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LA RIFORMA DEL LAVORO CONTROVERSIE INDIVIDUALI DI LAVORO PROCESSO DEL LAVORO a cura di Armando Montemarano e Emanuele Montemarano IN COLLABORAZIONE CON 10

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processo del lavoro

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processo del lavoro

a cura di

armando Montemarano e emanuele Montemarano

IN COLLABORAZIONE CON

10

I manuali del Sole 24 ORE Settimanale N. 10/2012

Euro 9,90

La Riforma del Lavoro offre una serie di strumenti operativi per la comprensione delle numerose e importanti novità introdotte nel diritto e nel mondo del lavoro dalla Legge 28 giugno 2012, n. 92.

La Riforma viene illustrata nei suoi risvolti di immediata applicabilità nell’attività quotidiana di professionisti e imprese.

La Riforma del Lavoro nasce dall’esperienza del Sole 24 Ore e dalla operatività del Sistema Frizzera 24 e fornisce soluzioni chiare e autorevoli.

Alla Riforma del mercato del lavoro si è accompagnata una profonda riforma del con-tenzioso giudiziario, che trova il suo punto più qualificante nell’istituzione di un nuovo procedimento, riservato alle controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licen-ziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro.Il volume riassume alla luce di questa riforma, che incide anche sui termini di decaden-za e di prescrizione dei diritti, l’intero sistema di regolamentazione delle controversie individuali di lavoro, sia nella fase giudiziale che in quella precontenziosa, incentrata sulle varie forme di conciliazione e arbitrato che tendono a ridurre il volume delle cause rimesse alla decisione della magistratura.

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LA RIFORMA DEL LAVORO

PROcEssO DEL LAVORO

10

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LA RIFORMA DEL LAVORO continua ONLINE

Il Sole 24 ORE riserva ai lettori di «La riforma del lavoro» l’opportunità di approfondire online i temi trattati in questo volume.

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I Manuali del Sole 24 ORE – Reg. Trib. di Milano n. 376 del 9-10-2012

Direttore responsabile: Roberto Napoletano

Il Sole 24 ORE S.p.A. – Via Monte Rosa, 91 – 20149 Milano

Settimanale - N. 10/2012

Volume 10 – Processo del lavoro

© Il Sole 24 ORE a cura dell’Area Tax&Legal

Direttore: Paolo Poggi

Redazione: Claudio Pagliara - Ermanno Salvini

Progetto grafico copertine: Marco Pennisi & C.

Tutti i diritti di copyright sono riservati. Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.

Finito di stampare nel mese di novembre 2012 presso:

Grafica Veneta – Via Malcanton, 2 – 35010 Trebaseleghe (PD)

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PROcEssO DEL LAVORO

INDIcE gENERALE

di Armando Montemarano e Emanuele Montemarano

pag. pag.

capitolo 1 - La competenza .................................11.1 I rapporti di lavoro subordinato .............1

1.1.1 Le controversie assoggettate al rito del lavoro ......11.1.2 Le controversie relative a

rapporti di lavoro subordinato .....11.1.3 Lavoro subordinato e lavoro autonomo .....................................2

1.2 I rapporti derivanti da contratti agrari ..31.2.1 La competenza delle sezioni specializzate agrarie.....................31.2.2 I rapporti di mezzadria ..................31.2.3 La colonia parziaria ......................41.2.4 La compartecipazione agraria ......41.2.5 L’affitto e altri contratti agrari .......4

1.3 I rapporti di agenzia ...............................41.3.1 La tipicità del contratto .................41.3.2 I rapporti assoggettati al processo del lavoro ...................51.3.3 La struttura societaria dell’agente ..5

1.4 I rapporti parasubordinati .....................61.4.1 Le collaborazioni coordinate

e continuative ..............................61.4.2 Le collaborazioni a progetto .........71.4.3 Le «mini co.co.co.» .......................81.4.4 Il lavoro accessorio .......................81.4.5 Le «partite Iva» ............................91.4.6 L’onere della prova .....................10

1.5 La competenza per le controversie di lavoro

subordinato ..........................................101.5.1 I fori speciali ...............................101.5.2 Il foro del contratto .....................111.5.3 Il foro dell’azienda ......................121.5.4 Il foro della dipendenza ..............131.5.5 I fori generali sussidiari ..............141.5.6 La nullità delle clausole derogative...................................141.5.7 I rapporti di lavoro non costituiti ...15

1.6 La competenza per le controversie di lavoro

parasubordinato ..................................171.6.1 Il foro esclusivo ..........................17

1.7 La competenza per le sanzioni amministrative .....................................171.7.1 L’emissione dell’ordinanza -ingiunzione ...............................171.7.2 L’opposizione all’ordinanza -ingiunzione ...............................18

1.8 L’incompetenza del giudice .................181.8.1 Il sistema di preclusioni ..............181.8.2 Il rilievo d’ufficio .........................191.8.3 L’eccezione del convenuto...........191.8.4 La riassunzione della causa ........201.8.5 L’incompetenza del giudice d’appello .....................................211.8.6 L’astensione e la ricusazione del giudice ..................................21

1.9 I passaggi di rito ..................................221.9.1 Dal rito ordinario al rito speciale ...221.9.2 Dal rito speciale al rito ordinario ...23

1.10 La costituzione e la difesa personale ..23

capitolo 2 - La conciliazione ..............................252.1 Le rinunzie e le transazioni .................25

2.1.1 L’invalidità in materia di diritti dei lavoratori .................252.1.2 Le transazioni .............................252.1.3 Le rinunzie .................................26

2.2 Il tentativo facoltativo di conciliazione ..272.2.1 La richiesta di conciliazione ........272.2.2 La memoria del convenuto .........272.2.3 L’esito del procedimento .............28

2.3 La conciliazione sindacale ...................282.3.1 La sede sindacale .......................282.3.2 Le formalità ................................29

2.4 L’arbitrato previsto dai contratti collettivi ................................................30

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IV

– segue – INDIcE gENERALEpag. pag.

2.5 La conciliazione giudiziale ...................302.5.1 Il tentativo di conciliazione ..........302.5.2 Gli effetti della conciliazione .......312.5.3 La proposta del giudice ...............32

2.6 Il processo verbale di conciliazione .....332.6.1 L’efficacia esecutiva della conciliazione giudiziale ...............332.6.2 L’efficacia esecutiva della conciliazione stragiudiziale .........33

2.7 La conciliazione monocratica ..............342.7.1 La conciliazione preventiva .........342.7.2 La conciliazione contestuale .......352.7.3 La diffida accertativa ..................35

2.8 Gli arbitrati ...........................................352.8.1 L’arbitrato in sede amministrativa ...........................352.8.2 L’arbitrato in sede sindacale .......362.8.3 L’arbitrato istituito dalle parti......372.8.4 L’arbitrato nelle sedi di certificazione ..........................38

capitolo 3 - La costituzione dell’attore .............393.1 Gli elementi del ricorso .......................393.2 L’oggetto della domanda .....................41

3.2.1 L’interpretazione del ricorso .......413.2.2 Le modificazioni della domanda ..423.2.3 L’ammissibilità della domanda ....433.2.4 La domanda di riassunzione della causa .................................46

3.3 L’esposizione dei fatti di causa ............473.3.1 La regola delle «carte in tavola» .473.3.2 La specificità dei fatti ..................47

3.4 L’esposizione degli elementi di diritto .......................473.5 L’indicazione dei mezzi di prova ..........48

3.5.1 La partizione dell’onere probatorio ...................................483.5.2 Le prove testimoniali ..................493.5.3 Le prove documentali .................50

3.6 Le conclusioni ......................................513.7 Gli altri elementi del ricorso ...............51

3.7.1 L’indicazione del giudice .............513.7.2 L’individuazione delle parti .........523.7.3 La procura alla lite .....................53

3.8 Il deposito del ricorso ..........................563.9 La fissazione dell’udienza....................563.10 La notifica del ricorso ..........................57

3.10.1 I termini .....................................573.10.2 La notifica alle persone giuridiche ...................................593.10.3 I vizi sanabili ..............................59

capitolo 4 - La costituzione del convenuto .......614.1 Il termine di costituzione .....................61

4.1.1 Il computo del termine ...............614.1.2 La costituzione tardiva ................61

4.2 L’onere di contestazione ......................624.2.1 Il regime sanzionatorio ...............624.2.2 La contestazione generica ..........634.2.3 La contestazione omessa............63

4.3 Le eccezioni processuali ......................634.4 Le eccezioni di merito ..........................64

4.4.1 L’eccezione di prescrizione .........644.4.2 L’eccezione di decadenza ............644.4.3 L’eccezione di giudicato ..............654.4.4 L’eccezione di compensazione ....65

4.5 L’indicazione dei mezzi di prova ..........664.6 Le domande riconvenzionali ................67

4.6.1 Il termine di proposizione ...........674.6.2 L’eccezione in riconvenzione .......674.6.3 La decadenza dalla riconvenzionale ..................694.7 Il deposito della memoria difensiva .....................................69

4.8 Gli effetti della contumacia .................72

capitolo 5 - L’intervento nel giudizio ................735.1 L’intervento volontario .........................73

5.1.1 I termini dell’intervento volontario ...................................735.1.2 I presupposti dell’intervento volontario ...................................74

5.2 L’intervento su istanza di parte ...........755.2.1 I presupposti dell’intervento su istanza di parte ......................755.2.2 La chiamata in causa ..................76

5.3 L’intervento per ordine del giudice ......775.4 Il litisconsorzio necessario ..................78

5.4.1 I presupposti del litisconsorzio necessario ............785.4.2 La posizione del litisconsorte necessario ..............79

capitolo 6 - La trattazione della causa .............816.1 L’interrogatorio libero ..........................816.2 L’interrogatorio formale ......................81

6.2.1 La confessione ............................816.2.2 L’ammissione dell’interrogatorio formale .........826.2.3 La risposta all’interrogatorio formale ...........82

6.3 La comparizione personale .................836.4 La rappresentanza della parte ............83

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V

– segue – INDIcE gENERALEpag. pag.

6.5 I poteri istruttori del giudice .......846.5.1 Il sistema inquisitorio misto........846.5.2 Gli atti istruttori officiosi .............85

6.6 L’assunzione delle prove testimoniali .856.6.1 L’ammissione dei mezzi di prova .856.6.2 L’intimazione ai testimoni ...........866.6.3 La deposizione ............................88

6.7 L’accesso sul luogo di lavoro ...............906.8 La consulenza tecnica .........................90

6.9 Le informazioni e osservazioni sindacali ..............91

capitolo 7 - I provvedimenti anticipatori ..........957.1 L’ordinanza di pagamento di

somme non contestate ........................957.2 L’ordinanza di pagamento a titolo

provvisorio ...........................................957.3 L’ordinanza di ingiunzione di pagamento .......................................96

capitolo 8 - La sentenza ....................................998.1 La discussione della causa ..................99

8.1.1 Le istanze preliminari e istruttorie ................................998.1.2 La forma della discussione .........99

8.2 Le note difensive ................................1008.3 Il dispositivo .......................................100

8.3.1 La classificazione delle sentenze ..........................1008.3.2 La lettura del dispositivo ..........1018.3.3 L’autonomia del dispositivo .......102

8.4 La motivazione ...................................1048.4.1 Il contenuto della motivazione ..1048.4.2 I rapporti tra dispositivo e motivazione ...........................1048.4.3 La condanna alle spese ............105

8.5 L’esecutorietà della sentenza ............1058.6 Gli interessi e la rivalutazione

monetaria...........................................1068.6.1 Il danno da svalutazione ...........1068.6.2 Il cumulo tra rivalutazione e interessi .................................107

8.7 La valutazione equitativa delle prestazioni ................................108

capitolo 9 - Le impugnazioni ...........................1099.1 L’appello .............................................109

9.1.1 I termini per appellare ..............1099.1.2 L’appello con riserva dei motivi ..1119.1.3 Le sentenze parziali e di condanna generica .............111

9.1.4 Il contenuto del ricorso .............1129.1.5 Il divieto di nuove domande ed eccezioni ..............................1139.1.6 Il divieto di nuove prove ............1149.1.7 I poteri d’ufficio .........................1159.1.8 La produzione documentale ......1159.1.9 L’ammissibilità del giuramento .1179.1.10 L’instaurazione del giudizio .......1189.1.11 La mancata comparizione dell’appellante ..........................1199.1.12 I termini processuali .................1209.1.13 La sentenza d’appello ..............1219.1.14 L’inammissibilità dell’appello ...1229.1.15 L’immutabilità del collegio ......123

9.2 La sospensione dell’esecuzione ........1239.2.1 Il «gravissimo danno» ...............1239.2.2 La funzione dell’inibitoria .........1249.2.3 L’autonomia dell’inibitoria .........1259.2.4 L’indispensabile inizio dell’esecuzione .........................125

9.3 L’appello incidentale ..........................1269.3.1 La funzione dell’appello incidentale ................................1269.3.2 La riunione delle impugnazioni .1279.3.3 La notifica dell’appello incidentale ................................1279.3.4 Le difese dell’appellato incidentale ................................128

9.4 Il ricorso per cassazione ...................1299.4.1 La Sezione Lavoro della Cassazione .......................1299.4.2 Il contenuto del ricorso per cassazione ..........................1319.4.3 I motivi di ricorso ......................1319.4.4 L’interpretazione dei contratti collettivi ................1329.4.5 Il ricorso e il controricorso........1339.4.6 L’inammissibilità del ricorso .....1349.4.7 La sospensione dell’esecuzione 1349.4.8 L’udienza di discussione ...........1359.4.9 La sentenza ..............................1359.4.10 La revocazione e

l’opposizione di terzo ...............1369.4.11 L’enunciazione del principio

di diritto ...................................1379.4.12 La riassunzione della causa .....1379.4.13 La pronuncia in camera di consiglio ...............................1389.4.14 La pronuncia a sezioni unite ....139

9.5 Il regolamento di competenza ...........1409.5.1 Il regolamento necessario e facoltativo ..............................140

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VI

– segue – INDIcE gENERALEpag. pag.

9.5.2 Il procedimento del regolamento .......................1409.5.3 L’ordinanza di regolamento .......1419.5.4 La riassunzione della causa ......141

9.6 Il regolamento di giurisdizione ..........1429.6.1 La decisione delle questioni di giurisdizione .........................1429.6.2 Il ricorso per regolamento ........1439.6.3 La sorte del processo di merito 1439.6.4 I conflitti di giurisdizione ...........144

9.7 La revocazione ...................................1459.7.1 La revocazione

delle sentenze inappellabili .....1459.7.2 La proposizione della domanda 1469.7.3 La sentenza di revocazione .......146

9.8 L’opposizione di terzo ........................1479.8.1 L’opposizione ordinaria .............1479.8.2 L’opposizione revocatoria ..........1479.8.3 La domanda di opposizione .......1479.8.4 La sentenza ..............................149

capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale ...........................151

10.1 Il triplice oggetto della tutela .........................................151

10.2 La legittimazione ...............................15210.2.1 La legittimazione attiva ............15210.2.2 La legittimazione passiva .........153

10.3 La condotta datoriale .........................155

10.3.1 L’elemento soggettivo della condotta ...........................15510.3.2 L’idoneità causale della condotta ...........................15510.3.3 L’attualità degli effetti della condotta ...........................156

10.4 La condanna in futuro ........................15610.5 La normativa processuale .................157

10.5.1 Il procedimento speciale ..........15710.5.2 L’azione ordinaria .....................15710.5.3 Il ricorso introduttivo ...............15810.5.4 L’azione individuale ..................15910.5.5 Il provvedimento .......................160

10.6 Le sanzioni penali ..............................160

capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento .16311.1 L’ambito di applicazione ....................16311.2 L’introduzione al procedimento ...........16411.3 La fase sommaria deformalizzata .....167

11.3.1 La calendarizzazione delle udienze ....................................167

11.3.2 La costituzione del resistente ..16711.3.3 L’ordinanza ..............................168

11.4 Il giudizio di opposizione ....................16911.4.1 Il ricorso in opposizione ...........16911.4.2 La costituzione dell’opposto......16911.4.3 La sentenza .............................169

11.5 Il reclamo ...........................................17012.6 Il giudizio di legittimità ......................170

Armando Montemarano, presidente dell’Associazione italiana di Diritto Sociale, è senior part-ner dello Studio Montemarano, avvocati e commercialisti in Roma, Milano e Bologna. Autore di diversi volumi editi da Il Sole 24 Ore, unisce alla professione forense la docenza in istituzioni postuniversitarie.

Emanuele Montemarano, socio dello Studio Montemarano, avvocati e commercialisti in Roma, Milano e Bologna. Presidente dell’Organismo di Vigilanza di Accredia, l’Ente italiano di accredi-tamento, unisce alla professione forense la docenza in istituzioni postuniversitarie.

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Processo del lavoro

Capitolo 1

LA cOMPETENZA

1.1 I rapporti di lavoro subordinato

L’art. 409 del Codice di procedura civile individua l’ambito di efficacia del processo del lavo-ro, assoggettando alle disposizioni del Capo I del Titolo IV determinate controversie.

1.1.1 Le controversie assoggettate al rito del lavoro

Sono, anzitutto, quelle relative ai rapporti di lavoro subordinato privato, anche se non inerenti all’esercizio di un’impresa, e inoltre:– rapporti di mezzadria;– rapporti di colonia parziaria;– rapporti di compartecipazione agraria;– rapporti di affitto a coltivatore diretto;– rapporti derivanti da altri contratti agrari, salva la competenza delle sezioni specializzate

agrarie;– rapporti di agenzia;– rapporti di rappresentanza commerciale;– altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e

coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato («co.co.co.» e «co.co.pro.»);

– rapporti di lavoro dei dipendenti di enti pubblici ed altri rapporti di lavoro pubblico non de-voluti alla giurisdizione del giudice amministrativo.

1.1.2 Le controversie relative a rapporti di lavoro subordinato

L’espressione comprende ogni controversia nella quale la pretesa fatta valere in giudizio non sia ricollegabile ad un rapporto di lavoro autonomo; non importa se un tal rapporto sia in corso oppure sia estinto o sia, invece, da costituire, né se la pretesa fatta valere si traduca in una domanda di accertamento, di condanna ovvero costitutiva.

La relazione non attiene soltanto alle obbligazioni caratteristiche del rapporto di lavoro subordinato, sicché ricadono nella sfera di efficacia oggettiva della norma procedurale tutte le controversie in cui la pretesa fatta valere in giudizio si ricolleghi direttamente ad un siffatto rapporto; ogni qual volta cioè esso, pur non costituendo la «causa» della pretesa, si configuri come antecedente e presupposto necessario della situazione di fatto in ordine alla quale è ri-chiesta la tutela giurisdizionale (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).

In altri termini, costituisce controversia individuale di lavoro non solo quella in cui si discute dell’esistenza, del modo d’essere e degli effetti di un rapporto di lavoro subordinato, ma anche quella in cui i diritti dei quali si chiede la tutela giudiziale siano sorti in diretta dipendenza del rap-

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2 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

porto, che non si presenta perciò come mera «occasione», vale a dire come semplice circostanza esterna che ne ha favorito l’insorgere, bensì ne costituisce la base ineliminabile e caratterizzante.

La domanda proposta dal lavoratore contro il datore di lavoro volta a conseguire il risarci-mento del danno sofferto per la mancata adozione, da parte dello stesso datore, delle misure per la tutela della salute psicofisica previste dall’art. 2087 cod. civ., o dalle norme speciali in materia, non ha natura previdenziale, perché non si fonda sul rapporto assicurativo configura-to dalla normativa in materia, ma si ricollega direttamente al rapporto di lavoro, dando luogo ad una controversia di lavoro (Cass. 1° luglio 2011, n. 14507).

1.1.3 Lavoro subordinato e lavoro autonomo

È indispensabile distinguere il lavoro subordinato dall’altro tipo di lavoro, vale a dire dal lavoro autonomo. Questo si differenzia da quello proprio per l’assenza dell’elemento della subordinazione, che consiste nel vincolo di natura personale che assoggetta il prestatore di lavoro al potere direttivo del datore di lavoro, con necessaria limitazione della libertà del pri-mo, funzionale all’assolvimento della sua obbligazione principale di porre a disposizione del secondo le proprie energie lavorative. L’art. 2094 cod. civ. definisce prestatore di lavoro su-bordinato colui che si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.

Per la qualificazione del rapporto di lavoro come autonomo o subordinato occorre accerta-re il suo effettivo contenuto, quale emerge dalle modalità di espletamento delle mansioni che costituiscono l’oggetto della prestazione lavorativa, più che alla denominazione attribuitagli dalle parti, anche se la stessa può concorrere, valutata insieme a tutti gli altri elementi di fat-to, all’individuazione della reale volontà dei contraenti.

GLI INDICI DI SUBORDINAZIONE

l’assenza di rischio economico per il prestatore di lavorola natura dell’oggetto della prestazioneil tipo di collaborazionel’inserimento dell’opera del lavoratore nell’organizzazione datorialela continuità della prestazionel’onerosità del contrattola forma, la periodicità, la determinazione e l’ammontare della retribuzionel’osservanza di un orario di lavorol’inerenza delle direttive datoriali allo svolgimento del lavorol’obbligo di giustificare le assenze ed i ritardila pregnanza del controllo datoriale sulle modalità di esecuzione della prestazione lavorativala sottoposizione al potere disciplinare del datore di lavoro

Gli «indici di subordinazione», se in buona parte concorrenti, assumono la consistenza di indici di subordinazione, anche se mantengono pur sempre una valenza soltanto sussidiaria nell’individuazione del lavoro subordinato, in quanto resta prevalente l’assoggettamento perso-nalistico del lavoratore al potere direttivo del datore di lavoro. In altri termini: mentre l’obbliga-zione del lavoratore autonomo è di risultato, identificandosi con l’opera che gli viene richiesta, quella del lavoratore subordinato si identifica con la messa a disposizione da parte del dipenden-te delle proprie energie lavorative in favore del datore di lavoro. Sicché le attività umane econo-micamente rilevanti possono essere tutte oggetto sia di rapporti di lavoro subordinato che di rapporti di lavoro autonomo, a seconda delle modalità concrete del loro svolgimento.

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

3

È evidente che il requisito della subordinazione può assumere aspetti diversi in relazione alla natura delle mansioni ed alle condizioni in cui queste vengono svolte; tali condizioni, pertanto, devono essere assunte come dato di riferimento nel giudizio di accertamento della natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro, in quanto è in relazione ad esse che il vincolo che assoggetta il lavoratore sarà più o meno intenso. Il potere direttivo, che si esplica generalmente con ordini specifici e non con semplici direttive di carattere generale (Cass. 7 ottobre 2004, n. 20002), sussiste quando l’attività oggetto del contratto non è disciplinata in base ad elementi predeterminati dalla volontà negoziale e paritaria delle parti nella fase for-mativa del contratto, bensì in base alle disposizioni che il datore di lavoro (che fa proprio il ri-schio derivante dall’esercizio dell’attività lavorativa e dall’incertezza del suo risultato econo-mico) impartisce per determinare le modalità - di tempo, di luogo ed esecutive - della prestazione delle energie lavorative, in modo da utilizzarle nella maniera che reputa più utile in relazione alle sue, anche mutevoli, esigenze.

1.2 I rapporti derivanti da contratti agrari

1.2.1 La competenza delle sezioni specializzate agrarie

I contratti agrari tipici sono definiti dal Titolo II, Capo II del Libro V del codice civile; l’art. 409 cod. proc. civ. fa salva, per le cause relative ai rapporti che sorgono da essi, la competenza delle sezioni specializzate agrarie.

Inizialmente venivano devolute alle sezioni specializzate le controversie in cui fosse dedot-ta l’esistenza di un contratto agrario di affitto a coltivatore diretto, mezzadria, colonia parziaria e compartecipazione, in relazione al quale fosse invocata la proroga legale, nonché quelle concernenti la risoluzione di tali contratti; erano attribuite alla competenza del giudice del lavoro le controversie aventi ad oggetto il pagamento della quota di prodotto spettante al col-tivatore nonché dell’indennità per i miglioramenti apportati al fondo. L’art. 9 della legge 14 febbraio 1990, n. 29, ha ricondotto, però, tutte le controversie in materia di contratti agrari, sia sotto il profilo della genesi che del funzionamento ovvero della loro cessazione, alla compe-tenza esclusiva delle sezioni specializzate agrarie, con la conseguenza che è venuta meno al riguardo la competenza del giudice del lavoro. L’art. 11 D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150, in tema di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, assoggetta al rito del lavoro, ferma la competenza delle sezioni agrarie, le controversie in materia di contratti agra-ri o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto.

1.2.2 I rapporti di mezzadria

L’art. 3 della legge 15 settembre 1964, n. 756, impone il divieto di nuovi contratti di mezza-dria, nella quale il concedente ed il mezzadro, in proprio e quale capo di una famiglia colonica, si associano per la coltivazione di un podere e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne a metà i prodotti e gli utili (era valido, tuttavia, il patto con il quale taluni prodotti si dividevano in proporzioni diverse). L’art. 25 della legge 3 maggio 1982, n. 203, stabilì, inoltre, la conversione in affitto dei contratti di mezzadria (e di colonia parziaria, compartecipazione e soccida) a seguito di mera comunicazione formale della decisione da parte di chi intendeva ottenere la conversione alla controparte: tale disposizione è stata poi integrata da quelle ap-plicative (e parzialmente derogative) introdotte dalla legge 14 febbraio 1990, n. 29. Oggetto del

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4 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

contratto di mezzadria è un fondo «appoderato», cioè un terreno fornito di casa colonica, do-tato di quanto necessario per l’esercizio dell’impresa agricola e con estensione sufficiente ad assicurare il mantenimento della famiglia colonica e ad assorbirne le energie lavorative.

1.2.3 La colonia parziaria

L’art. 2164 cod. civ. definisce la colonìa parziaria il contratto con il quale il concedente ed uno o più coloni si associano per la coltivazione di un fondo e per l’esercizio delle attività connesse, al fine di dividerne i prodotti e gli utili. Concedente e colono sono legati da un vinco-lo associativo, e non da un rapporto di subordinazione e di dipendenza; per distinguere tale rapporto associativo dall’affitto occorre avere riguardo al rischio dell’impresa, che non può ridursi alle oscillazioni subite dalla produzione del fondo, poiché questo rischio può ricorrere anche nell’ipotesi di affitto con canone costituito da una quota dei prodotti, ma va invece rife-rito al lato passivo della gestione, all’incidenza di tutte le spese e delle perdite e, quindi, alla responsabilità della gestione stessa.

1.2.4 La compartecipazione agraria

Il rapporto può assumere varie forme, anche al di fuori di quelle tipiche, e ricorre quando una parte sia titolare della proprietà o di altro diritto reale di godimento sul fondo e l’altra parte riceva dalla prima la concessione della coltivazione del fondo stesso, con diritto ad una quota dei prodotti o degli utili e con assunzione in parte dei rischi.

1.2.5 L’affitto e altri contratti agrari

Il processo riformatore iniziato con la promulgazione della legge 3 maggio 1982, n. 203, è approdato, con la legge 14 febbraio 1990, n. 29, alla riconduzione dei vari tipi di contratti agrari associativi nell’alveo dell’affitto. In quest’ottica uniformatrice va letta la disposizione dettata dall’art. 9 legge n. 29/1990, confermata dal D.Lgs. n. 150/2011, secondo cui tutte le controversie in materia di contratti agrari o conseguenti alla conversione dei contratti associativi in affitto sono di competenza delle sezioni specializzate agrarie di cui alla legge 2 marzo 1963, n. 320, e assoggettate al rito di cui agli artt. 409 e seguenti cod. proc. civ., fatte salve le competenze pre-viste dalla legge 22 luglio 1966, n. 607, in materia di enfiteusi e di prestazioni fondiarie perpetue.

1.3 I rapporti di agenzia

1.3.1 La tipicità del contratto

Il rapporto di agenzia è un rapporto di lavoro autonomo, nascente da un contratto tipico disciplinato dagli artt. 1742-1753 cod. civ., che ha per oggetto la prestazione di un’attività professionale dell’agente, diretta a promuovere, dietro un corrispettivo denominato provvi-gione, la conclusione di contratti per conto del preponente in una determinata zona e, in genere, in regime di esclusiva.

Il tratto caratteristico del contratto di agenzia è costituito dall’autonomia nell’esercizio pro-fessionale rispetto all’attività del preponente e dall’assunzione del rischio economico inerente alla propria attività da parte dell’agente, che non viene meno per l’obbligo di riferire al prepo-

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

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nente, che deriva dall’art. 1746 cod. civ., o per la previsione di ulteriori obbligazioni accessorie dell’agente. L’opera dell’agente si svolge, infatti, attraverso un’attività organizzata ed indipen-dente, che è ravvisabile peraltro anche nel semplice coordinamento amministrativo con l’atti-vità del preponente e nell’impiego di mezzi, pure elementari, che consentano l’espletamento dell’incarico.

1.3.2 I rapporti assoggettati al processo del lavoro

L’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. impone l’osservanza delle disposizioni sul processo del lavoro non per tutti i rapporti di agenzia, ma solo per quelli che si concretano in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale: difetta la competenza del giudice del lavoro quando i rapporti di agenzia siano impiantati su base imprenditoriale, tale da far prevalere la figura dell’agente quale organizzatore d’impresa e datore di lavoro, anziché come prestatore d’opera personale nei confronti del preponente. In altri termini, esulano dal-la previsione della norma di rito quei rapporti nei quali assumono prevalenza, rispetto all’atti-vità personale dell’agente o del rappresentante, le prestazioni lavorative dei loro collaboratori, ovvero l’entità del capitale investito o, comunque la complessità dell’organizzazione aziendale.

La personalità della prestazione non è aprioristicamente esclusa né dall’uso di una ditta da parte dell’agente né dall’utilizzazione da parte di costui di collaboratori, anche se, nella secon-da ipotesi, occorre valutare l’apporto dei terzi, che devono limitarsi a svolgere un’attività del tutto strumentale e, in ogni caso, secondaria rispetto a quella dell’agente titolare del rapporto.

La distinzione, che rileva ai fini processuali, tra rapporto di agenzia che si risolva in una prestazione d’opera prevalentemente personale e rapporto di agenzia con prestazione esegui-ta dall’agente avvalendosi di un’organizzazione imprenditoriale assume rilievo esclusivamen-te ai fini processuali, in quanto le controversie relative al primo tipo di agenzia vengono assog-gettate alle regole del rito del lavoro, mentre le altre sono disciplinate dalle regole processuali ordinarie. Tale distinzione non incide però in alcun modo sulla natura giuridica del contratto intercorso fra le parti, al quale si applica in entrambi i casi la disciplina propria del rapporto di agenzia.

Anche le controversie promosse dal preponente sono assoggettate al rito del lavoro se il rapporto di agenzia riveste il carattere della personalità (non disgiunto dalla continuità), tran-ne che non riguardino la responsabilità extracontrattuale dell’agente (come, ad esempio, nell’ipotesi di atti di concorrenza sleale compiuti dopo la cessazione del rapporto e non ricol-legati alla violazione di un’obbligazione assunta con la stipula del contratto di agenzia).

1.3.3 La struttura societaria dell’agente

Non manca giurisprudenza che ritiene che la presenza di una struttura societaria di tipo perso-nale non osti, di per sé, alla qualificabilità delle prestazioni rese a favore di terzi quali “prevalente-mente personali”, poiché il profilo societario potrebbe, in concreto, limitarsi ad un semplice patto fra i soci di distribuzione del lavoro e dei ricavi, con attenuazione dell’elemento dell’esercizio in comune di un’attività economica e dell’organizzazione al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi. Secondo tale orientamento, pertanto, per stabilire se sussista o meno la competenza del giudice del lavoro occorrerebbe accertare, in concreto, se assuma prevalente importanza una presta-zione personale d’opera svolta in modo continuativo e coordinato nell’ambito di una maggiore e as-sorbente organizzazione (ancorché con più ampia autonomia rispetto al lavoratore subordinato), ov-vero se nel caso specifico effettivamente la forma societaria assuma caratteri tali da far escludere quello stato di dipendenza socio-economica che costituisce l’essenza della parasubordinazione e di cui l’attività prevalentemente personale è l’indice rivelatore tipico (Cass. 15 aprile 1997, n. 3208).

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Processo del lavoro

La giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, esclude che un agente in forma di società, anche se la società fosse di persone e non di capitali, possa adempiere l’incarico affidato con una prestazione d’opera prevalentemente personale, atteso che essa costituisce comunque un autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici; così pure l’attività di agente svolta, in ipotesi, da uno solo dei suoi soci verrebbe mediata dalla società e perderebbe, quindi, il carattere della personalità nei confronti del preponente (Cass. 14 luglio 2011, n. 15535, ord.; Cass. 22 marzo 2006, n. 6351; Cass. 25 novembre 2003, n. 18023; Cass. 13 luglio 2001, n. 9547; Cass. 1° dicembre 2000, n. 15341).

La natura della controversia di lavoro è idonea ad influire solo sul rito applicabile e non sulla competenza. Ne consegue che, ove il giudice di merito abbia valutato, in ordine all’attivi-tà svolta da un agente di commercio, la prevalenza dell’apporto personale rispetto all’esisten-za di una struttura imprenditoriale, riconducendo la controversia nell’ambito dell’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., è inammissibile il motivo di ricorso con cui si eccepisca l’incompetenza per materia del giudice adito, traducendosi nella richiesta di una diversa valutazione in fatto con-trapposta a quella operata nella sentenza impugnata (Cass. 5 gennaio 2011, n. 189).

1.4 I rapporti parasubordinati

1.4.1 Le collaborazioni coordinate e continuative

L’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. assoggetta alla competenza per materia del giudice del lavo-ro tutti i rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, non a carattere subordinato.

Le collaborazioni coordinate e continuative, distinte da tre caratteri:– continuità: prestazione non occasionale ma perdurante nel tempo e comportante un –

impegno costante a favore del committente;– coordinazione: connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organiz-

zazione aziendale;– personalità: prevalenza del lavoro personale del preposto sull’opera svolta dai collabora-

tori e sull’utilizzazione di una struttura materiale.Questi caratteri sono rinvenibili in qualsiasi attività finalizzata al raggiungimento degli sco-

pi individuati dal datore di lavoro, come lascia intendere il generico sostantivo «collaborazio-ne», usato dal codificatore per definire il risultato delle prestazioni oggetto del contratto.

Devono, quindi, necessariamente rinvenirsi nelle modalità di svolgimento del rapporto al-cuni indici di autonomia, quali, ad esempio, l’assenza di un orario prestabilito da parte del datore di lavoro, un compenso determinato in relazione alla professionalità ed alle singole prestazioni, l’assenza di vincoli e di sanzioni disciplinari, la libera scelta delle modalità tec-niche di esecuzione della prestazione, la volontà dei contraenti diretta ad escludere la subor-dinazione, l’esclusione dell’impiego di mezzi organizzati. Tali indici, tuttavia, devono essere vagliati contemperandoli con l’elemento della coordinazione, che si traduce necessariamente nella possibilità di ingerenza del committente nell’attività del prestatore, definita nei suoi limi-ti dall’esigenza della combinazione spaziale, temporale e funzionale della prestazione con altri fattori od apporti occorrenti per il perseguimento del fine produttivo.

L’art. 50, co. 1, lett. c-bis), D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico delle imposte sui redditi), contiene un’elencazione di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa che, seppure attinente ai rapporti tributari, costituisce un utile orientamento nell’individuazione delle specifiche figure ricomprese dalla locuzione; si tratta di:

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Capitolo 1 - La competenza

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– amministratori, sindaci o revisori di società, associazioni ed altri enti, con o senza perso-nalità giuridica;

– collaboratori di giornali, riviste, enciclopedie e simili;– membri di collegi e commissioni;– prestatori di attività svolte senza vincolo di subordinazione a favore di un determinato sog-

getto nel quadro di un rapporto unitario e continuativo, senza impiego di mezzi organizzati e con retribuzione periodica prestabilita, sempreché gli uffici o le collaborazioni non rien-trino nei compiti istituzionali compresi nell’attività di lavoro dipendente. Nell’ottica lavori-stica la giurisprudenza (Cass. 19 aprile 2002, n. 5698) ritiene, tuttavia, che non sia neces-sario che la prestazione consti di un’attività diversa da quella abitualmente esercitata dal prestatore.L’elencazione non è certamente esaustiva, essendo in teoria illimitata la gamma di figure ricon-

ducibili, se prestate con le suindicate modalità, nell’alveo della parasubordinazione; le esemplifica-zioni ricorrenti riguardano gli associati in partecipazione, i collaboratori nell’impresa familiare, i pre-statori di assistenza e consulenza legale, commerciale, fiscale, tecnica e, in genere, professionale.

Le controversie inerenti ad un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sono però soggette al rito del lavoro soltanto qualora l’attività del collaboratore sia caratterizza-ta da prestazioni di natura prevalentemente personale; tale requisito manca, con conse-guente insussistenza della competenza del giudice del lavoro, nel caso in cui la controversia riguardi un rapporto di collaborazione nel quale l’attività del collaboratore sia esercitata da una società, anche se di persone o irregolare o di fatto, poiché, in tal caso, l’attività stessa non è riferibile a persone fisiche e quindi non riveste, così come richiesto dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ., carattere prevalentemente personale (Cass. 28 dicembre 2006, n. 27576, ord.; in senso contrario: Cass. 3 giugno 1997, n. 4928).

1.4.2 Le collaborazioni a progetto

Il D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, ha profondamente innovato la materia delle collabora-zioni coordinate e continuative: l’art. 61 ne impone, infatti, la riconducibilità ad uno o più pro-getti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore.

Il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente, avuto riguardo al coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impie-gato per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Non può, inoltre, comportare lo svolgimento di com-piti meramente esecutivi o ripetitivi (che possono essere individuati dai contratti collettivi stipu-lati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

Il successivo art. 69 dispone che, se viene accertato che il rapporto instaurato configuri o sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si converte in quest’ultimo tipo. Salvo prova contraria a carico del committente, poi, i rapporti di collaborazione coordina-ta e continuativa, anche a progetto, sono considerati rapporti di lavoro subordinato sin dalla data di costituzione:– se instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto;– nel caso in cui l’attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta

dai lavoratori dipendenti del committente (fatte salve le prestazioni di elevata professiona-lità che possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sin-dacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale).

Sono esclusi dalla normativa vincolistica:– i rapporti di agenzia e rappresentanza commerciale;

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Processo del lavoro

– le attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center «outbound» (per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento);

– i pensionati di vecchiaia;– le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione in appositi

albi;– i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società;– i partecipanti a collegi e commissioni;– le «mini co.co.co.»;– le prestazioni di collaborazione coordinata e continuativa comunque rese e utilizzate a fini

istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle fede-razioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione spor-tiva riconosciute dal Coni.Il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quan-

tità e alla qualità del lavoro eseguito e, in relazione a ciò nonché alla particolare natura della prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività, eventualmente articolati per i relativi profili professio-nali tipici e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresen-tative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai li-velli decentrati. In assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribu-zioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di rife-rimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto.

1.4.3 Le «mini co.co.co.»

Si definiscono minicollaborazioni o «mini co.co.co.» i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa cui fa riferimento l’art. 61, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003 per escluderli dal vin-colo della necessaria riconducibilità ad uno o più progetti di lavoro o fasi di esso: sono presta-zioni occasionali, contraddistinte tuttavia dai caratteri della continuità e del coordinamento, di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare con ogni singolo committente (ovvero, nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore con ogni singolo committente), salvo che il compenso complessivamente percepito nell’anno per lo svolgimento di siffatte prestazioni sia superiore a euro 5.000.

Si tratta, dunque, di prestazioni lavorative di natura autonoma, realizzate a favore di un sog-getto senza il vincolo della subordinazione e con il carattere dell’occasionalità. Non è richiesta l’iscrizione in un albo professionale né l’apertura di una partita Iva, in quanto il corrispettivo versato dal datore di lavoro è soggetto ad una ritenuta d’acconto pari al 20% dell’importo.

1.4.4 Il lavoro accessorio

Rientrano nella competenza del giudice del lavoro anche le prestazioni di lavoro accesso-rio, definite dall’art. 70, D.Lgs. n. 276/2003 come attività lavorative di natura meramente oc-casionale attività lavorative di natura meramente occasionale che non danno luogo, con ri-ferimento alla totalità dei committenti, a compensi superiori a 5.000 euro nel corso di un

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Capitolo 1 - La competenza

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anno solare, annualmente rivalutati sulla base della variazione dell’indice Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati intercorsa nell’anno precedente.

Fermo restando il limite complessivo di 5.000 euro nel corso di un anno solare, nei confron-ti dei committenti imprenditori commerciali o professionisti, le attività lavorative possono es-sere svolte a favore di ciascun singolo committente per compensi non superiori a 2.000 euro, rivalutati annualmente.

Queste disposizioni si applicano in agricoltura:– alle attività lavorative di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carat-

tere stagionale effettuate da pensionati e da giovani con meno di 25 anni di età se regolar-mente iscritti a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici, ovvero in qualunque periodo dell’anno se rego-larmente iscritti a un ciclo di studi presso l’Università;

– alle attività agricole svolte a favore dei piccoli produttori agricoli (art. 34, comma 6, D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), che non possono tuttavia essere svolte da soggetti iscritti l’anno precedente negli elenchi anagrafici dei lavoratori agricoli.Per ricorrere a prestazioni di lavoro accessorio, i beneficiari devono acquistano presso le

rivendite autorizzate uno o più carnet di buoni orari. Il prestatore di lavoro percepisce il proprio compenso, che è esente da qualsiasi imposizione fiscale e non incide sullo stato di disoccupa-to o inoccupato, presso il concessionario, all’atto della restituzione dei buoni ricevuti dal bene-ficiario della prestazione di lavoro accessorio.

1.4.5 Le «partite Iva»

Le prestazioni lavorative rese da persona titolare di posizione fiscale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto sono considerate ai sensi dell’art. 69-bis D.Lgs. n. 276/2003, salvo che sia fornita prova contraria da parte del committente, rapporti di collaborazione coordinata e con-tinuativa, qualora ricorrano almeno due dei seguenti presupposti: 1) che la collaborazione con il medesimo committente abbia una durata complessiva superio-

re a otto mesi annui per due anni consecutivi;2) che il corrispettivo derivante da tale collaborazione, anche se fatturato a più soggetti ricondu-

cibili al medesimo centro d’imputazione di interessi, costituisca più dell’80% dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nell’arco di due anni solari consecutivi;

3) che il collaboratore disponga di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente.La presunzione non opera qualora la prestazione lavorativa:

– sia connotata da competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti espe-rienze maturate nell’esercizio concreto di attività;

– sia svolta da soggetto titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile ai fini del versamento dei contributi previdenziali;

– sia svolta nell’esercizio di attività professionali per le quali l’ordinamento richiede l’iscri-zione ad un ordine professionale, ovvero ad appositi registri, albi, ruoli o elenchi professio-nali qualificati e dètta specifici requisiti e condizioni (alla ricognizione di tali si deve provve-dere con decreto ministeriale).La presunzione determina l’integrale applicazione della disciplina in materia di collabora-

zioni coordinate e continuative, compresa la riconducibilità, ricorrendone i presupposti, al la-voro subordinato.

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10 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

1.4.6 L’onere della prova

Il convenuto che intenda contestare la competenza per materia del giudice del lavoro, in relazione a rapporti per i quali la prevalenza dell’attività continuativa e personale costituisce l’ipotesi normale e più rispondente alla figura contrattuale adottata, ha l’onere di fornire la prova della prevalenza, sull’apporto personale del ricorrente titolare del rapporto, del capi-tale investito o dell’attività di collaboratori.

Chi deduce in giudizio diritti relativi a prestazioni eseguite nell’ambito di un rapporto di parasubordinazione non può, però, limitarsi a provare l’esistenza di questo, ma deve dimostra-re le singole prestazioni che del diritto al corrispettivo rappresentano i fatti costitutivi, senza che tuttavia sia indispensabile qualificare esattamente il rapporto giuridico, essendo sufficien-te accertare l’espletamento di una serie di incarichi riconducibili allo schema generale del lavoro autonomo, ancorché rientranti in una pluralità di figure contrattuali tipiche, le cui mo-dalità di esplicazione possono essere caratterizzate dall’impiego prevalente di attività perso-nale non subordinata, ricadente nell’ambito di una collaborazione coordinata e continuativa.

FORME DI LAVORO

Subordinato Il datore è assoggettato al potere direttivo del datore di la-voro in forza di un vincolo di tipo personale, con necessaria limitazione della sua libertà personale, funzionale all’assol-vimento dell’obbligo di porre a disposizione del datore di la-voro le proprie energie psico-fisiche

Le controversie sono assogget-tate al rito spe-ciale del lavoro

Autonomo Il lavoratore non è tenuto a porre le proprie energie a dispo-sizione del datore di lavoro, ma assume su di sé un’obbliga-zione di risultato ed è libero di determinare le modalità di compimento dell’opera

Le controversie sono assogget-tate al rito civi-le ordinario

Parasubordinato Il lavoratore, pur non essendo assoggettato al vincolo della subordinazione, esegue la prestazione lavorativa con le ca-ratteristiche della personalità, della continuità e della fun-zionalità rispetto all’attività del datore di lavoro

Le controversie sono assogget-tate al rito spe-ciale del lavoro

1.5 La competenza per le controversie di lavoro subordinato

Le controversie individuali di lavoro sono di competenza, in primo grado, del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

1.5.1 I fori speciali

L’art. 413, 2° comma, cod. proc. civ., individua fori speciali, che sono anche fori alternativi, attribuendo la competenza per territorio al giudice nella cui circoscrizione:– è sorto il rapporto;– si trova l’azienda;– si trova una dipendenza dell’azienda alla quale è addetto il lavoratore;– si trova una dipendenza dell’azienda presso la quale il lavoratore prestava la sua opera al

momento della fine del rapporto.

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

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Il ricorrente è libero di scegliere tra i vari fori, dovendo soltanto dimostrare la sussisten-za degli elementi della fattispecie legale di quello prescelto. È restata minoritaria, e può ri-tenersi superata, quella giurisprudenza (Cass. 27 maggio 1997, n. 4683; Cass. 25 marzo 1996, n. 2618) che pretendeva che la norma prevedesse soltanto due fori speciali ed esclusivi, tra loro alternativamente concorrenti. Tali due fori sarebbero rappresentati: a) nell’ipotesi di con-troversia riguardante lavoratore addetto alla sede principale alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto: dal foro del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro e dal foro del luogo in cui si trova l’azienda; b) nell’ipotesi di controversia riguardante lavoratore addetto a dipendenza aziendale alla data di introduzione della lite o a quella di cessazione del rapporto: dal foro del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro e dal foro del luogo in cui in cui si trova la dipendenza. I fautori di siffatta interpretazione negavano, in sostanza, che la parte istante fosse libera di scegliere tra il foro dell’azienda e quello della dipendenza, ritenendo che la controversia dovesse comunque appartenere alla cognizione del giudice del luogo della prestazione di lavoro subordinato, se coincidente con il luogo della sede principale o di una dipendenza aziendale.

Tra i fori alternativi non è previsto quello del luogo di svolgimento della prestazione lavora-tiva, quand’esso non coincida con la sede o con una dipendenza aziendale né con quello in cui è sorto il rapporto.

L’onere di dimostrare che il foro prescelto corrisponde ad uno dei criteri di collegamento indicati dalla norma processuale spetta al ricorrente.

L’art. 413, 3° comma, cod. proc. civ. statuisce che la competenza dei fori alternativi perma-ne dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di essa o della sua dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi dal trasferimento o dalla cessazione. La temporaneità della competenza territoriale non riguarda, dunque, il foro del contratto: in caso di cessazione o di trasferimento dell’azienda o della dipendenza il momento di collegamento permane a condizione che la domanda venga proposta entro i successivi sei mesi, mentre ha carattere duraturo il concorrente criterio del luogo in cui il rapporto è sorto, con la conseguenza che, decorso tale semestre, occorre necessariamente ricorrere al foro del contratto, la cui perdu-rante operatività preclude l’adozione dei criteri dei fori generali, consentita dall’art. 413, 4° comma, in via meramente sussidiaria.

La delibera di messa in liquidazione di una società regolarmente costituita non determina l’estinzione dell’ente e la cessazione della sua attività imprenditoriale, giacché tale cessazio-ne, anche ai fini della permanenza - con riguardo a domanda proposta entro sei mesi dalla cessazione dell’azienda - della competenza territoriale del giudice del luogo di ubicazione dell’azienda medesima, si verifica solo al momento dell’effettiva estinzione di ogni rapporto, attivo o passivo, facente capo alla società (Cass. 8 luglio 2004, n. 12553).

1.5.2 Il foro del contratto

Il «luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro» è quello della stipulazione del contratto di lavoro subordinato, che non deve necessariamente rivestire forma scritta né essere conte-stuale, potendosi ovviamente realizzare anche verbalmente e mediante la comunicazione del-la proposta e la sua successiva accettazione: in tale ultima ipotesi, deve applicarsi il principio della cognizione.

Il foro del contratto, dunque, non è determinabile in base al luogo in cui ha avuto inizio la prestazione lavorativa e, cioè, la sua esecuzione, tranne casi eccezionali, in cui non sia indivi-duabile un precedente momento e luogo di incontro delle volontà negoziali delle parti e la controversia abbia ad oggetto l’accertamento della natura subordinata di un rapporto di lavoro in relazione al suo concreto atteggiarsi, anche indipendentemente dalla figura negoziale cui le

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12 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

parti (o una di esse) abbiano fatto formalmente riferimento (Cass. 7 novembre 2011, n. 23139, ord.; Cass. 28 aprile 1987, n. 4116). Ciò in applicazione di quanto stabilito dall’art. 1327 cod. civ., secondo cui qualora, su richiesta del proponente oppure per la natura dell’affare o secon-do gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione. Secondo altro orientamento interpre-tativo, invece, in siffatte ipotesi il ricorrente avrebbe a disposizione - se non potesse accedere agli altri fori alternativi per essersi il rapporto svolto in luogo diverso dalla sede o dalla dipen-denza aziendale, ovvero per essere trascorsi oltre sei mesi dal trasferimento della sede o dalla chiusura della dipendenza - soltanto il foro generale.

Il luogo dell’esecuzione non si identifica, dunque, con quello in cui è sorto il rapporto e non realizza, perciò, il momento di collegamento spaziale preteso dall’art. 413 cod. proc. civ. Il che non esclude, tuttavia, che il luogo in cui ha avuto inizio la prestazione lavorativa possa essere valutato, in relazione alla natura del rapporto di lavoro, agli usi e al compor-tamento delle parti, come fatto concludente indicativo dell’insorgenza del rapporto stesso; questo luogo è, in buona sostanza, un criterio di collegamento utilizzabile per individuare il giudice del lavoro competente soltanto quando non sia possibile, mancando un’autono-ma e distinta fonte del rapporto, individuare il luogo ove è sorto il rapporto, e non già quando invece ne manca la prova, nel qual caso il ricorrente può scegliere tra gli altri fori speciali. Se, invece, si affermasse la coincidenza del luogo di origine del rapporto con quello di inizio della prestazione lavorativa, si vanificherebbe la previsione del penultimo comma dell’art. 413, a norma del quale, in mancanza di applicabilità dei fori speciali esclu-sivi concorrenti tra loro, si deve ricorrere al foro generale (Cass. 23 marzo 2004, n. 5837, ord.).

Qualora un contratto di lavoro subordinato si sia perfezionato in un determinato luogo e la sua durata sia stata successivamente prorogata con altro accordo concluso in luogo diverso, la determinazione della competenza per territorio, in base al criterio del luogo ove è sorto il rapporto di lavoro, va effettuata con riguardo al luogo di conclusione del contratto in base al quale la relazione tra le parti ha avuto inizio (Cass. 24 gennaio 1983, n. 676).

1.5.3 Il foro dell’azienda

Il foro speciale dell’azienda, che rende competente il giudice nella cui circoscrizione si trova l’azienda, coincide con quello della sede aziendale effettiva, anche se essa è gestita in forma societaria; pure in tale ipotesi, infatti, è il luogo nel quale l’attività sociale è real-mente svolta, si accentrano i poteri di direzione ed amministrazione dell’impresa (pure se l’attività imprenditoriale si svolga fuori di tale sede), sono tenute le scritture contabili e tro-vano il loro normale punto di riferimento i rapporti giuridici, non potendosi attribuire rilievo al luogo in cui si trovano i beni aziendali o alla sede indicata nell’atto costitutivo o nello sta-tuto, qualora emerga che la preminente attività direttiva ed amministrativa si esercita in un luogo differente.

Si tratta, quindi, di un foro diverso da quello generale; anche dal foro generale delle perso-ne giuridiche che, ai sensi dell’art. 19 cod. proc. civ., è quello della sede, che è sempre la sede legale, la quale può concorrere, ai sensi dell’art. 46, 2° comma, cod. civ., con quella effettiva, ma non è esclusa dalla non coincidenza con questa.

La competenza territoriale del giudice del luogo in cui è sita la sede dell’azienda è del tutto svincolata dalla condizione che il dipendente vi sia addetto, richiesta invece per il foro della dipendenza.

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

13

SEDE DELLE PERSONE GIURIDICHE

La sede legale delle persone giuridiche è quella indicata nell’atto costitutivo o nello statuto e risul-tante dal registro delle imprese o da quello delle persone giuridiche; la sede effettiva è il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e in cui operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti, ossia il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività sociale.

1.5.4 Il foro della dipendenza

La nozione di «dipendenza dell’azienda» va intesa in senso lato, ricomprendendovi ogni nucleo decentrato di beni aziendali, anche di esigue dimensioni, che sia destinato al soddi-sfacimento delle finalità imprenditoriali e munito di propria individualità tecnico-economica. L’intenzione del legislatore è, infatti, quella di favorire il radicamento della causa nel luogo della prestazione lavorativa. Sicché non può assumere rilevanza, per affermare l’insussistenza del momento di collegamento spaziale, né la circostanza che a quel nucleo siano addetti pochi lavoratori (o anche uno soltanto: Cass. 18 febbraio 2000, n. 1887) né la circostanza che i locali o le attrezzature, utilizzati dall’imprenditore, siano di proprietà di un terzo (o anche dello stes-so lavoratore).

La «dipendenza», quindi, non si identifica necessariamente con una filiale o una succursa-le, potendo consistere in qualsiasi articolazione dell’impresa idonea a realizzare un fine pro-duttivo, anche se priva di autonomia funzionale; quest’ultimo requisito è, invece, indefettibile nell’unità produttiva, nozione utilizzata in diversi testi legislativi e, in primo luogo, nello Statu-to dei lavoratori: «dipendenza» e «unità produttiva» indicano entità affatto diverse.

UNITÀ PRODUTTIVA

Ogni articolazione autonoma dell’impresa o dell’azienda avente, sotto il profilo funzionale, idoneità ad espletare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni o servizi dell’impresa, della quale costituisce elemento organizzativo

Ci si chiede se l’abitazione del lavoratore possa essere considerata dipendenza aziendale. Si sostiene che essa non possa ritenersi tale per il solo fatto che vi si trovino oggetti o beni inerenti all’attività lavorativa del dipendente, esigendosi qualcosa di più, che può essere, an-che alternativamente: a) l’autonomia tecnico-economica e strutturale dei beni; b) l’esercizio, in ordine all’abitazione stessa, di poteri di direttiva e controllo del datore di lavoro, che vadano oltre le modalità di svolgimento dell’attività lavorativa; c) la circostanza che vi facciano riferi-mento rapporti giuridici, con soggetti esterni all’azienda, imputabili a quest’ultima (Cass. 16 novembre 2010, n. 23110, ord.; Cass. 27 agosto 1987, n. 7078). può, così, configurarsi come dipendenza anche l’abitazione, qualora non rappresenti solo il luogo di svolgimento dell’attivi-tà lavorativa, ma costituisca un punto di riferimento per l’imprenditore, per gli altri lavoratori o per i terzi (Cass. 1° aprile 2000, n. 3974; Cass. 22 ottobre 1994, n. 8686).

Il foro della dipendenza va collegato non già all’atto con cui il lavoratore è destinato al nucleo aziendale decentrato, bensì con il fatto del concreto svolgimento della prestazione di lavoro presso tale nucleo (Cass. 19 ottobre 2011, n. 21690, ord.). In tema di trasferimento, ad esempio, è competente a conoscere della causa concernente la sua legittimità il giudice del luogo in cui si trova la dipendenza di destinazione, se il trasferimento abbia avuto concreta esecuzione, ovvero il giudice del luogo in cui si trova la sede di lavoro di provenienza, se il trasferimento non abbia avuto ancora esecuzione nel momento di proposizione della domanda giudiziale.

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14 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

La dipendenza assume rilievo solo se il lavoratore vi è addetto al momento dell’instaurazione del giudizio o in quello, eventualmente anteriore, della cessazione del rapporto; tale limitazione è giustificata dalla considerazione che il riferimento a tutte le dipendenze in cui il lavoratore abbia prestato la sua opera nel corso del rapporto determinerebbe, in contrasto con la finalità perseguita dalla norma processuale, la coesistenza, in applicazione del criterio della dipenden-za, di una pluralità di fori concorrenti; né il foro della dipendenza, presso cui il lavoratore ancora in servizio sia stato in precedenza addetto, può assumere rilievo nel caso in cui dal termine dell’assegnazione ad essa siano trascorsi meno di sei mesi, in quanto questo limite temporale, previsto dall’art. 413, co. 3, cod. proc. civ., si riferisce esclusivamente alla cessazione della di-pendenza e non anche al venire meno della destinazione del lavoratore a prestarvi l’opera.

Per quanto riguarda, infine, i rapporti di lavoro svolti all’estero, quando non risulti il luogo di origine del rapporto, la competenza va determinata unicamente in base al criterio della sede dell’azienda, essendo inapplicabile il foro della dipendenza (Cass. 28 marzo 1990, n. 2494).

1.5.5 I fori generali sussidiari

L’art. 413, co. 3, cod. proc. civ. dispone che, qualora non trovino applicazione le disposizioni sulla competenza territoriale dettate dai commi precedenti, “si applicano quelle dell’art. 182”.

La giurisprudenza di legittimità (Cass. 23 luglio 2001, n. 10006) argomenta che il foro gene-rale di cui all’art. 18 cod. proc. civ. deve qui intendersi comprensivo, nonostante la limitata lo-cuzione letterale, anche del foro generale delle persone giuridiche, di cui al successivo art. 19.

I fori generali diventano, così, nel processo del lavoro, fori sussidiari, nel senso che il ri-corso ad essi è consentito solo quando venga accertata l’impossibilità di ricorrere a tutti i fori speciali.

1.5.6 La nullità delle clausole derogative

L’ultimo comma dell’art. 413 cod. proc. civ. sancisce la nullità delle clausole derogative della competenza per territorio; in tale ottica il successivo art. 428 consente al giudice di ri-levare l’incompetenza territoriale anche d’ufficio, al contrario di quanto previsto per il proces-so civile ordinario dall’art. 38 del codice di rito (salvo, nel rito ordinario, che nelle ipotesi in cui vi sia accordo delle parti derogativo della competenza territoriale, con elezione di un foro con-venzionale, nei casi in cui siffatto accordo non è escluso dalle disposizioni dell’art. 28 cod. proc. civ.).

Il principio generale della derogabilità della competenza territoriale è, dunque, sovver-tito nelle controversie di lavoro. La nullità assoluta della clausola derogativa della competen-za può essere fatta valere, pertanto, anche da chi, predisponendo la clausola, abbia dato origi-ne alla stessa nullità.

La sanzione di nullità riguarda pure le pattuizioni che, imponendo l’adozione di uno solo dei fori speciali concorrenti, limitino la facoltà del ricorrente di scegliere uno dei fori alternativi (Cass. 11 novembre 1988, n. 6100). Essa riguarda tutti i rapporti elencati dall’art. 409 cod. proc. civ. e, quindi, anche i rapporti di agenzia e di collaborazione coordinata e continuativa, non potendo rilevare neppure che la clausola derogativa sia stata pattuita nell’interesse dell’agen-te o del lavoratore parasubordinato.

Stante il carattere assoluto della nullità, l’attore che intende adire il giudice scegliendo tra i fori previsti dall’art. 413 cod. proc. civ. non ha l’onere d’impugnare la clausola derogativa della competenza con l’atto introduttivo del giudizio (Cass. 2 novembre 1992, n. 11873).

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

15

ART. 413 COD. PROC. CIV.

Giudice competente.

Le controversie previste dall’art. 409 sono in primo grado di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro.

Competente per territorio è il giudice nella cui circoscrizione è sorto il rapporto ovvero si trova l’a-zienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.

Tale competenza permane dopo il trasferimento dell’azienda o la cessazione di essa o della sua dipendenza, purché la domanda sia proposta entro sei mesi dal trasferimento o dalla cessazione.

Competente per territorio per le controversie previste dal n. 3) dell’art. 409 è il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di commercio ovvero del titolare degli altri rapporti di collaborazione di cui al predetto n. 3) dell’art. 409.

Competente per territorio per le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è il giudice nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio al quale il dipendente è addetto o era addetto al momento della cessazione del rapporto.

Nelle controversie nelle quali è parte una Amministrazione dello Stato non si applicano le disposi-zioni dell’art. 6 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611.

Qualora non trovino applicazione le disposizioni dei commi precedenti, si applicano quelle dell’art. 18.

Sono nulle le clausole derogative della competenza per territorio.

1.5.7 I rapporti di lavoro non costituiti

Il carattere tendenzialmente onnicomprensivo del rito speciale del lavoro fa sì che l’art. 413 cod. proc. civ. trovi applicazione anche con riguardo a controversie relative a rapporti di lavoro da costituire.

La competenza territoriale, in siffatte ipotesi, va determinata, in via generale, con riferi-mento al luogo in cui si trova l’azienda obbligata all’assunzione, non essendo utilizzabili né il criterio del luogo in cui il rapporto avrebbe dovuto costituirsi né quello dell’ubicazione della dipendenza cui il lavoratore avrebbe dovuto essere addetto.

L’applicazione dell’art. 413 può, tuttavia, risolversi, in alcuni casi, nell’individuazione di un foro diverso da quello dell’azienda.

È stato, ad esempio, ritenuto (Cass. 12 maggio 1989, n. 2181) che si possa ricorrere al foro del contratto in caso di sottoscrizione di un preliminare di lavoro e della successiva mancata costituzione del rapporto, identificandosi in tal caso tale foro con il luogo della sti-pula del contratto preliminare. Così pure si è argomentato (Cass. Sez. Un. 10 agosto 2001, n. 11043, ord.; Cass. 25 novembre 1999, n. 13147; Cass. 16 maggio 1998, n. 4953) che l’identifi-cazione del giudice del lavoro territorialmente competente per le controversie originate dal-la mancata assunzione dei soggetti avviati al lavoro in regime di collocamento obbligatorio non può prescindere dal sistema legale di tutela e dalla specifica disciplina legislativa in materia, con conseguente necessità di coordinare le norme del codice di rito con quelle, pure inderogabili, riguardanti le modalità del collocamento obbligatorio: il giudice territo-rialmente competente a decidere su tali controversie va, perciò, individuato in relazione al luogo in cui si trova la direzione territoriale del lavoro alla quale l’azienda (o una sua unità produttiva) ha inoltrato la denuncia prevista dalla legge, provocando l’emissione del provve-dimento di avviamento.

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16 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

RICORSO PER REGOLAMENTO DI COMPETENZA

Suprema Corte di Cassazione

Ricorso per regolamento di competenza ai sensi dell’art. 42 cod. proc. civ.

per

....., residente (ovvero: con sede) in ..... (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore .....), elettivamente domiciliato/a in ....., alla via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta, in forza di procura emarginata al presente atto (ovvero: alla copia notificata del ricorso introduttivo)

parte convenuta

contro

....., domiciliato/a in ..... alla via ....., presso lo studio del procuratore domiciliatario avv. .....

parte ricorrente

premesso

1) che il/la ricorrente ..... con ricorso depositato il ..... e notificato con pedissequo decreto in data ....., conveniva dinanzi al Tribunale di ..... - Sezione lavoro, Giudice dott. ....., l’esponente chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: .....;

2) che la parte esponente si costituiva in giudizio ed eccepiva l’incompetenza territoriale del Giudice adito, dichiarando essere competente il Tribunale di ....., per i seguenti motivi .....;

3) che il Tribunale adito, con sentenza resa in data ....., n. ....., dichiarava la propria competenza a decidere il presente giudizio;

4) che l’eccezione proposta appare, invece, alla difesa esponente fondata per i seguenti motivi: .....; tutto ciò premesso e ritenuto

ricorre

alla Suprema Corte di Cassazione per l’accoglimento delle seguenti

conclusioni

Piaccia alla Suprema Corte di Cassazione accogliere il presente ricorso e conseguentemente dichia-rare competente il Tribunale di ....., in funzione di Giudice del Lavoro, a decidere la causa promossa da ..... contro ..... e ordinare la prosecuzione del giudizio dinanzi alla suindicata autorità giudiziaria, fissando il termine per la riassunzione.

