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LA « RESTAURAZIONE ANTIFASCISTA LIBERISTA » RISTAGNO E SVILUPPO ECONOMICO DURANTE IL FASCISMO A molti anni di distanza dalla fine del fascismo, quando il confronto con un lungo periodo post-fascista potrebbe rendere più significativa la ricerca; ci troviamo ad avere una relativa abbondanza di indagini sulle origini del fascismo, o la sua fine (le forze antifasciste, la resistenza); e una notevole carenza di ricerche sul fascismo al potere, per quanto riguar- da non tanto la gestione dello stato di polizia e le mediazioni politiche interne al regime, quanto l’organizzazione interna del capitalismo dei monopoli e la sua posizione nell’imperialismo mondiale; molto si è detto sui mandanti del fascismo alle origini, ma poco si dice sul potere che quei mandanti hanno esercitato durante il ventennio, come se l’intero periodo fosse stato una parentesi. Rifiutato come ipotesi etico-politica dalla sinistra antifascista, il giu- dizio sul fascismo come parentesi e malattia è riapparso, nella stessa sini- stra, come diagnosi della sua storia economica; il ventennio sarebbe stato un periodo di stagnazione. Lo sviluppo economico e l’espansione delle forze produttive sarebbero stati frenati dalla difesa a oltranza, che la dittatura esercitava per motivi politici, di ceti agrari precapitalistici e cricche di industriali parassitari mentre era soppresso lo stimolo ammodernatore delle lotte politiche e sindacali. L’industria leggera esportatrice sarebbe stata sacrificata al protezionismo dei grandi monopoli, l’agricoltura pregiata (legata a forme « moderne » di proprietà e a rapporti sociali di produzione capitalistici) alla coltura granaria dei latifondisti arretrati e alla politica di « sbracciantizzazione ». I residui precapitalistici dell’economia italiana sarebbero stati congelati e rafforzati, mentre negli anni del primo dopo- guerra erano sembrati in via di liquidazione. Tra forme « moderne » di produzione e forme « arretrate » si sarebbe stabilita un’alleanza politica nella quale, per confermare l’arresto delle lotte sociali, la coalizione pro- prietaria al potere avrebbe bloccato lo sviluppo economico. Durante il fascismo, la politica avrebbe sacrificato l’economia, la difesa della rendita avrebbe sacrificato il profitto. Sede privilegiata di tale tipo di considerazioni è la storia economica agraria del regime. Gli indici di produzione e di incremento del reddito nel periodo gio- littiano e postfascista indicano indubbiamente uno slancio maggiore che

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LA « RESTAURAZIONE ANTIFASCISTA LIBERISTA »

RISTAGNO E SVILUPPO ECONOMICO DURANTE IL FASCISMO

A molti anni di distanza dalla fine del fascismo, quando il confronto con un lungo periodo post-fascista potrebbe rendere più significativa la ricerca; ci troviamo ad avere una relativa abbondanza di indagini sulle origini del fascismo, o la sua fine (le forze antifasciste, la resistenza); e una notevole carenza di ricerche sul fascismo al potere, per quanto riguar­da non tanto la gestione dello stato di polizia e le mediazioni politiche interne al regime, quanto l’organizzazione interna del capitalismo dei monopoli e la sua posizione nell’imperialismo mondiale; molto si è detto sui mandanti del fascismo alle origini, ma poco si dice sul potere che quei mandanti hanno esercitato durante il ventennio, come se l’intero periodo fosse stato una parentesi.

Rifiutato come ipotesi etico-politica dalla sinistra antifascista, il giu­dizio sul fascismo come parentesi e malattia è riapparso, nella stessa sini­stra, come diagnosi della sua storia economica; il ventennio sarebbe stato un periodo di stagnazione. Lo sviluppo economico e l’espansione delle forze produttive sarebbero stati frenati dalla difesa a oltranza, che la dittatura esercitava per motivi politici, di ceti agrari precapitalistici e cricche di industriali parassitari mentre era soppresso lo stimolo ammodernatore delle lotte politiche e sindacali. L’industria leggera esportatrice sarebbe stata sacrificata al protezionismo dei grandi monopoli, l’agricoltura pregiata (legata a forme « moderne » di proprietà e a rapporti sociali di produzione capitalistici) alla coltura granaria dei latifondisti arretrati e alla politica di « sbracciantizzazione ». I residui precapitalistici dell’economia italiana sarebbero stati congelati e rafforzati, mentre negli anni del primo dopo­guerra erano sembrati in via di liquidazione. Tra forme « moderne » di produzione e forme « arretrate » si sarebbe stabilita un’alleanza politica nella quale, per confermare l’arresto delle lotte sociali, la coalizione pro­prietaria al potere avrebbe bloccato lo sviluppo economico. Durante il fascismo, la politica avrebbe sacrificato l’economia, la difesa della rendita avrebbe sacrificato il profitto.

Sede privilegiata di tale tipo di considerazioni è la storia economica agraria del regime.

Gli indici di produzione e di incremento del reddito nel periodo gio- littiano e postfascista indicano indubbiamente uno slancio maggiore che

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nell’insieme del ventennio; in agricoltura, le strutture precapitalistiche sono state effettivamente intaccate, anche con l’intervento dello stato, prima e dopo il ventennio, non durante. D’altra parte, prima e dopo il ventennio, l’organizzazione padronale ha dovuto fare i conti con le lotte politiche e sindacali che la dittatura invece aveva soffocato. Di qui il sug­gerimento che tra istituzioni democratiche e sviluppo economico esista un rapporto diretto e causale: la politica fascista ha soffocato l’economia, la politica antifascista e democratica l’ha invece vivificata, portando « al miracolo economico ». Lo sviluppo capitalistico in Italia con l’arresto subito nel periodo fascista e con il boom successivo, sarebbe la riprova di quali distorsioni economicamente retrive possano darsi nell’assenza di libertà politica e sindacale, e di come tali distorsioni possano essere corrette con l’esercizio di questa.

Se ristagno c’è stato nel periodo fascista, diventa significativa soltanto la ricerca delle origini delle strozzature politiche che l’hanno reso possi­bile, oppure degli antidoti — le forze antifasciste — che il corpo sano dell’Italia ha saputo esprimere per eliminarlo. Il risparmio, di per sé, non fa storia, se non per contrapporlo all’avvenuto sviluppo economico del periodo pre- e post-fascista; ciò spiega il silenzio intorno alla politica economica fascista, almeno relativamente alle numerose indagini sulle ori­gini del fascismo e sui movimenti antifascisti.

