanto importante quanto ridurre il debito?

Non essendo un economista non mi permetto di dare suggerimenti anche perché ritengo che una delle condizioni perché la nostra Italia riprenda la retta via è che ognuno torni a fare ciò che sa fare.

Mi limito solo a ricordare che vi è un ampio consen-so sulla necessità, richiamata di recente anche dall’ex go-vernatore Mario Draghi, di attuare quelle riforme che, da lungo tempo attese, consentano al nostro sistema produttivo di essere parte attiva della ripresa economica mondiale: la riduzione strutturale della spesa pubblica corrente anche attraverso la riforma delle pensioni; la formazione del capitale umano; le infrastrutture non-ché una maggiore concorrenza per aprire i mercati e ridurre le rendite.

Intendo, invece, soggiungere, sul versante più pro-priamente fiscale, che se le ricorrenze del passato ave-vano trovato un’Italia in diversa condizione di forma – si trattasse dell’Italia liberale del 1911, o di quella repubblicana del 1961 - non può, però, dimenticarsi che anche quella del 2011 aveva alla sua portata una eccellente occasione. Le veniva offerta – e non è un paradosso - proprio da quella battaglia federalista che ne ha costituito, invece, l’elemento di fragilità e di proterva negazione. Cosa impediva, infatti, (e provò a dirlo anche il presidente della Repubblica nei giorni intorno al 17 marzo) che questo fosse il momento per “festeggiare” l’Italia delle autonomie, una Italia che aveva superato i limiti dell’accentramento dentro i quali, per ragioni importanti di contesto storico, si era rinserrata l’esperienza unitaria, salutando, così, il compimento di quel disegno delle autonomie che è stato uno dei tratti di innovativa discontinuità della Costituzione repubblicana?

Progetto che avrebbe avuto bisogno che le forze maggiormente legate a questo disegno avessero colto

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 5

l’occasione per proporre un modello includente e non escludente (come quello che sta nella tradizione della democrazia autonomista da Cattaneo a Minghetti, da don Sturzo a Salvemini) avessero, cioè, sciolto ogni am-biguità tra federalismo e secessione.

Purtroppo non è stato così, si sono ascoltate solo al-cune volgarità e il progetto si è arenato.

* * *

4. Ricordata l’importante occasione, ad oggi perduta, la rilevante crisi economica non giustifica l’altrettanto pa-lese incapacità propositiva che l’accompagna anche sul versante fiscale.

Infatti, proprio dalla riflessione sulla realtà economico-sociale italiana, sembra emergere lo spazio per provvedi-menti meno contingenti, più strutturali e, al fine, più equi.

Uno studio relativamente recente dell’OCSE ha ri-levato, in estrema sintesi, che: a) l’Italia ha attualmen-te la sesta più ampia differenza tra ricchi e poveri nel complesso dei trenta Paesi dell’OCSE; b) la disegua-glianza tra reddito di lavoro e redditi di capitale è au-mentata del 33% dalla metà degli anni “80”; c) il red-dito medio del 10% dei più ricchi è circa undici volte maggiore del reddito medio del 10% dei più poveri; d) la ricchezza è distribuita in modo molto più diseguale del reddito perché il 10% dei più ricchi detiene circa il 42% della ricchezza totale netta e soltanto il 28% del reddito totale disponibile.

Ebbene, mentre la situazione reale si evolveva drammaticamente nella piena consapevolezza del go-verno, della Camera e del Senato (informati se non altro da puntuali richiami della Banca d’Italia), il le-gislatore, che pure lamentava la sovratassazione dei redditi e in specie di alcuni redditi (quelli di lavoro e di impresa), sminava il sistema fiscale sul fronte, già compromesso, dei principi.

Nel 1997 era abolita l’Ilor e quindi cancellata la di-scriminazione qualitativa dei redditi (vanto della dot-trina e della pratica italiane dal 1864)3 che può realiz-zarsi, non solo con la tassazione dei redditi “fondati”, ma anche con una imposta ordinaria sul patrimonio ad aliquote modeste, come insegna la migliore dottrina ita-liana, da Luigi Einaudi a Cesare Cosciani4.

3 Se ne veda l’elogio in g. borgatta, “Le imposte sul reddito in Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costi-tuente, Roma, 1946, p. 268 sg. e spec.p. 274.

4 Si veda c.cosciani, Stato dei lavori della Commissione per lo studio della riforma tributaria, Milano, 1964, cap. 4 “L’imposta or-dinaria sul patrimonio”.

Nel 2001 fu abolita l’imposta di successione, già lucidamente e incisivamente riformata nel 20005 e nel 2008, con un decreto “televisivo”, fu abolita, indiscrimi-natamente, l’ICI sulla prima casa6.

In un paese, come l’Italia, che ha il più basso prelievo sui patrimoni dell’intera Europa si è sistematicamente indebolito quel poco che c’era mentre il principio di ca-pacità contributiva dovrebbe spingere a un ordinamen-to più equilibrato tra prelievo sui redditi (eccessivo e da attenuare) e sui patrimoni: del che non v’è traccia nelle più recenti proposte e tanto meno nei provvedimenti all’esame del Parlamento fino ad oggi approvati.

Né si dica che una sorta di paralisi propositiva sareb-be conseguenza della difficilissima situazione economica perché quel che l’Italia non può permettersi è proprio la stagnazione dell’economia tanto importante quan-to la riduzione del debito. Orbene, se il secondo (che comunque nessuno è mai riuscito a ridurre con i soli tributi) esige un attento controllo della pressione fiscale complessiva, nulla impedisce di pensare, per tornare a crescere a un ritmo di almeno il 2% annuo, a un alleg-gerimento delle imposte (sul reddito) dei produttori di ricchezza compensato dalla utilizzazione di uno o più degli strumenti sopra ricordati.

* * *

5. Tanto precisato, è, però, altrettanto indubbio che un qualsiasi osservatore della normativa fiscale non può non constatarne la mutevolezza, la volatilità mentre le imprese e gli operatori economici in genere richiedono la stabilità delle regole per poter impostare progetti a medio e lungo termine.

Per questo, nel titolo della mia relazione, ho ricor-dato anche lo “Statuto dei diritti del contribuente” per-ché esso, dettando per la prima volta i principi generali dell’ordinamento tributario, mostra di volere una legi-slazione di principi.

Proprio perciò la dottrina, dalla sua entrata in vigo-re, ha mostrato di condividerne le indicazioni (non v’è monografia o articolo che oggi prescinda dallo Statuto) e la giurisprudenza, anche della Corte di Cassazione, ne ha fatto decine, centinaia di applicazioni.

Discorso ben diverso va fatto nel giudicare il rappor-to tra Statuto del contribuente e legislatore.

5 Si veda g.marongiu, “L’abolizione della ‘tassa sul morto” in Rass.trib., n.4/2000, p. 1159 sg. e, amplius, Consiglio Nazionale del Notariato, L’imposta sulle successioni e donazioni tra crisi e riforme”, Milano, 2001

6 Si veda anche infra al par. 8

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 6

Il primo statuisce la eccezionalità delle leggi interpre-tative e il secondo le approva a man salva.

Il primo indica le irretroattività della legge come un principio generale e il secondo continuamente deroga un precetto posto a garanzia della certezza del diritto.

Il primo cerca di contenere l’uso del decreto-legge in ambiti fisiologici e il secondo ne abusa quotidiana-mente, ancorché, è appena il caso di ricordarlo, l’art. 77 Cost. statuisca che solo “in casi di straordinaria necessità e urgenza il governo può, sotto la propria responsabilità, emanare atti aventi valore di legge”.

Ho parlato volutamente di abuso e la locuzione non è figlia di un malinteso qualunquismo.

Già nel 1996 l’allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, rispondendo al “grido di dolore” del presidente del Consiglio Nazionale del Notaria-to che gli aveva manifestato il profondo disagio della categoria di fronte alle conseguenze dell’abuso della decretazione d’urgenza, riconosceva che la situazione venutasi a creare presentava ormai “tali aspetti di pa-tologia istituzionale, da non poter essere più sostenibile e da recare seria minaccia alla certezza del diritto, che deve invece costituire elemento fondante degli atti con i quali si definiscono e si regolano le situazioni giuridiche”.

Dieci anni dopo sono i numeri che parlano.Tra il 2006 e il 2008 con il governo Prodi su 24 leggi

approvate dal Parlamento 3 sole erano di origine parla-mentare; ben 21 erano di origine governativa di cui 13 di conversione di decreti legge.

La situazione è ulteriormente peggiorata nel solo primo anno del governo Berlusconi: a febbraio 2009 rispetto alle 45 leggi approvate 1 sola era di origine par-lamentare e ben 44 di origine governativa e di queste 25 erano conversioni di decreti-legge, con l’apposizione della fiducia per 11 volte e la marea non si è arrestata ma è venuta meno la pazienza di contare gli uni (i decreti-legge) e le altre (le fiducie).

Proprio con riguardo ai tributi, occorre invece tro-vare un punto di equilibrio tra governo (il momento decisionale) e Parlamento (il momento del consenso) perché le imposte si legittimano con il consenso e que-sto può derivare solo da un effettivo dibattito pubblico nelle aule di Camera e Senato.

* * *

6. Per convincersene è sufficiente riandare a quel gran-dissimo insegnamento che tolse alla nozione di impo-sta il connotato di “naturale odiosità” quando scrisse: “La spesa del governo è, in riguardo agli individui di una grande nazione, come la spesa d’amministrazione riguardo ai comproprietari di un grande patrimonio, i

quali sono tutti obbligati di contribuirvi in proporzione ai loro rispettivi interessi nel medesimo”7.

Se il tributo è, quindi, il “prezzo” che ogni cittadino paga allo Stato per coprire la quota parte del costo dei servizi pubblici generali che egli consumerà, non solo è palese la centralità del criterio di ripartizione dell’onere tra i contribuenti, ma esso si rivela assai complesso, per i servizi pubblici generali, perché il loro consumo indivi-duale è un’incognita anche se la difficoltà della soluzione non distrugge la verità fondamentale secondo cui l’im-posta nel suo complesso è pagata in compenso del totale dei servizi resi dallo Stato”8.

Per risolvere l’incognita cui si è accennato (il consu-mo individuale è una incognita) si procede, allora, per presunzioni.

Si presume, in primo luogo, che tutti i componen-ti della collettività siano consumatori della totalità dei servizi pubblici generali: presunzione che si avvicina alla realtà nella misura in cui le funzioni dello Stato sono volte alla produzione di servizi indispensabili all’esisten-za della comunità e si sostituisca alla istantanea doman-da individuale il consumo riferito a una lunga serie di anni, a una vita nella quale può avvenire che si consumi-no servizi prima non consumati.

Si assume, inoltre, il reddito come indice misuratore della domanda di servizi pubblici generali e quindi si fissa l’im-posta come sua percentuale non essendovi dubbio che il reddito di ciascuno è l’indice misuratore della totalità dei consumi individuali e collettivi anche se questa ulteriore presunzione, vera per il tutto, può non essere vera per la parte perché diversa può essere la ripartizione del reddito tra la soddisfazione dei bisogni individuali e collettivi.

Ad onta di ciò, resta pur sempre vero che il reddito non dà la misura esatta e sicura della domanda e del consumo individuale di beni pubblici generali. Ed è appunto per questo che la dottrina e il legislatore cercano di correggere l’indice del reddito col concorso di altri coefficienti sussidia-ri, come il numero dei figli o l’età dei contribuenti e l’entità assoluta del reddito minimo e non a caso l’art. 53 Cost. àn-cora la ripartizione delle imposte alla capacità contributiva.

La verità conclusiva è, però, questa, che una parte della base su cui si posa l’edificio della imposizione è ne-cessariamente arbitraria9 quali che siano i criteri, anche i più raffinati, adottati.

7 Così A. Smith, Ricerche sopra la natura e la causa della ricchezza delle Nazioni (1776), Utet, Torino, 1945, p. 744).

8 Così L. Einaudi, Miti e paradossi della giustizia tributaria, To-rino, Einadi, 1938,. p.253.

9 Si veda amplius A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, III ed., Einaudi, Torino, 1955, p. 115 sg.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 7

Onde, sono ancora parole di De Viti, “soltanto una costituzione che dia al maggior numero possibile di citta-dini il diritto e il modo di partecipare alla formazione del calcolo del valore collettivo e alla sua revisione periodica, può dare anche il massimo di garanzia contro il pericolo dell’arbitrarietà e delle spese improduttive”.

Non a caso lo Statuto albertino sanciva, all’art. 30, che “nessun tributo può essere imposto e riscosso se non con il consenso della Camera e la sanzione regia”.

* * *

7. Oggi, l’art. 23 Cost., con formulazione più moderna, statuisce che “nessuna prestazione personale o patrimo-niale può essere imposta se non in base alla legge”.

Ma la sua valenza non muta, e non può mutare, se si rammenta il naturale margine di arbitrarietà insito in ogni tributo.

Infatti, è come dire che la ineluttabile arbitrarietà delle leggi fiscali, di tutte, può essere temperata solo da un dibattito ampio, aperto, tendente a ridurre i margini dell’errore, dell’arbitrio, della sopraffazione, dell’ingiu-stizia e da svolgersi nell’unica sede istituzionale in cui tutte le esigenze, i suggerimenti e le opzioni possono farsi valere, e cioè nel Parlamento.

In altre parole, solo un esplicito manifesto consenso, in esito a un ampio dibattito, può garantire che l’even-tuale soluzione non perfettamente congrua abbia alme-no una paternità certa in chi è legittimato a garantire “compromessi” tra ceti, gruppi, interessi tra loro diffor-mi e contrastanti.

Di qui la conseguenza che tributi nuovi, nuove di-scipline di tributi esistenti, interpretazioni che incidono e modificano radicalmente insegnamenti interpretativi consolidati debbono trovare la loro fonte di legittimità nella volontà del Parlamento, nella legge.

Lo si ricorda perché, oggi, è raro, invero, imbattersi in leggi ordinarie (è tale, non a caso, lo Statuto dei diritti del contribuente) e si è sommersi da una profluvie di decreti-legge emanati ben al di là dei casi straordinari di necessità e di urgenza.

Si convive, in altre parole, con un sistema impositivo di stampo burocratico perché il governo di cui all’art. 77 Cost. significa in concreto il ministro competente e questi rimanda alla propria burocrazia. Così alla possibi-le arbitrarietà si aggiunge la certezza che le relative nor-me sono prive di consenso perché istituire con decreto legge i tributi (e modificarne di continuo la disciplina) e porre sulla legge di conversione la fiducia significa az-zerare il vaglio, il dibattito (decadono gli emendamenti, si cancellano i passaggi nelle Commissioni, si riducono i tempi degli interventi) e quindi “il consenso” del Par-

lamento: e ciò, ahimè, è accaduto e accade incidendo sui delicati equilibri tra maggioranza e opposizioni, tra governo e Parlamento.

* * *

8. Ovviamente lo stravolgimento delle regole costituzio-nali non sarebbe grave (anzi) se i numerosi decreti-legge si limitassero a modificare le aliquote dei tributi e cioè ad alleggerire o ad appesantirne il peso (per questo furo-no inventati i decreti-legge).

In realtà con essi si stravolgono discipline e comparti fondamentali dell’ ordinamento.

Vi sono, addirittura, tributi noti da secoli e applicati in tutto il mondo che sono scomparsi e ricomparsi come fiumi carsici!

Nel 2001, come si diceva, fu soppressa l’imposta sulle successioni che era stata opportunamente ridi-sciplinata nel 2000: per cinque anni,quindi, fummo l’unico Stato membro delle N.U. a non avere un tri-buto di successione e perdemmo più di 12.000 mi-liardi di vecchie lire.

Nel 2006 il tributo fu ripristinato con l’art. 2 del d.l. 3 ottobre 2006, n. 262 e nessun italiano ha mai com-preso (al di là delle ragioni elettorali) perché il tributo fosse stato soppresso.

Con decreto “televisivo” trasfuso nell’ennesimo de-creto legge (art. 1 del d.l. 27 maggio 2008, n. 93 (conv. nella legge 24 luglio 2008, n. 126) fu disposto che, a decorrere dall’anno 2008, sarebbe stata esclusa dall’ICI l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo.

Ancora una volta per mere ragioni elettorali si fecero scelte improvvisate destinate peraltro ad incidere sulla finanze di migliaia di Comuni e sui servizi prestati ai cit-tadini e fu un record quanto alla violazione dei principi.

In una stagione di conclamato federalismo il legisla-tore nazionale (e cioè “romano”) sottrasse, indiscrimina-tamente, ai Comuni una risorsa importantissima, men-tre il rispetto delle regole avrebbe voluto che i Comuni fossero facoltizzati a non applicare il tributo (ciascuno di essi avrebbe deciso autonomamente in relazione alla propria specifica situazione).

Fu sottratto ai Comuni italiani una importante fetta di gettito che i Comuni di tutto il mondo gestiscono (salve le esenzioni per conclamate situazioni di indigen-za) e questo accadeva proprio mentre, per esigenze di equilibrio dei conti pubblici, erano ridotti i trasferimen-ti: le autonomie locali furono così strozzate tra la sottra-zione di un cespite e la riduzione dei trasferimenti fermo rimanendo l’obbligo, si intende, di rendere ai cittadini gli attesi servizi.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 8

Insomma, il governo si mise le penne del pavone, i Comuni furono mortificati e il cittadino ha pagato e paga vuoi con l’aumento rilevante degli altri tributi co-munali vuoi con la diminuzione della quantità e della qualità dei servizi.

In sintesi, con un succedersi di decreti legge si è mor-tificato il Parlamento su tematiche importantissime, si è infragilita la stessa struttura dell’ordinamento tributario con scelte improvvise, improvvisate e contraddittorie e i frutti non sembrano cospicui, anzi sono molto spesso velenosi, perché l’abuso del decreto-legge ne rende in-certa la stessa sopravvivenza nel tempo.

Ne costituisce testimonianza la sorte di quel tribu-to chiamato, suggestivamente “Robin Tax”ed istituito anch’esso con decreto-legge.

Infatti la Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia, con ordinanza del 26 marzo 2011 (pubblicata in Gazz.Uff. del 19 ottobre 2011) ha ri-tenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 81, commi 16, 17, 18 del d,l, 25 giugno 2008 (conv. nella legge 6 agosto 2008, n. 133) per violazione degli artt. 3. 23. 41, 53, 77 e 117 della Costituzione.

Nella ben argomentata ordinanza si legge, fra l’altro che “il decreto-legge in esame è stato emanato in ca-renza del presupposto del caso straordinario di necessità ed urgenza in quanto l’addizionale è stata istituita per un tempo illimitato, ha carattere di tributo autonomo e ordinario, incide, perciò, strutturalmente nell’ordi-namento tributario e non è conseguentemente misura straordinaria e temporanea per rispondere a una situa-zione di fatto improvvisa e straordinaria, determinatasi nel mercato degli idrocarburi liquidi e gassosi” (omissis) (si veda al riguardo g. marongiu, Robin Hood Tax: ta-xation without “constitutional principles”?, in Rass. trib., 2008, n. 5).

* * *

9. Non meno significativi sono gli esempi che si possono trarre dalle discipline delle sanzioni, dell’accertamento e della riscossione, ancora più sensibili perché il loro muta-mento improvviso e improvvisato può comportare errori e sicuramente maggiori oneri economici, e non solo.

Si pensi a quello che è accaduto con riguardo alle sanzioni amministrative tributarie. Nel 1997, nel mo-mento in cui si era dettata una disciplina di principi, si era scelto di colpire l’autore della violazione. Nel 2003, con un decreto-legge, per i soggetti e le società dotate di personalità giuridica, si scelse di sanzionare il “con-tribuente” (società delinquere potest): e così oggi abbia-mo un sistema binario - uno per le persone fisiche (che

sanziona l’autore della violazione) e uno per le perso-ne giuridiche che sanziona il “contribuente” - privo di qualsiasi ragionevolezza.

E ancora. Nel 2010 si è mutata la disciplina dell’ac-certamento sintetico redditometrico (con decreto-legge) e solo nel mese di ottobre del 2011, è stato reso noto il decreto ministeriale di attuazione: il che induce a chie-dersi quale fosse, nel 2010, il caso straordinario di ne-cessità e d’urgenza.

Si pensi ancora al raddoppio dei termini dell’accerta-mento disposto dall’articolo 37 del Dl 223/2006, asso-lutamente non prevedibile. Al riguardo, ci sia consentito osservare che non è facile cogliere la ratio dello “strap-po” nel contesto di un ordinamento complessivamen-te orientato a principi di garanzia, che trovano chiara espressione non solo nella Costituzione ma anche nello Statuto del contribuente che pure riveste una ricono-sciuta valenza orientativa nell’interpretazione delle leggi.

Nell’applicazione delle imposte v’è, non può non esservi, l’esigenza di una “giustizia procedurale”, che si traduce nella “neutralità nelle procedure” e nella “affi-dabilità dell’autorità fiscale” perché le prime non sono poste nell’interesse fiscale, ma di un interesse superiore a quello delle parti. È il caso dei termini di decadenza che sono alterati nella loro funzione quando sono prorogati per la comodità dell’amministrazione pubblica.

Ma non minore stupore ha suscitato la cosiddetta concentrazione della riscossione nell’accertamento: con l’art. 29 del d.l. 31 maggio del 2010, n. 78 (conv. nella legge 30 luglio 2010, n. 122) si è sovvertito un sistema pluri-pluridecennale che prevedeva la distinta notifica-zione di due atti, l’atto di accertamento e la cartella di pagamento, e si sono concentrati l’accertamento, il tito-lo esecutivo e il precetto nel primo atto.

Riforma forse utile ma che avrebbe richiesto una maggiore riflessione, un più ampio coinvolgimento dei tecnici, una migliore informazione tant’è che, a fron-te delle difficoltà, il governo è dovuto intervenire con un secondo decreto-legge (il n. 70 del 13 maggio 2011) spostando in avanti la data di applicazione della nuova normativa e creando nuove difficoltà interpretative.

Constatazioni che fanno giustizia anche delle argo-mentazioni secondo cui il decreto-legge garantirebbe una maggiore rapidità delle decisioni e una loro miglio-re formulazione perché i casi sopra ricordati mostrano proprio il contrario e cioè che decreti-legge raffazzonati richiedono modificazioni, ripensamenti, proroghe.

Si infittiscono così le censure di incostituzionalità come è accaduto al decreto-legge istitutivo della c.d. “Robin Tax”.

* * *

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 9

10. La cennata profluvie normativa è già di per sé nociva in quanto, come si insegnava autorevolmente tanti anni fa, “le norme legislative regolatrici di un dato compor-tamento devono essere agevolmente individuabili affin-ché l’amministrazione operi effettivamente nell’ambito delle leggi e affinché i cittadini possano effettivamente garantirsi contro l’illegalità dei comportamenti ammi-nistrativi” 10.

Ma v’è di più nel senso che il mutare continuo della disciplina fiscale (sia essa procedimentale, processuale o sostanziale) provoca una discrazia tra i precetti in vigore in un dato momento e la relativa modulistica, con le connesse istruzioni, che ad essi non sono cronologica-mente coerenziate.

Si pensi alla querelle relativa alla indicazione del re-sponsabile del procedimento11.

L’art. 36 del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248 (conv. nella legge 28 febbraio 2008 n. 31) al comma 4ter so-lennemente sancì che “la cartella di pagamento contie-ne (e cioè deve contenere) a pena di nullità l’indicazio-ne del responsabile del procedimento dell’iscrizione a ruolo e di quello di emissione e di notificazione della stessa cartella”.

Ebbene, nonostante siano previsti due responsabili e non uno solo, cionondimeno sono notificati ancora oggi atti di accertamento e cartelle nei quali non v’è nes-suna indicazione di responsabile o, al più, si indica qua-le responsabile del procedimento il direttore provinciale dell’Agenzia o il responsabile per una o più province di Equitalia: in intere province circolano quindi migliaia di atti pretensivi nei quali il cognome è sempre lo stesso.

Insomma il legislatore avrebbe previsto la più grave delle sanzioni (“la nullità”) per fare conoscere a centina-ia di migliaia di contribuenti il cognome (notissimo) del direttore provinciale dell’Agenzia.