Codice fiscale del difensore: .....

Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....

Numero di fax del difensore: ....

(eventuale: Si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

Si depositano i seguenti documenti:

1) copia conforme della sentenza impugnata

2) fascicolo di parte depositato in giudizio

3) .....

Luogo e data

Avv. .....

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

17

1.6 La competenza per le controversie di lavoro parasubordinato

1.6.1 Il foro esclusivo

Competente per territorio per le controversie previste dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ. è il giudice nella cui circoscrizione si trova il domicilio dell’agente, del rappresentante di com-mercio ovvero del titolare degli altri rapporti di collaborazione; ciò in base alla riforma intro-dotta dall’art. 1 della legge 11 febbraio 1992, n. 12, che ha aggiunto un comma (l’attuale quar-to) all’art. 413 cod. proc. civ., sottraendo le controversie riguardanti rapporti di parasubordinazione alla disciplina generale che regola la competenza del giudice del lavoro.

Il foro del domicilio del collaboratore è esclusivo e va identificato con riguardo al domicilio in cui si svolge, o si è svolta, la sua attività, dovendosi escludere, nel caso di rapporto già ces-sato, la possibilità di riferimento al domicilio del lavoratore al tempo dell’instaurazione della controversia, poiché tale possibilità consentirebbe a costui, in contrasto con l’art. 25 Cost., di scegliersi il giudice attraverso il preordinato trasferimento del proprio domicilio (Cass. 6 mag-gio 1998, n. 4580). Il riferimento al domicilio, individuato dall’art. 43 cod. civ. quale sede prin-cipale degli affari ed interessi, si deve presumere coincidente con la residenza, non potendosi ritenere, di norma, che il domicilio si trovi nel luogo cui la persona si rapporta nei limiti della prestazione lavorativa (Cass. 13 gennaio 2012, n. 403). Peraltro una clausola derogativa del foro del domicilio del collaboratore sarebbe nulla, anche se il giudizio fosse instaurato succes-sivamente alla cessazione del rapporto di prestazione d’opera, non potendosi privare il lavora-tore della garanzia che assiste la sua posizione quando egli faccia valere diritti derivanti dal rapporto estinto, talvolta esercitabili proprio a seguito dell’estinzione (Cass. 10 gennaio 2012, n. 114, ord.).

All’esclusività del foro consegue che, ove non sia possibile il collegamento in questione, ad esempio per essere domiciliato all’estero il lavoratore parasubordinato, non è applicabile la disciplina speciale dettata dagli altri commi dell’art. 413, ivi compresa la disposizione relativa all’inderogabilità della competenza, ma è applicabile la disciplina ordinaria, che può essere derogata per accordo tra le parti a norma dell’art. 28 cod. proc. civ. (Cass. 13 maggio 2003, n. 7358, ord.).

DOMICILIO

Luogo in cui una persona stabilisce la sede principale dei suoi affari e interessi. La nozione di «do-micilio» attiene alle relazioni giuridiche e istituisce, dunque, un vincolo di diritto con il luogo, al contrario delle nozioni di «dimora» e «residenza», che implicano una relazione di fatto (di effettività la prima e di stabilità la seconda) tra il soggetto e il luogo.

1.7 La competenza per le sanzioni amministrative

1.7.1 L’emissione dell’ordinanza-ingiunzione

L’art. 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha depenalizzato tutte le violazioni previste dalle leggi in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie punite con la sola ammenda, assoggettandole alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro.

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18 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

Per le violazioni consistenti nell’omissione totale o parziale del versamento di contributi e premi, l’ordinanza-ingiunzione è emessa dagli enti ed istituti gestori delle forme di previ-denza ed assistenza obbligatorie, che con lo stesso provvedimento ingiungono ai debitori an-che il pagamento dei contributi e dei premi non versati e delle somme aggiuntive previste a titolo di sanzione civile.

Per le altre violazioni, quando viene accertato che da esse deriva l’omesso o parziale versamento di contributi e premi, la relativa sanzione amministrativa è applicata con la me-desima ordinanza e dagli stessi enti ed istituti.

La competenza ad emettere l’ordinanza-ingiunzione si estende alle violazioni diverse dall’omissione contributiva purché, oltre a sussistere una stretta connessione tra la diversa infrazione contestata e il mancato pagamento dei contributi, le violazioni siano state, in con-creto, accertate in un unico contesto, con conseguente invio del relativo rapporto all’ente pre-videnziale, così da consentire allo stesso di sanzionare, con la medesima ordinanza, l’una e l’altra infrazione (Cass. 1° luglio 2009, n. 15414).

1.7.2 L’opposizione all’ordinanza-ingiunzione

L’opposizione va proposta avanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro mediante ricorso, al quale deve essere allegata l’ordinanza notificata; opponente e autorità che ha emesso l’ordinanza possono stare in giudizio personalmente; l’autorità può avvalersi anche di funzionari appositamente delegati.

In forza del rinvio operato dall’art. 35 della legge n. 689/1981 agli artt. 442 e seguenti cod. proc. civ., occorre dare applicazione all’art. 444 e, pertanto, nel caso di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie l’opposizione va proposta avanti al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’ente. E ciò sia nell’ipotesi in cui l’in-giunzione riguardi il pagamento, oltre che della sanzione amministrativa, anche dei contributi e delle sanzioni civili, sia in quella in cui concerna soltanto la sanzione amministrativa, atteso, in particolare, che l’art. 35 richiama il precedente art. 22 (il cui primo comma prevede la com-petenza del giudice del luogo in cui è stata commessa la violazione) soltanto nella parte rela-tiva al termine e alle modalità di proposizione dell’opposizione nonché all’eventuale sospen-sione dell’esecuzione, mentre, con il richiamo degli artt. 442 e seguenti del codice di rito, si fa riferimento al criterio di competenza territoriale indicato dal secondo comma dell’art. 444, in coerenza con ragioni di carattere sistematico, fra cui il principio della specializzazione del giudice (Cass. 5 novembre 1988, n. 5992).

ORDINANZA-INGIUNZIONE

Provvedimento con cui l’autorità competente, se ritiene fondato l’accertamento, determina, con or-dinanza motivata, la somma dovuta per la violazione e ne ingiunge il pagamento, insieme con le spese, all’autore della violazione ed alle persone che vi sono obbligate solidalmente.

1.8 L’incompetenza del giudice

1.8.1 Il sistema di preclusioni

L’art. 428 cod. proc. civ. dispone che l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

19

soltanto nella memoria difensiva di costituzione in giudizio ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza fissata per la discussione della causa, da individuare nell’udienza tenuta effettivamente per prima secondo l’ordine cronologico (che non è necessariamente la prima udienza fissata per la discussione: può essere anche quella successiva cui la causa sia stata rinviata per la discussione, dovendo in tal caso detta prima udienza ritenersi non celebrata).

La norma, dettata da esigenze di celerità del giudizio e di economia processuale, mitiga il rigore dell’inderogabilità della competenza territoriale, ergendo un sistema di preclusioni che ben potrebbe tradursi, in caso di inerzia sia del convenuto che del giudice, nel radicamento della competenza in un foro diverso da quelli concorrenti inderogabili individuati dall’art. 413; il siste-ma di preclusioni esplica la sua efficacia sia nei processi iniziati davanti al giudice del lavoro che in quelli iniziati davanti al giudice ordinario (Cass. Sez. Un. 12 novembre 1999, n. 764).

La «prima udienza» nel rito ordinario si identifica con l’udienza di cui all’art. 183 cod. proc. civ. ma, nel processo del lavoro, corrisponde all’udienza fissata con il decreto di cui all’art. 415 cod. proc. civ.; pertanto anche la disposizione del primo comma dell’art. 428 va intesa nel sen-so che può essere rilevata non oltre il termine dell’udienza fissata con il predetto decreto, con la conseguente inammissibilità del regolamento di competenza d’ufficio che dovesse essere sollevato superandosi tale preclusione (Cass. 11 settembre 2010, n. 19410).

1.8.2 Il rilievo d’ufficio

Il giudice che rilevi d’ufficio l’incompetenza territoriale non ha l’onere, come la parte che solleva la medesima eccezione, di indicare contestualmente il giudice ritenuto competente, essendo la sentenza il solo provvedimento idoneo per tale designazione. Secondo una parte della giurisprudenza (Cass. 13 giugno 1991, n. 6659) la norma processuale non escluderebbe che il giudice conservi la facoltà di rilevare d’ufficio l’incompetenza anche oltre la prima udien-za di discussione, finché, attraverso l’interrogatorio libero delle parti e le eventuali modifica-zioni delle domande ed eccezioni, non sia stato delimitato l’oggetto della controversia e non sia stato espletato con esito negativo il tentativo di conciliazione, restando detta facoltà preclusa dall’adozione dei provvedimenti attinenti all’istruttoria probatoria, anche se la discussione della causa prosegua nella stessa udienza.

Le dichiarazioni rese in sede d’interrogatorio libero o non formale, che è istituto finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria a carattere me-ramente sussidiario, non possono peraltro avere valore di confessione giudiziale ai sensi dell’art. 229 cod. proc. civ., ma possono solo fornire al giudice elementi sussidiari di convinci-mento, utilizzabili ai fini del riscontro e della valutazione delle prove già acquisite; ne conse-gue che rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la scelta relativa alla concreta utilizzazione di tale strumento processuale (Cass. 22 luglio 2010, n. 17239).

La preclusione al rilievo d’ufficio del difetto di competenza territoriale dopo l’adozione dei provvedimenti relativi all’istruzione probatoria non esclude la facoltà del tribunale di riservar-si, nella prima udienza di discussione, di decidere successivamente sull’eccezione di incom-petenza tempestivamente sollevata dal convenuto (Cass. 29 novembre 1995, n. 12381), senza che tale riserva possa in alcun caso considerarsi equiparabile al rigetto dell’eccezione e a contestuale declaratoria affermativa della competenza.

1.8.3 L’eccezione del convenuto

L’eccezione di incompetenza territoriale può essere sollevata dalla parte solo nella pri-ma memoria difensiva. La preclusione si applica anche se il giudizio risulti introdotto con ri-corso per procedura d’urgenza ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. (Cass. 8 agosto 1987, n.

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20 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

6829) e pure nel caso di contumacia: è stato, infatti, ritenuto (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1263) che l’incompetenza non può essere eccepita per la prima volta in appello, nemmeno dalla parte rimasta contumace in primo grado. In base alla disposizione dettata dall’art. 38, comma 2, cod. proc. civ., l’eccezione si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

La competenza territoriale, nonostante il sistema di preclusioni introdotto dall’art. 428, resta inderogabile; sicché, una volta che sia stata eccepita l’incompetenza per territorio del giudice adito, rientra nel potere-dovere del medesimo l’identificazione del giudice territorialmente com-petente, anche se diverso da quello indicato da chi ha sollevato l’eccezione o dalle altre parti.

È, quindi, irrilevante che il ricorrente aderisca all’eccezione sollevata dal convenuto o che quest’ultimo rinunci all’eccezione proposta: anche in ipotesi di accordo delle parti, infatti, il giudice non ne rimane vincolato (e quindi non può, come invece prevede l’art. 38 cod. proc. civ., cancellare la causa dal ruolo), ma deve delibare l’eccezione e, se ritiene la sua incompetenza territoriale, deve pronunciare sentenza.

1.8.4 La riassunzione della causa

Il secondo comma dell’art. 428 Cod. proc. civ. stabilisce che il giudice incompetente deve rimettere la causa al tribunale, in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine peren-torio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale. La riassunzione, quindi, va effettuata con il deposito del ricorso.

L’inosservanza del termine perentorio stabilito dal giudice comporta l’estinzione del giudi-zio; questa, però, pur operando di diritto, va eccepita dalla parte che vi abbia interesse prima di ogni altra difesa, ai sensi dell’art. 307, ultimo comma, cod. proc. civ., non potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice avanti al quale il processo è stato riassunto. La novella del 2009, nell’aggiungere un comma all’art. 153 cod. proc. civ., stabilisce innovativamente, riguardo in generale ai termini processuali perentori, che la parte che dimostri di essere incorsa in deca-denze per causa ad essa non imputabile può chiedere di essere rimessa in termini; il giudice provvede con ordinanza.

Se l’estinzione non è eccepita, l’irritualità della riassunzione resta priva di effetti. Se viene erroneamente fissato per la riassunzione un termine superiore a quello massimo di trenta gior-ni, deve ritenersi tempestiva la riassunzione effettuata entro il più lungo termine indicato dal provvedimento, poiché l’attività di impulso processuale della parte si svolge necessariamente, in tal caso, sulla base del provvedimento del giudice, il quale, per l’autoritatività che lo assiste, regge la situazione processuale finché non sia rimosso nei modi previsti dal codice di rito, sicché l’errore commesso nell’attività di informazione e ricognizione del dato normativo vale a rendere inoperativa la perentorietà del termine sancita dalla norma, rimanendo comunque salvaguarda-to il fondamentale diritto alla tutela giurisdizionale (Cass. 2 giugno 2000, n. 7368).

ART. 428 COD. PROC. CIV.

Incompetenza del giudice.

Quando una causa relativa ai rapporti di cui all’art. 409 sia stata proposta a giudice incompetente, l’incompetenza può essere eccepita dal convenuto soltanto nella memoria difensiva di cui all’art. 416 ovvero rilevata d’ufficio dal giudice non oltre l’udienza di cui all’art. 420.

Quando l’incompetenza sia stata eccepita o rilevata ai sensi del comma precedente, il giudice ri-mette la causa al tribunale in funzione di giudice del lavoro, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con rito speciale.

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

21

1.8.5 L’incompetenza del giudice d’appello

Qualora il giudice di secondo grado abbia dichiarato la propria incompetenza per territorio, la riassunzione della causa avanti al giudice dichiarato competente deve essere effettuata ai sensi della norma generale dettata dall’art. 50 cod. proc. civ., e cioè nel termine fissato giudi-zialmente o, in mancanza, in quello di tre mesi dalla comunicazione della sentenza che dichia-ra l’incompetenza del giudice adito (Cass. Sez. Un. 19 gennaio 1987, n. 413).

La disposizione dell’art. 428 cod. proc. civ., dettata per il procedimento di primo grado, non è, infatti, applicabile al giudizio d’appello, che nel rito del lavoro è disciplinato da disposizioni autonome e da quelle sole norme del procedimento di primo grado che siano espressamente richiamate.

1.8.6 L’astensione e la ricusazione del giudice

Il dovere di astensione, secondo la previsione dell’art. 51 cod. proc. civ., riguarda non l’or-gano giudicante, ma la persona fisica del giudice, il quale ha l’obbligo di astenersi:1) se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto;2) se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o

è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;3) se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debi-

to con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;4) se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimo-

ne, oppure ne ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo o come arbitro o vi ha prestato assistenza come consulente tecnico;

5) se è tutore, curatore, amministratore di sostegno, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un’associazione anche non riconosciuta, di un comitato, di una società o stabilimento che ha interesse nella causa.I casi di astensione obbligatoria del giudice stabiliti dall’art. 51 cod. proc. civ., ai quali cor-

risponde il diritto di ricusazione delle parti, in quanto incidono sulla capacità del giudice, de-terminando una deroga al principio del giudice naturale precostituito per legge, sono di stret-ta interpretazione e non sono, pertanto, suscettibili di applicazione per via di interpretazione analogica.

L’obbligo di astensione si riferisce ai casi in cui il giudice abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, e non anche ai casi in cui abbia avuto conoscenza, come magistrato, di una causa diversa vertente su un oggetto analogo e comportante la risoluzione di una medesima problematica (Cass. 23 febbraio 2006, n. 4024). Nella stessa ottica, l’emissione di provvedimenti d’urgenza in corso di causa o la partecipazione al collegio che li riesamina in sede di reclamo costituiscono situazioni ordinarie del giudizio e non possono pregiudicarne l’esito né determina-re, quindi, un obbligo di astensione o una facoltà della parte di chiedere la ricusazione (Cass. 12 gennaio 2006, n. 422). L’obbligo di astensione, inoltre, concerne esclusivamente l’avvenuta par-tecipazione alla decisione e non anche quella a semplici attività istruttorie.

In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza, il giudice può richiedere al capo dell’ufficio l’autorizzazione ad astenersi; quando l’astensione riguarda il capo dell’ufficio, l’autorizzazione è chiesta al capo dell’ufficio superiore. L’autorizzazione, peraltro, va richiesta soltanto in tali ipotesi e non pure in quelle di astensione obbligatoria; l’onere di comunicare l’astensione, poi, deve essere osservato solo quando alla designazione di altro giudice debba provvedere il capo dell’ufficio e non nell’ipotesi in cui ad astenersi sia lo stesso giudice che abbia il potere di provvedere alla designazione.

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22 Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

La violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi non può essere invocata, ad ec-cezione dell’ipotesi in cui abbia avuto interesse nella causa o in altra vertente su identica questione, in sede di impugnazione a fondamento della nullità della sentenza, qualora non sia stata proposta istanza di ricusazione.

Nei casi in cui è fatto obbligo al giudice di astenersi, ciascuna delle parti può proporre la ricusazione mediante ricorso contenente i motivi specifici e i mezzi di prova; il ricorso, sotto-scritto dalla parte o dal difensore, deve essere depositato in cancelleria due giorni prima dell’udienza, se al ricusante è noto il nome dei giudici che sono chiamati a trattare o decidere la causa, e prima dell’inizio della trattazione o discussione di questa, nel caso contrario. La ricusazione sospende il processo. Su di essa decide il collegio con ordinanza non impugnabile, udito il giudice ricusato e assunte, quando occorre, le prove offerte.

L’ordinanza che accoglie il ricorso designa il giudice che deve sostituire quello ricusato; con l’ordinanza con cui si dichiara inammissibile o si rigetta la ricusazione si provvede sulle spese, con possibilità di condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non superiore a 250 euro. Dell’ordinanza è data notizia dalla cancelleria al giudice e alle parti, le quali debbono provvedere alla riassunzione della causa nel termine perentorio di sei mesi

L’ordinanza di rigetto dell’istanza di ricusazione ha natura decisoria, poiché decide su un’istanza diretta a far valere concretamente l’imparzialità del giudice, che costituisce non soltanto un interesse generale dell’amministrazione della giustizia, ma anche un diritto soggettivo della parte, alla luce dell’art. 111 Cost.; essa, però, non è impugnabile con il ricorso straordinario per Cassazione, in quanto manca del necessario carattere di definitività. L’inop-pugnabilità in via autonoma non esclude, tuttavia, che il suo contenuto possa essere riesami-nato nel corso del processo, attraverso il controllo sulla pronuncia resa dal giudice ricusato; in tal caso, l’eventuale vizio causato dall’incompatibilità di questo giudice si risolve in motivo di nullità dell’attività da lui svolta e, quindi, di gravame della sentenza emessa.

1.9 I passaggi di rito

La mancata adozione del rito speciale per le controversie di lavoro non costituisce un vizio rile-vabile d’ufficio; essa può essere fatta valere soltanto con i mezzi normali di impugnazione quando, in relazione all’incidenza della scelta del rito su diritti sostanziali o processuali della parte, venga-no formulate specifiche doglianze circa il concreto verificarsi di una lesione di tali diritti.

1.9.1 Dal rito ordinario al rito speciale

L’art. 426 cod. proc. civ. impone al giudice, che rilevi che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall’art. 409, di fissare con ordinanza l’udienza di discussione della causa e il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all’eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria, proseguendo così nella trattazione della causa secondo le regole che disciplinano il processo del lavoro.

L’applicazione del principio di conservazione degli atti ha indotto, dunque, il legislatore a configurare l’erronea instaurazione della controversia nelle forme ordinarie, anziché in quelle del rito del lavoro, come mera irregolarità formale, che non fa venire meno l’efficacia dell’atto introduttivo del processo, ma impone soltanto la trasformazione del rito.

La trasformazione dal rito ordinario a quello speciale consente la conservazione dell’at-tività processuale anteriormente svolta, la cui regolarità va valutata con riferimento al rito

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Capitolo 1 - La competenza

Processo del lavoro

23

seguito nel momento in cui essa si svolgeva; anche le prove già acquisite non perdono pertan-to efficacia.

Il processo erroneamente introdotto con il rito ordinario è regolato dal rito speciale non dal momento in cui ne viene statuita la natura, bensì dal momento in cui il giudizio ha inizio in applicazione del relativo rito, in quanto in precedenza rileva il rito adottato dal giudice che, a prescindere dalla sua esattezza, costituisce per la parte il criterio di riferimento, anche ai fini del computo dei termini previsti per le attività processuali; si applica quindi la sospensione feriale al termine previsto per la riassunzione innanzi al giudice del lavoro del giudizio propo-sto innanzi al giudice civile dichiaratosi incompetente (Cass. 2 ottobre 2008, n. 24412).

1.9.2 Dal rito speciale al rito ordinario

L’art. 427 cod. proc. civ. impone al giudice che rilevi che una causa promossa nelle forme speciali riguarda un rapporto diverso da quelli previsti dall’art. 409 di disporre, se la causa rientra nella sua competenza, che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie, altrimenti la rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario. In tal caso, le prove acquisite durante lo stato di rito speciale avranno l’efficacia consentita dalle norme ordinarie.

A seguito del mutamento del rito, da ordinario in rito del lavoro, le parti devono precisare, nel primo atto difensivo successivo al suddetto provvedimento, quanto non sia stato già dedot-to con l’atto di citazione, essendo ciò necessario in virtù dei principi di immediatezza, oralità e concentrazione che caratterizzano il processo del lavoro (Cass. 27 settembre 2010, n. 20269).

Il principio per cui la competenza si determina alla stregua della domanda, (indipendente-mente dalla sua fondatezza, comporta che si possa procedere al passaggio dal rito speciale al rito ordinario soltanto quando il rapporto dedotto dal ricorrente si presenti immediatamente estraneo al campo di applicazione dell’art. 409 e non già quando tale estraneità emerga a se-guito dei risultati dell’istruttoria, magari al momento della decisione di merito.

1.10 La costituzione e la difesa personale

L’art. 417 cod. proc. civ. consente alla parte di stare in giudizio personalmente in primo grado quando il valore della causa non eccede i 129 euro e 11 centesimi.

La parte che sta in giudizio personalmente propone la domanda con ricorso, nelle forme di cui all’art. 414, o si costituisce con il deposito di memoria difensiva, nelle forme di cui all’art. 416, con elezione di domicilio nell’ambito del territorio della Repubblica. Può proporre la do-manda anche verbalmente davanti al giudice, che ne fa redigere processo verbale.

Il ricorso o il processo verbale con il decreto di fissazione dell’udienza devono essere noti-ficati al convenuto e allo stesso attore a cura della cancelleria.

Alle parti che stanno in giudizio personalmente ogni ulteriore atto o memoria viene notifi-cato dalla cancelleria.

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Processo del lavoro

Capitolo 2

LA cONcILIAZIONE

2.1 Le rinunzie e le transazioni

2.1.1 L’invalidità in materia di diritti dei lavoratori

L’art. 2113 cod. civ. stabilisce che le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’art. 409 cod. proc. civ. non sono valide, tranne che non siano contenute nei verbali di conciliazione in sede amministrativa, sindacale o giudiziale.

L’impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste ultime sono intervenute successivamente; se, invece, sono intervenute in costanza di rapporto, il termine decorre comunque dalla data della sua cessazione (Cass. 20 novembre 1997, n. 11581; Cass. 11 dicembre 1987, n. 9198).

L’impugnazione può farsi attraverso qualsiasi atto scritto del lavoratore, anche stragiudi-ziale, idoneo a renderne nota la volontà.

L’art. 2113 è applicabile anche nell’ipotesi in cui il lavoratore abbia già intrapreso un’azio-ne giudiziaria, in quanto la sua posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro non viene meno per il fatto che egli abbia azionato un diritto o sia assistito da un legale; ne conse-gue che restano impugnabili nel termine di sei mesi tutte le rinunce e transazioni che non siano intervenute nella forma della conciliazione giudiziale o sindacale, a nulla rilevando che le suddette intervengano dopo che il lavoratore abbia già azionato il diritto in giudizio (Cass. 17 settembre 2002, n. 13616).

2.1.2 Le transazioni

Secondo la definizione che ne dà l’art. 1965 cod. civ., la transazione è il contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può insorgere tra loro.

Per la validità della transazione, dunque, è necessaria la sussistenza della lite, anche se non è indispensabile che le rispettive tesi abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, pure se ancora da definire nei più precisi termini di una lite e non esteriorizzato in una rigorosa formulazione. Il presupposto legale si traduce, quindi, in discordi valutazioni delle parti in ordine ad una qualsiasi questione giuridi-camente rilevante, sorta con riferimento ad un rapporto che le riguarda. Le contestazioni posso-no cadere, così, sia sull’esistenza del fatto giuridico che ha dato origine al rapporto, o comunque su di esso incidente, sia sulla determinazione delle conseguenze giuridiche di tale fatto, essendo configurabile, rispetto ad entrambi questi profili di contrasto, l’intento di farsi reciproche conces-sioni per porre fine alla lite o prevenirla, specialmente nelle sue implicazioni giudiziarie.

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26 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

L’oggetto della transazione è la lite cui si è dato luogo, o può darsi luogo; occorre perciò in-dagare se le parti, mediante l’accordo, abbiano perseguito la finalità di porre fine all’incertezza della lite - anche solo per una parte del contenzioso - senza che, tuttavia, sia necessaria l’este-riorizzazione delle contrapposte pretese, né che siano state usate espressioni direttamente ri-velatrici del negozio transattivo, la cui esistenza può essere desunta anche dalla corresponsione di denaro da parte del debitore, accettata dal creditore dichiarando di essere stato pienamente soddisfatto e di non avere null’altro a pretendere, se possa ritenersi che essa esprima la volon-tà di porre fine ad ogni ulteriore contesa, ferma restando l’inammissibilità della prova testimo-niale diretta a provare un diverso contenuto del rapporto transattivo. Quanto poi ai requisiti dell’«aliquid datum» e dell’«aliquid retentum», essi non sono da rapportare agli effettivi diritti delle parti, bensì alle rispettive pretese e contestazioni, e pertanto non è necessaria l’esistenza di un equilibrio economico tra le reciproche concessioni (Cass. 6 giugno 2011, n. 12211).

La transazione può anche avere efficacia novativa, il che avviene ogni qual volta emerga una situazione di oggettiva incompatibilità tra il rapporto preesistente e quello avente causa nell’accordo transattivo. Caratteristica della transazione novativa è quella di essere, al pari della transazione propria, un negozio di secondo grado, ma non un negozio ausiliario, bensì un negozio principale. Pertanto, a differenza di quel che accade nella transazione propria, nella quale il contratto è complementare rispetto al fatto causativo del rapporto originario ed è quindi fonte concorrente di diritti e di obblighi, nella transazione novativa il contratto di tran-sazione rappresenta l’unica fonte dei diritti e degli obblighi delle parti. La risoluzione della transazione per inadempimento non può essere richiesta, ai sensi dell’art. 1976 cod. civ., se il rapporto preesistente è stato estinto per novazione, salvo che il diritto alla risoluzione sia stato espressamente pattuito.

2.1.3 Le rinunzie

La rinunzia è la dichiarazione di volontà con cui una parte dismette abdicativamente un proprio diritto, scegliendo di non più goderne. Anche un comportamento omissivo, peraltro, può assumere il valore di una rinuncia tacita, idonea ad incidere su diritti soggettivi del pre-statore di lavoro e può, quindi, ricadere nell’ambito della disciplina dell’art. 2113.

La necessità della determinazione dell’oggetto costituisce condizione di validità di qualsi-asi manifestazione negoziale di volontà abdicativa. La rinunzia, pertanto, deve contenere la chiara rappresentazione dei diritti che vengono dimessi: la rinunzia successiva del lavorato-re ad ogni imprecisato diritto maturato nel corso del rapporto di lavoro, così come quella preventiva a futuri, eventuali e non precisati diritti, è radicalmente nulla ai sensi dell’art. 1418 cod. civ., e non semplicemente annullabile con l’esercizio della facoltà di impugnazione nel termine perentorio previsto dall’art. 2113 cod. civ., disposizione che concerne invece diritti maturati, concreti e ben individuati dal rinunciante.

Non è da considerare, di regola, rinunzia la dichiarazione del lavoratore di avere ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento delle sue pretese e di non avere altro a pretendere, o di rinunciarvi; essa esprime, infatti, il semplice convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto dei suoi diritti e costituisce, perciò, una dichiarazione di scienza, priva di effetti negoziali, la quale non preclude, se successivamente riscontrata erronea, l’a-zione per il riconoscimento dei diritti ancora non soddisfatti.

L’attribuzione ad una quietanza a saldo della portata negoziale di rinuncia non può avve-nire se non quando risulti inequivocabilmente accertato, sulla base dell’interpretazione del documento e del concorso di altre specifiche circostanze altrimenti desumibili, che la dichiara-zione sia stata formata con la consapevolezza dell’esistenza di diritti determinati, od oggetti-vamente determinabili, e con il cosciente intento di abdicare o transigere sui medesimi.

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Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

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QUIETANZA

L’art. 1199 cod. civ. istituisce il diritto del debitore alla quietanza, disponendo che il creditore che riceve il pagamento deve, a richiesta e a spese del debitore, rilasciare quietanza e farne annota-zione sul titolo, se questo non è restituito al debitore; il rilascio di una quietanza per il capitale fa presumere il pagamento degli interessi. La quietanza, così, è un documento scritto che, pur non richiedendo particolari forme, deve tuttavia attestare inequivocabilmente l’avvenuto pagamento

La semplice accettazione delle spettanze liquidatorie, pure se non accompagnata da alcu-na riserva, non può essere interpretata, per assoluto difetto di concludenza, come tacita di-chiarazione di rinuncia a diritti da parte del lavoratore.

2.2 Il tentativo facoltativo di conciliazione

2.2.1 La richiesta di conciliazione

Chi intende proporre in giudizio una domanda relativa ai rapporti di lavoro può promuove-re, anche tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato, un pre-vio tentativo di conciliazione avanti alla commissione di conciliazione competente per terri-torio, costituita presso la Direzione territoriale del lavoro. La richiesta del tentativo di conciliazione, sottoscritta dall’istante, è consegnata o spedita mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Copia della richiesta di conciliazione deve essere consegnata o spedita con raccomandata con ricevuta di ritorno a cura della stessa parte istante, alla controparte.

La richiesta deve precisare:

1) nome, cognome e residenza dell’istante e del convenuto; se l’istante o il convenuto sono una per-sona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, l’istanza deve indicare la denomi-nazione o la ditta nonché la sede;

2) il luogo dove è sorto il rapporto ovvero dove si trova l’azienda o sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto;

3) il luogo dove devono essere fatte alla parte istante le comunicazioni inerenti alla procedura;4) l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa.

La comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione, e per i venti giorni suc-cessivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza.

2.2.2 La memoria del convenuto

Se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la Com-missione di conciliazione, entro 20 giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una me-moria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale.

Ove ciò non avvenga, ciascuna delle parti è libera di adire l’autorità giudiziaria. Entro i dieci giorni successivi al deposito, la Commissione fissa la comparizione delle parti per il tentativo di

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28 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

conciliazione, che deve essere tenuto entro i successivi trenta giorni. Dinanzi alla Commissione il lavoratore può farsi assistere anche da un’organizzazione cui aderisce o conferisce mandato.

2.2.3 L’esito del procedimento

Può essere triplice:

− se una delle parti non compare dinanzi alla Commissione, viene redatto un verbale di mancata com-parizione;

− se la conciliazione esperita riesce, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo verbale, sottoscritto dalle parti e dai componenti della Commissione di conciliazio-ne, che su istanza della parte interessata potrà essere dichiarato esecutivo dal giudice con decreto; al riguardo l’art. 410 cod. proc. civ. prevede che il verbale venga depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale; il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui cir-coscrizione è stato redatto;

− se non si raggiunge l’accordo tra le parti, la Commissione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia; se la proposta non è accettata, i termini di essa sono riassunti nel verba-le, con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti; delle risultanze della proposta formulata dalla Commissione, e non accettata senza adeguata motivazione, il giudice tiene conto in sede di giudizio.

Quando il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso giudiziale introdutti-vo della controversia di lavoro devono essere allegati i verbali e le memorie concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito. Il plurale «parti», adottato dal legislatore nel testo novellato dell’art. 410 cod. proc. civ., va inteso come riferito anche al tentativo richiesto da una sola parte.

Il ruolo della Commissione di conciliazione non è definito con norme procedurali, sicché si perviene al risultato dell’inoppugnabilità delle transazioni e delle rinunce sia quando essa partecipi attivamente alla composizione delle contrastanti posizioni delle parti, sia quando si limiti a riconoscere l’espressione della libera volontà del lavoratore in un accordo già raggiun-to direttamente dagli interessati. L’intervento della Commissione viene reputato sufficiente dal legislatore a sottrarre il lavoratore dal timore reverenziale nei confronti del datore di lavoro, e comunque dalla naturale condizione di soggezione rispetto ad esso, che rende sospette di prevaricazione le transazioni e le rinunce intervenute in ordine a diritti previsti da norme inde-rogabili e che sta al fondamento della norma dettata dall’art. 2113 cod. civ.

Nulla vieta che la conciliazione in sede amministrativa possa essere raggiunta anche in pendenza della causa; in tale ipotesi, la definizione stragiudiziale della controversia compor-terà il venir meno dell’interesse delle parti ad ottenere una decisione nel merito e, conseguen-temente, la dichiarazione giudiziale della cessazione della materia del contendere.

2.3 La conciliazione sindacale

2.3.1 La sede sindacale

La conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro, oltreché in sede amministra-tiva, può essere conclusa anche in sede sindacale. L’art. 412-ter cod. proc. civ. dispone infatti

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Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

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che la conciliazione, nelle materie di lavoro, può essere svolta altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

La conciliazione in sede sindacale non è una mera transazione nella quale il lavoratore sia assistito da un sindacalista o, comunque, da un sindacato, bensì quella raggiunta e perfezio-nata con l’effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti non di una qualsiasi orga-nizzazione sindacale, ma di quella cui il lavoratore abbia voluto affidarsi. Per accertare la sussistenza di siffatto presupposto occorre valutare se, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata la funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella procedura conciliativa.

2.3.2 Le formalità

La conciliazione sindacale, per essere qualificata tale, deve risultare da un documento sottoscritto contestualmente dalle parti nonché da sindacalista di fiducia del lavoratore. È, così, validamente stipulata, mentre le formalità per la verifica di autenticità dell’atto e del conferimento dell’efficacia esecutiva al verbale costituiscono adempimenti successivi, estra-nei all’essenza negoziale della conciliazione.

La transazione contenuta in un verbale di conciliazione in sede sindacale sottoscritto da persona non munita del potere di rappresentare il datore di lavoro può essere successiva-mente ratificata da quest’ultimo e, se ciò avvenga, è vincolante anche per il lavoratore (Cass. 23 aprile 1998, n. 4205). Questi, peraltro, prima della ratifica può avvalersi, come ogni altro terzo contraente in caso di contratto stipulato da rappresentante senza potere, della facoltà di fissare un termine alla controparte, ai sensi dell’art. 1399 cod. civ. La ratifica ha effetto retroattivo; il terzo e colui che ha contrattato come rappresentante possono d’accordo scio-gliere il contratto prima della ratifica, impedendo così al rappresentato di esercitare il pote-re di ratifica.

Il contenuto dell’accordo può essere il più vario, tanto che è stato ritenuto (Cass. 7 aprile 1987, n. 3401) che la conciliazione, quando siano rispettate le norme processuali, ben può attuarsi anche mediante la ratifica di accordi collettivi stipulati dalle associazioni sindacali. Ciò che rileva è che il datore di lavoro ed il lavoratore definiscano in sede sindacale una con-tesa già in atto, ovvero anche una vertenza di natura potenziale in relazione a pretese non ancora esteriorizzate in specifiche istanze. In tale ipotesi, l’inoppugnabilità del relativo nego-zio transattivo, pure per la parte in cui contenga una rinuncia del lavoratore a propri diritti, secondo l’espressa previsione dell’art. 2113, ultimo comma, cod. civ., non richiede che il ver-bale contenga una specifica approvazione per iscritto della rinunzia, non ricorrendo ipotesi di applicabilità dell’art. 1341 cod. civ. Non è neppure necessario che lo stesso venga depositato e sottoposto al controllo del tribunale per essere reso esecutivo; né, infine, che i sindacalisti abbiano attivamente partecipato alla composizione della lite, ovvero si siano limitati a regi-strare l’accordo intervenuto direttamente fra le parti, dato che, in entrambe le ipotesi, la pre-senza e l’assistenza dei sindacalisti è idonea a sottrarre il lavoratore alla condizione di sogge-zione nei confronti del datore di lavoro.

La conciliazione in sede sindacale richiede l’intervento personale, anche se a mezzo di rappresentanti o mandatari, del lavoratore. Essa non è quindi identificabile né in un accordo tra le contrapposte parti sociali né in un’intesa a contenuto transattivo raggiunta tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali, poiché la legge fa riferimento agli accordi che i singoli lavoratori contraggono personalmente con l’assistenza del sindacato, e cioè ad atti negoziali in cui quest’ultimo non è agente contrattuale, bensì garante esterno della parità di posizione delle parti.

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30 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

VERBALE DI cONcILIAZIONE IN sEDE sINDAcALEIl giorno ....., in ....., alla via ....., presso la sede locale dell’associazione sindacale ....., avanti il/la sindacalista ....., che ricopre l’incarico di ....., sono comparsi:- il/la lavoratore/trice .....;- il datore di lavoro ....., con l’assistenza di ......Il datore di lavoro offre, al solo ed esclusivo fine conciliativo, la somma complessiva di euro ....., che la controparte accetta a totale e definitivo saldo, stralcio, transazione, tacitazione e rinuncia ad ogni e qualsiasi diritto relativo, dipendente o comunque connesso al rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti stesse dal ..... al ..... .La somma suindicata viene (ovvero: verrà) corrisposta con le seguenti modalità: ..... .Si dà atto che il presente verbale è redatto in conformità alle previsioni dell’art. .... c.c.n.l. .... del ....Letto, confermato e sottoscritto, anche ai fini di cui all’art. 411, ult. comma, cod. proc. civ.Firma del datore di lavoro.………………….... Firma del lavoratore…………………...Firma del sindacalista………………..…....

2.4 L’arbitrato previsto dai contratti collettivi

L’art. 31, commi 10 e 11, della legge 4 novembre 2010, n. 183, consente alle parti contrat-tuali di pattuire clausole compromissorie di cui all’art. 808 cod. proc. civ., ma solo se ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La norma riconduce le controversie individuali di lavoro nell’alveo della generale arbitra-bilità delle liti. La clausola compromissoria, a pena di nullità, deve essere certificata dalle Commissioni di certificazione istituite ai sensi dell’art. 76, D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, le quali accertano, all’atto della sottoscrizione della clausola compromissoria, l’effettiva volontà delle parti di devolvere ad arbitri le eventuali controversie nascenti dal rapporto di lavoro.

La clausola non può essere pattuita e sottoscritta prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, ovvero se non siano trascorsi almeno trenta giorni dalla data di stipula-zione del contratto di lavoro, in tutti gli altri casi; ciò è stabilito nel trasparente intento di ren-dere il lavoratore non condizionato nella scelta dal timore della perdita del posto di lavoro. La clausola compromissoria, peraltro, non può riguardare controversie relative alla risoluzio-ne del contratto di lavoro.

Davanti alle Commissioni di certificazione le parti possono farsi assistere da un legale di loro fiducia o da un rappresentante dell’organizzazione sindacale o professionale a cui abbia-no conferito mandato.

2.5 La conciliazione giudiziale

2.5.1 Il tentativo di conciliazione

L’art. 420 cod. proc. civ., nel disporre che le parti devono comparire personalmente

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Capitolo 2 - La conciliazione

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nell’udienza fissata per la discussione della causa, stabilisce che il giudice le interroghi li-beramente e tenti la conciliazione della lite. Se le parti si fanno rappresentare da un pro-curatore generale o speciale devono attribuirgli anche il potere di conciliare o transigere la controversia.

Non vi è motivo per non ritenere applicabile anche al processo del lavoro la norma dettata dall’art. 185 cod. proc. civ., in base alla quale la procura, che deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata, se viene rilasciata con scrittura privata può essere autenticata anche dal difensore della parte.

se le parti si conciliano, il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo. Se la conciliazione non riesce, il giudice apre l’istruttoria.

L’oggetto del negozio conciliativo non va individuato in relazione alle espressioni lette-rali usate dalle parti, non essendo necessaria una puntuale specificazione delle contrap-poste pretese, bensì in relazione all’oggettiva situazione di contrasto che le stesse abbia-no voluto comporre attraverso le reciproche concessioni, giacché la conciliazione giudiziale è destinata, per sua natura, analogamente alla sentenza, a coprire il dedotto e il deducibile. Ciò non significa, tuttavia, che la transazione stipulata in sede di conciliazio-ne giudiziale debba essere necessariamente limitata ai rapporti giuridici dedotti in giudi-zio, ben potendo riguardare anche rapporti ulteriori e diversi intercorrenti tra le stesse parti.

2.5.2 gli effetti della conciliazione

La conciliazione giudiziale, prevista in via generale dall’art. 185 cod. proc. civ., è una convenzione fra le parti che l’hanno conclusa, con la particolarità di essere consacrata in un processo verbale avente carattere documentale. Affinché si realizzi un›attività negozia-le è, perciò, necessario che dal verbale risulti l›incontro delle volontà delle parti, che uni-sce al carattere genericamente transattivo del suo contenuto sostanziale l’effetto proces-suale dell›impossibilità della prosecuzione del giudizio: l›accertamento del contenuto del negozio giuridico e della sua idoneità, o meno, a far cessare la contesa giudiziaria è riser-vato al giudice, senza che possa rilevare l›opinione delle parti, neppure se evidenziata nelle conclusioni da esse formulate, non potendosi certamente, nella materia, dare appli-cazione al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato istituito dall›art. 112 cod. proc. civ.

La conciliazione giudiziale, quindi, oltre a produrre gli effetti sostanziali del negozio giuri-dico che le parti vi hanno perfezionato, determina l›estinzione del processo, con conseguente ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo.

Il verbale costituisce titolo esecutivo ma non ha autorità di sentenza irrevocabile; non è, quindi, una sorta di decisione patteggiata della causa, sicché l’eccezione di intervenuta conci-liazione giudiziale non è in nulla assimilabile all’eccezione di cosa giudicata. Il che rende an-che possibile, per le parti, tranne che nell’ipotesi della transazione novativa, chiedere la riso-luzione per inadempimento, tutte le volte che dall’esame della loro intenzione risulti che la transazione sia compatibile con alcune delle obbligazioni oggetto del precedente rapporto, sicché l’obbligazione posteriore non sostituisca la precedente bensì ne produca o completi o regolamenti un qualche effetto.

La conciliazione ha efficacia vincolante solo per le parti processuali che l’hanno perfezio-nata, la quale non può in alcun modo, né direttamente né indirettamente, estendersi ai terzi. In particolare, non può certamente vincolare i soggetti titolari di interessi pubblici connessi al rapporto di lavoro, quali ad esempio gli enti previdenziali, che mantengono il potere di indagi-ne e di verifica del rapporto di lavoro dedotto nel processo estinto per intervenuta conciliazio-

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32 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

ne, senza alcun limite probatorio derivante da eventuali atti dispositivi o accertativi intercorsi fra le parti di quel processo.

Il verbale di conciliazione giudiziale, pur essendo titolo esecutivo idoneo all’esecuzione per le obbligazioni pecuniarie, all’esecuzione specifica ai sensi dell’art. 2932 cod. civ. e all’e-secuzione per consegna e rilascio, non legittima all’esecuzione forzata degli obblighi di fare e non fare, poiché l’art. 612 cod. proc. civ. menziona quale unico titolo valido per l’esecuzione la sentenza di condanna (dovendosi intendere estensivamente con tale espressione ogni provvedimento giudiziale di condanna), in considerazione dell’esigenza di un previo accerta-mento della fungibilità e, quindi, della coercibilità dell’obbligo di fare o di non fare (Cass. 13 gennaio 1997, n. 258).

2.5.3 La proposta del giudice

Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice non deve soltanto interrogare liberamente le parti presenti e tentare la conciliazione della lite, ma anche formulare alle stesse una proposta transattiva.

Il rifiuto della proposta del giudice, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile ai fini del giudizio.

VERBALE DI cONcILIAZIONE gIUDIZIALE

Tribunale di .....Sezione Lavoro

Verbale di ConciliazioneIn data ....., davanti al Tribunale di ....., Giudice dr. ....., è stata chiamata la causa promossa dal lavo-ratore ..... contro il datore di lavoro ....., n.r.g. ....., avente ad oggetto ..... .Sono presenti:- il/la ricorrente in persona, assistito dall’avv. .....;- il/la convenuto/a di persona, assistito/a dall’avv. ..... .Le parti, dopo ampie discussioni e chiarimenti, anche a seguito del tentativo di conciliazione esperi-to dal Giudice ai sensi dell’art. 420 cod. proc. civ., decidono di transigere la vertenza tra loro insorta, alle seguenti condizioni:Il datore di lavoro offre, al solo ed esclusivo fine conciliativo, la somma di euro ....., che il lavoratore accetta a saldo, stralcio, tacitazione e rinuncia ad ogni diritto relativo o comunque connesso al rapporto di lavoro. Le parti con la sottoscrizione del presente atto intendono non solo porre fine alla controversia oggetto del presente giudizio, ma altresì prevenire l’insorgere tra loro di qualsiasi altra lite futura, sicché di-chiarano di null’altro avere a pretendere reciprocamente a qualunque titolo, ragione o motivo.La somma viene corrisposta a mezzo ..... .Le spese legali si intendono interamente compensate tra le parti ed i procuratori costituiti rinun-ciano ad avvalersi del vincolo di solidarietà professionale di cui all’art. 68 della legge professionale forense.Letto, confermato e sottoscritto.Firma del lavoratore.....Firma del datore di lavoro.....

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Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

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2.6 Il processo verbale di conciliazione

2.6.1 L’efficacia esecutiva della conciliazione giudiziale

Gli effetti esecutivi attribuiti al verbale di conciliazione vanno assimilati a quelli di un titolo esecutivo di natura contrattuale, quali sono gli atti individuati dall’art. 474, n. 3, cod. proc. civ., con le relative conseguenze:

− il credito per cui si agisce deve essere certo, liquido ed esigibile, sicché l’atto deve contenere l’indica-zione degli elementi strutturali dell’obbligazione indispensabili in relazione alla funzione esecutiva;

− la situazione giuridica istituita in favore di un soggetto deve emergere esattamente e compiuta-mente dall’atto, nel suo contenuto e nei suoi limiti, in modo da risultarne determinato e delimita-to anche il contenuto del titolo;

− l’atto negoziale consacrato dal verbale di conciliazione è soggetto alle ordinarie sanzioni di nul-lità e annullabilità;

− è necessario che la validità e l›efficacia del titolo permangano durante tutto il corso della fase esecutiva, dal momento dell›intimazione del precetto fino all›esaurimento della procedura ese-cutiva, poiché la sua sopravvenuta caducazione comporta l›illegittimità dell›esecuzione.

Il tutto alla luce del generale principio secondo cui, ai fini dell›esecuzione, il diritto deve ritenersi certo non soltanto quando il suo contenuto sia precisamente determinato, ma pure quando sia facilmente determinabile dagli elementi indicati nell›atto che lo costituisce.

2.6.2 L’efficacia esecutiva della conciliazione stragiudiziale

Il processo verbale della conciliazione amministrativa, ai sensi dell’art. 411 cod. proc. civ., deve essere sottoscritto dalle parti e dal presidente del Collegio che ha esperito il tentativo, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrive-re. Va quindi depositato, a cura delle parti o dell’Ufficio, nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato formato.

Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione territoriale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accertatane l’autenti-cità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato re-datto. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione in sede amministrativa o sindacale, lo dichiara esecutivo con decreto.

Le formalità necessarie per attribuire efficacia esecutiva alle conciliazioni raggiunte in sede stragiudiziale non sono richieste, tuttavia, per rendere inoppugnabili, ai sensi dell’art. 2113 cod. civ., le rinunce e le transazioni in esse contenute, perseguendo finalità diverse ed ulteriori (garanzia dell’autenticità e dell’esecutività dell’accordo) rispetto a quella di assicura-re che la conciliazione corrisponda alla libera e genuina volontà del lavoratore.

Il fatto estintivo costituito dall’esistenza di una conciliazione tra le parti integra un’eccezio-ne in senso lato, ma la relativa circostanza, per essere presa in esame dal giudice, deve esse-re tempestivamente dedotta dalla parte nel rispetto dei tempi processuali fissati dalla legge e, quindi, nella prima difesa utile rispetto al momento in cui la conciliazione è venuta ad esisten-za (Cass. 12 febbraio 2008, n. 3322).

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34 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

2.7 La conciliazione monocratica

2.7.1 La conciliazione preventiva

Il D.Lgs. 23 aprile 2004, n. 124, di razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e del lavoro, attribuisce al Ministero del lavoro, nel rispetto delle compe-tenze affidate alle Regioni ed alle Province autonome:

− delle iniziative di contrasto del lavoro sommerso; − delle iniziative di contrasto del lavoro irregolare; − della vigilanza in materia di rapporti di lavoro; − della vigilanza in materia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.

Le funzioni di vigilanza sono svolte anche dal personale ispettivo in forza presso le dire-zioni territoriali del lavoro. Nelle ipotesi di richieste di intervento ispettivo di tale personale, dalle quali emergano elementi per una soluzione conciliativa della controversia, la direzione può, mediante un proprio funzionario, anche (ma, dunque, non esclusivamente) con qualifica ispettiva, avviare il tentativo di conciliazione sulle questioni segnalate, nel quali le parti pos-sono farsi assistere pure da associazioni o organizzazioni sindacali ovvero da professionisti cui abbiano conferito specifico mandato.

In caso di accordo, al verbale non trovano applicazione le disposizioni dell’art. 2113 cod. civ. sull’invalidità e sull’impugnabilità delle rinunzie e delle transazioni, come già è per le conciliazioni giudiziali, nonché per quelle raggiunte in sede sindacale o avanti alle apposite Commissioni istituite presso le direzioni territoriali del lavoro.

se le parti raggiungono un accordo, il verbale di conciliazione acquisisce piena efficacia, con effetto immediato rispetto al procedimento ispettivo, che si estingue se e quando il da-tore di lavoro provvede materialmente, nel termine stabilito nel verbale di accordo:

− al pagamento integrale delle somme dovute al lavoratore; − al versamento totale dei contributi dovuti. − Al fine di verificare l’avvenuto versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, le direzioni provinciali del lavoro trasmettono agli enti previdenziali interessati la relativa documentazione.

− Nell’ipotesi di mancato accordo, ovvero di assenza di una o di entrambe le parti convocate, atte-stata da apposito verbale, la direzione del lavoro dà seguito agli accertamenti ispettivi.

− Dall’analisi del testo normativo si trae la conclusione che, a fronte di una richiesta di intervento ispettivo proveniente da lavoratori, dalle organizzazioni sindacali o da enti ed uffici pubblici, i presupposti perché possa promuoversi il procedimento di conciliazione monocratica preventiva sono i seguenti:

− non deve già essere rilevata la sussistenza di profili di rilevanza penale; − le questioni che rilevano devono essere attinenti a diritti patrimoniali del lavoratore; − la richiesta di intervento non deve contenere elementi oggettivi e certi, atti a dimostrare la sus-sistenza di illeciti amministrativi.

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Capitolo 2 - La conciliazione

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Vi è, tuttavia, chi ritiene invece implicitamente ammesso il ricorso alla conciliazione mono-cratica anche in presenza di fatti illeciti, quanto meno sotto il profilo amministrativo: il verbale di conciliazione determinerebbe, allora, non solo l’estinzione del procedimento ispettivo, ma anche delle sanzioni amministrative applicabili.

2.7.2 La conciliazione contestuale

Una procedura conciliativa analoga può essere introdotta nel corso dell’attività di vigi-lanza, qualora l’ispettore ritenga che ricorrano le condizioni per una soluzione conciliativa della controversia.

In tale caso, acquisito il consenso delle parti interessate, l’ispettore informa con apposita relazione la direzione territoriale del lavoro, ai fini dell’attivazione della procedura di concilia-zione monocratica. Per la conciliazione contestuale, le cui condizioni maturano dunque nel corso stesso dell’ispezione, oltre ai presupposti richiesti per l’avvio della conciliazione mono-cratica preventiva, occorre che sia acquisito il consenso di entrambe le parti (datore di lavoro e lavoratore) all’espletamento della procedura conciliativa.

La convocazione delle parti interrompe, fino alla conclusione del procedimento, i termini di notifica degli estremi delle violazioni fissati dall’art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (90 giorni dall’accertamento, elevati a 360 se gli interessati risiedono all’estero).

2.7.3 La diffida accertativa

Si tratta di un istituto introdotto dall’art. 12, D.Lgs. n. 124/2004, anch’esso collegato alla conciliazione della controversia.

Qualora nell’ambito dell’attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina con-trattuale, da cui scaturiscano crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il persona-le ispettivo deve, infatti, diffidare il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti.

Entro 30 giorni dalla notifica della diffida accertativa, tuttavia, il datore di lavoro può pro-muovere il tentativo di conciliazione presso la direzione territoriale del lavoro.

In caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di dif-fida perde efficacia e, per il verbale medesimo, non trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 2113 cod. civ. sull’invalidità e sull’impugnabilità delle transazioni e delle rinunzie in materia di lavoro. Decorso inutilmente il termine di 30 giorni, o in caso di mancato raggiungi-mento dell’accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida acquista, con provvedimento del direttore della direzione provinciale del lavoro, valore di accertamento tec-nico, con efficacia di titolo esecutivo.

2.8 gli arbitrati

2.8.1 L’arbitrato in sede amministrativa

L’art. 412 cod. proc. civ. prevede che in qualunque fase del tentativo di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo,

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36 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore. Ma possono accordarsi per la risolu-zione della lite, affidando alla Commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbi-trale la controversia.

Nel conferire il mandato per la risoluzione arbitrale della controversia, le parti devono in-dicare: 1) il termine per l’emanazione del lodo, che non può comunque superare i sessanta giorni dal conferimento del mandato, spirato il quale l’incarico deve intendersi revocato; 2) le norme invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese e l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento e dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato, sottoscritto dagli arbitri e autenticato, produ-ce tra le parti gli effetti tipici del contratto e rende inoppugnabile il contenuto dispositivo dei diritti individuali al pari della conciliazione. È impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter cod. proc. civ., come ogni arbitrato irrituale e, quindi, è annullabile, considerato che gli arbitri sono gli stessi membri della Commissione:

− se gli arbitri hanno pronunciato su conclusioni che esorbitano dai limiti contenuti nell’oggetto della controversia, quale individuato negli scritti delle parti, e la relativa eccezione è stata solle-vata nel procedimento arbitrale;

− se gli arbitri non si sono attenuti alle regole eventualmente imposte dalle parti come condizione di validità del lodo;

− se non è stato osservato nel procedimento arbitrale il principio del contraddittorio − In buona sostanza, il lodo è impugnabile soltanto per vizi del negozio e non per nullità (Cass. 1° febbraio 2007, n. 2213).

Sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale irrituale decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitra-to. Il ricorso deve essere depositato entro il termine di 30a giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la deci-sione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella can-celleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto.

2.8.2 L’arbitrato in sede sindacale

L’arbitrato, nelle materie di lavoro, può essere svolto anche presso le sedi e con le moda-lità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rap-presentative, come stabilito dall’art. 412-ter cod. proc. civ.

Al lodo arbitrale si applicano le stesse regole che disciplinano il lodo della Commissione di conciliazione costituita presso la Direzione territoriale del lavoro, con applicabilità integrale dell’art. 808-ter, sicché, alle cause di annullabilità ipotizzabili per quel lodo vanno aggiunte:

− l’invalidità della convenzione dell’arbitrato; − la nomina degli arbitri non effettuata con le forme e nei modi stabiliti dalla convenzione arbitrale; − la pronuncia del lodo da parte di chi non poteva essere nominato arbitro perché privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire.

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Capitolo 2 - La conciliazione

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2.8.3 L’arbitrato istituito dalle parti

L’art. 412-quater cod. proc. civ., anch’esso novellato dalla legge n. 183/2010, consente alle parti, ferma restando la facoltà di ciascuna di adire l’autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge, di proporre le controversie di lavoro innanzi ad un Collegio di conciliazione e arbitrato irrituale, composto da un rappresen-tante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione.

La parte che intende ricorrere al Collegio deve notificare all’altra parte un ricorso sotto-scritto personalmente o da un suo rappresentante al quale abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. Il ricorso deve:

− contenere la nomina dell’arbitro di parte; − indicare l’oggetto della domanda; − indicare le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda la domanda; − indicare i mezzi di prova; − determinare il valore della controversia entro il quale si intende limitare la domanda; − contenere il riferimento alle norme invocate a sostegno della pretesa; − contenere l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei princìpi generali dell’ordinamento e dei princìpi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari.

Se la parte convenuta intende accettare la procedura di conciliazione e arbitrato nomina il proprio arbitro di parte, il quale entro 30 giorni dalla notifica del ricorso procede, ove possibile, concordemente con l’altro arbitro, alla scelta del presidente e della sede del Collegio. Ove ciò non avvenga, la parte che ha presentato ricorso può chiedere che la nomina sia fatta dal presi-dente del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato. Se le parti non hanno ancora determinato la sede, il ricorso è presentato al presidente del tribunale del luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro oppure ove si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il la-voratore o presso la quale egli prestava la sua opera al momento della fine del rapporto.

In caso di scelta concorde del terzo arbitro e della sede del Collegio, la parte convenuta, entro 30 giorni da tale scelta, deve depositare presso la sede del Collegio una memoria difen-siva sottoscritta da un avvocato cui abbia conferito mandato e presso il quale deve eleggere il domicilio. La memoria difensiva deve contenere:

− le difese e le eccezioni in fatto e in diritto; − le eventuali domande in via riconvenzionale; − l’indicazione dei mezzi di prova.

Entro 10i giorni dal deposito della memoria difensiva il ricorrente può depositare presso la sede del Collegio una memoria di replica, senza modificare il contenuto del ricorso. Nei suc-cessivi 10 giorni il convenuto può depositare presso la sede del Collegio una controreplica, senza modificare il contenuto della memoria difensiva.

Il Collegio fissa il giorno dell’udienza, da tenere entro 30 giorni dalla scadenza del termine per la controreplica del convenuto, dandone comunicazione alle parti, nel domicilio eletto, almeno 10 giorni prima. All’udienza il Collegio esperisce il tentativo di conciliazione.

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38 Capitolo 2 - La conciliazione

Processo del lavoro

Se la conciliazione riesce, si forma processo verbale, che deve essere sottoscritto dalle parti e dal presidente del Collegio che ha esperito il tentativo, il quale certifica l’autografia della sottoscrizione delle parti o la loro impossibilità di sottoscrivere. Il processo verbale di avvenuta conciliazione è depositato presso la Direzione territoriale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Il direttore, o un suo delegato, accer-tatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscri-zione è stato redatto. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.

Se la conciliazione non riesce, il Collegio provvede, ove occorra, ad interrogare le parti e ad ammettere e assumere le prove, altrimenti invita all’immediata discussione orale. Nel caso di ammissione delle prove, il Collegio può rinviare ad altra udienza, a non più di 10 giorni di di-stanza, l’assunzione delle stesse e la discussione orale. La controversia è decisa, entro 20 giorni dall’udienza di discussione, mediante un lodo che, sottoscritto dagli arbitri e autentica-to, produce tra le parti gli effetti tipici del contratto e rende inoppugnabile il contenuto dispo-sitivo dei diritti individuali al pari della conciliazione.

Il lodo è impugnabile ai sensi dell’articolo 808-ter cod. proc. civ.; sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo decide in unico grado il tribunale, in funzione di giudice del lavo-ro, nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il ricorso va depositato entro il termine di 30 giorni dalla notificazione del lodo. Decorso tale termine, o se le parti hanno comunque di-chiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale, ovvero se il ricorso è stato respinto dal tribunale, il lodo è depositato nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto.

2.8.4 L’arbitrato nelle sedi di certificazione

L’art. 31, co. 11, della legge n. 183/2010 consente anche alle Commissioni di certificazione di istituire Camere arbitrali per la definizione, con arbitrato irrituale, delle controversie nelle materie di lavoro pubblico e privato; queste Commissioni possono pure concludere conven-zioni con le quali prevedano la costituzione di Camere arbitrali unitarie.

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Processo del lavoro

Capitolo 3

LA cOsTITUZIONE DELL’ATTORE

3.1 gli elementi del ricorso

L’art. 414 cod. proc. civ. individua nel ricorso la forma della domanda giudiziale; esso deve contenere:

− l’indicazione del giudice; − il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente nel Comune in cui ha sede il giudice adito;

− il nome, il cognome e la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto (se ricorrente o con-venuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto);

− la determinazione dell’oggetto della domanda («petitum»); − l’esposizione dei fatti sui quali si fonda la domanda; − l’esposizione degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda («causa petendi»); − le conclusioni; − l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e, in particolare, dei documenti che si offrono in comunicazione.

IL cONTENUTO DEL RIcORsOElementi essenziali Indicazioni specifiche Omissioni che determinano

la nullità dell’attoIndicazionedel giudice

Occorre individuare con chiarezza il giudice competente per grado di giudizio e per territorio

Nel rito del lavoro l’omessa indica-zione del giudice non determina la nullità dell’atto, dal momento che il giudizio viene introdotto con il depo-sito del ricorso nella cancelleria del giudice e con la successiva notifica al convenuto dello stesso unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, non sussistendo pertanto la possibilità di incertezza nell’individuazione del giu-dice adito

Generalitàdel ricorrente

Se il ricorrente è una persona fisica, occorre indicare nome e cognome; se è una persona giuri-dica, ovvero associazione o comi-tato, la denominazione o ditta

L’impossibilità di identificare il ri-corrente, dal contenuto complessivo dell’atto, rende nullo il ricorso

– continua –

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40 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

- segue -

Residenzao domiciliodel ricorrente

Se il ricorrente è una persona giuridica, occorre indicare la sede

La mancata indicazione della residen-za delle parti produce la nullità del ricorso solo se ciò determini l’impos-sibilità di identificare con certezza la parte

Generalitàdel convenuto

Se il convenuto è una persona fisica, occorre indicare nome e cognome; se è una persona giuri-dica, ovvero associazione o comi-tato, la denominazione o ditta

l’impossibilità di identificare il con-venuto, dal contenuto complessivo dell’atto o dalla notifica dello stesso, rende nullo il ricorso

Residenza, domicilio o dimoradel convenuto

Se il convenuto è una persona giuridica, occorre indicare la sede

La mancata indicazione della residen-za delle parti produce la nullità del ricorso solo se ciò determini l’impos-sibilità di identificare con certezza la parte

Petitum Occorre individuare sia il bene oggetto della domanda («petitum mediato») sia il provvedimento che si richiede al giudice («peti-tum immediato»)

L’omessa indicazione del petitum ren-de nullo il ricorso; tuttavia, ciò accade soltanto allorché ne sia impossibile l’individuazione attraverso l’esame complessivo dell’atto

Causapetendi

Occorre individuare l’insieme de-gli elementi di fatto e di diritto po-sti a sostegno della domanda

L’omessa indicazione delle ragioni di fatto poste a sostegno della domanda rende nullo il ricorso, purché le stes-se non siano desumibili dall’esame complessivo dell’atto; ciò non accade per le ragioni di diritto, dal momento che, secondo il tradizionale principio «iura novit curia», il giudice ha il do-vere di conoscere le norme

Indicazionedei mezzi di prova

Occorre indicare i documenti e gli altre mezzi di prova di cui ci s’in-tende avvalere, i quali possono essere integrati, secondo il prin-cipio del contraddittorio, sulla base delle difese di controparte, ancora non conoscibili dal ricor-rente al momento dell’introduzio-ne del giudizio

L’omessa indicazione dei mezzi di prova non determina la nullità del ri-corso, ma l’inutilizzabilità delle prove e dei documenti tardivamente offer-ti, il che costituisce sanzione ben più grave per il ricorrente, potendo ciò comportare il rigetto della domanda nel merito e, quindi, l’impossibilità di riproporre il giudizio. La preclusione, tuttavia, non opera, allorché l’indica-zione dei mezzi di prova sia da ricolle-gare alle difese di controparte oppure a fatti sopravvenuti

Sottoscrizionedel procuratore

Il ricorso, anche se l’art. 414 c.p.c. non lo prevede espressamente, dev’essere sottoscritto da procu-ratore munito di apposita procura

Il ricorso privo della sottoscrizione del procuratore è un atto inesistente e, in quanto tale, non è sanabile né dalla rinnovazione dell’atto né dalla costi-tuzione del convenuto

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

41

3.2 L’oggetto della domanda

3.2.1 L’interpretazione del ricorso

L’oggetto della domanda è quel che si chiede al giudice; il difetto di determinazione rende nullo l’atto introduttivo del processo, in quanto, come prevede l’art. 156, co. 2, cod. proc. civ., il ricorso mancherebbe di un requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello sco-po, vale a dire la decisione, che deve corrispondere a quanto chiesto dalla parte, in applicazio-ne del principio generale istituito dall’art. 112 cod. proc. civ.