La recente ristampa del volume di Pietro Grifone II capitale finanziario in Italia (Torino, Einaudi, 1971) impone di affrontare il problema della interpretazione del fascismo come « ristagno » economico, più o meno cor­rente oggi nella sinistra. Nel libro di Grifone, pubblicato per la prima

j volta nel 1945, ma scritto al confino prima del 1940, prevale una inter- j prefazione che non vede nel fascismo una « rivincita » di residui feudali

e precapitalistici, ma un momento di razionalizzazione, parziale, distorta ma a suo modo dinamica del capitalismo italiano nelle strette di una dif­ficile crisi internazionale. Anche se non sempre la sua analisi è orientata in questo senso, le notizie che egli riporta mettono in luce quanto i mali del fascismo, l’indubbia compressione dei salari e dei consumi della mag­gioranza della popolazione italiana, l’avvio alla guerra come sbocco neces­sario, fossero i mali dello sviluppo capitalistico e non del mancato sviluppo; non una deviazione dai più civili, razionali e democratici sentieri del capi­talismo angloamericano, dovuta a una serie di « tare di origine »; ma il modo di essere necessariamente autoritario e distorto del capitalismo sans phrase, negli anelli più deboli della catena imperialistica mondiale.

Per questi motivi il libro di Grifone, ristampato a distanza di molti anni, in assenza di altre opere che portassero avanti le sue ricerche con la stessa ampiezza di sguardo e ricchezza di notizie, assume un sapore di novità, e resta un prezioso confronto con le altre opere di ricerca setto­riale, scritte moltissimi anni dopo ma limitate e contraddittorie nelle con-

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clusioni; perchè la loro ottica si limita al settore in questione e non vede le circostanze che hanno portato lo stato maggiore del capitalismo italiano a sviluppare alcuni settori a detrimento di altri.

1. Interpretazioni politiche del « ristagno »

Le testimonianze dirette della sinistra antifascista sono concordi nel rilevare quanto ferma e stagnante, se non arcaica e arretrata fosse l’atmo­sfera generale nel paese negli anni centrali del ventennio. Sono note le parole che Ernesto Rossi premetteva alla ristampa di Padroni del vapore e fascismo:

[...] io non mi proposi di scrivere una storia economica dell’Italia durante il ventennio fascista: altrimenti [ ...] mi sarei soffermato su molti aspetti della politica economica del « regime », secondo me non meno negativi di quelli che ho preso in esame (i premi e le esenzioni tributarie per stimolare a far figli, la trasformazione dei Consorzi Agrari in organi di commercio per la riven­dita al dettaglio, la conversione del debito fluttuante in Consolidato; etc.) ed anche su molti aspetti che considero anch’io di valore positivo (la unificazione degli istituti di emissione, la nazionalizzazione della Banca d ’Italia e la legge bancaria del 1936, l ’abolizione delle cinte daziarie comunali, la bonifica del­l ’Agro Pontino e la esecuzione di altre opere pubbliche, etc.).

Finché il pastore si accontenta di tosare le pecore e non le porta al macello, provvede pure a ripararle dalle intemperie, le difende dai lupi e dalle malattie, le conduce a pascolare dove l’erba è migliore; per analoghe ragioni anche i governi tirannici più inefficienti, se reggono per un periodo abbastanza lungo, possono sempre mostrare all’attivo qualche cosa che hanno saputo fare a van­taggio dell’intera collettività sulla quale hanno esercitato il loro dominio [...] h

Secondo il punto di vista di Rossi, che è poi quello comune a tutto l’antifascismo democratico (fondamentalmente liberista)^ la gestione econo­mica fascista sarebbe stata arcaica e irrazionale, favorendo alcune baronie industriali e agrarie, a scapito della collettività, e selezionando non le imprese più sane, come sarebbe avvenuto se si fosse garantito il libero gioco della concorrenza, ma quelle che godevano di influenze politiche nella macchina del regime. Le scelte egoistiche di queste baronie avreb­bero portato, col protezionismo e poi con la guerra, alla rovina economica del paese, che è stata poi l’altra faccia dell’oppressione politica.

Non molto diversa nelle conclusioni è l’interpretazione che, in una lezione sulla politica economica del fascismo tenuta nel 19611 2, dava Vit­torio Foa:

1 Ernesto Rossi, Padroni del vapore e fascismo, Bari, 1966, pp. 7-8.2 Vittorio Foa, Le strutture economiche e la politica economica del regime fascista, in Fascismo e antifascismo. Lezioni e testimonianze, Milano, 1962, pp. 266-86.

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[...] dietro la facciata delle Corporazioni opera un ricco tessuto di rapporti tra lo Stato e le imprese, così nell’industria come nell’agricoltura. Si costruisce un capitalismo di Stato fondato sul parassitismo e sulla stabilità [...] [in agri­coltura] l’insieme è una stagnazione profonda, come prezzo dell’autosufficienza granaria e poi dell’autarchia [...] [viene realizzata] la concentrazione del potere agrario, a un basso livello produttivo, sotto la tutela dello Stato.

Questo fu il grande compromesso dell’era fascista: le cose stanno ferme, quieta non movere, certo c’è chi ci guadagna molto e c’è chi perde o potrebbe guadagnare di più, la redistribuzione è interna al sistema, nel suo insieme però il sistema appare stabile perchè privo di dinamica. E così si va avanti nel tempo [...] la guerra di Etiopia con le sanzioni e le controsanzioni, la guerra di Spagna, la grande battaglia per l’autarchia e poi lo scoppio della seconda guerra mondiale, le titubanze dei primi mesi e infine l’ingresso nella fornace.

Questo dato, di una stagnazione di fondo come elemento di compromesso per una conservazione sociale a livello arretrato 3, e che costituisce il compro­messo politico sostanziale del regime fascista, sta anche organicamente alla radice della guerra e della catastrofe [...] [gli industriali] [...] hanno affron­tato la guerra totale leggermente, senza rendersi conto, addormentati come erano nel sonno corporativo, che non esistevano in Italia, per la debolezza dell’apparato economico, gli strumenti per affrontare una tragedia di quella dimensione [...].