Con buona pace e frustrazione della ratio legis in ordine alla quale la Corte costituzionale scrive: “L’ob-bligo di indicare nelle cartelle di pagamento il respon-sabile del procedimento ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena infor-mazione del contribuente (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa che sono altrettanti aspetti del buon andamento e della imparzialità della pubblica ammini-strazione sanciti dall’art. 97, 1° comma, Cost.”12.

10 Così m. mazziotti, Diritti dell’uomo e pubblica amministra-zione, in Il diritto dell’economia, 1968, n. 2, p 141 sg. e spec. p. 149.

11 Si veda g.marongiu, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, Giappichelli, 2° ed., 2010,pp. 202-210.

12 Così Corte cost. ord. 9 novembre 2007, n. 377.

Lascio alla sapienza del lettore la risposta alla do-manda di come possa una sola persona fisica garantire il raggiungimento di tre obiettivi così importanti per cen-tinaia di migliaia di contribuenti.

E ancora. Si leggono cartelle e atti di accertamen-to notificati nei mesi di luglio, settembre e ottobre nei quali si invita il contribuente a redigere il ricorso “in bollo” nonostante che il contributo unificato sia entrato in vigore il 6 luglio. Ovviamente il contribuente che in tutto o in parte non abbia pagato detto contributo viene sanzionato nonostante che l’Agenzia delle Entrate abbia aggiornato le “Avvertenze” delle cartelle solo con prov-vedimento del 18 ottobre 2011.

E ancora. Nei ricorsi oggi occorre indicare il codice fiscale delle parti e dei difensori, l’indirizzo di posta elet-tronica e non pochi altri elementi: ne ho contati dieci e massimo è il rigore nel riscontro dell’esattezzza della nota di iscrizione a ruolo.

Ma fortunatamente nelle “Avvertenze” v’è anche scritto che il ricorso va presentato alla Commissione “territorialmente competente” fugando così il dubbio di molti esegeti che avevano erroneamente ritenuto che i ricorsi si presentassero alle Commissioni territorialmen-te “incompetenti”.

Muovendo dal precetto dello Statuto secondo il quale “le istruzioni e, in generale, ogni altra comu-nicazione devono essere comprensibili anche ai con-tribuenti sforniti di conoscenze in materia tributaria (così l’art. 6, 3° comma della legge n. 212 del 2000) la obbligatoria indicazione dell’organo giurisdizionale cui ricorrere ( art. 7, 2° comma) dovrebbe essere riferi-ta alla puntuale individuazione della provincia, impre-sa non difficile anche se le province, dopo la promessa abolizione, sono salite a “110”. Ciò non consentirebbe all’ente resistente, che è lo stesso che approva, modi-fica, integra i modelli, di eccepire il difetto di compe-tenza territoriale (come purtroppo accade), eccezione di per sé non temibile ma strumentale solo al possibile rallentamento dei tempi della giustizia: trascuratezza, quella della mancata indicazione della specifica com-missione provinciale di cui ha fatto giustizia una recen-te sentenza che ha annullato una cartella di riscossione nella quale, sulla competenza territoriale, erano state date istruzioni non solo poco comprensibili, ma addi-rittura erronee13.

In tanto abbondare di norme, di precetti, di de-creti legge estivi e invernali, agostani e settembrini, resta un indeterminato buco nero nel quale nessuno

13 Si veda la sentenza della Commissione trib.prov. di Cremo-na, 21 marzo 2011, n. 42/2/11.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 10

sa trovare una bussola, la liquidazione e la pretesa di migliaia, di decine di migliaia di euro a titolo di com-pensi per la riscossione.

Nelle cartelle esiste sempre almeno un embrione di motivazione con riguardo ai tributi pretesi, alle sanzio-ni, agli interessi, mentre, per gli aggi, si leggono solo nude e consistenti cifre e senza un rigo di motivazione sulle norme che li prevedono sulla loro quantificazione solo specificandosi, questo sì, che, dopo poche settima-ne, raddoppiano.

Anche di questa deteriore prassi ha fatto giustizia una recente sentenza di Commissione tributaria provinciale ove si legge: “La remunerazione del servizio di riscossio-ne è stabilita per legge, ma ciò non significa che l’agente della riscossione può indicare esclusivamente l’impor-to ritenuto corretto e autonomamente calcolato, senza fornire al contribuente precise indicazioni in modo da permettere di riscontare la correttezza della pretesa. La cartella di pagamento, come tutti gli atti amministrativi, deve essere adeguatamente motivato in ogni sua prete-sa. Concordando con quanto sostenuto dalla ricorrente, la pretesa iscritta a ruolo trova fondamento in un atto, l’avviso di accertamento, motivato e notificato al con-tribuente. Analogamente il concessionario che per l’at-tività svolta, deve essere remunerato, non può limitarsi a indicare un importo unico, senza alcuna specificazio-ne della pretesa e senza motivazione alcuna, richiami normativi, specifiche dei calcoli effettuati. Tale aspetto comprime il diritto di difesa del contribuente e come tale deve essere annullato.

“La cartella di pagamento deve essere annullata nella parte in cui espone la mera somma pretesa a titolo di compensi del concessionario della riscossione, come ge-nericamente indicato in cartella”.14

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11. In buona sostanza si è di fronte, a continui decreti-legge che costellano, ammorbano e stravolgono quoti-dianamente l’ordinamento tributario e non è quindi il caso di ripetere considerazioni note e stranote sul loro abuso e sulla loro sindacabilità15.

È bene, invece, ricordare il magistrale insegnamento di Ezio Vanoni che, nel farsi della Costituzione, prese

14 Così Comm. trib. prov, di Genova, sez. 4°, 16 agosto 2011, n. 336.

15 Mi permetto rinviare a g. marongiu, Gli aspetti fiscali della Costituzione, in La Costituzione economica, ricerca dell’Isle a cura di M. D’Antonio, Milano, Edizioni del Sole-24 Ore, 1985, pp. 271 sg. e spec. 281 nonché G. Marongiu, Lo Statuto dei diritti del con-tribuente, cit., pp.67 sg.

chiara e netta posizione su alcuni punti fondamentali os-servando che andavano escluse o limitate le forme di legi-slazione tributaria diverse dalle leggi formali, con chiaro riferimento alla legge-delega, e, quanto al decreto-legge, che il potere esecutivo non doveva fare il legislatore tri-butario e quindi esso doveva essere limitato al minimo indispensabile. Soggiunse lo stesso Vanoni che “se dovesse prevalere il principio di una più ristretta competenza della seconda Camera rispetto alla prima non vi è dubbio che la materia finanziaria, in particolare per quanto attiene all’approvazione delle leggi di imposta e delle leggi di bi-lancio, è materia tanto delicata e grave da imporre l’esame da parte di entrambi i consessi legislativi”16.

Invece, l’uso quotidiano del decreto-legge, in materia tributaria, e l’abuso delle stesse leggi delega, comportano che le norme fiscali, oggi, sono frutto delle scelte della burocrazia. Il governo, cui si riferiscono gli art. 76 e 77 della Costituzione, è, nei fatti, il ministro dell’economia e il ministro dell’economia è, nei fatti, il ministero e cioè la burocrazia che lo assiste, struttura indispensabile negli Stati moderni, ma priva di qualsiasi legittimazione de-mocratica onde il rispetto formale dell’art. 23 non riesce a nascondere la sostanziale violazione del principio “no taxation without representation”.

E allora, ancora una volta, viene naturale chieder-si: è mai possibile che strappi così forti alle discipline previgenti siano stati perpetrati dal governo-legislatore e cioè dalla sua burocrazia e quindi da una delle parti del rapporto giuridico di imposta? Quale è stato l’evento straordinario, necessario e urgente che ha indotto a sce-gliere la scorciatoia del decreto legge (con fiducia) per stravolgere la certezza dei rapporti? Come può invocarsi il “patriottismo costituzionale” che comporta il puntua-le adempimento dei doveri da parte di tutti (nel rispetto reciproco dei diritti) quando il c.d. legislatore fa strame delle norme costituzionali?

E si badi che le nostre non sono considerazioni da azzeccagarbugli.

Vale al riguardo il severo monito della Corte di Cas-sazione che, a proposito di una delle numerose leggi in-terpretative, scrive: “Si aggiunge, poi, che come è acca-duto nel caso di specie, in materia fiscale gli interventi interpretativi sono sempre pro Fisco, in quanto dettati da ragioni di cassa (nell’intento di realizzare maggiori entrate)”. Non sono ispirati, quindi, alla esigenza di rea-

16 Si veda E. Vanoni, Diritto all’imposta e formazione delle leggi finanziarie, cap. primo del Rapporto della Commissione economica, presentato all’Assemblea Costituente, vol. V, Finanza, Ist. Poligrafi-co dello Stato, 1946 ora anche in E. Vanoni, Opere giuridiche a cura di F. Forte e C. Longobardi, 2 voll., Milano, Giuffrè, 1962, vol. secondo, pag. 472 sg.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 11

lizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa. Ciò non facilita l’in-staurarsi di un rapporto di fiducia tra amministrazione e contribuente, basato sul principio della collaborazione e della buona fede, come vorrebbe lo Statuto del contri-buente (art. 10, 1° comma, della legge n. 212 del 2000).

“Nel caso di specie, poi, non è facile distinguere l’Ammi-nistrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la cui approva-zione è stata condizionata dal voto di fiducia al Governo".

“Tanto che se fosse stato diverso l’orientamento del collegio (rispetto alla scelta legislativa), non ci si sareb-be potuti esimere dal valutare la compatibilità della procedura di approvazione dell’art. 36,2° comma, del d.l. n. 23 del 2006, con il parametro costituzionale di cui all’art. 111 Cost., che presuppone una posizione di parità delle parti nel processo, posto che, nella specie, l’Amministrazione finanziaria ha avuto il privilegio di rivestire il doppio ruolo di parte in causa e di legislatore e che, in questa seconda veste, nel corso del giudizio ha dettato al giudice quale dovesse essere, pro domo sua, la corretta interpretazione della norma, sub judice17".

Insomma, il momento giurisdizionale mostra segni di palese fastidio rispetto alle prepotenze del c.d. legislatore.

E forse è proprio per questo che si profila una nuo-va minaccia, il possibile depotenziamento del processo tributario. Minaccia tanto più grave ove si rammenti che “la legalità dell’imposizione richiede non solo la disciplina dei rapporti, ma l’organizzazione necessaria per attuarla, sia dell’amministrazione che del giudice adeguato. Senza una adeguata tutela giurisdizionale tut-ta l’imposizione prevista dalle leggi tributarie sarebbe costituzionalmente illegittima”, come ha scritto lucida-mente Valerio Onida.

* * *

12. Ebbene se questa è la realtà, occorre sottolineare con forza che essa non corrisponde al disegno della nostra Costituzione, e soprattutto di quello che oggi si chiama il “patriottismo costituzionale”.

Patriottismo costituzionale significa che elemento fondante, integratore e imprescindibile del concetto di patria, è oggi non solo e non tanto l’appartenenza a una storia comune, a una fede, a una lingua18, ma la condi-

17 Così Cass., sez. un. 30 novembre 2006, n. 2550.

18 Significativamente l’art. 3 della Costituzione sancisce che tut-ti sono uguali davanti alla legge senza distinzioni di razza, di lingua, di religione e di condizioni sociali ed economiche.

visione delle regole sancite dalla Costituzione repubbli-cana che prevede la distinzione dei poteri, l’autonomia e la indipendenza dei giudici, l’imparzialità della pubblica amministrazione, il consenso alle imposte, la loro ripar-tizione secondo i canoni consacrati nella Costituzione stessa (art. 3 e 53), il cittadino, equindi anche il con-tribuente, come titolare di doveri e di diritti seconda la inequivocabile statuizione dell’art. 2.

Non si può, contraddittoriamente, predicare e invo-care il rispetto della Costituzione e vivere in una realtà che è ancora fortemente connotata dall’influenza delle ideologie stataliste i cui riflessi si fanno sentire non solo nell’approccio teorico ma anche nelle concrete appli-cazioni ed esperienze: lo sfumare della distinzione dei poteri, il sostanziale deterioramento del principio di le-galità, il prepotente dilagare di discipline fiscali prive di consenso, la attenuata considerazione del principio di capacità contributiva e quindi la riduzione della stessa concezione del tributo a una mera prestazione patrimo-niale imposta.

Su questo sfondo si è realizzata e si realizza una iper-tutela dello stesso interesse fiscale che contraddice le norme costituzionali e la stessa concezione dello Stato - comunità e perciò sacrifica e comprime le regole di di-ritto comune, ben al di là del doveroso rispetto dell’ob-bligo fiscale19.

In sintesi, la emergenza, che c’è e va affrontata, non può diventare un alibi per depotenziare le garanzie del cittadino contribuente.

È una tentazione che si è presentata non solo in Italia nei momenti difficili, ma è una tentazione cui occorre resistere e opporsi.

19 Si veda ora f. moschetti, Il principio di capacità contributiva espressione di un sistema di valori che informa il rapporto tra singolo e comunità, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di L. Per-rone e C. Berliri, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,2006, p. 39 sg.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 12

1. Sul piano della tecnica legislativa, l’impressione che si ha dalla lettura complessiva delle norme della legge delega n. 42 sul c.d. federalismo fiscale è quella di un prodotto legislativo tutt’altro che affrettato, che ha tenuto conto sia delle più recenti analisi dottrinarie in tema di autonomia finanziaria, sia delle proposte avanzate dai diversi schiera-menti politici, sia delle diverse bozze di provvedimento redatte dalle qualificate commissioni di studio governati-ve e regionali che si sono succedute dal 2001, sia delle più recenti sentenze della Corte costituzionale.

Può dirsi, insomma, che la legge delega costituisce nelle sue linee portanti un passo avanti, seppur non de-finitivo, rispetto al passato. Essa ha messo, comunque, in moto un articolato e complesso meccanismo di re-alizzazione progressiva di un prudente decentramento fiscale e finanziario, testimoniato dai numerosi decreti legislativi di attuazione già emanati e di quelli corret-tivi da emanare. Data la sottolineata sua preminente natura di “legge di principi”, meriterebbe, peraltro, di essere anche supportata dall’emanazione di quella che comunemente è chiamata “Carta delle autonomie locali” (che attuerebbe il c.d. federalismo istituziona-le) e, soprattutto, meglio puntualizzata ed integrata - possibilmente in occasione della preannunciata ri-forma fiscale generale - da più decise e coraggiose scel-te legislative in ordine ai contenuti e alle dimensioni dell’autonomia tributaria. Fermo restando, beninteso, che tutto l’apparato normativo che via via si sta re-alizzando dovrebbe essere corredato, strada facendo, dall’indicazione di più analitici elementi quantitativi che informino e orientino in via previsionale circa gli effetti economici e finanziari derivanti dall’attuazione del progetto federalista; non ultimo l’effetto di varia-zione della pressione tributaria.

Non sempre è possibile stabilire con la dovuta chiarezza a quale tipologia di principi e criteri la legge delega faccia riferimento e quali siano gli ambiti della loro applicazione.

Non è facile innanzitutto distinguere, nell’ambito dei principi elencati alla rinfusa negli artt. 2 e ss., quelli fondamentali di coordinamento del sistema tributario complessivo e quelli generali del federalismo fiscale; questi ultimi, a volte, coniati dalla stessa legge delega, a volte, desunti dalla Carta costituzionale o da altre carte

fondamentali del contribuente (ad esempio, lo statuto dei diritti del contribuente). La distinzione è, invece, importante e avrebbe forse meritato di essere meglio evidenziata, perché i due tipi di principi rispondono a due diverse funzioni e a due diversi tipi di intervento richiesti al legislatore delegato.

I principi fondamentali di coordinamento del siste-ma tributario sono fissati dallo Stato e sono, in quanto tali, espressivi dell’esigenza di tutela dell’unità dell’ordi-namento. Attengono, perciò, agli elementi informatori di regole fiscali stabili ed univoche, preesistenti e con-correnti rispetto a quelle, ancora in fieri, del federalismo fiscale. Essi presiedono, in particolare, ai rapporti e ai collegamenti tra il sistema tributario dello Stato e il si-stema tributario regionale e locale in via di costruzione e valgono, perciò, anche come limiti e parametri delle competenze legislative statali e regionali e, quindi, della stessa autonomia tributaria regionale e locale.

I principi generali del federalismo fiscale, invece, at-tengono nella loro assolutezza ai valori e alla struttura generale del sistema di autonomia, alla tipologia degli specifici istituti tributari che lo caratterizzano e alle ra-tiones ispiratrici degli istituti stessi, senza giungere al grado di specificità dei criteri direttivi di delega.

Vale la pena approfondire le interrelazioni tra i due tipi di principi, con riferimento alla specifica materia dei tributi.

1.1. I più importanti principi generali del federalismo fiscale, indicati dalla legge delega n. 42, per la maggior parte costituiscono, direttamente o indirettamente, i corollari e i presupposti del principio base di auto-nomia stabilito dall’art. 5 Cost. Del principio cioè che, nel contesto costituzionale in cui è collocato, è lo strumento di organizzazione della società naziona-le atto a consentire il libero svolgimento di politiche proprie negli specifici ambiti di competenza assegnati dalla Costituzione alle diverse articolazioni territoriali (artt. 114 e 117 Cost.), a meglio distribuire le risor-se, ad esaltare la diversità nelle scelte senza alimentare l’egoismo localistico e a liberare i talenti e le energie inespresse nel paese, specie nel Mezzogiorno.

Sono specificamente funzionali all’attuazione di tale principio di autonomia e ne costituiscono l’essen-

Verso quale direzione si muove Il sistema fiscale federalista?di Franco Gallo

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 13

za i seguenti principi generali indicati nell’art. 2 della legge delega:

- il principio di autonomia finanziaria, espressamente contemplato dall’art. 119, primo comma, Cost., e cioè lo stesso principio di autonomia considerato sotto lo specifi-co profilo della spesa e dell’entrata (lettere a, bb, ii) e, con particolare riguardo a quest’ultima, sotto il profilo dell’au-todeterminazione normativa delle entrate tributarie;

- il principio di sussidiarietà, anch’esso costituziona-lizzato dall’art. 118, primo comma, secondo cui lo Stato deve intervenire solo nelle materie riguardo alle quali gli enti sottordinati, nell’ambito delle rispettive competenze, non possono decidere ed agire con efficacia (lettere e ed ff);

- il principio di semplificazione ed efficienza, che vuole che nella propria sfera di autonomia ogni ammi-nistrazione regionale o locale decida in termini di costi e benefici e agisca di conseguenza (lettere c, f, z e dd);

- il principio di responsabilità, che vuole che i cit-tadini amministrati siano posti in grado di controlla-re, indirizzare e giudicare l’operato dei loro ammini-stratori per quanto riguarda le decisioni di spesa e di entrata (lettera p);

- il principio del beneficio – che si combina con quelli di capacità contributiva, progressività e territoria-lità (lettere e, l e p) e agevola l’attuazione del principio di responsabilità finanziaria e amministrativa – diretto a rendere, con riferimento ai servizi locali, più diretta-mente percepibile il collegamento nel territorio regio-nale e locale tra i prelievi subiti e i vantaggi derivanti dalla spesa.

A questi corollari del principio di autonomia si ac-compagnano i principi di solidarietà e di uguaglianza (lettere e, m, n. 2), con la specifica finalità di compen-sare e contenere la spinta autonomistica attraverso un intervento perequativo che garantisca, a favore delle Re-gioni e degli enti locali meno sviluppati, il finanziamen-to dei c.d. diritti fondamentali di cittadinanza.

La combinazione di tutti questi principi è evidente-mente sintomatica della scelta del legislatore a favore di un federalismo “dissociativo” di tipo cooperativo o soli-daristico e, perciò, non disgregante, da costruire, ai sensi dello stesso art. 5 Cost., nel contesto di una Repubbli-ca una e indivisibile. Si tratta, cioè, di un federalismo (se così vogliamo chiamarlo) che, partendo dalla realtà storica di uno stato fortemente unitario, coniuga l’auto-nomia con i poteri centrali forti e, conseguentemente, il potere locale di votare le imposte con le esigenze di unitarietà impersonate dallo Stato-Repubblica; il tutto, mantenendo alla legge statale il potere di fissare i prin-cipi fondamentali di coordinamento ed assicurando, nel contempo, ai cittadini residenti nelle comunità meno sviluppate il diritto ad avere, riguardo ai bisogni essen-

ziali, la garanzia dei livelli minimi di prestazione (per l’istruzione, la sanità e alcune forme di assistenza).

La conseguenza positiva della costruzione di questo tipo di federalismo è, dunque, la definitiva espunzio-ne dalla legge delega di quei modelli di federalismo fi-scale fortemente competitivo proposti nel passato che riecheggiano soluzioni di tipo nord-americano e sviz-zero, secondo i quali ogni livello di governo, superiore a quello comunale o provinciale, avrebbe il potere di istituire liberamente qualsiasi tipo di tributo su qualsiasi base imponibile, previo solo un blando coordinamento dello stato federale e nel solo rispetto di un principio di territorialità latamente inteso e di quello di leale concor-renza tra enti.

1.2. Se quello sopra sinteticamente descritto è il modello astratto di federalismo fiscale tracciato dalle norme ge-nerali della legge delega in attuazione dei precetti costi-tuzionali degli artt. 5, 117 e 119, c’è ora da domandarsi se, sullo specifico fronte delle entrate tributarie regionali e locali, le altre disposizioni di detta legge prevedano principi di coordinamento tali da realizzare effettiva-mente – e, comunque, da non svalutare – questo tipo di federalismo. C’è da domandarsi, in particolare, se i principi di territorialità, di continenza e del divieto della doppia imposizione regionale dello stesso presupposto erariale, fissati dall’art. 2 della stessa legge delega, siano effettivamente idonei a perseguire quello che abbiamo visto dovrebbe essere l’essenza del federalismo in campo tributario, e cioè il rafforzamento dell’autonomia tribu-taria degli enti territoriali in funzione dell’espansione dell’autonomia politica garantita dall’art. 5 Cost. nelle materie di loro competenza.

Dico subito che soprattutto il principi di coordina-mento del divieto della doppia imposizione porta a dare una risposta molto cauta a questa domanda, nel senso della stabilizzazione della potestà legislativa esclusiva di imposizione dello Stato piuttosto che in quello di un potenziamento della potestà residuale “primaria” delle Regioni prevista dall’art. 117, quarto comma, Cost. E ciò, pur non essendovi dubbio che in un modello di federalismo fiscale moderatamente dissociativo l’auto-nomia tributaria ha una sua intima coerenza soprattutto se intesa come capacità non solo di liberamente autode-terminare in via legislativa parte delle entrate tributarie, ma anche – come ho appena detto – di esserne titolare in funzione di un più pieno e responsabile svolgimento dell’autonomia politica regionale e locale. Infatti, la leg-ge delega, introducendo detto principio e valorizzando al massimo il coordinamento statale per principi fonda-mentali, si è ben guardata, per il momento, dal dare un assetto definitivo e pregnante all’autonomia tributaria

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 14

regionale (e, attraverso questa, a quella locale) e si è pru-dentemente limitata a rendere lo stesso Stato, in quanto “Stato-coordinatore”, arbitro nel tempo dello sviluppo di detta autonomia secondo le diverse contingenze e op-portunità del momento.

Il che significa che il rafforzamento dell’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali non consegue dalla stessa legge delega, ma è fatto dipendere in concre-to dalla non operatività in futuro del divieto della dop-pia imposizione, e cioè dal concorso di due fattori, di difficile realizzazione almeno nel breve e medio termine: da una parte, dall’emanazione di eventuali atti legislativi (frutto di future e più mature scelte politiche) diretti a depotenziare il sistema tributario statale attraverso la “ri-nuncia” da parte dello Stato ad “avvalersi”di alcuni pre-supposti d’imposizione e, quindi, di alcuni suoi tributi; dall’altra, dal simmetrico potenziamento del sistema tri-butario regionale conseguente alla parallela istituzione, da parte della Regione, dei tributi rinunciati. E significa anche che, finché non si deciderà a livello politico di re-gionalizzare o municipalizzare realmente alcuni tributi statali che si prestano a rendere effettiva l’autonomia tri-butaria e più pregnante il federalismo fiscale sul fronte delle entrate tributarie, lo spazio riservato all’esercizio della potestà legislativa primaria della Regione resterà minimo. Sarà, infatti, limitato a quei pochi tributi (re-gionali e locali) – c.d. tributi “corrispettivi” e di “scopo” – che essa potrebbe teoricamente stabilire e istituire di sua iniziativa ai sensi dell’ art. 117, quarto comma, Cost.