Nel processo civile ordinario, del resto, la nullità dell’atto introduttivo del processo per omissione della determinazione della cosa oggetto della domanda, o per la sua incertezza, è espressamente comminata dall’art. 164, co. 4, del codice di rito.

Per aversi nullità del ricorso, tuttavia, occorre non solo che l’oggetto della domanda, il «petitum », sia del tutto omesso o assolutamente incerto, ma pure che non sia possibile determinarlo attraverso l’esame dell’atto introduttivo del giudizio, che va interpretato sem-pre nel suo complesso, al fine di verificare la presenza di tutti gli elementi della domanda che siano prescritti a pena di nullità (Cass. 16 gennaio 2007, n. 820; Cass. 23 marzo 2004, n. 5794).

Il principio della libertà di forma degli atti di parte nel processo civile, infatti, non consente di tenere distinte, ai fini della concreta individuazione delle richieste sottoposte al giudice, le diverse parti degli scritti difensivi; ne impone, anzi, l’esame complessivo, ben potendo essere contenute nella parte espositiva richieste conclusive ovvero argomentazioni difensive tra le conclusioni, sempreché la forma espositiva e letterale adottata non sia tale da rendere del tutto equivoca l’interpretazione degli scritti.

L’onere di determinazione dell’oggetto della domanda, ad esempio, deve ritenersi assolto, con riguardo alla richiesta di pagamento di spettanze retributive, quando il ricorrente indichi i relativi titoli, ponendo così il convenuto in condizione di formulare immediatamente ed esau-rientemente le proprie difese; resta irrilevante la mancanza di un’originaria quantificazione monetaria delle pretese, anche in considerazione della facoltà dell’attore di modificarne l’am-montare in corso di causa, nonché dei poteri spettanti al giudice, pure in ordine all’individua-zione dei criteri in base ai quali effettuare la liquidazione dei crediti fatti valere (Cass. 20 mar-zo 2004, n. 5649).

Nullitàdel ricorso

Impossibilità di identificare le parti, sia persone fisiche che giuridiche, dal contenuto complessivo del ricorso

Mancanza della sottoscrizione del procuratore

Mancanza della procura

Impossibilità di individuare, dal contenuto complessivo del ricorso, l’oggetto della do-manda ed il provvedimento richiesto al giudice

Impossibilità di individuare, dal contenuto complessivo del ricorso, le ragioni di fatto poste a fondamento della domanda

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42 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

3.2.2 Le modificazioni della domanda

L’esigenza di determinare l’oggetto della domanda fin dall’atto introduttivo del giudizio assume un rilievo particolare nel processo del lavoro, rispetto al processo civile ordinario, in cui l’art. 183, co. 5, cod. proc. civ. consente alle parti di chiedere al giudice la fissazione di un termine per il deposito di memorie contenenti anche modificazioni delle domande e delle conclusioni già proposte negli atti introduttivi. Nel rito del lavoro, invece, il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio di primo grado è funzionale alle esigenze di celerità del procedimento, le quali impongono che l’oggetto del contendere sia fissato già negli atti introduttivi; tali esigenze travalicano quelle di tutela dell’interesse eventualmente contrario delle parti, con la conseguenza che la tardività della nuova domanda non può es-sere sanata neppure dall’accettazione del contraddittorio ad opera della controparte, tenuto anche conto che, in ogni caso, la semplice modificazione della domanda originaria è subor-dinata, dall’art. 420, co. 1, cod. proc. civ., al ricorrere di gravi motivi ed alla correlativa auto-rizzazione del giudice (la cui implicita concessione non è desumibile dal solo fatto che in ordine a tale modificazione non sia intervenuta esplicita e tempestiva opposizione dell’inte-ressato).

Di più: le modifiche della domanda, consentite in tale ipotesi eccezionale, possono consi-stere soltanto in una semplice «emendatio libelli», e non anche nella «mutatio» della domanda (Cass. 14 aprile 2001, n. 5591), perché in ogni caso resta fermo il divieto della proposizione di nuove domande successivamente al deposito del ricorso. Al riguardo va precisato che si ha «mutatio libelli» quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un «petitum» diverso e più ampio oppure una «causa petendi» fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga un nuovo tema di indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice «emendatio» quando si incida sulla «causa petendi», sicché risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul «petitum», nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere.

Da siffatti princìpi deriva che nel rito del lavoro, a prescindere dalla fattispecie della ripro-posizione della stessa causa, che dà luogo alla litispendenza o alla riunione delle cause o alla sospensione del giudizio successivamente proposto, sussiste una preclusione a proporre nel corso del giudizio una domanda subordinata connessa, senza autorizzazione del giudice e sen-za che ricorrano giustificati motivi; tale preclusione, peraltro, è interna al singolo giudizio e non si comunica ad altro successivo processo, avente ad oggetto la domanda subordinata, neppure nell›ipotesi in cui le due cause siano poi riunite, ferma restando la possibilità per il giudice adito di valutare, al fine del regolamento delle spese processuali, il comportamento processuale della parte attrice che abbia proposto due cause con due ricorsi, anziché un solo ricorso contenente il tema della decisione di entrambe le cause in forma di domanda principa-le e di domanda subordinata (Cass. 10 gennaio 2005, n. 270).

Il divieto di proporre domande nuove nel corso del giudizio di primo grado ovviamente non preclude alla parte che abbia già proposto, con un primo ricorso, determinate doman-de, di proporne ulteriori, nei confronti del medesimo convenuto, con un nuovo e separato ricorso. Questo nuovo ricorso il quale deve ritenersi completo con l’indicazione, a sostegno delle suddette ulteriori domande, di documenti già prodotti nel precedente giudizio di cui sia chiesta la riunione al secondo per ragioni di economia processuale (Cass. 1° dicembre 2010, n. 24339).

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

43

3.2.3 L’ammissibilità della domanda

Il diverso rigore tra processo ordinario e processo del lavoro è rivelato pure dalla differente terminologia adottata nell’art. 414, n. 3, cod. proc. civ. («determinazione dell’oggetto della domanda») e nel precedente art. 163, n. 3 («determinazione della cosa oggetto della doman-da»), ed ha suscitato non poche disquisizioni sull’ammissibilità di domande giudiziali in rela-zione alla loro determinatezza o determinabilità.

Domandedi accertamento

Devono ritenersi ammissibili le azioni di accertamento, purché nel ricorso siano individuabili sia gli elementi di diritto che i presupposti di fatto su cui la domanda si fonda e l’attore offra di provare la ricorrenza, in concreto, dei presupposti che assicurano la sussistenza del suo interesse ad agire, per la quale è sufficiente l’incertezza oggettiva in ordine ad un diritto, mentre non è necessaria la sua attuale lesione. Al riguardo si rileva che pressoché tutte le sentenze che decidono il merito di una causa contengono anche un accertamento intorno al rapporto giuridico dedotto in giudizio, dal momen-to che questa è la premessa di qualsiasi altro provvedimento (di condanna o costitutivo); la caratteristica dell’azione di accertamento è di tendere ad una sentenza di “mero accertamento”, che ha cioè la specifica funzione e l’unico scopo di accertare quale sia la situazione giuridica esistente fra le parti; l’azione di condanna, se pur presuppone l’accertamento del diritto in capo all’attore ed il suo insoddisfacimento, è peraltro finalizzata ad ottenere una pronuncia che, oltre ad accertare il rapporto controverso, condanni il debitore all’adempimento (Cass. 3 luglio 2009, n. 15687).

Domandedi condannagenerica

Anche nel processo del lavoro la possibilità di una sentenza di condanna generica non deve intendersi ristretta nei limiti fissati dagli artt. 278 e 279, n. 4, cod. proc. civ. (sentenza non definitiva con rinvio della liquidazione del dovuto alla prosecuzione del giudizio); nessuna disposizione impedi-sce, infatti, che la domanda sia limitata fin dall’inizio, o anche a seguito di consentita modificazione, all’ottenimento di una pronuncia sulla sus-sistenza del diritto, con conseguente rinvio dell’eventuale decisione sulla liquidazione della prestazione ad un diverso e separato giudizio.

Domandedi condannaal pagamentodi sommeindeterminate

La domanda di condanna al pagamento di crediti nascenti dal rapporto di la-voro non deve necessariamente risolversi nell’indicazione numerica della somma pretesa, giacché l’esigenza della determinazione del suo oggetto è soddisfatta anche dall’esauriente esposizione dei dati di riferimento per la quantificazione della pretesa, sicché si possa pervenire a quest’ultima mediante un semplice calcolo aritmetico, sulla base della formulazione di quanto necessario per tale operazione. La nullità del ricorso introdut-tivo per mancata determinazione dell’oggetto della domanda va, quindi, esclusa nel caso in cui, pur non essendo precisato l’importo della somma pretesa, questo sia aritmeticamente determinabile, contenendo il ricorso tutti i necessari elementi di calcolo.

Domande di condanna al pagamento carenti dei dati di calcolo

È stata esclusa (Cass. 9 febbraio 1989, n. 818) la nullità del ricorso del lavoratore che, alla luce della disciplina collettiva di cui lamentava l’i-nosservanza ovvero del principio costituzionale di proporzionalità e suffi-cienza della retribuzione, aveva lamentato l’insufficienza del trattamento

– continua –

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44 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

- segue -

Domandedi condannaal pagamentocarenti dei datidi calcolo

retributivo corrispostogli, indicando in un importo determinato quanto complessivamente dovutogli, ma omettendo l’esposizione del conteggio conducente all’indicazione di quel totale; è stato, infatti, ritenuto che il conteggio fosse deducibile nel corso del giudizio, ovvero determinabile alla stregua della contrattazione collettiva e delle relative tabelle retri-butive invocate nello stesso. atto ovvero, ancora, ricostruibile dal giudice, eventualmente con l’assistenza di un consulente tecnico.

Domandedi accertamentodel dirittoalla qualifica

La domanda di attribuzione, in ragione delle mansioni svolte, di una de-terminata qualifica, superiore a quella riconosciuta dal datore di lavoro, include sempre, per necessità logica, quella di qualsiasi qualificazione mi-gliorativa intermedia che viene, per ciò stesso, a risultare virtualmente proposta e suscettibile di accoglimento, senza violazione degli artt. 112 e 414 cod. proc. civ.

RIcORsO IN MATERIA DI DIFFERENZE RETRIBUTIVE

Tribunale di .....Sezione LavoroRicorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c.per....., codice fiscale ....., elettivamente domiciliato/a in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta in forza di procura a margine del (ovvero: in calce al) presente attoparte ricorrentecontro....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore) domiciliato/a (ovvero: con sede) in ....., via .....parte convenutapremesso1. che il/la ricorrente ....., ha prestato servizio dal ..... al ....., alle dipendenze di ..... in qualità di

.....;2. che il/la ricorrente ha svolto le seguenti mansioni: ..... e, come tale, anche considerata l’an-

zianità di lavoro, doveva essere inquadrato nella ..... categoria, come previsto dal c.c.n.l. di settore;

3. che al/alla ricorrente veniva corrisposta una retribuzione mensile (eventuale oraria, settima-nale) di euro ..... (eventuale inferiore a quella minima prevista dal c.c.n.l. di settore);

4. che il/la ricorrente ha osservato il seguente orario di lavoro: .....;5. che il/la ricorrente non ha goduto (eventuale: ha goduto di soli ..... giorni) di ferie;6. che le ferie non godute non sono state retribuite nella misura dovuta;7. che le prestazioni di lavoro straordinario non sono state retribuite con la dovuta maggiora-

zione del .....%;8. che il/la ricorrente ha prestato servizio nelle seguenti festività nazionali ed infrasettimanali:

.....;9. che le prestazioni di lavoro effettuate nei giorni festivi non sono state retribuite con la dovuta

maggiorazione del ..... %;10. che al/alla ricorrente non è stata corrisposta la tredicesima mensilità per i seguenti anni: .....;11. che le parti davano applicazione al c.c.n.l. di settore;12. che il/la ricorrente non ha percepito il trattamento di fine rapporto nella misura dovuta;13. che il/la ricorrente, in relazione alla cessazione del rapporto, non ha ricevuto alcuna spettanza

liquidatoria (eventuale: ha percepito la somma di euro ....., che viene detratta dal “petitum”);14. che il trattamento retributivo globalmente fruito dal/la ricorrente è comunque insufficiente ai

sensi degli artt. 36 Cost. e 2099 cod. civ.

– continua –

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

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- segue -

15. che il/la ricorrente è pertanto creditore della somma di euro ....., in base al conteggio che si produce in giudizio e si compiega al presente ricorso a formarne parte integrante; tutto ciò ritenuto e premesso, a mezzo dell’esponente difesa,

ricorre all’Ecc.mo Tribunale perché, previa fissazione dell’udienza di discussione ed emanazione dei provvedimenti di cui all’art. 415 cod. proc. civ., voglia accogliere le seguenti

conclusioniPiaccia all’Ecc.mo Tribunale, ogni contraria istanza disattesa ed eccezione reietta, accogliere il presente ricorso e, conseguentemente, condannare ..... al pagamento in favore di ..... della somma di euro ..... o di quella maggiore o minore somma che risulterà dovuta in corso di causa, anche in relazione al combinato disposto degli articoli 36 cost. e 2099 c.c., liquidando la somma dovuta alla parte ricorrente, se del caso con valutazione equitativa.Con la rivalutazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 c.p.c. e 150 disp. att. c.p.c., con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli crediti accolti; oltre agli interessi legali maturati e maturandi sulle somme via via rivalutate.Vittoria di spese ed onorari, oltre i.v.a. e c.p.a., (eventuale da distrarre in favore dell’avv. ..... anti-statario) e sentenza provvisoriamente esecutiva.Si chiede l’ammissione di interrogatorio formale della controparte e prova testimoniale sui ca-pitoli ..... del seguente atto: ....., oltre alla prova testimoniale contraria a quella formulata dalla parte avversa, nei limiti in cui essa verrà ammessa.Si indicano a testimoni: ......Si formulano le seguenti ulteriori istanze istruttorie: ......Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile comples-sivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.si producono i seguenti documenti: ......Luogo e data: .....

Avv. …....

RIcORsO IN MATERIA DI DIRITTO ALLA QUALIFIcA

Tribunale di ....Sezione LavoroRicorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c.per....., codice fiscale ...., elettivamente domiciliato/a in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta in forza di procura a margine del (ovvero: in calce al) presente attoparte ricorrentecontro....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore) domiciliato/a (ovvero: con sede) in ....., via .....parte convenuta1. che al/la ricorrente sono state affidate mansioni superiori per i seguenti periodi ....., quindi

per un ammontare complessivo di mesi ..... e giorni .....;

– continua –

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46 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

- segue -

2. che lo svolgimento di mansioni superiori non è avvenuto per sostituzione temporanea di di-pendenti assenti con diritto alla conservazione del posto;

3. che il vigente c.c.n.l. prevede che il ricorrente ha diritto all’inquadramento nella qualifica di ..... dopo aver espletato le mansioni superiori per un numero di giorni superiore a .....;

4. che il vigente c.c.n.l. prevede per la qualifica di ..... il seguente trattamento retributivo: .....;5. che l’art. 2103 cod. civ. dispone che “nel caso di assegnazione a mansioni superiori, il pre-

statore di lavoro ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e l’assegnazione diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione di lavoratore as-sente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, comunque non superiore a tre mesi”;

tutto ciò ritenuto e premesso, a mezzo dell’esponente difesa,ricorreall’Ecc.mo Tribunale perché, previa fissazione dell’udienza di discussione ed emanazione dei provvedimenti di cui all’art. 415 cod. proc. civ., voglia accogliere le seguenticonclusioniPiaccia all’Ecc.mo Tribunale, ogni contraria istanza disattesa ed eccezione reietta, accogliere il presente ricorso e, conseguentemente:a) dichiarare il diritto del/la ricorrente alla qualifica di ..... e, conseguentemente, all’inquadra-mento nella categoria (ovvero: nel livello) ..... prevista dal c.c.n.l.;b) condannare ..... al pagamento in favore di ..... della somma di euro ..... o di quella maggiore o minore somma che risulterà dovuta in corso di causa, anche in relazione al combinato disposto degli articoli 36 cost. e 2099 c.c., liquidando la somma dovuta alla parte ricorrente, se del caso con valutazione equitativa.Con la rivalutazione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 c.p.c. e 150 disp. att. c.p.c., con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli crediti accolti; oltre agli interessi legali maturati e maturandi sulle somme via via rivalutate.Vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre i.v.a. e c.p.a., (eventuale da distrarre in favore dell’avv. ..... antistatario) e sentenza provvisoriamente esecutiva.Si chiede l’ammissione di interrogatorio formale della controparte e prova testimoniale sui ca-pitoli ..... del seguente atto: ....., oltre alla prova testimoniale contraria a quella formulata dalla parte avversa, nei limiti in cui essa verrà ammessa.Si indicano a testimoni: ......Si formulano le seguenti ulteriori istanze istruttorie: ......Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: Si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile comples-sivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.Si producono i seguenti documenti: ......Luogo e data: .....Avv..…...

3.2.4 La domanda di riassunzione della causa

Ci si è chiesti se il ricorso introduttivo del giudizio di riassunzione debba necessariamente contenere le sole domande individuate nell’atto introduttivo del processo riassunto, oppure se possa contenere nuove domande ovvero quelle stesse domande modificate.

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

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La giurisprudenza di legittimità (Cass. 24 maggio 1986, n. 3500) ha argomentato in passato che le ragioni di accelerazione del procedimento, nonché quelle di tutela delle esigenze del contraddittorio e di lealtà processuale, che sono alla base del divieto di proposizione di do-mande nuove nel procedimento di primo grado celebrato con il rito del lavoro, non sussisto-no quando il processo venga riassunto con un nuovo ricorso. In tale ipotesi, l’attore potrebbe addirittura aggiungere alla domanda originariamente proposta una domanda nuova e diversa, non implicando ciò alcun ritardo nel procedimento né alcuna violazione delle regole del con-traddittorio, avendo il convenuto la possibilità, con la memoria difensiva, di esperire tutte le sue difese. Il ricorso riassuntivo, in ordine alla domanda nuova, varrebbe tuttavia come atto introduttivo di un nuovo giudizio, senza che quindi, rispetto ad essa, si possa verificare la con-servazione degli effetti processuali e sostanziali conseguiti, rispetto alle altre domande, con l’originario ricorso. Siffatta tesi pare contrastata dalla giurisprudenza di legittimità più recen-te (Cass. 19 marzo 2008, n. 7392).

3.3 L’esposizione dei fatti di causa

3.3.1 La regola delle «carte in tavola»

L’art. 414, n. 4, cod. proc. civ. impone all’attore l’esposizione nel ricorso dei fatti sui qua-li si fonda la domanda. Il codificatore del processo del lavoro ha ideato un procedimento ce-lere e che non avrebbe dovuto consentire l’esasperazione del tatticismo forense: ha, perciò, imposto alle parti di precisare fin dalla costituzione in giudizio le rispettive posizioni, sia dal punto di vista fattuale che da quello giuridico, senza spazi per riserve mentali, «assi nella manica» o «effetti speciali» dell’ultima ora.

Spetta, ovviamente, al giudice valutare l’idoneità delle circostanze indicate dall’attore nell’atto introduttivo ad assolvere, sotto il profilo della specificità, l’onere di allegazione dei fatti costitutivi del diritto azionato, impostogli dall’art. 414 a pena di nullità del ricorso.

3.3.2 La specificità dei fatti

Le allegazioni dell’attore, peraltro, non perdono il requisito della specificità qualora risulti omessa l’esposizione di aspetti marginali o di dettaglio, che possono essere ricompresi nella complessiva formulazione di difese e richieste e specificati, poi, in sede di assunzione dei mezzi di prova (Cass. 17 giugno 2004, n. 11353; Cass. 17 novembre 1984, n. 5876).

I fatti su cui il ricorrente fonda le sue pretese devono essere, comunque, sufficientemente indicati, non potendo a tale obbligo supplire una produzione documentale, che presuppone sempre la preventiva estrinsecazione del fatto, vale a dire l’allegazione del fatto rappresenta-to dal documento prodotto (Cass. 3 gennaio 1995, n. 24).

3.4 L’esposizione degli elementi di diritto

L’art. 414, n. 4, cod. proc. civ. impone all’attore l’esposizione nel ricorso degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda. L’atto introduttivo del giudizio privo dell’indicazione delle ragioni in diritto della pretesa è inidoneo al raggiungimento delle sue finalità, che consistono

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Processo del lavoro

nell’assicurare la garanzia del diritto di difesa del convenuto e il rispetto dei principi di imme-diatezza e concentrazione del processo del lavoro; è, pertanto, affetto da nullità, cui consegue la pronuncia di inammissibilità del ricorso stesso. Ciò differenzia la posizione processuale dell’attore da quella del convenuto, in quanto la genericità delle difese di quest’ultimo si tra-duce, invece, in un giudizio di infondatezza delle eccezioni da lui proposte.

La verifica degli elementi essenziali del ricorso introduttivo costituisce questione preliminare rispetto alla decisione sul merito, cui inerisce anche la valutazione delle prove. Se, pertanto, il ricorso difetta dell’esposizione degli elementi di diritto, il giudice deve dichiararne la nullità pre-liminarmente, senza possibilità di passare all’esame del merito, neppure per respingere la do-manda perché non provata, anche se il convenuto costituendosi abbia accettato il contradditto-rio. Il ricorso, integrato degli elementi mancanti, potrà tuttavia essere riproposto.

QUEsTIONI PRELIMINARI

Punti controversi concernenti il rito, sollevati durante il processo, e dalla cui risoluzione può deri-vare la conclusione anticipata del giudizio senza pervenire alla pronuncia di merito. Si distinguono dalle questioni pregiudiziali, che attengono invece al merito della causa, riguardando antecedenti logici della domanda, la cui risoluzione è indispensabile per decidere sulla stessa.

Per aversi nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado per mancata determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elemen-ti di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda stessa, non è sufficiente l’omessa indicazione dei corrispondenti elementi in modo formale, essendo, invece, necessario che ne sia impossibile l’individuazione attraverso l’esame complessivo dell’atto, che può essere compiuto d’ufficio (Cass. 11 marzo 2002, n. 3463). Tale rego-la è attuazione del principio del raggiungimento dello scopo, che informa il processo civile, secondo cui ogni qual volta un atto, a prescindere dalla veste formale, sia ido-neo a raggiungere lo scopo cui è diretto - per il ricorso, introdurre il giudizio consen-tendo al convenuto il pieno esercizio del diritto alla difesa - è da ritenere valido.

È stato così ritenuto (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3126, ord.) che la nullità deve esse-re esclusa nell›ipotesi in cui la domanda abbia per oggetto spettanze retributive, al-lorché il ricorrente abbia indicato il periodo di attività lavorativa, l›orario di lavoro, l›inquadramento ricevuto ed abbia altresì specificato la somma complessivamente pretesa ed i titoli in base ai quali venivano richieste le spettanze, rimanendo perciò irrilevante la mancata formulazione di conteggi analitici o la mancata notificazione, con il ricorso, del conteggio prodotto dal lavoratore.

3.5 L’indicazione dei mezzi di prova

3.5.1 La partizione dell’onere probatorio

La mancata indicazione dei mezzi di prova, prescritta dall’art. 414, n. 5, cod. proc. civ., non comporta la nullità del ricorso (e, quindi, una decisione a contenuto esclusivamente proces-suale, che non impedisce la riproposizione della domanda in un altro procedimento) bensì la decadenza dalla possibilità di successiva deduzione delle prove nel corso del processo. Tale conseguenza è, per il ricorrente, ben più gravosa della nullità, poiché può determinare il riget-

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

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to della domanda nel merito, con conseguente impossibilità di riproporre il ricorso senza violazione del principio del «ne bis in idem».

L›indicazione dei mezzi di prova di cui l›attore intende avvalersi non costituisce un requisi-to di validità del ricorso, ma integra soltanto un onere della parte, finalizzato all›accoglimento della domanda, il cui mancato assolvimento può pregiudicare il ricorrente ai sensi dell›art. 2697 cod. civ., peraltro solo nelle ipotesi in cui i fatti integranti la ragione da lui fatta valere non siano stati ammessi o siano stati contestati dal convenuto ovvero non abbiano trovato dimo-strazione sulla base di altre prove regolarmente acquisite, o perché dedotte dal convenuto stesso, o perché ammesse d›ufficio o perché ricavabili dal comportamento processuale delle parti. L›art. 2697 stabilisce, infatti, che chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provarne i fatti costitutivi, mentre spetta a chi eccepisce l›inefficacia di tali fatti, ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, provare i fatti su cui l›eccezione si fonda. Questa regola non è operante soltanto quando il giudice possa comunque desumere il proprio convincimento sulla verità dei fatti dagli elementi probatori acquisiti al processo, da chiunque forniti, e quando, nel processo del lavoro, la prova sulle circostanze rilevanti per la decisione sia stata acquisita a seguito del rituale esercizio dei poteri d›ufficio (Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357).

Nei rapporti obbligatori, con la sola eccezione delle obbligazioni negative, il creditore è tenuto a provare esclusivamente l›esistenza dell›obbligazione e a dedurre l›inadempimento o l’inesatto adempimento del debitore, il quale ultimo deve invece provare l›adempimento, qua-le fatto estintivo dell›obbligazione stessa, ovvero di avere adempiuto esattamente (Cass. Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533).

Il regime decadenziale è, peraltro, mitigato dall›orientamento giurisprudenziale (Cass. 11 febbraio 1995, n. 1509) secondo cui deve essere esclusa la decadenza a carico della parte che, nel ricorso introduttivo del giudizio (o, per quanto concerne il convenuto, nella memoria difen-siva), abbia omesso di dedurre il mezzo di prova riguardante una circostanza, anche se di va-lore determinante, che la parte stessa sia tenuta a provare, nell›ipotesi in cui la deduzione del mezzo fosse, al momento del deposito degli atti, da ritenere superflua sulla base di una ragio-nevole presunzione di non contestazione del fatto.

L›onere dell›indicazione specifica dei mezzi di prova non comporta che l›attore sia tenuto ad indicare nel ricorso anche i mezzi di prova concernenti la sussistenza delle «condiciones iuris»; egli ha l’onere di fornire la prova di queste solo dopo che la sussistenza ne sia stata contestata dal convenuto con apposita e tempestiva eccezione. È stato, ad esempio, ritenuto che il datore di lavoro che agisce per il riconoscimento della legittimità della sanzione inflitta al dipendente non è tenuto ad indicare, già nell’atto introduttivo del giudizio, le prove della preventiva affissione del codice disciplinare, essendo esentato dall’onere di provare tale elemento costitutivo della domanda finché la sua insussistenza non sia eccepita dal lavoratore nella memoria difensiva (Cass. 24 ottobre 1989, n. 4330). O, ancora, che il ricorrente che agisce per ottenere differenze retributive, ponendo a base del calcolo delle proprie pretese le somme asseritamente riscosse, non deve provare di avere percepito le inferiori retribuzioni nell›ammontare indicato, se il convenuto non eccepisce che le somme effettivamente riscos-se dal lavoratore erano superiori a quelle indicate (Cass. 23 giugno 1998, n. 6230).

3.5.2 Le prove testimoniali

Secondo quanto stabilito dall’art. 244 cod. proc. civ., la prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata.

Si è a lungo coltivato un contrasto giurisprudenziale circa le conseguenze della mancata indicazione dei nominativi dei testimoni nel ricorso introduttivo (così come nella memoria di-

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fensiva di costituzione del convenuto). Sono intervenute le Sezioni Unite a stabilire che, nell’i-potesi, la parte non decade dall’istanza istruttoria. L’omissione costituisce, infatti, una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere-dovere di cui all’art. 421, comma 1, cod. proc. civ.; con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all’art. 420, il tribunale, ove ritenga l’esperimento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine perentorio (Cass. Sez. Un. 13 gennaio 1997, n. 262. Conf.: Cass. 28 luglio 2010, n. 17649; Cass. 7 novembre 2000, n. 14465; Cass. 6 aprile 1998, n. 3530).

La norma enunciata dall’art. 244 cod. proc. civ. secondo cui la prova testimoniale deve essere dedotta con indicazione specifica dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali cia-scuna persona deve essere interrogata, va coniugata con quella enunciata dall’art. 421 dello stesso codice, nella consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità sui poteri officiosi del giudice del lavoro, nonché con quella del precedente art. 420 sulla funzione inte-grativa del libero interrogatorio, sicché, quando i fatti materiali siano compiutamente enun-ciati nel ricorso introduttivo del giudizio, il giudice non può rigettare la richiesta di prova testi-moniale, e conseguentemente la domanda, solo perché i fatti stessi non sono formulati per capitoli di prova (Cass. 21 marzo 2003, n. 4180).

3.5.3 Le prove documentali

Nel rito del lavoro, i documenti, quali prove precostituite, possono essere prodotti, spe-cie se la produzione sia giustificata dallo sviluppo del processo (Cass. 27 gennaio 2004, n. 1468), fino all’udienza di discussione ed anche in appello, senza incorrere nelle preclusioni di cui agli artt. 414, 416 e 437 cod. proc. civ., applicabili alle sole prove costituende, come quelle testimoniali (Cass. 4 febbraio 1993, n. 1359), purché l’altra parte abbia avuto la possi-bilità di esaminarne preventivamente il contenuto (Cass. 29 settembre 2000, n. 12966).

Il discutibile principio interpretativo, che ha non poco contribuito a vanificare la celerità del processo del lavoro e la concentrazione delle attività processuali, si è andato tuttavia affer-mando. Nel suo atteggiarsi più condivisibile viene, sì, asserita la preclusione tanto per le pro-ve costituende che per quelle precostituite, ma la si considera superabile nel caso in cui il giudice, sulla base del potere discrezionale, ritenga tali mezzi di prova, non indicati dalle par-ti tempestivamente, comunque ammissibili perché rilevanti ed indispensabili ai fini della de-cisione (Cass. 13 marzo 2009, n. 6188).

I documenti si possono acquisire al processo, se nella disponibilità della controparte, an-che mediante ordine di esibizione; l’art. 210 cod. proc. civ. stabilisce infatti che, negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo, il giudice, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte o a un terzo di esibire in giu-dizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo. L’esibi-zione, tuttavia, non può essere utilizzata a fini meramente esplorativi, quando cioè neppure la parte istante deduca elementi sull’effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto, per verificarne la rilevanza in giudizio (Cass. 20 dicembre 2007, n. 26943); ciò in quanto potrebbe determinarsi una protrazione della fase istruttoria priva di qualsiasi utilità, anche per la stes-sa parte istante, a danno del principio di ragionevole durata del processo.

L’attore non incorre nella decadenza comminata per il caso di mancata indicazione dei mezzi di prova nel ricorso se la mancanza consegue a cause di forza maggiore; in tale ipotesi, l’impossibilità di tempestiva deduzione ben potrà essere valutata alla stregua dei gravi motivi, in presenza dei quali il giudice può, a norma dell’art. 420, comma 1, cod. proc. civ., autorizzare la

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modificazione di domande e conclusioni già formulate: il tribunale potrà, quindi, ammettere i mezzi di prova esercitando il potere attribuitogli dal successivo quinto comma. Ulteriore caso di esclusione della decadenza si ha quando la necessità dell’indicazione sorga solo per effetto del-la domanda riconvenzionale o delle difese della controparte o dell’esercizio della facoltà di mo-difica delle domande, eccezioni e conclusioni di cui al citato art. 420, 1° comma.

Proprio perché i mezzi di prova devono essere articolati negli atti introduttivi, non basta l’omissione della riformulazione dell’istanza di ammissione degli stessi nel corso del processo per dedurne una rinuncia tacita, non potendo valere siffatto comportamento della parte quale presunzione di rinuncia. La mancata riformulazione dell’istanza di ammissione dei mezzi di prova già indicati negli atti introduttivi, se non accompagnata da altri comportamenti proces-suali, impedisce al giudice di considerare non assolto da questi l’onere probatorio su di lui incombente (Cass. 18 marzo 1996, n. 2258).

3.6 Le conclusioni

Nel rito del lavoro, stante il divieto delle udienze di mero rinvio, ogni udienza, compresa la prima, è destinata, oltreché all’assunzione delle prove, alla discussione e quindi all’immediata pronuncia della sentenza mediante lettura del dispositivo, mentre non è prevista un’udienza di precisazione delle conclusioni, le quali, salvo modifiche autorizzate dal giudice per gravi motivi, restano per l’attore quelle di cui al ricorso e per il convenuto quelle di cui alla memoria difensiva.

cONcLUsIONI

Riassumono le domande formulate dalla parte nel processo, costituendo le conseguenze logiche delle circostanze di fatto e degli elementi di diritto posti a fondamento delle domande stesse.

Ciò non toglie che le parti, esaurita la discussione orale, debbano appunto rassegnare le conclusioni, come espressamente stabilito dall’art. 429, co. 1, cod. proc. civ.; la giurisprudenza di legittimità l’ha argomentato ad esempio indirettamente, affermando, in tema di liquidazione dei diritti di procuratore, che è computabile nel processo del lavoro la voce «precisazione del-le conclusioni», essendo tale adempimento previsto dal codice di rito, attesa l’autonomia e rilevanza, processuale e sostanziale, delle conclusioni rispetto alle conclusioni degli atti intro-duttivi e alla discussione della causa, a nulla rilevando che, per il principio della concentrazio-ne processuale, i due adempimenti si svolgano nella stessa udienza e considerata la partico-lare importanza rivestita dalla definitiva precisazione dell’oggetto della controversia e della pronuncia che viene domandata (Cass. 23 febbraio 2007, n. 4258).

3.7 gli altri elementi del ricorso

Ulteriori elementi del ricorso sono individuati dall’art. 414 cod. proc. civ. e dalle altre norme che disciplinano il processo civile.

3.7.1 L’indicazione del giudice

L’omessa indicazione del giudice adito o l’indicazione di un giudice diverso non deter-

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Processo del lavoro

minano la nullità del ricorso, poiché la procedura di proposizione della domanda, che si dipana nel deposito dell’atto in cancelleria e nell’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza di discussione da parte del giudice in concreto adito, esclude che il convenuto, cui ricorso e decreto sono notificati, possa nutrire incertezza circa il giudice davanti al quale deve comparire, che va identificato necessariamente in quello avanti al quale la causa è stata così radicata.

Per lo stesso ordine di ragioni per individuare, ai fini della litispendenza, il giudice preven-tivamente adito, va fatto riferimento al deposito del ricorso in cancelleria; è in tale momento, infatti, che si realizza l’instaurazione del rapporto tra due dei tre soggetti tra i quali si svolge il processo e non nel momento della successiva notificazione del ricorso. La giurisprudenza (Cass. Sez. Un. 16 aprile 1992, n. 4676) ritiene che non si possa applicare, nel rito del lavoro, l’art. 39, comma 3, cod. proc. civ., secondo cui la prevenzione è determinata dalla notificazione dell’atto di citazione, ovvero dal deposito del ricorso, altrimenti la prevenzione dipenderebbe non già dall’attività dell’attore ma da quella del giudice, vale a dire dalla tempestività o meno dell’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza.

3.7.2 L’individuazione delle parti

L’art. 414, n. 2, cod. proc. civ. dispone che vengano indicati nel ricorso il nome, il cognome, nonché la residenza o il domicilio eletto dal ricorrente nel comune in cui ha sede il giudice adito. L’elezione di domicilio è prescritta per individuare il luogo in cui devono essere effettua-te le comunicazioni e le notificazioni, dal che discendono alcune conseguenze:

la mancata elezione di domicilio non comporta la nullità dell’atto se il ricorso contiene l’in-dicazione della residenza della persona fisica o della sede della persona giuridica (Cass. 12 ottobre 2000, n. 13595);

la mancata indicazione della residenza non determina alcuna nullità dell’atto se non si traduce nell’impossibilità di identificare con certezza la parte ricorrente;

il difensore della parte, che eserciti il proprio ufficio nella circoscrizione del tribunale al quale è assegnato, non è obbligato ad eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l’ufficio giu-diziario adito, in quanto, a norma dell’art. 82 R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, tale obbligo, in man-canza del cui adempimento il domicilio si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria, si riferisce solo ai procuratori che esercitano il proprio ufficio fuori della circoscrizione di appartenenza (Cass. 5 ottobre 2007, n. 20845); pertanto, nei riguardi del pro-curatore esercente nella propria circoscrizione, che non abbia eletto domicilio nel luogo dove ha sede l’ufficio giudiziario adito, le notificazioni non possono essere eseguite presso la can-celleria del giudice, ma nel luogo in cui il professionista deve risiedere per ragioni del suo uf-ficio, vale a dire nel capoluogo del circondario del tribunale al quale è assegnato (Cass. 19 giugno 32009, n. 14360; Cass. 8 novembre 1989, n. 4676).

Quanto al luogo in cui devono essere effettuate le comunicazioni e le notificazioni, l’art. 170, ultimo comma, cod. proc. civ., come novellato dalla riforma del 2006, consente al giudice di autorizzare per singoli atti, in qualunque stato e grado del giudizio, che lo scambio o la comu-nicazione possano avvenire anche a mezzo telefax o posta elettronica nel rispetto della nor-mativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi. La parte che vi procede in relazione ad un atto di impu-gnazione deve darne comunicazione alla cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza impugnata. A tal fine il difensore deve indicare, nel primo scritto difensivo utile, il numero di telefax o l’indirizzo di posta elettronica presso cui dichiara di voler ricevere le comunicazioni. Analoga disposizione è ora dettata dall’art. 136 cod. proc. civ. anche per le comunicazioni del-la cancelleria.

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

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L’art. 414, n. 2, cod. proc. civ. dispone che vengano indicati nel ricorso il nome, il cognome e la residenza o il domicilio o la dimora del convenuto. L’attore è tenuto ad individuare il convenu-to nei cui confronti intende ottenere la pronuncia giudiziale, notificando ad esso il ricorso e il de-creto di fissazione dell’udienza; non può sussistere la nullità dell’atto introduttivo del giudizio quando non manchi del tutto l’enunciazione degli elementi diretti a consentire l’individuazione.

Se ricorrente o convenuto è una persona giuridica, un’associazione non riconosciuta o un comitato, il ricorso deve indicare la denominazione o ditta nonché la sede del ricorrente o del convenuto. La decadenza che colpisce l’intempestiva deduzione dei mezzi di prova nel giudizio di primo grado non può utilmente richiamarsi con riguardo alla dimostrazione della titolarità del potere rappresentativo di una persona giuridica, poiché chi agisce in giudizio sull’assunto di tale qualità ha l’onere di darne la prova solo quando essa venga contestata, essendo questa contestazione l’unica ragione che determina l’insorgere di un onere probatorio altrimenti inat-tuale (Cass. 23 gennaio 1995, n. 768).

3.7.3 La procura alla lite

L’art. 414 cod. proc. civ., pur non prevedendo tra gli elementi che il ricorso deve contenere l’indicazione della procura e del procuratore, né la sottoscrizione, deve intendersi integrato dalla disposizione generale contenuta nell’art. 125 cod. proc. civ., secondo la quale, salvo che la legge non disponga diversamente, gli atti di parte, fra cui il ricorso, debbono essere sotto-scritti dalla parte stessa, se questa sta in giudizio personalmente, oppure dal difensore muni-to di procura, necessariamente rilasciata prima della costituzione della parte e quindi, nel rito del lavoro, prima della proposizione del ricorso.

Il rilascio della procura alle liti, previsto dall’art. 163, n. 6, cod. proc. civ., applicabile pure nel rito del lavoro sebbene non menzionato dall’art. 414, è presupposto per la valida costituzione del rapporto processuale e requisito essenziale dell’atto introduttivo del giudizio.

Il rilascio della procura è soggetto alla legge italiana, con la conseguenza che è inefficace in Italia una procura alla lite rilasciata all’estero con scrittura privata priva di autenticazione, né il difensore italiano può autenticare all’estero la procura lì rilasciatagli o, tanto meno, autenticare in Italia la procura sottoscritta dalla parte all’estero. Per la validità della procura rilasciata si esige, nel caso in cui la procura alle liti sia rilasciata con scrittura privata autenticata, la dichia-razione di un pubblico ufficiale che l’atto è stato sottoscritto in sua presenza; tale dichiarazione, in cui si sostanzia l’autenticazione della firma, può essere rilasciata anche dall’autorità consola-re italiana, titolare di competenze notarili ai sensi dell’art. 19 D.P.R. 5 gennaio 1967 n. 200, ma non è utilmente surrogabile dal mero visto che il console si sia limitato ad apporre in calce all’at-to, in quanto tale visto produce il limitato effetto di conferire certezza alla data del documento, ma non anche all’identità di chi lo ha sottoscritto (Cass. 30 settembre 2005, n. 19214). La legaliz-zazione, da parte dell’autorità consolare italiana, della procura alle liti rilasciata all’estero non è peraltro richiesta quando essa sia stata conferita a mezzo di notaio in un paese aderente alla convenzione de L’Aia del 5 ottobre 1961 (Cass. 6 aprile 2004, n. 6776). La circostanza che la parte sia residente all’estero non implica, comunque, di per sé l’invalidità della procura speciale alle liti, che la parte medesima abbia rilasciato in calce o a margine del ricorso, pur senza l’indica-zione del luogo di conferimento: quando la certificazione dell’autografia della sottoscrizione è stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica della sottoscrizione del mandante devono presumersi avvenuti nel territorio dello Stato, in difetto di prova contraria da parte di chi ne contesti la validità (Cass. Sez. Un. 16 novembre 1998, n. 11549).

La mancanza della procura comporta l’inesistenza giuridica dell’atto, che non può rite-nersi sanata dal rilascio del mandato da parte dell’interessato in un momento successivo al deposito del ricorso; nel processo del lavoro, infatti, non può trovare applicazione la dispo-

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54 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

sizione dell’art. 125, comma 2, cod. proc. civ., secondo cui la procura al difensore dell’attore può essere rilasciata in data posteriore alla notifica dell’atto di citazione, purché anteriore alla costituzione in giudizio, realizzandosi questa con il deposito in cancelleria del ricorso. Prima della novella del 2009 il difetto di procura non era neppure emendabile a norma dell’art. 182 cod. proc. civ., atteso che la regolarizzazione può avere efficacia retroattiva solo fatti salvi i diritti anteriormente quesiti, compresi quelli che si ricollegano alla scadenza del termine di costituzione (Cass. 14 luglio 2001, n. 9596). L’art. 46 della legge n. 69 del 2009, nel sostituire il secondo comma dell’art. 182, ha innovato radicalmente al riguardo: quando ri-leva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione, ovvero un vizio che de-termina la nullità della procura al difensore, il giudice deve infatti assegnare alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procu-ra alle liti o per la rinnovazione della stessa; l’osservanza del termine sana i vizi, e gli effet-ti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notifi-cazione.

In tema di disciplina delle spese processuali, poi, l’attività del difensore senza procura, che non può riverberare alcun effetto sulla parte, resta attività processuale di cui egli solo assume la responsabilità anche in ordine alle spese del giudizio; conseguentemente il giudice si trova di fronte ad una questione rilevabile d’ufficio di natura pregiudiziale (la non corrispondenza a vero che l’avvocato sia munito di procura) e a soccombere sulla questione pregiudiziale, l’unica in base alla quale sarà definito il procedimento con relativa declaratoria di inammissibilità, è soltanto l’avvocato che ha sottoscritto, e fatto notificare, l’atto introduttivo del giudizio (Cass. 26 gennaio 2007, n. 1759).

PROcURA ALLE LITI

Scrittura privataIl sottoscritto ....., nato a ..... il ..... domiciliato in ..... alla via ....., con il presente atto conferisce procura generale alle liti all’avv. ....., nato a ..... il ....., con studio in ..... alla via ....., presso il quale agli effetti della presente e di tutti i procedimenti giudiziari elegge domicilio, affinché rappresen-ti, assista e difenda essa parte mandante in tutte le cause attive e passive, promosse e da pro-muovere contro qualsiasi persona o per qualsiasi titolo, in tutti i gradi di giurisdizione, e così in ogni lite avanti ai giudici ordinari, amministrativi, tributari e speciali, nonché ai collegi arbitrali. Pertanto al nominato procuratore sono conferite tutte le necessarie facoltà, comprese quel-le di spiccare citazioni, eleggere domicilii, compiere procedimenti esecutivi, promuove-re azioni conservative e cautelari, chiedere ed ottenere decreti ingiuntivi, chiedere qualsi-asi prova od opporsi ad essa, promuovere giudizi di opposizione o di appello, ricorrere per cassazione, presentare domanda di collocazione nei giudizi di espropriazione ed in genere pre-sentare domande, istanze, memorie, comparse, conclusioni ed eccezioni e fare tutto quanto altro occorra per il buon esito delle cause di cui trattasi, con facoltà di incassare, quietanzare, transigere, conciliare, rinunciare e sostituire a sé, ovvero associare nella difesa, altri avvoca-ti con uguali o più limitati poteri, con promessa di rato e valido sotto tutti gli obblighi di legge. Il nominato procuratore è anche costituito ..... procuratore speciale ai sensi degli artt. 183 e 420 cod. proc. civ., nonché per i procedimenti avanti alle Commissioni di Conciliazione delle Controver-sie di Lavoro presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, con attribuzione conseguente dei poteri di transigere, conciliare, rinunciare, quietanzare, rendere interrogatorio, deferire giuramento deci-sorio e riferirlo.Luogo e data .....Firma della parte .…...Autentica notarile .…...

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

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PROcURA ALLA LITE

Previa informazione della possibilità di ricorrere al procedimento di mediazione ed ai relativi be-nefici fiscali, delego l’avv. ..... a rappresentarmi e ad assistermi in ogni ordine, fase e grado del presente giudizio, inclusa l’esecuzione forzata dei provvedimenti, conferendogli ogni e più ampia facoltà e potere, compresi quelli di rinunciare, transigere, incassare, quietanzare e conciliare giu-dizialmente.Eleggo domicilio presso il suo studio sito in ..... alla via ......Luogo e data .....

Firma della parte…………...

Si certifica, ai sensi dell’art. 83 cod. proc. civ. l’autografia della sottoscrizione.Firma del difensore

..…………* * * * *

L’art. 83 cod. proc. civ. dispone che quando la parte sta in giudizio col ministero di un difensore, questi deve essere munito di procura, che può essere generale o speciale e va conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata. La procura speciale può essere anche apposta in calce o a margine della citazione, del ricorso, del controricorso, della comparsa di risposta o d’intervento, del precetto o della domanda d’intervento nell’esecuzione, ovvero della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o in sostituzione del difensore originariamente designato. In tali casi l’auto-grafia della sottoscrizione della parte deve essere certificata dal difensore. La procura si considera apposta in calce anche se rilasciata su foglio separato che sia però congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, o su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto ministeriale. Se la procura alle liti è stata conferita su supporto cartaceo, il difensore che si costituisce attraverso strumenti telematici ne trasmette la copia informatica autenticata con firma digitale, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e trasmessi in via telematica. La procura speciale si presume conferita soltanto per un determinato grado del processo, quando nell’atto non è espressa volontà diversa.

È opportuno riassumere il quadro normativo che disciplina l’attività certificatoria dell’avvocato. Nell’ambito delle procure al difensore occorre distinguere l’autentica della fir-ma dalla certificazione dell’autografia. In alcune ipotesi, ad esempio nella procura conferita nel processo penale all’avvocato dalla parte civile (art. 100, co. 1, cod. proc. pen.) o, sempre nel processo penale, nella procura speciale rilasciata per il compimento di determinati atti (art. 122, co. 1, cod. proc. pen.), la legge richiede che l’avvocato provveda ad autenticare la firma della parte. In diverse ipotesi, ad esempio nel processo penale quando la procura della parte civile è rilasciata a margine della dichiarazione di costituzione (art. 100, co. 2, cod. proc. pen.) ovvero nel processo civile quando la procura è rilasciata a in calce o a margine dell’atto pro-cessuale (art. 83, co. 3, cod. proc. civ.) la legge non richiede che l’avvocato autentichi la firma bensì che si limiti a certificare l’autografia della sottoscrizione. La differenza tra le due attività sta nel fatto che, mentre l’autenticazione esige che la sottoscrizione venga apposta in presen-za di chi autentica (art. 2703, co. 2, cod. civ.), nella certificazione dell’autografia della sottoscri-zione, detta «autentica minore», l’avvocato si limita ad accertare un fatto, ovvero che la sotto-scrizione proviene da una persona che si è dichiarata tale (Cass. 7 marzo 2005, n. 4810), non rilevando né come né quando la sottoscrizione sia stata apposta (Cass. 19 gennaio 1985, n. 144), essendo sufficiente che la persona sia stata previamente identificata (Cass. Sez. Un. 18 novembre 2005, n. 25032). In entrambe le ipotesi, tuttavia, la certificazione del difensore ha valore di piena prova della provenienza delle dichiarazioni in essa contenute in mancanza di querela di falso del sottoscrittore (Cass. 15 febbraio 2000, n. 1705).

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56 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

3.8 Il deposito del ricorso

L’art. 415 cod. proc. civ. dispone che il ricorso va depositato nella cancelleria del giudice competente, insieme con i documenti in esso indicati. Al momento del deposito la parte ri-corrente deve consegnare al cancelliere, ai sensi dell’art. 72 disp. att. cod. proc. civ., il proprio fascicolo, il quale verrà custodito in unica cartella con il fascicolo d’ufficio, che il cancelliere forma per inserirvi - a norma dell’art. 168, co. 2, del codice di rito - copia dell’atto introduttivo, delle memorie e delle note, nonché i processi verbali d’udienza, i provvedimenti del giudice, gli atti di istruzione e la copia del dispositivo delle sentenze. Nella stessa cartella sono custo-diti i fascicoli delle parti che si costituiscono successivamente. Gli atti e i documenti di causa sono inseriti in sezioni separate del fascicolo di parte; gli atti sono costituiti dagli originali o dalle copie notificate del ricorso, della memoria difensiva o d’intervento, delle altre memorie e delle sentenze.

Il cancelliere, dopo aver controllato la regolarità degli atti e dei documenti, sottoscrive l’indice del fascicolo ogni volta che viene inserito in esso un atto o documento. La mancanza della firma del cancelliere, anche se non rende irrituale la produzione documentale, determi-na, in caso di contestazione, la necessità, per la parte interessata, di fornire, sia pure solo indirettamente ed anche attraverso il comportamento della controparte, la prova della produ-zione dei documenti di cui intende avvalersi (Cass. 20 aprile 1996, n. 3778).

In base alle disposizioni dell’art. 73 disp. att. cod. proc. civ., il ricorrente, come tutte le parti, deve consegnare al cancelliere, insieme con il proprio fascicolo, le copie degli atti di parte; il cancelliere deve rifiutare di ricevere il fascicolo di parte che non contenga tali copie.

L’effetto interruttivo della prescrizione non si produce con il deposito del ricorso, ma con la sua notificazione al convenuto, in quanto esso si realizza quando il debitore ha conoscenza legale (non necessariamente effettiva) dell’atto giudiziale o stragiudiziale proveniente dal cre-ditore. Né ciò consente di dubitare, in riferimento all’art. 3 Cost., della legittimità dell’art. 2943 cod. civ. in relazione all’art. 414 cod. proc. civ. e all’art. 2934 cod. civ. (Cass. 11 giugno 2009, n. 13588).

3.9 La fissazione dell’udienza

L’art. 415 cod. proc. civ. stabilisce che il giudice, entro 5 giorni dal deposito del ricorso, fissi con decreto l’udienza di discussione, alla quale le parti sono tenute a comparire perso-nalmente. Tra il giorno del deposito del ricorso e l’udienza di discussione non devono decor-rere più di 60 giorni (termine ordinatorio).

ORDINATORIETÀ DEL TERMINE

È propria dei termini stabiliti per il compimento degli atti del giudice (e dei suoi ausiliari), la cui inosservanza non è sanzionata processualmente in quanto essi, pur incidendo sulla durata com-plessiva del processo, non sono ulteriormente qualificati dalle norme che li prevedono, né ricevono sanzione in conseguenza dell’inosservanza. L’atto compiuto dopo la loro scadenza conserva validità ed efficacia, salvi eventuali riflessi di carattere disciplinare ai sensi dell’art. 90, comma 6, della legge 26 novembre 1990, n. 353, che pone a carico dei dirigenti degli uffici giudiziari l’obbligo di sor-vegliare sulla scrupolosa osservanza, da parte dei magistrati, dei doveri d’ufficio, compresi quelli relativi al rispetto dei termini previsti dal codice di rito e dalle altre leggi vigenti.

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

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La domanda è proposta con il deposito del ricorso; rispetto a tale fase, quella successiva attinente alla chiamata nel giudizio del convenuto si presenta del tutto autonoma, sicché an-che l’eventuale mancanza, nella copia notificata del ricorso e del decreto di fissazione dell’u-dienza, dell’indicazione della data dell’udienza stessa, correttamente indicata nell’originale, incide esclusivamente sulla validità della notificazione dell’atto, ma non sul perfezionamento delle fasi ad essa antecedenti.

La nullità della chiamata in causa sussiste, invece, quando manchi la data dell’udienza di discussione nel decreto emesso dal giudice ovvero quando su di essa vi sia assoluta incertez-za. L’invalidità del decreto di fissazione dell’udienza non rende, tuttavia, nullo il ricorso, costi-tuendo questo un atto precedente a quello e del tutto indipendente da esso, sia dal punto di vista strumentale che funzionale; rende, però, inefficace la susseguente notificazione, che è da considerare così mai avvenuta, in base al principio generale, sancito dall’art. 159, comma 1, cod. proc. civ., secondo cui la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti né di quelli successivi che ne sono indipendenti.

Non manca chi ritiene che l’erronea indicazione della data dell’udienza nel decreto di fissa-zione non integrerebbe un’ipotesi di nullità tutte le volte in cui il convenuto possa facilmente attivarsi, secondo il dovere di lealtà processuale, per conoscere la data esatta di comparizione (Cass. 23 dicembre 2008, n. 30197).

Quando il convenuto resta contumace non gli va notificato il provvedimento che rinvii ad altra data l’udienza di discussione, in applicazione delle generali regole del procedimento con-tumaciale, che non prevedono siffatto adempimento nell’ipotesi di rinvio dell’udienza di com-parizione. La circostanza che nell’udienza così rinviata debba effettuarsi l’interrogatorio libero delle parti, e dunque anche del convenuto contumace, non incide sulla soluzione data, sia perché l’assunzione dell’interrogatorio libero è un atto direttamente prescritto dalla legge, sia perché tale mezzo non è sotto alcun profilo equiparabile all’interrogatorio formale, per il qua-le soltanto l’art. 292 cod. proc. civ. impone la notificazione al contumace dell’ordinanza ammis-siva.

3.10 La notifica del ricorso

3.10.1 I termini

Il ricorso, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto, a cura dell’attore, salvo il caso di difesa personale del ricorrente, nel quale a tale incombente prov-vede la cancelleria. La notificazione va effettuata entro 10 giorni dalla data di pronuncia del decre-to, termine elevato a 40 giorni nel caso in cui debba effettuarsi all’estero; tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 30 giorni, elevato a 80 giorni nel caso in cui la notificazione del ricorso debba effettuarsi all’estero.

Il termine di 10 giorni per la notifica del ricorso non ha natura perentoria, assolvendo ad una funzione ordinatoria di mera accelerazione del processo, sicché la relativa inosservanza non è produttiva di alcuna invalidità né decadenza e non incide sulla validità dell’atto proces-suale, sempreché siano rispettati i termini di comparizione.

L’inosservanza di questi ultimi non costituisce vizio del ricorso, tale da comportare la sua nullità in caso di contumacia del convenuto, bensì vizio limitato all’atto di evocazione in giu-dizio che, nel rito del lavoro, è autonomo rispetto all’atto introduttivo, essendo la domanda compiutamente proposta con il deposito del ricorso. L’inosservanza dei termini dilatori di

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58 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

comparizione trova, quindi, adeguato rimedio nella rinnovazione della notificazione per altra udienza, da disporsi non già in applicazione analogica dell’art. 291 cod. proc. civ., ma in di-retta applicazione del precedente art. 162, comma 1, in tema di rinnovazione degli atti pro-cessuali nulli (Cass. Sez. Un. 23 dicembre 1991, n. 13862). La nullità in questione, peraltro, è sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto. Il giudice d’appello che rilevi la nullità dell’introduzione del giudizio, determinata dall’inosservanza del termine dilatorio di compa-rizione, non può dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado (non ri-correndo né nullità della notificazione dell’atto introduttivo né alcuna delle altre ipotesi tas-sativamente previste dagli artt. 353 e 354, comma 1, cod. proc. civ.), ma deve trattenerla e, previa ammissione dell’appellante ad esercitare tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito (Cass. Sez. Un. 21 marzo 2001, n. 122).

La sentenza n. 20604 resa dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione il 30 luglio 2008 ha per diversi mesi «gettato lo scompiglio» tra gli operatori della giustizia del lavoro, facendo ritene-re ad alcuni che il mancato rispetto da parte del ricorrente del termine ordinatorio di 10 gior-ni dalla pronuncia del decreto di fissazione dell’udienza di discussione per la notifica del ricor-so introduttivo al convenuto ne determinasse l’improcedibilità. Le ricadute suscitate da quella sentenza sulla diuturna gestione dei processi del lavoro ha indotto la Corte di Appello di Genova a rimettere la questione di illegittimità dell’art. 435, 2° comma, cod. proc. civ. all’e-same della Corte costituzionale che, con l’ordinanza n. 60 del 24 febbraio 2010, ne ha dichia-rato la manifesta infondatezza, muovendo dalla considerazione che il giudice rimettente non aveva tenuto presente che, nella fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite nel 2008, l’impro-cedibilità era stata affermata non già per il mancato rispetto del termine dei 10 giorni ma per non essere mai stata effettuata la notifica del ricorso prima dell’udienza di discussione. Resta, tuttavia, l’argomentazione contenuta nella decisione del 2008 che, partendo dal caso concreto della mancanza assoluta di notificazione, si è spinta ad elaborare un’argomentazione di carat-tere generale, incentrata proprio sulle conseguenze del mancato rispetto del termine ordina-torio di dieci giorni. Ma la stessa Corte regolatrice sembra abbandonare il rigore di quell’o-rientamento se, successivamente alla pronuncia della Consulta, ha dichiarato procedibile il ricorso introduttivo del giudizio «qualora la sua notificazione sia stata eseguita dopo la sca-denza del termine ordinatorio di dieci giorni dalla pronuncia del decreto di fissazione dell’u-dienza di discussione, previsto dall’art. 435, quarto comma, cod. proc. civ., ma prima della scadenza del termine perentorio di venticinque giorni da tale udienza» ( Cass. 12 aprile 2011, n. 8411, ord. Conf.: Cass. 30 dicembre 2010, n. 26489).

In base a quanto stabilito dall’ultimo comma dell’art. 149 cod. proc. civ., la notifica del ri-corso, qualora effettuata a mezzo del servizio postale, si perfeziona, per il ricorrente, al mo-mento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza; sic-ché un ricorso consegnato per la notifica almeno trenta giorni prima dell’udienza di discussio-ne sarebbe notificato nei termini anche se il plico venisse consegnato al convenuto successi-vamente alla scadenza del termine di trenta giorni; in questa ipotesi, tuttavia, il giudice, pure d’ufficio, dovrà procedere alla rifissazione dell’udienza di discussione, per consentire al con-venuto di costituirsi in giudizio ritualmente; la costituzione nei termini del convenuto, che non eccepisca la minore durata del periodo a sua disposizione per approntare la memoria difensi-va, sana tuttavia l’irregolarità della notificazione per raggiungimento dello scopo dell’atto.

Va ricordato che, secondo quanto disposto dall’art. 155 cod. proc. civ., come novellato dal-la riforma del 2006, nel computo dei termini occorre tenere presente, in generale nel proces-so, che se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. La proroga si applica altresì ai termini per il compimento degli atti pro-cessuali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del sabato, mentre resta fermo il

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Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

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regolare svolgimento delle udienze e di ogni altra attività giudiziaria, anche svolta da ausiliari, nella giornata del sabato, che ad ogni effetto è considerata lavorativa.

3.10.2 La notifica alle persone giuridiche

La riforma processuale introdotta dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, ha inciso anche sulle modalità di notifica alle persone giuridiche, avendo previsto, non più in via residuale ma alternativa, la possibilità di notificare l’atto destinato ad un ente direttamente alla persona che lo rappresenta. Ai sensi dell’art. 145 cod. proc. civ., dunque, la notifica alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto alternativamente:

− al rappresentante; − alla persona incaricata di ricevere le notificazioni; − o, in mancanza del rappresentante e della persona incaricata, alternativamente: a) o ad altra persona addetta alla sede; b) oppure al portiere dello stabile in cui è la sede.

La notificazione può anche essere eseguita direttamente alla persona fisica che rappre-senta l’ente, qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati resi-denza, domicilio e dimora abituale; in questa ipotesi può essere eseguita o in mani proprie, oppure nella residenza, nella dimora o nel domicilio, ovvero presso il domiciliatario. Nono-stante giurisprudenza di merito contraria, si ritiene che, ad integrare l’indicazione nell’atto del legale rappresentante, sia sufficiente l’inserimento dei suoi dati nella richiesta della relata di notifica.

La notificazione alle società non aventi personalità giuridica, alle associazioni non ricono-sciute e ai comitati di cui agli artt. 36 e seguenti cod. civ. si esegue con le stesse modalità detta-te per quella alle persone giuridiche, nella sede indicata nell’art. 19 dove svolgono attività in modo continuativo, ovvero alla persona fisica che rappresenta l’ente, qualora nell’atto da notifi-care ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale.

Se la notificazione non può essere eseguita alle persone diverse dalle persone fisiche nelle modalità ora indicate, la notifica alla persona fisica indicata nell’atto, che rappresenta l’ente, può essere eseguita anche a norma degli artt. 140 o 143 cod. proc. civ., vale a dire con le pro-cedure dettate per le ipotesi di irreperibilità o rifiuto di ricevere la copia, nonché di residenza, dimora e domicilio sconosciuti. In tema di notifica diretta al legale rappresentante, la mancata indicazione, nell’atto da notificare, della persona fisica titolare del potere di rappresentanza dell’ente comporta la possibilità di ricorrere alla procedura di cui all’art. 140 cod. proc. civ., sulla base del solo presupposto dell’impossibilità di notificare l’atto presso la sede dell’ente (Cass. 3 aprile 2006,. n. 7773).

3.10.3 I vizi sanabili

Qualora il giudice rilevasse un vizio che importa la nullità della notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza al convenuto restato contumace, in applicazione dell’art. 291 cod. proc. civ. dovrà fissare all’attore un termine perentorio per rinnovarla, evitandosi così ogni decadenza. La perentorietà del termine non è esclusa dalla circostanza che nel processo del lavoro la pendenza del giudizio è determinata dal deposito dell’atto introduttivo, sicché al suo mancato rispetto consegue l’estinzione del giudizio, a norma dell’art. 307, co. 3, cod. proc. civ. (Cass. 10 aprile 2000, n. 4529).

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60 Capitolo 3 - La costituzione dell’attore

Processo del lavoro

La notificazione al convenuto di una copia del ricorso in cui manchi la sottoscrizione del difensore dell’attore, ma sia presente l’attestazione del cancelliere di conformità all’origina-le, non determina nullità, in applicazione del principio secondo cui il precetto dell’art. 125 cod. proc. civ., sulla sottoscrizione da parte dell’autore anche della copia notificata della citazione e degli altri atti introduttivi di un procedimento ivi elencati, può ritenersi osservato quando gli elementi indicati nell’atto notificato rendono possibile desumere la sua provenienza da un di-fensore provvisto di mandato (Cass. 3 ottobre 1998, n. 9836).