Ancora nella densa prefazione che ha scritto per la ristampa del libro di Grifone, accanto a preziose indicazioni sul fascismo come verità dello sviluppo capitalistico italiano, da non intendere naturalmente solo come crescita delle forze produttive ma anche come sistema di mediazioni poli­tiche che assicurano la persistenza dei rapporti di proprietà, Foa annota come, facendo un paragone tra il periodo 1897-1907 e il periodo 1926-36, risulti ovvia e schiacciante la situazione di ristagno del periodo fascista: gli incrementi del prodotto lordo, gli investimenti lordi, i salari industriali, i consumi privati risultano in netta ascesa nel primo periodo e in mode­stissimo aumento, se non in diminuzione, nel secondo 4.

Oltre alla nozione di una stagnazione quantitativa dello sviluppo delle forze produttive, è corrente nella sinistra l’idea di una stagnazione quali­tativa nei rapporti sociali di produzione, in particolare per quanto riguarda le campagne. In una lezione-testimonianza sulla politica agraria del regime

3 Corsivi nostri.4 Le stime a cui Foa si riferisce, sono contenute nello studio Lo sviluppo economico in Italia, a cura di G iorgio Fuà, Milano, Angeli, 1969 e in particolare la Documen­tazione statistica di base, a cura di P. E rcolani, vol. I l i , pp. 380-401. Ritengo che il confronto tra un periodo di boom e uno di depressione non sia valido (i risultati relativi sarebbero più o meno gli stessi per qualunque paese « democratico »); inoltre il carattere eccessivamente aggregato delle stime non consente di rilevare la marca­tissima distanza, accentuatasi durante gli anni trenta, tra l’industria di base con oltre mille addetti per esercizio, e la miriade di esercizi minuscoli in progressiva diminuzione.

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(nella stessa raccolta da cui abbiamo tratto il brano di Foa), così si espri­meva Emilio Sereni:

[-■•] in particolare riferimento alle campagne, il fascismo si è qualificato nel suo sviluppo storico come dittatura terroristica aperta dei gruppi più rea­zionari, più sciovinisti, più aggressivi del capitale monopolistico [...].

[...] ma proprio questa tendenza a creare un regime di stabilità conserva­trice sociale e politica a basso livello, agisce gradualmente anche nel senso di una trasformazione delle forze stesse di classe di cui il fascismo diventa la espressione politica [...] da un lato assistiamo, sotto l’egida di quella politica liberalistica, ad un crescente rafforzamento dei grandi gruppi monopolistici industriali e finanziari, dall’altro possiamo rilevare una sempre più netta ten­denza del fascismo, che aveva avuto dapprima la sua base più attiva nei capi­talisti agrari della Valle Padana, proprio verso [...] la tendenza a poggiarsi più fortemente su strati della vecchia proprietà terriera più retriva.

Quando a questo punto si trova a scegliere fra gli interessi del capitalista agrario tipico con braccianti e gli interessi del grande proprietario terriero, il fascismo tende più frequentemente, in quella sua linea di conservazione a un basso livello di stabilità, ad appoggiarsi sul proprietario terriero. È già di questo periodo la politica di sbracciantizzazione [...].

In tutta Italia assistiamo, d ’altra parte, all’altro fenomeno, al peso politico crescente della grande proprietà terriera nell’apparato dello Stato [...] assi­stiamo così a un processo che, nonostante tutto, è di trasformazione della società italiana in senso agrario; diminuisce, nel ventennio fascista, in conse­guenza di una politica cosciente da parte dei gruppi dominanti, l’azienda agra­ria capitalistica tradizionale di tipo bracciantile puro della Valle Padana; aumentano nei confronti delle masse dei lavoratori e dei piccoli produttori agricoli lo sfruttamento, il saccheggio indiretto, realizzati proprio attraverso la politica dei prezzi, la politica del credito; assistiamo in questi anni al rapido divergere tra i prezzi, tra l’andamento dei prezzi di prodotti agricoli e prezzi' industriali, che diventa una delle forme fondamentali di saccheggio delle masse dei piccoli produttori agricoli e di tutta la popolazione lavoratrice dell’agricol­tura, mentre diminuisce quella forma di sfruttamento diretto e più evidente, che avveniva nella grande azienda a salariato tradizionale [...] su questa linea [...] il problema del grano (battaglia del grano, bonifica integrale) assunse una parte essenziale nella politica di blocco rafforzato e di identificazione tra i gruppi dominanti della grande proprietà terriera e del capitale monopolistico nel nostro paese, non senza certi sacrifici da parte del capitale monopolistico [...] [costituendo la] necessaria conseguenza della politica dei monopoli, di tendere non ad un progresso delle forze produttive e sociali, ma ad una sua sostanziale stagnazione anche ad un livello basso ed arretrato, purché siano mantenute certe condizioni essenziali per il suo dominio 5

5 Emilio Sereni, La politica agraria del regime fascista, in Fascismo e antifascismo, cit., pp. 296-304; corsivi nostri.

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2. Il problema del ristagno

Il tenore di vita

Per quanto riguarda il tenore di vita effettivo della popolazione ita­liana, le testimonianze dirette degli antifascisti sono confermate dalle stati­stiche e danno un quadro storicamente esatto.

Non è facile ricavare dati esatti sull’entità dei salari industriali e agricoli, ma è comunque sicuro che essi fossero bassissimi in confronto agli altri paesi industriali. Secondo le stime di Clark6 la media del reddito per persona occupata nel triennio 1935-38 era di 410 dollari in Italia, contro gli 804 della Francia, i 1206 della Gran Bretagna, i 1309 degli Stati Uniti.

D’altra parte la brusca caduta dei consumi pro-capite di generi alimen­tari dopo il 1929, riportata nella Relazione alla Costituente del 19467 è un indice più che mai eloquente della stagnazione e del regresso econo­mico della popolazione:

tabella 1

periodo fru­mento

ortaggifrutta

zuc­chero

vino caffè carni grassi tabac­chi

grano-turco

pesce latte

1922-29 100 105 107 123 96 107 109 99 106 97 114

1930-38 91 88 96 101 76 105 98 81 109 107 121

Le cifre indicate si riferiscono ai consumi medi per abitante; se poi si considera la sicura e notevole ineguaglianza di distribuzione del reddito non è diffìcile immaginare che una ristretta minoranza abbia conservato lo stesso livello di consumi alimentari in aggiunta a consumi di altro ge­nere; e la stragrande maggioranza della popolazione abbia invece subito una diminuzione dei consumi alimentari più grave della media indicata, e avendo già un livello minimo di consumi non alimentari8.