Mi spiego meglio. Gli articoli 117 e 119 Cost. pote-vano essere letti dal legislatore delegante:

- sia nel senso di dare assorbente e pervasivo rilievo al potere di coordinamento dello Stato per principi fonda-mentali e, perciò, di privilegiare la sua competenza esclu-siva di determinare ad libitum, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, l’ambito entro il quale la Regione può eventual-mente esercitare la sua autonomia tributaria;

- sia nel senso di porre, invece, al centro del sistema fiscale decentrato la competenza residuale della Regio-ne di stabilire i tributi regionali e locali propri in senso stretto in funzione dell’espansione dell’autonomia po-litica delle Regioni e degli enti locali nelle materie di loro competenza. Con la conseguenza di considerare la funzione di coordinamento dello Stato-ordinamento meramente eventuale, reale espressione di una esigenza di unità dell’ordinamento e, comunque, non esaustiva della potestà della Regione.

La legge delega, posta dinanzi a questo bivio, ha scel-to - attraverso (anche) l’introduzione del divieto della doppia imposizione - di rendere più pregnante e diffusa la funzione statale di coordinamento e, pertanto, di dare una sorta di priorità, ratione temporis, all’intervento sta-

tale in funzione di controllo dello sviluppo del sistema tributario in senso federalista. Il che non poteva che tra-dursi in una preferenza, indicata al legislatore delegato, verso la prima delle suddette opzioni offerte dalla Co-stituzione, e cioè verso una definizione, di forte sapore centralistico, dell’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali prevalentemente in termini di “inclu-sione” nella generale potestà legislativa statale, piuttosto che di “espansione” della potestà legislativa primaria ed originaria della Regione.

Un esempio di questo orientamento centralizzan-te ci è dato dai tributi di soggiorno e di scopo indicati nell’art. 12 della legge delega. Essi avrebbero potuto es-sere stabiliti, ai sensi dell’articolo 117, quarto comma, Cost., autonomamente dalle Regioni con riferimento ai comuni esistenti nel loro territorio, senza effetti parti-colarmente perversi in ordine al possibile aumento della pressione tributaria. Sono stati, invece, individuati (sep-pur non sufficientemente definiti) dallo stesso legisla-tore delegante insieme all’imposta immobiliare (IMU) e da questo, comunque, rimessi per una più dettagliata disciplina al legislatore delegato e ad altri interventi re-golatori da effettuare con d.P.C.m.

Un ulteriore evidente sintomo di questa restrittiva impostazione è, quanto ai tributi regionali, il limite esogeno all’autonomia tributaria introdotto dall’art. 26 del più volte citato decreto legislativo n. 68 del 2011 in materia di autonomia di entrate delle Regioni a sta-tuto ordinario e delle province, secondo cui “l’esercizio dell’autonomia tributaria non può comportare, da parte di ciascuna Regione, un aumento della pressione fiscale a carico del contribuente”. È evidente che l’apposizione di tale limite ha, da una parte, l’effetto di annullare ogni grado di flessibilità dei singoli tributi regionali e, dall’al-tra, di consentire contraddittoriamente alle Regioni, che hanno deliberato in passato aliquote elevate, di mante-nerle e di obbligare, invece, quelle che hanno fatto la scelta contraria a non aumentare le aliquote nemmeno quando le mutate esigenze di spesa della collettività lo-cale lo richiederebbero.

A voler essere più espliciti e conclusivi, l’impressio-ne che per ora si trae dalla lettura della legge delega e dei primi decreti attuativi della stessa è che si stia co-struendo un sistema fiscale decentrato molto flessibile che, per un verso, non è in grado di funzionalizzare al meglio l’autonomia tributaria di cui all’art. 119 Cost. all’autonomia politica e amministrativa prevista dall’art. 5 Cost. e, per l’altro, è caratterizzato dalla ferma volontà di tenere sotto stretto controllo la pressione tributaria regionale e locale, di “espanderla”, comunque, solo su autorizzazione dello Stato e di precludere – o limitare fortemente – le eventuali scelte autonome “concorren-

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ziali” delle Regioni e degli enti locali garantite dall’art. 117, quarto comma, Cost. Queste scelte, tra l’altro, sa-rebbero comunque molto limitate dalla circostanza – già messa in evidenza – che attualmente la maggior parte della ricchezza individuabile quale possibile oggetto di tributi propri regionali e locali è stata già assunta dallo Stato quale presupposto degli esistenti tributi erariali.

* * *

2. Le considerazioni finora svolte riguardano i più im-portanti principi di coordinamento e i criteri direttivi del federalismo fiscale fissati dalla legge delega per attuare e dosare i principi generali di autonomia, sussidiarietà e differenzazione. L’esigenza di unitarietà e uniformità di trattamento emerge, invece, dalla stessa legge delega per quanto attiene l’altro importante aspetto del federalismo fiscale riguardante l’individuazione dei criteri di riparto delle fonti di finanziamento tributario (e non) tra le Re-gioni e tra gli enti locali nel rispetto dei principi di ugua-glianza e di solidarietà e nell’ottica di superare gli squilibri economici e territoriali che caratterizzano il nostro paese.

È noto che, fin dall’entrata in vigore del nuovo Tito-lo V, il problema più rilevante che in proposito si è posto all’interprete riguarda il significato da dare al combina-to disposto del terzo e quarto comma dell’articolo 119 Cost. Ricordo che tale articolo, nel terzo comma, indica quale parametro di perequazione il criterio – indubbia-mente meno favorevole per le Regioni e gli enti territo-riali meno sviluppati – della “minore capacità fiscale per abitante” e, nel quarto comma, fissa la regola generale, conosciuta come regola di piena “autosufficienza finan-ziaria”, per la quale le risorse finanziarie indicate nello stesso articolo 119 “consentono ai Comuni, alle Provin-ce, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”.

Prima ancora che la legge delega entrasse in vigore, ho sempre ritenuto al riguardo che, nonostante che il criterio della minore capacità fiscale per abitante appa-risse non idoneo a garantire ad ogni ente regionale e locale l’integrale finanziamento cui si riferisce il quarto comma, tuttavia tali due disposizioni non dovevano es-sere interpretate nel senso che debba sempre prevalere l’una o l’altra di esse. Nella mia ricostruzione dell’arti-colo 119 il riferimento alla minore capacità fiscale non doveva, in particolare, comportare il totale abbandono del principio redistributivo, fondato sul criterio del fabbisogno effettivo e posto, appunto, alla base della richiamata generale norma di chiusura del quarto com-ma. Doveva solo significare che la parametrazione ad un’entità tendenzialmente, ma non necessariamente, più ristretta e comunque differenziata, basata esclusi-

vamente sulle basi imponibili, doveva valere solo per il finanziamento delle funzioni non essenziali, di quelle funzioni, cioè, che sono collegate a diritti che, pur es-sendo rilevanti, non possono tuttavia definirsi civili o sociali e, quindi, non devono essere garantiti con carat-tere di uniformità. E poteva anche essere accompagnata ad altri criteri, i quali o incentivassero la capacità fiscale medesima, come l’efficienza amministrativa e lo sforzo fiscale, ovvero compensassero, come la c.d. “fiscalità di vantaggio”, la debolezza finanziaria che potrebbe conse-guire dall’applicazione del criterio di capacità fiscale. La parametrazione al fabbisogno effettivo presupposta dal quarto comma doveva, invece, permanere per quanto riguarda i livelli essenziali dei diritti sociali e civili fissati dallo Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere m) e p) (e da valutare a costi standard a conclusione di una fase transitoria di “convergenza”). E ciò perché – sostenevo nel 2004 – dal punto di vista costituzionale e del buon senso politico la distribuzione delle risorse per finanziare la spesa per diritti essenziali rispondeva alla norma fondamentale dell’art. 3 Cost., che impone di assicurare, a parità di condizioni, uguale trattamento a tutti i cittadini della Repubblica, in qualunque zona del paese risiedano. Non poteva esservi dubbio infatti che, almeno per questi diritti, tale principio fondamentale dovesse prevalere su quello della minore capacità fisca-le previsto dall’art. 119, terzo comma, Cost. e dovesse dare, così, una specifica valenza applicativa al quarto comma dell’art. 119 medesimo.

Una siffatta interpretazione – fondata, nella sostanza, sulla distinzione tra servizi essenziali (e funzioni fonda-mentali), da finanziare in modo uniforme, e servizi non essenziali, da finanziare in modo differenziato secondo il criterio della (minore) capacità fiscale – mi sembra sia stata accolta dall’art. 9 della legge delega e regolata, sia pure in termini ancora abbastanza generali, dall’art. 11 del d.lgs. n. 68 del 2011.

Ai sensi dell’articolo 9, il sistema di riparto perequa-tivo regionale dovrebbe essere, in linea di massima, il seguente (salvo ulteriori specificazioni da apportare con appositi d.P.C.m.).

Quanto al finanziamento dei servizi essenziali – e cioè al finanziamento delle prestazioni concernenti i diritti ci-vili e sociali di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m) Cost., delle funzioni fondamentali degli enti locali di cui alla lettera p) dello stesso secondo comma e del trasporto pubblico locale – le aliquote dei tributi e delle comparte-cipazioni ad esso destinati sono determinate dallo Stato al livello minimo sufficiente ad assicurare, con il relativo gettito, la piena copertura del fabbisogno corrispondente ai livelli essenziali di detti servizi e funzioni valutati in una sola Regione (la più ricca). La conseguenza dell’applica-

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zione di tale sistema è che il ricorso al fondo di perequa-zione è ovviamente precluso alla Regione più ricca e resta limitato alla copertura delle differenze a favore delle altre Regioni che, essendo meno ricche, hanno un gettito in-sufficiente. Tale fondo, in particolare, deve colmare la dif-ferenza tra l’effettivo fabbisogno calcolato a costi standard e il gettito regionale dei tributi destinati al finanziamento dei richiamati servizi essenziali e funzioni fondamentali (il c.d. residuo fiscale).

Quanto al finanziamento dei servizi non essenziali, anche qui le Regioni con maggiore capacità fiscale ri-spetto alla media nazionale non attingono al fondo di perequazione e, quindi, non ricevono risorse per tale via. Quelle con minore capacità fiscale partecipano, in-vece, al fondo per ridurre le differenze interregionali di gettito per abitante rispetto al gettito medio nazionale (e non rispetto al fabbisogno effettivo). Trattandosi di una differenza tra il gettito per abitante e il gettito medio nazionale, si capisce però che l’abitante della Regione “povera” – e cioè della Regione con minore capacità fi-scale per abitante – è svantaggiato rispetto a quello della Regione “ricca”, perché il riparto del fondo è fatto aven-do come parametro la “media” e non l’effettivo costo del servizio. In altri termini, il fatto che a formare la media partecipino le stesse Regioni “povere” comporta l’abbassamento della media stessa e, conseguentemen-te, produce un parametro di riparto che sicuramente è meno favorevole del parametro pieno (non medio) della Regione più ricca.

È evidente che questo trattamento differenziato dei servizi in ragione del loro carattere essenziale o meno è l’effetto di una precisa scelta del legislatore diretta a privilegiare la spesa sociale in un contesto di federalismo fiscale cooperativo, rispettoso dei principi di uguaglian-za e solidarietà, ed a perseguire l’obiettivo dell’“integra-le finanziamento delle funzioni” fissato dal richiamato quarto comma dell’art. 119 Cost. Le spese sostenute per i servizi essenziali costituiscono, infatti, l’85 - 90% delle spese complessive e, pertanto, il criterio di uniformità si presenta di amplissima applicazione. È pur vero, però, che il restante 15 - 10%, rispondente al criterio meno favorevole della capacità fiscale per abitante, riguarda

servizi che, seppur non essenziali, attengono allo svi-luppo economico e interessano, perciò, proprio quelle Regioni (e quegli enti locali) delle zone meno sviluppa-te che dovrebbero essere incentivati a raggiungere – sia pure entro un ragionevole lasso di tempo – gli stessi li-velli di crescita delle altre Regioni (e degli altri enti). Da questo punto di vista, perciò, la perequazione in ragione della minore capacità fiscale li svantaggia fortemente, non essendo sufficiente ad evitare questo effetto nega-tivo la generica disposizione dell’art. 9, primo comma, lettera b), della legge delega, la quale cripticamente fa riferimento al criterio di “adeguatezza” per individuare l‘entità della “riduzione delle differenze tra i territori con minore capacità fiscale per abitante”.

Tutto sta, quindi, a vedere se questo handicap possa essere compensato con la c.d. ”fiscalità di vantaggio” o di “sviluppo”.

A questo punto, però, i problemi di attuazione di un federalismo fiscale cooperativo si complicano, perché l’utilizzo dello strumento della fiscalità di van-taggio implica necessariamente il superamento degli ostacoli che a tale tipo di incentivazione sono frapposti dalla normativa europea in tema di aiuti di Stato, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea di giustizia. Il tema della fiscalità di vantaggio, in altri termini, viene ad incrociarsi con quello dei limiti di applicabilità degli aiuti di Stato e presuppone, perciò, la risposta ad alcuni interrogativi di carattere generale che solo in questi ultimi anni la dottrina ha iniziato a porsi in termini sistematici. Si tratta, in particola-re, di accertare se nella specie la fiscalità di vantaggio possa, per il diritto dell’UE, essere realmente praticata dal legislatore nazionale (delegato o meno) e, in caso positivo, entro quali limiti essa sia realizzabile ai fini di riequilibrare il differenziato regime di perequazione escogitato dal legislatore delegante.

È questo un tema che pone problemi molto delica-ti, che si estendono anche alla perequazione municipa-le, dalla cui soluzione – considerata l’attuale debolezza dell’impalcatura fiscale complessiva – dipende in gran parte la realizzazione di un progetto federalista perequa-tivo che non mortifichi il sud del paese.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 17

Nuove prospettive dell’accertamento tributario

La mia relazione, su un tema che coltivo da sempre e che ha caratterizzato la mia produzione scientifica e la mia attività universitaria, avrà un po’ il sapore della rievocazione.

In essa si combinano ricorrenze e coincidenze.Per un verso il titolo richiama, con l’aggiunta dell’ag-

gettivo “nuova” il titolo di una prolusione che tenni nel 1980 nell’Accademia della Guardia di finanza all’indo-mani dei primi accertamenti post-riforma e dunque alla prima verifica sul campo delle novità introdotte in tema di accertamento.

In quella prolusione, a fronte delle insoddisfacenti continuità con il passato, richiamavo il pensiero di Ezio Vanoni in tema di collaborazione tra fisco e contribuente e invocavo una attuazione del tributo più sostanziale e più partecipata, con maggiori garanzie per i soggetti passivi.

Sugli stessi argomenti sono poi tornato nella rela-zione tenuta nel 2000 al Convegno Nazionale dell’AN-TI dedicato alla attualità del pensiero di Ezio Vanoni, nell’imminenza dell’entrata in vigore dello Statuto dei diritti del contribuente ed in presenza di forti tensioni sul sistema tributario derivanti dalle necessità (ahimé non soddisfatte) di risanamento della finanza pubblica, dalla internazionalizzazione e globalizzazione dei merca-ti, dalla realizzazione della moneta unica.

Allora concludevo: “questi fattori hanno creato le pre-messe e gli strumenti per superare la concezione autoritaria della amministrazione che ha condannato le riforme Vano-ni e Visentini e per pervenire ad una concezione <<euro-pea>> del nostro diritto tributario. Per superare dunque la concezione dell’accertamento tributario come fase di impo-sizione attuativa della potestà di imperio del fisco e realiz-zare finalmente l’idea vanoniana della partecipazione del cittadino, con pari dignità rispetto al fisco, alla attuazione della imposta giusta cioè corrispondente al presupposto di fatto. Questa è, a mio avviso, la più significativa attualità del pensiero di Vanoni che siamo finalmente pronti a rico-noscere e mettere in pratica”.

Negli ultimi dieci anni lo Statuto dei diritti del con-tribuente ha iniziato a dispiegare i suoi effetti, per la verità più che con riguardo alla formazione delle leggi e all’informazione del contribuente, con riguardo alla tutela patrimoniale e a quella dei diritti individuali e dell’affidamento.

Il “vincolo esterno” (internazionale e comunitario) ha anch’esso prodotto i suoi effetti soprattutto sui rap-

porti tra fisco e contribuenti, sulla partecipazione del privato, sulla tutela dei diritti individuali.

Per altro verso, è continuata l’anticipazione del get-tito che è culminata nella recente concentrazione della riscossione nell’accertamento.

Si tratta ora di esaminare brevemente quali siano le linee evolutive che hanno caratterizzato l’accertamento tributario sia sul piano dell’attuazione concreta del tri-buto che su quello della ricostruzione teorica.

Cercherò di farlo prendendo le mosse dai contributi sopra ricordati e, in omaggio all’impostazione storicistica dei colleghi nel 150° anniversario dell’unità d’Italia, guar-dando indietro fino ai tempi successivi all’unificazione.

L’unificazione condusse, rispetto alle prestazioni co-attive di carattere reale e sostanzialmente sinallagmati-che degli stati preunitari nelle quali le fasi attuative e dunque l’accertamento erano costruite in termini di situazioni soggettive riferite allo Stato-creditore, all’ado-zione di un’unica imposta di ricchezza mobile articolata in diverse categorie.

La distinzione in categorie, presupponeva diver-si metodi di accertamento: con l’evolversi del sistema, l’imposta di ricchezza mobile, pur destinata a colpire l’incremento effettivo di ricchezza derivante dal lavoro o dal capitale, venne progressivamente ad assimilarsi all’imposta fondiaria che colpisce invece un reddito me-dio ordinario: da un lato il reddito di ricchezza mobile era passibile di revisione da parte degli uffici in linea ordinaria dopo un triennio per la legge del 1864 e dopo un biennio per quella del 1877; termini peraltro solo or-dinatori; dall’altro l’accertamento dei redditi industriali, commerciali e professionali dei soggetti non tassati in base a bilancio era effettuato per classi di contribuenti con l’obbligo per gli ispettori delle imposte di tenerne nota onde realizzare “una equa proporzionalità tra gli iscritti di ciascuna classe”. La teoria del reddito mobi-liare quale ricchezza novella che si distacca dalla fonte nella definizione del Quarta, evocava il fenomeno natu-ralistico del reddito fondiario ed induceva a metodi di accertamento unitari.

Con l’affermarsi nella prima metà del ventesimo se-colo, del metodo giuridico di provenienza tedesca, la nozione di tributo venne svincolata dalla teoria della controprestazione e correlata alla sovranità dello Stato. L’obbligazione tributaria venne così sottratta alle situazio-ni soggettive dell’ente creditore e “coordinata in un più

di Augusto Fantozzi

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 18

ampio disegno costituzionale”. L’affermazione del meto-do giuridico oltre a favorire l’abbandono delle teorie del beneficio e della controprestazione nella riscostruzione del fenomeno tributario aprì la strada alla costruzione giuridica del tributo come obbligazione ex lege.

È evidente che all’affermazione del principio di so-vranità corrisponde l’ampliamento e il rafforzamento dei poteri di accertamento espressivi appunto di tale principio: nella vigenza dell’imposta di ricchezza mo-bile, le disposizioni procedimentali sulla dichiarazione, l’accertamento e la riscossione contenute nel testo unico del 1877 vennero assunte in dottrina e in giurispruden-za come principi generali in materia tributaria.

Nonostante tale generalizzazione, si accentuò tutta-via la determinazione del presupposto e della base impo-nibile secondo i criteri di medietà e ordinarietà stabiliti con le leggi originarie all’indomani dell’unificazione na-zionale. Così per un verso fu disposto che il reddito era sempre sottoposto ad accertamento con cadenza bien-nale e che la dichiarazione delle variazioni in aumento dovesse essere effettuata dal contribuente soltanto tra-scorsi quattro anni dall’ultimo accertamento (artt. 4 e 5 testo unico 17 settembre 1931 n. 1608).

Per altro verso veniva attribuito lo specifico compito agli ispettori compartimentali delle imposte dirette di fornire all’amministrazione centrale con periodicità an-nuale “dati ed elementi relativi all’ammontare presuntivo del reddito globale attribuibile alle grandi categorie di attività produttive operanti nella propria circoscrizione” (art. 8 e 9 RDL 7 agosto 1936 n. 1639). Attraverso un procedimento di ricerca fondato su criteri statistico-con-tabili gli ispettori procedevano a redigere “studi di set-tore” diretti a fissare dei coefficienti di redditività media in relazione ai ricavi lordi da applicare a tutti i soggetti appartenenti ad una determinata categoria economica.

Questi strumenti, pur destinati soltanto ad agevolare l’amministrazione nella propria attività di accertamento, vennero in realtà applicati acriticamente ed automatica-mente dagli uffici. Ne derivò, anche per l’imposta di ric-chezza mobile, un criterio di determinazione della base imponibile che presentava molti profili di affinità con il metodo catastale: la legge per un verso e le istruzioni e di-rettive amministrative per l’altro perseguivano il risultato della normalizzazione dei redditi imponibili appartenenti alla stessa categoria economica.

Rispetto a questo stato della legislazione, della prassi amministrativa e della dottrina tributaristica il pensiero di Ezio Vanoni si pone oggi come rivoluzionario.

Già nelle Norme generali del diritto tributario del 1942, quindi nel Rapporto della Commissione econo-mica presentato all’Assemblea Costituente del 1946, ed infine nel progetto di riforma tributaria del 1950 egli

individua nel dovere di solidarietà il criterio di parte-cipazione del privato, attraverso il tributo, alla spesa pubblica; correla a questo dovere quello dell’imparziali-tà dell’amministrazione e pone nelle Norme generali la fase di attuazione del tributo quale momento essenziale della realizzazione di un prelievo “giusto” in quanto fi-nalizzato a consentire quella partecipazione solidale che è espressa dalla effettiva tassazione in base alla capacità contributiva manifestata dal presupposto.

Questo schema si completa attraverso le leggi di pe-requazione tributaria, del ’51 e del ’56, in cui appunto la perequazione si realizza, rispetto alla situazione pre-vigente, nel collegamento tra la nozione sostanziale del tributo e la sua corretta attuazione attraverso gli stru-menti dell’accertamento e della riscossione.

Giurisprudenza e prassi amministrativa ricostruiro-no poi l’assetto complessivo del sistema fiscale attenuan-do buona parte delle modifiche e degli apporti teorici formulati da Vanoni.

Gli aspetti di progresso, innanzitutto in ordine alla formazione in contraddittorio dell’atto di accertamen-to, furono sostanzialmente sterilizzati con l’ammissione contro il tenore della legge di dichiarazioni sintetiche, in cui l’obbligo del contribuente era trasformato in una situazione di onere, con il conseguente riconoscimen-to di una illimitata discrezionalità dell’amministrazione finanziaria nel determinare il livello di analiticità nel-la ricostruzione del reddito nonché con il consentire al contribuente la scelta del livello di sintesi a cui do-vesse svolgersi l’accertamento. Le istanze garantistiche del disegno prefigurato da Vanoni finivano svuotate di effettivo carattere precettivo. Giurisprudenza e prassi si consolidarono inoltre nel senso che scritture contabili e bilancio, risposte a questionari ed ispezioni contabili, la dichiarazione stessa assumevano non tanto il ruolo di elementi condizionanti i fondamenti, il contenuto, i limiti del potere amministrativo, quanto piuttosto di elementi condizionanti della mera forma dell’accerta-mento tributario.

I vincoli immaginati da Vanoni nei sofisticati (alme-no per allora) procedimenti normativi venivano dunque relegati al solo piano formale.

Lo stesso obiettivo di raggiungere un criterio di ac-certamento che consentisse una ricostruzione del reddi-to effettivo finì per essere obliterato dall’orientamento giurisprudenziale ed amministrativo a seguito dell’ampia area riconosciuta alla operatività di accertamenti sintetici e presuntivi e della marginalizzazione della dichiarazione unificata. La priorità logica ed operativa dell’accertamen-to analitico nella ricostruzione del presupposto veniva accantonata a favore di tecniche tradizionalmente diffu-se nel nostro ordinamento che identificavano il nucleo

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 19

essenziale dell’accertamento in coefficienti di valutazione preventivamente ricostruiti attraverso elementi-indice.