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Processo del lavoro

Capitolo 4

LA cOsTITUZIONE DEL cONVENUTO

4.1 Il termine di costituzione

4.1.1 Il computo del termine

L’art. 416, co. 1, cod. proc. civ., dispone che il convenuto deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza, dichiarando la residenza o eleggendo domicilio nel comune in cui ha sede il giudice adito. Si è discusso circa le modalità di computo del termine. La giurispruden-za maggioritaria argomenta che poiché la norma non prevede espressamente che si tratta di termine libero, con esclusione cioè dal computo stesso sia del giorno iniziale che di quello fi-nale, opera il criterio generale posto dall’art. 155 cod. proc. civ., secondo il quale non va com-putato il giorno iniziale ma soltanto quello finale; sicché va computato il giorno dell’udienza e individuato, come l’ultimo utile per il compimento dell’atto, il decimo giorno precedente l’u-dienza stessa. Una corrente interpretativa minoritaria considera, invece, come giorno iniziale quello della costituzione, che perciò andrebbe escluso dal computo in mancanza di previsione analoga a quella dell’originario art. 166 cod. proc. civ. (il quale, per la costituzione del conve-nuto nel giudizio ordinario, esplicitamente includeva tale giorno nel calcolo del termine), e come giorno finale quello anteriore al giorno dell’udienza.

cOMPUTO DEI TERMINI

Nel computo dei termini a giorni o ad ore, si escludono il giorno o l’ora iniziali. Per il computo dei termini a mesi o ad anni, si osserva il calendario comune. I giorni festivi si computano nel termine. Se il giorno di scadenza è festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo; questa proroga prevista si applica altresì ai termini per il compimento degli atti proces-suali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del sabato, fermo restando il regolare svolgimento delle udienze e di ogni altra attività giudiziaria, anche svolta da ausiliari, nella gior-nata del sabato, che ad ogni effetto è considerata lavorativa.

4.1.2 La costituzione tardiva

La costituzione del convenuto oltre il decimo giorno anteriore alla prima udienza non è nulla né inammissibile. Deve essere considerata costituzione tardiva del contumace e com-porta che il convenuto, ferma la decadenza sancita dall’art. 416 cod. proc. civ. per le eccezio-ni processuali e di merito e per le deduzioni probatorie, con la sola eccezione del giuramento decisorio, deve accettare il processo nello stato in cui si trova.

La costituzione tardiva non impedisce, dunque, al convenuto di porre a base delle proprie difese di merito gli elementi probatori già acquisiti al processo, anche se relativi a fatti di cui gli incombe la prova, e conseguentemente al giudice di fondare la decisione sugli stessi ele-menti. Va data applicazione, quindi, all’art. 293 cod. proc. civ., secondo cui la parte che si co-

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62 Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

stituisce tardivamente può disconoscere, nella prima udienza o nel termine assegnatogli dal giudice, le scritture prodotte contro di lei.

INsTAURAZIONE DEL gIUDIZIO

Deposito del ricorso nella cancelleria del giudice competente insieme ai documenti indicati nell’atto

Fissazione dell’udienza con decreto del giudice, entro il termine, meramente ordinatorio, di 5 giorni dal deposito del ricorso

Notifica al convenutodel ricorso

il ricorrente deve notificare al convenuto il ricorso unitamente al decre-to di fissazione dell’udienza, entro 10 giorni dalla pronuncia del decreto ed almeno trenta giorni prima della data dell’udienza

Deposito della memoriadi costituzione

il convenuto deve costituirsi in giudizio, mediante il deposito in cancel-leria della memoria di costituzione, almeno 10 giorni prima della data dell’udienza?

Costituzionetardiva

se il convenuto non rispetta il termine per la costituzione in giudizio, esso si ha per contumace e decade dalla facoltà di proporre domanda riconvenzionale, di sollevare eccezioni non rilevabili d’ufficio e di indi-care mezzi di prova, dovendo accettare il processo nello stato in cui si trova?

Mancatacostituzione

se il convenuto non si costituisce in giudizio il processo prosegue «inau-dita altera parte» ed il ricorrente, in ogni caso, non è esonerato dall’o-nere di provare le circostanze di fatto poste alla base della propria domanda, sebbene la contumacia, alla stregua di ogni altra manifesta-zione del comportamento processuale delle parti, costituisca un ele-mento in grado di contribuire alla formazione della decisione da parte del giudice

4.2 L’onere di contestazione

4.2.1 Il regime sanzionatorio

L’art. 416, co. 3, cod. proc. civ. impone al convenuto di prendere posizione, nella memoria difensiva, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affer-mati dall’attore a fondamento della domanda, proporre tutte le sue difese in fatto e in diritto ed indicare specificamente, a pena di decadenza, i mezzi di prova dei quali intende avvalersi e, in particolare, i documenti che deve contestualmente depositare. L’inadempimento, da parte del convenuto, di questo onere non è sanzionato da decadenza (come è, invece, per l’onere di proposizione delle eccezioni e delle domande riconvenzionali nonché per l’indicazione dei mezzi di prova) e, pertanto, non preclude al convenuto la successiva contestazione dei fatti costitutivi della domanda, anche in grado d’appello, né al giudice il potere-dovere di accertar-ne la dimostrazione, ricavando eventuali argomenti di prova anche dal comportamento del convenuto.

L’inottemperanza del convenuto all’onere di contestazione può tuttavia, secondo le circo-stanze, costituire elemento integrativo del convincimento del giudice che, in applicazione dell’art. 116, 2° co., cod. proc. civ., ben potrà desumere da tale comportamento argomenti di

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Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

63

prova (Cass. 27 marzo 2001, n. 4438), in quanto la disposizione consente di desumere argo-menti di prova, oltre che dalle risposte delle parti liberamente interrogate e dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni, anche dal contegno delle parti nel processo.

4.2.2 La contestazione generica

La contestazione generica dei fatti costitutivi indicati dall’attore non implica ammissione della loro sussistenza, ma costituisce una violazione dell’obbligo di lealtà processuale, san-zionata dagli artt. 88 e 92 cod. proc. civ.: la prima disposizione, imponendo alle parti ed ai loro difensori di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, fa obbligo al giudice, in caso di mancanza dei difensori a tale dovere, di riferirne alle autorità che esercitano il potere discipli-nare su di essi; la seconda disposizione consente al giudice, indipendentemente dalla soc-combenza, di condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che abbia causato all’altra parte per trasgressione del dovere di lealtà e probità.

Peraltro la contestazione dei criteri posti a base dei conteggi non equivale a semplice ne-gazione del titolo degli emolumenti pretesi, di per sé inidonea a contestare l’esattezza del calcolo, né integra un comportamento processuale incompatibile con la negazione del fatto, in quanto, al contrario, essa implica, logicamente, l’affermazione della erroneità della quan-tificazione (Cass. 10 febbraio 2011, n. 3236).

4.2.3 La contestazione omessa

La mancata contestazione del convenuto non può essere equiparata in nessun caso ad una confessione giudiziale della fondatezza delle deduzioni dell’attore; può assumere rile-vanza, ai fini della prova dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio dal ricorrente, nei soli limiti in cui le allegazioni di quest’ultimo siano specifiche e fornite di riferimenti concreti.

Il codificatore ha voluto senz’altro scoraggiare la scelta del silenzio quale linea difensiva premiante per il convenuto, ma non fino ad imporgli l’onere di dedurre altri fatti che si opponga-no a quelli costitutivi della domanda o, comunque, di formalizzare un’articolata e analitica con-testazione rispetto ad ogni singola e particolare circostanza dei fatti addotti dalla controparte (Cass. 18 luglio 2000, n. 9424): i fatti possono essere considerati «pacifici» solo quando la con-troparte abbia impostato la propria difesa su argomenti logicamente incompatibili con il loro disconoscimento, oppure si sia limitata a contestare esplicitamente e specificamente alcuni soltanto di quei fatti, evidenziando così il proprio disinteresse ad un accertamento degli altri.

La contestazione dei conteggi su cui si fonda la domanda attrice, in particolare, deve esse-re effettuata nella memoria difensiva ed assume rilievo solo quando non sia generica, ma in-volga specifiche circostanze di fatto suscettibili di dimostrare la non congruità e la non rispon-denza al vero di tali conteggi, circostanze che devono risultare dagli atti o essere successivamente provate (Cass. 8 gennaio 2003, n. 85).

4.3 Le eccezioni processuali

Le preclusioni stabilite dall’art. 416 cod. proc. civ. riguardano soltanto le eccezioni in senso stretto, vale a dire quelle rimesse al potere dispositivo delle parti, in quanto relative ai fatti estintivi, impeditivi o modificativi non rilevabili d’ufficio; non si estendono alle eccezioni in senso lato, che si risolvono, quali mere difese, nella contestazione delle condizioni dell’azio-ne, la cui sussistenza deve essere verificata d’ufficio dal giudice e neppure alle eccezioni in

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64 Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

senso proprio, relative cioè a fatti estintivi, impeditivi o modificativi che operano di diritto e che pure vanno rilevati d’ufficio che operano di diritto e che pure vanno rilevate d’ufficio.

L’allegazione di argomenti difensivi in via subordinata, operata dal convenuto dopo avere eccepito la nullità dell’atto introduttivo del giudizio per mancata indicazione degli elementi di fatto e di diritto a base della domanda, non costituisce prova che il ricorso abbia raggiunto il suo scopo, né vale ad assegnare alla costituzione, effettuata solo per eccepire il difetto degli elementi essenziali del ricorso, un’efficacia che trascende tali limitate finalità.

L’eccezione del difetto di competenza soggiace alle modificazioni dell’art. 38 cod. proc. civ. introdotte dall’art. 45, co. 2, della legge 18 giugno 2009, n. 69. In base al nuovo testo di questa disposizione generale, l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio devono essere eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata; l’eccezione di incompetenza per territorio si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.

4.4 Le eccezioni di merito

4.4.1 L’eccezione di prescrizione

Costituendo un’eccezione in senso proprio è soggetta all’onere della tempestiva deduzione nella memoria difensiva; deve essere sollevata dal convenuto inequivocamente, senza neces-sità di formule sacramentali e senza riferimento a precisi dati normativi, essendo sufficiente che dalla memoria risulti la volontà della parte di avvalersene.

Secondo una corrente interpretativa, quando il convenuto, nell’eccepire la prescrizione del diritto vantato dall’attore, non indichi a quale tipo di prescrizione intende riferirsi, l’eccezione deve presumersi proposta con riguardo al termine decennale, salvo che nell’ulteriore corso del giudizio, eventualmente anche in grado d’appello, la parte non precisi la propria eccezione con riferimento ad altra, più breve, prescrizione, così facendo venir meno il presupposto della presunzione.

Quando il convenuto eccepisce la prescrizione, l’interruzione della stessa allegata dall’at-tore si configura come una controeccezione, in tutto assimilabile alle eccezioni in senso stret-to e, quindi, soggiace al regime processuale di queste ultime e, in particolare, al regime delle preclusioni e delle decadenze previsto dall’art. 416 cod. proc. civ., che si applica non solo alle eccezioni del convenuto, ma anche a quelle dell’attore.

4.4.2 L’eccezione di decadenza

Anche essa va sollevata nella memoria di costituzione. È tempestivamente proposta anche se il convenuto abbia erroneamente qualificato il termine di decadenza come termine di prescrizione, poiché è sufficiente che sia stato dedotto il fatto estintivo del diritto o dell’azione sulla base del lasso di tempo trascorso e dell’inerzia dell’attore: spetta al giudice qualificare la natura giuridica (prescrizionale o decadenziale) del termine (Cass. 18 giugno 1998, n 6101).

La decadenza prevista dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che impone al lavora-tore di impugnare stragiudizialmente il licenziamento entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione, poiché attiene a un diritto disponibile, non può essere rilevata d’ufficio a norma dell’art. 2969 cod. civ., ma dà luogo ad un’eccezione in senso stretto che deve essere proposta dal convenuto nella memoria difensiva di costituzione.

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Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

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Riguardo alle eccezioni di decadenza, va posto in rilievo che l’art. 32, co. 3, della legge 4 novem-bre 2010, n. 183, innovando il citato art. 6, L. n. 604/1966, ha previsto non più soltanto che il licen-ziamento del dipendente dovesse essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ri-cezione della sua comunicazione in forma scritta, ma pure che l’impugnazione fosse inefficace se non seguita, entro il successivo termine di 270 giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richie-sta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi docu-menti formatisi dopo il deposito del ricorso. L’art. 2, co. 38, della legge 28 giugno 2012, n. 92, ha ulteriormente modificato la norma, riducendo il termine di 270 giorni a 180.

Queste stesse disposizioni si applicano:

− ai licenziamenti individuali comunicati in forma scritta non sorretti da giusta causa o giustificato motivo;

− a tutti i casi di invalidità del licenziamento; − ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro;

− al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto;

− al trasferimento ai sensi dell’art. 2103 del codice civile, con termine decorrente dalla data di ricezione della comunicazione di trasferimento;

− alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro (in questo caso il termine di decadenza, che decorre dalla cessazione del medesimo contratto, è fissato però in 120 giorni in relazione alle cessazioni di contratti a tempo determinato verificatesi a decorrere dal 1º gennaio 2013);

− ai contratti di lavoro a termine in corso di esecuzione alla data del 24 novembre 2010, con de-correnza dalla scadenza del termine;

− ai contratti di lavoro a termine già conclusi alla data del 24 novembre 2010, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore del Collegato;

− alla cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 del codice civile, con termine decorrente dalla data del trasferimento dell’azienda o del suo ramo;

− in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi di somministrazione di lavoro irregolare, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto.

Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo

4.4.3 L’eccezione di giudicato

L’eccezione di giudicato esterno - che, a differenza di quello formatosi nello stesso pro-cesso, non è suscettibile di rilievo d’ufficio - è rimessa esclusivamente al potere dispositivo della parte, costituendo un›eccezione in senso stretto e non una mera difesa e non può essere fatta valere per la prima volta in sede di legittimità.

4.4.4 L’eccezione di compensazione

La deduzione con la quale si tende a paralizzare la domanda attrice attraverso la richiesta di compensazione giudiziale con un proprio credito integra gli estremi non già di una doman-

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Processo del lavoro

da ma di una vera e propria eccezione. La compensazione in senso tecnico, peraltro, si fonda sull’autonomia dei contrapposti rapporti di credito; non si verte in tale ipotesi quando i ri-spettivi crediti e debiti abbiano origine da un unico rapporto ovvero da rapporti accessori. Quando, pertanto, le reciproche ragioni di credito hanno origine da un unico rapporto di lavo-ro, il giudice deve procedere all’accertamento contabile delle rispettive poste di dare ed ave-re, anche se le ragioni non siano state dedotte dal convenuto con la memoria difensiva, dal momento che esse non attengono ad autonome pretese traducibili in domande riconvenziona-li né ad eccezioni in senso proprio, bensì ad argomentazioni difensive che ben possono essere illustrate nel momento in cui nel processo concretamente si pone il problema della quantifi-cazione del diritto.

PRINcIPALI EccEZIONI

Nullitàdel ricorso

Il ricorso è inidoneo ad introdurre il giudizio per mancanza degli elementi es-senziali dell’atto individuati dall’art. 414 cod. proc. civ.

Incompetenza Il giudice adito dal ricorrente non è competente ad istruire la causa, secondo le norme che regolano la ripartizione delle controversie tra i giudici

PrescrizioneIl diritto fatto valere dal ricorrente è caduto in prescrizione e quindi il legittimo titolare perde la facoltà, a fronte della sua inerzia nel corso del tempo, di chie-derne la tutela giudiziale

Decadenza

La facoltà di agire in giudizio per la tutela del diritto da parte del ricorrente è gravata da un termine di decadenza che il ricorrente ha lasciato inutilmente decorrere come, ad esempio, la mancata impugnazione entro 60 giorni del li-cenziamento scritto

Giudicato La domanda proposta dal ricorrente è stata oggetto di una precedente contro-versia, decisa con sentenza definitiva

CompensazioneIl convenuto è titolare, nei confronti del ricorrente, di un credito liquido ed esigi-bile e della stessa natura del credito vantato dal ricorrente, con la conseguenza che si determina l’estinzione delle reciproche obbligazioni

4.5 L’indicazione dei mezzi di prova

Il regime decadenziale dai mezzi di prova approntato dal codificatore per il convenuto ri-calca quello predisposto per l’attore, al di là delle differenze che pur esistono, sul piano lette-rale, tra l’art. 414 e l’art. 416 cod. proc. civ. Nel rito del lavoro, infatti, sia l’attore che il con-venuto sono tenuti a specificare, a pena di decadenza, nei rispettivi atti introduttivi del giudizio i mezzi di prova dei quali intendono avvalersi e, in particolare, per quanto concerne le prove testimoniali, ad indicare i testimoni di cui chiedono l’audizione.

Anche il convenuto ha l’obbligo di specificare i fatti dedotti a prova in articoli separati, sui quali dovranno essere escussi i testimoni; tale obbligo, sancito in via generale dall’art. 244 cod. proc. civ., esce rafforzato dall’art. 416, nel senso che la sua inosservanza si traduce pure nella violazione dell’onere di dedurre i mezzi di prova «specificamente», determinando così la decadenza dalla prova testimoniale, salvo che il giudice non ritenga di sollecitare la parte a meglio formularla o di provvedervi d’ufficio, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 421 cod. proc. civ., il cui esercizio non può tuttavia risolversi nel sostegno dato ad una parte del processo in danno dell’altra. Qualora il giudice abbia assegnato ad una delle parti un termine per porre

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Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

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rimedio alle irregolarità riscontrate nella formulazione dei capitoli di prova, con l’invito ad una nuova formulazione degli stessi, il termine deve ritenersi perentorio; ne consegue, in applica-zione della particolare disciplina di cui all’art. 420, co. 5 e 6, cod. proc. civ., la decadenza della parte dal diritto di far assumere le prove nell’ipotesi di mancata ottemperanza nel termine fissato.

La richiesta di prova contraria sugli stessi capitoli della prova articolata dal ricorrente è idonea a costituire sia l’allegazione di circostanze rilevanti ai fini del decidere, sia l’istanza di ammissione della relativa prova testimoniale.

Le nullità e le decadenze attinenti alle modalità di deduzione della prova testimoniale han-no, comunque, carattere relativo e non sono quindi rilevabili d’ufficio, salvo che, con riguardo alla concludenza delle prove in relazione all’oggetto del giudizio, l’attività istruttoria richiesta si riveli superflua.

I termini per la produzione di documenti sono stabiliti, anche a carico del convenuto, esclu-sivamente a tutela dell’interesse della controparte, per cui la tardività dell’esibizione e del deposito, se non eccepita all’udienza fissata per la discussione della causa, non è più deduci-bile utilmente, né può essere rilevata dal giudice, dovendo ritenersi che la parte interessata abbia tacitamente rinunciato a far valere qualsiasi nullità correlata all’inosservanza dei ter-mini.

4.6 Le domande riconvenzionali

4.6.1 Il termine di proposizione

L’art. 418 cod. proc. civ. dispone che il convenuto che abbia proposto una domanda in via riconvenzionale a norma del comma 2, del precedente art. 416 deve, con istanza contenuta nella stessa memoria a pena di decadenza dalla riconvenzionale medesima, chiedere al giudice che, a modifica del decreto di fissazione dell’udienza, ne pronunci un nuovo.

Tra la proposizione della domanda riconvenzionale e l’udienza di discussione non devono decorrere più di 50 giorni (elevato a 70, se la notificazione deve farsi all’estero). Il decreto che fissa l’udienza deve essere notificato all’attore, a cura dell’ufficio, unitamente alla memoria difensiva, entro 10 giorni dalla data in cui è stato pronunciato. Tra la data di notificazione al ricorrente del decreto pronunciato a norma del 1° co. e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di 25 giorni (elevato a 35, se la notificazione deve farsi all’estero). I termini sono tutti ordinatori, ad eccezione del termine dilatorio a comparire all’udienza di discussione, che ha carattere perentorio, essendo posto per consentire al ricor-rente di approntare le difese in ordine alla domanda riconvenzionale.

4.6.2 L’eccezione in riconvenzione

La sanzione della decadenza che colpisce le domande riconvenzionali azionate senza la previa istanza di rifissazione dell’udienza di discussione rende rilevante la distinzione tra eccezione riconvenzionale e domanda riconvenzionale: quest’ultima consiste in una contro-domanda, con la quale il convenuto non si limita a chiedere il rigetto della domanda dell’atto-re, ma chiede, con effetto di giudicato, un positivo accertamento del suo diritto. L’eccezione riconvenzionale, invece, consiste in uno strumento di difesa limitato ad elidere gli effetti della pretesa della parte attrice. Con la domanda riconvenzionale, in buona sostanza, il con-

1.

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Processo del lavoro

venuto chiede un provvedimento positivo sfavorevole al ricorrente, non limitandosi a doman-dare il rigetto della domanda principale; con l’eccezione riconvenzionale il convenuto intende, invece, far valere un suo diritto al solo scopo di escludere l’efficacia giuridica dei fatti o dei titoli dedotti in giudizio dall’attore, al solo fine di ottenere il rigetto della domanda proposta da costui.

IsTANZA DEL cONVENUTO PER DOMANDA RIcONVENZIONALE

Tribunale di .....Sezione Lavoro

Memoria difensiva con domanda riconvenzionale ai sensi dell’art. 418 cod. proc. civ.per

....., residente (ovvero: con sede) in ..... (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tem-pore .....), elettivamente domiciliato/a in ....., alla via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta, in forza di procura emarginata al presente atto (ovvero: alla copia notificata del ricorso introduttivo);

parte convenutacontro

....., (avv. .....)parte ricorrente

fattoLa parte ricorrente, con ricorso redatto ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ. e depositato in Cancel-leria il ....., deduceva in giudizio un rapporto di lavoro tra le parti e chiedeva ......Al fine esponeva: .....:Il Giudice designato per la trattazione della causa, dott. ....., con decreto del ....., fissava per la discussione l’udienza del .....; il ricorso ed il pedissequo provvedimento venivano notificati il ......Con il deposito del presente atto e degli allegati documenti si costituisce in giudizio la parte con-venuta, contestando la fondatezza delle avverse domande.

dirittoAnzitutto, pure a contestazione delle circostanze di fatto dedotte dalla controparte, si premette quanto segue:quanto alla infondatezza del ricorso: .....;quanto alla domanda riconvenzionale: ......Se tali sono i fatti, nella loro reale sussistenza, non possono che trarsene le seguenti conseguenze giuridiche: ......Quanto sopra ritenuto e premesso, a mezzo della difesa esponente, la parte convenuta chiede l’accoglimento delle seguenti

conclusioni“Piaccia all’Ecc.mo Tribunale di ....., in funzione di Giudice del Lavoro, ogni contraria istanza disat-tesa ed eccezione reietta:rigettare il ricorso perché infondato in fatto ed in diritto e, oltretutto, non provato;accogliere la domanda riconvenzionale e pertanto condannare ..... al pagamento in favore di ..... della somma di euro ..... o della maggiore o minore somma che risulterà dovuta in corso di causa, anche secondo valutazione equitativa del Giudice.Con vittoria di spese, competenze ed onorari e sentenza provvisoriamente esecutiva”.Si chiede in via istruttoria l’ammissione di interrogatorio formale del/della ricorrente e prova testimoniale sui capitoli ..... di cui alle premesse del presente atto; oltre alla prova testimoniale contraria a quella dalla parte avversa formulata, nei limiti in cui essa verrà ammessa.Si indicano a testimoni: ......Si chiede inoltre che il Giudice voglia:a) non ammettere i capitoli ..... formulati dalla controparte quale prova testimoniale diretta, per-

ché ....;

– continua –

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Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

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- segue -

b) ammettere consulenza tecnica d’ufficio di natura contabile sui conteggi redatti dalla parte ri-corrente, la cui esattezza si contesta;

c) poiché con il deposito della presente memoria la parte convenuta propone altresì contro la par-te ricorrente domanda riconvenzionale, chiede, ai sensi dell’art. 418 cod. proc. civ., che venga fissata nuova udienza di discussione, al fine di consentire alla controparte di approntare le sue difese in sede di riconvenzionale.

Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: Si dichiara, in relazione alla domanda riconvenzionale, che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è tito-lare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.Si producono i seguenti documenti: ......

Luogo e dataAvv. .....

Soltanto nell’ipotesi di domanda riconvenzionale trova applicazione l’art. 418 cod. proc. civ. e quindi, da un lato, il convenuto non incorre in alcuna decadenza se propone un’eccezione ricon-venzionale senza chiedere la rifissazione dell’udienza e, dall’altro, nonostante l’eventuale propo-sizione dell’istanza da parte del convenuto il giudice non dovrà provvedere alla rifissazione se quella si fonda non già su una domanda riconvenzionale bensì su una mera eccezione.

4.6.3 La decadenza dalla riconvenzionale

Le condizioni di ammissibilità della domanda riconvenzionale fissate dall’art. 418 cod. proc. civ. sono previste a pena di decadenza; questa è rilevabile d’ufficio anche quando il ricorrente si sia difeso nel merito, senza eccepire l›inammissibilità della riconvenzionale e finanche nell›ipotesi in cui il giudice abbia fissato la nuova udienza nonostante l›omissione dell›istanza, non essendo ido-neo il provvedimento, reso senza richiesta, a sanare una decadenza ormai verificatasi.

Se, peraltro, la domanda riconvenzionale sia stata tempestivamente e ritualmente pro-posta dal convenuto in sede di costituzione, l’eventuale omissione della rifissazione dell’u-dienza da parte del giudice, e conseguentemente della notificazione al ricorrente del relativo provvedimento, resta irrilevante qualora l’attore, all’udienza già fissata per la trattazione del ricorso, accetti il contraddittorio, chiedendo il rigetto delle pretese avversarie.

Le prescrizioni dell’art. 416 cod. proc. civ., che, a pena di decadenza, impongono al conve-nuto di proporre tempestivamente le eccezioni processuali e di merito e di prendere posizio-ne, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dal ricorrente, valgono anche per quest’ultimo in relazione alla domanda riconvenzionale. Il ri-corrente, infatti, si deve considerare convenuto rispetto a tale domanda.

4.7 Il deposito della memoria difensiva

L’art. 416, co. 2, cod. proc. civ. impone al convenuto di costituirsi in giudizio mediante de-posito in cancelleria di una memoria difensiva, nella quale devono essere proposte, a pena di decadenza, oltre alle eventuali domande in via riconvenzionale, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d’ufficio.

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70 Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

MEMORIA DIFENsIVA DI cOsTITUZIONE DEL cONVENUTO

Tribunale di <...>Sezione Lavoro

Memoria difensiva ai sensi dell’art. 416 cod. proc. Civper

....., residente (ovvero: con sede) in ..... (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tem-pore .....), elettivamente domiciliato/a in ....., alla via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta, in forza di procura emarginata al presente atto (ovvero: alla copia notificata del ricorso introduttivo);

parte convenutacontro

....., (avv. .....)parte ricorrente

fattoLa parte ricorrente, con ricorso redatto ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ. e depositato in Cancel-leria il ....., deduceva in giudizio un rapporto di lavoro tra le parti e chiedeva ......Al fine esponeva: <...>:Il Giudice designato per la trattazione della causa, dott. ....., con decreto del ....., fissava per la discussione l’udienza del .....; il ricorso ed il pedissequo provvedimento venivano notificati il ...... Con il deposito del presente atto e degli allegati documenti si costituisce in giudizio la parte con-venuta, contestando la fondatezza delle avverse domande.

dirittoAnzitutto, pure a contestazione delle circostanze di fatto dedotte dalla controparte, si premette quanto segue:......Se tali sono i fatti, nella loro reale sussistenza, non possono che trarsene le seguenti conseguenze giuridiche: .....Quanto sopra ritenuto e premesso, a mezzo della difesa esponente, la parte convenuta chiede l’accoglimento delle seguenti

conclusioni“Piaccia all’Ecc.mo Tribunale di ....., in funzione di Giudice del Lavoro, ogni contraria istanza di-sattesa ed eccezione reietta, rigettare il ricorso perché infondato in fatto ed in diritto e, oltretutto, non provato.Con vittoria di spese, competenze ed onorari e sentenza provvisoriamente esecutiva”.Si chiede in via istruttoria l’ammissione di interrogatorio formale del/della ricorrente e prova te-stimoniale sui capitoli ..... di cui alle premesse del presente atto; oltre alla prova testimoniale contraria a quella dalla parte avversa formulata, nei limiti in cui essa verrà ammessa.Si indicano a testimoni: ......Si chiede inoltre che il Giudice voglia:a) non ammettere i capitoli ..... formulati dalla controparte quale prova testimoniale diretta, per-

ché .....;b) ammettere consulenza tecnica d’ufficio di natura contabile sui conteggi redatti dalla parte ricor-

rente, la cui esattezza si contesta;c) ......Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....Si producono i seguenti documenti: ......Luogo e data

Avv. .....

La ritualità degli atti necessari per la costituzione in giudizio può desumersi, in mancanza di prova contraria ad opera della parte interessata o, comunque, di opposte risultanze proces-suali, anche presuntivamente, da qualsiasi elemento, obiettivamente valutabile, che emerga

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Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

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dagli atti di causa, e che soddisfi l’esigenza di certezza circa la sussistenza dei predetti requi-siti, in quanto la legge non impone alle parti alcun onere di munirsi di particolari certificazioni positive al riguardo, né esige che i requisiti stessi risultino da atti formali ed insostituibili (Cass. 9 aprile 2001, n. 5230).

IL cONTENUTO DELLA MEMORIA DIFENsIVA

Elementi Cosa si deve indicare Conseguenze delle erronee indicazioni

Eccezioniin senso stretto

Nella memoria di costituzione il convenuto deve proporre, a pena di decadenza, le eccezioni non rilevabili d’ufficio, tra cui rientrano quelle di prescrizione, decadenza e compensazione

La decadenza fissata dall’art. 416 cod. proc. civ. ha carattere assoluto e indero-gabile e dev’essere rilevata d’ufficio, in-dipendentemente dal silenzio serbato al proposito dal ricorrente e dalla circostan-za che il medesimo si sia difeso sostenen-do l’infondatezza anziché l’intempestività delle eccezioni in senso stretto tardiva-mente proposte

Domandariconvenzionale

Nella memoria di costituzione il convenuto deve proporre, a pena di decadenza, la domanda mediante la quale non si limita a chiedere il rigetto delle pretese del ricorrente, bensì l’accerta-mento di un proprio autonomo diritto nei confronti del ricor-rente stesso

La decadenza fissata dall’art. 416 cod. proc. civ. ha carattere assoluto e indero-gabile e dev’essere rilevata d’ufficio, in-dipendentemente dal silenzio serbato al proposito dal ricorrente e dalla circostan-za che il medesimo si sia difeso sostenen-do l’infondatezza anziché l’intempestività della domanda riconvenzionale proposta

Contestazionedelle circostanzedi fatto allegatedal ricorrente

Nella memoria di costituzione il convenuto deve prendere posi-zione, in maniera precisa e non limitata ad una generica conte-stazione, circa le circostanze di fatto poste dal ricorrente a so-stegno della propria domanda, in particolare allegando i fatti estintivi, modificativi ed impe-ditivi dei fatti costitutivi allegati dal ricorrente

La mancata contestazione non è colpita da decadenza e quindi non preclude la suc-cessiva contestazione dei fatti costitutivi della domanda; inoltre la contestazione generica, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, non implica di per sé la confessione né l’ammissione dei fatti costitutivi della domanda, rispet-to ai quali grava comunque sul ricorren-te l’onere della prova. I fatti costitutivi, pertanto, sono pacifici solo quando siano espressamente riconosciuti dal convenuto o quando la memoria di costituzione, nel suo complesso, sia logicamente incompa-tibile con il disconoscimento dei fatti costi-tutivi

Indicazionedei mezzi di prova

Nella memoria di costituzione il convenuto deve indicare specifi-camente, a pena di decadenza, i mezzi di prova di cui intende avvalersi ed in particolare i do-cumenti, che devono essere depositati contestualmente alla memoria

Il convenuto che non indica nella memoria i mezzi di prova decade dalla facoltà di av-valersi degli stessi nel giudizio, fatti salvi i poteri d’ufficio attribuiti al giudice, nel rito speciale del lavoro, dall’art. 421 cod. proc. civ.

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72 Capitolo 4 - La costituzione del convenuto

Processo del lavoro

4.8 gli effetti della contumacia

La contumacia del convenuto non equivale ad ammissione dell’esistenza dei fatti posti dal ricorrente a fondamento della domanda. Anche nel processo del lavoro, come nel rito ordinario, la contumacia del convenuto, e quindi il mancato rispetto degli oneri previsti dall’art. 416 cod. proc. civ., non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se il ricorrente abbia fornito la prova dei fatti costitutivi della domanda, in quanto la contumacia non equivale mai ad ammissio-ne dei fatti dedotti dall’attore, anche se costituisce un comportamento processuale pur sempre apprezzabile dal giudice, alla stregua di qualsiasi altra manifestazione del contegno della parte, per desumerne argomenti utili ai fini della decisione. L’applicabilità delle norme generali del codice di procedura va, tuttavia, vagliata alla luce della loro compatibilità con il rito speciale, il che impone di individuare i limiti entro i quali le disposizioni che disciplinano la contumacia nel giudizio civile ordinario siano compatibili e, quindi, applicabili al rito speciale.

Sebbene la contumacia del convenuto non assuma, di per sé, alcun significato probatorio in favore della domanda dell’attore, ciò non vale, anzitutto, ad escludere l’applicabilità della disposizione generale, dettata dall’art. 116 cod. proc. civ., in virtù della quale il giudice può desumere argomenti di prova dal contegno delle parti nel processo. La contumacia, dunque, è un elemento valutabile, nel contesto di ogni altro elemento acquisito al processo, ai fini della decisione; sicché è consentito al giudice, nell’ambito dell’incensurabile potere di ap-prezzamento conferito dall’art. 116, di trarre dalla mancata costituzione del convenuto argo-mento concorrente per la valutazione degli altri elementi probatori.

Dalla mancata costituzione del convenuto va nettamente distinta la mancata comparizione dello stesso all’udienza di discussione. Il contumace, infatti, ben può comparire a tale udienza; anzi, ai sensi dell’art. 420 cod. proc. civ. ha l’onere di comparirvi, ancorché la sua comparizione non sia sufficiente ad evitarne la contumacia. E, a differenza di questa, la mancata comparizio-ne all’udienza di discussione è espressamente sanzionata dall’art. 420, co. 1, cod. proc. civ., il quale prevede che la mancata comparizione personale delle parti, senza giustificato motivo, costituisce comportamento valutabile dal giudice ai fini della decisione, in quanto significa sottrazione all’interrogatorio libero, preordinato a chiarire e a precisare i fatti di causa.

La parte rimasta contumace non può godere, nel giudizio d’appello, di diritti maggiori di quelli che spettano alla parte che sia stata presente nel primo giudizio, ma deve accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni e le decadenze già verificatesi a ragione della sua omessa costituzione nel precedente grado. Queste preclusioni e queste de-cadenze, infatti, hanno valore assoluto e inderogabile e possono essere rilevate d’ufficio, an-che alla luce della disposizione dettata dall’art. 437, co. 2, cod. proc. civ., che fa divieto di pro-porre in appello nuove domande ed eccezioni non rilevabili d’ufficio, nonché nuovi mezzi di prova, salvo il giuramento decisorio e quello suppletorio.

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Processo del lavoro

Capitolo 5

L’INTERVENTO NEL gIUDIZIO

5.1 L’intervento volontario

5.1.1 I termini dell’intervento volontario

L’art. 419 cod. proc. civ. dispone che, salvo che sia effettuato per l’integrazione necessaria del contraddittorio, l’intervento volontario del terzo non può aver luogo oltre il termine stabi-lito per la costituzione del convenuto, con le modalità previste dai precedenti artt. 414 e 416 cod. proc. civ., in quanto applicabili. Deve attuarsi, dunque, almeno 10 giorni prima dell’u-dienza di discussione fissata dal giudice ai sensi dell’art. 415 cod. proc. civ.; resta irrilevante, trattandosi di termine di decadenza, che tale udienza prosegua in altro giorno o che il giudice fissi una nuova udienza per la chiamata in causa del terzo.

La tardività dell’intervento volontario non è sanata dall’accettazione del contraddittorio da parte del soggetto contro cui il terzo abbia proposto le sue domande e va rilevata anche d’uffi-cio, per la rilevanza pubblica degli interessi in vista dei quali, nei giudizi assoggettati al rito del lavoro, è posto il divieto di domande nuove (Cass. 26 novembre 1998, n. 12021). La parte contro cui il terzo interveniente non abbia proposto domande di sorta, avendo dispiegato l’intervento adesivo dipendente solo per associarsi alle sue ragioni o alle sue eccezioni, non è peraltro le-gittimata a dolersi della mancata fissazione di una nuova udienza, non sussistendo quell’esi-genza difensiva giustificativa dell’adempimento, la cui omissione configura, peraltro, una nul-lità relativa.

La decisione del giudice che nega la sussistenza delle condizioni necessarie per l’ammis-sibilità dell’intervento volontario del terzo ha contenuto decisorio, ma non definitivo. Non è, pertanto, impugnabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 6 Cost. (Cass. 21 maggio 1991, n. 5689).

ATTO DI INTERVENTO VOLONTARIO DEL TERZO

Tribunale di .....Sezione LavoroAtto di intervento volontario ai sensi dell’art. 419 cod. proc. civ.

per....., elettivamente domiciliato in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappre-senta in forza di procura a margine del presente attopremesso1) che con ricorso notificato con pedissequo decreto in data ....., il/la ricorrente ..... conveniva in

giudizio ..... dinanzi a codesto Ufficio, chiedendo l’accoglimento delle seguenti conclusioni: .....;2) che attraverso il presente atto ..... si costituisce in giudizio per contestare quanto dedotto nel

ricorso introduttivo;3) che, in particolare, ..... osserva ..... .

– continua –

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74 Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

- segue -

Tutto ciò ritenuto e premesso, a mezzo dell’esponente difesa,interviene

nella causa promossa da ..... contro ..... n.r.g. ..... perché, previa fissazione dell’udienza di discus-sione ed emanazione dei provvedimenti di cui all’art. 415 cod. proc. civ., l’Ecc.mo Tribunale voglia accogliere le seguenti

conclusioniPiaccia all’Ecc.mo Tribunale, ogni contraria istanza disattesa ed eccezione reietta, accogliere la presente domanda e, conseguentemente, ..... .Vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre IVA e CPA, (eventuale da distrarre in favore dell’avv. ..... antistatario) e sentenza provvisoriamente esecutiva.Si formulano le seguenti ulteriori istanze istruttorie: ..... .Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: si dichiara che, in relazione alla domanda introdotta dall’interveniente, il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul red-dito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.si producono i seguenti documenti: ..... .Luogo e data

Avv. ......

La disposizione va integrata alla luce dell’intervento della consulta (Corte Cost. 29 giu-gno 1983, n. 193), che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 419 nella parte in cui, nell’ipotesi in cui un terzo dispieghi intervento volontario, non attribuisce al giudice il potere-dovere di fissare una nuova udienza, non meno di 10 giorni prima della quale le parti originarie potranno depositare memorie, e di disporre che, entro 5 giorni, siano notificati alle parti origi-narie il provvedimento di fissazione e la memoria dell’interveniente, e che sia notificato a quest’ultimo il provvedimento di fissazione della nuova udienza.

5.1.2 I presupposti dell’intervento volontario

L’intervento volontario è disciplinato dall’art. 105 cod. proc. civ., a norma del quale ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nella causa. Può al-tresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse.

condizione necessaria per l’intervento è che l’interveniente sia titolare di un diritto sog-gettivo da far valere e non anche di un mero interesse di fatto. Per la sua ammissibilità è sufficiente che la domanda presenti una connessione od un collegamento che giustifichi il «simultaneus processus» (Cass. 15 maggio 2002, n. 7055). La facoltà di intervento è ricono-sciuta indipendentemente dalla circostanza che il ricorrente sia processualmente legittimato, o meno; la legittimazione processuale, infatti, attiene alle condizioni dell’azione e non ai pre-supposti processuali: solo a questi ultimi è applicabile il principio secondo cui essi debbono esistere al momento della domanda. La facoltà di intervento sussiste, cioè, indipendentemen-te dall’effettiva esistenza, nel soggetto che ha inizialmente proposto la domanda, delle condi-zioni necessarie al suo esperimento, sicché anche nel corso del processo il soggetto legittima-to ad intervenire può sostituirsi al non legittimato nell’esercizio dell’azione giudiziale (Cass. 13 dicembre 1990, n. 11828).

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Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

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INTERVENTO VOLONTARIO

Nozione art. 105 cod. proc. civ.: il terzo può intervenire in un processo quando sia titolare di un diritto soggettivo da far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse, o per sostenere le ragioni di alcune delle parti. Il mero inte-resse di fatto non legittima l’intervento

Tipologiedi intervento volontario

principale: il terzo fa valere nei confronti di tutte le parti un diritto incom-patibile con quello vantato da ciascuna di esse

adesivo autonomo: il terzo fa valere un diritto compatibile con quello origi-nariamente affermato in giudizio e ad esso connesso per l’identità del fatto costitutivo su cui si fonda la domanda giudiziale

adesivo dipendente: il terzo interviene solo per sostenere le ragioni di una delle parti, senza far valere un autonomo diritto

Modalitàdell’interventovolontario

art. 419 cod. proc. civ.: il terzo deve intervenire entro il termine stabilito per la costituzione del convenuto, con le modalità previste dagli articoli 414 e 416 cod. proc. civ.; a seguito dell’intervento, il giudice deve fissare una nuova udienza, non meno di dieci giorni prima della quale le parti hanno facoltà di depositare memorie, in relazione

5.2 L’intervento su istanza di parte

5.2.1 I presupposti dell’intervento su istanza di parte

L’art. 420, co. 9, cod. proc. civ., dispone che nel caso di chiamata in causa a norma dei pre-cedenti artt. 102, co. 2, 106 e 107, il giudice fissa una nuova udienza e che, entro 5 giorni, siano notificati al terzo il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione del con-venuto; il termine massimo entro il quale deve tenersi la nuova udienza decorre dalla pronuncia del provvedimento di fissazione. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di 10 giorni prima dell’udienza fissata, depositando la propria memoria a norma dell’art. 416 cod. proc. civ.

L’art. 106 cod. proc. civ. attribuisce a ciascuna parte il diritto di chiamare nel processo un terzo al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda di essere garantita.

A) Chiamata per comunanza di causa. Il requisito della comunanza di causa sussiste quando il rapporto sostanziale dedotto nel giudizio è comune al terzo, o almeno connesso, per il titolo o per l’oggetto, a una posizione sostanziale del medesimo, ovvero quando vi è un interesse alla partecipazione del terzo nel contraddittorio processuale volto alla formazione di un accerta-mento giudiziale tra le parti originarie. La comunanza di causa costituisce presupposto sia per l’intervento del terzo su istanza di parte sia per l’intervento su ordine del giudice, ma è qual-cosa di meno rispetto al presupposto del litisconsorzio necessario di natura sostanziale.

B) Chiamata in garanzia propria. Si fonda sullo stesso titolo dedotto dal ricorrente a fonda-mento della sua domanda contro il convenuto, dal che l’unicità del rapporto sostanziale ogget-to della controversia. La garanzia propria sussiste, in altri termini, quando la domanda princi-pale e la domanda di garanzia hanno in comune la medesima «causa petendi» o quando si verifichi almeno una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande ovvero sia unico il fatto generatore della responsabilità prospettata con l’azione principale e con quella di regres-

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76 Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

so. La mancata pronuncia su domanda di garanzia propria, tempestivamente avanzata nel corso del giudizio, integra violazione di norma processuale attinente all’esercizio del diritto di azione nel processo (Cass. 8 agosto 2002, n. 12029).

C) Chiamata in garanzia impropria. Si basa su un titolo diverso da quello posto a fondamen-to della domanda principale e si verifica quando il convenuto intende essere rilevato dal garan-te di quanto sia eventualmente condannato a pagare: l’azione principale e quella di garanzia si imperniano su titoli diversi e le due cause sono, pertanto, distinte e scindibili. Il terzo chiama-to in garanzia impropria dal convenuto, a differenza di colui che viene indicato quale unico re-sponsabile nei confronti dell’attore, ha in riferimento alla causa principale i poteri processua-li di un interveniente adesivo dipendente e non può, trattandosi di cause scindibili, dedurre eccezioni non sollevate dal convenuto né impugnare autonomamente la sentenza che dichiari quest’ultimo soccombente nei confronti dell’attore. Quando però il terzo, in riferimento alla causa dipendente, non si limita a contestare il rapporto di regresso ma nega la responsabilità del convenuto, può esercitare tutti i poteri processuali e, trattandosi di cause scindibili, anche impugnare autonomamente la sentenza senza, peraltro, impedire la formazione del giudicato tra le parti del rapporto principale. Il rapporto di connessione esistente fra la domanda princi-pale e quella di garanzia, consentendo il «simultaneus processus» determina l’assoggetta-mento di tutte le parti dell’unico procedimento al principio di acquisizione.

Un’ipotesi particolare di comunanza di causa si ha quando il convenuto chiama un terzo assumendo che questi, e non lui, è il soggetto tenuto a rispondere della pretesa dell’attore. n tale ipotesi, la domanda del ricorrente si estende al terzo, in quanto si tratta di individuare l’effettivo responsabile, nel quadro di un rapporto oggettivamente unico. Si realizza perciò un ampliamento della controversia originaria, sia in senso oggettivo (la nuova obbligazione de-dotta dal convenuto viene ad inserirsi in via alternativa con quella che l’attore ha assunto a carico del convenuto) sia in senso soggettivo (il terzo chiamato in causa diventa un’altra parte della controversia, in posizione alternativa con il convenuto stesso). La giurisprudenza è di-scorde sulla necessità dell’espressa istanza dell’attore per conseguire l’estensione al terzo della domanda originaria: vi è chi la nega (Cass. 23 novembre 1998, n. 11855) e chi, viceversa, la pretende (Cass. 27 aprile 1991, n. 4660) sull’assunto dell’insussistenza di litisconsorzio ne-cessario. Deve concordarsi pienamente con chi afferma (Cass. 19 marzo 1999, n. 2524) che colui il quale contesta di essere il legittimato passivo della domanda, e chiede la chiamata in causa del soggetto che afferma obbligato in sua vece, non propone un’implicita domanda di garanzia nei confronti del terzo, perché questa domanda presuppone la non contestazione della legittimazione passiva del convenuto, che pertanto, se avvenuta, si pone in rapporto di alternatività all’esercizio dell’azione di garanzia.

5.2.2 La chiamata in causa

Il convenuto, che intenda chiamare un terzo in causa, ai sensi dell’art. 269 cod. proc. civ. deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva di costituzione e contestualmente chiedere al giudice lo spostamento dell’udienza di discussione. La richie-sta di chiamata non può essere formulata in un momento successivo (Cass. 6 giugno 2008, n. 15080). Il giudice, entro 5 giorni dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza; il decreto è comunicato dal cancelliere alle parti costituite, mentre il provvedi-mento giudiziale è notificato al terzo a cura del convenuto unitamente agli atti introduttivi.

Se, invece, l’interesse del ricorrente a chiamare in causa un terzo sorge a seguito delle di-fese svolte dal convenuto nella memoria difensiva, l’attore deve, a pena di decadenza, chiede-re l’autorizzazione alla chiamata nella prima udienza al giudice che, se la concede, fissa una nuova udienza, stabilendo il termine perentorio per la notificazione al terzo degli atti di causa.

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Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

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La procura conferisce al difensore il potere di chiamare in causa un terzo, ove ciò non im-plichi l’introduzione di un rapporto diverso rispetto alla causa principale; il difensore del con-venuto, pertanto, è abilitato, in forza dell’originaria procura, alla chiamata in causa diretta a sollevare il soggetto difeso dall’eventuale soccombenza nei confronti del ricorrente.

Il provvedimento con il quale il giudice di primo grado non autorizza la chiamata in causa ad istanza di parte coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non pos-sono formare oggetto di appello né di ricorso per cassazione.

INTERVENTO sU IsTANZA DI PARTE

Nozione art. 106 c.p.c.: ciascuna parte può chiamare nel processo un terzo al quale ritenga comune la causa o dal quale pretenda di essere garantita

Presuppostidell’istanzadi parte

comunanza di causa: occorre la connessione oggettiva per l’oggetto o per il titolo tra il rapporto sostanziale dedotto in giudizio e quello che fa capo al terzo

chiamata in garanzia: l’istante chiama al processo un terzo sul quale inten-de riversare le conseguenze della sua eventuale soccombenza

carenza di legittimazione passiva: il convenuto chiama in causa un terzo assumendo che costui è il soggetto tenuto a rispondere alle pretese del ricorrente

Modalitàdella chiamatain causa

istanza del convenuto: dev’essere contenuta, a pena di decadenza, nella comparsa di costituzione

istanza del ricorrente: se l’interesse alla chiamata in causa sorge dalle di-fese del convenuto, il ricorrente deve formulare l’istanza alla prima udienza

decisione del giudice: il provvedimento di accoglimento o di rigetto dell’i-stanza rientra nei poteri discrezionali del giudice e quindi non può essere impugnato dall’istante

5.3 L’intervento per ordine del giudice

Il giudice, secondo quanto stabilito dall’art. 107 cod. proc. civ., quando ritiene opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’intervento.

L’intervento in causa per ordine del giudice è funzionale all’interesse di ordine pubblico, trascendente quello stesso delle parti originarie e dei terzi, di attuare l’economia dei giudizi e di evitare la possibilità di giudicati contraddittori, estendendo gli effetti sostanziali del giudica-to al terzo, cui il rapporto sostanziale controverso sia comune, ovvero sia connesso per il titolo o per l’oggetto con l’altro rapporto in cui il medesimo si trovi con il ricorrente o con il convenu-to. Nell’ambito di questa esigenza, l’intervento coattivo del terzo può essere disposto sia per evitare al chiamato gli effetti pregiudizievoli della sentenza resa fra le parti, sia per indurre chi agisce ad estendere nei suoi confronti la domanda, ma non anche per mere finalità istruttorie.

Non appena adottato l’ordine giudiziale, il terzo diventa parte del processo, senza necessità che egli proponga domande o che domande siano proposte contro di lui: è sufficiente la sua presenza o evocazione in giudizio, che dà per ciò stesso luogo ad una fattispecie di litisconsor-zio processuale. Non potrà certamente pronunciarsi condanna del terzo in favore del ricorren-

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78 Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

te, se questi non l’abbia voluta; tuttavia la domanda nei confronti del terzo può essere anche implicita e non può mai considerarsi nuova, sempreché l’intervento sia stato disposto in ipote-si di declinazione, da parte dell’originario convenuto, della titolarità dell’obbligazione dedotta, con indicazione di quella del terzo e, quindi, al fine di accertare, nel contraddittorio di tutti gli interessati, quale sia la parte obbligata in relazione al titolo azionato con l’atto introduttivo, cosicché al processo si aggiunga solo una parte e non anche una nuova «causa petendi» o un diverso «petitum». Nel rito del lavoro, in cui non esiste soluzione di continuità tra fase istrutto-ria e fase decisoria, l’intervento può essere ordinato anche in sede di discussione della causa.

L’intervento in causa del terzo, pur in mancanza di un litisconsorzio necessario di natura sostanziale, determina tuttavia un litisconsorzio necessario di carattere processuale, che dà facoltà al terzo di proporre, nell’esercizio dei suoi poteri processuali, domande ed istanze istruttorie. Il terzo che si sia costituito ed abbia formulato, sia pure attraverso l’adesione alle prioritarie pretese di una delle altre parti in lite, domande di accertamento di un proprio dirit-to, le quali siano state accolte o respinte dal giudice, va dunque considerato, in relazione alle ulteriori fasi del giudizio, quale parte istante, nei cui confronti le pronunce definitive della controversia sono suscettibili di passare in giudicato. A costui è pertanto riservata la disponi-bilità dell’azione da lui introdotta nel processo, restando inefficace perfino una rinuncia a que-sta da parte dell’originario attore, in quanto la facoltà di rinunziare alla tutela giurisdizionale inerisce alla titolarità del diritto dedotto in lite.

INTERVENTO PER ORDINE DEL gIUDIcE

Nozione art. 107 cod. proc. civ.: il giudice, quando ritenga opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune, ne ordina l’in-tervento

Presupposti è richiesta solo la comunanza di causa

Termini il giudice può disporre l’intervento in qualunque momento del giudizio di primo grado

Modalità il giudice non chiama direttamente in causa il terzo, ma ne ordina la chia-mata alle parti già costituite, che devono provvedere per non incorrere nel-la cancellazione della causa dal ruolo

5.4 Il litisconsorzio necessario

5.4.1 I presupposti del litisconsorzio necessario

L’art. 102 cod. proc. civ. dispone che se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo; se questo è pro-mosso da alcune o contro alcune soltanto di esse, il giudice ordina l’integrazione del contrad-dittorio in un termine perentorio da lui stabilito.

Il litisconsorzio necessario ricorre quando l’unico rapporto giuridico dedotto in giudizio presenta una pluralità di soggetti ed esige, per ragioni di diritto sostanziale o processuale, l’unità del processo e della decisione nei confronti di tutti costoro. Vi sono ipotesi di litiscon-sorzio necessario perché la legge impone direttamente la partecipazione di più soggetti al

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Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

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giudizio instaurato nei confronti di taluno di essi; vi sono, poi, ulteriori ipotesi di litisconsorzio necessario tutte le volte che l’azione giudiziale mira a costituire, modificare o estinguere un rapporto giuridico plurisoggettivo unico oppure ad ottenere l’adempimento di una prestazione inscindibile. Siffatte ipotesi incidono su situazioni giuridiche inscindibilmente comuni a più soggetti, nel senso che, in assenza di contraddittorio tra tutti costoro, la sentenza non potreb-be rivestire utilità pratica.

Il litisconsorzio necessario di natura sostanziale ricorre quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio deve essere decisa contestualmente nei confronti di ognuno dei soggetti compartecipi; l’esempio più evidente si ha nelle cause il cui oggetto sia costituito da una prestazione inscindibile. L’azione diretta degli ausiliari dell’appaltatore nei confronti del committente, prevista dall’art. 1676 cod. civ., ad esempio, non determina una situazione processuale di litisconsorzio necessario tra lo stesso committente e l’appaltatore; i lavoratori, quando agiscono nei confronti del solo committente, non sono perciò obbligati a chiamare in causa anche l’appaltatore.

Il litisconsorzio necessario di natura processuale ricorre quando l’ordine del giudice è de-terminato dall’opportunità di soddisfare il principio di economia processuale, senza che sussi-stano i presupposti del litisconsorzio necessario di natura sostanziale. L’art. 270 cod. proc. civ. stabilisce che la chiamata di un terzo nel processo può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore; se nessuna delle parti vi provvede, viene disposta con ordinanza non impu-gnabile la cancellazione della causa dal ruolo.

Nel caso della morte di una delle parti nel corso del giudizio di primo grado, la sua legitti-mazione attiva e passiva si trasmette ai suoi eredi i quali, succedendo al soggetto originario, vengono a trovarsi per tutta la durata del giudizio in una situazione di litisconsorzio necessario di natura processuale che, a prescindere dalla scindibilità o meno del rapporto sostanziale, impone la riassunzione del processo nei confronti di tutti i coeredi. Per il disposto dell’art. 110 cod. proc. civ. i successori a titolo universale della parte deceduta nel corso del processo deb-bono tutti partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari di natura processuale, essendo irrilevante la trasmissione all’uno o all’altro di essi, per effetto di alienazione o di disposizione testamentaria, della titolarità del bene cui attiene la controversia. Il secondo comma dell’art. 303 stabilisce che qualora l’atto riassuntivo del processo sia stato notificato agli eredi della parte defunta, collettivamente ed impersonalmente, nell’anno dalla morte del «de cuius», tutti gli eredi sono da ritenere evocati in giudizio, con la conseguenza che, ove taluno di essi non si sia costituito, non sussiste nei suoi confronti la necessità dell’integrazione del contraddittorio.

5.4.2 La posizione del litisconsorte necessario

Il litisconsorte pretermesso può far valere, ovviamente nel caso di litisconsorzio necessario di natura sostanziale, il pregiudizio e ottenere la declaratoria di nullità della sentenza adottata senza che fosse assicurata l’integrità del contraddittorio, o promuovendo una causa separata ed autonoma oppure avvalendosi dello speciale mezzo dell’opposizione di terzo (art. 404, com-ma 1, cod. proc. civ.).

La rilevabilità anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo, del difetto di integrità del contraddittorio trova un limite, pur se con effetti circoscritti a coloro che hanno partecipato alla causa, e senza pregiudizio per i diritti dell’eventuale litisconsorte pretermesso, nel giudi-cato che espressamente o implicitamente si sia formato su tale questione (Cass. 20 gennaio 1986, n. 360).

Il difetto del contraddittorio necessario è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudi-zio e, quindi, anche nel giudizio di legittimità, con il duplice limite, in quest’ultimo caso, che la relativa prova deve risultare dagli atti già acquisiti al giudizio di merito e che sulla questione

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80 Capitolo 5 - L’intervento nel giudizio

Processo del lavoro

non si sia formato il giudicato; non vi deve essere, cioè, la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività, vietate in sede di giudizio di cassazione (Cass. 17 gennaio 2001, n. 593).

LITIscONsORZIO NEcEssARIO

Nozione art. 102 cod. proc. civ.: se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, le quali non sono tutte presenti al giudizio, il giudice ordina l’in-tegrazione del contraddittorio nel termine perentorio da lui stabilito

Presupposti quando il rapporto sostanziale è plurisoggettivo, come ad esempio nella comunione o nell’eredità, il principio del contraddittorio, costituzional-mente tutelato, impone che al processo siano presenti tutti i soggetti coin-volti nel rapporto sostanziale; in mancanza, la sentenza risulta affetta da inesistenza

Modalità le parti costituite devono provvedere ad eseguire l’ordine del giudice, a pena di immediata estinzione del giudizio

Rilevabilità del difetto di contraddittorio ne-cessario

il difetto di contraddittorio necessario può essere rilevato in ogni stato e grado del giudizio, sia di merito che di legittimità

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Processo del lavoro

Capitolo 6

LA TRATTAZIONE DELLA cAUsA

6.1 L’interrogatorio libero

Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice, secondo quanto disposto dall’art. 420, co. 1, cod. proc. civ., interroga liberamente le parti presenti e tenta la concilia-zione della lite.

Le dichiarazioni rese dalla parte in sede di interrogatorio libero forniscono al giudice ele-menti di convincimento, ma non possono acquisire l’efficacia probatoria della confessione. L’istituto processuale è, infatti, finalizzato alla chiarificazione delle allegazioni delle parti e dotato di funzione probatoria di carattere solo sussidiario, volto perciò a fornire al giudice ele-menti utilizzabili per il riscontro e la valutazione delle prove. L’interrogatorio libero, dunque, non costituisce un mezzo di prova, anche se non può essere escluso che le dichiarazioni rese possano, anche da sole, costituire l’unica fonte del convincimento giudiziale, quando riguardi-no fatti che possono essere conosciuti soltanto dalle parti in causa e non siano contraddette da elementi probatori contrari (Cass. 2 aprile 2002, n. 4685).

La confessione giudiziale spontanea è configurabile anche in sede di interrogatorio non formale; perché si possa attribuire valore confessorio alla dichiarazione resa in tale sede, però, occorre che essa non sia stata provocata da una domanda del giudice o ammessa dal giudice, ma resa autonomamente. In tale ipotesi la giurisprudenza richiede la sottoscrizione personale del verbale di udienza da parte del soggetto interrogato, necessaria ai fini della prova della consapevolezza e volontà della dichiarazione, ossia, in sostanza, dell’indefettibile requisito della sua spontaneità (Cass. 16 maggio 2006, n. 11403). Al riguardo, va sottolineato che il principio dell’inscindibilità delle dichiarazioni delle parti si applica soltanto alle confes-sioni giudiziali, vale a dire alle ammissioni fatte dalle parti, in sede di interrogatorio formale, di fatti ad esse sfavorevoli ed utilizzate dal giudice come prova, e non anche alle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio libero.

Se il giudice omette di interrogare liberamente le parti viola un suo dovere processuale, ma non genera alcuna nullità, in quanto, pur essendo l’istituto diretto all’accertamento della verità, non è preordinato ai fini istruttori. Così pure la mancata comparizione della parte all’udienza di discussione per rendere l’interrogatorio non costituisce prova a carico della stessa, bensì un comportamento valutabile giudizialmente, soltanto nel concorso con altri argomenti di prova.

6.2 L’interrogatorio formale

6.2.1 La confessioneAffatto diverso dall’interrogatorio libero è quello formale. E la diversità tra i due istituti è ben

segnata dalla disposizione dell’art. 228 cod. proc. civ., in base alla quale la confessione giudizia-le non spontanea è provocata, appunto, mediante l’interrogatorio formale.

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82 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

La confessione spontanea è quella che può essere contenuta in qualsiasi atto processuale sottoscritto dalla parte personalmente nel processo - e dunque, ricorrendone i presupposti, anche in sede di interrogatorio libero - mentre la confessione provocata è quella suscitata dall’interrogatorio formale, secondo il principio che le dichiarazioni rese dalla parte interroga-ta non possono costituire prova a suo favore ma solo a suo carico: per fatto sfavorevole al di-chiarante e favorevole all’altra parte deve intendersi quello che, avuto riguardo all’oggetto della controversia ed ai termini della contestazione, è in concreto idoneo a produrre conse-guenze giuridiche svantaggiose per colui che volontariamente e consapevolmente ne ricono-sce la verità.

Ben distinte dalle dichiarazioni confessorie vanno tenute le dichiarazioni rese in giudizio dal difensore, se non munito di mandato speciale, pure se contenute in scritti difensivi, sem-preché questi non siano sottoscritti dalla parte; tali dichiarazioni non hanno di certo l’efficacia della confessione, pure se possono valere quali semplici indizi e, quindi, possono concorrere a fornire elementi di giudizio ad integrazione delle altre risultanze probatorie.

6.2.2 L’ammissione dell’interrogatorio formale

L’interrogatorio formale, in base alle disposizioni dettate dall’art. 230 cod. proc. civ., deve essere dedotto per articoli separati e specifici. Il giudice procede all’assunzione nei modi e nei termini stabiliti dall’ordinanza che lo ammette; non possono farsi domande su fatti diversi da quelli formulati nei capitoli, ad eccezione di quelle su cui le parti concordano e che il giudice ritiene utili. Il giudice, tuttavia, può sempre chiedere i chiarimenti opportuni sulle risposte date.

L’interpello, in quanto diretto a provocare la confessione della parte alla quale è deferito, è sempre ammissibile, purché sia concludente ed influente e non in contrasto con gli elementi probatori già acquisiti; il giudice può non ammetterlo qualora lo reputi comportamento defati-gatorio oppure se ritenga che la controversia possa essere decisa in base agli elementi già acquisiti alla causa. L’ammissione non può essere negata, assumendosene l’inconcludenza, né a motivo del supposto esito negativo del mezzo né per il solo fatto che la parte cui si inten-de deferirlo abbia, in altri atti processuali, smentito quanto dedotto in interrogatorio, poiché il fine dell’interrogatorio formale è proprio quello di provocare la confessione della parte (Cass. 12 ottobre 1998, n. 10077).

La natura strumentale dell’interpello, il cui effetto probatorio ha la sua base giuridica e logica nella conoscenza che il confitente ha del fatto che ne costituisce l’oggetto, comporta la sua inammissibilità quando sia da escludere che il fatto rientri nella diretta conoscenza della parte.

6.2.3 La risposta all’interrogatorio formale

La parte interrogata deve rispondere personalmente. Non può servirsi di scritti preparati, ma il giudice può consentirle di valersi di note o di appunti, quando deve fare riferimento a nomi o a cifre o quando particolari circostanze lo consigliano. L’interrogatorio formale non può essere reso a mezzo di procuratore speciale; il soggetto cui è deferito deve rispondere personalmente ed oralmente.

Se la parte non si presenta o rifiuta di rispondere senza giustificato motivo all’interpello, il giudice, secondo quanto disposto dall’art. 232 cod. proc. civ., valutato ogni altro elemento di pro-va, può ritenere come ammessi i fatti dedotti nell’interrogatorio. Non è necessaria una specifica istanza dell’interessato per considerare ammessi i fatti formanti oggetto del mezzo istruttorio, in quanto costui ha già manifestato la volontà di conseguire tale risultato deferendo l’interrogatorio.

Quando il giudice riconosce giustificata la mancata presentazione della parte, dispone per l’assunzione del mezzo istruttorio anche fuori della sede giudiziaria.

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

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Non vi è l’obbligo, come per la confessione, ma soltanto la facoltà di considerare i fatti de-dotti come ammessi e, quindi, vincolanti ai fini della decisione. Tale facoltà, peraltro, non di-spensa il giudice dal dovere della prudente valutazione del comportamento della parte, doven-do interpretarsi l’inciso «valutato ogni altro mezzo di prova» nel senso di un collegamento necessario tra la valutazione e l’apprezzamento, positivo o negativo, sull’efficacia della man-cata o rifiutata risposta

L’obbligo del giudice di valutare la risposta alla luce del complessivo quadro probatorio emer-gente dagli atti processuali è funzionale all’esigenza di evitare che l’esercizio del potere discre-zionale di valutazione si trasformi in un arbitrio e consenta di ritenere provati dei fatti non suffra-gati in alcun modo dagli altri elementi acquisiti al processo o, addirittura, smentiti dai medesimi (Cass. 2 febbraio 1995, n. 1264). Il grado di discrezionalità resta, tuttavia, significativo: la valuta-zione del giudice di merito costituisce un giudizio di fatto non sindacabile in sede di legittimità.