In conclusione: se esaminiamo le cifre che corrispondono alle realtà osservabili a occhio nudo nel ventennio, e in particolare nel periodo poste-

6 Colin Clark, The Economics of 1960, London, 1942, e The Conditions of Eco­nomie Progress, London, Macmillan, 1957.7 Ministero per la Costituente, Rapporto della Commissione Economica pre­sentato all’Assemblea Costituente; parte II, Industria, vol. 1, p. 18; d’ora in poi l’opera viene indicata con la sigla RAC.8 In aggiunta a quanto già osservato circa il declino dei consumi alimentari, è importante vedere quanto annota P. Pettenati nella monografia I consumi e lo svi­luppo (in G. FuÀ, op. cit., pp. 325-27): una marcata diminuzione dei consumi ali­mentari, in particolare quelli la cui diffusione si accompagna generalmente al miglio­ramento del tenore di vita delle classi meno abbienti (bevande, zucchero, frutta, ortaggi), e nel frattempo un sensibile aumento, anche percentuale, dei consumi di minore necessità.

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riore al 1929, vediamo salari bassissimi in confronto a quelli degli altri paesi industriali, e redditi ancora più bassi in una agricoltura in buona parte precapitalistica; la progressiva diminuzione dei consumi privati per la maggioranza dalla popolazione; uno stato di endemica disoccupazione e sottoccupazione, che non trovava sbocco in un settore agricolo sovrap­popolato, in stato di degradazione. Scarse sono state le possibilità di emi­grare, dopo il 1930, e lo sviluppo industriale è stato del tutto insufficiente per assorbire la popolazione in rapido aumento.

A questi motivi di accusa a suo tempo formulati dagli antifascisti, che risultano fondati, si aggiungeva il non meno grave ristagno civile e politico, e, fatto ancora più atroce, la coscienza che questa economia, di penuria per la maggioranza della popolazione, portava alla guerra.

I l ru o lo d e l l ’a g ric o ltu ra

Malgrado la propaganda del regime potesse far pensare il contrario, il settore dell’agricoltura ha progressivamente perduto importanza nel periodo fascista; ciò è testimoniato, come dimostra la seguente tabella, dalla progressiva caduta del suo peso proporzionale rispetto al reddito nazionale:

tabella 2 9

anni agricoltura industria attività terziarie

1901-10 46,6% 23,4% 30 %1911-20 45,9% 28,7% 25,4%1921-30 38.2% 31,4% 30,4%1931-40 29,8% 32,8% 37,4%1960 19,2% 48,2% 32,5%

Anche la percentuale della popolazione addetta all’agricoltura ha regi­strato una modesta diminuzione, non facilmente rilevabile data la disparità di criteri usati nei censimenti. Secondo le stime del Medici, il numero di addetti all’agricoltura si è mantenuto pressoché costante intorno agli 8 milioni e mezzo di unità tra il 1871 e il 1936. Dato l’incremento della popolazione totale, questo numero si è tradotto in una percentuale pro­gressivamente minore sul totale della popolazione, passando dal 58% del 1871 al 48% del 1936 9 10 11. Per il triennio 1935-38 il Clark calcolava una percentuale di circa il 43% di addetti all’agricoltura11.

Oltre al divario tra percentuale di addetti sul totale della popolazione e proporzione del reddito agricolo rispetto al reddito nazionale, è da rile-

9 Fonte: ISTAT, Sommano di statistiche storiche italiane 1861-1955, p. 213; An­nuario Statistico I960, p. 357.10 G. Medici, Agricoltura e disoccupazione, Bologna, 1952, p. 22.11 RAC, Industria, voi. 2, p. 34.

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vare la progressiva « crisi delle forbici » (abbassamento dei prezzi agricoli in confronto ai prezzi industriali) che ha colpito molto gravemente tutto il settore agricolo italiano negli anni della crisi mondiale.

Secondo una elaborazione del Sereni da dati ISTAT e INEA, il rap­porto tra prezzi dei prodotti acquistati dagli agricoltori (macchine, sementi, concimi, ecc.) e prodotti venduti è peggiorato da un indice 100 del 1928 a 125,3 nel 1948 a 150,9 nel 1951 u.

Anche una sezione della R e la z io n e a lla C o s t i tu e n te 13 rilevava come la evoluzione dei prezzi all’ingrosso fosse in duplice verso manovrata in modo sfavorevole all’agricoltura: tanto da peggiorarne la posizione sia come fornitrice di materie prime all’industria, sia come consumatrice di merci industriali. Nelle manovre dei prezzi pesarono di più i gruppi che avevano posizioni di monopolio e riuscirono a far prevalere i loro interessi nelle decisioni del governo: in particolare i gruppi industriali di grandi dimensioni che importavano materie prime dall’estero e producevano semi- lavorati.

Il progressivo declino dell’agricoltura è anche testimoniato dalle stime che vengono fatte nella R e la z io n e a lla C o s t i tu e n te , circa l’andamento delle attività produttive dal 1922 al 1938 (v. la tabella « Attività industriali italiane in contrazione, stazionarie e in espansione », pagina a fronte).

Questi dati indicano che la produzione agricola in complesso è salita da un indice 100 nel 1922 a 127 nel 1929, per risalire appena, dopo gli anni della crisi mondiale, a 121 nel 1938.

Di per sé, il disagio dell’agricoltura rispetto all’industria, e la sua maggior lentezza di sviluppo, sono un fatto normale nello sviluppo capi­talistico; ma le forme che assunse allora — persistenza della piccola im­presa e del piccolo affitto, protezione granaria, sacrificio delle colture pregiate — furono tali che, se ci fosse stato un maggiore sviluppo dell’in­dustria, lo avrebbero ostacolato; perché la protezione di un genere di prima necessità come il grano ha ulteriormente compresso i salari reali dei lavoratori, e la politica di apparente difesa della piccola proprietà ha giovato in realtà soltanto ai grandi proprietari e alle grandi imprese capi­talistiche. Su ciò sarà opportuno soffermarsi in seguito.