La reazione di giurisprudenza e prassi amministra-tiva finì pertanto per vanificare gli spunti “progressisti” del pensiero di Vanoni, probabilmente condizionata da vincoli e rigidità del sistema apparato, ancora lontano dal digerire e metabolizzare nuove regole del gioco tra fisco e contribuente.

La riforma sostanziale del sistema tributario intor-no ad una imposta personale progressiva sul reddito che Cosciani aveva affossato nel Rapporto sull’impo-sta complementare del 1942 e che aveva posto a base dello schema di riforma del ’50 fu poi realizzata con la riforma tributaria degli anni ’70. Essa coltivò il mito dell’imposta unica sul reddito generalizzando la figura del sostituto d’imposta ed estendendo a tutti gli impren-ditori e i professionisti la tenuta delle scritture contabili.

Sotto il profilo dell’accertamento, per la verità, la ri-forma mantenne pregi e difetti del sistema che si era venuto stratificando, senza apportare ad esso sostanziali variazioni.

Mantenne così la generalità della dichiarazione e dell’accertamento analitico; mantenne l’integrazione in-duttiva dell’accertamento analitico sulla base di presun-zioni gravi, precise e concordanti; mantenne l’accerta-mento extracontabile in base a presunzioni prive di tali requisiti per casi gravi e tassativi di violazioni da parte dei contribuenti tenuti alle scritture.

In realtà la riforma abolì l’inversione dell’onere del-la prova e ridusse la protezione contabile per i soggetti tassati in base a bilancio, ma per l’equivocità della giu-risprudenza in tema di ricorso al comma 2 e al comma 3 dell’art. 39 non impedì il perpetuarsi di una prassi sostanzialmente riproduttiva del passato: l’amministra-zione era di fatto libera nella scelta del metodo di ac-certamento e soprattutto nella scelta del livello di sin-teticità e induttività dello stesso. Il tutto si rifletteva sul livello della motivazione, auspice una giurisprudenza estremamente lassista sulla distinzione tra motivazione insufficiente e omessa.

Occorre ricordare che se la riforma del ’70 aveva ge-neralizzato la figura del sostituto concorrendo a formare due grandi categorie di contribuenti, (quelli che sconta-no l’imposta in base a ritenute e quelli in base a dichia-razione) e creando le premesse per un grande movimen-to di opinione che condurrà alla modifica – in senso vanoniano – del nostro ordinamento, un ulteriore passo decisivo nella valorizzazione della funzione del contri-buente e nello spostamento dall’amministrazione al pri-vato dell’onere dell’attuazione del tributo fu realizzato da Visentini che, preso atto con il libro bianco del ’75 dell’inefficienza ed immobilismo dell’amministrazione,

generalizzò l’autoliquidazione e la riscossione del tribu-to a mezzo banca, istituto che poi fu variamente caval-cato per esigenze di cassa negli anni successivi attraverso ogni genere di anticipazione e di acconti d’imposta.

Nonostante questi aggiustamenti, anche la rifor-ma del ’70 è stata sconfitta dalla pratica: questa era la sconsolata conclusione cui pervenivo – nell’invocare un ritorno all’ideologia vanoniana – nella ricordata prolu-sione dell’80.

Se si guarda all’accertamento come uscito dalla riforma ’71-73 esso – come visto – mantiene la struttura e le pre-messe ideologiche derivanti dalla tradizione precedente.

Nella storia recente del nostro ordinamento tribu-tario, debolezza politica dei governi di coalizione e vi-cende della finanza pubblica non hanno consentito di incidere in modo strutturale e sistematico sui presup-posi sostanziali e sulle aliquote dei tributi. Una intensa attività legislativa ha invece riguardato i profili formali del tributo e soprattutto l’accertamento, la riscossione e le sanzioni, sui quali reagivano da un lato esigenze di gettito che raccomandavano la massima anticipazione del prelievo, dall’altro esigenze di contrasto all’evasione con strumenti di carattere generale viste le scarse capa-cità del fisco di reagire ai singoli comportamenti evasivi dei contribuenti.

L’anticipazione del prelievo è una costante, nel nostro ordinamento, dagli anni Settanta, quando alle iscrizioni provvisorie a ruolo furono affiancate le autoliquidazioni in dichiarazione e i versamenti in banca o in tesoreria provinciale. Da allora, attraverso la generalizzazione delle ritenute, l’introduzione degli acconti d’imposta via via sempre più vicini al 100% del tributo dovuto e la liquidazione e riscossione dell’imposta in sede di con-trollo formale della dichiarazione introdotta con gli artt. 36 bis e 36 ter del d.p.r. 29 settembre 1973 nr. 600, si è realizzato un assetto dell’accertamento e della riscos-sione per cui al momento della dichiarazione da parte del contribuente si è di solito integralmente realizzata la riscossione spontanea di tutto quanto dovuto in base alla dichiarazione stessa.

Per elevare il livello di compliance dei contribuenti si è operato, per un verso, con misure premiali di carat-tere generale: i condoni previsti dalle leggi 30 dicembre 1991 nr. 413, 30 novembre 1994 nr. 656, 27 dicem-bre 2002 nr. 289, che hanno subordinato alla dichia-razione integrativa, autoliquidazione e versamento del dichiarato determinati benefici in termini di riduzione dell’imposta e preclusioni dall’accertamento; per altro verso, con meccanismi automatici e statistici di determi-nazione dell’imponibile (coefficienti, parametri, studi di settore), con il rispetto dei quali il contribuente era mes-so al riparo da ulteriori pretese del fisco.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 20

In definitiva, da un lato il legislatore ha dato il massimo spazio all’adempimento spontaneo del con-tribuente in sede di dichiarazione/autoliquidazione/versamento, dall’altro ha anticipato anche i tempi dell’accertamento introducendo, con l’art. 41 bis del d.p.r. 29 settembre 1973 nr. 600, l’accertamento par-ziale di cui è stato progressivamente ampliato l’ambito di applicazione già in presenza di qualunque elemento anche presuntivo e basato su indici, coefficienti e stu-di, in modo da consentire al fisco di accertare materia imponibile e iscrivere a ruolo imposta non appena in possesso di elementi fondati e, dunque, nel tempo più ravvicinato possibile rispetto al loro verificarsi. Il prin-cipio della unicità e globalità dell’accertamento è stato così fortemente intaccato.

L’altra linea evolutiva, che si è affermata fortemen-te nell’ultimo decennio, riguarda il rafforzamento della posizione del privato nella fase di accertamento.

In parte per la difficoltà di gestire una fiscalità di massa, in parte per le esigenze di origine europea e in-ternazionale di riconoscere maggiore “civiltà” ai rappor-ti tra fisco e contribuente (sancite poi nello Statuto), si sono moltiplicate negli ultimi anni le misure premiali, di definizione consensuale, di partecipazione del contri-buente alle fasi di attuazione del tributo.

La generalizzazione della definizione dell’imponibi-le con adesione (concordato: d. legisl. 19 giugno 1997 nr. 218) ha sicuramente concorso alla responsabilizza-zione dell’amministrazione finanziaria e a eliminare i vecchi formalismi nell’esercizio della funzione vinco-lata d’imposizione.

Infine, il moltiplicarsi degli obblighi di chiamata, di interlocuzione, di comunicazione, di notifica al contri-buente dei diversi atti tributari al fine di partecipare al procedimento sia in funzione collaborativa sia in funzio-ne difensiva (contraddittorio), pone in evidenza un nuo-vo modo di esercitare la funzione tributaria nel rispetto dei principi di buona fede e di affidamento che sono ora sanciti nello Statuto dei diritti del contribuente.

Lo stesso è da dire per l’espandersi dei diversi tipi di interpello (art. 21 della l. 30 dicembre 1991 nr. 413; d. legisl. 8 ottobre 1997 nr. 358; art. 37 bis, 8° co., del d.p.r. 29 settembre 1973 nr. 600; art. 11 della l. 27 lu-glio 2000 nr. 212) e del ruling internazionale (art. 8 nel d.l. 30 settembre 2003 nr. 269) con cui sempre più fre-quentemente i contribuenti sono messi in condizione di conoscere preventivamente la posizione vincolante per l’amministrazione sulle fattispecie da essi realizzate.

Tutti i sopra ricordati strumenti di partecipazione del privato alla attuazione del tributo, se hanno atte-nuato la rigidità e i formalismi ingenerati dalla riserva di legge, dal principio di stretta legalità e di indisponibilità

dell’obbligazione tributaria, hanno tuttavia incentivato la “privatizzazione” del rapporto tra fisco e contribuenti.

La stessa costituzione delle Agenzie fiscali, enti di di-ritto privato che gestiscono i tributi su concessione del Ministero dell’Economia e delle Finanze, può favorire il rinascere di profili privatistici nella gestione del tributo evocando in qualche modo la distinzione tra Fisco ed Erario nel diritto romano.

Se, in conclusione, una rivalutazione dell’apporto del privato e dei principi di affidamento e buona fede è sicuramente da salutare con favore, non si deve ritenere, invece, che una eccessiva privatizzazione nella gestione del tributo corrisponda alla funzione pubblica di appli-cazione di esso in ragione della capacità contributiva del soggetto passivo, così come ancora previsto dall’art. 53 della Costituzione.

La continua ricerca dell’anticipazione del gettito combinata all’esigenza di contrastare la sempre più dif-fusa evasione ed elusione ha reso centrale la fase di riscos-sione e rafforzato a dismisura le misure cautelari.Questa tendenza è stata realizzata da un lato con l’adozione di misure premiali in vista della definizione dell’imponibi-le e dell’imposta (adesione sempre più anticipata: art. 5 bis D. Lgs. 19 giugno 1997 n. 218 come modificato dal DL 25 giugno 2008 n. 112) e con riduzione progressiva di sanzioni e interessi e da ultimo con la cosiddetta con-centrazione della riscossione nell’accertamento (art. 29 DL 31.5.2010 n. 78).

Per altro verso la più recente legislazione è stata ca-ratterizzata da più marcata attenzione ai diritti indivi-duali dei contribuenti e alla loro partecipazione alla fase di accertamento.

Questo fenomeno è stato indotto da un lato dal-la pressione esterna prodotta dalla giurisprudenza della Corte europea, assai sensibile alle situazioni soggettive so-stanziali dei singoli e dalla progressiva applicazione anche in campo tributario dei principi della Convenzione sui diritti dell’Uomo a tutela dei diritti individuali (seguendo la via aperta dei principi contenuti nello Statuto dei diritti del contribuente), dall’altro dalla circostanza secondo cui ogni volta che il legislatore italiano ha ridotto sul piano sostanziale gli spazi di libertà del contribuente, ha poi provveduto in contropartita ad allargare gli strumenti di partecipazione e di contraddittorio.

Ciò è avvenuto puntualmente a partire dai primi co-efficienti introdotti da Visentini e si è poi riprodotto in tutti i casi successivi: redditometri, parametri, studi di settore, ecc.

Ogni volta che il legislatore riduceva la libertà del contribuente introducendo presunzioni legali, limiti alla prova, ecc., al tempo stesso consentiva maggiori possibi-lità di dialogo magari rendendo obbligatoria la chiamata

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 21

e la partecipazione ma quasi sempre senza sanzionare la loro inadeguata realizzazione.

È indubbio che il combinarsi delle due linee di ten-denza che emergono con più forza nel panorama recen-te della legislazione in tema di accertamento (quella di anticipazione e rafforzamento della riscossione e quella di partecipazione del contribuente e di rafforzata tutela delle sue posizioni soggettive) ha frammentato la fase di attuazione del tributo tuttora però legislativamente basata sulla determinazione della capacità contributiva e su una serie di obbligazioni frazionate di pagamento del tributo.

Ne è nata una dialettica tra posizioni che sottoline-ano la molteplicità delle situazioni soggettive passive e i corrispondenti poteri di controllo da parte del fisco e posizioni che riconoscono la necessità di ricondurre la innegabile pluralità di situazioni soggettive e di atti di controllo all’unità sostanziale del presupposto a ri-schio di svincolare totalmente l’attuazione del tributo dal principio di capacità contributiva.

Da parte dei fautori della prima impostazione si è criticata la centralità della nozione di presupposto nello studio del tributo (La Rosa) e si è affermato che le at-tività conoscitive e di controllo comunemente indicate come attività istruttorie godono di autonomia funzio-nale rispetto all’accertamento (Gallo).

L’evoluzione legislativa mostrerebbe la tendenza a superare la ricostruzione coercitiva del tributo valoriz-zando la responsabilizzazione e collaborazione del con-tribuente, non necessariamente collegate all’attività di accertamento.

Dalla negazione che le cosiddette attività istruttorie siano in qualche modo funzionali all’accertamento del-la capacità contributiva deriva in primo luogo una rico-struzione atomistica della funzione tributaria nella quale i numerosi poteri del fisco e le numerose e diverse situazio-ni soggettive dei contribuenti sarebbero unificati da una pretesa funzione dell’amministrazione finanziaria, carat-teristica dei sistemi fiscali di massa e rispondente ad un interesse pubblico alla vigilanza e al controllo delle attivi-tà economiche svolte dai contribuenti e dai terzi (Gallo).

Questa costruzione atomistica potrebbe però con-durre lontano: ad una concezione marcatamente au-toritativa del tributo (nonostante le premesse) basata sull’esercizio di tanti distinti poteri singolarmente in-dicati dalla legge e singolarmente oggetto di controllo; all’ampia ammissibilità di poteri discrezionali in cam-po tributario (i diritti dei singoli essendo degradati dall’esercizio dell’interesse pubblico alla vigilanza), al conseguente ampio spazio da attribuire a situazioni di interesse legittimo con le conseguenze ben note in ter-mini di giurisdizione.

Mi pare, francamente, che le pur affascinanti ed acu-te ipotesi ricostruttive rischino di far compiere alla no-stra materia una fuga in avanti verso ipotesi ricostruttive che, da un lato, fortunatamente non sono seguite dalla giurisprudenza di legittimità, e, dall’altro, rischiano di rivelarsi improduttive.

Così come è avvenuto, ai tempi della mia giovinez-za, con le tesi più estremistiche sulla natura costitutiva dell’accertamento e sulla sua rigorosa costruzione in ter-mini procedimentali che poi si sono rivelate assai meno rivoluzionarie e risolutive quando confrontate con la real-tà legislativa e giurisprudenziale molto più legata alla tra-dizionale sostanza patrimoniale del fenomeno tributario.

Sto cercando di dire, in definitiva, che tutte le tesi estreme, sia quella della rigidità strutturale e procedi-mentale dell’accertamento tributario (che includerebbe necessariamente la fase istruttoria e quella di controllo) sia quella della totale separatezza e de-funzionalizzazio-ne dei poteri e degli atti di realizzazione dei tributi pec-cano di eccessiva astrazione e rischiano di non cogliere l’essenza del fenomeno.

Non può contestarsi, infatti, a mio avviso, che la funzione tributaria è diretta all’applicazione del giusto tributo e che per questo è necessaria la determinazione qualitativa e quantitativa del presupposto.

Che la fase di accertamento sia stata per lungo tempo riferita all’obbligazione è un fatto che ha a lungo in-quinato lo studio del fenomeno specie con riguardo ai numerosi profili di anticipazione del prelievo.

Il fatto che la riscossione anticipata e frazionata abbia richiesto fattispecie che la legittimassero rendendo neces-sari i relativi controlli ha complicato lo studio delle rela-zioni tra singoli atti istruttori e di controllo degli adem-pimenti parziali e ricostruzione complessiva del tributo.

Non si può certo negare che di pari passo con il rafforzamento degli adempimenti formali e sostanzia-li imposti ai contribuenti, e insieme con le garanzie di partecipazione loro attribuite, si siano moltiplicati gli atti di controllo attribuiti dalla legge ai diversi soggetti pubblici che presiedono all’attuazione del tributo.

Ma altrettanto non può negarsi la tradizionale costru-zione della materia intorno alla nozione di tributo: gli atti istruttori, di controllo, propedeutici e non, in tanto han-no un senso in quanto conducono alla determinazione diretta o indiretta di una capacità contributiva.

Gli atti anticipati e parziali di accertamento e di ri-scossione in tanto hanno un senso in quanto realizzi-no complessivamente un concorso alle spese pubbliche commisurato alla capacità contributiva.

E rispondendo a criteri di certezza ed economicità della funzione tributaria: cioè riducendo al minimo i ri-schi di rimborsi o di esborsi non dovuti.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 22

Il che si può ottenere soltanto riconducendo la fram-mentarietà degli atti e delle situazioni soggettive, di cui non si nega la pur autonoma rilevanza e sanzionabilità, alla capacità contributiva unitaria espressa dal presup-posto o, come dicevano gli antichi, alla Obbligazione tributaria con la O maiuscola.

Il che tuttora fa, con encomiabile, approccio conser-vativo, la Suprema Corte.

Si tratta allora di inserire le ricordate novità legi-slative, che certo impattano fortemente sulla ricostru-zione teorica, in tema di anticipazione degli accerta-menti e delle riscossioni nonché in tema di parteci-pazione del contribuente e di tutela dei suoi diritti individuali, nella sopra esposta concezione dell’accer-tamento tributario.

E si scoprirà, allora, che è perfettamente possibile (salve modifiche e aggiustamenti che saranno indicati) realizzare la tutela anche giurisdizionale delle diverse situazioni soggettive, sostanziali e formali, di diritti e interessi legittimi, nascenti dalle diverse fattispecie previste dalla legge senza la necessità di frammentare inutilmente l’esercizio della funzione tributaria (che è funzione di realizzazione del concorso e non di con-trollo delle attività economiche) e mantenendo sal-da una concezione sostanziale del tributo ancorata al principio di capacità contributiva.

Alla pars destruens, di dissezione, che può servire alla descrizione e alla comprensione del fenomeno, non può non affiancarsi la pars costruens che mira alla visione complessiva e mantiene ferma la natura patrimoniale e la funzione del tributo.

I punti di rilievo di una siffatta ricostruzione che mi limiterò a indicare sommariamente riguardano: 1) La compatibilità dell’accertamento parziale, 2) La con-centrazione della riscossione nell’accertamento, 3) La partecipazione del contribuente nei suoi riflessi sulla invalidità degli atti, 4) La tutela dei diritti individuali nell’esercizio dei poteri istruttori.

Quanto al primo punto, la dottrina ha tratto dall’estrema frammentazione delle attività di controllo e di riscossione in base all’ormai sola regola secondo cui accertamenti (parziali) e riscossioni (frazionate) si fanno non appena si raggiunge sufficiente prova (ora anche in-duttiva) della esistenza di redditi o attività non dichiara-te, delle conclusioni sistematiche.

Per un verso affermando il venir meno del presuppo-sto di fatto del tributo quale referente oggettivo dell’ac-certamento dal momento che ormai anche le imposte sul reddito si configurano come tributi senza accerta-mento nei quali l’intervento amministrativo è unica-mente legittimato da puntuali violazioni delle norme che disciplinano il prelievo.

Per altro verso, ritenendo che ormai il pensiero le-gislativo evidenzi una serie di regimi di accertamento tipizzati non in base all’oggetto della rettifica bensì in base al carattere dell’istruttoria.

Al decrescere del carattere limitato dell’istruttoria (dalla liquidazione infratestuale fino all’accertamento ordinario) aumenta la tendenziale stabilità dell’accer-tamento, risultano più estesi i termini di decadenza, si ampliano le possibilità di definizione concordata, si rafforzano garanzie procedurali all’irrogazione delle san-zioni e così via. In questa prospettazione l’amministra-zione resterebbe vincolata al tipo di accertamento con-seguente al carattere dell’istruttoria posta in essere; uno spunto in tal senso potrebbe trarsi dal divieto legislativo di utilizzare l’accertamento parziale per contestare l’esi-stenza di imposte non versate che emergono dal riscon-tro cartolare della dichiarazione.

Per altro verso, infine, si constata il superamento del principio di unicità dell’accertamento, la generalizzazio-ne del ricorso al parziale, con conseguente lesione delle garanzie giurisdizionali del contribuente, l’incoerenza della disciplina con il permanere dell’art. 43, 3° co., del d.P.R. n. 600/1973 e si invoca un intervento risolutivo del legislatore.

Tutte le esposte teorie estraggono dalla affrettata di-sciplina legislativa considerazioni interessanti che però, a mio avviso, non tengono conto in modo adeguato dell’origine storica e dell’evoluzione giurisprudenziale che continua a considerare l’accertamento parziale ecceziona-le e derogatorio rispetto a quello ordinario, annullandolo talvolta per superamento dei presupposti specifici.

In questa prospettiva pragmatica in cui si è posto il legislatore, poco sostenibile appare la tesi che egli ab-bia voluto tipizzare le forme di accertamento in ragione dell’istruttoria svolta: l’eccessivo formalismo legherebbe infatti le mani a un’amministrazione che palesemente aspira a tenerle libere per colpire ogni sufficiente indizio di evasione. Tanto che l’atteggiamento giurisprudenziale diretto ad annullare gli accertamenti parziali basati su verifiche generali è piuttosto da leggersi come una sorta di riconoscimento da parte dei giudici della specialità di tale tipo di accertamento, rispetto all’accertamento ordinario che pure resta quello “normale”.

Il divieto, previsto dal legislatore, di utilizzare il par-ziale per recuperi di imposte ricavabili dal controllo infratestuale della dichiarazione, lungi dal suffragare la pretesa tipizzazione, costituisce a mio avviso riprova del riconoscimento da parte del legislatore della diversa na-tura, liquidativa ovvero accertativa, dei due atti.

Anche la tesi che riduce l’attività di accertamento al controllo dei singoli comportamenti dei soggetti coinvol-ti nell’attuazione del prelievo non mi appare persuasiva.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 23

Se essa giustamente ridimensiona la portata del momento dell’accertamento rispetto ad altri momenti dell’attività amministrativa (controlli, ispezioni, indagini, varie attività strumentali) di applicazione del tributo, non mi appare tuttavia che essa possa comunque sottrarsi alla rilevanza del fondamento costituzionale del prelievo.

Se è vero infatti che per il principio di legalità l’at-tività di determinazione del tributo è sottratta ad ogni discrezionalità amministrativa, è pur vero che ogni sin-gola previsione legislativa concorre a realizzare la ca-pacità contributiva prevista dalla norma. Controllare il rispetto di ciascuna singola disposizione equivale ad accertare ciascun tassello di cui si compone la capacità contributiva prevista dal tributo. In buona sostanza, dire che l’attività di accertamento determina il presupposto del tributo e dire invece che essa controlla e sanziona i singoli adempimenti posti a presidio della sua attuazio-ne equivale a mio avviso ad esprimere in termini diversi la stessa realtà.

L’evidenza legislativa e la costante giurisprudenza di legittimità dimostrano la coesistenza, al di là di ogni ra-gionevole dubbio, accanto all’accertamento parziale di un accertamento normale integrabile solo per la soprav-venuta conoscenza di elementi nuovi.

Può essere che ragioni di anticipazione del prelie-vo raccomandino l’abbandono della globalità a favore della parzialità dell’accertamento. Tali ragioni peraltro non inficiano la formazione progressiva dell’accertato con la necessità di un conguaglio finale dei versamenti frazionati e rendono necessaria la modifica legislativa dell’art. 43/600.

Con riguardo alla cosiddetta concentrazione della riscossione nell’accertamento, occorre in primo luogo rilevare che lo stesso art. 29 richiama all’inizio il mero “potenziamento” delle attività di riscossione. Si tratta dunque dell’ennesima anticipazione della riscossione operata sbrigativamente “innestando” sull’atto di accer-tamento anche la funzione di ruolo e di precetto.

Pur ad ammettere l’opportunità di una unificazione della disciplina dell’accertamento e della riscossione in funzione di anticipazione e di rafforzamento di quest’ul-tima, l’obiettivo si sarebbe potuto raggiungere con un intervento legislativo più meditato che – come è stato ri-levato da più parti – non solo coordinasse i vari termini di decadenza previsti nell’art. 29, ma soprattutto coor-dinasse il nuovo accertamento esecutivo con i numerosi casi in cui resta in vita la riscossione tradizionale in base a ruolo e con quelli in cui il ruolo duplica la natura di atto di accertamento.

Come è stato rilevato, intersecare spezzoni di disci-plina pensati per un sistema di accertamento/riscossio-

ne coordinato e diverso, non induce ad ipotizzare nuovi schemi di attuazione del tributo, ma problemi e incer-tezze applicative e riduce in definitiva la tutela del con-tribuente.