Gli ulteriori elementi probatori, peraltro, non devono essere di per sé idonei a fornire piena prova, poiché in tal caso, risultando assolto l’onere probatorio, sarebbe superflua la conside-razione della mancata risposta all’interpello; essi devono soltanto fornire elementi di giudizio integrativi, sufficienti a determinare il convincimento del giudice sui fatti dedotti nell’interro-gatorio (Cass. 29 aprile 1993, n. 5089).

6.3 La comparizione personale

Ai sensi dell’art. 420, co. 1, cod. proc. civ., la mancata comparizione personale della parte, senza giustificato motivo, nell’udienza in cui deve aver luogo l’interrogatorio libero costituisce comportamento valutabile ai fini della decisione, analogamente, in sostanza, a quanto previ-sto, nel rito ordinario, dall’art. 232 cod. proc. civ. per l’ipotesi di mancata comparizione della parte all’udienza fissata per l’interrogatorio formale.

6.4 La rappresentanza della parte

L’art. 420, co. 2, cod. proc. civ., attribuisce alle parti la facoltà di farsi rappresentare da un procuratore generale o speciale, il quale deve essere a conoscenza dei fatti della causa.

L’obbligo non può logicamente estendersi al rappresentante legale della persona giuridica, soprattutto se sia persona diversa dal rappresentante legale in carica all’epoca dei fatti di causa o, comunque, se questi siano relativi a circostanze anteriori all’inizio del rapporto di rappresentanza organica. In siffatte ipotesi, la mancata conoscenza dei fatti può essere ap-prezzata dal giudice ai fini della decisione quale comportamento processuale, ma non è su-scettibile della valutazione decisoria, allo stesso modo in cui non potrebbe far considerare sfavorevole al giurante il giuramento decisorio «de scientia» o «de notitia», prestato in forma negativa dall’organo della persona giuridica (Cass. 20 agosto 2003, n. 12259). L’obbligo di co-noscenza si riferisce esclusivamente ai fatti di causa e, pertanto, non consente di trarre ele-menti di convincimento dalla mancata contestazione di circostanze addotte dalla controparte con riguardo a rapporti diversi da quello controverso.

La procura deve essere conferita con atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve attribuire al procuratore il potere di conciliare o transigere la controversia. La procura può essere rilasciata anche al difensore, ma non può ritenersi compresa nella procura alle liti, ancorché estesa al potere di transigere o conciliare.

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84 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

Il potere di conciliare o transigere la controversia, riconosciuto dal codice di rito al pro-curatore, comprende anche la facoltà di deferire il giuramento decisorio, che nel rito ordina-rio può essere invece esercitata solo dalla parte o dal procuratore munito di mandato spe-ciale, in quanto il giuramento può definire la lite al pari della conciliazione o della transazione. La facoltà di farsi rappresentare da un procuratore attiene, peraltro, esclusiva-mente alla partecipazione all’udienza di discussione sicché, all’infuori di tale ipotesi, anche per le controversie individuali di lavoro trova applicazione il principio generale secondo cui la rappresentanza processuale, e quindi il potere di nominare il difensore, può essere con-ferita solo congiuntamente alla rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio.

6.5 I poteri istruttori del giudice

6.5.1 Il sistema inquisitorio misto

L’art. 421 cod. proc. civ. impone al giudice di indicare alle parti, in ogni momento, le irre-golarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate, assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti. Il giudice può altresì disporre d’ufficio, in qualsi-asi momento, l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazio-ni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Se lo ritiene necessario il giudice può pure ordinare la comparizione, per interrogarle liberamente sui fatti della causa, anche di quelle persone che siano incapaci di testimoniare o a cui ciò sia vietato.

Il processo del lavoro, pur non essendo improntato al sistema inquisitorio puro, tende a contemperare, in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo, che obbedisce alla regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, con quello della ricerca della verità reale, mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo.

sIsTEMI PROcEssUALI

sistema inquisitorio il ruolo propulsivo nella ricerca delle prove spetta al giudice

sistema accusatorio sono le parti a dover proporre e indicare al giudice i mezzi di prova che intendono fare assumere

Quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice non può limi-tarsi, perciò, a fare meccanica applicazione della regola formale, qualora le prove già acquisi-te siano insufficienti, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli ulteriori atti istruttori, sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza in ordine ai fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia di ostacolo il verificarsi delle preclusioni o decaden-ze in danno delle parti (Cass. 17 luglio 2009, n . 16661; Cass. 12 febbraio 1997, n. 1304).

Il potere di ammettere mezzi di prova d’ufficio, sopperendo alla lacunosa iniziativa della parte, può essere esercitato sempreché della sussistenza di tali mezzi possa aversi cognizione dagli atti di causa, ben potendo l’impulso del giudice porre rimedio all’inerzia difensiva delle parti. Il potere d’ufficio, in altri termini, presuppone l’allegazione, da parte dell’interessato, dei fatti da accertare, non essendo sufficiente l’astratta prospettazione di possibili eventi influenti sulla decisione.

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

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6.5.2 gli atti istruttori officiosi

L’attribuzione dei poteri istruttori d’ufficio incontra un duplice limite poiché, da una parte, deve rispettare il principio della domanda e dell’onere di deduzione in giudizio dei fatti costitu-tivi, impeditivi o estintivi del diritto controverso e, dall’altra, il divieto di utilizzazione del sape-re privato da parte del giudice. Sicché in buona sostanza, la norma dispensa la parte dall’o-nere della formale richiesta della prova e dagli oneri relativi alle modalità di formulazione dell’oggetto della prova, ma richiede pur sempre che dall’esposizione dei fatti o dall’assun-zione degli altri mezzi di prova siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte e a decidere la controversia e, cioè, che sussi-stano significative «piste probatorie emergenti dagli atti di causa (Cass. 6 luglio 2000, n. 9034).

Nel rito del lavoro il giudice può, nella fase preparatoria dell’udienza di discussione pro-priamente detta, compiere atti istruttori riservati alla sua esclusiva disponibilità, purché sia assicurato il contraddittorio e il diritto di difesa delle parti e la fissazione dell’udienza avvenga secondo le esigenze di assunzione del mezzo istruttorio, senza che ciò comporti la possibilità di riferire al momento di tale anticipata attività il computo dei termini di decadenza, stabiliti dall’art. 416 cod. proc. civ. esclusivamente in relazione alla data della formale udienza di di-scussione.

L’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio non può, in ogni caso, tradursi nel sostegno dato dal giudice ad una parte a detrimento dell’altra o delle altre, sicché non può rimuovere gli effetti della sanzione di decadenza espressamente comminata per il convenuto dall’art. 416 cod. proc. civ. (la quale opera anche nei confronti dell’attore) e che impedisce alle parti di modifica-re i presupposti di fatto delle domande originarie, formulando istanze istruttorie che introdu-cano temi di indagine del tutto nuovi o alterino l’oggetto della controversia.

Gli effetti della decadenza non possono essere rimossi attraverso l’esercizio del potere del giudice di ammettere prove d’ufficio, poiché questo non sopravvive alle preclusioni già verifi-catesi (Cass. 17 maggio 2012, n. 7751).

Il primo comma dell’art. 421 cod. proc. civ. prevede che il giudice indichi alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate, assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti. La rimessione in termini, dunque, è un istituto non incompatibile con il rito del lavoro (Cass. 28 agosto 2000, n. 11279).

6.6 L’assunzione delle prove testimoniali

6.6.1 L’ammissione dei mezzi di prova

I commi da 5 a 8 dell’art. 420 cod. proc. civ. stabiliscono che il giudice nell’udienza di discus-sione ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell’udienza, per la loro immediata assunzione. Qualora ciò non sia possibile, fissa altra udienza, non oltre 10 giorni dalla prima, concedendo alle parti, ove ricorrano giusti motivi, un termine perentorio, non superiore a 5 giorni prima dell’udienza di rinvio, per il deposito in cancelleria di note difensive.

Nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova, la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un ter-mine perentorio di 5 giorni. Nell’udienza fissata per l’assunzione delle prove il giudice ammet-te, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione.

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86 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

L’assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza o, in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni feriali immediatamente successivi. L’ammissione dei mezzi di prova è subordinata al giudizio sulla loro rilevanza.

Il provvedimento di ammissione della prova testimoniale non è soggetto ad alcuna forma solenne particolare e può, quindi, ritenersi implicitamente emesso qualora, pur mancando la sua indicazione nel verbale d’udienza, i testi risultino immediatamente assunti ovvero il giudi-ce fissi una successiva udienza per l’espletamento della prova testimoniale n attuazione del medesimo principio, l’omissione della pronuncia sull’istanza di ammissione implica una valu-tazione negativa circa la rilevanza e non si traduce, quindi, in motivo di nullità.

Entrambe le parti sono tenute a pena di decadenza a indicare nei rispettivi atti introduttivi della controversia i testimoni di cui chiedono l’escussione, ai sensi dell’art. 244 cod. proc. civ. Il principio trova applicazione anche per l’ipotesi di ammissione di nuovi mezzi di prova all’u-dienza di discussione.

Nel rito del lavoro è pienamente applicabile la norma dettata dall’art. 257 cod. proc. civ., secondo cui se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice può disporre d’ufficio che esse siano chiamate a deporre. Il giudice può anche dispor-re che siano sentiti i testimoni dei quali abbia precedentemente ritenuto l’audizione superflua o dei quali abbia consentito la rinuncia; può disporre, inoltre, che siano nuovamente esamina-ti i testimoni già interrogati, al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità avveratesi nel precedente esame. Una volta ammessa ed espletata la prova testimoniale, il giudice non può però disporre, neppure d’ufficio, l’ammissione, al di fuori delle ipotesi ora elencate, di testi indicati tardivamente dalle parti, per essere sentiti sulle circostanze oggetto della prova già espletata.

6.6.2 L’intimazione ai testimoni

L’ufficiale giudiziario, su richiesta della parte interessata, intima ai testimoni ammessi dal giudice di comparire nel luogo, nel giorno e nell’ora fissati, indicando il giudice che assume la prova e la causa nella quale debbono essere sentiti; l’intimazione, se non è eseguita in mani proprie del destinatario o mediante servizio postale, è effettuata, secondo quanto statu-ito dall’art. 174, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, in busta chiusa e sigillata.

In base alla disposizione del terzo comma dell’art. 250 cod. proc. civ., l’intimazione al testi-mone ammesso su richiesta delle parti private a comparire in udienza può essere effettuata dal difensore attraverso l’invio di copia dell’atto mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo di telefax o posta elettronica, nel rispetto della normativa, anche rego-lamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti infor-matici e teletrasmessi. Il difensore che ha spedito l’atto da notificare con lettera raccomanda-ta deposita nella cancelleria del giudice copia dell’atto inviato, attestandone la conformità all’originale, e l’avviso di ricevimento.

L’art. 103 disp. attuaz. cod. proc. civ. dispone che l’intimazione deve essere fatta ai testimo-ni almeno 7 giorni prima dell’udienza in cui essi sono chiamati a comparire. Con l’autorizza-zione del giudice il termine può essere ridotto nei casi d’urgenza.

L’intimazione a cura del difensore deve contenere:

– l’indicazione della parte richiedente e della controparte, nonché gli estremi dell’ordinanza con la quale è stata ammessa la prova testimoniale;

– il nome, il cognome ed il domicilio della persona da citare;

– continua –

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

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- segue -

– il giorno, l’ora e il luogo della comparizione, nonché il giudice davanti al quale la persona deve presentarsi;

– l’avvertimento che, in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo, la persona citata potrà essere condannata al pagamento di una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro.

Permane un contrasto giurisprudenziale circa la necessità dell’intimazione dei testimoni per la prima udienza di discussione fissata dal tribunale e sulle conseguenze della mancata intimazione nell’ipotesi in cui la controparte non chieda comunque l’escussione dei testimoni non intimati per tale udienza. Dopo tanti anni di consolidata applicazione del principio dell’im-possibilità per la parte di intimare i testimoni nel rito del lavoro in difetto di un provvedimento ammissivo del giudice è di nuovo (Cass. 8 aprile 2008, n. 9136) riaffiorato il primitivo orienta-mento, affermandosi che il giudice, anche in mancanza di un formale provvedimento di am-missione, dovrebbe dichiarare, in assenza di istanza della controparte di procedere all’esame dei testimoni indicati e non escussi, la decadenza dalla prova, derivando l’onere dell’intimazio-ne dei testimoni, a prescindere da un formale provvedimento di ammissione della prova, diret-tamente dall’art. 420, 5° comma, cod. proc. civ.: tale meccanismo risponderebbe ai princìpi di ordine pubblico, di immediatezza e di concentrazione del processo del lavoro, dei quali costi-tuiscono espressione sia le disposizioni sull’immediata assunzione dei mezzi di prova e sia quelle sul divieto delle udienze di mero rinvio. Di questo «revival» non si avvertiva certamente il bisogno, anche perché è prassi negli uffici giudiziari che la disposizione sull’ammissione della prova e l’escussione dei testimoni nella prima udienza venga generalmente disattesa, talché l’applicazione della discutibile interpretazione sulla decadenza dalla prova testimoniale in ipotesi di omessa intimazione comporterebbe, per i testimoni, il grave disagio di comparire ad un’udienza nel corso della quale quasi certamente non verrebbero esaminati.

se la parte, senza giusto motivo, non fa chiamare i testimoni davanti al giudice, questi la dichiara, anche d’ufficio, decaduta dalla prova, salvo che l’altra parte dichiari di avere interes-se all’audizione. Se il giudice, invece, riconosce giustificata l’omissione, fissa una nuova udien-za per l’assunzione della prova.

Il principio dell’esclusione dell’indicazione tardiva, peraltro, non impedisce che il giudice, fuori delle condizioni di cui all’art. 257 cod. proc. civ., possa disporre l’escussione di un testimo-ne, tardivamente indicato, in sostituzione di altro ritualmente indicato, che non sia stato possibi-le esaminare per un giustificato motivo, rientrando ciò nei poteri istruttori conferiti dall’art. 421 in relazione ad una prova testimoniale non ancora espletata (Cass. 8 settembre 1988, n. 5095).

PRINcIPI gENERALI sULLE TEsTIMONIANZE

– non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che po-trebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (art. 246 cod. proc. civ.)

– i testimoni sono esaminati separatamente (art. 251, comma 1, cod. proc. civ.)– i testimoni vanno ammoniti dal giudice sull’importanza morale del giuramento e sulle conse-

guenze penali delle dichiarazioni false o reticenti; vanno quindi invitati a rendere la seguente dichiarazione (Corte cost. 5 maggio 1995, n. 149): «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascon-dere nulla di quanto a mia conoscenza» (art. 251, comma 2, cod. proc. civ.)

– il giudice deve richiedere al testimone il nome, il cognome, l’età e la professione, invitandolo a dichiarare se ha rapporti di parentela, affinità, affiliazione o dipendenza con alcuna delle parti, oppure interesse nella causa (art. 252, comma 1, cod. proc. civ.)

– continua –

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88 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

- segue -

– le parti possono fare osservazioni sull’attendibilità del testimone e questi deve fornire in propo-sito i chiarimenti necessari (art. 252, comma 2, cod. proc. civ.)

– il giudice interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre; può rivolgergli, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che ritiene utili a chiarire i medesimi fatti (art. 253, comma 1, cod. proc. civ.)

– è vietato alle parti e al pubblico ministero di interrogare direttamente i testimoni (art. 253, com-ma 2, cod. proc. civ.)

– i testimoni devono rispondere personalmente; non possono servirsi di scritti preparati, ma il giudice può consentire loro di valersi di note o di appunti, quando debbono fare riferimento a nomi o a cifre, o quando particolari circostanze lo consigliano (art. 253, comma 3, cod. proc. civ.)

– se vi sono divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, il giudice, su istanza di parte o d’ufficio, può disporre che siano messi a confronto (art. 254 cod. proc. civ.)

– se il testimone regolarmente intimato non si presenta, il giudice può ordinare una nuova intima-zione oppure disporne l’accompagnamento all’udienza stessa o ad altra successiva; con la me-desima ordinanza, in caso di mancata comparizione senza giustificato motivo, può condannarlo ad una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro; in caso di ulterio-re mancata comparizione senza giustificato motivo, il giudice dispone l’accompagnamento del testimone all’udienza stessa o ad altra successiva e lo condanna ad una pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro (art. 255, comma 1, cod. proc. civ.)

– se il testimone rifiuta di deporre senza giustificato motivo, o se vi è fondato sospetto che egli non abbia detto la verità o sia stato reticente, il giudice lo denuncia al pubblico ministero, al quale trasmette copia del processo verbale (art. 256 cod. proc. civ.)

Nel rito del lavoro trova applicazione l’art. 208 cod. proc. civ., secondo cui se non si presen-ta la parte su istanza della quale deve iniziarsi o proseguirsi la prova, il giudice la dichiara decaduta dal diritto di farla assumere, salvo che l’altra parte presente non ne chieda l’assun-zione; la parte interessata può chiedere nell’udienza successiva la revoca dell’ordinanza che ha pronunciato la sua decadenza, revoca che può essere disposta quando venga riconosciuto che la mancata comparizione è stata cagionata da causa non imputabile alla stessa parte. Il giudice, dichiarata la decadenza, deve dunque fissare comunque un’udienza successiva, per dar modo alla parte non comparsa di instare, se del caso, per la rimessione in termini.

6.6.3 La deposizione

Se il testimone regolarmente intimato non si presenta, il giudice può:ordinare una nuova intimazione;disporne l’accompagnamento all’udienza stessa;disporne l’accompagnamento a udienza successiva.Con la medesima ordinanza il giudice, in caso di mancata comparizione senza giustificato

motivo, può condannare il testimone non comparso ad una pena pecuniaria non inferiore a 100 euro e non superiore a 1.000 euro.

se il testimone si trova nell’impossibilità di presentarsi, oppure ne è esentato dalla legge o dalle convenzioni internazionali, il giudice si reca nella sua abitazione o nel suo ufficio; e, se questi sono situati fuori della circoscrizione del tribunale, delega all’esame il giudice istrutto-re del luogo.

In base alla disposizione dettata dall’art. 249 cod. proc. civ., si applicano all’audizione dei testimoni le disposizioni degli artt. 200, 201 e 202 cod. proc. pen. relative alla facoltà d’asten-sione dei testimoni. E pertanto:

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

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non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del pro-prio ministero, ufficio o professione, salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria: a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano; b) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i no-tai; c) i medici e i chirurghi, i farmacisti, le ostetriche e ogni altro esercente una professione sanitaria; d) gli esercenti altri uffici o professioni ai quali la legge riconosce la facoltà di aste-nersi dal deporre determinata dal segreto professionale (il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari; se risulta infondata, ordina che il testimone deponga);

salvi i casi in cui hanno l’obbligo di riferirne all’autorità giudiziaria, i pubblici ufficiali, i pub-blici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti conosciuti per ragioni del loro ufficio che devono rimanere segreti;

i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di un pubblico servizio hanno l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato.

LIMITI DI AMMISSIBILITÀ DELLA PROVA TESTIMONIALE

la prova per testimoni dei contratti non è ammessa quando il valore dell’og-getto ecceda euro 2,58;

Art. 2721 c.c

la prova per testimoni non è ammessa se ha per oggetto patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, per i quali si alleghi che la stipula-zione è stata anteriore o contemporanea

Art. 2722 c.c

la prova per testimoni, quando si alleghi che, dopo la formazione di un docu-mento, è stato stipulato un patto aggiunto o contrario al contenuto di esso, può essere consentita soltanto se, avuto riguardo alla qualità delle parti, alla natura del contratto e ad ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali

Art. 2723 c.c

la prova per testimoni della simulazione è ammissibile, se è proposta dalle parti, soltanto se diretta a far valere l’illiceità del contratto dissimulato

Art. 1417 c.c

La particolare struttura del processo del lavoro non osta a che il giudice interroghi libera-mente i testimoni indicati dalle parti; gli è infatti consentito, nell’assunzione della prova, chie-dere ai testimoni tutti i chiarimenti in ordine ai fatti esposti dalle parti e inoltre, ai sensi del secondo comma dell’art. 421 cod. proc. civ., estendere la stessa prova testimoniale a nuove circostanze da lui ritenute rilevanti, salva espressa opposizione delle parti, motivata da una concreta violazione del loro diritto di difesa.

Ai giudizi instaurati dopo il 4 luglio 2009 si applica l’art. 257-bis cod. proc. civ., che consen-te al giudice, su accordo delle parti, tenuto conto della natura della causa e di ogni altra circo-stanza, di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di sua escus-sione fuori della circoscrizione del tribunale, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato. Con lo stesso provvedimento si deve di-sporre che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza in conformità agli articoli ammessi e lo faccia notificare al testimone, il quale dovrà rendere la deposizione compilando il modello in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisare quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione. Quando la testimonianza abbia ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti potrà essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della

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90 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello. Il testimone sot-toscrive la deposizione, apponendo la propria firma autenticata su ciascuna delle facciate del foglio di testimonianza, che spedisce in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Qualora il testimone si avvalga della facoltà di astensione, ha l’obbli-go di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione. Se il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabi-lito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000. Il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Perplessità fondate sorgono sull’applicabilità al processo del lavoro della norma dettata dall’art. 257-bis, stante la disposi-zione dell’art. 420, 8° comma, cod. proc. civ., secondo cui in questo rito l’assunzione delle prove deve essere esaurita nella stessa udienza di discussione o, ma solo in caso di necessità, in udienza da tenersi nei giorni immediatamente successivi: soltanto la giurisprudenza che si andrà formando al riguardo potrà chiarire la questione.

L’art. 246 cod. proc. civ. dispone che non possono essere assunte come testimoni le perso-ne aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. L’incapacità a testimoniare ricorre quando la persona chiamata a deporre abbia nella causa un interesse attuale, personale e concreto, vale a dire che sia tale da coinvolgerla nel rapporto controverso e da legittimare una sua assunzione della qualità di parte in senso sostanziale e processuale nel giudizio (Cass. 4 maggio 2012, n. 6802). L’art. 421, ultimo comma, cod. proc. civ. supera, in una certa misura, anche tale limite, consentendo al giudice, se lo ritiene neces-sario, di ordinare la comparizione, per interrogarli liberamente sui fatti della causa, anche degli incapaci a testimoniare. Tale facoltà può essere esercitata solo quando il provvedimento sia giustificato da una motivata situazione di necessità.

6.7 L’accesso sul luogo di lavoro

L’art. 421, co. 3, cod. civ. consente al giudice di disporre, su istanza di parte, l’accesso sul luogo di lavoro, purché necessario al fine dell’accertamento dei fatti; in occasione dell’ac-cesso il giudice, se ne ravvisa l’utilità, può anche esaminare i testimoni sul luogo.

La norma è a tal punto inapplicata da potersi definire desueta; la prassi che vuole tale mez-zo del tutto negletto non trova altre ragioni che la pigrizia dei protagonisti del processo e un’oggettiva difficoltà di ordine organizzativo.

Accedere sul luogo di lavoro sarebbe, invece, in molti casi estremamente utile, soprattutto quando si tratti di valutare le condizioni ambientali di lavoro, di accertare la natura di determi-nate mansioni e, soprattutto, nelle ipotesi di lavoro irregolare, in cui il datore di lavoro conve-nuto resiste in giudizio negando essere mai sussistito qualsiasi rapporto di fatto con il lavora-tore ricorrente e, a volte, negandone perfino la conoscenza fisica.

6.8 La consulenza tecnica

L’art. 424 cod. proc. civ. consente al giudice, se la natura della controversia lo richiede, di nominare in qualsiasi momento uno o più consulenti tecnici, scelti in albi speciali. L’ordinan-za di nomina è notificata al consulente tecnico a cura del cancelliere, con invito a comparire all’udienza fissata dal giudice.

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

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Il consulente può essere autorizzato a riferire verbalmente e, in tal caso, le sue dichiarazio-ni sono integralmente raccolte a verbale. Se il consulente chiede invece di presentare relazio-ne scritta, come accade nella quasi totalità dei casi, il giudice fissa un termine non superiore a venti giorni, non prorogabile, rinviando la trattazione ad altra udienza.

Il consulente, che ha l’obbligo di prestare il suo ufficio, tranne che il giudice riconosca che ricorra un giusto motivo di astensione, compie le indagini che gli sono commesse e fornisce, in udienza e in camera di consiglio, i chiarimenti che il giudice gli richiede.

Il giudice, con l’ordinanza di nomina del consulente d’ufficio, assegna alle parti un termi-ne entro il quale possono nominare, con dichiarazione ricevuta dal cancelliere, un loro consu-lente tecnico che, oltre ad assistere alle operazioni del consulente d’ufficio, partecipa all’u-dienza e alla camera di consiglio ogni volta che vi interviene quest’ultimo, per chiarire e svolgere le sue osservazioni sui risultati delle indagini tecniche. La consulenza tecnica di par-te, costituendo una semplice allegazione difensiva a contenuto tecnico, priva di autonomo va-lore probatorio ma semplice espressione di una motivata opinione sulle questioni controverse, può essere prodotta sia da sola che nel contesto degli scritti difensivi della parte. Il giudice non è tenuto a motivare il proprio dissenso dalle relazioni peritali di parte, quando ponga a base del proprio convincimento considerazioni incompatibili con esse e, in particolare, quando si uniformi alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, dovendosi così intendere disattese per implicito le contrarie opinioni del consulente di parte, le cui ammissioni, peral-tro, non hanno l’efficacia della confessione.

6.9 Le informazioni e osservazioni sindacali

Nel rito del lavoro, la richiesta di informazioni alle associazioni sindacali, che non è an-noverabile tra i mezzi di prova, costituisce un peculiare strumento processuale, che permet-te al giudice di acquisire dati per una migliore comprensione della fattispecie sottoposta al suo esame.

L’art. 421, c. 2, consente al giudice di disporre d’ufficio, in qualsiasi momento, la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Tale potere rivela il principio di più accentuata officialità nell’indagine istruttoria che caratterizza il processo del lavoro rispetto a quello civile ordinario; il suo esercizio, tuttavia, è ammesso solo nei riguardi dei sindacati indicate dalle parti. A questi, ai sensi del successivo art. 425, può essere chiesto anche il testo dei contratti e accordi collettivi, ma solo in riferi-mento, quanto meno, ad allegazioni e a specifiche e motivate deduzioni delle parti stesse, che abbiano invocato l’applicabilità alla controversia di alcune delle relative clausole.

L’art. 425 cod. proc. civ. dispone che, su istanza di parte, l’associazione sindacale indicata dalla stessa ha facoltà di rendere in giudizio, tramite un suo rappresentante, informazioni e osservazioni orali o scritte. Tali informazioni e osservazioni possono essere rese anche nel luogo di lavoro, se vi sia stato disposto l’accesso. L’acquisizione non costituisce un obbligo per il giudice, il quale è tenuto soltanto a prendere in esame l’istanza della parte e ad indicare i motivi per i quali ritenga di disattenderla. La parte istante, d’altro canto, deve indicare specifi-camente i quesiti cui tali informazioni ed osservazioni debbono riferirsi, affinché il giudice possa valutarne la rilevanza o meno. L’istanza deve contenere pure l’indicazione dell’associa-zione cui debbono essere richieste le informazioni e osservazioni; se il sindacato non risponde per iscritto, è anche necessario che la persona incaricata di renderle oralmente in giudizio sia munita di titolo giustificativo del potere di rappresentanza dell’associazione.

Spesso le parti ricorrono a questo strumento per tentare di dar prova della volontà che sorregge una determinata clausola contrattuale collettiva. La giurisprudenza, tuttavia, ritiene inidonee le informazioni e osservazioni fornite in giudizio dall’associazione sindacale indicata

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92 Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

dalla parte, anche in considerazione del loro carattere unilaterale, ad attestare la comune in-tenzione delle parti stipulanti il contratto collettivo, rilevante ai sensi dell’art. 1362 cod. civ. (Cass. 4 marzo 2002, n. 3081). Nell’interpretazione di un contratto collettivo, infatti, le informa-zioni e le osservazioni sindacali possono essere utili per la ricostruzione dello svolgimento della vicenda contrattuale e, in particolare, per la determinazione dell’oggetto dibattuto fra le parti e della posizione da queste assunta nel corso delle trattative, ma non possono risolversi in valutazioni interpretative riservate al giudice, che deve procedere direttamente all’interpre-tazione della volontà negoziale, quale obiettivamente manifestata dalle clausole contrattuali, in base al prioritario criterio costituito dall’elemento letterale.

I MEZZI DI PROVA

Nozione i mezzi di prova sono gli strumenti processuali che determinano il convinci-mento del giudice circa i fatti oggetto della controversia

classificazionedelle prove

- prova diretta: ha per oggetto il fatto stesso che dev'essere provato e che è immediatamente rilevante per il giudizio

- prova indiretta: ha per oggetto un fatto diverso da quello immediatamen-te rilevante per la decisione della causa, a cui può essere ricondotto solo attraverso un procedimento logico

- prova contraria: è diretta a smentire la veridicità del fatto che dev'essere provato dalla controparte

- prova legale: dev'essere valutata secondo i criteri rigorosamente fissati dalla legge, quindi non è liberamente apprezzabile dal giudice (es. confes-sione e giuramento)

- prova liberamente apprezzabile: viene valutata discrezionalmente dal giudice, secondo il suo prudente apprezzamento (es. testimonianza)

- prova precostituita: è formata al di fuori del giudizio e la parte deve solo produrla (es. prova documentale)

- prova costituenda: viene formata in corso di causa, nella fase istruttoria (es. interrogatorio dei testimoni)

Prova documentale - nozione: è documento ogni rappresentazione materiale idonea a rappre-sentare l'esistenza di un fatto

- atto pubblico: documento redatto da notaio o altro pubblico ufficiale auto-rizzato ad attribuirgli pubblica fede: fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza dal pubblico ufficiale e dei fatti da costui compiuti o che ha attestato essere avvenuti in sua presenza

- scrittura privata semplice: qualunque documento scritto e sottoscritto dalla parte; fa piena prova della provenienza dalla parte che l'ha sotto-scritta fino a che non intervenga il disconoscimento, nei tempi e con le mo-dalità stabilite dalla legge. Contro il disconoscimento, la controparte può formulare l'istanza di verificazione

- scrittura privata autenticata: la sottoscrizione è autenticata da notaio o al-tro pubblico ufficiale autorizzato ed ha valore probatorio pari all'atto pubblico

– continua –

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Capitolo 6 - La trattazione della causa

Processo del lavoro

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- segue -

confessione - nozione: dichiarazione proveniente dalla parte della verità di fatti ad essa sfavorevoli e favorevoli alla controparte.

- fatto sfavorevole: quello che in concreto produce conseguenze sfavore-voli per il dichiarante

- oggetto: soltanto i fatti della causa, siano essi costitutivi, estintivi, modi-ficativi o impeditivi

- capacità del dichiarante: dev'essere persona capace di disporre del dirit-to a cui si riferiscono i fatti oggetto della confessione

- confessione giudiziale: la dichiarazione viene resa in giudizio; il mezzo di prova diretto a provocare la confessione giudiziale è l'interrogatorio for-male della parte

- confessione stragiudiziale: la dichiarazione viene resa fuori del giudizio

giuramento - nozione: dichiarazione attraverso la quale la parte, nei modi stabiliti dalla legge, riconosce la verità di un fatto, che si ha come definitivamente provato

- decisorio: deferito da una parte all'altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa; la parte può riferire il giuramento all'avver-sario; il deferimento può avvenire in ogni stato e grado del giudizio

- suppletorio: deferito d'ufficio dal giudice ad una delle parti al fine di deci-dere la causa, quando la domanda dell'attore o le eccezioni del convenuto sono provate solo parzialmente

- estimatorio: particolare forma di giuramento suppletorio, avente ad og-getto il valore della cosa domandata, se questo non possa essere accertato altrimenti

Testimonianza - limiti di ammissibilità: sono stabiliti dagli articoli 2721/2726 c.c., fatti sal-vi i particolari poteri riconosciuti al giudice del lavoro dall'art. 421 c.c.

- divieto di testimoniare: persone aventi nella causa un interesse tale da legittimare, in astratto, la partecipazione al giudizio come parte

- deduzione: la prova dev'essere dedotta dalla parte con indicazione spe-cifica delle persone da interrogare e dei fatti oggetto dell'interrogatorio, articolati per capitoli separati

- intimazione: i testimoni devono essere intimati a cura della parte, onde evi-tare, in caso di mancata comparizione, la decadenza dalla prova testimoniale

- interrogatorio: avviene per capitoli separati; le domande vengono rivolte dal giudice; i difensori delle parti possono stimolare la domanda del giudi-ce ma non interrogare direttamente i testi

- valutazione: si applica il principio del libero apprezzamento da parte del giudice, secondo la sua valutazione discrezionale

Accesso sul luogo di lavoro

il giudice del lavoro può disporre, su istanza di parte, l'accesso sul luogo di lavoro e l'eventuale interrogatorio dei testi ivi reperiti, a condizione che ciò sia necessario per l'accertamento dei fatti. Si applicano le norme che disciplinano l'attività di ispezione sui luoghi

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Processo del lavoro

Capitolo 7

I PROVVEDIMENTI ANTIcIPATORI

7.1 L’ordinanza di pagamento di somme non contestate

L’art. 423, co. 1, cod. proc. civ. impone al giudice, su istanza di parte, in ogni stato del giudi-zio, di disporre con ordinanza esecutiva il pagamento delle somme non contestate.

La sola contumacia della controparte non è sufficiente al ricorrente per ottenere l’ordinanza; è invece necessario che il giudice disponga di elementi di valutazione che gli permettano di convin-cersi che il credito vantato non sia stato contestato, almeno in parte. La mancata contestazione può trarsi o dal rilievo che la stessa impostazione difensiva del convenuto presupponga la sussistenza del credito oppure dalla valutazione che la resistenza in giudizio della controparte è pretestuosa.

Il provvedimento ha un carattere certamente non decisorio, poiché non ne è precluso il successivo riesame; è, pertanto, riconducibile alla categoria dei provvedimenti condannatori a cognizione sommaria e ad effetto anticipatorio.

Se l’ordinanza contiene la specificazione non solo dell’importo da pagare, ma anche delle causali, la revoca può essere ordinata con la sentenza che decide la causa soltanto se il prov-vedimento definitivo dichiari, motivatamente, l’illegittimità di quello provvisorio per mancanza delle condizioni richieste per la sua emissione; nell’opposta ipotesi, non facendosi luogo alla revoca dell’ordinanza, i pagamenti eseguiti andranno imputati ai crediti in relazione ai quali erano stati interinalmente ordinati.

L’ordinanza non è suscettibile di appello (Cass. Sez. Un. 26 settembre 1997, n. 9479), trat-tandosi di un provvedimento:

– a cognizione sommaria;– privo di decisorietà (e, quindi, non assimilabile alla sentenza di condanna generica);– non preclusivo del riesame delle questioni in esso affrontate;– revocabile con la sentenza che definisce il giudizio

Le somme non contestate di cui il giudice abbia disposto il pagamento vanno imputate al capitale e non agli interessi legali che risulteranno dovuti all’esito del processo (Cass. 17 set-tembre 1991, n. 9668).

A restituzione delle somme corrisposte in forza della sentenza di primo grado, provvisoria-mente esecutiva, può essere chiesta dall’appellante, in caso di accoglimento del gravame, con lo stesso atto di appello.

7.2 L’ordinanza di pagamento a titolo provvisorio

L’art. 423, co. 2, cod. proc. civ. consente al giudice, su istanza del lavoratore, di disporre con ordinanza, revocabile con la sentenza che decide la causa, il pagamento di una somma a ti-

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96 Capitolo 7 - I provvedimenti anticipatori

Processo del lavoro

tolo provvisorio, quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.

Questa ordinanza, pur avendo presupposti totalmente diversi da quella disciplinata dal pri-mo comma, ne condivide la natura interinale, non decisoria; è revocabile o modificabile con la sentenza che decide la causa e non è autonomamente impugnabile rispetto a questa, neanche ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass. Sez. Un. 26 settembre 1997, n. 9479).

Non è richiesta, per la concessione dell’ordinanza, la sussistenza del «periculum in mora», ossia del pregiudizio che patirebbe il lavoratore durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto. E proprio ciò ha fatto argomentare (Cass. 2 settembre 1997, n. 8373) che i provve-dimenti d’urgenza sono invocabili ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. anche se l’ordinamento appronta il rimedio dell’ordinanza di pagamento di una somma a titolo provvisorio, giacché questo, definibile come provvedimento decisorio solo in senso lato cautelare, ha presupposti diversi, potendo, in particolare, prescindere dal «periculum».

L’ordinanza di pagamento di somme a titolo provvisorio può essere invocata solo dal lavo-ratore, al contrario di quella di pagamento delle somme non contestate che, al pari dell’ordi-nanza di ingiunzione, può essere chiesta da tutte le parti del giudizio.

7.3 L’ordinanza di ingiunzione di pagamento

L’art. 186-ter cod. proc. civ., introdotto dalla novella del 1990, consente alla parte, fino al momento della precisazione delle conclusioni, di chiedere al giudice, in ogni stato del proces-so, di pronunciare, con ordinanza, ingiunzione di pagamento o di consegna.

La domanda può essere accolta solo se ricorrono i seguenti presupposti:

– prova scritta del diritto fatto valere;– sussistenza di elementi atti a far presumere l’adempimento della controprestazione o l’avvera-

mento della condizione, qualora il diritto fatto valere dipenda dall’una o dall’altra

Il requisito della prova scritta deve essere valutato tenendo conto del comportamento di entrambe le parti; in assenza di prove acquisite nel processo, la situazione del debitore che contesta la fondatezza della pretesa creditoria attrice sarà, così, identica a quella in cui il cre-ditore, a fronte delle contestazioni del debitore, non abbia allegato alcuna prova specifica: di-fetteranno, pertanto, le condizioni per concedere il provvedimento.

L’ordinanza di ingiunzione non può essere pronunciata prima della costituzione del conve-nuto, né emessa dopo la costituzione dell’attore ma prima dell’udienza di discussione, dal momento che presuppone la costituzione ovvero la contumacia del convenuto.

se l’istanza è proposta fuori dall’udienza il giudice dispone la comparizione delle parti ed assegna il termine per la notificazione.

Il provvedimento, che deve contenere anche la condanna al pagamento delle spese di soccombenza, è dichiarato provvisoriamente esecutivo:

– se ricorrono i presupposti dell’esecuzione provvisoria dei decreti ingiuntivi (credito fondato su cambiale, assegno, certificato di liquidazione di borsa, o su atto ricevuto da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ovvero pericolo di grave pregiudizio nel ritardo, se del caso con imposizione di cauzione);

– continua –

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Capitolo 7 - I provvedimenti anticipatori

Processo del lavoro

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- segue -

– se la controparte non è rimasta contumace e ricorrono i presupposti dell’esecuzione provvisoria dei decreti ingiuntivi in pendenza di opposizione (opposizione non fondata su prova scritta, oppo-sizione di non pronta soluzione, somme non contestate, prestazione di cauzione).

La provvisoria esecutorietà non può essere mai disposta quando la controparte abbia di-sconosciuto la scrittura privata prodotta contro di lei o abbia proposto querela di falso contro l’atto pubblico.

L’ordinanza dichiarata esecutiva costituisce titolo per l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale. Il provvedimento non ha natura decisoria, sicché è inammissibile il ricorso straordinario per cassazione (Cass. 15 giugno 1999, n. 5944). Il provvedimento è soggetto alla disciplina delle ordinanze revocabili di cui agli artt. 177 e 178, co. 1, cod. proc. civ., sicché non può pregiudica-re la decisione della causa e può essere sempre modificato o revocato dal giudice che l’ha pronunciato.

Se l’ingiunzione è pronunciata a carico della parte contumace, l’ordinanza deve esserle notificata, a pena di inefficacia, nel termine di 60 dalla pronuncia, se la notificazione deve av-venire nel territorio della Repubblica, o di 90 giorni negli altri casi. In tale ipotesi, l’ordinanza deve altresì contenere l’espresso avvertimento che, ove la parte non si costituisca entro il termine di 20 giorni dalla notifica, diverrà esecutiva.

Se il processo si estingue, l’ordinanza, che non ne sia già munita, acquista efficacia esecutiva.

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Processo del lavoro

Capitolo 8

LA sENTENZA

8.1 La discussione della causa

L’art. 429 cod. proc. civ. dispone che il giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, pronunci sentenza, con cui definisce il giudizio, dando lettura del di-spositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione.

8.1.1 Le istanze preliminari e istruttorie

La discussione della causa segna un limite processuale, in quanto successivamente al suo inizio pure nel processo del lavoro - nel quale l’udienza di discussione è, almeno astrattamen-te, unica, confondendosi in essa anche la prima comparizione delle parti, la trattazione e l’i-struttoria - non è più consentita alcuna attività processuale di parte, né relativa a richieste istruttorie né a richieste defensionali. Non è, pertanto, ammissibile, in analogia con quanto avviene nel processo civile ordinario (Cass. 4 giugno 2001, n. 7511), nemmeno la produzione di documenti, anche se si tratti di documenti non costituenti nuovi mezzi di prova, giacché la fase della discussione non consentirebbe alla controparte l’esame del documento prodotto né l’eventuale replica sulla sua efficacia nel processo. Il che, ovviamente, non significa che il giu-dice, udita la discussione, non possa riaprire l’istruttoria ma, più semplicemente, che la pro-posizione, all’udienza di discussione, di richieste preliminari o istanze istruttorie non compor-ta l’obbligo di emettere uno specifico provvedimento e non esonera le parti dal dovere di svolgere le difese definitive.

La parte che, ammessa alla discussione orale, si sia limitata a trattare le sole istanze istruttorie non può eccepire, qualora il giudice abbia deciso la causa anche nel merito, la nul-lità della sentenza, essendo rimesso alla discrezionalità di quella valutare, secondo il proprio interesse, l’oggetto ed i limiti della discussione e non sussistendo, in detta ipotesi, alcuna violazione del diritto di difesa. La parte, in sostanza, tranne che il giudice non limiti espressa-mente la discussione alla trattazione di istanze preliminari, ha sempre la facoltà di discutere l’intero tema della controversia.

8.1.2 La forma della discussione

La necessaria oralità della discussione non impedisce che il difensore, nell’esporre verbal-mente le ragioni della difesa, legga uno scritto precedentemente redatto; questo scritto perde, allora, la natura di «note di udienza», per divenire una sorta di appunto contenente i temi af-frontati, che il giudice non può acquisire alla causa ma di cui può disporre, al pari di un testo di legge o di giurisprudenza o di dottrina richiamato nella discussione (Cass. 17 febbraio 1998, n. 1668).

In ogni caso l’utilizzazione di tale scritto non determina la nullità della sentenza, perché non comminata dalla legge, salvo che la controparte dimostri che la decisione è fondata sol-tanto su quelle argomentazioni, per la prima volta in esso affrontate.

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100 Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

8.2 Le note difensive

L’art. 429, co. 2, cod. proc. civ. consente al giudice, se lo ritiene necessario e su richiesta delle parti, di concedere un termine, non superiore a 10 giorni, per il deposito di note difen-sive, rinviando la causa all’udienza immediatamente successiva alla scadenza di tale termine, per la discussione e la pronuncia della sentenza.

Il deposito delle note difensive eseguito in violazione dell’art. 429 cod. proc. civ. non è causa di nullità, in mancanza della previsione di tale sanzione da parte della legge. Il giudice, però, non deve tenere conto degli scritti difensivi non autorizzati o depositati oltre il termine conces-so alle parti, anche per tutelare la loro posizione di parità nel processo.

L’istituto delle note difensive, previsto come eccezione al principio di oralità dal codificatore del processo del lavoro, si è presto trasformato, nella prassi giudiziaria, in regola, travolgendo anche il divieto delle udienze di mero rinvio: da subito (Cass. 17 gennaio 1986, n. 285) si è ar-gomentato che, nell’ipotesi di concessione del termine per il deposito delle note, il rinvio ad un’udienza diversa (e ovviamente più lontana) da quella immediatamente successiva alla sca-denza del termine stesso concreterebbe l’esercizio di un potere discrezionale, in relazione alle esigenze di servizio dell’ufficio giudiziario.

Il rito del lavoro non prevede la precisazione delle conclusioni, al contrario di quanto avvie-ne nel rito ordinario, in cui l’art. 189 cod. proc. civ. stabilisce che le parti precisino davanti al giudice istruttore le conclusioni che intendono sottoporre al collegio. Nella prassi, tuttavia, sia in sede di discussione orale che nelle note autorizzate è uso dei difensori ribadirle. Il ri-chiamo ad esse, che devono essere state già compiutamente formulate negli atti introduttivi, non assume alcun significato processuale, tanto che è stato, ad esempio, ritenuto (Cass. 24 maggio 1991, n. 5908) che la mancata riproduzione, nelle conclusioni finali, di un’istanza istruttoria formulata negli atti introduttivi del giudizio non comporta alcuna rinuncia implicita alla stessa.

8.3 Il dispositivo

Il dispositivo è la parte della sentenza che contiene l’ordine giudiziale, sintetizzando la decisione del giudice. Il provvedimento sintetizzato dal dispositivo si differenzia, quanto al contenuto, in ragione dei differenti tipi di sentenza.

8.3.1 La classificazione delle sentenze

Le sentenze di merito, che pronunciano sulle domande proposte dalle parti, sono:

– di accertamento: accertano l’esistenza di un diritto, senza incidere però sulla situazione giuridica (es.: accertamento della nullità di un contratto); l’azione di accertamento non può avere ad oggetto una mera situazione di fatto, salvi i casi espressamente previsti dalla legge, ma deve tendere all’ac-certamento di un diritto che possa in astratto competere all’attore, sempreché sussista un pregiu-dizio attuale, e non meramente potenziale, che non possa essere eliminato senza una pronuncia giudiziale;

– continua –

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Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

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- segue

– di condanna: accertano un diritto e incidono sulla situazione giuridica, costringendo una parte a soddisfarlo (es.: condanna del contraente inadempiente al risarcimento del danno per responsabi-lità contrattuale);

– costitutive: accertano un diritto alla modificazione di una situazione giuridica, quasi sempre sta-bilendo i modi della modificazione (es.: annullamento di un contratto per incapacità naturale del contraente); una sentenza costitutiva del contratto di lavoro non può essere pronunciata in difetto di specificità degli elementi essenziali del contratto, quali la durata dell’incarico, gli obiettivi, la responsabilità e il trattamento retributivo;

– di rigetto: respingono la domanda.

Le sentenze in rito, invece, decidono sulla sussistenza dei presupposti processuali, verifi-cando i requisiti per il regolare svolgimento del giudizio; spesso decidono la causa, proprio perché l’assenza dei suoi requisiti, determinando l’irregolarità del processo, impedisce di esa-minare il merito della controversia.

Le sentenze si distinguono, a loro volta, in definitive o parziali: le prime concludono la causa, mentre le seconde decidono su una questione, pregiudiziale (in rito) o preliminare (di merito), la cui definizione è inidonea a concludere la causa. A proposito di queste ultime, le esigenze di rapidità e di economia del processo del lavoro avevano suscitato iniziali dubbi sul-la possibilità per il giudice di emettere sentenze non definitive di merito e, in particolare, di scindere il giudizio sull’«an debeatur» da quello sul «quantum debeatur». La pronuncia, a norma dell’art. 278 cod. proc. civ., di sentenza non definitiva sull’«an», anche in mancanza dell’istanza di parte, non comporta, così come nel rito ordinario, violazione di princìpi di ordine pubblico e non incide sulla realizzazione delle finalità essenziali del processo, le quali non sono compromesse dalla scissione in due fasi. Anche nelle controversie di lavoro, quindi, una pronuncia limitata all’«an», in presenza di una domanda originariamente estesa al «quan-tum», è consentita quando la richiesta in tal senso del ricorrente trovi l’adesione esplicita od implicita del convenuto.

8.3.2 La lettura del dispositivo

L’art. 53 D.L. 25 giugno 2008, n. 112, nel riformare il primo comma dell’art. 429 cod. proc. civ., impone al giudice, esaurita la discussione orale e udite le conclusioni delle parti, di pro-nunciare la sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura, non solo del dispositivo, ma pure dell’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione; soltanto in caso di parti-colare complessità della controversia il giudice può fissare nel dispositivo un termine, non superiore a 60 giorni, per il deposito della sentenza.

Nella seconda ipotesi, il dispositivo costituisce un atto dotato di autonomia formale, non più emendabile se non a seguito dell’impugnazione della sentenza; esso è letto, e per ciò stes-so pubblicato, nell’udienza di discussione. E, allora, valgono i princìpi che seguono.

La mancata lettura del dispositivo in udienza, imposta dagli artt. 429 e 437 cod. proc. civ., comporta la nullità insanabile della sentenza, in quanto i princìpi di immediatezza e concen-trazione, che informano il processo del lavoro, escludono qualsiasi soluzione di continuità tra la discussione della causa e la deliberazione della sentenza e tra questa e la pronuncia. Tale principio non ammette deroghe, neppure nell’ipotesi di rinvio dettato dalla necessità di conce-dere alle parti un termine per il deposito di note difensive. Ai sensi del combinato disposto degli artt. 354, co. 1, e 161, co. 2, cod. proc. civ., il giudice d’appello, nel caso di nullità per mancata lettura del dispositivo in udienza, non può rimettere la causa al giudice di primo gra-

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102 Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

do ma deve trattenerla per la decisione sul merito (Cass. 7 novembre 2001, n. 13781). Il che esige che le relative questioni siano state debitamente e ritualmente dedotte, con la conse-guenza che l’appello fondato esclusivamente sui motivi di nullità per omessa lettura del dispo-sitivo, senza contestuale gravame contro l’ingiustizia della sentenza di primo grado, va dichia-rato inammissibile, sia per difetto di interesse che per non rispondenza al modello legale di impugnazione. La fase della lettura del dispositivo riveste, dunque, il carattere dell’essenzia-lità: è proprio in essa che si manifesta la necessità che il magistrato sia legittimamente pre-posto all’ufficio, per potere adottare un provvedimento giuridicamente esistente. I successivi momenti dell’iter formativo, e cioè la stesura della motivazione, la sottoscrizione e la pubbli-cazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia, sicché, ai fini dell’esistenza dell’atto, è addirittura irrilevante che dopo la lettura del dispositivo il giudice, per circostanze sopravve-nute, quali ad esempio il trasferimento o il collocamento fuori ruolo o a riposo, sia cessato dalle funzioni presso l’ufficio investito della controversia (Cass. 21 marzo 2001, n. 4012).

Nel rito del lavoro, ai fini dell’individuazione della data di decisione del giudizio, rileva il verbale dell’udienza di discussione che attesta la lettura del dispositivo della sentenza, trat-tandosi di atto pubblico che fa fede fino a querela di falso (Cass. 22 novembre 2011, n. 24573).

8.3.3 L’autonomia del dispositivo

L’errore materiale contenuto nella sentenza, che è suscettibile di correzione ai sensi dell’art. 287 cod. proc. civ., è quello dovuto a mera svista del giudice, che non incide sul contenuto concet-tuale sostanziale della decisione; si traduce, perciò, in un difetto di corrispondenza tra l’ideazione e la sua materiale rappresentazione grafica. Nel rito del lavoro la procedura prevista dagli artt. 287 e seguenti non consente di modificare il contenuto della statuizione, irretrattabilmente fissato dal dispositivo letto in udienza, che non è modificabile, da parte dello stesso giudice che ha emanato il provvedimento, mediante la procedura di correzione degli errori materiali, neppure al fine di elimi-nare un qualche contrasto con la motivazione, trattandosi in tale ipotesi non già di errore attinente all’estrinsecazione del giudizio, bensì di errata decisione del merito (Cass. 11 dicembre 1993, n. 12223). Nel tempo questo principio si è andato mitigando, nel senso di escludere l’insanabilità quando sussista una parziale coerenza tra dispositivo e motivazione, divergenti solo da un punto di vista quantitativo, e la seconda inoltre sia ancorata ad un elemento obiettivo che inequivocabilmen-te la sostenga, sì da potersi escludere l’ipotesi di un ripensamento del giudice; in tal caso sarebbe configurabile l’errore materiale, con la conseguenza che, da un lato, sarebbe consentito l’esperi-mento del relativo procedimento di correzione e, dall’altro, dovrebbe qualificarsi come inammissi-bile l’eventuale impugnazione diretta a far valere la nullità della sentenza asseritamente dipenden-te dal contrasto tra dispositivo e motivazione (Cass. 10 maggio 2011, n. 10305).

Nel rito del lavoro il dispositivo, comunque, della sentenza non è un atto puramente in-terno, modificabile fin quando la sentenza non venga pubblicata, bensì atto di rilevanza esterna, immodificabile e irrevocabile. La sentenza è affetta pertanto da violazione di legge, che comporta il suo annullamento, qualora un vizio siffatto sia riscontrabile sulla base della decisione risultante dal dispositivo, a nulla rilevando che nella motivazione siano contenute integrazioni che sarebbero idonee a riportare la sentenza ad una corretta applicazione della legge (Cass. 1° luglio 1998, n. 6438).

Il requisito della sottoscrizione della sentenza da parte del giudice che l’ha pronunciata, la cui mancanza comporta la nullità insanabile e rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 161, co. 2, cod. proc. civ., va verificato, invece, con riferimento alla sentenza, completa di motivazione e di dispositivo. È quindi irrilevante, e non produce nullità, la mancata sottoscrizione, o la sottoscrizione mediante segno gra-fico illeggibile, del solo dispositivo letto in udienza, in relazione al quale, peraltro, l’identificazione del giudice ben può desumersi dal verbale di udienza (Cass. 19 novembre 2001, n. 14481). Altro vizio

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Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

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oggetto di non poche pronunce consiste nella lettura di un dispositivo diverso da quello deliberato. Essa equivale ad omessa lettura del dispositivo e determina la nullità della sentenza. Anche l’inde-terminatezza del dispositivo, quanto alla natura ed alla decorrenza della prestazione riconosciuta, comporta la nullità della sentenza, in quanto non è possibile ovviare all’incompletezza del dispositivo in sede di motivazione, la quale non può in alcun modo integrare il comando del giudice, che deve essere espresso esaurientemente dal dispositivo letto all’udienza di discussione.

IL DISPOSITIVO NELLE PRASSI GIUDIZIARIE

Lettura a fine udienza

se la lettura del dispositivo (e analogamente quella di un’ordinanza istruttoria che, di fatto, sia pronunciata in luogo della sentenza) avviene nel corso della stessa udienza di discussione, è ininfluente, ai fini della validità del provvedimento, l’even-tuale intervallo costituito dalla discussione e deliberazione di altre cause (Cass. 22 novembre 1995, n. 12061)

Ritiro in camera di consiglio

poiché la disposizione che consente al giudice di riservarsi di pronunciare sulle domande ed eccezioni delle parti non è applicabile nelle controversie di lavo-ro, deve considerarsi pronunciata in udienza l’ordinanza che è stata letta nella medesima udienza di discussione della causa dopo che il giudice, riservandosi di decidere, si è ritirato in camera di consiglio, anche quando, per necessità or-ganizzative, la lettura del dispositivo sia stata effettuata insieme a quella di tutti i dispositivi delle altre cause trattate nella medesima udienza, e non immediata-mente dopo la discussione della causa (Cass. 19 novembre 2001, n. 14479)

Rinvio per lettura del dispositivo

l’udienza in cui è effettuata la sola lettura del dispositivo, pur essendo distinta da quella di discussione, rappresenta una mera fase conclusiva di quest’ultima ed è alla stessa inscindibilmente collegata (Cass. 19 gennaio 1984, n. 480)

Deposito unitamente alla sentenza

la lettura in udienza del dispositivo, se costituisce un requisito formale indi-spensabile per la validità della pronuncia, non deve tuttavia risultare necessa-riamente da esplicita menzione nella sentenza, in quanto l’adempimento di tale formalità può essere documentato da qualsiasi altro atto processuale, o anche desumersi per implicito dal fatto che la pronuncia sia avvenuta immediatamente all’esito dell’udienza di discussione e il dispositivo sia stato depositato in pari data in cancelleria (Cass. 8 aprile 2002, n. 5019)

Omessadella letturamenzionenel verbale

pure se il verbale ha la funzione di documentare l’attività processuale cui si ri-ferisce, l’omissione della menzione di un parte di quest’attività, come d’altronde la stessa sua nullità o inesistenza, non si trasmette all’attività processuale che ne costituisce l’oggetto (nella specie, la lettura del dispositivo in udienza), qua-lora tale attività sia incontestata nella sua realtà storica e nel suo svolgimento e sia diversamente documentabile, attraverso il dispositivo o la stessa sentenza, giacché in tal caso risulta comunque raggiunto lo scopo cui è preordinato il re-quisito formale della verbalizzazione (Cass. 16 novembre 1987, n. 8397)

Riservadelladecisione

nel caso in cui, al termine dell’udienza di discussione, il giudice si riservi la decisione della causa e successivamente, con un’ordinanza resa fuori udienza, rimetta la causa stessa ad una nuova udienza di discussione, pronunciando in tale sede la sentenza con lettura del relativo dispositivo, l’irregolare utilizzazione dell’istituto della riserva (art. 186 cod. proc. civ.), incompatibile con il principio di concentrazione caratterizzante il rito del lavoro, e la fissazione di un’udienza di mero rinvio in violazione del divieto, privo di sanzione processuale, stabilito dall’ultimo comma dell’art. 420 cod. proc. civ., non sono causa di nullità del procedimento e della sentenza, comportando soltanto un rallentamento dei tempi del processo (Cass. 22 aprile 1987, n. 3910)

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104 Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

8.4 La motivazione

8.4.1 Il contenuto della motivazione

L’art. 430 cod. proc. civ. stabilisce che la sentenza deve essere depositata in cancelleria che il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti. L’inosservanza del termine sta-bilito dalla legge per il deposito non pregiudica l’efficacia della pubblicazione della sentenza e neppure ne determina la nullità.

La motivazione è l’esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione; da essa si rilevano i convincimenti che hanno indotto il giudice ad assumere le sue determinazioni. L’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., novellato nel 2009, dispone che la motivazione della consiste nel-la succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi. Debbono essere esposte concisamente e in or-dine le questioni discusse e decise ed indicati le norme di legge e i princìpi di diritto applicati. In ogni caso, deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici.

REQUISITI ESSENZIALI DELLA SENTENZA

sufficienza il giudice deve giustificare ogni sua decisione, esponendo i dati fondamentali del ra-gionamento che l’ha condotto al provvedimento, in relazione alle questioni sollevate dalle parti ed ai ragionamenti esposti da queste

Logicità il ragionamento esposto dal giudice deve essere composto da considerazioni co-erenti tra loro

Ordine le questioni discusse e decise vanno esposte in ordine, con l’indicazione delle norme e dei princìpi giuridici applicati

8.4.2 I rapporti tra dispositivo e motivazione

L’autonomia formale che caratterizza il dispositivo non esclude che la motivazione sia ele-mento essenziale della sentenza, con la conseguenza che il contenuto dell’ordine giudiziale ben può essere interpretato alla luce di quest’ultima.

Il principio dell’interpretazione del dispositivo della sentenza mediante la motivazione, però, non può servire a sanare irriducibili contrasti tra questa e il dispositivo né estendersi fino all’integrazione del contenuto precettivo del primo con statuizioni desunte dalla seconda, come nell’ipotesi in cui la motivazione contenga comandi mancanti nel dispositivo: in tale ipo-tesi, prevale quest’ultimo che, acquistando pubblicità con la lettura fattane in udienza, cristal-lizza stabilmente la statuizione. La nullità della sentenza per contraddittorietà tra motiva-zione e dispositivo non si verifica, pertanto, solo quando il contrasto è soltanto apparente, perché risolvibile con l’interpretazione del dispositivo, a prescindere dalle improprietà ter-minologiche utilizzate ed alla luce della motivazione offerta dal giudice (Cass. 23 settembre 1998, n. 9528), mentre le ulteriori argomentazioni che non trovino corrispondenza nella parte dispositiva rimangono ineluttabilmente sterili di effetti (Cass. 4 settembre 2002, n. 12869).

In forza dell’effetto sostitutivo della pronuncia della sentenza d’appello, nonché del princi-pio secondo cui le nullità della sentenza soggetta ad appello si convertono in motivi di impu-gnazione, quando il giudice del gravame rileva lo scostamento tra dispositivo e motivazione

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Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

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non può rimettere la causa al primo giudice ma deve trattenerla per l’ulteriore decisione nel merito (Cass. 5 aprile 2011, n. 7744).

8.4.3 La condanna alle spese

Il giudice, nel pronunciare la condanna, può escludere la ripetizione delle spese sostenu-te dalla parte vincitrice, se le ritiene eccessive o superflue; e può, indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di lealtà e probità processuale, essa ha causato all’altra parte.

Se la domanda è accolta in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta deve essere condannata al paga-mento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta, salva la soc-combenza reciproca o la concorrenza di gravi ed eccezionali ragioni.

Le novelle del 2006 e del 2009 hanno introdotto nell’art. 92 cod. proc. civ. l’innovazione dell’obbligo di motivazione quando, nelle ipotesi della soccombenza reciproca o della concor-renza di altre gravi ed eccezionali ragioni, il giudice decida di compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti. La riforma è orientata a contenere le statuizioni di compensazione delle spese, cui la magistratura fa ricorso con particolare intensità proprio nel processo del lavoro, nell’intento di agevolare l’accesso alla giustizia da parte dei lavoratori. La novella inter-viene, così, a su una questione risolta finora dalla giurisprudenza maggioritaria nel senso di consentire, invece, al giudice di disporre la compensazione anche senza fornire alcuna moti-vazione, atteso che la valutazione circa l’opportunità rientrava nei suoi poteri discrezionali (Cass. 22 aprile 2005, n. 8540).

8.5 L’esecutorietà della sentenza

Le sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti di lavoro sono provvisoriamente esecutive; all’esecuzione si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della sentenza: la norma dettata dall’art. 431 cod. proc. civ. ha perso gran parte della sua portata innovativa a seguito della riforma dell’art. 282 cod. proc. civ., attuata nel 1990, che ha reso provvisoriamente esecutive tra le parti tutte le sentenze civili.

La disposizione che riconosce al lavoratore la facoltà di procedere ad esecuzione con la sola copia del dispositivo conferisce al dispositivo piena efficacia di titolo esecutivo, destinata a per-manere, in relazione allo specifico fine perseguito dal legislatore di consentire al lavoratore una pronta e celere realizzazione dei suoi diritti, anche dopo il decorso del termine di quindici giorni e nonostante il già avvenuto deposito della sentenza. La circostanza, pertanto, che la sentenza, nella sua sintesi di dispositivo e motivazione, sia stata depositata, non essendo idonea a privare il dispositivo del suo valore di titolo esecutivo, non impedisce di iniziare l’esecuzione sulla sola base di esso, attese anche, per un verso, l’irrilevanza della motivazione nella procedura esecu-tiva, dove non è consentito un controllo intrinseco del titolo esecutivo, e, per altro verso, la con-traddittorietà tra il permettere l’esecuzione in presenza del solo dispositivo, e quindi di un atto incompleto, e l’impedirla quando, con il deposito della sentenza e la sua immediata comunica-zione, l’atto è ormai integro in ogni suo elemento (Cass. 4 novembre 1995, n. 11517).

Si deve in ogni caso escludere, in difetto di espressa previsione in tal senso, la nullità della notificazione del dispositivo dopo il deposito della sentenza, nullità che, se ipotizzabile, sareb-be comunque esclusa dal raggiungimento dello scopo in virtù dell’avvenuta comunicazione della sentenza stessa.

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106 Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

8.6 gli interessi e la rivalutazione monetaria

8.6.1 Il danno da svalutazione

In base alla disposizione dettata dall’art. 429, co. 3, cod. proc. civ., il giudice, quando pro-nuncia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre agli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subìto dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto.

La disposizione ha istituito un meccanismo di salvaguardia dei crediti di lavoro del tutto nuovo rispetto alle disposizioni precedenti, stabilendo la risarcibilità del danno da svalutazio-ne monetaria in modo automatico e indipendentemente dall’imputabilità della mora e dalla prova di un concreto pregiudizio sofferto dal creditore; gli interessi, inoltre, decorrono dalla data di maturazione del credito indipendentemente dalla pronuncia di condanna al relativo pagamento, dalla mora e dalla liquidità dello stesso.

Ai fini dell’applicabilità della disposizione costituisce «credito di lavoro« non solo quello retributivo, ma ogni credito che sia in diretta relazione causale con il rapporto di lavoro (Cass. Sez. Un. 5 aprile 1991, n. 3561). La norma, peraltro, non riconosce soltanto un diritto sostan-ziale del lavoratore, ma introduce pure un precetto di natura processuale, immediatamente operativo, conferendo al giudice il potere-dovere di provvedere alla rivalutazione dei crediti di lavoro, in quanto la rivalutabilità costituisce una loro proprietà intrinseca, come tale ricondu-cibile direttamente al fondamento della domanda con la quale sono fatti valere. E poiché inte-ressi e rivalutazione costituiscono parte essenziale del credito di lavoro, possono essere attri-buiti anche d’ufficio nel giudizio intrapreso per la realizzazione di tale credito, finanche in sede di appello (Cass. 19 luglio 2006, n. 16531).