I l p r o b le m a d e m o g ra fic o

In tutti i periodi di boom l’Italia ha avuto un alto indice di emigra­zione: nel periodo giolittiano come nel secondo dopoguerra. L’emigra-

a Emilio Sereni, D u e linee d i po litica agraria, Roma, 1961, p. 238.13 RAC, In d u str ia , voi. 2, L. Federici, L e relazioni fra i costi e i p rezz i d e ll’agri­coltura e qu e lli d e ll’industria , pp. 3 sgg.

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tabella 3 14

A ttiv ità industriali italiane in -contrazione, stazionarie e in espansione(Numeri indici di produzione con base 1932 = zoo e con base 1928 «=» zoo (*)

A nno 1922 A nno 1929 A nno 1938

Produzione agricola in complesso . . . IOO 12 7 12 rProduzione industriale in complesso. IOO 204 208

Produzioni in contrazione dopo ilperiodo 19 2 2 - 1 9 2 9 :Pom odori................. ............................... IOO 15 7 1 1 6Agrumi ................................................... IOO III 9 7V in o ................... ................ . .............. . . IOO 122 10 9O lio ................................ ........................... IOO 9 1 5 °B ó zzo li............................................ ........ IOO 127 4 7T ab acco .................................................. — IOO 95F ilati di cotone .................................. IOO 142 1 1 5Tessuti di cotone . . . . . . ................. .. IOO 136 128Seta naturale...................................... .. IOO 138 49Tessuti di lana (*) ............................ — 102 85Meccanica ferroviaria (*) ...........>. — 89 72Costruzioni edili - (*)...................... .. — 139 9 1 .Marna da cemento (*) . . . . . . . . . . . — IOO 70

Produzioni stazionarie dopo il pe- ;riodo 1922- 19 2 9 :P a t a t e ................. ....................... , .......... IOO 132 138Industria jutiera (*) ........................ — ' 105 IO I

Minerale di z in c o ........................... .... IOO 235 2 1 1

Marmo ( +) ..................................... ; ................... — IOO 9 8

Lam inati ( * ) ................................................... — 105 9 7 1Meccanica navale (* ) ............... .. . — 92 IO I

Fonderie meccaniche ( * ) ........... — 112 1 0 2

Produzioni in netto incremento dopo r

i l periodo 19 2 2 - 1 9 2 9 :F ru m en to .................................. :■................ .. • • IOO 15 6 I92

R iso n e .......................... .............................. IOO 439 i5 6Granoturco ............................................................ IOO 125 1 4 6

Tessuti a r tif ic ia li ........................................... IOO 1-247 4-655F ila ti lino e canapa ( * ) ................... — 97 130

M etallurgia ( * ) ................................................ — I I I 1 2 1

Meccanica (* ) ' . ............... • .......................... — IO 4 134

Cartaria (* ) ...................................................... — 106 148

Energia, calore e illum inazione (* ) — 1 0 2 1 5 7

Mineraria ( * ) ........... ....................................... — I O I 155

Chirfiica ( * ) ...... ..................................................... IO I 130

(•) Questi ultimi sono indicati dall’asterisco ricostruzione dell’economia, nel dopoguerra.

14 Fonte: RAC, Industria, vol. 1, p. 13.

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zione è di per sé negativa perché sottrae al paese le energie più valide; serve però ad alleviare i disagi più gravi di quella che Marx considerava sovrappopolazione relativa (cioè eccessiva rispetto alle possibilità del siste­ma capitalistico di assorbirla); e può servire a mascherarne l’entità. Gli alti e bassi delle ondate migratorie dall’Italia sono da attribuire più che a una variazione della spinta della manodopera in eccesso, a variazioni nelle possibilità del mercato del lavoro all’estero di assorbirla. Anche dopo la fine degli anni venti, la propaganda fascista ha fatto passare per deliberata scelta politica il declino dell’emigrazione; ma di fatto queste coperture retoriche sono sopraggiunte dopo la chiusura delle frontiere alla mano­dopera italiana.

L’Italia ha sempre avuto un indice di incremento naturale (prevalenza delle nascite sulle morti) elevato, anche se in lento declino dopo il 1930. Il rapporto tra incremento demografico totale e emigrazione si ricava dalla seguente tabella:

tabella 4 15

P eriodi

In crem en to totale m ed io annuo

In crem en to naturale m ed io annuo

in crem en tom edio

m igratorioannuo

assoluto per 1.000 ab itan ti (d )

assoluto per 1.000abitan ti (d)

assolu to per 1.000 abitanti (d)

1861-1871 («) 178,5 6,9 182,0 7,0 — 3,5 — 0,11871-1881 165,9 6,0 202,1 7,3 — 36,2 — 1,31881-1901 210,1 6,9 324,7 10,7 — 114,6 — 3,81901-1911 212,6 6,3 369,6 11,0 — 157,0 — 4,71911-1921 (b ) 165,7 4,7 202,8 5,7 — 37,1 — 1,01921-1931 341,0 8,6 451,1 11,4 — 110,1 — 2,81931-1936 348,4 8,3 407,2 9,7 — 58,8 — 1,41936-1951 (c) 312,7 7,0 355,8 8,0 — 43,1 — 1,01951-1961 273,1 5,6 418,4 8,5 — 145,3 — 2,9

(a) - Popolazione presente nei confini del 1871.(b) - Popolazione presente nei confini del 1871.(c) - Popolazione presente nei confini del 1951.(d ) - Incremento per 1.000 abitanti calcolato con riferimento alla semisomma della

popolazione all’inizio ed alla fine del periodo.

Da questi dati si può dedurre che nel periodo 1881-1901 l’emigrazione netta è stata circa il 35% dell’incremento naturale, nel periodo 1901-11 circa il 43%, nel periodo 1911-21 circa il 18%; tra il 1921 e il 1931

15 Fonte: M. Livi Bacci, Fattori demografici dello sviluppo economico, in G. FuÀ, op. cit., p. 2 1 .

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circa il 25%, nel quinquennio 1931-36 il 15%, nel 1936-51 il 12% nel 1951-61 il 35%.

Negli anni posteriori al 1930, la crisi internazionale ha dimezzato le possibilità di riversare all’estero la manodopera disoccupata, e progres­sivamente crescente 16.