In definitiva la nuova centralità della riscossione e l’accertamento esecutivo moltiplicano le occasioni di “solve et repete” e di pagamenti non conformi alla capa-cità contributiva.

Si torna indietro di almeno 60 anni nell’evoluzione del diritto tributario.

Venendo ai riflessi della rafforzata partecipazione del contribuente sulla conseguente validità/invalidità degli atti, è da dire che se dottrina e giurisprudenza invocano ora largamente tale partecipazione obbligatoria, dall’al-tro lato ad un tale sentire non corrisponde la previsione legislativa che limita a casi ridottissimi (art. 6, comma 5 Statuto del Contribuente, art. 37 bis comma 4 e 5 DPR. 600/73, art. 16 D. Legls. 472/1997) la come noto necessaria comminatoria espressa di invalidità degli atti.

Il quadro che allora ne risulta con riguardo alle viola-zioni del contraddittorio è il seguente.

Per la violazione delle disposizioni sulla partecipa-zione non assistite da espressa sanzione di nullità (art. 38/600; art. n. 32/600) si tratta di vedere se in funzione dell’interesse generale che la norma presidia la parteci-pazione del privato possa essere ritenuta essenziale. In caso affermativo, la mancata partecipazione rende inva-lido/annullabile l’atto.

Le violazioni di norme espressamente assistite da nul-lità (art. 6, comma 5; art. 37 bis DPR n. 600) determi-nano nullità/annullabilità dell’atto emesso in violazione perché il legislatore ritiene essenziale in funzione del ri-sultato la partecipazione difensiva del contribuente.

A maggior ragione ciò avviene là dove la legge preve-de il contraddittorio rafforzato, come nel caso del pro-cedimento di irrogazione della sanzione: in questo caso può a mio avviso trattarsi financo di nullità assoluta, dunque imprescrittibile, insanabile e rilevabile d’ufficio.

Le cautele con cui si sono esposte tali conclusioni sono sintomatiche dell’esigenza, del resto già rilevata dalla dottrina, di una riconsiderazione complessiva del tema delle invalidità degli atti tributari.

Che tenga conto da un lato dell’appartenenza del dirit-to tributario al diritto amministrativo e dei passi decisivi che in questo ha compiuto la rilevanza della partecipazio-ne del privato, in funzione della tutela dell’interesse pub-blico, dall’altro della peculiarità del nostro settore in cui occorre mediare tra esigenze di garanzie del contribuente ed esigenze che l’esercizio della funzione impositiva per-venga ad un risultato utile e non meramente formale.

Che infine valorizzi adeguatamente nella nuova pro-spettiva di un fisco civile e all’altezza dei tempi, la par-

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 24

tecipazione e il contraddittorio del contribuente che la giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia ha ele-vato a principio essenziale del diritto comunitario.

Infine il tema della tutela dei diritti individuali lesi dall’esercizio illegittimo di poteri istruttori, con partico-lare riguardo ai diritti non tributari o a quelli dei terzi, è quello che più di ogni altro ha indotto di recente la dot-trina alla frammentazione della pretesa unitarietà della fase di accertamento.

Fermo quanto detto sopra sui rischi che tale frammen-tazione comporta sul piano sostanziale, non mi pare che sul piano formale l’alternativa secca sia tra una insuffi-ciente tutela differita contro l’atto di accertamento e una necessaria autonomia funzionale delle attività conoscitive e di controllo rispetto all’attività di accertamento.

È stato infatti recentemente dimostrato, con dovizia di argomenti, come atti diversi dal provvedimento fina-

le siano impugnabili autonomamente quando si tratti di atti conclusivi di procedimenti collegati immediata-mente lesivi di situazioni giuridiche soggettive.

Ferma l’impossibilità di tutela davanti alle commis-sioni per mancanza di atto impositivo e riconosciuta la sussistenza in capo al contribuente e ai terzi di situazioni soggettive immediatamente passibili di lesione si tratta di vedere se l’atto istruttorio illegittimo abbia determi-nato o meno la degradazione dei diritti in interessi legit-timi con le note conseguenze in tema di opzione per la giurisdizione ordinaria o amministrativa.

È a ben vedere la riproposizione con maggiore consape-volezza e più aggiornati strumenti anche giurisprudenziali di tesi anche da me avanzate in passato relative a profili di discrezionalità nell’esercizio dei poteri istruttori ma anche per questa via non mi pare che venga messa in discussione la tradizionale concezione dell’accertamento tributario.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 25

Le origini storiche dei principi di giustizia tributaria (uguaglianza e capacità contributiva) codificati ne-gli artt. 24 e 25 dello Statuto Albertino

1. Le due letture dell’art. 53 della Costituzione oggi imperanti. La esigenza di una indagine sui “pre-cedenti storici” della disposizione in questione.

È cosa risaputa che le due concezioni di capacità contributiva (e di uguaglianza) attualmente imperanti tra i giuristi sono agli antipodi in tutto. Non si tratta di divaricazioni su aspetti marginali ma di una sorta di contrapposta lettura, divergente di 180 gradi.

Vi è una corrente minoritaria che sottopone ad una lettura nichilista ed abrogante la disposizione del pri-mo comma dell’art. 53 della Costituzione, evirandola e riducendola ad un mero doppione dell’art. 3 della stessa Costituzione, pur esso svuotato di consistenza. E vi è, su un contrapposto crinale scientifico, una più robusta corrente dottrinale per la quale il primo com-ma dell’art. 53 è disposizione di alto spessore normati-vo da cui sgorgano numerosi vincoli per il legislatore ordinario che, compendiosamente e succintamente, si possono enunciare nel modo che segue:

1°) l’imposta è una contribuzione obbligatoria posta a carico di soggetti appartenenti al corpo sociale consi-stente in prestazione di beni (di norma, denaro), analo-ga al servizio militare, che è prestazione di opere (da cui discende la assimilazione dell’evasore al disertore);

2°) adempierla è un onore, oltre che un dovere giuri-dico, perché, come ebbe a dire un antico scrittore, sulle orme della giurisprudenza, pagare le imposte vuol dire pagare i costi per «l’ordine, la libertà,la giustizia, la sicu-rezza, la beneficenza, l’esercito, l’armata, l’indipendenza e l’onore della patria»1;

1 Così G.RICCA-SALERNO, Le entrate ordinarie dello Stato, in Trattato Orlando, vol. IX, II ed., p. 168, nota 2.Questo autore chiarisce senza ambiguità e nitidamente, richiaman-do il pensiero di Gerber e F.J. Stahl, quanto segue: «La base giuridica delle imposte è il semplice fatto della sudditanza. Come nell’essere stesso e nei fini dello Stato è la necessità delle spese, così devono i cittadini, quali membri di esso, contribuire al pagamento. La nazione, come un tutto, fornisce i mezzi occorrenti agli uffici dello Stato, e ciascun priva-to, in quanto vi appartiene, deve parteciparvi».Questo concetto, prosegue il Ricca Salerno, che costituisce il fondo

3°) alla contribuzione a mezzo di imposte debbono sottostare tutti perché è interesse di tutti la copertura dei costi comuni dell’organismo comunitario2;

4°) l’imposta è lo strumento volto essenzialmente alla ripartizione dei costi comuni che non si possono distribuire tra i consociati con criteri commutativi o paracommutativi e la ripartizione deve obbedire ai principi della più rigorosa giustizia distributiva ossia della parità di trattamento (così detta perequazione tributaria);

5°) il criterio di giustizia per il riparto di tali costi è la capacità contributiva;

6°) la capacità contributiva è criterio di giustizia per-ché metro misuratore della capacità oggettiva e soggettiva;

7°) il principio della capacità contributiva esige l’esonero da contribuzione del minimo vitale (id est: dei redditi minimi);

8°) il principio della capacità contributiva, essendo criterio della giustizia distributiva, non può essere uti-lizzato e invocato per risolvere i problemi di giustizia corrispettiva3;

della teoria assoluta o politica dell’imposta, la quale si contrappone all’antica dottrina relativa o contrattuale, è oramai incontrastato nel-la scienza politica e finanziaria, intorno a cui basta ricordare i nomi dello Stein, del Wagner, dello Schäffle, del Bluntschli, del Trende-lenburg, per non dire di molti altri. Si veda ad esempio: Wagner, Finanzwissenschaft, II, pag. 140-49. Helferich, Allgemeine Steurer-lehre, nello Schönberg’s Handbuch, Tübingen, 1882, II, pag. 113 e ss. Del resto il concetto politico dell’imposta ribadito dagli scrittori, è oramai prevalente nella giurisprudenza. Notevoli le dichiarazioni riportate dal Mantellini (Lo Stato ed il Codice civile, I, pag. 234-35); l’una della Cassazione di Torino (7 febbraio 1866), e l’altra della Cassazione di Roma (11 febbraio 1878). La prima dice: «Le tasse li-beramente votate e conformate ai bisogni dello Stato rappresentano l’ordine, la libertà, la giustizia, la sicurezza, la beneficenza, l’esercito, l’armata, l’indipendenza, e l’onore della patria».

2 Cfr. L. MEUCCI, Istituz. dir. amm., Roma, 1887, vol. II, p. 3.

3 E’ noto che la distinzione tra giustizia distributiva e giustizia cor-rispettiva (o pareggiatrice o sinallagmatica) risale ad Aristotele. Vedasi, al riguardo, la limpida trattazione di G. DEL VECCHIO, La giusti-zia, Roma, ed. Studium, 1959, p. 59 e ss. Il principio della capacità contributiva è un metodo di ripartizione che appartiene al primo tipo

di Gaspare Falsitta

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 26

9°) con l’imposta ciascun contribuente sottrae ai propri “averi” una quota, una percentuale, una fra-zione, non la totalità del proprio reddito individua-le (principio del limite massimo e divieto di imposte confiscatorie e strozzanti).

Quest’ultima ovvia verità è proclamata fin dagli albo-ri del moderno costituzionalismo in materia di imposte.

In un testo celebre, che è una delle pietre miliari del pensiero costituzionale, sono fermati non soltanto il prin-cipio del consenso come base di legittimazione di ogni prelevamento fiscale ma anche – ed è quello che qui pre-me sottolineare – la necessità imprescindibile che il pre-levamento abbia luogo mediante il versamento, da parte di ciascuno, “di una corrispondente quota dei suoi averi”4;

10°) Dal teorema della capacità contributiva deriva il principio di effettività degli indici di ricchezza di volta in volta selezionati dal legislatore ed eretti a presupposto oggettivo e soggettivo di ciascun tipo di imposta5;

11°) dal medesimo teorema scaturisce il principio di attualità degli indici eretti a presupposto.

I capisaldi del modello fin qui elencati sono total-mente rovesciati nell’indirizzo ricostruttivo o modello opposto, volto ad affermare il carattere assoluto e senza limiti del potere legislativo in materia di tributi (il Fisco come Leviatano). Cade l’idea dell’imposta come “quota” e il prelievo può legittimamente investire ed espropriare la totalità del reddito della persona ed andare oltre.

Il prelievo a carico di ciascuno non è ragguagliato alla attitudine economica del singolo a sopportarlo ma alle spese pubbliche deliberate da coprire. La spesa, da posterius, diventa prius.

Anche il principio di universalità ed eguaglianza nel-la contribuzione viene – nel modello in esame – evirato dai teorici di tale indirizzo perché qualsivoglia differenza nel trattamento giuridico di fenomeni identici o qua-lunque divergenza fattuale viene reputata idonea a giu-stificare le differenze nel prelievo.

di giustizia. L’imposta scaturisce dalla necessità di distribuire tra i con-sociati i costi indivisibili. Nulla vieta, però, che il loro ricavato sia uti-lizzato anche per la copertura di costi dei servizi pubblici divisibili, che si potrebbero coprire con entrate di tipo commutativo poste a carico, sinallagmaticamente, dei fruitori dei servizi. Questo va ricordato a chi pretende di estendere il campo di operatività del principio di capacità contributiva alle così dette “imposte ecologiche”, governate dalla giusti-zia “pareggiatrice” o “sinallagmatica”.

4 Vedasi J. LOCKE, Secondo trattato sul governo, XI, paragrafo 140, Roma, 1984, 155. Vedasi anche infra, nota 17.

5 Tutti gli elementi indicati nel testo si ritrovano nella stupenda definizione dell’imposta data da G. RICCA SALERNO, Le entrate ordinarie, ecc. p. 178, testo e note e da S. ROMANO, Principi di dir.amm., Milano, 1901, I edizione, p.297.

Manca, tra i sostenitori dell’indirizzo in argomento, ogni seria riflessione sull’abuso della potestà legislativa in materia di imposte, sotto gli occhi di tutti e ogget-to di quotidiane denunce e constatazioni. Tale carenza riflette l’assenza di una motivata riflessione sulle ragio-ni, anche di indole storica, della presenza di regole di giustizia tributaria nella Costituzione vigente e nel suo antecedente storico (lo Statuto albertino).

Tutto ciò premesso, nel presente saggio ci si propone di affrontare l’argomento della capacità contributiva e quello della perequazione tributaria ricercandone i suoi “antece-denti storici”, i suoi “ascendenti” prossimi e remoti.

Si sa bene quando nacque l’art. 53 e chi ne furono gli autori “in carne ed ossa”6. Qui e ora ci si propone di spin-gere lo sguardo più indietro per avvalorare la tesi che l’art. 53 è disposizione racchiudente una pregnante sostanza normativa; e non già l’inutile doppione dell’art. 3; e in specie per dimostrare che essa non fu la improvvisa ed im-provvisata «invenzione» dei padri costituenti del 1947 ma può vantare nobilissimi “ascendenti” e una presenza nelle carte costituzionali degli Stati moderni multisecolare, il cui studio aiuta a sfatare la leggenda dell’ «inutile doppio-ne» e a minare ab imis ogni teoria svalutativa.

* * *

2. La germinazione del principio di capacità con-tributiva nella filosofia politica del settecento; la doppia matrice, anglosassone e francese di esso e il suo travaso negli artt. 13 e 14 della Di-chiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; la traslazione del principio in alcu-ne Costituzioni di Francia (1791-1830), nelle Costituzioni di alcuni Stati europei, in quelle di alcuni Stati italiani preunitari e nell’art. 25 dello Statuto albertino.

Il costituzionalismo moderno nasce nel secolo dei lumi e si traduce in documenti costituzionali a parti-re dalla nascita degli Stati che confluiranno negli Stati Uniti d’America e da lì, per il tramite della francese Di-chiarazione dei diritti dell’uomo, dell’89, dà luogo alla nascita delle “costituzioni” di molti Stati europei, piccoli e grandi. Anche l’Italia partecipa a pieno titolo a questo moto di profondo rinnovamento7.

6 Sia permesso di rinviare a G. FALSITTA, Storia veridica in base ai «lavori preparatori» della inclusione del principio di capacità contributiva nella Costituzione, in Riv.dir.trib., 2009, I, p. 97 e ss.

7 S.ROMANO, Principi di diritto costituzionale generale, Mi-lano, Giuffrè, 1946, II ed., nel capitolo V, dedicato a “Origini e caratteri del moderno costituzionalismo”, chiarisce che la parola

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 27

Si è discusso a lungo se la prima e più celebre di que-ste Carte costituzionali, la Dichiarazione francese del 1789, sia interamente di matrice anglosassone e giusna-turalistica o si debba collegare esclusivamente alle varie correnti dell’illuminismo francese in campo giuridico, economico, sociale.

La tesi “anglosassone”, che ha avuto un autorevole ca-postipite in George Jellinek8, è da ritenere inaccettabile nella sua assolutezza e ha generato un dibattito tuttora non del tutto sopito9.

A nostro avviso la ricostruzione più equilibrata è quella che, pur riconoscendo l’influenza eccezionale degli avvenimenti americani e il nesso di derivazione testuale dai bills of rights americani di parte della Di-chiarazione francese, attribuisce anche una non lieve influenza genetica alle opere degli illuministi francesi,

“costituzionalismo, adoperata in senso antonomastico, designa le istituzioni e i principii che sono stati adottati dalla maggior parte degli Stati che, a datare dalla fine del secolo XVIII, si sono dati un governo, che, in contrapposto a quello assoluto, con cui prima si reggevano, si dice, sempre per antonomasia “costituzionale”. Non basta, quindi, per definire il “costituzionalismo”, mettere in rilievo la forma di governo che si rinviene negli Stati dell’epoca moderna, ma occorre anche notare che si tratta di quella forma di governo non assoluto, fra le tante che la storia ha registrate, che si distingue dalle altre in quanto ha derivato i suoi caratteri tipici da un lungo e im-portantissimo movimento politico e dottrinale, che, negli Stati del continente europeo, è maturato con la rivoluzione francese, ma che è molto più antico. Tale movimento è precisamente quello, che, per quanto riguarda l’Europa, aveva da lungo tempo vagheggiato l’in-troduzione nel nostro continente di un ordinamento simile a quello che da secoli vigeva in Inghilterra, mentre, negli altri continenti, l’adozione di un siffatto ordinamento è stata determinata, o prima che in Europa, o dopo, in seguito a diversi avvenimenti. Cosicché, si può dire che il diritto costituzionale degli Stati moderni risulta dal diritto costituzionale inglese e dagli altri ordinamenti che da questo sono più o meno direttamente derivati.

8 Delle tesi svolte da G.JELLINEK, La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, trad.italiana a cura di D.Nocilla, Milano, Giuffrè, 2002, il figlio dell’autore, Walter, offre la seguente sinte-si, condensata in quattro proposizioni (ivi, p.9): «I bills of rights contenuti nelle Costituzioni dei singoli Stati americani del 1776 e degli anni seguenti sono il modello diretto per la Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino; 2) Il Contrat social di Rousseau non può essere stato il modello della Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino; 3) La teoria giusnatu-ralista da sola non avrebbe mai condotto ad una sanzione per legge dei diritti dell’uomo e del cittadino; 4) Le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino risalgono storicamente alla lotta per la libertà religiosa».

9 Per un approfondito riesame v. N.BOBBIO, L’età dei diritti, cit., p.96 e ss.; D.NOCILLA, Introduzione a G.Jellinek, la dichiara-zione ecc.,cit., pp.V-LXXIII; P.COSTA, Lo Stato di diritto: un’intro-duzione storica, saggio compreso nel volume collettaneo Lo Stato di diritto, Milano, Feltrinelli, p.89 ss.

ben note agli autori delle costituzioni degli Stati ame-ricani. Attraverso questi raccordi resta dimostrata la totale estraneità del pensiero tedesco alla formazione dei principi della Costituzione albertina concernenti la contribuzione tributaria.

Per quanto riguarda il fenomeno della contribu-zione fiscale, è cosa nota che i filosofi inglesi e gli economisti inglesi (Hobbes, Locke, Smith, Hume, Stuart Mill, ecc.) si sono occupati a fondo di teoria dello Stato, di diritti di libertà e di diritti proprie-tari. Perciò nelle loro opere hanno dedicato intensa riflessione al fenomeno dell’imposta sia come stru-mento di giusta ripartizione dei gravami per coprire le spese pubbliche sia, in specie, come limitazione dei diritti di libertà e proprietà. Queste concezioni sfo-ciano nelle norme “fiscali” dei bills of rights degli Stati americani del 1776 e trovano, successivamente, una più perspicua codificazione in due articoli (il 13 e il 14) della Dichiarazione francese del 1789, riguardan-ti i diritti e i doveri fiscali. Questi due ultimi artico-li sono tuttora norme costituzionali vigenti, al pari dell’art.17 (concernente la tutela della proprietà) in quanto incorporati nella attuale costituzione france-se. Tutte le costituzioni di Stati europei dell’ottocen-to nascono da quel duplice tronco10. E ciò vale anche per lo Statuto albertino, documento totalmente privo

10 S.ROMANO, Principi di dir.cost.gen., Milano, 1946, II ediz., p.38, dopo aver ricordato che in Francia, nel settecento, il diritto co-stituzionale inglese fu oggetto di studi e di ammirazione, specialmen-te dopo la geniale apologia fattane dal Montesquieu, in un celebre capitolo (VI del libro X1) dell’ “Esprit des lois” (1748) ma fu anche contrastato dagli illuministi e specialmente dal Rousseau e dal Mably, afferma che con lo scoppio della Rivoluzione la Francia per prima e immediatamente dopo gli Stati che ne seguirono l’esempio optarono per il modello costituito dalle carte americane. Quelle carte furono subito conosciute in Europa e, pubblicate per la prima volta in Svizze-ra, tradotte in francese, ebbero subito una larga e rapida divulgazione. «Esse – afferma Santi Romano – agevolano più di quanto comune-mente non si creda, la diffusione in Europa del costituzionalismo, co-sicché può dirsi che il diritto americano servì come tramite fra il diritto costituzionale inglese e quello dei vari Stati continentali dell’Europa».Senonchè queste “carte americane” a loro volta, erano state influen-zate dalle teorie francesi immediatamente anteriori alla rivoluzione, che certo in America erano ben conosciute, specialmente attraverso l’opera del Montesquieu. Per tal motivo quelle costituzioni, prese a modello dalla Francia «per alcuni dei loro principi, non fecero che ribadire ciò che nello spirito francese era radicato, determinando quasi una reimportazione» (op.cit., p. 41).Quindi S.ROMANO finisce per accedere alla teoria della doppia ma-trice, angloamericana e illuministica, del costituzionalismo in Europa.Più di recente si è espresso in senso sostanzialmente conforme A.BARBERA, Le basi filosofiche del costituzionalismo, Bari-Roma, 1997, p.5 ss. e passim., il quale distingue il costituzionalismo anglo-sassone da quello “di ispirazione giacobina”.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 28

di qualsivoglia legame col coevo diritto pubblico te-desco o di radici tedesche11.

Ciò è vero, in specie, per i principi di diritto costi-tuzionale tributario.

L’idea germinale che gli organismi politici (Stato, regioni, comuni, ecc.) sono comunità di associati, che il cittadino è un associato e che deve l’imposta a titolo di contribuzione, unitamente a tutti gli altri associati, membri del medesimo consorzio politico, è certamente da riallacciare, nell’età moderna, al giu-snaturalismo inglese. Ma la stessa concezione ha ra-dici nell’illuminismo francese e più precisamente af-

11 Ecco come è compendiosamente ricostruita la nascita dello Statuto da S.ROMANO, Principi di dir.cost.gener. cit., p.39: «Alla carta francese e, pel suo tramite, anche a queste ultime si riannodano le infinite altre che pullularono in Europa durante quel periodo di continui rivolgimenti. Non diversa è l’origine delle molte costituzio-ni che, con vita effimera, si ebbero in Italia dal 1797 in poi, tranne alcune, fra le quali quella siciliana del 1812, che si inspirò ad una più immediata informazione del diritto inglese, e qualche altra che tentò di imitare la costituzione spagnola di Cadice, pure del 1812.Intanto, in Francia l’influenza del costituzionalismo inglese, che si era indebolita durante il Consolato e il primo Impero, riappariva più viva nelle carte del 1814 e del 1830, dalla quale ultima veni-va desunto in molta parte lo Statuto fondamentale del Regno di Sardegna del 4 marzo 1848, esteso poi a tutto il Regno d’Italia». A conferma di quanto scrive il Romano notiamo che per F. CAM-MEO, Le tasse e la loro costituzionalità, in Giur.it., 1899, parte IV, 193 e ss., l’art. 30 dello Statuto sarebbe «la traduzione dell’art. 48 della Carta francese del 1830». A completamento di quanto scrive il Romano, notiamo che G.RICCA SALERNO, Le entrate ordinarie ecc., p.180, nota 1, afferma che l’art.25 dello Statuto deriva «dalla Costituzione spagnola, che Carlo Alberto reggente nel 1821, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele 1, cedendo alle domande del-la popolazione, applicava agli Stati Sardi, come riferisce il Manno (Informazioni sul 1821 in Piemonte, Firenze, 1979, pag.73 e segg.). Quella costituzione stabiliva all’art.339: «I tributi saranno ripartiti fra tutti gli Spagnoli in proporzione delle loro facoltà, senza ecce-zione e privilegio nessuno». La costituzione belga invece non parla del modo di ripartire le imposte; ma solo all’art.112 vieta ogni pri-vilegio od esenzione ingiustificata. Delle altre Costituzioni italiane di quel tempo, quella di Pio IX (14 marzo 1848) e quella Toscana (15 febbraio 1848) si dichiarano per la generalità, l’eguaglianza e la proporzionalità dei tributi».Infatti l’art. 2 dello Statuto del granducato di Toscana recita:«Art. 2. – I Toscani, qualunque sia il culto che esercitano, sono tutti eguali al cospetto della legge, contribuiscono indistintamente agli aggravi dello Stato in proporzione degli averi, e sono tutti egualmen-te ammissibili agl’impieghi civili e militari».L’art. 8 dello Statuto fondamentale del governo temporale degli Stati della Chiesa afferma: «Tutte le proprietà sia dei privati, sia dei corpi morali, sia delle altre pie e pubbliche istituzioni, contribuiscono in-distintamente ed egualmente agli aggravi dello Stato, chiunque ne sia il possessore. Quando il Sommo Pontefice dà la sanzione alle leggi sopra i tributi, l’accompagna con una speciale apostolica deroga alla immunità ecclesiastica». Altre carte costituzionali di Stati preunitari sono indicate da F.MOSCHETTI, Il principio, ecc., p. 14, nota 26.

fiora nitidamente nella dottrina fisiocratica dell’im-posta intesa come patto federativo e debito comune dei cittadini12.