La natura sostanziale del diritto istituito dalla norma processuale fa sì che esso può essere fatto valere separatamente in giudizio, ogni qual volta il datore di lavoro adempie, ma tardiva-mente e limitandosi a corrispondere il solo importo originario del debito.

La sentenza che riconosce il maggior danno spettante al lavoratore per effetto del dimi-nuito valore del suo credito non deve contenere necessariamente l’indicazione della corri-spondente somma; se, infatti, contiene l’indicazione del credito, e della sua decorrenza, è del tutto agevole la determinazione dell’importo dovuto, in base ad un semplice calcolo aritmetico. L’ulteriore rivalutazione spettante dalla data della sentenza fino al tempo del pagamento resta sempre disciplinata dalla medesima norma dettata dall’art. 429 e, pertanto, va computata sull’ammontare originario del credito, e non già sulla somma globalmente accordata da quel-la pronuncia, comprensiva di rivalutazione ed interessi legali. Stante la legittimità del rifiuto di un adempimento parziale, il credito di lavoro è soggetto a rivalutazione monetaria, peraltro, anche per la frazione a suo tempo inutilmente offerta dal datore di lavoro.

L’art. 429 cod. proc. civ., nel far decorrere gli interessi e la rivalutazione monetaria dal-la maturazione del diritto di credito del lavoratore, richiede la sua esigibilità, che può sussistere anche nel caso in cui abbia un oggetto solo determinabile; la parziale illiquidità del credito al momento della cessazione del rapporto di lavoro, a causa della mancata di-sponibilità di tutti gli elementi di calcolo e, in particolare, dell’indice Istat relativo all’ulti-mo mese, non preclude pertanto la decorrenza, da detto momento, degli interessi e della rivalutazione monetaria, senza che, ai fini della decorrenza di tali accesso, rilevi la man-canza di colpa del debitore, avendo il credito di cui si tratta natura di credito originaria-mente indicizzato (Cass. 21 maggio 2008, n. 12967). La questione sorge non di rado per

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Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

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quanto concerne la corresponsione del trattamento di fine rapporto, in quanto in genere l’indice Istat da applicare non può essere conosciuto alla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Quando ad un credito di lavoro venga contrapposto un credito avente origine dal medesimo rapporto, ma sul quale non sono automaticamente dovuti interessi e rivalutazione, il giudice, al fine di operare la compensazione impropria fra i due crediti, può contabilmente gravare di interessi e rivalutazione anche il credito sul quale essi non risultano dovuti, al fine di determi-nare il saldo fra le due poste omogenee, trattandosi di un’operazione contabile idonea a ga-rantire che il credito sul quale sono calcolati gli accessori sia quello effettivo, depurato cioè dei crediti della controparte (Cass. 26 gennaio 1996, n. 600).

8.6.2 Il cumulo tra rivalutazione e interessi

Negli anni ‘90 ha subìto sorti alterne il regime di cumulabilità tra interessi legali e rivalu-tazione monetaria istituito dall’art. 429 cod. proc. civ.

L’art. 16, co. 6, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, stabiliva infatti, da un lato, che gli enti gestori di forme di previdenza obbligatoria fossero tenuti a corrispondere gli interessi legali, sulle prestazioni erogate in ritardo, ma, dall’altro, che l’importo dovuto a titolo di interessi fosse portato in detrazione dalle somme eventualmente spettanti a ristoro del maggior danno patito dal titolare della prestazione per la diminuzione del valore del suo credito. L’art. 22, co. 36, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, stabiliva poi che la disposizione restrittiva si applicasse anche agli emolumenti di natura retributiva, pensionistica ed assisten-ziale, per i quali non fosse maturato il diritto alla percezione entro il 31 dicembre 1994, spet-tanti ai dipendenti pubblici e privati in attività di servizio o in quiescenza. Sembrò che quest’ul-tima disposizione segnasse la scomparsa del regime di cumulabilità.

La Consulta (Corte Cost. 23 ottobre 2000, n. 459), tuttavia, ha successivamente dichia-rato l’illegittimità della norma introdotta dall’art. 22 della legge n. 724/1994, nella parte in cui aveva esteso ai crediti di lavoro dei dipendenti da datori di lavoro privati la medesima regola, della non cumulabilità tra rivalutazione e interessi, già prevista per i crediti previ-denziali.

Gli interessi relativi ai crediti di lavoro dei dipendenti privati, maturati in epoca sia pre-cedente che successiva all’entrata in vigore delle leggi n. 412/1991 e n. 794/1994 devono essere, pertanto, calcolati sul capitale rivalutato, con scadenza periodica dal momento dell’inadempimento fino a quello del soddisfacimento del creditore: da un lato, infatti, la ri-valutazione del credito tende ad annullare, al pari del «maggior danno cui fa riferimento l’art. 1224, 2° comma, cod. civ., la perdita patrimoniale del creditore soddisfatto tardivamen-te (danno emergente), mentre gli interessi liquidano in misura forfetaria, e senza bisogno di prova, il mancato guadagno della liquidità (lucro cessante); dall’altro lato, per il persegui-mento di tale duplice finalità non è necessario, né è previsto da alcuna norma, calcolare gli interessi su un credito superiore a quello che via via matura per effetto della svalutazione monetaria.

Il calcolo degli interessi sul capitale comunque rivalutato non si risolve, d’altronde, in un eccesso di tutela del creditore, nel senso che tale calcolo verrebbe ad imporre al debitore un aggravio aggiuntivo rispetto all’obbligo risarcitorio, incompatibile con la funzione meramente riequilibratrice degli interessi legali, posto che il codificatore del processo del lavoro ha pro-prio voluto aggiungere ad una ragione risarcitoria una concorrente ragione compulsiva di pena privata, ossia lo scopo di dissuadere il datore di lavoro dalla mora per la speranza di investire la somma dovuta, e non ancora pagata al lavoratore, in impieghi più lucrosi della perdita di-pendente dal risarcimento del danno da mora (Cass. 2 ottobre 2002, n. 14143).

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108 Capitolo 8 - La sentenza

Processo del lavoro

8.7 La valutazione equitativa delle prestazioni

Dispone l’art. 432 cod. proc. civ. che, quando sia certo il diritto ma non sia possibile deter-minare la somma dovuta, il giudice la liquida con valutazione equitativa, la quale ha per ogget-to il valore economico della prestazione e non la determinazione della sua esistenza. La nor-ma esige, infatti, la certezza del diritto, nel concorso dell’impossibilità di determinazione della somma dovuta, con conseguente estensione della regola ordinaria posta dall’art. 1226 cod. civ., relativa alla sola valutazione equitativa del danno, all’ipotesi in cui risulti impossibile quantificare l’oggetto di un’obbligazione pecuniaria nascente dal rapporto di lavoro. il criterio della valutazione equitativa non può essere utilizzato per stabilire la misura o la quantità delle prestazioni per le quali sia richiesto il compenso, dovendo tali elementi essere accertati con gli ordinari mezzi di prova, né ha la funzione di supplire a deficienze delle parti nello svolgimento dell’attività processuale e probatoria, quando le prove sul «quanto» siano oggettivamente ac-quisibili. Nell’esercizio del potere discrezionale il giudice è tenuto a dare congrua ragione del processo logico attraverso il quale perviene alla liquidazione del «quanto», indicando i criteri oggettivi assunti a base del procedimento valutativo (Cass. 6 maggio 2009, n. 10401).

Il ricorso alla valutazione equitativa non esonera il giudice dall’obbligo di dar conto di quali elementi della fattispecie concreta abbia preso in considerazione nel decidere. Se egli non è tenuto ad una dimostrazione minuziosa e particolare dei fatti considerati nel formulare il giudizio complessivo sulla determinazione del credito, deve tuttavia dimostrare di avere te-nuto presenti i dati acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare del credito stesso, dando congrua ragione del processo logico attraverso il quale è pervenuto alla quanti-ficazione del dovuto, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo: il tutto ri-guardato alla luce dell’elasticità propria dell’istituto e nell’ambito dell’ampio potere discrezio-nale che lo caratterizza.

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Processo del lavoro

Capitolo 9

LE IMPUgNAZIONI

9.1 L’appello

9.1.1 I termini per appellare

L’art. 433 cod. proc. civ. dispone che l’appello contro le sentenze pronunciate nei processi relativi alle controversie individuali di lavoro deve essere proposto con ricorso davanti alla Corte di appello territorialmente competente, in funzione di giudice del lavoro.

Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della corte di appello entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza, oppure entro 40 giorni nel caso in cui la notificazione abbia dovuto effettuarsi all’estero.

Anche nel rito del lavoro trova applicazione l’art. 327 cod. proc. civ., secondo cui, indipen-dentemente dalla notificazione, l’appello, come il ricorso per cassazione e la revocazione, non può proporsi una volta che siano decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, tranne che nell’ipotesi in cui la parte contumace dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità del ricorso o della sua notificazione e per nullità della notificazione dell’ordinanza che ammette l’interrogatorio formale o il giuramento. La tempestività della proposizione dell’appello va valutata tenendo conto della data di deposito del ricorso introduttivo in cancel-leria e non di quella successiva di notificazione dell’atto. Tale formalità è validamente soddi-sfatta anche con il deposito di una citazione, in luogo del ricorso, purché sia avvenuto nei ter-mini e contenga la specificazione dei motivi del gravame, rimanendo di per sé irrilevante la notificazione previamente effettuata all’appellato (Cass. 12 marzo 2004, n. 5150).

Il principio per il quale, nel processo con pluralità di parti, stante l’unitarietà del termine per l’impugnazione, la notifica della sentenza eseguita ad istanza di una sola delle parti segna, nei confronti della stessa e della parte destinataria della notificazione, l’inizio del termine per la pro-posizione dell’impugnazione contro tutte le altre parti, trova applicazione soltanto quando si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti, ovvero nel caso in cui la controversia concerna un unico rapporto sostanziale o processuale, e non anche quando si versi nella distinta ipotesi di plurime cause che avrebbero potuto essere trattate separatamente e, solo per motivi contingenti, sono state trattate in un solo processo, per le quali, in applicazione del combinato disposto degli artt. 326 e 332 cod. proc. civ., è esclusa la necessità del litisconsorzio. Ricorrendo questa eventualità, poiché all’interesse di ciascuna parte corrisponde un interesse autonomo di impugnazione, il termine per impugnare non è più unitario, ma decorre dalla data delle singole notificazioni a ciascuno dei tito-lari dei diversi rapporti definiti con l’unica sentenza, mentre per le parti tra le quali non c’è stata notificazione si applica la norma di cui all’art. 327 cod. proc. civ., che prevede, come esposto, l’im-pugnabilità entro i sei mesi dal deposito della sentenza (Cass. 29 gennaio 2007, n. 1825).

La disciplina del computo dei termini dettata dall’art. 155 cod. proc. civ. e, in particolare, la previsione dell’ultimo comma, concernente la proroga di diritto del giorno di scadenza, se fe-stivo, al primo giorno seguente non festivo - proroga prevista anche per i termini che scadono nella giornata del sabato - si applica, per il suo carattere generale, a tutti i termini contempla-

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110 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

ti dal codice di rito, compreso dunque il termine breve fissato dall’art. 434, co. 2, cod. proc. civ. per la proposizione dell’appello nelle controversie di lavoro (Cass. 5 giugno 2001, n. 7607).

L’inammissibilità dell’appello per tardivo deposito del ricorso in cancelleria va rilevata d’ufficio e non è sanata dalla costituzione dell’appellato, in quanto la tardività dell’impugna-zione implica il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

Il deposito del ricorso in appello assume rilevanza, per il suo obiettivo avverarsi certificato dal cancelliere, essendo sufficiente che la certificazione, benché non consacrata sull’originale del ricorso, risulti riportata su una copia dello stesso (Cass.11 novembre 2002, n. 15838).

RICORSO IN APPELLO

corte di Appello di ..... sezione Lavoro

Ricorso in appello ai sensi dell’art. 434 cod. proc. civ.per

....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore), elettivamente domiciliato in

....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta in forza di procura a margine del presente atto - parte appellante

contro....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore), elettivamente domiciliato/a in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., procuratore domiciliatario - parte appellata

avversola sentenza n. ....., resa il dal Tribunale di ......, in funzione di Giudice del Lavoro (Giudice dr. .......), e depositata il ........, nel procedimento n. ......., promosso da ...... nei confronti di .......,premesso1) che ....., con ricorso proposto ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ., adiva il Tribunale del Lavoro di

..... affinché condannasse ..... al pagamento della somma di euro..... nonché a .....;2) che si costituiva in giudizio l’odierno appellante, eccependo .....;3) che, esaurita la fase istruttoria, il Giudice decideva la causa, rigettando (eventuale: accogliendo)

il ricorso con la sentenza oggetto della presente impugnazione;4) che la sentenza impugnata, ad avviso della parte esponente, merita di essere riformata per i

seguenti motivi: ..... .parti del provvedimento che si appellano

..... .modifiche richieste alla ricostruzione del fatto

..... .circostanze da cui deriva la violazione della legge e loro rilevanza

..... .Per gli esposti motivi la parte esponente

ricorreall’Ecc.ma Corte di Appello, in funzione di Giudice del Lavoro, affinché previa emanazione dei prov-vedimenti di cui all’art. 435 cod. proc. civ. - voglia accogliere le seguenti

conclusioniPiaccia all’Ecc.ma Corte di Appello di ....., in funzione di Giudice del Lavoro, accogliere il presente ricorso e, conseguentemente, in riforma della sentenza n...... resa inter partes dal Tribunale di ..... il ..... e de-positata in Cancelleria il ..... nel procedimento n.r.g. n......, condannare ..... al pagamento in favore di ..... della somma di euro ..... o di quella maggiore o minore somma che risulterà dovuta in corso di causa.Con la rivalutazione per effetto del maggior danno patito e patiendo in conseguenza della diminuzio-ne di valore del credito per effetto dell’aumento del costo della vita, con decorrenza dalla data di ma-turazione dei singoli crediti accolti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 429 cod. proc. civ. e 150 disp. att. cod. proc. civ.; oltre agli interessi legali maturati e maturandi sulle somme via via rivalutate. Con vittoria di spese, competenze ed onorari del doppio grado di giudizio, oltre IVA e CPA, da distrarsi in favore dell’avv. .... .

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

111

9.1.2 L’appello con riserva dei motivi

L’appello può essere proposto, prima della notificazione della sentenza, con riserva dei motivi, se è già iniziata l’esecuzione; al quale riguardo va rilevato che la sola intimazione del precetto, sulla base del dispositivo di sentenza di condanna esecutiva, non costituisce inizio dell’esecuzione forzata e non consente, quindi, la proposizione dell’appello con riserva dei motivi, che comunque devono essere presentati nel termine previsto per il deposito del ricorso (Cass. 22 luglio 2004, n. 13617). Peraltro, quando l’appello è ritenuto inammissibile per man-cato inizio dell’esecuzione forzata, non osta alla valida instaurazione del giudizio il gravame proposto con atto successivo, eventualmente anche con l’atto di presentazione dei motivi, non essendo, viceversa, consentito integrarne il contenuto con elementi del precedente atto nullo e inammissibile (Cass. 31 maggio 2006, n. 13005).

La norma ha carattere eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica, con la con-seguenza che, in tutti gli altri casi, il potere di impugnazione sorge soltanto una volta deposi-tata la sentenza completa di tutti i suoi elementi costitutivi, poiché solo con tale adempimento il provvedimento assurge a giuridica esistenza nella sua interezza, a nulla rilevando che la parte che intende proporre impugnazione possa essere in grado, in relazione alla particolare fattispecie o situazione processuale, di svolgere compiutamente le proprie censure (Cass. 29 maggio 1986, n. 3652). Va ritenuto, in sostanza, inammissibile l’appello proposto, con l’artico-lazione dei motivi, anteriormente al deposito della sentenza poiché, prima di tale momento, la legge autorizza soltanto il gravame con riserva dei motivi. Va fatta salva, ovviamente, la possi-bilità, qualora non siano decorsi i termini, di proporre nuova impugnazione contro la sentenza pubblicata (Cass. Sez. Un. 8 giugno 1998, n. 5617).

L’appello con riserva dei motivi non è, di per sé, idoneo ad instaurare il procedimento di secondo grado, impedendo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata, in quanto oc-corre a tal fine la presentazione dei motivi di gravame, nel rispetto del termine di impugnazio-ne. La Corte di appello può disporre, fino a che il termine di presentazione dei motivi non è scaduto, il rinvio dell’udienza di discussione, per consentire all’appellante la presentazione dei motivi, a seguito dell’avvenuta pubblicazione della sentenza appellata.

9.1.3 Le sentenze parziali e di condanna generica

L’art. 340 cod. proc. civ. stabilisce che contro le sentenze di condanna generica e quelle parziali, comprese quelle su questioni preliminari, pregiudiziali, di giurisdizione e di com-petenza, l’appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Quando sia stata fatta la riserva d’impu-gnazione, l’appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o a quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio.

Anche nel rito del lavoro opera il disposto dell’art. 340 cod. proc. civ., in base al quale la riserva d’appello avverso le sentenza non definitiva è sottoposta ai termini finali costituiti dal-la scadenza del termine per impugnare e, in ogni caso, dalla prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza. La differenza rispetto al rito ordinario sussiste unicamente per ciò che concerne il termine iniziale, in quanto, non essendo indispensabile la conoscenza del-la sentenza nel suo testo integrale per la proposizione della riserva, questa può essere effet-tuata già dopo la lettura del dispositivo in udienza e prima del deposito della motivazione; salva, comunque, l’ipotesi di appello con riserva di motivi, nel caso di esecuzione iniziata ante-riormente (Cass., sez. un., 29 ottobre 1989, n. 1547).

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112 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

9.1.4 Il contenuto del ricorso

Il ricorso in appello deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti e i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte dall’art. 414 cod. proc. civ. per il ricorso introduttivo del primo grado di giudizio.

A seguito delle modifiche all’art. 434 cod. proc. civ. introdotte dall’art. 54, D.L. 22 giugno 2012, n. 83, la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità:

– l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare– l’indicazione delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal

giudice di primo grado; – l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini

della decisione impugnata.

L’appello ha effetto pienamente devolutivo, sicché il riesame deve essere contenuto nei limiti segnati dai motivi di impugnazione.

L’esigenza della specificazione dei motivi d’appello, pur non dovendo essere intesa nel sen-so rigoroso di una completa e minuziosa esposizione delle ragioni dedotte a sostegno dell’im-pugnazione, richiede che l’appellante, pena l’inammissibilità del mezzo di impugnazione, for-muli almeno una censura della sentenza, non potendosi ritenere sufficiente la generica richiesta della sua riforma.

In base a quanto disposto dall’art. 345 cod. proc. civ., nel giudizio d’appello non possono proporsi domande nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili d’ufficio; possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli accessori maturati, nonché il risarci-mento dei danni sofferti, dopo la sentenza impugnata.

La mancata impugnazione della sentenza di primo grado in relazione alle questioni relative alla natura, subordinata o autonoma, del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, se non è idonea a determinare il formarsi del giudicato interno sul punto, in quanto esso si forma sol-tanto su capi autonomi della sentenza aventi una propria individualità e autonomia tali da in-tegrare una decisione del tutto indipendente, tuttavia preclude alla Corte di Appello di pronun-ciarsi sulla questione, per non incorrere nella violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d’ufficio, né ammettersi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile.

Il difetto di trascrizione della procura al difensore nella copia notificata è privo di rilevanza quando la prova del tempestivo conferimento della procura possa desumersi dall’originale, sottoscritto dal procuratore prima del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza e di no-mina del relatore. Pertanto, la mancanza dell’indicazione di elementi essenziali nella copia del ricorso consegnata all’appellato in sede di notifica, contenuta invece nell’originale dell’atto stesso, determina una nullità che investe non il ricorso ma solo la sua notifica, ove la stessa non sia autonomamente idonea a far conoscere al destinatario il contenuto dell’atto notificato, che è sanata dalla costituzione in giudizio del convenuto (Cass. 22 novembre 2010, n. 23625).

Il mancato deposito, da parte dell’appellante, del proprio fascicolo e della sentenza impu-gnata e la mancata o tardiva restituzione del fascicolo ritirato alla chiusura dell’istruzione

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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comporta che il giudice, ove questi non possa supplire con gli atti di causa, debba ordinare all’appellante, a norma dell’art. 421 cod. proc. civ., detto deposito e che, in caso di inosservan-za dell’ordine, stante la persistente carenza della documentazione necessaria ai fini della de-cisione, debba rigettare nel merito l’impugnazione, dal momento che non sono applicabili le norme ordinarie relative alla forme ed ai termini della costituzione in appello (Cass. 9 novem-bre 2010, n. 22749).

9.1.5 Il divieto di nuove domande ed eccezioni

Il divieto di domande nuove risponde all’esigenza di garantire il doppio grado di giurisdizio-ne, che non sarebbe assicurato se fosse consentito proporre domande che non fossero state mai proposte in primo grado o ampliare la decisione richiesta al giudice di primo grado, ga-rantendo così che il contraddittorio non sia alterato in danno della parte nei cui confronti ven-gano proposte le nuove domande. Una volta fissato nell’atto d’appello il tema processuale, è pertanto precluso all’appellante di ampliarlo nel corso del giudizio, così come alla Corte di appello resta preclusa l’indagine sulle statuizioni di primo grado per le quali, in quanto non investite da specifico motivo di gravame, si è verificata la formazione del giudicato formale. Questo, peraltro, non comprende anche le questioni che, pur non specificatamente prospetta-te, costituiscano un antecedente logico e giuridico di quelle espressamente dedotte nei motivi di impugnazione (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19424; Cass. 9 giugno 1997, n. 5147). Occorre sotto-lineare, però, che quando con l’atto d’appello si riproponga soltanto la domanda subordinata e non anche, o non interamente, quella principale formulata in primo grado, si attua una mera riduzione, e non già un mutamento, della domanda originaria, sempreché si facciano valere le stesse ragioni di domanda dedotte in primo grado.

Il divieto non si estende alle nuove argomentazioni difensive. La possibilità di introdurle è legata, però, alla circostanza che, in primo grado, la parte abbia mosso contestazioni in rela-zione al punto sul quale le successive deduzioni si innestano; la possibilità va pertanto esclusa quando la parte stessa abbia aderito alle avverse richieste, chiudendo in quella sede ogni di-battito sul punto.

Le difese, le argomentazioni e le prospettazioni dirette a contestare la fondatezza di un’ec-cezione non costituiscono, a loro volta, eccezioni in senso tecnico, sicché possono essere pre-se in considerazione dal giudice d’appello, indipendentemente da una formale riproposizione in atti determinati, non essendo ad esse applicabile il principio di cui all’art. 346 cod. proc. civ. (Cass. 31 maggio 1988, n. 3704).

Si ha mutamento delle ragioni di domanda (la «causa petendi»), con conseguente introdu-zione di una domanda nuova preclusa in appello, quando il fatto costitutivo della pretesa sia modificato nei suoi elementi materiali, con prospettazione di circostanze precedentemente non dedotte, e non anche quando sia modificato soltanto il profilo giuridico o la norma in base alla quale il fatto costitutivo venga dedotto; pertanto, se sono rimasti immutati i presupposti di fatto già prospettati in primo grado, al giudice d’appello è consentito di accogliere, in base ad una diversa norma giuridica, la domanda proposta al giudice di primo grado alla stregua di altra norma e da questo respinta. In altri termini, nell’ambito delle argomentazioni difensive vanno distinte quelle che consistono nella semplice negazione del fatto costitutivo del diritto esercitato dalla controparte (mera difesa), quelle che consistono nella contrapposizione di un fatto impeditivo o estintivo, tale da escludere gli effetti giuridici del fatto costitutivo affermato dalla controparte (eccezioni in senso lato) e quelle che consistono in un controdiritto contrap-posto al fatto costitutivo affermato dall’attore, che non esclude l’azione, ma dà al convenuto il potere giuridico di invalidarlo (eccezioni in senso proprio). Solo riguardo a queste ultime, ri-messe esclusivamente al potere dispositivo della parte, vale nel rito del lavoro l’onere di alle-gazione e di prova in primo grado, e la preclusione posta dall’art. 437 cod. proc. civ. in grado

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114 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

d’appello, ampliandosi con la loro proposizione l’ambito della contesa con conseguente viola-zione del principio del doppio grado di giurisdizione e della lealtà del contraddittorio, mentre per tutte le altre, che entrano nell’ambito della lite già all’inizio, in relazione all’obbligo del giudice di verificare le condizioni dell’azione, opera il principio della rilevabilità d’ufficio, e la loro puntualizzazione per la prima volta in appello non allarga il tema del decidere (Cass. 24 giugno 1998, n. 6272). Ne consegue, ad esempio, che al lavoratore licenziato non è precluso dedurre in appello il carattere simulato del rapporto di lavoro autonomo di altro lavoratore, al fine di ottenere che di questi si tenga conto nella valutazione del requisito dimensionale dell’impresa per l’applicabilità dell’art. 18 Stat. Lav.

CLASSIFICAZIONE DELLE ECCEZIONI IN APPELLO

Mere difese semplice negazione del fatto costitutivo del diritto esercitato dalla controparte

ammesse

Eccezioni in senso lato Godimento di alcuni diritti di libertà sin-dacale

ammesse

Eccezioni in senso proprio controdiritti contrapposti ai fatti costitu-tivi affermati dall’attore, che non esclu-dono l’azione, ma danno al convenuto il potere giuridico di invalidarli

vietate

9.1.6 Il divieto di nuove prove

Il principio di unità e infrazionabilità della prova non consente la riproposizione in appello di una prova già esaurita o la deduzione di una prova diretta a completare, modificare o contrad-dire quella già espletata in primo grado. È, tuttavia, consentito dall’art. 437 cod. proc. civ. l’e-spletamento in appello di nuovi mezzi di prova, quando siano ritenuti indispensabili dal giudice; la limitazione, così, non comprime in modo altrimenti intollerabile l’esercizio del diritto d’azione e di difesa e si giustifica, rispetto alla diversa disciplina vigente per il rito ordinario, con la con-centrazione che il legislatore ha inteso imprimere, in primo grado, alle controversie di lavoro, ferma restando, peraltro, la possibilità di controllo in sede di legittimità circa l’apprezzamento compiuto dal giudice del secondo grado, sia pure esclusivamente sotto il profilo della congruità della motivazione della decisione pronunciata. Il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello implica, in altri termini, la valutazione sull’attitudine della stessa a dissipare un perdu-rante stato di incertezza sui fatti controversi (Cass. 20 giugno 2006, n. 14133).

Non è però consentito, in sede di gravame, sopperire alle lacune di una prova già ammessa ed espletata in primo grado, mediante deduzione di ulteriori mezzi istruttori aventi il medesi-mo oggetto di quella, così come è precluso alla parte restata contumace in primo grado dedur-re in appello prove che tendano a rinnovare quella già esperita in primo grado o a contraddire i risultati di essa, in quanto ciò avrebbe dovuto formare oggetto di prova contraria.

La parte può chiedere l’ammissione di prove nuove, ma non riproporre istanze istruttorie espressamente o implicitamente disattese dal giudice di primo grado senza censurare, con specifico motivo di gravame, le ragioni per le quali la sua istanza è stata respinta o dolersi dell’omessa pronuncia al riguardo (Cass. 1° ottobre 1993, n. 9779).

L’indispensabilità della prova nuova, richiesta per la sua ammissibilità, non si identifica nella semplice rilevanza dei fatti dedotti a prova, che ovviamente è condizione dell’ammissi-bilità di ogni mezzo istruttorio, ma pretende la verificata impossibilità di acquisire la cono-scenza di quei fatti con altri mezzi che la parte avesse avuto l’onere di fornire nelle forme e nei

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

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tempi stabiliti dalla legge processuale. E, così, il potere istruttorio attribuito al giudice d’appel-lo, benché abbia carattere ampiamente discrezionale, non può essere esercitato per sanare preclusioni e decadenze già verificatesi nel giudizio di primo grado, essendo tale limite supe-rabile, in base all’art. 345 cod. proc. civ., nella sola ipotesi in cui la parte dimostri di non aver potuto proporre il mezzo istruttorio nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputa-bile (Cass. 13 dicembre 2000, n. 15716).

9.1.7 I poteri d’ufficio

L’esercizio dei poteri istruttori officiosi in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcu-ne circostanze:

– l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali;

– l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti;– l’indispensabilità dell’iniziativa d’ufficio, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva

richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della do-manda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa.

Non ricorrono questi presupposti quando la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamen-te delineato (Cass. 11 marzo 2011, n. 5878).

Nel rito del lavoro, comunque, stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acqui-site, può in via eccezionale ammettere, pure d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostra-zione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempreché tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento (Cass. 4 maggio 2012, n. 6753).

9.1.8 La produzione documentale

È legittimo l’esame di documenti nuovi nel giudizio d’appello quando sia indispensabile ai fini del decidere, come richiesto con riguardo a tutte le prove nuove, e quando la mancata produzio-ne in primo grado dei documenti non sia imputabile alla parte che intende avvalersene (Cass. 6 aprile 2001, n. 5133); essi, inoltre, devono pur sempre avere attinenza a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle stesse (Cass. 2 febbraio 2009, n. 2577).

Non manca, tuttavia, chi ritiene che la produzione in grado d’appello di nuovi documenti sia consentita senza limiti e, quindi, potrebbe riguardare addirittura documenti che la parte avrebbe potuto o dovuto esibire nel giudizio di primo grado.

Il tema è uno di quelli che continua a dividere la giurisprudenza di legittimità, tra chi affer-ma che nel rito del lavoro i documenti, quali prove precostituite, ancorché non indicati nel ri-corso, possono essere prodotti fino all’udienza di discussione anche in appello, senza incorre-re nelle preclusioni di cui agli artt. 414, 416 e 437 cod. proc. civ., applicabili alle sole prove costituende, come quelle testimoniali (Cass. 19 marzo 2003, n. 4048), e chi invece sostiene che

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116 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ovvero nella memoria difensiva, dei documenti, anche attinenti ad eccezioni rilevabili d’ufficio, nonché il loro manca-to deposito insieme a detti atti, pure se in questi espressamente indicati, ingenerano la deca-denza dal diritto di produrli nel corso del giudizio, salvo che si tratti di documenti formati successivamente alla sua instaurazione o che la relativa produzione sia giustificata dallo svi-luppo del processo (Cass. 20 gennaio 2003, n. 775).

Ad avviso dei fautori della seconda tesi la decadenza dal diritto, anche se non dichiarata dal giudice di primo grado, farebbe pertanto escludere che possano essere prodotti in appello nuovi documenti, in quanto essi non si sottrarrebbero al divieto di nuovi mezzi di prova istituito dall’art. 437, comma 2, cod. proc. civ.: la produzione di nuovi documenti nel giudizio di secondo grado sarebbe così ammissibile esclusivamente qualora sia giustificata dal tempo della loro formazione, ovvero dallo sviluppo del giudizio, e sia ritenuta dal giudice indispensabile per la decisione. I fautori della prima tesi, invece, ritengono che la novità dei documenti, che ne con-sentirebbe la produzione in appello quali prove precostituite, senza necessità di una preventiva valutazione di indispensabilità, va apprezzata in relazione alla loro avvenuta o non avvenuta produzione nel giudizio di primo grado, senza che abbia alcuna influenza la circostanza che la parte interessata avrebbe potuto o dovuto esibirli in prima istanza (per essere gli stessi già accessibili) o vi abbia provveduto irritualmente o tardivamente (Cass. 1° giugno 2000, n. 7284).

Si va affermando una tesi intermedia tra le due, che si richiama al principio della «ricerca della verità materiale», secondo cui il rigoroso sistema di preclusioni - per il quale l’omessa indicazione nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado dei documenti, e l’omesso deposi-to degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza dal diritto alla produzio-ne in appello - trova un contemperamento nei poteri d’ufficio in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 437, 2º co., quand’essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse (Cass. 12 ottobre 2010, n. 20995). L’applicazione di tale principio, però, non consente di introdurre in secondo grado nuove allegazioni di fatto, restandone altrimenti snaturato il giudizio di primo grado, che finirebbe con lo svolgersi sulla base di elementi parziali (Cass. 6 marzo 2012, n. 3506, ord.).

Vi è concordia nel ritenere che un documento non ammesso dal giudice di primo grado, con contestuale dichiarazione di decadenza, non possa essere nuovamente prodotto dalla stessa parte nei successivi gradi di giudizio ed essere utilizzato dal giudice d’appello quale prova pre-costituita e documentale, perché in tal modo verrebbe vanificata la sanzione di decadenza già pronunciata dal primo giudice per il medesimo atto (Cass. 16 maggio 2000, n. 6342).

In base ad una ben nota sentenza delle Sezioni Unite, possono così riassumersi i principi che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, reggono la materia (Cass. Sez. Un. 20 aprile 2005, n. 8202):

– nel rito del lavoro, in base al combinato disposto degli artt. 416, comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare, e 437, comma 2, cod. proc. civ., che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova, fra i quali devono annoverarsi anche i documenti, l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi in grado d’appello;

– continua –

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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- segue -

– il divieto di produzione di nuovi documenti in appello non opera quando la stessa sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio, a seguito di riconvenzionale o di interven-to o chiamata in causa del terzo);

– l’irreversibilità dell’estinzione del diritto di produrre i documenti, dovuta al mancato rispetto dei termini perentori e decadenziali in primo grado, rende il diritto in questione insuscettibile di reviviscenza in grado d’appello;

– il sistema di preclusioni trova un contemperamento, ispirato all’esigenza della ricerca della «verità materiale» (cui è funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela diffe-renziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento), nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 437, comma 2, cod. proc. civ., ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa (Cass. 22 marzo 2011, n. 6495, ad esempio, in applicazione di tale principio, ha confermato la decisione del giudice di appello di consentire l’utilizzazione delle riprese video dell’ambiente in cui, secondo la motivazione del licenziamento, era avvenuta l’apprensione indebita di un plico contenente valori da parte del lavoratore, visto che tali riprese apparivano potenzialmente ido-nee ad evidenziare la commissione dell’illecito contestato);

– i poteri d’ufficio circa l’ammissione di nuovi documenti in grado d’appello vanno esercitati pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contrad-dittorio delle parti stesse.

La produzione in appello di nuovi documenti esige, quindi, a pena di decadenza, che essi sia-no specificamente indicati dalle parti nel ricorso dell’appellante o nella memoria difensiva dell’appellato e depositati contestualmente a questi, a norma degli artt. 414 e 416 cod. proc. civ., richiamati dai successivi artt. 434 e 436. La decadenza è esclusa, in base al criterio ricavabile dall’art. 420, co. 5, cod. proc. civ., con riguardo a documenti sopravvenuti. Resta ferma, peraltro, in tale ipotesi, la necessità che la produzione sia effettuata prima dell’inizio della discussione orale, che rappresenta, nel rispetto del principio di lealtà processuale, il termine finale estremo, non derogabile nemmeno nel caso in cui il giudice d’appello adotti in tale udienza, dopo l’inizio della discussione, un provvedimento interlocutorio di rinvio (Cass. 12 luglio 2002, n. 10179).

L’intera questione potrebbe essere riveduta in base ad una lettura orientata dai principi gene-rali del processo civile, in particolare dalla norma dettata dall’art. 345, co. 3, cod. proc. civ., modifi-cato sul punto dalla novella del 2009, il quale pone ora nel processo ordinario un divieto generaliz-zato di produzione di nuovi documenti, in precedenza insussistente, stabilendo: «Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile».

Il mancato deposito del fascicolo di parte e della copia della sentenza impugnata, pur non comportando l’improcedibilità dell’appello, obbliga il giudice, ove non sia possibile supplire con gli atti di causa alla carenza della documentazione, ad ordinare all’appellante il successi-vo deposito, con la conseguenza del rigetto dell’impugnazione per difetto di prova se l’ordine non è adempiuto (Cass. 18 maggio 2001, n. 6805).

9.1.9 L’ammissibilità del giuramento

L’ultimo comma dell’art. 345 cod. proc. civ. stabilisce che nel giudizio d’appello può sem-pre deferirsi il giuramento decisorio, le cui condizioni di ammissibilità nel rito del lavoro sono

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118 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

identiche a quelle che contraddistinguono tale mezzo istruttorio nel giudizio ordinario; esso va perciò ammesso anche quando i fatti dedotti siano stati accertati od esclusi dalle risultanze di causa ed anche quando sia stato deferito per la prima volta in appello, sempreché i fatti per i quali è deferito abbiano il requisito della decisorietà. La modifica della formula, peraltro, è consentita al giudice solo per quanto attiene ad aspetti formali, al fine di renderne più chiaro il contenuto, e costituisce, per la Corte, non un obbligo ma una facoltà, il cui mancato esercizio non è censurabile in sede di legittimità. La portata decisoria del giuramento deve escludersi quand’esso sia deferito relativamente a fatti posti a fondamento di una domanda inammissibi-le, in quanto nuova. Se anche nel rito del lavoro il giuramento decisorio può essere deferito, in grado d’appello, in qualsiasi momento della causa, il deferimento può essere effettuato pure nel corso della discussione orale e fino al compimento di questa (Cass. 30 maggio 2002, n. 7923); va pertanto escluso che la parte che intende deferire il giuramento abbia l’onere di in-dividuare la relativa formula sin dagli scritti introduttivi.

L’art. 437 cod. proc. civ. non pone limiti all’ammissione, nel grado d’appello delle controver-sie individuali di lavoro, del giuramento estimatorio (Cass. 17 dicembre 1986, n. 7652).

Il giuramento suppletorio, infine, ai sensi dell’art. 2736, n. 2, cod. civ. è deferibile d’ufficio ed è, quindi, oggetto di un potere discrezionale del giudice, il cui esercizio la parte può solo sollecitare.

La Corte di appello può sempre ammettere, pertanto, il giuramento suppletorio se ritiene la domanda o le eccezioni non pienamente provate ma non del tutto sfornite di prova, senza incontrare impedimento nell’art. 437 cod. proc. civ., il quale regola l’attività delle parti, ma non limita in alcun modo i poteri che il giudice può esercitare d’ufficio; con l’ulteriore conseguenza che, non applicandosi al giuramento suppletorio l’art. 437, la sua deferibilità non è condiziona-ta dall’indispensabilità, prevista dallo stesso articolo quale condizione per l’ammissione dei nuovi mezzi di prova (Cass. 25 novembre 1996, n. 10441). Questo giuramento non può essere deferito prima che ulteriori istanze istruttorie delle parti siano espletate o dichiarate inammis-sibili; il principio non è tuttavia utilmente invocabile qualora il difetto di ammissibilità delle istanze appaia evidente, come avviene nel processo del lavoro quando la prova testimoniale sia stata offerta soltanto in appello.

9.1.10 L’instaurazione del giudizio

L’art. 435 cod. proc. civ. stabilisce che il presidente della Corte di Appello, entro 5 giorni dalla data di deposito del ricorso, nomina il giudice relatore e fissa, non oltre 60 giorni dalla data medesima (elevati a 80 nel caso in cui la notificazione del ricorso debba effettuarsi all’e-stero), l’udienza di discussione dinanzi al collegio. L’appellante, nei 10 giorni successivi al deposito del decreto, provvede alla notifica del ricorso e del decreto all’appellato; questo termine non ha carattere perentorio, sicché la sua inosservanza non produce alcuna conse-guenza pregiudizievole per la parte, non incidendo su alcun interesse di ordine pubblico pro-cessuale o su un interesse dell’appellato, sempreché sia rispettato il termine di 25 giorni (ele-vati a 60 nel caso in cui la notificazione debba effettuarsi all’estero) che, ai sensi dell’art. 435, 3º e 4º comma, deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussio-ne (Cass. 30 dicembre 2010, n. 26489; Corte Cost. 24 febbraio 2010, n. 60, ord.).

Quando l’appellato, costituito nel giudizio di primo grado, abbia eletto il domicilio presso il di-fensore, la notifica deve essere eseguita presso costui. L’art. 82, co. 2, R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, nello stabilire che, se il procuratore esercente il proprio ufficio fuori dalla circoscrizione del tribu-nale al quale è assegnato non ha eletto domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria adita, il domicilio si intende eletto presso la cancelleria della stessa autorità giudiziaria, è comunemente interpretato nel senso che tutte le notificazioni degli atti del processo possono legittimamente essere eseguite presso la cancelleria. Se la cancelleria è articolata in più sezioni, a motivo della

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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dimensione dell’ufficio, è valida la notificazione effettuata genericamente «presso la cancelleria», che rimane pur sempre un ufficio unico, anziché preso la cancelleria della «sezione lavoro».

Questa norma trova applicazione in ogni caso di esercizio dell’attività forense fuori dalla circoscrizione cui l’avvocato è assegnato per essere iscritto al relativo Ordine professionale del Circondario e, quindi, anche nel caso in cui il giudizio sia in corso innanzi alla Corte d’appello e l’avvocato risulti essere iscritto ad un Ordine professionale di un tribunale diverso da quello nella cui Circoscrizione ricade la sede della Corte, ancorché appartenente allo stesso Distret-to. Tuttavia - dopo l’entrata in vigore delle modifiche degli articoli 366 e 125 cod. proc. civ., apportate rispettivamente dall’art. 25, comma 1, lett. i), n. 1), della legge 12 novembre 2011, n. 183, e dallo stesso art. 25, comma 1, lett. a), quest’ultimo modificativo a sua volta dell’art. 2, co. 35-ter, lett. a), D.L.. 13 agosto 2011, n. 138 - e nel mutato contesto normativo che prevede ora, in generale, l’obbligo per il difensore di indicare, negli atti di parte, l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio Ordine, la Cassazione ha affermato che dalla mancata osservanza dell’onere di elezione di domicilio consegue la domiciliazione presso la cancelleria dell’autorità giudiziaria innanzi alla quale è in corso il giudizio solo se il difensore, non adempiendo all’obbligo prescritto dall’art. 125 del codice di rito, non abbia indicato l’indi-rizzo Pec comunicato al proprio Ordine (Cass. Sez. Un. 20 giugno 2012, n. 10143).

Tra la data di notificazione all’appellato e quella dell’udienza di discussione deve intercor-rere un termine non minore di venticinque giorni.

La Consulta (Corte Cost. 14 gennaio 1977, n. 15) ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 435, comma 2, cod. proc. civ. ove non prevedeva che all’appellante fosse data comunicazione dell’avve-nuto deposito del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di discussione e che soltanto da tale comunicazione decorresse il termine per la notifica all’appellato; l’appello, pertanto, non può essere dichiarato improcedibile, per mancata notifica del ricorso all’appellato, in difetto di tale comunicazione. In quest’ipotesi, qualora l’appellante non sia comparso all’udienza fissata, dovrà essere emesso un nuovo provvedimento di fissazione di altra udienza di discussione, da comunica-re all’appellante non comparso; resta irrilevante, al riguardo, l’eventuale e non infrequente esi-stenza, presso la Corte di Appello, della difforme prassi della mancata comunicazione all’appellan-te del decreto (Cass. 4 gennaio 2001, n. 66). Se è invece il solo appellato non costituito a non comparire all’udienza, ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ., applicabile anche nel rito del lavoro e richiamato per il procedimento d’appello dal successivo art. 350, il giudice che rilevi un vizio com-portante la nullità della notificazione dell’atto d’appello ovvero la sua omissione a seguito della mancata comunicazione all’appellante del decreto di fissazione, deve fissare a quest’ultimo un termine perentorio per rinnovarla; tale rinnovazione, impedendo ogni decadenza, ha effetto anche se avvenuta dopo la scadenza del termine di impugnazione, dalla quale, quindi, non è preclusa.

Nel rito del lavoro, la norma relativa al decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di di-scussione del giudizio d’appello non prescrive che l’atto debba contenere l’avvertimento al con-venuto, previsto per il procedimento innanzi al tribunale dall’art. 163, comma 3, n. 7, cod. proc. civ., circa le conseguenze di una tardiva costituzione, né tale previsione è desumibile da un prin-cipio generale proprio dell’ordinamento processuale, atteso che, oltre alla diversità della forma dell’introduzione del giudizio con ricorso, nel giudizio d’appello, destinato a svolgersi nell’ambito degli accertamenti di fatto già acquisiti in primo grado, non opera lo stesso sistema di preclusio-ni e decadenze che caratterizza la prima istanza, sicché non si può neppure prospettare un’ana-loga esigenza di salvaguardia del diritto di difesa (Cass. 18 ottobre 2002, n. 14829).

9.1.11 La mancata comparizione dell’appellante

Le modalità di instaurazione del giudizio di appello, che sono contraddistinte dalla costi-tuzione dell’appellante in momento antecedente alla fissazione dell’udienza di discussione,

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120 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

rendono ovviamente inapplicabile il primo comma dell’art. 348 cod. proc. civ., in base al quale nel processo ordinario la mancata costituzione in termini dell’appellante obbliga il giudice a dichiarare improcedibile l’appello.

Resta invece applicabile il secondo comma, secondo cui se l’appellante non compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, il collegio, con ordinanza non impugna-bile, ai sensi dell’art. 348, primo comma, cod. proc. civ. (Cass. 4 marzo 2011, n. 5238), rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’appellante; se anche alla nuova udienza l’appellante non compare, l’appello è dichiarato improcedibile pure d’ufficio. Tale disposizione è diretta esclusivamente ad evitare che l’appello venga dichiarato improcedibile senza che l’appellante sia posto in grado di comparire all’udienza successiva a quella disertata, ma non attribuisce all’appellante il diritto di impedire, non comparendo, la de-cisione del gravame nel merito, o anche solo in rito ma per motivi diversi dalla sua mancata comparizione; pertanto, qualora la causa, nonostante l’assenza dell’appellante, sia stata decisa, anche in senso a lui sfavorevole, lo stesso non ha interesse a dolersi della mancata osservanza delle formalità prescritte dalla suddetta disposizione, quando tale inosservanza non sia stata seguita dalla dichiarazione di improcedibilità (Cass. 6 marzo 2007, n. 5125, sulla scorta di questo principio, ha rigettato il motivo di ricorso con il quale erano state dedotte la mancata costituzione del contraddittorio in appello e la supposta violazione del diritto di difesa dell’appellante che non aveva potuto discutere la causa, confermando la sentenza impugnata con la quale era stata rite-nuta la legittimità della discussione della causa in appello, stante l’avvenuta costituzione dell’ap-pellato, malgrado la mancata notificazione nei suoi confronti del ricorso in appello del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza, ed in virtù dell’inidoneità dei motivi posti dal procuratore dell’appellante a fondamento dell’istanza di differimento dell’udienza stessa).

9.1.12 I termini processuali

I termini posti a carico del giudice sono, come al solito, meramente ordinatori, secondo la generale previsione del secondo comma dell’art. 152 cod. proc. civ., sicché il loro mancato rispetto non è causa di nullità né di improcedibilità dell’appello.

Anche i termini di cui al secondo e terzo comma dell’art. 435 cod. proc. civ., concessi rispet-tivamente all’appellante per la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza e all’appellato per la preparazione della sua difesa, non hanno, come suesposto, carattere pe-rentorio e, perciò, pure la loro inosservanza non comporta alcuna decadenza. Se, peraltro, si tratta di inosservanza del termine posto a carico dell’appellato, e questi non si sia costituito, può farsi luogo all’applicazione dell’art. 291 cod. proc. civ., con assegnazione di un nuovo ter-mine per la notificazione del ricorso; la costituzione dell’appellato, anche se tardiva, sana in-vece il vizio derivante dall’inosservanza dei termini di notificazione a lui del ricorso, il quale attiene non all’atto introduttivo, ma alla sua comunicazione.

L’appellato, secondo quanto disposto dall’art. 436 cod. proc. civ., deve costituirsi almeno 10 giorni prima dell’udienza; la sua costituzione si effettua mediante deposito in cancelleria del fascicolo e di una memoria difensiva, nella quale deve essere contenuta dettagliata esposizio-ne di tutte le difese. Il termine del decimo giorno anteriore all’udienza di discussione è ordina-torio; non va però confuso con quello, di uguale scadenza, che lo stesso art. 436 fissa per la notifica dell’appello incidentale, necessariamente contestuale alla memoria di costituzione, il quale viceversa avrebbe, secondo molti, carattere perentorio.

La nullità derivante dalla concessione all’appellato di un termine inferiore a 25 giorni, che deve intercorrere tra la data di notificazione del ricorso con il pedissequo decreto e quella dell’udienza di discussione, è invece sanata se l’appellato, nel costituirsi in giudizio, non faccia richiesta di rinvio dell’udienza.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

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L’appello, pur tempestivamente proposto nel termine previsto dalla legge, è improcedibile se la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza non sia affatto avvenuta, cioè neppure richiesta, non essendo consentito al giudice - alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della ragionevole durata del processo isti-tuito dall’art. 111 Cost. - di assegnare all’appellante un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 cod. proc. civ. (Cass. Sez. Un. 30 luglio 2008, n. 20604).

Il vizio di notifica dell’atto di appello e del decreto di fissazione di udienza è sanabile me-diante la costituzione dell’appellato o la rinnovazione della notifica disposta dal giudice. Nel rito del lavoro, quindi, l’omissione o la nullità della notificazione dell’atto introduttivo non com-porta l’inammissibilità dell’impugnazione, la cui proposizione si è realizzata con il deposito del ricorso. Se, però, non viene sanato, con la fissazione di un nuovo termine e la rinnovazione della notifica, il vizio determina la mancata instaurazione del contraddittorio nei confronti dell’appellato; il giudice di legittimità dovrà perciò cassare la sentenza d’appello irritualmente emessa, con rinvio ad altro giudice di secondo grado, cui spetterà di fissare una nuova udienza di discussione, con provvedimento che l’appellante dovrà, nei modi di legge, notificare all’ap-pellato insieme con il ricorso.

Qualsiasi provvedimento adottato dopo la notificazione del ricorso, ma prima della costitu-zione dell’appellato, quale ad esempio il decreto di anticipazione dell’udienza di discussione, va notificato alla parte personalmente, e non già alla parte presso il procuratore costituito in primo grado, giacché la procura conferita per il primo grado del giudizio non può spiegare effetti ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 330 cod. proc. civ. per la notificazione dell’im-pugnazione, essendo questa l’unica ipotesi di ultrattività prevista dalla norma (Cass. 28 agosto 2007, n. 18149).

9.1.13 La sentenza d’appello

Nell’udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Il collegio, se ammette nuove prove, fissa entro 20 giorni l’udienza nella quale saranno assunte, con successiva pronuncia della sentenza. La Corte di Appello, esaurita la discussione orale e udite le con-clusioni delle parti, pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio, dando lettura del dispo-sitivo. Se lo ritiene necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a 10 giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa, all’udienza immedia-tamente successiva alla scadenza del termine, per la discussione e la pronuncia della senten-za. Il deposito in cancelleria della sentenza d’appello va effettuato entro 15 giorni dalla pro-nuncia; il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti. All’esecuzione della sentenza d’appello si può procedere con la sola copia del dispositivo, in pendenza del termine per il deposito della motivazione.

Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, istituito dall’art. 112 cod. proc. civ., versato nel procedimento d’appello con il rito lavoristico dagli artt. 434 e 437 cod. proc. civ. regolanti l’effetto devolutivo dell’impugnazione, non osta a che la Corte renda la pronuncia in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica degli stessi fatti o all’applicazione di una norma diversa da quella invocata dall’appellante. Questo principio implica, tuttavia, il divieto di attribuire alla par-te un bene della vita diverso da quello richiesto (il cosiddetto «petitum mediato»), oppure di emettere qualsiasi pronuncia su domanda nuova, che non si fondi cioè sui fatti ritualmente de-dotti o, comunque, acquisiti al processo, anche se ricostruiti o giuridicamente qualificati dal giudice in modo diverso rispetto alle prospettazioni di parte, sempreché tale ricostruzione o ri-qualificazione non si basi su elementi di fatto non ritualmente acquisiti come oggetto del con-traddittorio. Coerentemente a ciò, il principio secondo cui l’interpretazione di qualsiasi doman-

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122 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

da, eccezione o deduzione di parte dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, non troverà poi applicazione nel successivo e ultimo grado di giudizio, quando si assuma che l’accertamento del giudice di merito abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato oppure dell’effetto devolutivo dell’appello, trattandosi in tal caso della denuncia di un errore «in procedendo», in relazione al quale la Cas-sazione è giudice anche del fatto ed ha, quindi, il potere-dovere di procedere direttamente all’e-same e all’interpretazione degli atti processuali (Cass. 12 maggio 2006, n. 11039).

Quando l’appello ha contenuto esclusivamente rescindente, in quanto il riscontro del motivo di invalidità esaurisce l’oggetto della cognizione riservata al giudice di secondo grado, la parte soccombente in primo grado ha interesse a dedurre un mero vizio di nullità del giudizio di primo grado, dovendo la causa essere rimessa al primo giudice perché il giudizio sia rinnovato con contraddittorio regolarmente costituito. Se, invece, l’appello cumula in sé anche il giudizio re-scissorio, in quanto diretto non alla mera eliminazione di un atto illegittimo, ma alla rinnovazio-ne del giudizio di merito, è necessario che la parte soccombente in primo grado non si limiti a censurare i vizi di attività del primo giudice, che hanno carattere strumentale, ma deduca ritual-mente e tempestivamente le questioni di merito, dovendosi diversamente ritenere l’inammissi-bilità dell’appello per difetto di interesse, poiché l’eventuale fondatezza della censura non com-porta il potere del giudice di pronunciare sul merito della controversia (da questo principio Cass. 18 maggio 2010, n. 12101, ad esempio, ha fatto discendere la conseguenza, nell’ipotesi di nullità dell’introduzione del giudizio avanti al tribunale determinata dall’inosservanza del termine dila-torio di comparizione, del dovere del giudice d’appello di non limitarsi a dichiarare la nullità e a rimettere la causa al giudice di primo grado, non ricorrendo né nullità della notificazione dell’at-to introduttivo né alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dagli articoli 353 e 354 cod. proc. civ., bensì di trattenere la causa e, previa ammissione dell’appellante rimasto contumace in primo grado ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito).

La relazione della causa che, nei giudizi innanzi ad organi collegiali, deve precedere la di-scussione delle parti, sia nel rito ordinario (art. 275 cod. proc. civ.) che in quello del lavoro (art. 437 cod. proc. civ.), non è prescritta a pena di nullità e la sua omissione non inficia, quindi, la validità della successiva sentenza, non essendo tale sanzione contemplata da alcuna specifica norma né derivando la stessa dai principi fondamentali che regolano il processo civile (Cass. 19 novembre 2010, n. 23495).

Il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione della sentenza d’appello non può esse-re risolto con il ricorso al procedimento di correzione di errore materiale; esso determina la nullità della sentenza, da far valere mediante impugnazione (Cass. 29 ottobre 2007, n. 22661).

9.1.14 L’inammissibilità dell’appello

L’art. 54, co. 1, lett. d), D.L. n. 83/2012 ha aggiunto al codice di rito l’art. 436-bis, a mente del quale all’udienza di discussione si applicano i precedenti artt. 348-bis e 348-ter, formulati per regolamentare il rito ordinario.

Fuori dei casi in cui deve essere dichiarata con sentenza l’inammissibilità o l’improcedibili-tà dell’impugnazione, l’appello di lavoro va, pertanto, dichiarato inammissibile «quando non ha una ragionevole probabilità di essere accolto».

Secondo quanto disposto dall’art. 348-ter, all’udienza di discussione la Corte, prima di pro-cedere alla trattazione, sentite le parti, deve dichiarare inammissibile l’appello con ordinanza succintamente motivata, anche mediante il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di causa e il riferimento a precedenti conformi, provvedendo pure sulle spese a norma dell’art. 91 cod. proc. civ.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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L’ordinanza di inammissibilità può essere pronunciata soltanto quando, sia per l’impugnazio-ne principale che per quella incidentale, ricorrano i relativi presupposti; in mancanza, la Corte deve procedere alla trattazione di tutte le impugnazioni comunque proposte contro la sentenza.

Quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per Cassazione; in tal caso, il termine per il ricorso decorre dalla comunica-zione o notificazione, se anteriore, dell’ordinanza che dichiara l’inammissibilità. Quando l’i-nammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base del-la decisione impugnata, il ricorso per cassazione non può essere proposto per «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Questa limitazione si applica, in via generale anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado.

9.1.15 L’immutabilità del collegio

Pure nelle controversie di lavoro il principio dell’immutabilità del collegio riguarda esclusi-vamente la fase della discussione e della decisione della causa e non già anche la fase istrut-toria. Pertanto non dà luogo a nullità la circostanza che una controversia sia stata decisa da un collegio che risulti, quanto alla sua composizione, identico a quello che ha partecipato all’u-dienza di discussione della causa, ma parzialmente diverso da quello che in una precedente udienza abbia ammesso le prove.

Il principio è inteso ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa e nelle controversie di lavoro, ove la concen-trazione in una sola udienza della trattazione e della decisione della causa non esclude la possibilità che il procedimento si svolga in una pluralità di udienze non di mero rinvio, riguar-da, quindi, esclusivamente la fase che inizia con l’esposizione orale da parte dei difensori delle proprie ragioni e si conclude con la lettura in udienza del dispositivo, e non l’eventuale precedente fase istruttoria (Cass. 25 novembre 1994, n. 10015).

Nel giudizio d’appello soggetto al rito del lavoro, quindi, la sostituzione, anteriormente all’inizio dell’udienza di discussione, del giudice relatore designato nel decreto del presidente della Corte di Appello non viola il principio di immodificabilità del collegio giudicante, operando tale principio solo dal momento in cui ha inizio la discussione della causa (Cass. 23 giugno 2000, n. 8588).

9.2 La sospensione dell’esecuzione

9.2.1 Il «gravissimo danno»

L’art. 431 cod. proc. civ. stabilisce che il giudice d’appello può disporre, con ordinanza non impugnabile, che l’esecuzione sia sospesa, quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno.

La disposizione è analoga a quella posta dall’art. 283 cod. proc. civ. nel processo ordinario, con la differenza che in quest’ultimo l’istanza deve fondarsi sulla sussistenza di «gravi e fon-dati motivi» (il successivo art. 351 richiede invece, per l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva durante il tempo intercorrente tra l’istanza e la decisione in camera di consiglio, la ricorrenza di «giusti motivi di urgenza») e non del «gravissimo danno».

Nel rito ordinario la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 283, è rimessa ad una valutazione globale d’opportunità, consistendo i «gravi

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Processo del lavoro

motivi», per un verso, nella delibazione sommaria della fondatezza dell’impugnazione e, per altro verso, nella valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire, anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato, dall’esecu-zione della sentenza, la quale può essere inibita anche parzialmente, se i capi della sentenza sono separati (Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060); il potere discrezionale riconosciuto al giudice d’appello nel rito ordinario è, quindi, ben più ampio di quello riconosciuto al medesimo giudice nel rito del lavoro, con riferimento alla sentenza di primo grado favorevole al lavoratore. La no-vella del 2006, che ha interessato l’art. 283 nel senso di prevedere, nel processo ordinario, la ri-correnza dei «gravi e fondati motivi» anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, pone in rilievo con incisività ancora più marcata la differenza profonda dell’istituto dell’ini-bitoria in appello nel processo ordinario e in quello del lavoro. Il mancato intervento riformatore sull’art. 431, infatti, evidenzia la volontà del legislatore di favorire i crediti di lavoro, che sono tutelati in ragione della funzione che assolvono nel garantire i diritti fondamentali della persona che lavora: il riformatore ben avrebbe potuto individuare la possibilità di insolvenza quale motivo di sospensione dell’esecuzione della sentenza anche nel processo del lavoro; se non lo ha fatto è per non sfavorire i crediti del lavoratore e per non trarre, dal suo eventuale stato di bisogno, che giustifica la più ampia tutela delle sue ragioni, elementi per allontanare invece nel tempo la soddisfazione dei crediti di cui sia stato riconosciuto in primo grado titolare.

È stato ben argomentato (App. Firenze 18 dicembre 2001, in «Dir. lav.», 2002, II, 246) che la debolezza economica costituisce la connotazione più frequente del titolare del credito da lavo-ro e che, insieme con la natura di quest’ultimo, integra il presupposto che ha determinato il legislatore alla previsione dell’esecutorietà provvisoria della sentenza di primo grado, l’irrecu-perabilità di quanto versato in esecuzione di questa sentenza, entro certi limiti, deve così con-siderarsi un effetto fisiologico, quasi scontato, della natura alimentare del credito di lavoro e della generalizzata situazione di bisogno cui deve sopperire; la valutazione del «gravissimo danno», in relazione al predetto criterio, implica perciò un giudizio di estrema delicatezza, che non può prescindere da un contestuale bilanciamento degli interessi.

La riforma del 2006, quindi, rafforza le perplessità che hanno suscitato quelle decisioni che hanno ritenuto sussistenti le condizioni per la sospensione dell’esecuzione della sentenza di condanna del datore di lavoro, quando la possibilità di recuperare le somme versate in adempi-mento della stessa, in caso di esito favorevole dell’impugnazione, sia resa problematica dall’in-capienza del patrimonio del lavoratore (App. L’Aquila 11 gennaio 2001, in «Giur. lav.», 2000, 294).

La sospensione dell’esecuzione può essere anche parziale; in ogni caso, l’esecuzione prov-visoria resta autorizzata fino alla somma di 258,23 euro.

9.2.2 La funzione dell’inibitoria

L’inibitoria è istituto generale del diritto processuale, mediante il quale l’esecutorietà di una sentenza o di altro titolo esecutivo giudiziale, che non sia già incontrovertibile, può esse-re provvisoriamente sottratta, in tutto o in parte, tramite un provvedimento del giudice in-vestito del grado o della fase processuale ulteriore. Funzione dell’istituto, come è stato scrit-to, è quella di controcautela rispetto all’esecuzione provvisoria del titolo, strumentale alla cognizione del merito dell’impugnazione.

L’ordinanza di sospensione condiziona l’efficacia del titolo fatto valere al successo dell’im-pugnazione proposta contro la sentenza di primo grado e non pone nel nulla il pignoramento; l’esecuzione pertanto, una volta iniziata, non può essere dichiarata estinta per la contingente ragione che è stata sospesa una parte dell’esecutività del titolo, conseguendo tale evento solo a fatti inerenti al processo esecutivo e non già a vicende proprie del titolo fatto valere per l’e-secuzione (Cass. 21 novembre 2000, n. 15021).

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

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Avverso l’ordinanza, con la quale il giudice d’appello sospende, in tutto o in parte, la prov-visoria esecuzione della sentenza di primo grado non è esperibile il ricorso per cassazione, a norma dell’art. 111 Cost., trattandosi di provvedimento cautelare, destinato ad operare per la durata del giudizio di secondo grado e a restare assorbito dalla sentenza che lo conclude, come tale privo di contenuto decisorio (Cass. Sez. Un. 3 giugno 1997, n. 4954; Cass. 18 settem-bre 2001, n. 11723; Cass. 25 febbraio 2005, n. 4060; Cass. 28 marzo 1995, n. 3622).

La formula di carattere generale dell’art. 431 cod. proc. civ. va interpretata in senso ampio, suscettibile cioè di ricomprendere nel termine «crediti» tutte le obbligazioni che trovano il loro titolo in uno dei rapporti di cui all’art. 409 cod. proc. civ. e, quindi, anche quella di fare o di non fare; l’unico limite interno alla prevista possibilità di inibitoria della provvisoria esecuzione risul-ta pertanto solo quello stabilito dalla norma, attinente alla condanna al pagamento di somme fino a 258,23 euro. L’istituto non può però utilmente operare per consentire la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, in quanto l’immediata eseguibilità di questa trae origine da una valutazione legale tipica (art. 18 Stat. Lav.), connessa alla necessità di assicurare una tutela urgente in via provvisoria, che esclude l’applicabilità della generale disciplina codicistica.

9.2.3 L’autonomia dell’inibitoria

L’istanza di sospensione dell’esecuzione dà luogo ad un autonomo e distinto procedimento, strutturalmente differenziato rispetto al processo di impugnazione. In ragione dell’autonomia dell’inibitoria non è consentito al giudice dell’esecuzione, né al giudice dell’opposizione all’e-secuzione, di sindacare l’esattezza del provvedimento di sospensione, soggetto esclusiva-mente al controllo del collegio nella fase della decisione definitiva.

Ulteriore conseguenza dell’autonomia è che l’esame della fondatezza dell’appello non ri-entra nell’ambito dell’indagine consentita in sede di inibitoria. La connessione funzionale fra il provvedimento ordinatorio sull’esecuzione provvisoria e la pronuncia di merito sul gravame non esclude tuttavia che la Corte di Appello possa compiere la verifica del «quantum appella-tum», essendo investita dei più ampi poteri di valutazione in ordine all’ambito della loro effica-cia, nonché alla legittimità ed opportunità degli stessi.