In che modo l’industria ha assorbito i disoccupati negli anni posteriori alla crisi mondiale? Secondo una stima della R e la z io n e alla C o s t i t u e n t e 17 18, dal 1927 al 1938 sarebbero state assorbite dall’industria (in esercizi di due o più addetti) circa 525.000 persone, con una media annua inferiore alle 50.000 unità, mentre la popolazione attiva aumentava annualmente di circa 200.000 unità, e l’agricoltura non si mostrava in grado di assor­bire altra popolazione.

Seguendo lo stesso tipo di calcolo numerico, si può dire che negli anni dal 1930 in poi, sono emigrate in media 60.000 persone l’anno in luogo di circa 120.000; e che sono stati « assorbiti » dall’emigrazione circa 30.000 disoccupati in luogo di circa 60.000 — come nella media degli anni 1881-1960.

Questi dati, se si considera la grave degradazione dell’agricoltura che era già un grande serbatoio di sottoccupati, spiegano a sufficienza la drammaticità della situazione che viene comunemente definita come mo­mento di ristagno 1S.

3. Ristagno italiano e ristagno intemazionale

Occorre vedere la qualità di quella stagnazione e cioè da un lato quale sia stata la posizione dell’Italia rispetto al mercato mondiale, e dall’altro quali mutamenti qualitativi ci sono stati all’interno della organiz­zazione del capitalismo italiano.

La prima circostanza che occorre considerare è la posizione dell’Italia

16 Se si calcola che ogni anno si renda necessario un numero di nuovi posti di lavoro pari alla metà dell’incremento naturale, e che d’altra parte circa metà degli emigrati siano in età di lavoro, le rispettive percentuali — del totale degli emigrati sull’in­cremento naturale, e dei disoccupati emigrati rispetto al totale dei disoccupati — vengono ad essere le stesse.17 RAC, Industria, vol. 1 , p. 264.18 Le stime aggregate contenute nel vol. G. FuÀ, cit., confermerebbero un giudizio d’insieme sul periodo 1920-40 e a maggior ragione sul periodo 1930-40 come arresto e ristagno dello « sviluppo economico ». Sia nell’agricoltura (cfr. G. O rlando, Pro­gressi e difficoltà dell’agricoltura, vol. I l i , pp. 17 sgg.) che nell’industria (cfr. O. V itali, La stima del valore aggiunto a prezzi costanti, vol. II, p. 263 e La stima degli investimenti, vol. II, p. 478), dove risulta un declino dell’incremento annuo del valore aggiunto, un peggioramento del rapporto capitale-prodotto, un declino dell’in­cremento del prodotto per attivo, rispetto al periodo giolittiano e rispetto ai valori del secondo dopoguerra. Ciò non è sufficiente tuttavia a giudicare il più marcato distacco dell’industria di base dagli altri settori, il suo procedere verso l’autofinan­ziamento, il rinnovo degli impianti, così come il rapporto capitale-prodotto non basta a giudicare un investimento del genere della bonifica.

La « restaurazione antifascista liberista » 57

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58 Ester Fano Damascelli

nel mercato mondiale. Se osserviamo i vari sottoperiodi del ventennio vediamo un boom tra il 1923 e il 1927, in parte continuato fino al 1929, una grave depressione tra il 1930 e il 1935, una notevole ripresa dal 1935 alla seconda guerra mondiale, come dimostra questa stima della Relazione alla Costituente:ta b e lla 5 19

Variazioni percentuali dello sviluppo industriale in vari periodi, caratteristici, partendo dal i 88i sino al 1 9 3 8 .

C A R A T T E R I S T I C A .

D E L P E R I O D OP e rio d i

N u m e r i in d ic i a n n i e stre m i

18 81 = 100

N u m erò a n n i

co m p re ­s i n e l

p eriq do

V a r ia z io n e p e rce n tu a le c o m p le ssiv a d e l p erio d o

V a r ia z io n e p e rce n tu a le an n ua

m e d ia

a r itm e tic a

m ed ia

g e o m e trica

Forte aum ento... 1 8 8 1 - 1 8 9 1 1 0 0 - 1 6 5 I O + 6 5 , 0 + 6 , 5 + 5 . 1

Crisi e c o n o m ic a - 1 8 9 1 - 1 8 9 6

.

1 6 5 - 1 3 5 5 — 1 8 , 2 — 3 . 6 — 4 , 0

Fortissimo aum .. . 1 8 9 6 - 1 9 1 3 1 3 5 - 6 5 8 1 7 + 3 8 7 . 4 + 2 2 , 8 + 9 , 8

Guerra mondiale.. 1 9 1 3 - 1 9 1 8 6 5 8 - 6 6 1 5 + 0 , 5 + 0 , 1 + 0 , 1

Forte aumento . . . 1 9 1 8 - 1 9 2 9 6 6 1 - 1 0 9 5 I I + 6 5 , 7 + 6 , o + 4 . 7

Crisi......................... 1 9 2 9 - 1 9 3 5 1 0 9 5 - 7 1 7 6 — 3 4 .5 — 5.8 — 6 , 8

Fortiss. aumento 1 9 3 5 - 1 9 3 8 7 1 7 - I I O O 3 + 5 3 . 4 + 1 7 . 8 + 1 5 . 3

I n t e r o p e r i o d o . 1 8 8 1 - 1 9 3 8 I O O - I I O O 5 7 + 1 0 0 0 + 1 7 . 5 + 4 , 4

Nota — Dal .1881 al 1914 l’incremento medio annuo percentuale, secondo i nostri indici, risulta del 15.%. con la media aritmetica; del 5,5 % con la media geometrica, che naturalmente è più rispondente allo scopo.

Questi valori sono molto più alti di quelli trovati da G. D e m a r ia , che per il periodo 1870-1914 indica un aumento medio annuo dei 2-2,50% (Giornale degli Economisti, settembre-ottobre 1941). Nè il forte diva­rio' può riferirsi al decennio 1870-1880 compreso nel calcolò di De m a ria ed escluso'nel ftostro, giacché anche in tale- periodo l ’aumento della produzione industriale è. stato, asaài sensibile.

Anche i calcoli di Paretti e Bloch20, che rilevano il peso della produ­zione industriale italiana sul totale dei paesi dell’Europa occidentale, ripor­tano una stima analoga: questa sarebbe stata del 5,6% nel 1901, del

19 Fonte: RAC, Industria, voi. 2, p. 52.20 V. Paretti - G. Bloch, La production industrielle en Europe Occidentale et auxÉtats-Unis de 1901 à 1955, in Moneta e Credito, 1956, n. 36.