12 La teoria della “scuola” trovasi esposta nell’opera di V.MIRABEAU, Théorie de l’impôt pour servir de suite au traitè inti-tulé L’ami des hommes, che, apparsa nel 1760, ebbe grande successo e fu pubblicata in diciotto edizioni.Una efficace sintesi della dottrina fu esposta da uno dei membri della scuola, P.S. DUPONT, De l’origine et des progrès d’une science nouvelle (1768), in P.S. Dupont de Nemours, Oeuvres politiques et économiques, 10 voll., KTO Press, Nendeln (Liechtenstein) 1979, vol. I, p.565.Tale opera (che si può consultare nel volume I Fisiocrati, a cura di B.MIGLIO, Laterza, Bari-Roma, I ed., 2001, pp.165-199) dimostra la grande importanza che la imposta assume nel pensiero dei Fisiocratici.Essa:1) costituisce “il grande legame, il nodo federativo, il vinculum sacrum”;2) essa è da intendere come una sorta di compartecipazione dello Stato ai redditi derivanti dalla proprietà; in questo senso gli écono-mistes intendono affermare il principio della comproprietà del so-vrano sui beni fondiari della nazione. «Senza la parte che l’autorità tutelare deve naturalmente ricevere dal prodotto netto del territorio, continua Dupont, non vi sarebbero né governo, né società».3) la porzione di nuova ricchezza chiamata prodotto netto è dunque la sola che possa contribuire all’imposta, la sola che la natura abbia resa adatta a questo scopo;4) appartiene all’essenza dell’imposta di essere una porzione del pro-dotto netto della nazione;5) la proporzione dell’imposta con il prodotto netto, ossia la per-centuale del prodotto netto di spettanza dell’autorità protettrice «si stabilisce da sé in una società nascente. Perché in questo caso sono i proprietari fondiari che, spinti dalla necessità di sottomet-tersi all’autorità tutelare da loro stessi costituita per garantirsi reciprocamente il godimento delle terre di cui sono in possesso, destinano volontariamente e per il proprio interesse una parte del prodotto netto delle loro proprietà a sostenere le spese delle fun-zioni dell’autorità protettrice».L’istituzione dell’imposta, lungi dall’essere in contrasto con il diritto dei proprietari fondiari, costituisce invece una conseguenza dell’uso del loro diritto di proprietà. Ed è un uso proficuo del diritto dei proprietari fondiari, perché con la sicurezza che questa istituzione arreca alle proprietà e alla libertà, i proprietari possono estendere e moltiplicare i loro lavori e accrescere infinitamente la coltura e i prodotti della loro proprietà.6) non è dunque alle pretese necessità degli Stati che l’imposta dev’essere proporzionata, ma alla loro ricchezza disponibile. Se ci si scosterà da questa regola, non sarà più possibile riconoscerne alcu-na; e gli imperi saranno ben presto ridotti a quella situazione terri-bile, nella quale diventa indifferente alla nazione che il suo territorio sia saccheggiato dal nemico o dagli esattori;7) il potere politico non ha altra ragione di esistere che quella di far rispettare la libertà e la proprietà dei membri della società. Per far ciò occorrono delle risorse, e poiché il governo non detiene possessi la cui rendita sia sufficiente per compiere le proprie fun-zioni, le sue risorse possono essere soltanto prelevate dalle proprie-tà particolari di ciascuno.Perciò è lecito pensare che quando Mirabeau “figlio” afferma, nel 1789, nell’indirizzo ai francesi da lui redatto su incarico dell’Assem-blea Costituente («l’imposta è un debito comune dei cittadini») il gran-

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 29

La constatazione che precede è fondamentale per ri-costruire correttamente la disciplina di diritto positivo del fenomeno tributario vigente in Italia subito dopo la raggiunta unità (1861).

Una parte della dottrina, pur riconoscendo il lega-me tra l’art.25 dello Statuto e l’art.53 della Costituzio-ne, tende ad enfatizzare le differenze, tra i due testi, per noi piuttosto modeste e solo di lessico, non di sostanza concettuale13.

Nel campo della fiscalità tutto parte dalla Dichia-razione francese del 1789 piuttosto che dai bills of Rights americani.

Infatti è solo con la Dichiarazione francese del 1789 e precisamente con l’art. 13 di tale documento che il principio della capacità contributiva fa il suo solenne ingresso in un documento costituzionale dello Stato moderno. È solo nell’art. 13 la statuizione che «per il mantenimento della forza pubblica e per le spese d’am-ministrazione una contribuzione comune è indispensa-bile. Essa deve essere egualitariamente ripartita tra tutti i cittadini in ragione dei loro averi»14.

Contrariamente a quanto sembra opinare Gorge Jellinek, la disposizione testè riprodotta non deriva

de statista abbia fatto proprio un concetto che era anche di Mirabeau “padre”, notissimo teorico dell’imposta nell’ambito della “scuola” fisiocratica. Per un eccellente quadro delle teorie fisiocratiche sull’im-posta è da consultare L. EINAUDI, Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta, compreso nel volume L. EINAUDI, Scritti econo-mici storici e civili, Milano, Mondadori, 1973, p. 474 e ss.Di questo ampio saggio einaudiano vanno ricordate due prese di posizione rispetto alla teoria fioscratica.1) con la prima egli osserva che pur essendo i capisaldi essenziali

della dottrina della “scuola” dei fisiocratici inaccettabili, ciò non im-pedisce di cogliere e raccogliere alcuni principi sull’ottima imposta, che restano perpetuamente validi e impeccabili, a prescindere dal fatto che sono stati innervati in un quadro teorico errato:2) con la seconda egli ricorda e approva la severa condanna del-

la imposta espropriativa dell’intero reddito pronunziata da tutti gli esponenti della “scuola” e che si riassume nella massima seguente L’imposta assisa sul reddito non lo può assorbire tutto.

13 F.MOSCHETTI, Il principio ecc., p. 14, ad esempio, afferma cautamente e piuttosto riduttivamente : «È però interessante notare che alcuni principi contenuti nell’art. 53 non sono totalmente estra-nei alla storia costituzionale del nostro Paese e furono addirittura anticipati nelle costituzioni degli Stati italiani preunitari».A nostro avviso, come si vedrà nel seguito della presente indagine, quei principi erano fortemente presenti nel pensiero giuridico degli amministrativisti di fine ottocento (Ricca Salerno, Romano, ecc.) e furono totalmente obliati con l’avvento (e il predominio) dell’opera di A.D. Giannini, G. Tesoro, A. Uckmar, ecc. di matrice illiberale.

14 Si riproduce il testo dell’art. 13: «Pour l’entretien de la force pubblique et pour les dépenses d’administration, une contribution commune est indispensable. Elle doit être également répartie entre tous les citoyens, en raison de leur facultés» (corsivo nostro).

dall’articolo decimo del Bill of Rights del Massachus-sets, nel quale ci si limita a dire «ciascun membro della società ha diritto alla protezione del godimento (dei beni) della vita, della libertà, e della proprietà in conformità a quanto dispone la legge. Egli è obbliga-to conseguentemente a contribuire per la sua quota («his share») alle spese della protezione e di dare la sua opera personale o l’equivalente, quando neces-sario15. Quindi in essa, ossia nell’enunciato decimo della Costituzione del Massachussets, non si fa alcun accenno al principio di “proporzionalità agli averi”.

Il vero è che solo l’art. 13 della Dichiarazione france-se traduce e rispecchia fedelmente la prima delle quattro massime di Adamo Smith ed è perciò il frutto di quella influenza diretta del giusnaturalismo inglese, di cui si è detto sopra16. L’incipit della prima massima di Smith è il seguente: «I sudditi di ogni Stato dovrebbero contribu-ire a mantenere il governo nella misura più proporziona-le possibile alle loro rispettive capacità» (corsivo nostro). Capacità contributiva è, per Smith, “ability to pay”17.

Dalla Dichiarazione il principio è transitato in alcune Costituzioni di Francia, successive al 1789 e alla Dichia-razione. Sono da rammentare:

1°) La Costituzione del 1791, il cui art. 13 afferma: “Per il mantenimento della forza pubblica e per le spese dell’Amministrazione, una contribuzione comune è indi-spensabile; essa deve essere egualmente ripartita tra tutti i cittadini in ragione delle loro facoltà”;

2°) una analoga disposizione manca nella successi-va Costituzione del 1793, detta Costituzione dell’anno I e riappare nella susseguente Costituzione del 1795, detta dell’anno III, il cui art. 16 stabilisce che la con-tribuzione è stabilita per l’utilità generale e “deve essere ripartita tra i contribuenti in ragione delle loro sostanze”;

3°) È ancora da rammentare la Costituzione francese del 6/4/1814, il cui art. 15 afferma che “l’uguaglianza di proporzioni nell’imposta è di diritto”.

15 Si riproduce il testo dell’articolo decimo : «Each individual of the society has right to be protected by it in the enjoyment of his life, liberty, and property, according to standing laws. He is obliged, consequently, to contribute his share to the expense of this protec-tion; to give his personal service, or an equivalent, when necessary».

16 Vedasi supra, nota 8.

17 Vedasi A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, Utet, 1975, trad. Bagiotti, p. 997.

Ovviamente A. Smith (preceduto dal Locke) non è il solo esponente dell’illuminismo britannico favorevole al principio di capacità contributiva. Come nota L. EINAUDI, Scritti economici storici e civili, cit., p. 516, il principio amato da Smith, ma avver-sato da Hobbes, è anche accolto e teorizzato dagli utilitaristi, dal Mill all’Edgeworth.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 30

4°) Infine come ultimo e più prossimo antecedente dello Statuto albertino è da rievocare la Costituzione del 14 agosto 1830, i cui artt. 1 e 2 rappresentano il modello cui i redattori degli artt. 24 e 25 dello Statuto si ispiraro-no. Il primo di essi statuisce il principio di uguaglianza. Il secondo afferma che i francesi “contribuiscono indistinta-mente, in proporzione dei loro beni, ai carichi dello Stato”.

A tutte queste Carte costituzionali di Francia si ispi-rarono gli autori delle Costituzioni di vari Stati europei (Spagna, Belgio, ecc.) e italiani preunitari. Ma il prin-cipio di capacità contributiva, reso celebre dalla fama e larga diffusione dell’opera di Adamo Smith, è ben ante-riore all’opera dello stesso Smith.

Ci limitiamo a rammentare un testo ben noto, quel-lo del Bodin, che risale al Cinquecento18.

Ma si può andare più indietro19.

18 JEAN BODIN, Les six Livres de la Republique (1576), Lyon, 1579. La traduzione latina comparve nel 1584. In essa l’autore scris-se: «Sunt igitur ea vectigalia, si modo necessaria probanda, quae in omnes ordines singulorum facultatibus exequantur». In altri passi la parola «facultatibus” è sostituita con “pro cuisque opibus ac fortunis».

Compare in questi brani la espressione facultates che darà ori-gine all’inciso «en raion de leur facultés» dell’art. 13 della Dichiara-zione del 1789.

19 Cfr. RICCA-SALERNO, Storia delle dottrine finanziarie, Milano; passim.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 31

La crisi nella produzione delle norme tributarie: soluzioni auspicabili e interventi possibili

1. Premessa.

Porre a base di una relazione la crisi della produzio-ne normativa, in un convegno dedicato alle prospettive di riforma dell’ordinamento tributario, fa sorgere nello stesso autore forti motivi di perplessità: l’evidenza del problema rende il tema quasi banale, la sua connessio-ne con una crisi politico istituzionale di ben più ampia portata sembra quasi assorbirlo in essa, privandolo di autonomia, il consolidarsi di una situazione di cronica e duratura emergenza finanziaria fa apparire vano e mar-ginale il tema della qualità e della ragionevole colloca-zione delle norme. Tema che, oltretutto, è stato trattato sia in passato, sia in interventi più recenti, da Maestri della disciplina, sia in chiave ricostruttiva della effetti-va portata e importanza di una corretta legislazione, sia sotto il profilo della deriva qualitativa avviatasi sin dagli anni seguenti alla riforma tributaria.

Tuttavia, la scelta finale è caduta proprio su tale argo-mento – e di ciò debbo ringraziare gli organi dell’ANTI, preposti all’organizzazione del convegno, per la libertà di cui ho potuto godere – per alcuni incontri fortunati avvenuti proprio nei giorni in cui si andava compien-do tale riflessione: in primo luogo, con un brillante e amaro volume di MATTARELLA, studioso del dirit-to amministrativo, dedicato alla trappola delle leggi; volume nel quale ho ritrovato la stessa valutazione di intollerabilità, per una serie di disfunzioni normative, di cui negli ultimi anni mi sono sempre più convinto; poi, perché occasionalmente ho frequentato convegni, anche su materie del tutto estranee alla disciplina tribu-taria, in cui l’insofferenza verso il modo di procedere del legislatore contemporaneo era così forte, da attribuire alla produzione normativa la responsabilità maggiore di un disordine applicativo in molti casi quasi irreversibile. Ho scoperto, poi, andando a documentarmi, che nella dottrina giuridica non vi è affatto rassegnazione, tanto che il dibattito, soprattutto tra costituzionalisti e in ge-nere studiosi del diritto pubblico, è assai intenso e fo-riero nel contempo sia di giudizi molto severi, sia di au-spici accorati; ho recuperato scritti di studiosi che, circa venti anni fa, si mostravano perfettamente consapevoli del problema, e che tuttavia, pur avendo rivestito cari-

che pubbliche dalle quali avrebbero potuto modificare le cose, non erano riusciti a imprimere alcun cambia-mento alle prassi dagli stessi giudicate nocive (anzi…..). Ma soprattutto, ripensavo, cliccando “invia” dopo aver scritto la e-mail con la proposta di titolo della relazione, alla frase di un felice e lungimirante volume di un ex collega di facoltà, Michele Ainis, che avvertiva come il problema delle prassi legislative sia tutt’altro che forma-le, per investire invece alla radice la libertà dei consociati e la stessa affidabilità dell’ordinamento.

Il disordine applicativo, gli alibi per sottrarsi all’ob-bligo di contribuzione, nascono prima di tutto da un disordine normativo che svaluta il valore della norma.

* * * 2. Tipologie di rimedi.

Lo stato delle cose, in tema di degrado della produ-zione normativa – per stile, contenuti, garanzie proce-durali – è suscettibile di rimedi di due livelli: un rimedio auspicabile, presuppone un adeguamento delle norme costituzionali, quanto meno sotto il profilo della pro-duzione delle norme tributarie: un rimedio possibile, molto più a breve, può emergere se sin da subito tutti gli organi costituzionali coinvolti decidessero di prestare la masima attenzione a questo problema, operando, nel-le rispettive competenze, in modo da eliminare quanto meno i fenomeni meno accettabili. Uno spunto inte-ressante, in tal senso, proviene ad esempio da Alessan-dro Pace, che in un articolo su “La Repubblica” del 20 settembre 2011, ipotizzava che il presidente della Corte costituzionale possa anticipare, a inizio di ciascun anno, le prassi tollerabili e quelle che invece condurranno a problemi di legittimità costituzionale.

* * *

3. Crisi della riserva di legge: eccesso di leggi e di materie trattate dalla legge

Vi sono almeno due aspetti di questa prima fac-cia del problema “riserva di legge”. Il primo è dato dalla quantità di norme, e prescinde dal loro grado

di Massimo Basilavecchia

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 32

gerarchico: si tratti di norme di legge, si tratti di re-golamenti, la quantità di norme prodotte, che con-tribuenti e operatori dovrebbero conoscere, è assolu-tamente eccessiva, e la rapidità della loro successione è tale da scoraggiare qualunque serio tentativo di approfondimento: quello che è accaduto, nel corso del 2011, sia pure per situazioni di straordinaria in-tensità, è emblematico della impossibilità di gestire seriamente riforme di portata pesantissima emanate con un ritmo pressoché mensile. Se non si prende coscienza di questo, anche riforme positive nei con-tenuti diverranno controproducenti, se non è prepa-rata con sufficiente attenzione la loro caduta sull’or-dinamento preesistente: né si pensi che basterebbe ad ovviare alla prolifezione delle norme il passaggio alla codificazione, che in sé nulla può cambiare, se non vi sono strumenti destinati a “proteggere” la codificazio-ne stessa da modifiche successive.

Il secondo attiene ad un’eccessiva ampiezza della ri-serva, e comporterebbe un’analisi lunga e complessa di come, ad esempio, si sta sviluppando sul piano della di-stribuzione del potere normativo il c.d. federalismo fi-scale. Certo è che si assiste, soprattutto nell’ambito dei tributi di comune e provincia, ad una persistente, asso-luta prevalenza delle norme di legge, rispetto alla fonte regolamentare che potrebbe garantire l’espressione di una effettiva autonomia dell’ente locale. E’ talmente di-lagante la preoccupazione di uniformità, da rendere pres-soché inesistente il potere di disciplina degli aspetti non strutturali del tributo; ma un legislatore così preoccupato dell’uniformità, semplicemente non dovrebbe optare per il federalismo, invece a parole sempre individuato come obiettivo irrinunciabile. Si pensi ad un tributo come l’imposta di soggiorno, che è certamente tipico della va-lutazione dell’ente locale, e che invece sarà disciplinato da un regolamento statale pervasivo fin nei dettagli.

* * *

4. Crisi della riserva: casi di delegificazione opaca e strisciante (carenza di riserva di legge).

All’estremo opposto, e già questo è paradossale, co-esiste un fenomeno di segno contrario: molto spesso la legge, che è prodotta in gran fretta e, come vedremo, in molti casi è frutto di un’idea della pubblica amministra-zione, che nessuno poi è più in grado di filtrare, tace su aspetti essenziali, lasciando uno spazio eccessivo a prov-vedimenti amministrativi destinati a regolare aspetti es-senziali della disciplina.

Ad esempio, non vi è dubbio che la materia del-la ripartizione delle competenze tra i singoli uffici

dell’amministrazione finanziaria possa essere disci-plinata dalla legge nelle sole linee essenziali, lascin-do poi ampio spazio a norme regolamentari; ma un impatto diretto sui contribuenti, e magari anche sulle forme di tutela, non può essere lasciato a regolamenti, o ancor meno a provvedimenti direttoriali, che non siano provvisti di una certa base normativa. Eppure si assiste, nell’ambito delle agenzie, alla modificazio-ne di regole sulla competenza degli uffici giustificate dal regolamento di amministrazione dell’ente stesso, che magari a sua volta delega ad intervenire con atto monocratico il Direttore dell’Agenzia stessa; le regole modificate, spesso, hanno una base di legge, e la dele-gificazione non appare legittimata dalla sola normati-va interna all’ente. Ad es., in materia di competenze dei Centri operativi, è il provvedimento del Direttore dell’Agenzia ad intervenire, anche quando norme di legge delineano un confine preciso tra le competenze degli uffici.

A volte, poi, la normativa è talmente sbrigativa e sciatta, da rendere necessaria la fissazione di regole applicative da parte dell’Amministrazione, che non sempre sono coerenti con la disciplina legale, e co-munque fissano condizioni e adempimenti tutt’altro che impliciti sulla base del testo di legge. Ma, quel che è peggio, la disciplina integrativa a cura dell’am-ministrazione non è neppure fissata da atti tipici, quali regolamenti o provvedimenti amministrativi, ma discende direttamente da circolari (che, si insegna nelle università, non sono fonti del diritto, secondo la pacifica interpretazione della Corte di Cassazione). Quale, l’effetto vincolante sui contribuenti, di queste norme “di fatto”? Un caso emblematico è costitui-to da quel work in progress che da oltre dieci anni discende dalle norme sulla rivalutazione dei terreni edificabili: una disciplina legislativa essenziale è so-vrastata da una quantità di regole applicative, da cui dipende il riconoscimento o meno del beneficio, det-tate esclusivamente con circolari.

All’estremo opposto, poi, ci sono norme sostanzial-mente inutili, come quelle che hanno l’esclusiva fun-zione di dare rassicurazione all’apparato amministra-tivo, stabilendo una copertura legislativa per adottare prassi che, queste sì, potrebbero essere tranquillamente disciplinate a livello interno, non involgendo posizioni giuridiche dei contribuenti: si pensi alla recente previ-sione del reclamo (art. 17 - bis d.lgs. 546/92), che non è altro che una forma di riesame obbligatorio dell’atto, conseguente alla presentazione di un ricorso giurisdi-zionale, e alla curiosa sostituzione della conciliazione con la mediazione, la cui caratteristica è di essere ante-cedente alla lite.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 33

* * *

5. Crisi della riserva. La cattiva qualità nella appli-cazione della riserva di legge.

Anche dove la norma è prodotta nel rispetto pieno della riserva di legge, appare spesso evidente che l’esi-genza sostanziale che ispira le norme costituzionali sul procedimento legislativo è in effetti tradita. Il tema è studiato dai costituzionalisti, che rilevano sostanzial-mente la mancanza, troppo frequente, di quel filtro par-lamentare, destinato ad assicurare la terzietà del legisla-tore, la capacità di mediazione rispetto ai contrapposti interessi in gioco. E’ noto come ormai la gran parte delle norme tributarie sia, a torto o a ragione, inserita in prov-vedimenti legislativi motivati dalla necessità di compiere manovre di finanza pubblica, decreti legge non solo ur-genti, ma anche scarsamente modificabili per preservare i saldi previsti. Negli ultimi anni, poi, si è intensificata la prassi di presentare un testo di decreto legge sul quale inizia la valutazione del parlamento, anche se poi il testo è sostituito dal Governo con il c.d. maxiemendamento, sul quale viene posta la fiducia. In sostanza, viene appro-vato “chiavi in mano” un testo elaborato dall’Esecutivo, totalmente privo di un’analisi parlamentare, nel quale la necessità di ridurre le votazioni comporta un accorpa-mento di argomenti eterogenei all’interno di pochissimi articoli. Sostituendo centinaia di commi ad altrettanti articoli, si elude e disapplica la regola della votazione analitica sulle singole disposizioni del provvedimento, che imporrebbe un voto per ciascun contenuto (art. 72 Cost.). La Corte Costituzionale, in teoria, potrebbe in-tervenire, poiché con la sentenza n. 171 del 2007 ha affermato che la conversione del decreto legge non ha la funzione di sanare le illegittimità compiute nel corso del procedimento di approvazione della legge di con-versione; esse restano dunque sindacabili, e potrebbero condurre alla dichiarazione di illegittimità costituziona-le: ma lo stato di necessità che circonda quasi costan-temente la legislazione in materia fiscale renderebbe le conseguenze di un annullamento della legge gravissime, sotto il profilo dei conti pubblici.