9.2.4 L’indispensabile inizio dell’esecuzione

Mentre l’art. 282 cod. proc. civ. consente alla parte, nel giudizio ordinario, di chiedere al giu-dice d’appello la sospensione anche dell’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, l’art. 431, nel processo del lavoro, consente alla parte di chiedere soltanto la sospensione dell’esecu-zione. Di qui la necessità che l’esecuzione sia già iniziata e, quindi, che sia già stato compiuto almeno un atto esecutivo, in difetto di che l’istanza è inammissibile. l’esecuzione deve essere iniziata in senso tecnico, vale a dire con il pignoramento, e non semplicemente annunciata con la notifica del titolo esecutivo o minacciata con l’atto di precetto, trattandosi di atti anteriori all’e-secuzione, che manifestano il semplice proposito di procedere esecutivamente.

PRESUPPOSTI DELL’INIBITORIA

1) inizio dell’esecuzione da parte del soggetto a favore del quale è stata pronunciata la sentenza di con-danna nel giudizio di primo grado

2) presentazione, da parte del soccombente, dell’appello (principale o incidentale o con riserva dei motivi)3) allegazione e dimostrazione della ricorrenza del gravissimo danno per la parte esecutata

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126 Capitolo 9 - Le impugnazioni

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L’estensione al rito ordinario dell’esecutività della sentenza di primo grado, conseguente alla riformulazione dell’art. 282 cod. proc. civ. operata dal riformatore del 1990, non è stata accompa-gnata dalla soppressione dell’analoga previsione dell’art. 431; ciò rivela la volontà del codificatore di far coesistere, nell’attuale sistema processuale, accanto al regime generale, il regime speciale del lavoro, che non contempla la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza in mancanza dell’esecuzione forzata, regime che, come affermato dalla giurisprudenza di merito (App. Bologna 11 giugno 2001; in «Guida al lavoro», 2001, n. 36) prevale su quello generale: la previsione da parte dell’art. 283 cod. proc. civ., dettato per l’ordinario giudizio di cognizione, e da parte del successivo art. 447-bis, introdotto per le controversie in materia di locazione, del potere del giudice di sospen-dere, in alternativa all’esecuzione, l’efficacia esecutiva della sentenza, senza che un’analoga inte-grazione abbia subìto il terzo comma dell’art. 431, conferma la perdurante intenzione del legisla-tore di riservare all’inibitoria nel rito del lavoro una regolamentazione differenziata e peculiare.

Partendo dal principio che per poter disporre la sospensione è necessario che l’esecuzione sia iniziata in senso tecnico, cioè che sia avvenuto il pi-gnoramento, non manca chi ritiene inammissibile l’istanza di sospensione anche qualora il pignoramento sia negativo o mancato, trattandosi di ipotesi di pignoramento inesistente.

9.3 L’appello incidentale

9.3.1 La funzione dell’appello incidentale

L’appellato che propone appello incidentale deve esporre nella stessa memoria i motivi specifici su cui fonda l’impugnazione. L’appello incidentale deve essere proposto, a pena di decadenza, nella memoria di costituzione, da notificarsi, a cura dell’appellato, alla contro-parte nel termine di 10 giorni prima dell’udienza di discussione.

Affinché la proposizione dell’appello incidentale sia tempestiva è, dunque, necessario che l’appellato, almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata per la discussione, si sia costituito, depositando la memoria contenente il gravame incidentale ed abbia altresì provveduto a noti-ficarlo alla controparte. Al fine del computo del termine, il giorno dell’udienza segna il mo-mento iniziale e, quindi, nel computo a ritroso va escluso dal calcolo, mentre va invece compu-tato il momento finale, costituito dal decimo giorno, in base al principio generale fissato dagli artt. 155 cod. proc. civ. e 2963 cod. civ.

Assumono forma, natura e denominazione di impugnazione incidentale solo le impugnazioni che hanno un rapporto di connessione o di dipendenza con l’oggetto dell’impugnazione principale e, quindi, non tutte le impugnazioni proposte dopo la prima. Anche nel rito del lavoro, pertanto, quando le censure dell’appellato riguardano un capo della pronuncia che non ha alcun rapporto con quello oggetto dell’impugnazione principale, l’appello incidentale è completamente autonomo rispetto a quello principale. Esso, pertanto, non sarà più proponibile una volta scaduto il termine per l’impugnazione, atteso che l’art. 436 cod. proc. civ. non contiene disposizioni speciali sui termi-ni, né sulla definizione di appello incidentale, bensì trova necessario riferimento nella normativa generale dettata dagli artt. 333 e 334 cod. proc. civ. (Cass. 19 aprile 1983, n. 2694).

Non manca, tuttavia, chi ritiene (Cass. 9 novembre 1992, n. 12067) che, al pari dell’impu-gnazione incidentale tardiva, l’impugnazione incidentale tempestivamente proposta può ri-guardare qualsiasi capo della sentenza, ancorché diverso da quello impugnato in via principa-le e con lo stesso non in rapporto di dipendenza o connessione; costoro escludono che l’art. 436, 3° comma, cod. proc. civ. regoli esclusivamente l’appello incidentale che abbia carattere

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

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di controimpugnazione o che sia adesivo, e non anche l’appello incidentale autonomo, tenuto pure conto, con riguardo al profilo della costituzionalità del più ridotto termine di difesa accor-dato all’appellato in via incidentale autonoma, che tale termine non è esiguo e sarebbe obiet-tivamente giustificato dai caratteri peculiari del rito del lavoro.

9.3.2 La riunione delle impugnazioni

L’art. 335 cod. proc. civ. impone che tutte le impugnazioni proposte separatamente contro la stessa sentenza debbano essere riunite, anche d’ufficio, in un solo processo.

Può accadere, allora, che un appello ontologicamente incidentale sia invece presentato come autonomo, seppure nei termini previsti per l’impugnazione principale. In tale ipotesi può anche verificarsi che il giudice, magari perché non informato della pendenza dei due procedi-menti, non proceda alla loro riunione, con conseguente decisione di uno solo dei due ricorsi. La giurisprudenza di legittimità (Cass. 26 febbraio 1985, n. 1640) ritiene che tale accadimento non influisce sulla validità della pronuncia emessa, mentre, in forza del principio dell’unicità della decisione, preclude l’esame dell’altro ricorso, anche nell’eventualità in cui la pronuncia emessa abbia avuto ad oggetto il ricorso apparentemente principale, ma di fatto incidentale. Sarà, allora, onere della parte cui sia stata notificata l’altrui impugnazione, qualora proponga la propria im-pugnazione avverso la medesima sentenza, separatamente in via principale anziché in via inci-dentale, di porre la Corte di Appello in grado di conoscere la simultanea pendenza dei due pro-cedimenti, affinché possa provvedere alla loro riunione ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ.; in difetto, la mancata riunione delle due impugnazioni non incide sulla validità della pronuncia sulla prima, la quale rende improcedibile la seconda (Cass. 7 aprile 1992, n. 4244).

Dalle disposizioni sull’obbligatorietà della riunione è desumibile un principio generale, se-condo cui il giudice può ordinare la riunione in un solo processo di impugnazioni diverse, oltre che nei casi tipici espressamente previsti dal codice di procedura, in tutti i casi in cui ravvisi, in concreto, elementi di connessione tali da rendere opportuno, per ragioni di economia proces-suale, l’esame congiunto delle impugnazioni. In buona sostanza: il principio secondo cui l’im-pugnazione proposta per prima determina la costituzione del processo - nel quale debbono confluire le eventuali impugnazioni e, nel caso di appello, le impugnazioni successive alla pri-ma assumono carattere incidentale - ha carattere generale e si estende anche al processo del lavoro; in questo caso la conversione opera purché sia rispettato il termine di 10 giorni liberi prima dell’udienza fissata per la comparizione, per la proposizione dell’appello incidentale, previsto dall’art. 436 cod. proc. civ. A questi fini, tuttavia, non può valere la successiva rinnova-zione di tale termine dilatorio, nel caso in cui la prima udienza non venga tenuta ed il presiden-te ne abbia fissata un’altra (Cass. 18 settembre 2007, n. 19340).

9.3.3 La notifica dell’appello incidentale

Molto si è discusso sulle conseguenze della mancata osservanza del termine di 10 giorni concesso per la notificazione dell’appello incidentale. inizialmente si riteneva che la manca-ta notificazione alla controparte della memoria di costituzione contenente l’appello incidenta-le nel termine stabilito dall’art. 436 cod. proc. civ. comportasse la decadenza del diritto ad appellare, in quanto tale sanzione è espressamente comminata non soltanto per la mancata proposizione dell’appello incidentale con la memoria di costituzione, ma anche per la manca-ta notificazione della stessa nel termine stabilito (Cass. 14 gennaio 1983, n. 303). Anche nel rito del lavoro, si sosteneva, per la rituale proposizione dell’appello incidentale sono indispen-sabili sia la notificazione nel termine perentorio che il deposito della copia notificata dell’atto con il quale l’impugnazione viene proposta (Cass. 19 gennaio 1988, n. 374).

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128 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

Il rigore iniziale si è poi modificato, grazie ad un intervento delle Sezioni Unite, nel senso di ritenere tempestiva la proposizione dell’appello incidentale quando l’appellato, almeno 10 giorni prima dell’udienza fissata per la discussione, si fosse costituito, depositando la memo-ria contenente il gravame incidentale, ed avesse altresì provveduto a notificarla alla contro-parte; il deposito della copia notificata di tale memoria, necessaria per il riscontro della tem-pestività dell’adempimento, ben può essere, però, effettuato fino all’udienza di discussione (Cass. Sez. Un. 16 dicembre 1986, n. 7533).

Si è, infine, pervenuti a ribaltare l’iniziale orientamento, finendo con l’argomentare che la san-zione della decadenza dall’appello incidentale deve intendersi comminata dall’art. 436 cod. proc. civ. nella sola ipotesi di mancato deposito in cancelleria della memoria difensiva dell’appellato, contenente l’appello, entro il termine di 10 giorni prima dell’udienza e non anche nel caso di omissio-ne dell’adempimento, parimenti previsto dal codice, della notificazione della memoria nello stesso termine (Cass. 24 febbraio 2001, n. 2698). L’indirizzo interpretativo più recente si afferma fondato non sul tenore letterale della disposizione codicistica bensì su elementi di ordine sistematico, quali la brevità del termine a disposizione della parte interessata per l’esecuzione di adempimenti che pos-sono risultare di difficile esecuzione oppure la necessità di preferire un’interpretazione che escluda ragioni di illegittimità costituzionale sotto il profilo di una non ragionevole discriminazione, quanto agli effetti dei vizi o dell’omissione della notificazione dell’atto di appello, della posizione dell’appel-lante incidentale rispetto a quella delineata, per l’appellante principale, dal diritto vivente.

Conseguenza di siffatto orientamento è che, nel caso di mancata notificazione entro il termine di 10 giorni della memoria contenente l’appello incidentale, così come in caso di notificazione inva-lida, il giudice deve concedere all’appellante incidentale nuovo termine, perentorio, per la notifica-zione, sempreché la controparte presente all’udienza non vi rinunci, accettando il contraddittorio o limitandosi a chiedere un congruo rinvio, il quale va disposto anche nel caso di notificazione tardiva (Cass. 31 maggio 2012, n. 8723); è onere dell’appellante incidentale chiedere la fissazione del nuo-vo termine, restando altrimenti inammissibile l’impugnazione incidentale.

È stato argomentato che debba ritenersi decaduta dall’impugnazione la parte che abbia proposto appello incidentale in una successiva memoria integrativa della prima, a nulla rile-vando che la memoria di costituzione contenesse una riserva di impugnazione incidentale e che, in ogni caso, la seconda memoria integrativa fosse intervenuta nel termine di dieci giorni previsto dalla legge (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3691).

La questione resta controversa, anche con riferimento alla diversa ipotesi di notificazione tempestiva accompagnata dalla costituzione tardiva dell’appellato. Se per i più la notificazione della memoria difensiva, contenente l’appello incidentale, avvenuta prima del deposito della stessa in cancelleria, non pregiudica l’instaurazione del contraddittorio, non determina nullità né improcedibilità dell’impugnazione incidentale e non impone al giudice di ordinare la rinno-vazione della stessa notifica (Cass. 26 gennaio 2002, n. 963), altri sostengono che la costituzio-ne tardiva dell’appellante incidentale comporterebbe invece la decadenza dello stesso dal po-tere di impugnazione anche nell’ipotesi in cui il suddetto termine sia stato rispettato con riferimento alla notificazione dell’atto di appello (Cass. 26 ottobre 2000, n. 14091).

9.3.4 Le difese dell’appellato incidentale

Nel rito del lavoro l’appellante principale non ha un diritto a replicare con difese scritte all’ap-pello incidentale della controparte, essendo tale possibilità prevista, in suo favore, solo in via indi-retta, a norma del combinato disposto dell’ultimo comma dell’art. 437 cod. proc. civ. e del secondo comma del precedente art. 429, come effetto dell’esercizio, da parte del giudice, del potere discre-zionale di consentire alle parti, quando lo ritenga necessario, il deposito di note difensive.

La disparità tra i mezzi di difesa attribuiti all’appellato in via incidentale e quelli conferiti

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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all’appellato principale non determinerebbe, peraltro, violazione né del principio costituziona-le di uguaglianza, stante la diversità delle relative situazioni processuali, né del diritto di dife-sa, stante la ragionevolezza dell’intervallo temporale (almeno dieci giorni) che è assicurato all’appellante principale per replicare all’impugnazione incidentale proposta nei suoi confron-ti (Cass. 16 giugno 1998, n. 5988).

GIUDIZIO D’APPELLO - TABELLA RIASSUNTIVA

Funzione Attraverso il giudizio di secondo grado la parte soccombente in primo grado, totalmente o parzialmente, chiede la riforma della sentenza di primo grado

Termini Il ricorso in appello va depositato entro 30 giorni dalla data della notifica della sentenza di primo grado; l’appellante deve costituirsi in giudizio al-meno 10 giorni prima dell’udienza. Se invece la sentenza di primo grado non è stata notificata, il ricorso dev’essere proposto entro un anno dalla pubblicazione della sentenza

contenuto del ri-corso

Esposizione sommaria dei fatti e motivi specifici dell’impugnazione, oltre alle indicazioni previste dall’art. 414 c.p.c. per il ricorso di primo grado

Domande ed ecce-zioni nuove

Non possono essere proposte; in caso contrario, vengono dichiarate inam-missibili dal giudice

Nuovi mezzi di pro-va

Sono inammissibili, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione o che la parte fornisca la prova di non averli potuti proporre in primo grado per cause ad essa non imputabili

Sospensione dell’e-secuzione

Il giudice d’appello può disporre la sospensione dell’esecuzione della sen-tenza di primo grado solo quando dalla stessa possa derivare all’altra par-te un gravissimo danno

Appello incidentale Viene proposto dall’appellato, qualora con la sentenza, pure a costui favo-revole, non sia stata accolta integralmente la domanda formulata in primo grado; l’appello incidentale dev’essere proposto, a pena di decadenza, nel-la memoria di costituzione

9.4 Il ricorso per cassazione

9.4.1 La sezione Lavoro della cassazione

L’art. 19, legge 11 agosto 1973, n. 533, dispone che presso la Corte di Cassazione è istituita una sezione incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie di lavoro e di quelle in materia di previdenza e di assistenza, la quale giudica col numero invariabile di cinque votanti.

La ripartizione tra le diverse sezioni di un’unica magistratura, anche quando viene fatta per legge, non ha effetti sulla validità del rapporto processuale, e l’eventuale errore circa la sezio-ne può essere corretto durante lo svolgimento dello stesso rapporto. Il rilievo giuridico della ripartizione per legge si risolve nel fatto che la speciale competenza del lavoro deve essere esercitata mediante l’apposita sezione, con conseguente eliminazione di ogni discrezionalità del capo dell’ufficio in ordine ad una diversa ripartizione dei ricorsi, garantendo così, a mezzo di criteri legislativi di organizzazione degli uffici, l’effettiva realizzazione della riforma del pro-

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130 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

cesso del lavoro introdotta nel 1973. Non costituisce, pertanto, condizione di validità del ricor-so in materia di lavoro la circostanza che lo stesso sia stato indirizzato alla Corte di Cassazio-ne, senza indicazione della Sezione Lavoro (Cass. 6 dicembre 1997, n. 12396).

RICORSO PER CASSAZIONE

Suprema Corte di Cassazione Sezione Lavoro

Ricorso ai sensi dell’art. 366 cod. proc. civ.per

....., codice fiscale ...., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore), elettivamente domiciliato in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta in forza di procura a margine del presente atto parte ricorrente

contro....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore), elettivamente domiciliato/a in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., procuratore domiciliatario parte resistente

premesso1) che ....., con ricorso proposto ai sensi dell’art. 414 cod. proc. civ., adiva il Tribunale di ..... affinché

condannasse ..... al pagamento della somma di euro ..... nonché a .....;2) che il Tribunale, con sentenza integralmente confermata dalla Corte d’Appello, decideva la causa,

accogliendo il ricorso con la sentenza impugnata da parte ricorrente;3) che la sentenza della Corte d’Appello, ad avviso della parte ricorrente, è errata in diritto per i se-

guenti motivi:1° motivo ......2° motivo ......3° motivo ......4° motivo ......Per gli esposti motivi la parte esponente

ricorrealla Suprema Corte di Cassazione affinché voglia accogliere le seguenti

conclusioniPiaccia alla Suprema Corte di Cassazione accogliere il presente ricorso e, conseguentemente, cassare l’impugnata sentenza n...... resa inter partes dalla Corte d’Appello di ..... .Con vittoria di spese, competenze ed onorari del doppio grado di giudizio, oltre IVA e CPA, da distrarsi in favore dell’avv. ..... .Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: Si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.Si producono i seguenti documenti: ....Luogo e data

Avv......

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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9.4.2 Il contenuto del ricorso per cassazione

Il procedimento di legittimità ha costituito l’oggetto di numerosi interventi di riforma: nel 1950, nel 1990, nel 2006, nel 2009, nel 2011 e, infine, nel 2012.

Il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità

– l’indicazione delle parti;– l’indicazione della sentenza o decisione impugnata;– l’esposizione sommaria dei fatti della causa;– i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano;– l’indicazione della procura, se conferita con atto separato e, nel caso di ammissione al gratuito patro-

cinio, del relativo decreto (in materia di patrocinio a spese dello Stato, l’istanza di ammissione rigettata per manifesta infondatezza dal competente Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, cui va presentata ai sensi dell’art. 124 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, può essere riproposta al magistrato competente per il giudizio, individuato nel giudice «preposto alla funzione giurisdizionale sulla base di norme di legge e delle disposizioni del codice di procedura penale e civile«; quando il processo non è stato ancora instau-rato, l’istanza va pertanto presentata al presidente della sezione lavoro competente, la cui decisione non può essere riesaminata dal magistrato a cui sia stata, nel prosieguo, assegnata la causa).

– la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.

Nel caso di ricorso «per saltum», l’accordo delle parti deve risultare mediante visto ap-posto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, oppure mediante atto separato, anche anteriore alla sentenza impugnata, da unirsi al ricorso.

Se il ricorrente non ha eletto domicilio in Roma, ovvero non ha indicato l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato al proprio Ordine, le notificazioni gli sono fatte presso la cancelleria della Corte di cassazione.

Le comunicazioni della cancelleria e le notificazioni tra i difensori possono essere fatte al numero di fax o all’indirizzo di posta elettronica indicato in ricorso dal difensore che così di-chiari di volerle ricevere, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, vigente.

Nel rito del lavoro, salva l’ipotesi eccezionale della proposizione di appello con riserva dei motivi nel caso di esecuzione iniziata in forza del solo dispositivo della sentenza di primo gra-do, il potere di impugnazione della sentenza non sorge con la semplice lettura del dispositivo in udienza, ma postula che la sentenza medesima sia stata depositata, completa di tutti i suoi elementi costitutivi, in quanto solo con tale adempimento il provvedimento assurge a giuridica esistenza nella sua interezza e può costituire oggetto di censure specifiche. Ne deriva, atteso anche che l’anzidetta disposizione non è richiamata dall’art. 438 cod. proc. civ. concernente il deposito della sentenza d’appello, l’inammissibilità del ricorso per cassazione proposto contro il dispositivo della sentenza di secondo grado. Il termine semestrale per la proposizione del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 327 cod. proc. civ., decorre dunque dalla data di pub-blicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria.

9.4.3 I motivi di ricorso

L’art. 360 cod. proc. civ. stabilisce che le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione:

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132 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

1) per motivi attinenti alla giurisdizione;2) per violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza;3) per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di

lavoro;4) per nullità della sentenza o del procedimento;5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

La novella del 2012 ha cancellato il tradizionale motivo della «omessa, insufficiente o con-traddittoria motivazione circa un fatto controverso decisivo per il giudizio».

Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tri-bunale, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello; ma in tal caso l’impugnazione può proporsi soltanto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accor-di collettivi nazionali di lavoro.

Non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione i provvedimenti che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali provvedimenti può essere proposto, senza necessità di riserva, allor-ché sia impugnata la decisione che definisce, anche parzialmente, il giudizio. Questa disposi-zione, come quella sull’individuazione dei motivi di ricorso, si applica alle sentenze ed ai prov-vedimenti diversi dalla sentenza contro i quali è ammesso il ricorso per cassazione per violazione di legge.

9.4.4 L’interpretazione dei contratti collettivi

La ricorribilità per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro è stata introdotta dalla riforma del 2006 e segna una tappa importantissima nel cam-mino che porta ormai il legislatore a considerare i contratti collettivi di lavoro di diritto comune alla stregua di vere e proprie fonti di diritto, avvalorando la tesi di chi li ritiene dal lato formale accordi ma dal lato sostanziale leggi. Viene anche travolto, di fatto, il principio di diritto, finora consolidato, secondo cui l’interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune era riservata al giudice di merito e non era censurabile in sede di legittimità, se non per violazione dei ca-noni legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione.

D’altronde, come rilevato da più parti, i contratti collettivi di diritto comune sono contratti di diritto privato, l’interpretazione dei quali implica accertamenti di fatto che la Corte non può effettuare, mentre la devoluzione ad essa non solo delle questioni riguardanti l’interpretazio-ne, ma anche di quelle riguardanti l’applicazione dei contratti collettivi di diritto comune, tende a configurare il giudizio di cassazione come normale giudizio di merito.

E pensare che le differenti speciali procedure che caratterizzano la stipulazione, la con-clusione e, quindi, l’interpretazione dei contratti collettivi del pubblico impiego, rispetto a quelli disciplinanti il rapporto di lavoro privato, erano state fin qui addotte per escludere l’illegittimità costituzionale delle norme che consentivano la ricorribilità per cassazione con riferimento alla contrattazione collettiva sottoscritta dall’Aran. Ora che il medesimo mecca-nismo viene esteso ai contratti collettivi di diritto comune del settore privato resta solo da attendere la pronuncia del giudice delle leggi per verificare la concreta portata innovativa, anche sul piano del diritto sostanziale, della norma processuale e la sua effettiva capacità di incidere sul sistema delle fonti e conseguentemente sull’efficacia soggettiva dei contratti collettivi.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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Ai fini del ricorso immediato per cassazione non basta, tuttavia, che nel processo si ponga una questione di interpretazione di una clausola di un contratto collettivo, ma è necessario che si sia scelto di discutere e decidere tale questione in via pregiudiziale; pertanto, se la pronun-cia sia intervenuta sul merito della controversia e il giudice abbia deciso con una sentenza di accertamento non della sola interpretazione del contratto collettivo, bensì con un sentenza di merito, la situazione processuale va oltre il limite segnato dall’art. 420-bis cod. proc. civ. e la sentenza emessa deve essere impugnata in appello e non con il ricorso immediato per cassa-zione (Cass. 14 febbraio 2011, n. 3602).

La riforma del 2006 aveva aggiunto l’art. 366-bis cod. proc. civ., il quale stabiliva che il ri-corrente dovesse concludere l’illustrazione di ciascun motivo, a pena di inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto. La norma, tuttavia, è stata abrogata dall’art. 47 della legge 18 giugno 2009, n. 69.

9.4.5 Il ricorso e il controricorso

Il rito del lavoro non influisce sulle regole che disciplinano il grado di legittimità. Il ricorso, quindi, come disposto in via generale dall’art. 369 cod. proc. civ., deve essere depositato nella cancelleria della Corte, a pena di improcedibilità, nel termine di 20 giorni dall’ultima notifica-zione alle parti contro le quali è proposto. Insieme con il ricorso debbono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità:– il decreto di concessione del gratuito patrocinio;– copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazio-

ne, se questa è avvenuta, oppure copia autentica dei provvedimenti dai quali risulta il con-flitto di giurisdizione ovvero quello negativo di attribuzione;

– la procura speciale, se questa è conferita con atto separato, che va rilasciata esclusiva-mente ad avvocato iscritto nell’apposito albo, disciplinato dagli artt. 33-35 R.D.L. 27 no-vembre 1933, n. 1578;

– gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda.Il ricorrente deve chiedere alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza im-

pugnata, o del quale si contesta la giurisdizione, la trasmissione alla cancelleria della Corte del fascicolo d’ufficio; tale richiesta è restituita dalla cancelleria al richiedente munita di visto e deve essere depositata insieme al ricorso.

La parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddire, deve farlo mediante controricorso, da notificarsi al ricorrente nel domicilio eletto entro venti giorni dalla sca-denza del termine stabilito per il deposito del ricorso, dunque entro quaranta giorni dall’ultima notificazione alle parti contro le quali quest’ultimo è proposto. In mancanza di tale notificazione, essa non può presentare memorie, ma soltanto partecipare alla discus-sione orale. Il controricorso va depositato nella cancelleria della Corte entro 20 giorni dalla notificazione, insieme con gli atti e i documenti e con la procura speciale, se confe-rita con atto separato.

La parte contro la quale il ricorso è diretto deve proporre, con l’atto contenente il contro-ricorso, l’eventuale ricorso incidentale avverso la stessa sentenza. Per resistere al ricorso incidentale può essere notificato un controricorso. Se il ricorrente principale deposita la copia della sentenza o della decisione impugnata, non è necessario che la depositi anche il ricorrente per incidente. L’esclusione delle controversie di lavoro dalla sospensione feriale dei termini processuali si applica anche con riferimento ai giudizi di cassazione (Cass. 16 gennaio 2007, n. 749).

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134 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

L’art. 371-bis cod. proc. civ. prevede che qualora la Corte abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio, assegnando alle parti un termine perentorio per provvedervi, il ricorso notifi-cato, contenente nell’intestazione le parole “atto di integrazione del contraddittorio”, deve es-sere depositato nella cancelleria della Corte stessa, a pena di improcedibilità, entro venti gior-ni dalla scadenza del termine assegnato.

Non è ammesso, per quanto disposto dall’art. 372 cod. proc. civ., il deposito di atti e docu-menti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso. Il deposito dei do-cumenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti.

9.4.6 L’inammissibilità del ricorso

La novella del 2009 ha aggiunto l’art. 360-bis cod. proc. civ., secondo cui Il ricorso è inam-missibile:

1) quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurispru-denza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa;

2) quando è manifestamente infondata la censura relativa alla violazione dei princìpi regolatori del giu-sto processo.

Il primo presidente, tranne quando ricorrono le condizioni per la pronuncia a sezioni unite, assegna i ricorsi ad apposita sezione, che verifica se sussistono i presupposti per la pronuncia in camera di consiglio. Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all’assegnazione alle sezioni semplici.

9.4.7 La sospensione dell’esecuzione

Il ricorso per cassazione non sospende l’esecuzione della sentenza. Tuttavia l’art. 373 cod. proc. civ. consente al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, su istanza di parte e qualora dall’esecuzione possa derivare grave e irreparabile danno, di disporre, con ordinanza non impugnabile, che l’esecuzione sia sospesa o che sia prestata congrua cauzione.

L’istanza si propone con ricorso al presidente del collegio, il quale, con decreto in calce al ricorso, ordina la comparizione delle parti in camera di consiglio. Copia del ricorso e del de-creto sono notificate al procuratore dell’altra parte, ovvero alla parte stessa, se questa sia stata in giudizio senza ministero di difensore o non si sia costituita nel giudizio definito con la sentenza impugnata. Con lo stesso decreto, in caso di eccezionale urgenza, può essere dispo-sta provvisoriamente l’immediata sospensione dell’esecuzione.

Il provvedimento di accoglimento dell’istanza di sospensione dell’esecuzione della senten-za d’appello ha forma e sostanza di ordinanza; avendo carattere ordinatorio e provvisorio, es-sendo cioè privo di decisorietà e di definitività, non può essere impugnato con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (Cass. 10 settembre 1985, n. 4681); lo stesso si dica per il provvedimento che rigetta l’istanza di sospensione, anch’esso di natura ordinatoria, che non contiene alcuna decisione in senso tecnico-processuale (Cass. 25 maggio 1998, n. 5197).

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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9.4.8 L’udienza di discussione

Il primo presidente, su presentazione del ricorso a cura del cancelliere, fissa l’udienza o l’adunanza della camera di consiglio e nomina il relatore per i ricorsi assegnati alle sezioni unite. Per i ricorsi assegnati alla sezione lavoro provvede, allo stesso modo, il presidente della sezione.

Dell’udienza è data comunicazione dal cancelliere agli avvocati delle parti, almeno 20 gior-ni prima.

Le parti possono presentare le loro memorie in cancelleria non oltre cinque giorni prima dell’udienza, alla quale il relatore riferisce i fatti rilevanti per la decisione del ricorso, il conte-nuto del provvedimento impugnato e, in riassunto, se non vi è discussione delle parti, i motivi del ricorso e del controricorso.

Dopo la relazione il presidente invita gli avvocati delle parti a svolgere le loro difese; quindi il pubblico ministero espone oralmente le sue conclusioni motivate.

Non sono ammesse repliche, ma gli avvocati delle parti possono nella stessa udienza pre-sentare alla Corte brevi osservazioni, per iscritto, sulle conclusioni del pubblico ministero.

9.4.9 La sentenza

La Corte, dopo la discussione della causa, delibera nella stessa seduta la sentenza in ca-mera di consiglio. Copia della sentenza è trasmessa dal cancelliere della Corte a quello del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, affinché ne sia presa nota in margine all’o-riginale di quest’ultima; la trasmissione può avvenire anche in via telematica.

La decisione, al pari di qualsiasi altra assunta dai collegi giudicanti, è deliberata in segreto e ad essa possono partecipare soltanto i giudici che hanno assistito alla discussione.

Il collegio, sotto la direzione del presidente, decide gradatamente le questioni pregiudizia-li proposte dalle parti o rilevabili d’ufficio e quindi il merito della causa. La decisione è presa a maggioranza di voti. Il primo a votare è il relatore, quindi gli altri giudici e infine il presidente. Se intorno a una questione si prospettano più soluzioni, e non si forma la maggioranza alla prima votazione, il presidente mette ai voti due delle soluzioni per escluderne una, quindi mette ai voti la non esclusa e quella eventualmente restante, e così successivamente finché le soluzioni siano ridotte a due, sulle quali avviene la votazione definitiva. Chiusa la votazione, il presidente scrive e sottoscrive il dispositivo. La motivazione è quindi stesa dal relatore, a meno che il presidente non creda di stenderla egli stesso o affidarla ad altro giudice.

La Corte, quando accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli sulla giurisdizione o sulla competenza, rinvia la causa ad altro giudice di grado pari a quello che ha pronunciato la sen-tenza cassata, sempreché non decida essa stessa la causa nel merito. La novella del 2012 ha aggiunto un quarto comma all’art. 383 cod. proc. civ. per disporre che, nelle ipotesi di ricorso avverso la sentenza di primo grado a seguito di dichiarazione di inammissibilità dell’appello, la Corte, se accoglie il ricorso per motivi diversi da quelli sulla giurisdizione o sulla competen-za, rinvia la causa al giudice che avrebbe dovuto pronunciare sull’appello.

La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, bensì la sola facoltà di control-lare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazio-ni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la conclu-denza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza

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136 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti ( salvo i casi tassativamente previsti dalla legge); ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza, con-traddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame dei punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identifica-zione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione.

Nel caso di «ricorso per saltum», la causa può essere rinviata al giudice che avrebbe dovu-to pronunciare sull’appello al quale le parti hanno rinunciato.

La Corte, se riscontra una nullità del giudizio di primo grado per la quale il giudice d’appel-lo avrebbe dovuto rimettere le parti al primo giudice, rinvia la causa a quest’ultimo.

Se la sentenza è affetta da errore materiale o di calcolo, ovvero da errore di fatto, la parte interessata può chiederne, secondo quanto disposto dall’art. 391-bis cod. proc. civ., la corre-zione o la revocazione con ricorso da notificare entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza, ovvero di un anno dalla pubblicazione della sentenza stes-sa. Il medesimo rimedio è previsto per l’ordinanza che pronuncia sulle istanze di regolamento di competenza e di giurisdizione ovvero che accoglie o rigetta il ricorso principale e l’eventua-le ricorso incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza o, ancora, che ne dichiara l’i-nammissibilità per mancanza dei motivi o per difetto di formulazione. La Corte decide sul ri-corso in camera di consiglio. Sul ricorso per correzione dell’errore materiale la Corte pronuncia con ordinanza.

9.4.10 La revocazione e l’opposizione di terzo

Il provvedimento con il quale la Corte ha deciso la causa nel merito è, altresì, impugnabile per revocazione:

– se è l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra;– se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false oppure che la parte soc-

combente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima del provvedimento;– se vengono trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per

causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario;– se il provvedimento è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.– Il provvedimento con il quale è stata decisa la causa nel merito è impugnabile pure per opposizione di

terzo.

I relativi ricorsi si propongono alla stessa Corte che, quando pronuncia la revocazione o accoglie l’opposizione di terzo, decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulterio-ri accertamenti di fatto; altrimenti, pronunciata la revocazione ovvero dichiarata ammissibile l’opposizione di terzo, rinvia la causa al giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. Sul ricorso per revocazione la Corte pronuncia con ordinanza se lo dichiara inammissibile, altri-menti rinvia alla pubblica udienza.

La pendenza del termine per la revocazione della sentenza della Corte di cassazione non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza impugnata con ricorso per cassazione re-spinto.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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In caso di impugnazione per revocazione della sentenza della Corte di cassazione non è ammessa la sospensione dell’esecuzione della sentenza passata in giudicato, né è sospeso il giudizio di rinvio o il termine per riassumerlo.

9.4.11 L’enunciazione del principio di diritto

L’art. 384 cod. proc. civ. dispone che la Corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso proposto per violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, nonché in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricor-so, risolve una questione di diritto di particolare importanza.

La Corte, quando accoglie il ricorso, cassa la sentenza rinviando la causa ad altro giudice, il quale deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte, ovve-ro decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto. Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d’ufficio, la Corte ri-serva la decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in can-celleria di osservazioni sulla medesima questione.

Non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto; in tal caso la Corte si limita a correggere la motivazione.

Quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il procu-ratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi. La richiesta del procuratore generale, contenente una sintetica esposizione del fatto e delle ragioni di diritto poste a fondamento dell’istanza, è rivolta al primo presidente, il quale può disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza. Il principio di diritto può essere pronunciato dalla Corte anche d’ufficio, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa è di particolare importan-za. La pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito.

9.4.12 La riassunzione della causa

La riassunzione davanti al giudice di rinvio può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre tre mesi dalla pubblicazione della sentenza della corte di cassazione.

Nel rito del lavoro l’atto di riassunzione del giudizio in sede di rinvio, in conseguenza della cassazione della sentenza resa in grado d’appello, deve essere proposto, nell’osservanza del-la forma e della modalità prescritte dagli artt. 433 e 434, 2° comma, cod. proc. civ., con ricorso notificato personalmente alla parte contestualmente al decreto di fissazione dell’udienza, re-stando peraltro esclusa, ai sensi dell’art. 125 disp. trans. cod. proc. civ., la necessità di una dettagliata esposizione delle precedenti vicende processuali e, in particolare, la necessità di una specifica riproposizione dei motivi dell’impugnazione (Cass. 8 agosto 1991, n. 8650).

Il ricorso in riassunzione, per garantire il contraddittorio, deve consentire alla controparte di individuare, già sulla base di esso, il procedimento che si intende proseguire; sotto tale pro-filo, pertanto, deve essere «autosufficiente», nel senso che non è possibile ovviare ad eventua-li carenze di esso con la produzione in giudizio di atti processuali che in tale ricorso non siano stati neppure richiamati.

Il termine per la riassunzione della causa in sede di rinvio risulta rispettato con il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice designato; dopo il deposito, tuttavia, grava sul ricor-

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138 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

rente in riassunzione l’onere dell’instaurazione del contraddittorio attraverso la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, con la conseguenza che, ove la notificazio-ne sia stata irrituale, ad esempio perché effettuata presso il domicilio eletto nel pregresso giudizio di merito anziché alla parte personalmente, e la parte intimata non si sia costituita sanando il vizio di notifica, il giudice di rinvio deve assegnare al ricorrente, previa fissazione di altra udienza, un termine perentorio perché provveda alla valida notifica del ricorso e del de-creto (Cass. 30 gennaio 1998, n. 932).

In sede di rinvio si osservano le norme stabilite per il procedimento davanti al giudice al quale la Corte ha rinviato la causa. In ogni caso deve essere prodotta copia autentica della sentenza della Cassazione. Le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata.

Nel giudizio di rinvio può deferirsi il giuramento decisorio, ma le parti non possono formu-lare conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cas-sata, salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza della Cassazione.

Se la riassunzione non avviene entro il termine, o si avvera successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l’intero processo si estingue; ma la sentenza della Corte di Cassazione conserva il suo effetto vincolante anche nel nuovo processo che sia in-staurato con la riproposizione della domanda.

Nel rito del lavoro, in tale ipotesi, verificandosi l’estinzione non solo della fase processua-le nella quale è stata emessa la sentenza cassata, bensì dell’intero processo, con il conse-guente venir meno della decisione di primo grado, viene meno anche l’esecutorietà di quest’ultima, poiché le uniche pronunce che resistono all’estinzione del giudizio di rinvio sono quelle già coperte da giudicato, in quanto non investite da appello o ricorso per Cassa-zione, in base al principio della formazione progressiva del giudicato (Cass. 18 gennaio 1983, n. 465).

L’estinzione del processo comporta, ai sensi dell’art. 2945, comma 3, cod. civ., il permanere dell’effetto interruttivo della prescrizione provocato dalla domanda giudiziale, dalla quale co-mincia a decorrere il nuovo periodo di prescrizione, restando escluso l’effetto permanente dell’interruzione, previsto dal secondo comma dello stesso articolo. Ciò vale anche nel caso di estinzione del processo ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., per mancata riassunzione della causa innanzi al giudice di rinvio, atteso che la seconda parte di tale norma, nell’affermare l’effetto vincolante della sentenza di Cassazione nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda, intende far salvo solo il principio di diritto enunciato dalla pre-detta sentenza (Cass. 27 gennaio 1993, n. 986).

9.4.13 La pronuncia in camera di consiglio

L’art. 380-bis cod. proc. civ. disciplina il procedimento per la decisione sull’inammissibilità del ricorso e per la decisione in camera di consiglio.

Il relatore, se appare possibile definire il giudizio dichiarando l’inammissibilità del ricorso principale e di quello incidentale eventualmente proposto, oppure accogliendo o rigettando il ricorso principale e quello incidentale per manifesta fondatezza o infondatezza, deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia. Il presidente fissa con decreto l’adunanza della Corte. Almeno venti giorni prima della data stabilita per l’adunanza, il decreto e la relazione sono comunicati al pubblico ministero e notificati agli avvocati delle parti, i quali hanno facoltà di presentare, il primo con-clusioni scritte, e i secondi memorie, non oltre cinque giorni prima e di chiedere di essere sentiti, se compaiono.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

139

Se il ricorso non è dichiarato inammissibile, il relatore, quando appaia necessario ordinare l’integrazione del contraddittorio o disporre che sia eseguita la notificazione dell’impugnazione ovvero che sia rinnovata, oppure provvedere in ordine all’estinzione del processo in ogni caso diverso dalla rinuncia deposita in cancelleria una relazione con la concisa esposizione dei moti-vi in base ai quali ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio. Se, invece, ritiene che non ricorra nessuna di queste ipotesi, la Corte rinvia la causa alla pubblica udienza.

9.4.14 La pronuncia a sezioni unite

La Corte pronuncia a sezioni unite nei casi di ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione o di conflitti di giurisdizione; tuttavia, tranne che nei casi di impugnazione delle decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, il ricorso può essere assegnato alle sezioni semplici, se sulla questione di giurisdizione proposta si sono già pronunciate le sezioni unite.

Il primo presidente può disporre che la Corte pronunci a sezioni unite sui ricorsi che pre-sentano una questione di diritto già decisa in senso difforme dalle sezioni semplici, e su quel-li che presentano una questione di massima di particolare importanza. Se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio, rimette alle sezioni unite, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso.

In tutti gli altri casi la Corte pronuncia a sezione semplice.

RICORSO PER CASSAZIONE - TABELLA RIASSUNTIVA

Funzione Si ricorre per cassazione avverso la sentenza emessa dal giudice di se-condo grado per violazione o falsa applicazione delle norme di legge da parte di costui, oltre che per gli altri casi individuati dall’art. 360 c.p.c.; il giudizio in cassazione, pertanto, è solo di legittimità e non anche di merito

Termini del ricorso Il ricorso va presentato entro 60 giorni dalla notifica della sentenza di secondo grado

sottoscrizione Il ricorso per cassazione dev’essere sottoscritto da un avvocato cassazio-nista munito di procura speciale, altrimenti è inammissibile

contenuto Il ricorso per cassazione deve contenere, a pena d’inammissibilità, l’in-dicazione delle parti, gli estremi della sentenza impugnata, l’esposizione sommaria dei fatti della causa, i motivi per cui si chiede la cassazione, l’indicazione delle norme di legge poste a fondamento della richiesta e l’indicazione della procura

controricorso È l’atto mediante il quale si costituisce in giudizio la parte contro cui è proposto il ricorso per cassazione

Termini del controricorso

Il controricorso va notificato al ricorrente entro 20 giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso; l’atto può contenere il ricorso inci-dentale formulato dal controricorrente per ottenere una riforma miglio-rativa della sentenza di secondo grado, già favorevole

Sospensione dell’esecuzione

Può essere disposta solo se dall’esecuzione della sentenza di secondo grado possa derivare alla parte un danno grave ed irreparabile

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140 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

9.5 Il regolamento di competenza

9.5.1 Il regolamento necessario e facoltativo

Il regolamento di competenza si propone alla Corte di Cassazione con ricorso sottoscritto dal procuratore o dalla parte, se questa si è costituita personalmente.

Ai sensi degli artt. 42 e 43 cod. proc. civ., l’ordinanza che, pronunciando sulla competenza, non decide il merito della causa, e i provvedimenti che dichiarano la sospensione del processo nei casi in cui il giudice che li adotta (o un altro) debba risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa, possono essere impugnati soltanto con istanza di regolamento (necessario) di competenza.

Il provvedimento che ha pronunciato sulla competenza insieme col merito può essere im-pugnato con l’istanza di regolamento (facoltativo) di competenza, oppure nei modi ordinari, quando insieme con la pronuncia sulla competenza si impugna quella sul merito. La proposi-zione dell’impugnazione ordinaria non toglie alle altre parti la facoltà di proporre l’istanza di regolamento. Se l’istanza di regolamento è proposta prima dell’impugnazione ordinaria, i ter-mini per la proposizione di quest’ultima riprendono a decorrere dalla comunicazione del prov-vedimento che regola la competenza; se è proposta dopo, il processo d’impugnazione va so-speso.

È inammissibile il regolamento necessario di competenza proposto avverso l’ordinanza che dichiara la sospensione del processo del lavoro per mancato esperimento del tentativo obbli-gatorio di conciliazione, in quanto questo regolamento è esperibile solamente in caso di so-spensione necessaria.

9.5.2 Il procedimento del regolamento

Il ricorso deve essere notificato alle parti che non vi hanno aderito entro il termine pe-rentorio di 30 giorni dalla comunicazione dell’ordinanza che abbia pronunciato sulla compe-tenza o dalla notificazione dell’impugnazione ordinaria; l’adesione delle parti può risultare anche dalla sottoscrizione del ricorso. L’istanza di regolamento, se proposta avverso un’ordi-nanza pronunciata in udienza, con sostanziale contenuto decisorio sulla competenza, deve essere notificata, a pena di inammissibilità, entro 30 giorni dalla data del provvedimento im-pugnato; in tale ipotesi, infatti, il termine perentorio posto dall’art. 47, comma 2, cod. proc. civ. decorre dal giorno dell’udienza, quale momento in cui l’ordinanza deve legalmente presumer-si conosciuta dalle parti presenti e da quelle che dovevano comparire, senza necessità di suc-cessiva comunicazione a cura della cancelleria.

Nel caso di proposizione dell’istanza dopo il decorso del termine di 30 giorni dalla pubbli-cazione dell’ordinanza che ha pronunciato sulla competenza, l’istante ha l’onere di dimostrare la data di comunicazione del provvedimento o, nell’eventuale difetto di ogni rituale comunicazio-ne, del deposito dello stesso, per consentire alla Corte di Cassazione di verificare il rispetto del termine perentorio che, in mancanza di tale prova, deve farsi decorrere dalla data di pubblicazio-ne della pronuncia, con conseguente inammissibilità dell’istanza proposta oltre il 30° giorno, non essendo applicabile all’istanza per regolamento il termine semestrale che, ai sensi dell’art. 327 cod. proc. civ., riguarda altre impugnazioni (Cass. 29 agosto 1995, n. 666, ord.).

La parte che propone l’istanza, nei cinque giorni successivi all’ultima notificazione del ri-corso alle parti, deve chiedere ai cancellieri degli uffici davanti ai quali pendono i processi che i relativi fascicoli siano rimessi alla cancelleria della Corte di Cassazione; nel termine peren-

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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torio di venti giorni dalla stessa notificazione deve depositare nella cancelleria il ricorso con i documenti necessari.

Il regolamento d’ufficio è richiesto con ordinanza dal giudice, il quale dispone la rimessione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte di Cassazione. Le parti alle quali è notificato il ricorso o comunicata l’ordinanza del giudice, possono, nei 20 giorni successivi, depositare nella cancelleria della Corte di Cassazione scritture difensive e documenti.

Il ricorso per regolamento di competenza è strutturato come uno specifico mezzo di impu-gnazione avverso i provvedimenti che pronunciano sulla competenza. Ne consegue che deve ritenersi applicabile il principio di «autosufficienza»: la parte istante ha l’onere di indicare, in modo adeguato e specifico, le ragioni del proprio dissenso rispetto alla pronunzia impugnata, senza limitarsi a fare riferimento alle difese svolte in sede di merito, ma eventualmente tra-scrivendole in ricorso, per porre la Corte di Cassazione in condizione di apprezzarne la rilevan-za e la pertinenza ai fini del decidere (Cass. 13 novembre 2000, n. 14699).

L’istanza per regolamento di competenza, dovendo essere motivata, presuppone la cono-scenza dei motivi della pronuncia impugnata e, pertanto, anche nelle controversie individuali di lavoro, il termine di proposizione decorre dalla comunicazione del deposito del provvedi-mento nella sua interezza (Cass. 28 gennaio 2000, n. 965) ovvero dalla sua lettura in udienza.

L’art. 48 cod. proc. civ. dispone che i processi relativamente ai quali è chiesto il regolamen-to di competenza sono sospesi dal giorno in cui è presentata l’istanza al cancelliere o dalla pronuncia dell’ordinanza che richiede il regolamento. Il giudice può autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti.

9.5.3 L’ordinanza di regolamento

Il regolamento è pronunciato con ordinanza in camera di consiglio, entro i 40 giorni suc-cessivi alla notifica alle parti del ricorso ovvero, in caso di regolamento d’ufficio, dell’ordi-nanza del giudice.

Con l’ordinanza la Corte di Cassazione statuisce sulla competenza, dà i provvedimenti ne-cessari per la prosecuzione del processo davanti al giudice che dichiara competente e rimette, quando occorre, le parti in termini affinché provvedano alla loro difesa.

L’ordinanza, individuando in modo definitivo e vincolante il giudice munito della potestà di deci-dere, preclude ogni ulteriore questione sulla competenza del giudice designato, ancorché ripropo-sta con riferimento a criteri non espressamente sottoposti all’attenzione della Corte. Il provvedi-mento, dunque, esaurisce la questione di competenza con riguardo a tutti i profili ipotizzabili, anche se concretamente non esaminati, poiché la funzione peculiare dell’istituto processuale è l’individuazione definitiva del giudice competente per una specifica causa, tanto che l’art. 310 cod. proc. civ. prevede che il provvedimento conservi efficacia anche in caso di estinzione del processo.

Il giudice dichiarato competente, davanti al quale la causa sia riassunta, non può quindi declinare la sua competenza, neanche sotto un profilo diverso da quello per il quale era espli-citamente sorta controversia. Se, poi, lo stesso giudice, in violazione di tale regola, si dichiara incompetente, è allora ammissibile un nuovo regolamento di competenza, trattandosi dell’u-nico rimedio esperibile; la Corte di Cassazione non esaminerà, tuttavia, la questione nel me-rito, ma si limiterà a prendere atto della precedente statuizione.

9.5.4 La riassunzione della causa

La riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente deve avvenire nel termine fissato nella sentenza dal giudice o, in mancanza, in quello di tre mesi dalla comuni-

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142 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

cazione dell’ordinanza di regolamento ovvero del provvedimento che dichiara l’incompetenza del giudice adito, altrimenti il processo si estingue.

Nelle controversie individuali di lavoro la riassunzione della causa va effettuata con ricorso, secondo il rito proprio delle medesime, e il termine entro il quale deve eseguirsi, davanti al giudice designato come competente, decorre dalla data del deposito dell’ordinanza dichiarati-va dell’incompetenza e non già dalla data dell’udienza di discussione in cui è stata data lettura del dispositivo.

La riassunzione non determina l’instaurazione di un nuovo giudizio, ma, ai sensi dell’art. 50 cod. proc. civ., la prosecuzione del giudizio originario, con la conseguenza che, quanto al con-venuto, ai fini dell’apprezzamento nei suoi riguardi del regime delle preclusioni di cui all’art. 416 cod. proc. civ., non deve farsi riferimento alla sua costituzione nel giudizio riassunto, ma alla prima costituzione avanti al giudice originariamente adito (Cass. 8 febbraio 1999, n. 1076). Per questa ragione è stato ad esempio ritenuto (Cass. 15 aprile 2002, n. 5377) che la parte la quale, costituitasi nella fase iniziale del processo del lavoro, abbia tempestivamente sollevato eccezione di prescrizione, non può essere dichiarata decaduta dall’eccezione a causa della mancata sua costituzione nel giudizio di riassunzione.

9.6 Il regolamento di giurisdizione

9.6.1 La decisione delle questioni di giurisdizione

L’art. 37 cod. proc. civ. stabilisce che il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei con-fronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali è rilevato, anche d’ufficio, in qua-lunque stato e grado del processo.

L’art. 59 della legge 18 giugno 2009, n. 69, stabilisce che il giudice che dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia resa dalle sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo.

Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia sulla giurisdizione, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. A tali fini la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile.

Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.

L’inosservanza dei termini fissati dalla norma in questione per la riassunzione o per la prose-cuzione del giudizio comporta l’estinzione del processo, che è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza, e impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

In ogni caso di riproposizione della domanda davanti al giudice munito di giurisdizione, le prove raccolte nel processo davanti al giudice privo di giurisdizione possono essere valutate come argomenti di prova.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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9.6.2 Il ricorso per regolamento

In base a quanto disposto dall’art. 41 cod. proc. civ., finché la causa non è decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte può chiedere alle sezioni Unite della corte di cas-sazione che risolvano le questioni di giurisdizione. È esclusa la proponibilità d’ufficio del regolamento di giurisdizione, che è demandato all’impulso di parte. Il regolamento preven-tivo di giurisdizione non costituisce un’impugnazione in senso proprio, bensì una fase inci-dentale del procedimento nel corso del quale viene proposto. La pubblica amministrazione che non è parte in causa, invece, può chiedere, in ogni stato e grado del processo, che sia dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa, finché la giurisdizione non sia stata affermata con sen-tenza passata in giudicato. L’istanza si propone con ricorso diretto alla Corte di Cassazione e sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto nell’apposito albo, munito di procura speciale.

Il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle parti, l’esposizio-ne sommaria dei fatti della causa, i motivi per i quali si chiede la pronuncia, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano. Il ricorso può essere proposto da qualsiasi parte e, quindi, anche dall’attore, in quanto è sufficiente l’insorgere in costui di dubbi ragionevoli concernenti i limiti esterni della giurisdizione del giudice adito, senza che sia indispensabile la contestazione della giurisdizione ad opera delle altre parti (Cass. Sez. Un., 3 giugno 1996, n. 5098). Il regolamento preventivo di giurisdizione è proponibile anche quando miri alla statuizione del difetto di giurisdizione di qualsiasi giudice (Cass., sez. un., 5 giugno 2002, n. 8157, ord.).

9.6.3 La sorte del processo di merito

Una copia del ricorso deve essere depositata, dopo la notificazione alle altri parti, nella cancelleria del giudice avanti al quale pende la causa; questi sospende il processo, se non ri-tiene l’istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manife-stamente infondata. La condizione discende dalla modifica apportata al testo dell’art. 367 cod. proc. civ., dalla riforma del 1990, in quanto originariamente la causa di merito doveva neces-sariamente essere sospesa. Il mancato deposito di copia del ricorso nella cancelleria del giu-dice del procedimento di merito non interferisce sulla procedibilità del regolamento, in quanto attiene esclusivamente alla regolarità del procedimento di primo grado (Cass. Sez. Un., 3 maggio 1986, n. 3001).

Il giudice del merito provvede con ordinanza non impugnabile, da adottare a seguito di sommaria delibazione, ma che non può prescindere dall’apprezzamento di eventuali prove dedotte al fine di dimostrare l’infondatezza della contestazione della giurisdizione del giu-dice adito, posto che la Corte di Cassazione, pur essendo in relazione alla decisione sulle questioni di giurisdizione giudice anche del fatto, non potrebbe mai svolgere attività istruttoria né, comunque, fondare il proprio convincimento su circostanze diverse da quelle acquisite al processo nelle pregresse fasi di merito (Cass. Sez. Un., 25 luglio 2001, n. 10089). Qualora in cause distinte, riunite in unico processo per ragioni di cumulo soggettivo od oggettivo, il ricor-so per regolamento preventivo di giurisdizione venga proposto con riferimento ad una sola delle cause, l’automatica sospensione del processo è limitata a questa e, pertanto, il giudice di merito, avvalendosi dei poteri discrezionali, ha la facoltà di disporre la separazione delle cause e l’ulteriore trattazione delle altre .

La proposizione del regolamento di giurisdizione, non producendo più la sospensione au-tomatica del processo pendente, potrebbe far sì che, quando il giudice non abbia sospeso il

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144 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

giudizio di merito, il processo prosegua e venga definito, in primo grado, prima che la questio-ne di giurisdizione sia decisa. Il dovere della Corte regolatrice di pronunciare sulla questione di giurisdizione non trova, tuttavia, ostacolo nella sentenza del giudice di primo grado che contenga, o anche soltanto implichi, una decisione pure in ordine alla giurisdizione, né nel fatto che, a seguito di tale sentenza, non impugnata, si sia formato il giudicato sulle questioni decise. La sentenza del giudice nel processo pendente deve, allora, considerarsi una sentenza condizionata, nel senso che, qualora la decisione della Corte sia di segno contrario a quello ritenuto o presupposto dal giudice di merito, la sentenza di quest’ultimo, sia sulla giurisdizio-ne che sulle questioni logicamente successive, risulterà priva di effetto, a nulla rilevando che tale sentenza non sia stata impugnata, atteso che imporre alla parte di impugnarla solo per conservare il diritto alla decisione sulla questione di giurisdizione significherebbe costruire la disciplina del regolamento su di un uso strumentale dell’impugnazione (Cass. Sez. Un., 17 dicembre 1999, n. 905).

Nulla vieta che anche il giudice di merito pronunci sulla giurisdizione; anzi, nella prassi avviene più frequentemente che in prime cure le parti prospettino al giudice di pri-mo grado la questione di giurisdizione, attendendo la decisione di costui, prima di ricorre-re alla Corte regolatrice. A seguito della nuova formulazione dell’art. 367 cod. proc. civ. da parte del riformatore del 1990, non può configurarsi una sospensione dei termini di impu-gnazione della sentenza emessa dal giudice di primo grado per effetto della proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione. Ne consegue l’impossibilità di ritenere propo-nibile il regolamento preventivo di giurisdizione dopo che il giudice di merito abbia emesso una sentenza, anche soltanto limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, cosicché il disposto della prima parte dell’art. 41 cod. proc. civ. deve essere interpretato nel senso che qualsiasi decisione emanata dal giudice presso il quale il processo è radica-to ha efficacia preclusiva del regolamento preventivo di giurisdizione. (Cass. Sez. Un. 7 dicembre 2000, n. 137. In senso contrario, prima della riforma: Cass. Sez. Un. 23 febbraio 1990, n. 1392).

Se la Corte di cassazione dichiara la giurisdizione del giudice ordinario, le parti debbono riassumere il processo entro il termine perentorio di tre mesi dalla comunicazione della sen-tenza. La riassunzione va effettuata con ricorso, essendo inapplicabile l’art. 125 disp. att. cod. proc. civ., che prevede la modalità della comparsa soltanto per i casi in cui la legge non dispon-ga diversamente, escludendo così in modo implicito le controversie individuali di lavoro, rette dal rito speciale. D’altro lato, il venir meno del procedimento in seno al quale sia stato solle-vata istanza di regolamento preventivo di giurisdizione (ad esempio, in ipotesi di estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere) comporta la sopravvenuta inammissibi-lità del regolamento, a ragione della sua natura di procedimento incidentale (Cass. Sez. Un. 17 gennaio 2002, n. 499).

Anche in ipotesi di sospensione del procedimento per effetto della proposizione del regola-mento di giurisdizione, sussiste il potere del giudice del merito di compiere atti indifferibili, in applicazione analogica di quanto disposto dall’art. 48 cod. proc. civ. per il caso di proposizione del regolamento di competenza.

9.6.4 I conflitti di giurisdizione

Quando il giudice ordinario ed il giudice speciale abbiano entrambi già statuito sulla giuri-sdizione, ciascuno declinandola a favore dell’altro, resta preclusa l’esperibilità del regolamen-to preventivo, che attiene all’ipotesi di conflitto virtuale, ed è invece proponibile soltanto la denuncia del conflitto di giurisdizione.

L’art. 362 cod. proc. civ., infatti, stabilisce che:

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

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– possono essere impugnate con ricorso per cassazione, nel termine di sessanta giorni, le decisioni in grado d’appello, o in unico grado, di un giudice speciale, per motivi attinenti alla giurisdizione del giudice stesso;

– possono essere denunciati in ogni tempo con ricorso per cassazione i conflitti, positivi o negativi, di giurisdizione tra giudici speciali, o tra questi e i giudici ordinari; ricorre tale ipotesi quando due giudici, appartenenti ad ordini diversi, abbiano definito in termini contrastanti la stessa questione di giurisdi-zione; la disposizione sottrae la proponibilità dell’azione ai limiti temporali fissati per le impugnazioni e, di conseguenza, legittima la proposizione del ricorso anche nel caso in cui l’una o l’altra delle pro-nunce in conflitto sia formalmente passata in giudicato;

– possono essere denunciati in ogni tempo con ricorso per cassazione i conflitti negativi di attribuzione tra la pubblica amministrazione e il giudice ordinario; anche in tale ipotesi, la locuzione “in ogni tem-po” rende il ricorso proponibile indipendentemente dalla circostanza che la pronuncia giudiziale sia o no passata in giudicato.

9.7 La revocazione

9.7.1 La revocazione delle sentenze inappellabili

La revocazione è un’impugnazione concessa per riparare gli errori verificatisi nel giudizio di merito, e non più rimediabili mediante gli ordinari mezzi di impugnazione, ogni volta che i fatti previsti come fonte di errore dalla legge processuale abbiano in concreto esplicato, sulla forma-zione della pronuncia, un’influenza decisiva, tale cioè che il giudizio avrebbe potuto avere esito diverso, qualora il giudice ne fosse stato a conoscenza o se essi non si fossero verificati.

CASI DI IMPUGNAZIONE PER REVOCAZIONE

A) sENTENZE PRONUNcIATE IN gRADO D’APPELLO O IN UNIcO gRADO

1) se la sentenza è l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la pronuncia oppure

che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della pronunci3) se dopo la pronuncia sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto

produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario4) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa (vi è questo

errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmen-te esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sen-tenza ebbe a pronunciare)

5) se la sentenza è contraria ad altro precedente provvedimento avente fra le parti autorità di cosa giudicata, purché non abbia pronunciato sulla relativa eccezione

6) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudica

– continua –

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146 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

- segue - CASI DI IMPUGNAZIONE PER REVOCAZIONE

B) sENTENZE AsTRATTAMENTE APPELLABILI PER LE QUALI sIA PERò scADUTO IL TERMINE PER L’APPELLO

1) se la sentenza è l’effetto del dolo di una delle parti in danno dell’altra2) se si è giudicato in base a prove riconosciute o comunque dichiarate false dopo la pronuncia

oppure che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali prima della pronunci

3) se dopo la pronuncia sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’avversario

4) se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato

L’impugnazione per revocazione è proponibile solo se la scoperta del dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia della sentenza effetto del dolo del giudice siano avve-nuti dopo la scadenza del termine per l’appello. I fatti costitutivi della revocazione, infatti, debbono essere dedotti con l’appello, quando la sentenza sia appellabile. Se i fatti avvengono durante il corso del termine per l’appello, quello è prorogato dal giorno dell’avvenimento, in modo da raggiungere i 30 giorni da esso.

9.7.2 La proposizione della domanda

L’art. 398 cod. proc. civ. dispone che la revocazione si propone con citazione davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata.

Pur nell’assenza di una particolare previsione nella legge 11 agosto 1973, n. 533, il rito speciale del lavoro è stato ritenuto applicabile al procedimento di revocazione relativo a sen-tenze pronunciate nelle controversie di lavoro (Cass. 14 aprile 1992, n. 4537): innanzi al giudice adito devono osservarsi le norme stabilite per il procedimento davanti a lui, in quanto non derogate da quelle dettate in tema di revocazione. La domanda di revocazione si deve propor-re, allora, con ricorso, ed è tempestivamente proposta quando il ricorso introduttivo è deposi-tato nei termini in cancelleria, anche se la sua notificazione, unitamente al decreto di fissazio-ne dell’udienza, avvenga successivamente.

L’atto introduttivo, che va sottoscritto da un difensore munito di procura speciale, deve in-dicare, a pena di inammissibilità, il motivo della revocazione e le prove relative alla dimostra-zione dei fatti costitutivi, del giorno della scoperta o dell’accertamento del dolo o della falsità, ovvero del recupero dei documenti.

La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazio-ne o il procedimento relativo; tuttavia il giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l’uno o l’altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronun-ciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la revocazione stessa.

9.7.3 La sentenza di revocazione

Con la sentenza che pronuncia la revocazione il giudice decide il merito della causa e dispone l’eventuale restituzione di ciò che si sia conseguito con la sentenza revocata. Se, però, ritiene di dover disporre, per la decisione del merito della causa, nuovi mezzi istruttori, pronuncia, con sen-tenza, la revocazione della sentenza impugnata e rimette con ordinanza le parti per l’istruttoria.

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

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L’art. 403 cod. proc. civ. vieta che sia impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione. Contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione.

L’istanza di revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione può essere basata esclu-sivamente sull’errore di fatto in cui la Corte possa essere incorsa nella lettura degli atti del processo di merito ovvero degli atti propri del giudizio di legittimità; l’errore revocatorio, che consiste in un errore di percezione che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza o l’inesi-stenza di un fatto decisivo che risulti incontestabilmente escluso o accertato alla stregua degli atti di causa, non è configurabile nell’ipotesi in cui riguardi norme giuridiche, essendo la loro violazione o falsa applicazione un errore di diritto (Cass. 10 giugno 2009, n. 13367).

9.8 L’opposizione di terzo

9.8.1 L’opposizione ordinaria

L’art. 404, co. 1, cod. proc. civ. consente al terzo di fare opposizione contro la sentenza passata in giudicato, o comunque esecutiva, pronunciata tra altre persone, quando pregiudica i suoi diritti.