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6,7% nel 1913, dell’8,2% nel 1929, del 6,7% nel 1931 e dell’8,0% nel 1937.

Ciò obbliga a riflettere sul fatto che, sia pure con peculiarità locali e settoriali assai diverse dall’uno all’altro paese capitalistico, il cosiddetto « sviluppo economico » italiano, l’espansione delle sue forze produttive ha avuto un andamento ciclico che ha riflesso l’andamento ciclico del mercato capitalistico internazionale.

Prendere atto della relativa stasi italiana successiva al 1929 comporta, in primo luogo, l’imbarazzante rilievo che il fascismo 1922-29 è stato invece uno dei periodi d’oro per il cosiddetto « sviluppo economico » — il che dimostrerebbe che non è possibile identificare il ristagno con la politica fascista, e che l’espansione delle forze produttive non è necessariamente antitetica agli interessi dei monopoli; e che può realizzarsi contempora­neamente alla compressione dei salari.

In secondo luogo, prendendo atto di una consistente ripresa dopo il 1934-35 bisogna vedere a quale tipo di sviluppo questa ripresa è stata condizionata, cioè in che modo la preparazione alla guerra è stata l’unico sbocco dinamico possibile.

Isolare il r is ta g n o italiano dopo il 1929 senza vedere quello interna­zionale, comune a tutti i paesi capitalistici, fascisti e non, significa separare gli squilibri e le storture del r ita rd a to capitalismo italiano dagli squilibri e le storture del capitalismo in generale; vedere le « tare di origine » del ritardato capitalismo italiano e non le contraddizioni del sistema capi­talistico; considerare il r is ta g n o una sorta di negazione o assenza di s v i ­lu p p o e c o n o m ic o , e non una tendenza fondamentale dello s v i lu p p o e c o n o ­m ic o ca p ita lis tico .

Dopo la crisi del ’29 e dopo la seconda guerra mondiale la nozione che senza un adeguato volume di spesa pubblica vi sia tendenza al ristagno è diventata una sorta di scienza positiva e riformatrice interna all’e s ta b lis h m e n t; ciò che invece non è assorbibile dal sistema e resta una formulazione comunque antagonista ed eversiva è la nozione della con­traddizione fondamentale che è alla radice di quel ristagno; e, di conse­guenza, l’analisi del tipo particolare di « spesa pubblica » (armamenti, guerre imperialiste) che è la scelta obbligata della « pianificazione » dei monopoli.

Nel caso del fascismo italiano, non è difficile dimostrare che solo una politica di preparazione alla guerra, come fu intrapresa dopo il 1934, poteva dare ossigeno alle imprese, data la chiusura dei mercati interna­zionali e l’asfissia del mercato interno. Resta da vedere se gli sviluppi più violentemente aggressivi ed imperialisti degli stati fascisti non sono stati in verità risposte capitalistiche al ristagno capitalistico: in talcaso la questione del fascismo non è affatto chiusa con la liquidazione ■dei regimi politici di Mussolini e Hitler; e l’avvenuto « sviluppo econo-

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mico », col « miracolo italiano » del secondo dopoguerra non può essere visto come il contrario del « ristagno ».

L a d in a m ic a d e l « r is ta g n o »: C. C la r k e i l ib e r is t i

Si è visto come non sia possibile negare che, in rapporto alla rapida crescita numerica della popolazione, alla necessità di razionalizzare e spo­polare la campagna, il periodo fascista sia empiricamente classificabile come periodo di ristagno, almeno in confronto al periodo giolittiano e al secondo dopoguerra. Resta però importante considerare la dina­mica dell’organizzazione capitalistica all’interno di quel ristagno, per giu­dicare insieme — nello specifico caso italiano — le contraddizioni che portarono al ristagno mondiale, e i mutamenti qualitativi che, attraverso un più stretto rapporto tra capitale privato e Stato, si sono potuti attuare.

L’argomento principe dei liberisti, per descrivere lo scarso incremento del reddito industriale italiano negli anni della crisi, è quello svolto negli studi di Colin Clark, e ripreso in una parte della R e la z io n e a lla C o s t i ­t u e n t e 21. Di fatto l’Italia, da questo punto di vista, si è trovata in coda a una classifica che comprendeva quasi tutti i paesi industriali, tra cui Grecia, Lettonia, Finlandia, Estonia, Svezia, Cile, Bulgaria, Ungheria, Danimarca, Romania, Norvegia, Inghilterra, Germania. Molte di queste nazioni si trovavano, come l’Italia, al limite inferiore della categoria media dei paesi industriali per quanto riguarda il reddito medio per lavoratore occupato; eppure riuscirono ad avere un incremento del reddito indu­striale relativamente superiore.

Secondo il Clark, e secondo quanto avevano detto i liberisti durante il periodo fascista, l’Italia, paese povero di materie prime e ricco di mano­dopera, dovrebbe sempre osservare il principio fondamentale che un largo commercio estero aiuta potentemente lo sviluppo del reddito nazionale; questo principio sarebbe stato calpestato dal regime fascista per motivi di ordine politico-militare. Sempre secondo il Clark, la storia economica recente dimostrerebbe che esiste un rapporto diretto tra sviluppo del reddito pro-capite e intensità del commercio estero pro-capite; i paesi che hanno mantenuto un elevato commercio estero hanno anche avuto un più marcato sviluppo dei redditi e viceversa. Inoltre sarebbe statistica- mente rilevabile che i paesi che hanno una più bassa percentuale di addetti all’agricoltura sono i più ricchi22. Sulla base di queste considerazioni la

21 RAC, Industria, voi. 2 , n. 33.22 Gli argomenti del Clark, che vedono nello sviluppo del commercio estero e nel ridotto ruolo dell’agricoltura la causa dello sviluppo economico, rappresentano una sorta di apologetica teorizzazione della validità generale dell’esempio dell’Inghilterra —- abbastanza anacronistica nell’età delle guerre mondiali e dei cartelli internazionali. Il suo posto è stato preso in anni più recenti dalla teoria degli « stadi di sviluppo » del Rostow, nella quale, con procedura non meno apologetica e destorificata, il ruolo di paese-modello e guida passa agli Stati Uniti.