In un contesto dove la prassi rende quasi vano cer-care di ravvivare le garanzie formali, si nota poi sempre più spesso che la norma in materia tributaria finisce con l’esprimere in maniera pedissequa istanze ed esigenze proprie delle amministrazioni: queste ultime propongo-no una modifica normativa, ovviamente tenendo conto delle proprie esigenze e del proprio punto di vista, ed è molto probabile che quel testo di legge vada in por-to, esprimendo così formalmente la volontà del Parla-mento, che in realtà non avrà potuto discuterne affatto

i contenuti. Spesso, poi, questa unilateralità della valu-tazione sottostante alla norma si traduce in un danno, a medio termine, perché la mancata o inadeguata valuta-zione dell’impatto normativo, ma soprattutto la manca-ta considerazione di punti di vista diversi e di esigenze ordinamentali diverse da quelle specifiche dell’ammi-nistrazione, rendono il prodotto normativo o del tutto errato, o comunque insostenibile davanti all’opinione pubblica: il caso della concentrazione della riscossione nell’accertamento (art. 29 d.l. 78/2010) è emblematico di come una riforma nella sostanza ragionevole sia stata pensata senza tener conto dell’ambiente in cui la stessa andava ad operare, ignorando le legittime esigenze con-trapposte: sicchè con modifiche sopravvenute frenetica-mente nel corso dell’anno successivo, e prima dell’av-vio concreto della nuova disciplina, quest’ultima è stata ridimensionata determinando, sotto certi aspetti, una maggiore lentezza della riscossione rispetto a quanto av-veniva prima della riforma (effetto che può dirsi simile a quello di un boomerang): la riscossione provvisoria, che avveniva per la metà, è stata ridotta a un terzo.

Uno dei fenomeni più curiosi e più gravi della crisi nell’attuazione della riserva di legge è quello che riguar-da l’atipicità delle fonti secondarie previste dalla legge. La quale sempre più spesso rinvia, per integrare la di-sciplina da essa introdotta, non al regolamento, fonte secondaria tipica, ma ad un atto (decreto) di natura non regolamentare. La finalità di questo “rifiuto” del rego-lamento è duplice: da un lato, evitare le lungaggini, e forse anche le insidie, derivanti dall’obbligatorietà del parere del Consiglio di Stato sullo schema di regolamen-to. Ma, se si trattasse solo di questo, la legge potrebbe limitarsi a derogare, quanto a procedura di emanazione del regolamento (governativo o ministeriale), all’art. 17 della legge n. 400 del 1988, che è pur sempre (soltanto) una legge ordinaria. Si potrebbe prevedere in sostanza che un determinato regolamento sia approvato in forma accelerata, salvo poi stabilire se via sia una lesione delle prerogative consultive del Consiglio di stato. In realtà, dietro questa prassi vi è anche l’esigenza di eludere il divieto di norme regolamentari statali, nelle materie sottratte alla legislazione esclusiva dello Stato (art. 117 Cost.): ma è una preoccupazione spesso infondata, ad es. in tutti i casi nei quali la legge e il regolamento si riferiscano a tributi statali (esempi clamorosi sono quelli dei decreti attuativi della tassazione consolidata e del-la opzione per la trasparenza, nell’ambito della riforma IRES, che prevedono discipline integrative della legge di notevole portata, oltretutto non sostenute neppure da criteri direttivi).

Certo è che in tal modo si ipotizza la validità di una fonte normativa atipica, non prevista a livello costitu-

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 34

zionale: il decreto attuativo non è un regolamento, ma certamente ne ha tutte le caratteristiche. Ora, se una fonte atipica, nel nostro sistema costituzionale, non può avere legittimazione, se ne deve dedurre che il decreto attuativo non regolamentare altro non è se non un atto che non può essere fonte di diritto: ma allora è evidente che la disciplina in esso contenuta non vincola nessuno, né cittadini, né giudici, né la stessa amministrazione. La Corte Costituzionale è intervenuta una sola vol-ta sull’argomento, sia pure con un obiter dictum che sembra non lasciare scampo alla efficacia di tale fonte atipica (sentenza 112/2006). Si può concludere che, si-nora, il decreto di natura non regolamentare ha potuto operare solo per acquiescenza dei destinatari, ma se ad es. il problema emergesse, perché magari una sanzione viene comminata proprio sul presupposto della violazio-ne di disposizioni del decreto atipico, l’esito favorevole alla vincolatività della normativa così prodotta sembra tutt’altro che scontato.

* * *

6. Il ruolo delle norme tributarie nelle manovre finanziarie.

Mentre la Costituzione si appresta ad accogliere l’ob-bligo di tendenziale pareggio del bilancio pubblico, e il relativo disegno di legge sembra dover modificare anche l’art. 53, fondamento dell’imposizione tributaria, sem-bra doverosa una riflessione sui modi e sui limiti con i quali la decretazione di urgenza, tipica delle manovre finanziarie, possa incidere sulla disciplina dei tributi e sulle tecniche di accertamento, di riscossione e di tutela.

Non è infatti così scontata la risposta positiva, se si riflette sulle gravi carenze nei procedimenti di formazio-ne di questo tipo di norme (v. il paragrafo precedente): se infatti l’emergenza finanzaria certo giustifica aumen-ti del prelievo, e quindi l’emanazione in forma urgente di norme che modificano l’entità del tributo, al limite anche eliminando agevolazioni, assai meno scontato è che il recupero di gettito debba avvenire con modifi-che sistematiche della disciplina di un tributo (magari con effetto dal periodo d’imposta in corso, effetto che lo statuto del contribuente vorrebbe inibito) le quali andrebbero riservate a provvedimenti emanati con ben maggiore ponderazione, e con adeguata istruttoria par-lamentare.

Al costo dell’inasprimento fiscale, infatti, non dovreb-be sommarsi quello derivante dal costo amministrativo di gestione della sovrapposizione di modifiche tumultuose, dalle conseguenti incertezze interpretative, dalla necessità di rivedere la (lecita) pianificazione fiscale.

Ancora più delicato il tema delle modifiche ordina-mentali sul tema del rapporto tra fisco e contribuente, in particolare con riferimento alle garanzie e alle tutele. Se non si può discutere, in assoluto, la discrezionalità del legislatore di poter modificare, anche in occasione di manovre, le regole sull’accertamento e sul processo, meno scontato appare il limite che tale opera può in-contrare. E’ concepibile, in altre parole, che sia previsto un incremento di gettito per effetto di una maggiore efficacia dell’azione di controllo, ma spesso si ha l’im-pressione che l’inasprimento miri a rendere più difficile la tutela del contribuente, ad avere esiti più favorevoli del processo: il culmine lo si è raggiunto nelle manovre dell’estate 2011, che hanno modificato la composizione delle commissioni tributarie al dichiarato fine di avere un giudice diversamente orientato.

E’ questa una riflessione che non ha un esito scon-tato, ma che è necessaria: essa non si pone in termini di stretta legalità costituzionale, ma investe un profi-lo ancora più profondo, perché coinvolge un profilo politico, di affidabilità dell’ordinamento e di corret-tezza nel rapporto cittadino/stato. La materia impo-nibile non può provenire dalla difficoltà di difesa del contribuente, dallo squilibrio delle posizioni e del-le garanzie normative, ma dalla efficacia dell’azione accertatrice. Del resto, un principio ispiratore delle leggi “finanziarie” è sempre stato quello di non poter accogliere norme di carattere ordinamentale (si veda oggi, ad es., l’art. 11 della legge n. 196 del 2009); si tratta però di stabilire se il solo fatto di poter prevede-re un gettito in base ad una modifica ordinamentale renda compatibile quest’ultima con la legislazione di manovra finanziaria.

Occorre restituire stabilità alle regole, e serietà e pon-deratezza ai processi che le modificano.

* * *

7. Contenuti e presentazione delle norme: i limiti all’uso politico e la chiarezza dei fini.

Un ultimo, non secondario aspetto, investe il carat-tere spesso criptico con cui si presenta la norma tributa-ria: il testo di una singola disposizione è avulso da quello delle norme che la circondano, e l’effetto è quello di un impossibile coordinamento sistematico: non solo: l’esigenza di messaggio politico spesso deforma i con-tenuti della norma. Si potrebbe pensare che questo sia un inconveniente marginale, ma occorre chiedersi qua-le affidabilità dia, ad es. in un investitore straniero, un ordinamento tributario in cui il termine di decadenza è variabile, in funzione di un apprezzamento delicato

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 35

come quello della ricorrenza di fatti-reato, in cui l’ac-certamento risulti tendenzialmente unitario e integra-bile solo in casi particolari, salvo poi scoprire che que-sta regola non opera se l’accertamento è parziale e che parziale può essere definito, in buona sostanza, qualun-que accertamento, in base alla discrezionale valutazione dell’autorità emanante.

Abbiamo così, anche in materia tributaria, anzi forse soprattutto in materia tributaria, i fenomeni della nor-ma ipocrita (quella che “potenzia la compensazione” in-troducendo invece solo quasi restrizioni), della norma ambigua, di quella contraddittoria, di quella propagan-distica, ma soprattutto della norma che, volutamente o meno, sembra ignorare il tessuto normativo e le prassi operative sulle quali va a incidere.

Ed è ovvio che anche questa grave incongruenza è frutto di un procedimento legislativo che è troppo af-frettato e carente, e vede troppo preminente, e soprat-tutto non filtrata, la posizione delle agenzie fiscali.

Sotto questo aspetto, è da chiedersi se un rimedio possibile, oltre ad un maggior rigore degli organi co-stituzionali coinvolti durante e dopo il procedimento legislativo, non pssa venire da un recupero di un ruo-lo maggiormente incisivo del Dipartimento per le po-litiche fiscali, rispetto alla posizione del tutto prepon-derante che hanno assunto le agenzie fiscali. Le quali, lungi dall’essere il braccio operativo, cumulano con tale compito quello di progettazione delle norme e di prima interpretazione delle stesse.

* * *

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DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 36

1. È noto che un buon SISTEMA TRIBUTARIO• presuppone una legislazione semplice e chiara, che dia attuazione ai principi fondamentali di cui agli artt. 3, 23, 53 e 97 Costituzione, richiamati anche dall’art. 1 della L. 212/2000, nonchè (esplicitamente) dall’art. 1 della Legge delega n. 80 del 2003 e (impli-citamente) dall’art. 1 del Disegno di Legge delega per la riforma fiscale e assistenziale del 30 giugno 2011;• si incentra su un apparato amministrativo effi-ciente e motivato, in grado di applicare e far appli-care i precetti legislativi e di sanzionare le infrazioni in misura equa e differenziata a seconda della loro pericolosità sociale e del pregiudizio che recano alle entrate erariali;• è presieduto da una struttura giudiziaria profes-sionale, in modo da ottenere “giustizia tributaria” non solo tempestiva ma anche – e soprattutto – seria e at-tendibile, da attivare solo se e quando le parti non ab-biano potuto valersi degli istituti deflattivi del conten-zioso per definire il rapporto tributario controverso.

* * *

2. A più di quarant’anni dalla Riforma tributaria del 1971 e a più di sessant’anni dalla Riforma Vanoni (del 1951), la Riforma fiscale (e assistenziale) del 2012 dovrà tener conto del nuovo contesto econo-mico e sociale in cui deve calarsi, assicurando stabi-lità nei presupposti (dei vari tributi) – con funzione anti-congiunturale – e mobilità nelle “aliquote”, un equilibrato bilanciamento fra imposizione diretta (sul reddito) e indiretta (sui consumi e sui trasferi-menti) e il dovuto coordinamento fra imposizione erariale e locale. Con la finalità di passare da un “or-dinamento” a un “sistema” tributario.

* * *

3. Per cogliere l’obiettivo, valgono le direttive “di sempre”:a) semplificazione, cioè un numero ristretto di tributi e una formulazione chiara e inequivoca delle disposizioni, per consentire al contribuente (o quan-to meno a chi lo assiste) di individuare, di volta in volta, le disposizioni da applicare al caso concreto; b) certezza – o quanto meno affidabilità – del precetto legislativo, per consentire al soggetto pas-

Progetto di codice tributario

sivo (ma anche a quello attivo) di conoscere l’onere delle imposte fin dal momento in cui vengono poste in essere le operazioni o le attività economiche che ne costituiscono il presupposto, senza possibilità di far retroagire l’effetto di disposizioni successive (o con l’introduzione “d’ufficio” di istituti giuridici – come l’“abuso del diritto” – di derivazione giurispruden-ziale – e quindi di common law – anziché legislativa, in presenza di una antica tradizione di civil law;c) equità sostanziale nel riparto dei tributi, in chiave solidaristica oltre che come corrispettivo ge-nerale dei servizi indivisibili erogati dallo Stato, as-segnando ai Dirigenti dell’Amministrazione l'ammi-nistrazione Finanziaria o degli Enti (locali) preposti alla gestione dei tributi una adeguata discrezionalità tecnica che consenta loro la necessaria flessibilità nella applicazione, in concreto, delle diverse dispo-sizioni legislative e, soprattutto, delle sanzioni, che devono tener conto della personalità dell'autore, del contesto in cui è maturata l'inflazione e del (maggio-re, minore o inesistente) danno recato all’erario.

* * *

4. Dar corso ad una RIFORMA TRIBUTARIA non è compito facile, ma al punto in cui ci troviamo diventa una esigenza non più procrastinabile, da affrontare con il massimo impegno, con il concorso di tutti coloro che sono in grado di dare un apporto e, con il consenso più ampio che sia possibile dei cittadini contribuenti.

Per parte mia, voglio dare un segnale di presenza attiva in termini schematici. Ho rielaborato un do-cumento che avevo redatto diversi anni fa, quando (pure) si era parlato di Riforma tributaria… senza però attivarla e procedendo, invece, solo a un re-styling di alcuni istituti giuridici, al di fuori di un disegno complessivo. Il mio modesto contributo è diretto a porle la cornice per la realizzazione di un ordinamento coordinato e sistematico, confidando di vederlo concretizzato "presto e bene".

di Roberto Lunelli

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 37

A PARTE GENERALE

1. PRINCIPI COSTITUZIONALI (art. 53, ma anche artt. 3, 23, 97)2. PRINCIPI desumibili dallo STATUTO dei DIRITTI DEL CONTRIBUENTE (L. 212/2000)3. PRINCIPI di DIRITTO COMUNITARIO (Direttive / Regolamenti / Sentenze C.G.C.E. “interpretative”)

B PARTE SPECIALE

6. CONTENZIOSO TRIBUTARIO

Testo Unico che riguarda sia gli “ORGANI di giustizia tributaria” (attuale D.Lgs. 545/1992, riformato) che il PROCESSO tributario (attuale D.Lgs.

546/1992, revisionato) secondo quanto suggerito dall’ANTI in varie circostanze (e, da ultimo, in un articolato documento della primavera 2011)

5. SANZIONI AMMINISTRATIVE

Disposizioni specifiche per le imposte sui redditi e l’I.V.A. (attuale D.Lgs. 471/1997)

Disposizioni specifiche per “altre imposte indirette” e “minori”

(attuale D.Lgs. 473/1997)

3. DISPOSIZIONI PROCEDIMENTALI relative alla APPLICAZIONE del TRIBUTO

Accertamento IREF/IREN(sulle pers.

fis. e enti n.c.)

Accertamentoreddito d’impresa

e IVA (congiunto)

Accertamentoimposta sui SERVIZI

(ex imposte di tipo registro, bollo, ecc.)

Accertamento delle altre

IMPOSTE(erariali e locali) e PROC. SPEC. (es. concorsuali)

4. RISCOSSIONE dei TRIBUTI

RiscossioneIREF/IREN(sulle pers.

fis. e enti n.c.)

Riscossioneimposte sui

redditi d’impresa e IVA

(comune)

Riscossioneimposta sui SERVIZI

(tenendo conto dei diversi

presupposti)

Riscossione delle altre IMPOSTE(erariali e locali) e PROC. SPEC. (es. concorsuali)

1. REGOLE COMUNI e GLOSSARIO (a valere per ciascuna “sezione”)

2. DISPOSIZIONI SOSTANZIALI aventi per oggetto i TRIBUTI [o materie che per la loro specialità esigono un testo compatto o coordinato da incrementare da attenuare ]

1. IREF

(pers. fis.)

IRAP

2. IREN

(Enti n.c.)

=

IMU

3. IRES

(Società)

RESimposta

di soggiornoimposta di scopo

4. imposta

sui servizi

5. IVA

Le varie imposte della FINANZA LOCALE

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 38

NEL QUADRO DELLA “INDAGINE CONOSCI-TIVA SULLA RIFORMA FISCALE”, CONDOTTA DALLA SESTA COMMISSIONE PERMANENTE (FI-NANZE E TESORO) DEL SENATO DELLA REPUB-BLICA, NELLA SEDUTA DI MARTEDI 8 NOVEM-BRE 2011, È STATO ASCOLTATO IL PROF. MARIO BOIDI PRESIDENTE DELL’A.N.T.I. ASSOCIAZIO-NE NAZIONALE TRIBUTARISTI ITALIANI.

Questo il resoconto stenografico del suo interven-to e del successivo dibattito.

Presidenza del vice presidente FERRARA

Audizione dell’Associazione nazionale tributaristi italiani (ANTI)

PRESIDENTE. Segue l’audizione dell’Associazione nazionale tributaristi italiani (ANTI).

Sono presenti il professor Mario Boidi, presidente dell’ANTI – Associazione nazionale tributaristi italiani, accompagnato dall’avvocato Claudio Berliri, dall’avvo-cato Giuseppe Sera e dal dottor Mario Nola.

Lascio la parola al professor Boidi.

BOIDI. Vorrei fare una premessa dal momento che non abbiamo predisposto un testo scritto per la sempli-ce ragione che venerdì prossimo, 11 novembre, si terrà a Torino il XXXI Congresso nazionale dell’Associazione nazionale tributaristi. Il tema, già stabilito comunque sin dall’assemblea annuale che abbiamo avuto a maggio, riguarda proprio la riforma dell’ordinamento tributario. Ci saranno diverse relazioni nella mattina con il profes-sor Marongiu, che parlerà dei 150 anni dell’unità d’Ita-lia, il professor Gallo, il professor Fantozzi, il professor Falsitta e il professor Basilavecchia.

PRESIDENTE. Perche´ proprio a Torino?

BOIDI. Siamo quasi al termine del 150º anno da che Torino fu proclamata prima capitale del Regno d’Italia ed il tema già stabilito sin dall’assemblea annuale tenutasi a maggio è proprio la riforma dell’ordinamento tributario.

Con riferimento a quell’evento, mi permetto di la-sciare un documento in cui sono previsti gli interventi del professor Marongiu, del professor Gallo, del profes-sor Fantozzi, del professor Falsitta e del professor Basi-lavecchia. Nel pomeriggio della stessa giornata si terrà poi una tavola rotonda in cui alcuni rappresentanti di Assonime e di Confindustria riferiranno sul tema. Tale testo fa seguito al XXX congresso tenutosi due anni fa a Trieste, in occasione del quale festeggiammo i 60 anni dall’avvio dell’attività dell’ANTI, il cui tema era «Rior-diniamo la giustizia tributaria », di cui vi lascio un do-cumento in cui sono contenute tutte le relazioni, che ritengo siano oltremodo interessanti.

Come associazione siamo sempre allineati, sia a livello scientifico che a livello professionale, sulle maggiori tema-tiche inerenti la fiscalità. Abbiamo rilevato che l’aver por-tato avanti il tema della giustizia tributaria negli ultimi provvedimenti dell’estate scorsa ha sortito qualche effetto e si è addivenuti ad una certa revisione della giustizia tri-butaria. Ma riprenderemo l’argomento trattando il tema del riordino dell’ordinamento, dato che nella relazione ministeriale si parla anche della necessità di riordinare il contenzioso. Quest’ultimo così come è strutturato oggi presenta infatti ancora molte carenze oltre, a nostro avvi-so, ad un grave difetto sostanziale aggravato da alcune di-sposizioni inserite nei provvedimenti dell’estate secondo cui le commissioni tributarie, come organi giurisdizionali e tributari, sono sotto l’egida ed il controllo del Mini-stero dell’economia. Ciò è chiaramente un controsenso rispetto alla realtà che caratterizza tutte le altre giurisdi-zioni che, per competenza, sono sottoposte al controllo del Ministero della giustizia.

Oltretutto, anche se il Ministero dell’economia ha diverse braccia operative, il braccio operativo delle fi-nanze è quello che regola le entrate. Che un organo giurisdizionale, che dovrebbe rispondere a criteri di as-soluta indipendenza e autonomia, dipenda da una del-le parti del processo ci sembra fuori luogo. Per quanto riguarda il tema della vostra indagine, approfondiremo la questione nel congresso, ma sicuramente le premesse contenute nella relazione ministeriale che accompagna il progetto di legge presentato sono condivisibili, per quanto riguarda le ipotesi trattate e la struttura che si

Audizione Anti presso Commissione Finanze del Senatodi Mario Boidi

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 39

vuole dare all’ordinamento tributario.Naturalmente, poi tra il dire e il fare ne corre; occorrerà vedere come si intende risolvere questo problema. Come sapete, pur-troppo, tra la riforma Vanoni del 1951 e il testo unico del 1971 (entrato in vigore nel 1973) si può scegliere tra sessanta anni di legge Vanoni o quaranta di riforma tributaria, dato che si continua a dire che è necessario mettere mano ad una riforma tributaria organica.

Siamo arrivati ad un testo unico delle imposte e ad un testo unico della legge di registro. Poi, nel tempo, si sono susseguite una serie di disposizioni legislative correttive, integrative, chiarificatrici che sicuramente oggi nuocciono gravemente – come riconosce lo stesso Ministro nella sua relazione – al rapporto tra amministrazioni finanziarie e contribuenti, che dovrebbe essere improntato soprattutto ad una chiarezza reciproca nei rapporti e sull’individuazio-ne della possibilità di portare avanti i principi costituziona-li richiamati nella famosa legge 212 del 2000 sullo statuto del contribuente. Anche al riguardo dobbiamo sollevare qualche perplessità perche´ in base agli ultimi orientamenti della Corte di cassazione (non solo in merito all’abuso del diritto, su cui non mi pronuncio essendo un tema molto dibattuto), espressi nelle ultime sentenze proprio riguardo allo statuto del contribuente in cui il termine per l’effet-tuazione di verifiche da parte della Guardia di finanza era fissato in sessanta giorni, essa afferma che non è un termi-ne perentorio e che in presenza di altri termini di scadenza si può procedere. È stato addirittura riconosciuto che in assenza di risposta a rapporti di autotutela la competenza non ricade sulle commissioni tributarie e se il contribuente si duole di comportamenti dell’amministrazionefinanzia-ria o della Guardia di finanza deve rivolgersi al Garante del contribuente, una figura che viaggia a mezza altezza e che non ha poteri specifici che, oltretutto – come riconosce la stessa sentenza della Cassazione – di fronte al riconosciu-to comportamento contrario alle normative dello statuto del contribuente, se ritiene fondate le lamentele del con-tribuente potrà segnalare alle amministrazioni competenti i casi di responsabilità. Ciò non è certamente condivisibile sotto questo aspetto.

I problemi sostanziali sono quelli contenuti nel decre-to legislativo che è stato predisposto ed il nostro auspicio è che presto si possa finalmente arrivare, come accade in tutti gli altri Paesi della Comunità europea, ad avere un codice tributario che non sia soltanto una raccolta di leg-gi, come oggi è per le imposte dirette o per quelle di re-gistro, ma un codice relativo all’intera materia tributaria, così recita il testo legislativo, che riguardi l’imposta sulle persone fisiche, l’imposta sulle società, sugli enti, l’IRAP e l’imposta sui servizi. Al riguardo anche noi riteniamo si dovrebbe trovare il modo di riunire in un’unica imposta diverse imposizioni che, in sostanza – come specifica la

definizione «servizi» – rappresentano una serie di servizi specifici e particolari che l’amministrazione svolge a favo-re del contribuente o su richiesta del medesimo. Pensare di arrivare all’individuazione di un’unica aliquota appli-cabile nelle diverse fattispecie è un po’ idealista perche´ vorrebbe dire, per esempio, unificare in un’unica aliquota imposte ipotecarie, imposte catastali ed imposte di re-gistro che sono le une obbligatorie, le altre facoltative. Quindi, piu` che affermazioni pratiche sembrano affer-mazioni di principio teorico.

Uno dei problemi che riteniamo essenziali, ma che non è stato affrontato a livello legislativo, è quello re-lativo alla proposta di modulare l’imposta sulle perso-ne fisiche su tre aliquote pari al 20, al 30 e al 40 per cento e di ridurre l’IRAP eliminando, quantomeno, le incidenze del lavoro per giungere in futuro alla com-pleta soppressione assorbendola su altre imposte. Si, ma ci chiediamo: su quali? Se partiamo da un’articolazione basata su percentuali del 20, del 30 e del 40 pensando poi di cercare altre soluzioni, dato che la premessa del dettato legislativo è che la riforma deve avvenire a co-sto zero, anzi deve avere un saldo attivo di 12 miliardi di euro per consentire le riduzioni, ci pare tutto mol-to ipotetico, specie considerando le attuali condizioni economiche non solo del nostro Paese, ma, purtroppo, dell’economia europea e mondiale.