Il rimedio dell’opposizione ordinaria di terzo è attribuito a chi, estraneo al giudizio concluso in via definitiva dalla sentenza opposta, dall’accertamento in essa contenuto o dall’esecuzione della stessa risente, o può risentire, pregiudizio ad un suo autonomo diritto o ad una sua au-tonoma posizione giuridica o di mero fatto.

La «efficacia riflessa del giudicato», come affermazione oggettiva di verità, nei confronti di terzi rimasti estranei al processo presuppone che tali soggetti non siano titolari di un diritto autonomo rispetto al rapporto in ordine al quale è intervenuto il giudicato. In tale ottica, il pre-giudizio del litisconsorte pretermesso non scaturisce esclusivamente dall’obiettiva ingiustizia della decisione di merito e dall’incompatibilità del diritto vantato con quello deciso in controver-sia tra altri, ma è costituito anzitutto dalla mancata partecipazione ad un giudizio che non avreb-be potuto svolgersi senza il suo intervento, conclusosi con una sentenza che, data la natura del rapporto che ne ha formato oggetto, pregiudica la sua posizione di diritto sostanziale.

9.8.2 L’opposizione revocatoria

L’art. 404, co. 2, cod. proc. civ. consente agli aventi causa ed ai creditori di una delle parti di fare opposizione alla sentenza, quand’è l’effetto di dolo o collusione a loro danno.

Gli aventi causa possono fare opposizione alla sentenza non soltanto quando sia l’effetto di dolo o collusione a loro danno, ma anche con l’opposizione ordinaria, quando facciano valere un proprio diritto non derivante dalla situazione o dal rapporto su cui abbia pronunciato la sentenza emessa nei confronti del dante causa.

9.8.3 La domanda di opposizione

L’opposizione di terzo, pur con le peculiarità che la caratterizzano, specie in considerazione del fatto che introduce quale contraddittore nel processo un soggetto ad esso rimasto estraneo, rima-ne un mezzo di impugnazione che, per la parte in cui non provvedono le specifiche e scarne dispo-sizioni del codice di rito, soggiace ai princìpi generali del processo civile (sulla corrispondenza tra domanda delle parti e pronuncia del giudice, sulla specificità dei motivi di gravame, e così via).

L’opposizione è proposta davanti allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza, secon-

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148 Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

do le forme prescritte per il procedimento innanzi a lui. Tale competenza ha carattere funzio-nale ed inderogabile, sicché non può subire eccezioni neppure per ragioni di connessione.

L’atto introduttivo, che nel rito del lavoro è sempre il ricorso, deve contenere, oltre ai soliti elemen-ti, anche l’indicazione della sentenza impugnata e, nell’opposizione revocatoria, pure l’indicazione del giorno in cui il terzo è venuto a conoscenza del dolo o della collusione e della relativa prova.

RICORSO IN OPPOSIZIONE DI TERZO

Tribunale di ..... Sezione LavoroGiudice dr. .....

Ricorso in opposizione di terzo ai sensi dell’art. 405 cod. proc. civ.per

....., codice fiscale ...., residente (ovvero: con sede) in ..... (eventuale: in persona del legale rappre-sentante pro tempore .....), elettivamente domiciliato/a in ....., alla via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta, in forza di procura emarginata al presente atto (ovvero: alla copia notificata del ricorso introduttivo);terzo opponente

premesso1) che, con sentenza n. ..... del ..... il Tribunale di ..... Sezione Lavoro, Giudice dr. ....., accoglieva il ricor-so introduttivo proposto da ..... nei confronti di ..... e condannava ....., con sentenza provvisoriamente esecutiva; 2) che la sentenza pregiudica i diritti dell’esponente; infatti .....; tutto ciò premesso e ritenuto

ricorreall’Ecc.mo Tribunale perché voglia fissare l’udienza di comparizione delle parti e la discussione della causa per l’accoglimento delle seguenticonclusioniPiaccia all’Ecc.mo Tribunale di ....., in funzione di Giudice del Lavoro, accogliere il presente ricorso e, conseguentemente, revocare la sentenza indicata in premessa. Con vittoria di spese, competenze ed onorari del doppio grado di giudizio, oltre IVA e CPA, da distrarsi in favore dell’avv. .... .Si producono i seguenti documenti: .... .Sussistendo il pericolo di grave ed irreparabile danno

chiedeai sensi dell’art. 407 cod. proc. civ., che venga disposta la sospensione dell’esecuzione dell’impugnata sentenza.Codice fiscale del difensore: .....Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: Si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.Si producono i seguenti documenti: ..... .Luogo e data

Avv. ....

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Capitolo 9 - Le impugnazioni

Processo del lavoro

149

9.8.4 La sentenza

Il principio generale è che l’opposizione di terzo non può vanificare il giudicato formatosi fra le parti.

Il principio ammette eccezione quando il rapporto accertato nei confronti dell’opponente risulti assolutamente incompatibile ed inconciliabile con quello riconosciuto dalla sentenza gravata di opposizione (Cass. 21 febbraio 1992, n. 2115).

In particolare, la sentenza che accoglie l’opposizione di terzo revocatoria non può certo comportare, di regola, l’inefficacia del precedente giudicato opposto nei soli confronti del terzo opponente, mantenendolo fermo nel rapporto tra le parti originarie, ma importa neces-sariamente la totale eliminazione della sentenza passata in giudicato nei confronti delle parti del processo originario, con effetto riflesso e consequenziale nei confronti del terzo opponen-te (Cass. 27 giugno 1988, n. 4324). In altri termini, l’ambito della decisione di accoglimento dell’opposizione del terzo può riguardare la declaratoria di inefficacia della sentenza opposta nei confronti del solo opponente, lasciando ferma l’efficacia della decisione fra le parti origi-narie, ma può anche avere una portata più ampia quando, per la natura del diritto del terzo opponente, risulti inconciliabile con le statuizioni della sentenza opposta. In quest’ultimo caso, la parte nei confronti della quale è stata emessa la sentenza opposta ha diritto di opporsi all’esecuzione contro di lei promossa e di eccepire la sospensione dell’esecu-zione della sentenza disposta nel giudizio di opposizione di terzo (Cass. 14 novembre 1989, n. 4831).

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Processo del lavoro

Capitolo 10

LA REPREssIONE DELLA cONDOTTA ANTIsINDAcALE

10.1 Il triplice oggetto della tutela

L’art. 28 Stat. Lav., al fine di reprimere la condotta antisindacale del datore di lavoro (im-prenditore o no, e qualsiasi sia la dimensione occupazionale), dispone che, qualora questi ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà o dell’at-tività sindacale, nonché del diritto di sciopero, il tribunale del luogo ove è posto in essere il comportamento gli ordina, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.

Il legislatore ha inteso garantire l’effettivo godimento di tutti i diritti sindacali previsti dallo statuto dei lavoratori, introducendo nell’ordinamento una norma che ha un contenuto sia processuale che sostanziale, tutelando così da ogni ostacolo e limitazione datoriale la li-bertà e l’attività sindacale all’interno e fuori del luogo di lavoro, anche oltre e al di là del cam-po dei diritti sindacali istituiti direttamente dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

L’oggetto della tutela è triplice:

– la libertà sindacale;– l’attività sindacale;– l diritto di sciopero.

Essa si realizza mediante una norma-scudo, di amplissima efficacia oggettiva, tale da poter dispiegare effetti di repressione di ogni comportamento idoneo a ledere questo triplice bene, anche al di fuori dei casi di lesione di diritti soggettivi espressamente riconosciuti dall’ordina-mento; in tal senso, l’art. 28 è indubbiamente norma primaria e non secondaria. Qualsiasi condotta antisindacale datoriale è suscettibile di venire repressa, tanto se vada ad incidere direttamente su interessi collettivi, quanto se vada, invece, ad incidere plurioffensivamente e su interessi individuali e su interessi collettivi, che vengano lesi dall’attentato all’interesse in-dividuale (del lavoratore o di terzi), fermo restando che la condotta plurioffensiva può essere giudizialmente perseguita sia in sede di speciale procedimento per repressione del comporta-mento antisindacale ad iniziativa del sindacato, sia con azioni ordinarie ad iniziativa dei sog-getti che abbiano interesse ad agire.

L’art. 28 Stat. Lav. non ipotizza condotte specifiche; reprime qualsiasi attività preordinata alla limitazione o all’impedimento dell’attività sindacale latamente intesa, non soltanto le atti-vità discriminatorie o quelle che ledano la libertà del sindacato rispetto alla sua costituzione, al funzionamento dei suoi organi istituzionali ed allo svolgimento delle tipiche attività associa-tive. Ne consegue che nella nozione di condotta antisindacale del datore di lavoro devono es-sere ricompresi tutti quegli atti illeciti o anche oggettivamente leciti che, in relazione al fine, si

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152 Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

rivelino idonei ad impedire o limitare l’esercizio dei diritti sindacali, del diritto di sciopero e, in genere, la libertà e l’attività del sindacato. Si richiede, cioè, un comportamento che, finalisti-camente diretto a conseguire detti scopi, infranga o meno norme di legge, produca o meno un danno economico o patrimoniale per i singoli lavoratori: è addirittura ipotizzabile che un atto lecito del datore di lavoro, o perfino l’esercizio di un diritto a lui spettante, possano integrare una condotta antisindacale se, finalisticamente riguardati, siano obiettivamente diretti ad im-pedire o a limitare la libertà e l’attività sindacale.

Non tutti i comportamenti datoriali antagonistici al sindacato possono definirsi antisinda-cali dal punto di vista giuridico: la linea di demarcazione tra comportamenti antagonisti con-sentiti e non consentiti va così materializzata nell’autotutela e nell’autonomia del sindacato, intesa come sua libertà e attività; sicché il bene tutelato dall’art. 28 Stat. Lav. va individuato nel conflitto collettivo, vale a dire nella conflittualità dei lavoratori come gruppo sindacalmente organizzato. Quando l’opposizione al sindacato è opposizione al conflitto, e cioè repressione dello stesso, il comportamento è lesivo del bene tutelato dalla norma e, perciò, illecito; vi-ceversa, allorché l’opposizione al sindacato rimane nell’ambito del conflitto, accettandolo ed accettandone le conseguenze (resistenza alle rivendicazioni, non accoglimento di piattaforme sindacali, rifiuto di trattare su temi che si ritengono di propria esclusiva competenza e così via), il comportamento deve ritenersi lecito, giacché si muove nella logica stessa del conflitto.

10.2 La legittimazione

10.2.1 La legittimazione attiva

Il comportamento antisindacale può essere denunciato al giudice soltanto dalle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, mediante ricorso dei propri organismi locali.

Il che significa che sindacati esclusivamente locali, vale a dire non presenti uniformemente sul territorio nazionale, non possono ricorrere al giudice per denunciare comportamenti antisin-dacali del datore di lavoro, ben potendosi estendere l’accertamento giudiziale all’effettivo carat-tere nazionale dell’associazione, al di là della sua qualificazione e dell’oggetto statutario (Cass. 23 marzo 2006, n. 6429). Le rappresentanze sindacali aziendali e le rappresentanze sindacali unitarie non sono perciò legittimate a proporre il ricorso (Cass. 24 gennaio 2006, n. 1307).

Non occorre, però, in quanto non richiesto dalla norma, che i sindacati siano rappresenta-tivi ai sensi dell’art. 19 Stat. Lav. o firmatari di contratti collettivi (Cass. 10 gennaio 2005, n. 269), né che siano presenti in azienda o che, in caso di comportamento plurioffensivo, ad essi siano iscritti i lavoratori dei quali siano stati lesi individualmente gli interessi: ciò perché il sindacato agisce non come rappresentante dei suoi associati, bensì come titolare e gestore autonomo dell’interesse collettivo alla realizzazione dei diritti sociali dei singoli lavoratori.

L’accesso alla speciale tutela si deve ammettere, quando sussista il requisito della diffusio-ne del sindacato sul territorio nazionale, anche per i sindacati monocategoriali e pure se lo svolgimento di effettiva azione sindacale si attui non su tutto ma su gran parte del territorio nazionale (Cass. Sez. Un. 21 dicembre 2005, n. 28269).

In tale ottica assai amplia va anche valutato l’interesse ad agire del sindacato, richiesto dalla norma, con un evidente collegamento all’art. 100 cod. proc. civ., che fa ritenere però in-dispensabile, quanto meno, la lesione di un interesse riconducibile alla categoria di riferimen-to, individuata attraverso un’analisi di fatto dell’azione sindacale, più che attraverso indagini sull’oggetto statutario.

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Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

153

Il ricorso deve essere presentato dagli organismi locali del sindacato, formula abbastanza lata, sia perché non individua detti organismi, sia per il plurale non certamente a caso usato. Certo è che l’art. 28 Stat. Lav. riconosce negli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali una soggettività distinta rispetto a quella di tali associazioni, considerando cioè gli stessi quali autono-mi titolari di determinati interessi collettivi, dotati pertanto di una propria legittimazione a chieder-ne la relativa tutela. Tali interessi possono identificarsi (oltreché in quelli attinenti alla contrattazio-ne collettiva in sede locale) in quelli di protezione dei lavoratori, in tutte le situazioni ed in tutte le attività nelle quali i medesimi si atteggino non come singoli, bensì quali componenti di gruppi omogenei; interessi che possono essere meglio tutelati da quegli organismi sindacali che, per l’appunto, operino in sede locale, e cioè a più vicino contatto con le reali condizioni esistenti nei singoli luoghi di lavoro. Nessun organismo meglio dell’articolazione sindacale locale può essere in grado di svolgere adeguati interventi a favore dei lavoratori in relazione a quelle attività che essi compiono per fini sindacali, nonché in relazione all’esercizio del diritto di sciopero. L’individuazione degli organismi locali delle associazioni sindacali legittimati ad agire deve desumersi dagli statuti interni delle stesse associazioni, dovendosi far riferimento alle strutture che tali statuti ritengono maggiormente idonee alla tutela degli interessi locali (Cass. 9 gennaio 2008, n. 212).

Riguardo a siffatti compiti da espletarsi nei luoghi dì lavoro, con possibilità di dirette e im-mediate ripercussioni anche sulle posizioni personali dei lavoratori sindacalmente attivi, il legislatore, tenendo peraltro conto delle indicazioni fornite dalla realtà pratica del mondo del lavoro, ha ravvisato nei soli organismi sindacali locali i portatori dei relativi interessi collettivi, conseguentemente riconoscendo ad essi la legittimazione a tutelarli, con assoluta esclusione, pertanto, delle associazioni sindacali nazionali per le quali, sul piano processuale, opererebbe il generale divieto di sostituzione di cui all’art. 81 cod. proc. civ. Tuttavia, pretendendo che gli organismi locali legittimati ad agire fossero solo quelli delle associazioni nazionali, il legisla-tore ha riconosciuto meritevoli della speciale tutela solo quegli interessi facenti capo ad orga-nizzazioni sindacali di effettiva consistenza e perciò, al di là di ogni spontaneismo che aveva spesso caratterizzato l’esperienza dei delegati e dei consigli di fabbrica negli anni ’60 del se-colo scorso, collegati ad associazioni in grado di svolgere una politica sindacale anche sul piano nazionale, nella visione unitaria, cioè, di tutti i problemi economico-sociali del paese.

Il giudice investito dell’azione diretta alla repressione della condotta antisindacale deve, dunque, controllare se ad agire sia un organismo sindacale locale, ed inoltre se esso costituisca articolazione di un’associazione sindacale nazionale, al quale riguardo è indubbiamente onere di tale organismo dichiarare la propria qualità e specificare di quale associazione nazionale esso sia emanazione, fer-mo restando che l’individuazione degli organismi deputati ad agire deve desumersi dagli statuti delle associazioni sindacali, dovendosi quindi fare riferimento alle strutture zonali o provinciali o compren-soriali, o simili, che detti statuti ritengono maggiormente idonee alla tutela degli interessi locali (Cass. 26 febbraio 2004, n. 3917). In tal senso, per organismo locale di un’associazione sindacale nazionale si deve intendere l’articolazione minima di essa, vale a dire la più periferica che l’associa-zione abbia nella propria struttura; se risulta accertato che, essendovi un organismo più periferico, abbia invece agito in giudizio un organismo intermedio, deve essere rilevata la carenza in esso della legittimazione ad agire, con conseguente dichiarazione di improponibilità della causa.

Il potere di rappresentanza degli organismi locali delle associazioni sindacali spetta alle persone fisiche investite delle cariche cui tale potere è attribuito alla stregua degli statuti del-le associazioni stesse (Cons. Stato, Sez. V, 16 novembre 2005, n. 6396).

10.2.2 La legittimazione passiva

Legittimato a resistere in giudizio è il datore di lavoro; sulla sua individuazione non sorgono ovviamente di solito soverchie difficoltà. La giurisprudenza si è, quindi, intrattenuta più che

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154 Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

altro su due argomenti: quello del datore di lavoro occulto, per tale intendendosi il datore di lavoro reale (che impartisce le direttive, esercita i poteri gerarchici, corrisponde la retribuzio-ne, è creditore della prestazione lavoro) che agisce per interposta persona, o comunque non ha veste contrattuale, celandosi dietro un datore di lavoro apparente; quello di estensione della normativa repressiva a soggetti diversi dal datore di lavoro.

Per quanto attiene al primo problema, si ritiene che nel procedimento di repressione della condotta antisindacale l’organismo sindacale possa sempre far valere la realtà rispetto a qua-lunque simulazione che abbia l’effetto, diretto o indiretto, di non far apparire come datore di lavoro colui che invece è l’effettivo titolare di tale posizione, e cioè colui che, prescindendo da elementi di carattere dichiarativo o formale, esercita di fatto il potere di dirigere l’attività lavo-rativa e che di fatto, organizzando la produzione, si appropria del relativo risultato patrimonia-le. Nel caso, dunque, in cui non vi è coincidenza fra il soggetto che di fatto esercita il potere direttivo dell’attività, imprenditoriale o non, ricavandone il profitto, ed il soggetto a nome del quale l’attività si svolge, è al primo (o, meglio, anche al primo) che occorre aver riguardo per individuare colui il quale è tenuto all’osservanza delle norme che disciplinano l’attività datoria-le a tutela della libertà e dell’attività sindacale. Peraltro, sono ascrivibili sempre al datore di lavoro i comportamenti antisindacali posti in essere dai suoi dipendenti o dai suoi rappresen-tanti, a prescindere dal conferimento formale della rappresentanza.

Per quanto attiene alla possibilità di convenire in giudizio persone diverse dal datore di la-voro, deve escludersi che il procedimento repressivo possa venire attuato nei confronti dei di-rigenti, i quali quando agiscono rappresentano il datore di lavoro, così come nei confronti degli amministratori di società, visto il rapporto di immedesimazione organica esistente con la per-sona giuridica datrice di lavoro.

Il procedimento per repressione della condotta antisindacale non può essere promosso con-tro le associazioni dei datori di lavoro. L’art. 28 Stat. Lav., infatti, individua molto chiaramente nel datore di lavoro, e non già nelle associazioni cui aderisce, il solo legittimato passivo; la norma è volta a reprimere comportamenti che avvengono all’interno del luogo di lavoro o, comunque, nell’ambito di una determinata attività lavorativa e non può essere invocata per la repressione di condotte che le associazioni sindacali dei datori di lavoro abbiano assunto nei confronti delle orga-nizzazioni sindacali dei lavoratori, in forza degli interessi collettivi contrapposti e conflittuali di cui entrambe sono portatrici e che si contemperano nella composizione dei conflitti di lavoro e nell’e-sercizio dell’autonomia contrattuale collettiva: materia, questa, che il nostro legislatore, com’è ri-cavabile dai princìpi generali dell’ordinamento, vuole sia lasciata al libero gioco delle parti.

D’altronde, il comportamento antagonistico delle associazioni datoriali (e, per converso, quello delle organizzazioni dei lavoratori nei confronti di esse) è funzionale al conflitto collet-tivo; certamente questo non si sottrae alla sfera di efficacia del diritto positivo, ma le inadem-pienze che, nel condurlo, attuano le parti non possono essere dedotte nel procedimento per comportamento antisindacale del datore di lavoro che, per essere istituito da norma speciale e per contenere essa disposizione di natura processuale, non può essere analogicamente esteso a fattispecie diverse da quelle espressamente contemplate. Le lesioni giuridiche patite dai soggetti collettivi nel corso del conflitto, e quelle da queste cagionate, ben possono trovare tutela giudiziale ordinaria, comunque non davanti alla magistratura del lavoro, non rientrando tra i rapporti previsti dall’art. 409 cod. proc. civ.

Le associazioni dei datori di lavoro, dunque, non sono dotate di legittimazione passiva (Cass. 13 agosto 1981, n. 4906): sotto il profilo sia sostanziale che processuale la tutela accor-data dall’art. 28 Stat. Lav. è limitata dal lato passivo al datore di lavoro. In un solo caso le as-sociazioni sindacali (tanto dei datori di lavoro che dei lavoratori) possono essere convenute in un procedimento di repressione della condotta antisindacale e, cioè, quando siano datori di lavoro ed in quanto tali denunciate.

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Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

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10.3 La condotta datoriale

10.3.1 L’elemento soggettivo della condotta

La norma dettata dall’art. 28 Stat. Lav. sanziona ogni comportamento, anche non espressamente previsto dalla legge come illecito, idoneo a ledere il bene (nella triplice esposta accezione) tutelato e, pertanto, sia che si sostanzi in commissioni che in omissioni, sia in un atto unico che in una pluralità di atti distinti ma coordinati in un solo disegno, sia in un atto in sé legittimo che illegittimo.

Un ampio dibattito ha interessato per anni la giurisprudenza circa la necessità, o meno, della sussistenza del dolo o della colpa a caratterizzare la condotta del datore di lavoro. Le Sezioni Unite hanno infine argomentato (Cass. Sez. Un. 12 giugno 1997, n. 5295. Conformi: Cass. 18 luglio 2006, n. 16383; Cass. 5 febbraio 2003, n. 1684; Cass. 17 ottobre 1998, n. 10324) che per integrare gli estremi del comportamento antisindacale è sufficiente che esso leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario, ma neppure sufficiente, uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro né nel caso di condotte tipizzate, perché consistenti nell’illegittimo diniego di preroga-tive sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), né nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risulta-to, a limitare la libertà sindacale; sicché ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, os-sia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero (Cass. 18 aprile 2007, n. 9250).

10.3.2 L’idoneità causale della condotta

Chi ritiene sufficiente, e al contrario chi lo reputa assolutamente ininfluente, che il comporta-mento sia astrattamente idoneo a provocare effetti lesivi, anche se non li abbia prodotti in concreto.

Coloro che ritengono sufficiente la potenziale idoneità a ledere della condotta muovono dalla premessa che è l’aggressione in sé a dover essere repressa, perché già essa pone in pericolo la libertà o l’attività sindacale nell’ambiente di lavoro in cui queste sono legittimate a svolgersi. Per conseguenza, anche l’indagine sul concreto pregiudizio che possa avere subìto il sindacato come effetto della condotta del datore di lavoro diverrebbe ultronea: ciò che occor-rerebbe verificare sarebbe solo l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre il ri-sultato che la legge intende impedire.

Ma il giudizio per repressione del comportamento antisindacale non ha ad oggetto la vali-dità dell’atto o la sua natura, bensì la produzione, in conseguenza di esso, di una lesione al triplice bene tutelato dalla norma, prescindendo dalla considerazione, estranea alla normati-va repressiva, sulla validità formale e sostanziale dell’atto stesso; ed infatti il giudice, nell’adot-tare i provvedimenti idonei a porre fine alla lesione, potrebbe anche non incidere sull’atto in sé, intervenendo alla bisogna con diversi mezzi tecnici. Mentre va, così, affermata l’irrilevanza della legalità formale del comportamento attuato dal datore di lavoro, la necessità di verificati effetti lesivi è evidenziata dallo stesso tenore letterale dell’art. 28 Stat. Lav., che determina il contenuto del provvedimento non soltanto in relazione alla cessazione del comportamento ma anche ne-cessariamente (la congiunzione «e» lo attesta) alla rimozione degli effetti.

Per «effetto lesivo» deve intendersi anche la semplice manifestazione di un danno sul pia-no psicologico, poiché la limitazione del diritto tutelato si attua pure condizionando la volontà del titolare di esercitarlo. Tuttavia non può bastare che il comportamento sia astrattamente

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156 Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

idoneo a provocare tale danno; occorre invece che l’abbia concretamente arrecato, affinché sia possibile l’emanazione del decreto, che deve avere un contenuto ben preciso, di ordine costi-tutivo e non soltanto dichiarativo: la rimozione degli effetti lesivi. Nel caso di comportamento astrattamente idoneo a ledere, vi potrà forse essere interesse ad agire ai sensi dell’art. 100 cod. proc. civ. per ottenere in via di ordinaria cognizione una sentenza di accertamento, ma non interesse ad agire ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav., perché il provvedimento in cui sfocia il proce-dimento di repressione della condotta antisindacale è un provvedimento che, per definizione di legge, non può avere un contenuto solo dichiarativo né limitarsi al solo ordine di cessazione.

10.3.3 L’attualità degli effetti della condotta

Dalla non configurabilità di un provvedimento meramente dichiarativo di accertamento, in sede di applicazione dell’art. 28 Stat. Lav., discende che quando siano cessati gli effetti lesivi del bene tutelato non è più esperibile il procedimento di repressione della condotta antisinda-cale; presupposto dell’azione è, dunque, l’attualità della condotta o, meglio, dei suoi effetti. L’interesse ad agire ai sensi dell’art. 28 sussiste, cioè, soltanto se sia attuale il comportamen-to antisindacale o se lo siano almeno i suoi effetti. Ciò che deve permanere è, dunque, l’effetto lesivo e non già il comportamento antisindacale, che può anche essere esaurito, essendo san-zionabile pure la condotta che, magari conclusa, produca ancora i suoi effetti; infatti l’azione prevista dall’art. 28, pur essendo configurata come una procedura d’urgenza, non richiede quale condizione di proponibilità l’immediatezza della reazione in sede giudiziaria, né trova preclusione, salvi i limiti di prescrizione e decadenza, nella mancata contestazione da parte del soggetto che si assuma leso dalla condotta antisindacale. L’opposta tesi, d’altro canto, determinerebbe l’esclusione della tutela nei riguardi di tutti quei comportamenti che si esau-riscono in un unico atto o in più atti successivi, ma separati tra loro, ed inoltre priverebbe di significato l’obbligo di rimozione degli effetti, che evidentemente si riferisce anche a fatti già verificatisi (Cass. 26 settembre 2007, n. 20164).

Nel caso di comportamento antisindacale, non solo esaurito, ma i cui effetti si siano anche esauriti, il ricorso deve essere dichiarato improponibile per difetto di interesse ad agire, in quanto il provvedimento eventualmente emesso non potrebbe spiegare alcuna efficacia né sarebbe idoneo ad azionare la strumentazione sanzionatoria penale.

10.4 La condanna in futuro

La formulazione dell’art. 28 Stat. Lav. consente di ritenere attuale ogni comportamento che, pure se esaurito, produca tuttora effetti lesivi e sia riproponibile in futuro da parte del datore di lavoro. Entro tale limite, non è precluso al giudice emettere nei confronti del datore di lavoro una condanna in futuro e, cioè, l’ordine di astenersi in futuro dal ripetere il comportamento denun-ciato. È pienamente ammissibile, nel nostro ordinamento giuridico, la formulazione di un astrat-to precetto enunciato dal giudice del lavoro e rivolto a vietare ipotetici comportamenti futuri. Certe azioni antisindacali, seppure è vero che, isolatamente considerate, si esauriscono ciascu-na istantaneamente senza che ne residuino effetti immediati da rimuovere, nondimeno, per le circostanze in cui vengono poste in essere, rivelano, alla stregua dì una loro valutazione com-plessiva, una specifica condotta del datore di lavoro non meramente episodica, ma destinata oggettivamente a persistere nel tempo, con ripercussioni negative altrettanto durevoli su deter-minate libertà fondamentali dei lavoratori, sia per l’effetto intimidatorio che ne deriva, idoneo a limitare od impedire il loro normale esercizio, sia per la situazione di incertezza che ne consegue e che può risolversi pur sempre in una restrizione o in un ostacolo al libero svolgimento dell’at-

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Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

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tività sindacale. Ora, perché la tutela apprestata dall’art. 28 sia effettiva, l’esaurirsi della singola azione antisindacale del datore di lavoro non può costituire preclusione alla pronuncia di un or-dine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo.

10.5 La normativa processuale

10.5.1 Il procedimento speciale

Il nucleo processuale dell’art. 28 Stat. Lav. dispone che, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano, interesse, il tribunale del luogo ove è posto in esse-re il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione, ordina al datore di lavoro, con decreto mo-tivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Il termine di due giorni ha natura ordinatoria, e non già perentoria, e quindi dalla sua inosservanza non consegue l’illegittimità del provvedimento tardivamente emesso (Cass. 29 luglio 1986, n. 4858). L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il tribunale definisce il giudizio ordinario; contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla sua comunicazione alle parti, opposizione davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro, che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Il disposto dell’art. 3 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, che esclude la sospensione dei termini processuali per il periodo feriale per le controversie individuali di lavoro ed in materia di assistenza e previdenza obbligatorie, si applica anche alle controversie previste dall’art. 28 Stat. Lav. (Cass. 11 settembre 1980, n. 5234).

ART. 28 LEGGE N. 300/1970

Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il tribunale del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte som-marie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione di cui al presente comma, ordina al da-tore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. L’efficacia esecutiva del decreto non può essere revocata fino alla sentenza con cui il tribunale in funzione di giudice del lavoro definisce il giudizio instaurato a norma del comma successivo Contro il decreto che decide sul ricorso è ammessa, entro 15 giorni dalla comunicazione del decreto alle parti, opposizione davanti al tribunale in funzione di giudice del lavoro che decide con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli artt. 413 e seguenti cod. proc. civ. Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, di cui al primo comma, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione è punito ai sensi dell’art. 650 cod. pen. L’autorità giudiziaria ordina la pubblicazione della sentenza penale di condanna nei modi stabiliti dall’art. 36 cod. pen.

10.5.2 L’azione ordinaria

Va posto in rilievo come il nucleo sostanziale dell’art. 28 Stat. Lav. istituisce in capo ai sindacati diritti che ben possono essere azionati senza avvalersi di quanto disposto dal nucleo processuale

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158 Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

della norma in questione, vale a dire in via ordinaria. È infatti indubbio che la normativa sostanzia-le posta dall’art. 28 ha reso giudizialmente tutelabili, elevandoli al rango di diritti soggettivi, gli inte-ressi superindividuali al libero svolgimento dell’attività sindacale dei quali sono portatori i sindacati. Agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali è stata riconosciuta dall’art. 28 una capa-cità giuridica propria che, sul piano processuale, si esplica nella facoltà di agire direttamente, e cioè indipendentemente dall’iniziativa dei propri aderenti. La legittimazione attiva dei detti organismi all’esercizio della speciale azione repressiva costituisce, quindi, il riflesso, sul piano processuale, della titolarità delle situazioni tutelate, secondo uno schema di piena coincidenza tra titolarità e le-gittimazione, che rappresenta la regola nel nostro ordinamento, confermata dalle poche eccezioni. Da ciò discende che non vi sono ostacoli di sorta ad un esercizio in via ordinaria dell’azione di repres-sione del comportamento datoriale antisindacale: solo un esplicito divieto normativo o l’espressa individuazione di un limite potrebbero impedire ai soggetti collettivi titolari delle posizioni giuridiche tutelate dall’art. 28 di azionarle in un giudizio ordinario, imponendo loro il ricorso alla procedura speciale. Ma di un tale divieto o limite non vi è traccia in alcuna norma positiva.

Lo speciale procedimento disciplinato dall’art. 28 è, perciò, da considerare solo una delle possibili forme di tutela degli interessi collettivi sindacali ma non la sua unica ed esclusiva modalità. Né questa scelta implica un mutamento della posizione del sindacato agente, che non si sostituirebbe ai lavoratori titolari del diritto individuale leso dalla condotta datoriale plurioffensiva per il solo fatto di agire in via ordinaria, ma si presenterebbe pur sempre in giu-dizio come il titolare dell’interesse collettivo sindacale di cui chiede la protezione giudiziaria.

Qualche dubbio si è nutrito sull’esperibilità del rito del lavoro nel caso di azione ordinaria, in forza della tassativa individuazione delle controversie attribuite alla conoscenza della magi-stratura specializzata del lavoro dall’art. 409 cod. proc. civ. L’identità dell’azione prevista dall’art. 28 Stat. Lav. e di quella proposta in via ordinaria porta tuttavia ad affermare anche l’identità del regime di competenza, specialmente dopo la novella del 1977 della normativa processuale dettata dall’art. 28, che ha modificato l’individuazione del giudice dell’opposizio-ne, che ora è il tribunale in funzione di giudice del lavoro.

10.5.3 Il ricorso introduttivo

Il ricorso introduttivo dello speciale procedimento di repressione della condotta antisinda-cale deve contenere, a pena di nullità, sanabile, l’esposizione dettagliata dei fatti posti a base del comportamento denunciato e, non potendo essere reso il provvedimento senza che si in-stauri il contraddittorio, è necessario che sia garantito il diritto alla difesa al datore di lavoro, provvedendo a che nella fase della convocazione delle parti avanti a sé il giudice comunichi al resistente il contenuto della domanda giudiziale.

Il rito della fase interdittale non richiede l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi, ma solo l’allegazione degli elementi della condotta antisindacale denunciata, restando affidata all’iniziativa del tribunale e al mezzo delle sommarie informa-zioni l’acquisizione di tutte le circostanze strumentali al relativo accertamento (Cass. 23 marzo 1994, n. 2808). I fatti dedotti o comunque acquisiti nel procedimento sommario costituiscono un limite alla cognizione del giudice della successiva fase di opposizione, che deve riguardare la condotta illecita originariamente denunciata. Il tribunale dell’opposizione può tuttavia tener conto di episodi non dedotti nel ricorso, che rappresentino la continuazione o il necessario collegamento di quelli in precedenza allegati, in quanto riferibili a strategie datoriali attuate con comportamenti tra loro in progressione, al solo fine di confermare, con l’ottenuto risultato, la condotta già individuata siccome diretta a quel compimento.

Stante la natura accentuatamente inquisitoria del procedimento, il giudice è investito di ampi poteri, sicché può procedere al libero interrogatorio delle parti, può assumere sommarie

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Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

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informazioni ricorrendo a mezzi di prova tipici o pure atipici; può così recarsi sul luogo di lavo-ro e sentire i lavoratori ed accedere a documenti, così come tener conto anche di dichiarazioni scritte rese da terzi nonché di fatti non espressamente denunciati in giudizio ma integranti la medesima condotta per la cui repressione si è agito; frequente è il ricorso da parte degli orga-ni giudicanti a presunzioni semplici, che appaiono lo strumento più idoneo al fine di valutare il significato obiettivo della condotta.

10.5.4 L’azione individuale

Caratteristica ricorrente del comportamento antisindacale è la sua plurioffensività: uno stesso atto del datore di lavoro può sovente venire ad incidere contemporaneamente sui di-ritti del singolo lavoratore, o comunque individuali, e sui diritti del sindacato che costitui-scono l’oggetto della tutela apprestata dall’art. 28 stat. Lav.: in tale ipotesi ben possono co-esistere le due azioni, quella degli organismi sindacali locali per la repressione della condotta antisindacale e quella del lavoratore (o dei lavoratori) a tutela dei diritti soggettivi di cui sono titolari; tra le ipotesi più frequenti si annoverano quelle di trasferimenti o licenziamenti illegit-timi, attuati al fine di impedire o limitare l’attività sindacale dei lavoratori colpiti dal relativo provvedimento.

Poiché il sindacato agisce non come rappresentante dei suoi associati, bensì come titola-re e gestore autonomo dell’interesse collettivo alla realizzazione dei diritti sociali dei singoli lavoratori, il diritto e l’interesse del sindacato di insorgere, ad esempio, contro il licenziamen-to di un lavoratore, indipendentemente dalle iniziative a lui spettanti o dall’eventuale sua iner-zia, tenuto conto del pregiudizio che detto provvedimento può arrecare al sindacato medesimo e alla sua libertà di azione ove colpisca chi svolga più intensa o sgradita attività sindacale, sussistono sempre (Cass. 26 gennaio 1979, n. 602). E poiché l’interesse del sindacato a svolge-re liberamente la propria attività sindacale nell’unità produttiva non può essere influenzato dalla volontà del lavoratore di mantenere gli effetti del licenziamento, l’iniziativa individuale non può paralizzare l’esperibilità del procedimento speciale da parte del sindacato. Perfino l’eventuale transazione fra lavoratore e datore di lavoro produrrebbe l’unico effetto di sottrar-re al dipendente, per un fatto solo a lui ascrivibile, la possibilità di giovarsi dell’ordine giudizia-le di rimozione degli effetti della condotta della cui repressione si tratta, senza però sacrifica-re la tutela prevista dalla legge in favore dell’interesse superindividuale del sindacato agente.

Tale ultimo rilievo pone in luce il problema dei rapporti tra le due azioni (individuale e sin-dacale), posto che tra lavoratore e sindacato vi è sempre un litisconsorzio facoltativo ma non già una litispendenza tra i due giudizi, che eliminerebbe il rischio di conflitto tra giudicati. Dato che non può parlarsi di pregiudizialità del processo che ha per oggetto l’azione collettiva ri-spetto a quello che ha per oggetto l’azione individuale, o viceversa, nel caso di conflitto tra i provvedimenti emessi nei due procedimenti prevarrà per il lavoratore il giudicato formale re-lativamente al procedimento da lui stesso promosso, perché soltanto questo realizza diretta-mente e definitivamente il suo diritto, e non il giudicato ai sensi dell’art. 28 Stat. Lav. che, reintegrando il lavoratore il quale, per esempio, fosse stato licenziato, realizza l’interesse sin-dacale e solo occasionalmente l’interesse individuale. In sostanza: l’interesse collettivo e l’in-teresse individuale sono diversi e quindi ogni reciproca influenza è di mero fatto; così la pro-nuncia di antisindacalítà fa stato nel giudizio individuale solo su quel limitato punto dell’azione del lavoratore che all’attività sindacale si riferisce.

Il singolo lavoratore concretamente interessato all’accoglimento del ricorso proposto dagli organismi sindacali legittimati può sempre spiegare intervento adesivo dipendente (Cass. 6 giugno 2005, n. 11741), che però, com’è ovvio, non lo legittima ad impugnare autonomamente il provvedimento giudiziale.

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160 Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

10.5.5 Il provvedimento

Il tribunale, nella fase sommaria, provvede con decreto, tanto nel caso che accolga il ri-corso come nel caso che lo rigetti.

Il contenuto del provvedimento giudiziale è espresso dal legislatore con una formula assai ampia («ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti»), tale da consentire al giudice di prescrivere al datore di lavoro qualsiasi azione idonea a realizzare la restituzione in pristino del bene protetto (Cass. 18 luglio 2006, n. 16383). Si manifesta un contrasto concernente l’esecuzione del decreto, contrasto che si fonda sul diverso apprezza-mento riguardo alla natura del provvedimento. Chi ritiene assimilabile il decreto, ai fini esecu-tivi, ai provvedimenti cautelari afferma che l’attuazione coattiva del provvedimento non costi-tuisce esecuzione forzata, bensì attuazione diretta e atipica di un provvedimento urgente del giudice civile; ne conseguirebbe che il procedimento per l’attuazione coattiva del decreto di repressione della condotta antisindacale sarebbe dominato da una totale libertà di forme e che, restando anche in tale fase la competenza ad emanare tutti i successivi provvedimenti necessari all’attuazione nel giudice che l’ha emesso, esso non dovrebbe essere preceduto né dalla notificazione della copia del decreto stesso munita della formula esecutiva né dalla no-tificazione dell’atto di precetto.

Chi, invece, non ritiene assimilabile il decreto ai provvedimenti cautelari rileva che: a) la previsione dell’esecutività è espressa dalla legge, quindi con sottinteso richiamo all’esecuzio-ne ordinaria, limitatamente, com’è ovvio, alle statuizioni per le quali, in relazione al contenuto, sia ammissibile l’esecuzione forzata; b) deve escludersi la provvisorietà e caducabilità del provvedimento repressivo, e quindi la sua natura cautelare, tant’è, ad esempio, che la stabilità ed intangibilità del provvedimento sono confermate dalla circostanza che esso non viene affat-to vanificato (anzi, al contrario, diviene definitivo) a seguito del mancato esperimento della fase ordinaria. Ne consegue che l’esecuzione del decreto va effettuata nei modi ordinari, con la competenza del giudice dell’esecuzione, facendola precedere dalla notificazione del provve-dimento spedito in forma esecutiva ed introducendola con la notificazione dell’atto di precetto, ovviamente nei casi in cui l’esecuzione forzata sia ammissibile: negli altri casi la sanzione dell’ordinamento all’inottemperanza datoriale è affidata alla (eventuale) ricorrenza della fatti-specie criminosa ipotizzata, con le relative sanzioni penali, dallo stesso art. 28 Stat. Lav.

Il provvedimento che decide sul ricorso proposto per la repressione della condotta antisin-dacale è suscettibile d’opposizione sia nel caso in cui abbia accolto la domanda sia nel caso in cui l’abbia rigettata e conserva la natura di decreto, dotato di immediata efficacia esecutiva ed idoneo ad assumere forza di giudicato in caso di mancata opposizione, anche quando non rive-sta la forma propria del decreto medesimo, non potendo la natura di sentenza essergli attri-buita né per l’ampiezza della motivazione né per il fatto che esso abbia pronunciato anche sulle spese processuali (Cass. 5 maggio 1984, n. 2744).

10.6 Le sanzioni penali

Il datore di lavoro che non ottempera al decreto, o alla sentenza pronunciata nel giudizio di opposizione, è punito ai sensi dell’art. 650 cod. pen.; l’autorità giudiziaria ordina la pubblicazio-ne della sentenza penale di condanna per estratto ed a spese del condannato (salvo che il giudi-ce disponga la pubblicazione per intero) in uno o più giornali designati dal giudice stesso.

L’art. 650 punisce contravvenzionalmente con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro chiunque non osservi un provvedimento legalmente dato dall’autorità. L’e-

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Capitolo 10 - La repressione della condotta antisindacale

Processo del lavoro

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spresso richiamo a tale norma lascia intendere l’intenzione del legislatore, ove si consideri che la giurisprudenza penale aveva da sempre affermato che la sanzione, nell’ipotesi relativa all’inosservanza dei provvedimenti dati per ragioni di giustizia, ben poteva riferirsi anche a provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria, purché avessero per finalità la tutela dell’ordi-ne pubblico e, quindi, contenuto essenzialmente di polizia; non vi sarebbero rientrati, quindi, quelli emessi per uno scopo concernente un interesse privato e aventi, perciò, carattere me-ramente civile.

A prescindere dal lungo dibattito sulla necessità che il giudice penale estenda il controllo al merito del decreto, un tema di indubbio rilievo è quello sulla sufficienza, di per sé, della violazione dell’ordine contenuto nel decreto ad integrare gli estremi del reato contravvenzio-nale, a prescindere dalle vicende successive.

Se indubbiamente l’art. 28 Stat. Lav. detta una norma penale che, ricorrendo solo quanto alla determinazione della pena all’art. 650 cod. pen., istituisce una fattispecie criminosa auto-noma, ad essa non potrà non applicarsi l’art. 50 cod. pen., secondo il quale non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso della persona che poteva disporne; se il tito-lare di un diritto consente un’attività che ad esso si riferisce non esiste reato e, quindi, non può neppure parlarsi di persona offesa dal reato né di lesione di un diritto. In sostanza: il consenso dell’avente diritto comporta l’inesistenza del reato (e, comunque, in forza del citato art. 50, il consenso dell’offeso dal reato esclude la punibilità del reo).

Se è vero che il giudice penale non può sindacare il merito del provvedimento del tribunale (sindacarne, cioè, l’opportunità, la convenienza e la discrezionalità), è altresì vero che può e deve esaminare se il decreto sia stato legalmente dato, ossia emesso nei limiti del potere di-screzionale e nell’ambito dell’eseguibilità, perché il principio secondo cui nessuno è tenuto all’impossibile è parte integrante dell’ordinamento giuridico ed è applicabile anche nel campo penale, sia sotto il profilo dell’esimente di forza maggiore, sia sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato (Cass. pen. 18 gennaio 1977, in «Foro it.», 1977, II, 521).

Nel procedimento penale per inottemperanza al decreto è ammessa la costituzione di par-te civile del sindacato, in quanto l’inottemperanza è sempre fonte di un danno non patrimonia-le per il sindacato; per le medesime considerazioni può costituirsi parte civile anche il lavora-tore danneggiato da una condotta datoriale plurioffensiva. Il tardivo adempimento del datore di lavoro al decreto di repressione della condotta antisindacale fa solo cessare la permanenza del reato.

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Processo del lavoro

Capitolo 11

L’IMPUgNATIVA DI LIcENZIAMENTO

11.1 L’ambito di applicazione

L’art. 1, cc.da 47 a 68, della legge 28 giugno 2012, n. 92, disciplina il procedimento dedicato all’impugnativa dei licenziamenti individuali, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro. Non di tutti i licenziamenti, ma solo di quelli adottati da datori di lavoro rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 18 Stat. Lav.

AMBITO DI APPLICAZIONE DELL’ART. 18 STAT. LAV.

– datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, uffi-cio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupano alle loro dipendenze più di 15 lavoratori

– imprenditori agricoli che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupano alle loro dipendenze più di 5 lavoratori

– datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che nell’ambito dello stesso Comune occupano più di 15 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non rag-giunge tali limiti

– imprese agricole che nell’ambito dello stesso Comune occupano più di 5 dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti

– imprenditori e non imprenditori che occupano complessivamente più di 60 dipendenti

Rientrano, inoltre, nello stesso ambito i datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, qualunque sia la loro dimensione occupazionale, limitatamente alle seguenti ipotesi:

– licenziamento discriminatorio, ai sensi dell’art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108;– licenziamento intimato in concomitanza con il matrimonio (art. 35 del codice delle pari opportu-

nità tra uomo e donna, di cui al D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198);– licenziamento in violazione dei divieti posti dal testo unico delle disposizioni legislative in mate-

ria di tutela e sostegno della maternità e della paternità e riguardanti: le lavoratrici dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino; le lavoratrici e i lavoratori perché richiedenti o fruen-ti del congedo parentale e per la malattia del bambino; i lavoratori fruenti del congedo di pater-nità, per la durata del congedo e fino al compimento di un anno di età del bambino; le lavoratrici e i lavoratori in caso di adozione e di affidamento, fino ad un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare (art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151);

– licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge;– licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 cod. civ.

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164 Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

Riguardo a quest’ultima ipotesi, la norma codicistica statuisce che un contratto, e ovvia-mente anche un atto unilaterale (Cass. 29 luglio 2002), è illecito quando le parti si sono deter-minate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito. Questo si identifica con una fina-lità vietata dall’ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai princìpi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere una norma imperativa (Cass. 4 ottobre 2010, n. 20576).

La riconducibilità di un licenziamento a tale fattispecie implica un’indagine sull’ele-mento psicologico dell’agire datoriale, che si presta naturalmente ad una valutazione con-dotta con metodo indiziario (in tal senso acutamente: Trib. Alba , 26 ottobre 2005; in «Giur. piem.», 12006, 118), nella quale il grado di sindacabilità del processo di formazione del convincimento del giudice è necessariamente ridotto, traducendosi pertanto nell’attribu-zione a costui di un potere decisionale di fatto ben più ampio che nel vigore della previgen-te normativa.

MOTIVO ILLECITO DETERMINANTE DEL LICENZIAMENTO

il licenziamento è illecito, ai sensi dell’art. 1345 cod. civ., quando le parti si sono determinate a concluderlo per un motivo illecito comune ad entrambe, che si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai princìpi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere una norma imperativa

Ai fini del computo del numero dei dipendenti si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenen-do conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario pre-visto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.

Per quel che attiene ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro, ovvero alla nullità del termine apposto al contratto, va rilevato che l’art. 32, comma 2, della legge n. 183/2010, stabilisce che, laddove si faccia questione della nullità del termine, l’impugnazione stragiudiziale va ef-fettuata, a pena di decadenza, entro 120 giorni dalla cessazione del contratto, mentre il successivo termine per l’introduzione del giudizio, decorrente dall’impugnazione stragiu-diziale, è fissato, sempre a pena di decadenza, in 180 giorni. Entro questo secondo termi-ne è possibile, invece di depositare il ricorso, comunicare alla controparte la richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato; qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati, o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro 60 giorni dal rifiuto o dal man-cato accordo.

11.2 L’introduzione al procedimento

La domanda avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento si propone con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il ricorso deve avere i requisiti di cui all’art. 125 cod. proc. civ. e, quindi, deve indicare:

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Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

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– l’ufficio giudiziario;– le parti;– l’oggetto;– le ragioni della domanda;– le conclusioni;– la sottoscrizione del difensore;– l’indirizzo di posta elettronica certificata comunicato dal difensore al proprio Ordine;– il numero di fax del difensore.

Con il ricorso introduttivo di questo procedimento speciale non possono essere proposte domande diverse da quelle attinenti al licenziamento, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi, nonché alla qualificazione del rapporto di lavoro, nei limiti dell’indispensabilità per decidere sull’impugnativa del licenziamento.

RICORSO PER IMPUGNATIVA DI LICENZIAMENTO

Tribunale di ..... sezione Lavoro

Ricorso per impugnativa di licenziamento per

....., codice fiscale ....., elettivamente domiciliato/a in ....., via ....., presso lo studio dell’avv. ....., che l’assiste e rappresenta in forza di procura a margine del (ovvero: in calce al) presente attoparte ricorrente

contro....., (eventuale: in persona del legale rappresentante pro tempore) domiciliato/a (ovvero: con sede) in ....., via .....parte resistente

premesso1) che il/la ricorrente ....., ha prestato servizio dal ..... al ....., alle dipendenze di ..... in qualità di .....;2) che il/la ricorrente ha svolto le seguenti mansioni: ..... e, come tale, anche considerata l’anziani-

tà di lavoro, doveva essere inquadrato nella ..... categoria, come previsto dal c.c.n.l. di settore;3) che il/la ricorrente era tenuto/a all’osservanza del seguente orario di lavoro: ....;4) che al/alla ricorrente veniva corrisposta da ultimo una retribuzione mensile (eventuale oraria,

settimanale) di euro .....;5) che le parti applicavano al rapporto la contrattazione collettiva nazionale di lavoro di diritto co-

mune della categoria ....;6) che il/la ricorrente è stato/a licenziato/a con le seguenti modalità: ....;7) che il licenziamento è invalido poiché intimato senza giusta causa o giustificato motivo, sia og-

gettivo che soggettivo, (ovvero: è inefficace ai sensi dell’art. 2, commi 2 e 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604, il quale impone l’obbligo al datore di lavoro di comunicare per iscritto il licenzia-mento al prestatore di lavoro e statuisce che la comunicazione deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato); infatti: ....;

8) che il/la ricorrente ha impugnato il licenziamento con lettera raccomandata del ....;

– continua –

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166 Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

- segue - RICORSO PER IMPUGNATIVA DI LICENZIAMENTO

9) che il datore di lavoro occupa oltre sessanta dipendenti complessivamente (ovvero: oltre quindi-ci dipendenti nel Comune di ....);10) che il/la ricorrente si riserva di far valere in separata sede ogni altro diritto derivante dall’in-

tercorso rapporto di lavoro e sopra non specificatamente menzionato;tutto ciò ritenuto e premesso, a mezzo dell’esponente difesa,

ricorreall’Ecc.mo Tribunale perché, previa fissazione dell’udienza di discussione ed emanazione dei prov-vedimenti conseguenti, voglia accogliere le seguenti

conclusioniPiaccia all’Ecc.mo Tribunale, in funzione di Giudice del Lavoro, ogni contraria istanza disattesa ed eccezione reietta, previo ogni accertamento ed opportuna declaratoria del caso, accogliere il presen-te ricorso e conseguentemente annullare (ovvero: dichiarare nullo) il licenziamento comminato al/la ricorrente con atto scritto in data ....(ovvero: dichiarare l’inefficacia del licenziamento comminato verbalmente al/la ricorrente il ....) o, comunque, accertarne l’illegittimità; conseguentemente:in via principalea) ordinare a .... di reintegrare nel posto di lavoro il/la ricorrente;b) condannare il/la resistente al risarcimento del danno patito dal ricorrente per il licenziamento ille-

gittimo, stabilendo, fatto salvo il diritto di agire in separato giudizio per la liquidazione di eventuali maggiori danni differenziali, un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ed al versamento dei contributi assisten-ziali e previdenziali per lo stesso periodo; in ogni caso in misura non inferiore alle cinque mensilità di retribuzione globale di fatto; accertando altresì il diritto del/la ricorrente, qualora intendesse eserci-tare la relativa opzione, di ottenere dal datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità di euro ...., pari cioè a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto;

in via subordinataa) ordinare a .... di reintegrare nel posto di lavoro il/la ricorrente e/o di corrispondergli/le le inden-

nità risarcitorie di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, con condanna, ove statuito dallo stesso art. 18, al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione;

in via ulteriormente subordinata nella denegata ipotesi di carenza probatoria circa la dimensione occupazionale del datore di la-voro, condannare il/la resistente a riassumere il/la ricorrente entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a corrispondergli/le la somma di euro ...., pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, ovvero quella maggiore o minore somma che risulterà dovuta, in ogni caso non inferiore a due mensilità e mezza dell’ultima retribuzione globale di fatto.Con la rivalutazione di ogni somma per effetto del maggior danno patito e patiendo in conseguenza della diminuzione di valore del credito per effetto dell’aumento del costo della vita, con decorrenza dalla data di maturazione dei singoli crediti accolti; oltre agli interessi legali maturati e maturandi sulle somme via via rivalutate.Vittoria di spese, competenze ed onorari, oltre i.v.a., c.p.a. e spese generali; ordinanza provviso-riamente esecutiva».Si chiede l’ammissione di interrogatorio formale della controparte e prova testimoniale sui capitoli ..... del presente atto: ....., oltre alla prova testimoniale contraria a quella formulata dalla parte avversa, nei limiti in cui essa verrà ammessa.Si indicano a testimoni: ......Si formulano le seguenti ulteriori istanze istruttorie: ......Codice fiscale del difensore: .....

– continua –

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Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

167

- segue - RICORSO PER IMPUGNATIVA DI LICENZIAMENTO

Indirizzo di posta elettronica certificata del difensore: ....Numero di fax del difensore: ....(eventuale: Si dichiara che il valore del procedimento, determinato ai sensi degli artt. 10 segg. cod. proc. civ., è di euro ..... e che è esente dal pagamento del contributo unificato di iscrizione a ruolo in quanto il nucleo familiare di parte ricorrente è titolare di un reddito imponibile complessivo, ai fini dell’imposta personale sul reddito, inferiore a tre volte l’importo previsto dall’art. 76 D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.Si producono i seguenti documenti: ......Luogo e data: .....

A seguito della presentazione del ricorso, il giudice fissa con decreto l’udienza di compari-zione delle parti non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso.

Il tribunale assegna un termine per la notifica del ricorso e del decreto, non inferiore a 25 giorni prima dell’udienza, nonché un termine, non inferiore a 5 giorni prima della stessa udienza, per la costituzione del resistente.

La notificazione è effettuata a cura del ricorrente, anche a mezzo di posta elettronica certi-ficata. È, questa, la prima volta che il codificatore del rito del lavoro consente che la notifica di un atto processuale possa essere effettuata anche a mezzo di Pec, pure quand’essa sia rivolta direttamente alla parte, com’è nel caso della notifica al resistente.

I documenti prodotti dalle parti vanno depositati in duplice copia.

11.3 La fase sommaria deformalizzata

11.3.1 La calendarizzazione delle udienze

Alla trattazione delle controversie di impugnativa del licenziamento devono essere riserva-ti particolari giorni nel calendario delle udienze. Sull’osservanza di questa disposizione sono chiamati a vigilare i capi degli uffici giudiziari.

11.3.2 La costituzione del resistente

Nulla dispone la novella del 2012 circa le formalità di costituzione del resistente, il che la-scia ritenere che costui possa valutare come meglio crede quale comportamento processuale assumere, poiché in questa fase del processo il giudice è solo tenuto a sentire le parti, restan-do libero di procedere, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’uffi-cio.

Certamente, nel compiere la valutazione, il resistente dovrà tenere conto che, seppure in questa fase deformalizzata l’impulso d’ufficio è penetrante, il provvedimento richiesto non potrà prescindere dalla considerazione che l’art. 5 della legge n. 604 del 1966 addossa l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento al datore di lavoro.

La fase sommaria del procedimento è volta a stabilire un primo contatto tra il giudice e le

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168 Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

parti, consentendo al tribunale di dare un provvedimento temporaneo ed urgente, destinato ad essere travolto dalla sentenza che verrà emessa all’esito dell’eventuale giudizio di opposizione. In tale ottica il legislatore ha scelto di non assoggettarla al regime di preclusioni e decadenze che informa in generale il processo del lavoro e che permea, invece, il giudizio di opposizione.

11.3.3 L’ordinanza

Il tribunale provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al ri-getto della domanda.

L’ordinanza è un provvedimento giudiziale tipico emanato dal giudice; nel processo civile deve essere sempre motivata e può essere pronunciata sia in udienza sia fuori udienza.

La scelta dell’ordinanza, in luogo della sentenza, risponde alla logica di una sommarietà volta alla deformalizzazione della prima fase del processo di impugnativa del licenziamento. Nella sentenza il giudice unico deve obbligatoriamente inserire, secondo quanto previsto dall’art. 132 cod. proc. civ., le conclusioni, la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, nonché il dispositivo, la data della deliberazione e la sottoscrizione. L’ordinanza, inve-ce, deve essere, ai sensi del successivo art. 134, solo succintamente motivata. Se è pronunciata in udienza è inserita nel processo verbale; se è pronunciata fuori dell’udienza è scritta in calce al processo verbale oppure in foglio separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice.

Il carattere di provvedimento giurisdizionale contenzioso di accertamento a cognizione sommaria e con funzione esecutiva dell’ordinanza, fa sì che la sua interpretazione vada con-dotta con i criteri validi per gli atti giurisdizionali contenziosi e, quindi, occorre ricercare la portata precettiva della stessa, enucleata nel dispositivo formale, mentre le enunciazioni con-tenute nella motivazione rilevano sia in quanto contengano elementi precettivi non riportati nel dispositivo, sia perché, oltre a spiegare la precisa portata di quest’ultimo, sono in funzione di conoscenza del processo logico seguito dal giudice.

L’ordinanza, pur se non deve avere una motivazione analitica e dettagliata, deve dare con-to delle ragioni di fatto della decisione, che possono anche essere desunte «per relatio-nem» dal richiamo agli atti delle parti, ed evidenziare l’avvenuto esame degli eventuali ri-lievi difensivi formulati dalle stesse. La «succinta» motivazione non può quindi tradursi in «inesistente» motivazione, altrimenti le già compresse garanzie della difesa finirebbero per venire meno del tutto.

Il cancelliere comunica alle parti soltanto l’ordinanza che sia stata pronunciata fuori dell’u-dienza. L’avviso può essere effettuato a mezzo telefax o a mezzo di posta elettronica, nel ri-spetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici e teletrasmessi. Le ordinanze non rese in udienza, o comunque non inserite nel processo verbale, vengono ad esistenza, quali atti del processo, con il deposito in cancelleria, sicché l’eventuale anteriorità della loro redazione, ancorché ri-sultante dalla data apposta dal giudice, è priva di autonoma rilevanza. Le ordinanze pronun-ciate in udienza e inserite nel processo verbale si reputano conosciute sia dalle parti presenti sia da quelle che avrebbero dovuto intervenire e, quindi, non devono essere comunicate a queste ultime dal cancelliere.

La novella non ripete la norma acceleratoria che l’art. 53, comma 2, D.L. 25 giugno 2008, n. 112, ha aggiunto al primo comma dell’art. 429 cod. proc. civ., la quale obbliga il giudice del lavo-ro, tranne i casi di particolare complessità della controversia, a dare lettura in udienza dell’espo-sizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione. Eppure le finalità perseguite con l’istitu-zione del procedimento speciale avrebbero dovuto suggerirne l’opportunità: Il che non toglie che dell’ordinanza che definisce la prima fase ben può essere data lettura in udienza e, anzi, che questa modalità di pubblicazione sarebbe auspicabile fosse adottata usualmente.

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Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

169

L’efficacia esecutiva dell’ordinanza non può essere sospesa o revocata fino alla pronuncia della sentenza con cui il giudice definisce il giudizio.

11.4 Il giudizio di opposizione

11.4.1 Il ricorso in opposizione

Contro l’ordinanza di accoglimento o di rigetto può essere proposta opposizione, con ricor-so contenente i requisiti richiesti dall’art. 414 cod. proc. civ. per gli atti introduttivi delle con-troversie individuali di lavoro, da depositare avanti allo stesso tribunale che ha emesso il prov-vedimento opposto, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore.

Con il ricorso non possono essere proposte domande diverse da quelle introdotte nella fase sommaria, salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi o siano svolte nei confronti di soggetti rispetto ai quali la causa è comune o dai quali si intende essere garantiti, secondo quanto previsto dagli articoli 105. 106 e 107 cod. proc. civ. in tema di intervento nel processo.

Il giudice fissa con decreto l’udienza di discussione non oltre i successivi 60 giorni, asse-gnando all’opposto termine per costituirsi fino a 10 giorni prima dell’udienza. Il ricorso, unita-mente al decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato, anche a mezzo di posta elettronica certificata, dall’opponente all’opposto almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione.

11.4.2 La costituzione dell’opposto

L’opposto deve costituirsi mediante deposito in cancelleria di memoria difensiva a norma e con le decadenze di cui all’art. 416 cod. proc. civ. se l’opposto intende chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella memoria difensiva.

Nel caso di chiamata in causa per integrazione di litisconsorzio necessario o di intervento su istanza di parte o per ordine del giudice, il tribunale fissa una nuova udienza entro i succes-sivi 60 giorni, e dispone che siano notificati al terzo, ad opera delle parti, almeno 30 giorni prima della data fissata per la sua costituzione, il provvedimento nonché il ricorso introduttivo e l’atto di costituzione dell’opposto. Il terzo chiamato deve costituirsi non meno di 10 giorni prima dell’udienza fissata, depositando la propria memoria norma e con le decadenze previste per la costituzione del convenuto dall’art. 416 cod. proc. civ.

Quando la causa relativa alla domanda riconvenzionale non è fondata su fatti costitutivi identici a quelli posti a base della domanda principale, il giudice ne dispone la separazione.

11.4.3 La sentenza

All’udienza il giudice, sentite le parti ed omessa ogni formalità non essenziale al contrad-dittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione, ammissibili e rile-vanti, richiesti dalle parti, nonché disposti d’ufficio, e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda dando, ove opportuno, termine alle parti per il deposito di note di-fensive fino a 10 giorni prima dell’udienza di discussione.

La sentenza, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro 10 giorni

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170 Capitolo 11 - L’impugnativa di licenziamento

Processo del lavoro

dall’udienza di discussione. Essa è provvisoriamente esecutiva e costituisce titolo per l’iscri-zione di ipoteca giudiziale.

11.5 Il reclamo

Contro la sentenza che decide sul ricorso è ammesso reclamo avanti alla Corte di Appello. Il reclamo si propone con ricorso da depositare, a pena di decadenza, entro 30 giorni dalla comunicazione, o dalla notificazione se anteriore. In mancanza di comunicazione o notifica-zione della sentenza, il reclamo non può proporsi dopo sei mesi dalla pubblicazione.

Non sono ammessi nuovi mezzi di prova o documenti, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione ovvero la parte dimostri di non aver potuto pro-porli in primo grado per causa ad essa non imputabile.

La Corte fissa con decreto l’udienza di discussione nei successivi 60 giorni; si applicano alla costituzione delle parti gli stessi termini previsti per il primo grado dell’opposizione. Alla prima udienza, la Corte può sospendere l’efficacia della sentenza reclamata, se ricorrono gravi motivi.

La Corte di Appello, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contradditto-rio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione ammessi e provvede con sentenza all’accoglimento o al rigetto della domanda, dando, ove opportuno, termine alle par-ti per il deposito di note difensive fino a 10 giorni prima dell’udienza di discussione. La senten-za, completa di motivazione, deve essere depositata in cancelleria entro 10 giorni dall’udienza di discussione.

12.6 Il giudizio di legittimità

Il ricorso per cassazione contro la sentenza deve essere proposto, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla comunicazione della stessa, o dalla notificazione se anteriore. In man-canza di comunicazione o notificazione della sentenza il ricorso per cassazione non può pro-porsi dopo sei mesi dalla pubblicazione.

La sospensione dell’efficacia della sentenza deve essere chiesta alla Corte d’appello.La Cassazione fissa l’udienza di discussione non oltre sei mesi dalla proposizione del ricorso.

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