Come ho già detto, noi siamo convinti che le norma-tive tributarie debbano essere improntate a principi di assoluta semplicità, chiarezza e trasparenza. Oggi siamo di fronte ad un sistema tributario complesso di difficile interpretazione ed applicazione non solo per i contri-buenti, ma anche per coloro che per professione si dedi-cano alla materia tributaria, perche´ tra rinvii, integra-zioni, modificazioni ed altro non sembra che i principi dettati dalla Costituzione, soprattutto quello che deve regolamentare la capacità contributiva di cui all’articolo 53, trovino un’applicazione uniforme. Sono poi previste anche molte forme di aiuto nella definizione del rap-porto tributario. Alcuni esempi sono rinvenibili nelle norme prodotte negli ultimi anni nel tentativo di trova-re degli istituti deflattivi che possano evitare di caricare il contenzioso tributario, la stessa amministrazione, di vertenze a lungo periodo. Anche perche´, malgrado i gradi di giurisdizione, sappiamo che oggi in Corte di cassazione vi sono piu` di 100.000 ricorsi da smaltire: con una sola sezione competente per la materia tributa-ria sembra che si facciano promesse molto impegnative.

Come ho già accennato, nel disegno di legge è com-presa la riforma del contenzioso tributario; riteniamo che tale proposta debba essere portata avanti preveden-do non solo un trasferimento delle competenze, ma an-che una diversa impostazione della struttura giudiziaria.

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 40

Infatti, a nostro avviso, per le vertenze di 5.000-10.000 euro di imposte si potrebbe prevedere un giudice unico, come avviene nel processo civile, al fine di semplificare le controversie dinanzi alle commissioni tributarie. Inol-tre, le commissioni tributarie dovrebbero essere compo-ste da magistrati che lavorano a tempo pieno. Nel luglio scorso è stato formulato un progetto governativo volto ad eliminare una serie di componenti delle commissioni per motivi di incompatibilità professionale o di paren-tela. È stato indetto un concorso per 960 magistrati che dovrebbero intervenire nella magistratura tributaria, ma non si sa ancora come verrà risolto. Mi sembra che oggi anche il Presidente dell’AMT Sepe (sono stato relato-re al congresso svoltosi a Torino il 16 ottobre scorso) abbia riconosciuto che, rispetto ai 960 magistrati che potrebbero andare ad accrescere il numero dei com-ponenti le commissioni, con particolare riguardo alle commissioni regionali, di secondo grado, il concorso richiederà due o tre anni di tempo. Il problema mag-giore è rappresentato dalle commissioni tributarie che giudicano in primo grado. Infatti, una riforma di questo tipo esige giustamente che si preveda un emolumento, un compenso, dei componenti che sia adeguato a quel-lo delle altre giurisdizioni e che soprattutto riconosca l’importanza del lavoro compiuto dai giudici tributari; ciò evidentemente richiede interventi di carattere finan-ziario che rientrano in quelle famose ipotesi preventi-vate e che noi riteniamo siano difficilmente realizzabili in questo momento. È pur vero, però, che un grande risultato in termini quantitativi e finanziari dovrebbe essere ottenuto con le indagini conoscitive realizzate dalle commissioni nominate dal ministro Tremonti per stabilire i diversi effetti della riforma tributaria nei vari settori: sembra che, sia in materia di agevolazioni e ri-conoscimenti di detrazione di imposta sia soprattutto in materia di premi e di incrementi nella produttività, vi siano migliaia di disposizioni che dovrebbero essere riportate all’essenzialità riconoscendo le detrazioni o le deduzioni, a seconda del sistema che si vuole adottare nella formulazione dell’imposta sulle persone fisiche o giuridiche, nelle quali eliminare tutte le facilitazioni che hanno influenzato in modo molto consistente il gettito erariale dei singoli tributi.

* * *

Presidenza del presidente BALDASSARRI

(Segue BOIDI). Un altro problema è rappresentato all’IVA che, a parte l’ultimo aumento percentualistico, deve necessariamente essere revisionata. Facendo parte della Confederazione Fiscale Europea, so che è stato

predisposto un nuovo testo unificato dell’IVA a cui si dovranno adeguare tutti gli Stati aderenti, essendo l’im-posta di carattere comunitario; pertanto, noi dovremo adeguarci agli indirizzi della Comunità europea che naturalmente siamo tenuti ad osservare. Infatti, come noto, per quanto riguarda l’imposizione diretta non esiste ancora una regolamentazione in materia fiscale, mentre per le imposte indirette le pronunce della Corte di giustizia e le stesse disposizioni comunitarie impon-gono una uniformità di comportamento e di trattamen-to da parte di tutte le legislazioni nazionali.

Riteniamo, dunque, che il percorso sia impervio perche´ in questo momento è difficile individuare le soluzioni piu` idonee. Come noto, il progetto di legge abbraccia non solo la riforma fiscale, ma anche quel-la assistenziale: si tratta di due riforme che il Governo deve avviare per realizzare il suo programma governati-vo. Ripeto, però, che a nostro avviso vi saranno note-voli difficoltà. Occorre arrivare ad una semplificazione dei rapporti tributari per evitare che l’applicazione della legge determini, come purtroppo accade oggi, alcune conseguenze. Mi riferisco ad un altro capitolo molto importante, che va tenuto presente, cioè quello san-zionatorio. Infatti, oggi il sistema sanzionatorio si sta aggravando, tra sanzioni penali ed amministrative, inos-servanze di specifiche disposizioni, con una variopinta scala di determinazioni di sanzioni di diverso tipo. Noi siamo per un principio sanzionatorio senz’altro dovuto, perche´ il problema dell’osservanza della legge tributaria è un problema costituzionalmente disposto, protetto e da osservare. Sicuramente, però, anche la materia san-zionatoria deve ricevere una sua regolamentazione che vada dai casi semplici ai casi piu` complessi o, addirit-tura, a quelli che hanno poi dei risvolti di carattere pe-nale. Anche qui, certamente, siamo sempre in attesa di vedere risolto il tema dell’abuso del diritto (di cui tratta la famosa rimodulazione dell’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973), ma dobbiamo renderci conto che occorre un intervento del-la legislazione, piu` che della giurisprudenza, per stabi-lire quelli che sono i confini esistenti. Tale aspetto deve essere codificato, sancendo bene i confini tra elusione ed evasione. È vero che oggi la dottrina tende a avvicinare questi due concetti, per cui la definizione del concetto di elusione ha, nei suoi limiti superiori, dei confini comuni con quella dell’evasione; chiaramente, però, prima anco-ra che come concetto giuridico di carattere tributario, in base alla dizione letterale italiana, l’elusione è un concet-to e l’evasione un altro. L’elusione deve essere persegui-ta con determinate disposizioni, ma deve essere colpita anche l’evasione che è, senz’altro, un fenomeno gravissi-mo, la cui entità ancora oggi non è definita. Parliamo di

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO DOTTRINA 41

cifre molto rilevanti, ma nessuno riesce a concretizzarle perche´ non si individuano quali sono le posizioni che devono essere definite. Visto che è in corso il censimen-to della popolazione, con una modulistica esauriente su altri punti, non sarebbe stato male se i compilatori delle schede fossero stati chiamati anche a dichiarare se osser-vano il loro dovere fiscale; avremmo forse così facilitato il compito che gli organi preposti stanno svolgendo in maniera molto oculata. Mancano, però, gli strumenti e, quindi, bisogna anche cercare di colpire questo fenome-no che, sicuramente, incide molto sulle nostre finanze.

LEDDI (PD). Professor Boidi, le chiedo una sua va-lutazione in ordine a un fatto che è stato sottolineato an-che nel corso delle consultazioni che abbiamo svolto in Commissione sulla materia su cui anche lei si è espresso.

Come le è noto, quest’anno, con il decreto-legge n. 98 del 2011 sono intervenute delle novità positive in ordine alla definizione delle liti fiscali. Vi è stato, cioè, uno snellimento dei procedimenti tributari in corso, li-mitatamente a piccoli contribuenti, quindi con il tetto dei 20.000 euro.

Dalle vostre valutazioni, e per la conoscenza che ave-te del settore, ritenete che potrebbe essere opportuno estendere gli strumenti di definizione agevolata delle controversie tributarie, attraverso l’innalzamento del li-mite di importo attualmente previsto?

BOIDI. Senatrice Leddi, mi risulta che siano state avanzate delle proposte in tal senso. Il limite di 20.000 euro per consentire le definizioni è certamente un buon limite per eliminare questa grande massa, che noi rite-niamo, per il futuro, sarebbe risolvibile, in caso di con-tenzioso, con un giudice unico che decida su queste basi, come è stato stabilito per il giudizio civile.

Noi riteniamo, senza dubbio, che elevare le possi-bilità di definizione a un limite piu` alto sicuramente eliminerebbe molto contenzioso e darebbe anche un be-neficio finanziario alle casse dello Stato. Bisogna però, anche qui, fare attenzione.

L’ANTI ha tenuto, venerdì scorso, un convegno in Veneto sull’esecutività dell’accertamento che, anche questo, dà delle disposizioni. Gradualmente, dalle prime disposizioni che sono state emanate a quel-le che sono state progressivamente modificate, oggi questa esecutività comporta, oltre all’iscrizione im-mediata solamente di un terzo delle somme rispetto al 100 per cento prima e al 50 per cento poi (anche se, comunque, l’iscrizione di un terzo, su certi importi, ha una sua rilevanza), un altro problema. Infatti, se è vero che oramai sono previsti 60 giorni per l’accer-tamento, 30 giorni per trasmettere ad Equitalia l’ese-

cutività dell’accertamento, 180 giorni di tempo per la Commissione tributaria, se il contribuente ritiene di chiedere la sospensione (se esiste il fumus boni iuris e il periculum in mora), tali scadenze portano a 270 giorni il periodo di mora. Sicuramente, anche questo è un aggravio notevole perche´, ad esempio, è stata fatta presente una circostanza, che io segnalo e che ha riconosciuto anche il direttore di Equitalia, che era presente al convegno. Mentre sono state emanate le disposizioni della Direzione generale delle entrate per il rispetto dei termini delle trasmissioni, per il caso invece in cui il contribuente è disposto a pa-gare il terzo, ma chiede che gli venga dilazionato il pagamento per motivi di ordine patrimoniale, tutto tace. Bisognerà aspettare che qualcuno sollevi il pro-blema e che l’amministrazione si pronunci, perche´ l’istituto della dilazione è previsto e, quindi, anche questo deve essere regolamentato. Probabilmente, per l’eccessiva celerità di arrivare a queste forme di accertamento esecutivo, che eliminano totalmente quella che, dal testo unico dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile del 1877, era una formulazione della formazione del ruolo e dell’esazione del ruolo, oggi passiamo, invece, semplicemente all’esecutività dell’accertamento e sopprimiamo il ruolo. Con la ri-forma fiscale avevamo plaudito alla clausola del «solve et repete», che era stata messa in soffitta. Invece, le abbiamo cambiato dizione e l’abbiamo reintrodotta. Quindi, non è sempre detto che i vecchi istituti siano da abbandonare perche´ poi, melius re perpensa, ritor-niamo sulle vecchie ipotesi.

BONFRISCO (PdL). Presidente Boidi, la collega Leddi, con la sua domanda, le ha dato l’opportuni-tà di aprire uno squarcio su alcune riflessioni per le quali le siamo molto grati, così come siamo grati per il vostro lavoro, il vostro studio, l’approfondimento e per il contributo che avete portato al nostro lavoro. Vi invitiamo a continuare a svolgere questo prezioso ruo-lo e ad aiutarci, in questo modo, ad approfondire e a valutare appieno i tanti aspetti che una riforma fiscale ci chiama ad affrontare.

Oggi è stata una giornata intensa di audizioni e credo che la parte da voi svolta sia di certo tra le piu` rilevanti e le piu` significative per noi, visto che ab-biamo bisogno di tutta la competenza e la conoscenza possibili per poter riempire di contenuti questo pro-cesso di riforma fiscale.

Grazie alla collega Leddi lei ha potuto fare del-le valutazioni. Anch’io vorrei aiutarla, chiedendo-le un’opinione sulla situazione, ad oggi, dell’iter sull’abuso del diritto, che è uno dei temi che questa

DOTTRINA LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 42

Commissione dovrà certamente tenere presenti nella sua attività futura.

BOIDI. Senatrice Bonfrisco, noi siamo stati pro-motori, addirittura nell’ottobre del 2009, di un con-vegno a Roma, proprio sull’abuso del diritto. Abbia-mo convocato la Cassazione, gli studiosi, l’Agenzia delle entrate per cercare di uscire da questo vicolo cieco. Purtroppo, come lei sa, la Cassazione è inter-venuta sostituendosi al legislatore e dando delle in-terpretazioni sulle quali ci sono un po’ di renverse´. Noi riteniamo, come ho accennato prima, che deb-ba trovarsi una soluzione legislativa. Abbiamo pro-dotto un testo dell’articolo 37-bis rettificato; siamo stati ascoltati nel mese di aprile dalla Commissione finanze della Camera e abbiamo presentato un te-sto comparativo e unificato delle diverse proposte dei deputati Leo, Jannone, Strizzolo e della senatri-ce Bonfrisco per mettere in luce tutte le disposizioni e recepire tutto ciò che era possibile regolamentare.

Ci risulta che questo testo abbia avuto una condivi-sione in sede parlamentare alla Camera. Sono state avanzate delle proposte che nel cosiddetto decreto sviluppo e nel maxiemendamento dovrebbero ricom-prendere disposizioni di carattere fiscale; ci potrebbe essere la disponibilità ad inserire anche la disposizio-ne dell’articolo 37-bis.

È stato presentato un testo unificato che è stato arric-chito in quanto la Commissione finanze ha fatto ulteriori audizioni. Tale testo, come mi hanno confermato gli ono-revoli Leo e Strizzolo, è stato molto apprezzato e ve lo fa-remo avere. Noi speriamo che sia recepito. Ci risulta che il testo modificato dell’articolo 37-bis sia stato presentato al ministro Romani perche ´ sta raggruppando le diverse proposte che devono essere esaminate e approvate.

PRESIDENTE. Ringrazio i nostri ospiti per il contributo offerto ai

nostri lavori. E dichiaro, quindi, conclusa L’audizione.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 43CONVEGNI ED ATTIVITA’ ANTI

Tra i convegni organizzati o sponsorizzati dall’ANTI nell’ultima metà dello scorso anno ed in questo primo scorcio del 2012 - oltre al XXXI Congresso Nazionale ANTI organizzato dalla Sezione Piemonte-Valle d’Aosta e tenuto a Torino l’11 novembre 2011 sul tema: “La rifor-ma del sistema fiscale”, di cui il presente numero raccoglie gran parte degli interventi - che come tradizione sono tut-ti pubblicati sul nostro sito web www.associazionetributa-risti.it nella sezione “Incontri e Convegni” - segnaliamo:

- il convegno organizzato a Roma dalla Sezione La-zio il 18 luglio 2011, sul tema “Il nuovo redditometro; gli accertamenti esecutivi ed il relativo contenzioso”. Mo-deratore: Prof. Dott. Francesco Rossi Ragazzi. Relato-ri: Avv. Claudio Berliri, Prof. Avv. Leonardo Perrone e Dott. Paolo Moretti;

- il convegno organizzato a Como dalla Sezione Provinciale di Como il 20 luglio 2011 sul tema “L’ac-certamento esecutivo” Coordinatore: Prof. Avv. France-sco Tesauro. Relatori: Prof.ssa Maria Cristina Pierro, Prof. Enrico Marello, Prof. Gaetano Ragucci e Prof. Alberto Maria Gaffuri;

- il convegno organizzato a Torino dalla Sezione Piemonte Valle D’Aosta il 6 ottobre 2011 sul tema “Le novità fiscali della manovra correttiva”. Relatori: Dott. Gianluca Odetto e Dott.ssa Elena Spagnol;

- il convegno organizzato a Firenze dalla Sezione Toscana il 27 ottobre 2011 sul tema “La Giustizia Tri-butaria fra modifiche legislative ed oscillazioni giurispru-denziali” Relatori: Dott. Mario Cicala, Dott. Francesco Antonio Genovese e Dott. Giorgio Fiorenza;

- il convegno organizzato ad Udine dalla Sezio-ne Friuli Venezia Giulia il 4 novembre 2011 sul tema “Dall’accertamento esecutivo alla riscossione senza accer-tamento” Relatori: Dott. Marco Di Capua, Dott. Marco Cuccagna, Prof. Avv.

Francesco Moschetti, Dott. Francesco Castellano. Tavola Rotonda. Coordinatore: Prof. Avv. Gianni Ma-rongiu, con la partecipazione di alcuni relatori della mattinata, nonché del Dott. Christian Attardi, Prof. Alessandro Giovannini, Prof. Enrico Marello e Dott. Enrico Zanetti. Relazione di sintesi: Prof. Avv. Gianni Marongiu. Chiusura dei lavori: Dott. Roberto Lunelli;

- il convegno organizzato a Como dalla Sezione Pro-vinciale di Como, in collaborazione con la Camera Pe-nale di Como e Lecco, il 18 novembre 2011 sul tema: “La Riforma dei Reati Tributari”. Coordinatore Prof.

Avv. Gaetano Ragucci. Relatori: Avv. Francesco Colai-anni, Le novità in materia di soglie di punibilità, elimi-nazione e riduzione delle attenuanti nei reati tributari; Prof. Avv. Gaetano Ragucci, Il raddoppio dei termini per l’accertamento in presenza di notitia criminis: la sentenza C.Cost. 20/7/2011 n. 247; Avv. Mario Garavoglia, Pro-blemi pratici derivanti dall’applicazione del principio del “doppio binario; Prof. Avv. Bruno Assumma, Le novità in materia di prescrizione, sospensione condizionale della pena, patteggiamento; Prof. Avv. Ivo Caraccioli, Profili penal-tributari del principio dell’ ”abuso di diritto”, di cre-azione giurisprudenziale; Prof. Andrea Perini, Problemi pratici derivanti dall’applicazione del principio di “abuso del diritto”: la ricostruzione contabile e giuridica delle so-glie di punibilità dei reati tributari;

- il convegno organizzato a Ravenna dalla Sezione, Emilia Romagna, in collaborazione con l’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Ra-venna - Commissione di Studio Diritto Tributario, il 2 dicembre 2011 sul tema: “Principali novità in tema di contenzioso e accertamento”. Moderatore; Dott. France-sco Silvestrini. Relatori: Prof. Mario Martelli L’accerta-mento esecutivo; Prof. Avv. Lorenzo del Federico Il re-clamo e la mediazione; Prof.ssa Alessandra Magliaro Il contributo unificato nel Processo tributario; Dott. Rosa-rio Ziniti, L’impatto delle recenti modifiche legislative sul processo tributario; Prof. Adriano Benazzi, Redditometro, spesometro e obbligo del contradditorio; Avv. Giovanni Caliceti, L’accertamento per i redditi delle società aderenti al consolidato; Prof. Avv. Francesco Montanari, Novità in tema di società di comodo; Dott. Pasquale Stellacci, Interpretazione, elusione ed abuso del diritto;

- la “Tax week” organizzata ad Ancona dal 20 novem-bre al 2 dicembre 2011 dall’Università Politecnica delle Marche - Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, in colla-borazione con la Sezione Marche - Delegazione Abruzzo;

- il convegno organizzato a Catania dalla Sezione Si-cilia Orientale, in collaborazione con l’Ordine dei dot-tori commercialisti e degli esperti contabili di Catania, il 2 dicembre 2011 sul tema “Assetto dell’ordinamento penale tributario dopo l’intervento del D. L. n. 138/2011 e della sentenza 247/11 della Corte Costituzionale” Rela-tori: Prof. Avv. Vito Branca, La sentenza 247/2011 della Corte Costituzionale e gli infiniti termini dell’accertamen-to e della prescrizione dei reati. Processo Tributario e Pro-cesso Penale: la vera crisi del doppio binario; Avv. Carmelo

A.N.T.I.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO TRIBUTARIO 44

Peluso, I reati di dichiarazione e falsa fatturazione dopo la riforma. Il nuovo regime delle attenuanti e delle pene accessorie; Dott. Massimo Conigliaro, Il nuovo sistema degli accertamenti bancari e finanziari. Il de profundis per il segreto bancario; Dott. Alessandro La Rosa, Reati tri-butari e misure cautelari: il sequestro per equivalente;

- il convegno organizzato ad Udine dall’Ordine dei dottori commercialisti e degli esperti contabili della pro-vincia di Udine, in collaborazione con l’Associazione Nazionale Tributaristi Italiani - Sezione Friuli Venezia Giulia, il 12 gennaio 2012 sul tema Gli effetti tributa-ri delle “Manovre finanziarie” del secondo semestre 2011. Coordinatore Dott. Roberto Lunelli. Relatori: Dott.ssa Silvia Pelizzo, Dott. Luca Lunelli e Giovanni Sgura.

- l’incontro di studio organizzato ad Udine da Confindustria Udine, in collaborazione con l’Ordi-ne dei dottori commercialisti e degli esperti contabili della provincia di Udine e con l’Associazione Nazio-nale Tributaristi Italiani, il 13 gennaio 2012 sul tema

“Le novità fiscali 2012”. Coordinatore Dott. Roberto Lunelli. Relatori: Dott.ssa Silvia Pelizzo, Dott. Luca Lunelli e Giovanni Sgura;

- il convegno organizzato a Torino dalla Sezione Pie-monte Valle D’Aosta il 19 gennaio 2012 sul tema “Il “reclamo” e la “conciliazione” nel nuovo rito tributario”. Relatore: Prof. Avv. Vito Branca. Moderatore e conclu-sioni: Avv. Mario Garavoglia;

- il convegno organizzato a Torino dalla Sezione Pie-monte Valle D’Aosta il 23 febbraio 2012 sul tema “Le novità sui collegi sindacali”. Relatori: Prof. Avv. Piero Lu-carelli, Prof. Avv. Oreste Cognasso.

Tra le attività dell’Anti si segnala anche la prestigio-sa Audizione del nostro Presidente Prof. Mario Boidi presso la VI Commissione permanente Finanze e Tesoro del Senato che ha avuto luogo l’8 novembre 2011 nel quadro dell’ “Indagine conoscitiva sulla riforma fiscale” di cui abbiamo riportato il testo integrale.

CONVEGNI ED ATTIVITA’ ANTI

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L’A.N.T.I. Associazione Nazionale Tributaristi Italiani è stata costituita

il 13 giugno 1949 e, nei suoi quasi sessant’anni di storia, ha avuto illustri

Presidenti quali: Giovanni Battista Adonnino, Ernesto D’Albergo,

Epicarmo Corbino, Ignazio Manzoni, Victor Uckmar, Giuseppe De

Angelis. Attualmente è presieduta dal Prof. Mario Boidi. L’Associazione,

che ha sezioni in tutta Italia, si propone, attraverso incontri di studio,

convegni e pubblicazioni, di approfondire le tematiche fiscali, sotto il

profilo scientifico, ma attenta anche alle applicazioni professionali. Essa

tiene, altresì, contatti con Governo e Parlamento collaborando quando

richiesto allo studio e alla formazione delle leggi. L’A.N.T.I. è socia della

Confédération Fiscale Européenne, l’unico raggruppamento Europeo di

consulenti tributari che opera a livello Comunitario e nell’anno 2004 è

stato presieduto dal Prof. Mario Boidi.

SEDE LEGALEPiazza della Croce Rossa, 2 • 00161 Roma • Tel. 06.45214794

E-mail: [email protected] • Sito Internet: www.associazionetributaristi.it

PRESIDENZAVia Andrea Doria, 15 • 10123 Torino • Tel. 011.8126767 • Fax 011.8122300

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SEGRETERIA NAZIONALEVia Riviera di Chiaia, 72 • 80122 Napoli • Tel. e Fax 081.7617783

E-mail: [email protected]

TESORERIA NAZIONALEVia Cosimo del Fante, 16 • 20122 Milano • Tel. 02.58310288 • Fax 02.58310285

E-mail: [email protected] • Sito Internet: www.associazionetributaristi.it

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