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La « restaurazione antifascista liberista 61

R e la z io n e a lla C o s t i tu e n te indicava, nel 1946, la strada di un più intenso commercio estero e incoraggiamento all’esportazione, di una trasforma­zione del paese in senso industriale-agrario, ricorrendo anche all’emigra­zione per la manodopera « in eccesso », allo scopo di elevare il reddito industriale e assorbire la disoccupazione.

Di fatto, nel secondo dopoguerra tutte queste circostanze si sono veri­ficate: incremento del commercio estero, trasformazione del paese in senso industriale-agrario, e conseguente sfollamento delle campagne, emigrazione.

Ciò rappresenta la base di fatto su cui si è fondata l’ideologia ufficiale dell 'e s ta b l i s h m e n t capitalistico del secondo dopoguerra, un’ideologia libe­rista antifascista, che vede nel regime una cattiva gestione dello « sviluppo economico »: il fascismo avrebbe distorto verso l’industria pesante e le avventure belliche il pubblico denaro, e soffocato l’industria leggera espor­tatrice (che avrebbe potuto, a parità di investimenti, assorbire più mano­dopera). Nelle sue versioni più conservatrici questo tipo di considerazioni non lesina riconoscimenti ai meriti del fascismo « liberista » n e l c a m p o d e l l ’e c o n o m ia 23 ; nelle sue versioni più radicali, quelle dell’antifàscismo democratico, ha insistito sulla rapina del risparmio privato, sui tratta­menti di favore e le sovvenzioni che lo stato ha accordato ad alcune baronie industriali; dopo di che, come nel brano già citato di Ernesto Rossi, le poche opere pubbliche « buone » erano soltanto da paragonare alle cure che il pastore dedica alle pecore prima di mandarle al macello.

Va obiettato, a queste considerazioni, che lo scarso commercio estero, la scarsa emigrazione non sono stati effetto di scelte politico-militari, ma che è piuttosto vero il contrario: durante la crisi i mercati stranieri si sono chiusi alle merci e alla manodopera italiana e, nell’impossibilità di ampliare il mercato interno, tendenzialmente ancora più asfittico perché10 stato italiano era fascista, il capitalismo italiano, sorretto dalle sovven­zioni statali, si è volto verso l’industria di base, secondo una linea già avviata dopo la « quota novanta ». I paesi citati dal Clark, che hanno mantenuto una più intensa corrente di commercio estero, avevano — come la Francia e l’Inghilterra — un mercato e un rifornimento di materie 23

23 E’ il caso di segnalare che Le Monde il 18 giugno 1971 ha pubblicato un articolo di André Fontaine intitolato L’ombre du fascisme nel quale l’autore, sostituendosi all’apprezzato (e colto) corrispondente da Roma, commenta il recente successo eletto­rale del MSI ricordando come questo si rifaccia non al fascismo degli ultimi anni, viziato dall’aberrazione fatale di Mussolini che ebbe la cattiva idea di legarsi a Hitler, ma al primo fascismo, quello che aveva come scopo lo sviluppo e la grandezza della nazione, che prosciugò la paludi pontine, fece le autostrade, assicurò spettacolari pro­gressi materiali all’Italia. Al quadro non manca niente: il passato socialista del duce,11 fascio, simbolo di un’unità diversificata, ecc. A sostegno del discorso, la citazione di alcune frasi dell’ultimo libro di Ernest Nolte, dalle quali si apprende che il primo fascismo realizzò le speranze e dei liberali e dei conservatori: scioperi che cessarono come per incanto, treni che si rimisero a funzionare in orario, burocrati pigri che diventarono alacri e zelanti, sotto gli occhi del loro dinamico capo...

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prime garantiti dall’esistenza di una rete di potere coloniale, che mancava invece all’Italia, alla Germania e al Giappone 24. Non si può spiegare il migliore livello di industrializzazione dell’Inghilterra, Francia, Nuova Zelanda ecc. con il loro più intenso commercio estero in quegli anni, ma bisogna trovare una spiegazione per ambedue le cose, considerandole e f f e t t i della loro migliore posizione nel mercato imperialistico mondiale.

Resta da spiegare come la crisi mondiale si sia abbattuta anche su di loro, portando in tutti i paesi a risposte di tipo consortilistico e prote­zionistico; tanto è vero che la diminuita corrente italiana di scambi con l’estero è stata più o meno equivalente alla relativa diminuzione del com­mercio estero mondiale25.

L a d in a m ic a d e l « r is ta g n o » i ta l ia n o : P . S a ra cen o

Il punto di vista liberista, che tende a isolare il discorso sul ristagno italiano dal discorso sul ristagno mondiale, è rimasto per molti anni quasi unanime presso le formazioni politiche eredi della resistenza. Nel 1952 in campo antifascista si è levata una voce diversa, che riprende, per un programma politico immediato di governo, i temi delle indagini di Gri­fone e Morandi.

Nel libro L o s v i lu p p o e c o n o m ic o d e i p a e s i s o v r a p o p o la ti (Milano, 1952) P. Saraceno parlava con decisione e senza false reticenze del ruolo propulsivo che salvataggi e interventi di stato nel periodo fascista avevano avuto per lo sviluppo industriale italiano.

I dati da cui egli traeva tali conclusioni, compilati da esperti di sicura fede antifascista (principalmente, le indagini della R e la z io n e a lla C o s ti­tu e n te , alle quali aveva egli stesso partecipato), erano già noti da tempo.

Con la costituzione dell’IRI, egli osservava, si era posto fine ai sal­vataggi caotici e sottobanco, cioè a una politica di « spesa pubblica » fatta a insaputa dello stato per iniziativa dei dirigenti delle grandi banche (situazione che risaliva già alla prima guerra mondiale). Il nodo banca- borsa-industria, che già all’avvento del fascismo presentava una prevalenza

24 II libro di Charles Bettelheim , L'économie allemande sous le nazisme (Paris, Maspero, 1970, I ed. 1945) non esordisce descrivendo il ruolo degli Junker, la posizione della piccola borghesia, il potere dell’esercito, ecc. ma esaminando la dinamica del­l’economia tedesca nel mercato mondiale, le sue difficoltà di inserirsi in esso, fino alla guerra mondiale e alle vicende del dopoguerra, mettendo al centro del discorso la crisi economica e l’impossibilità, per quelle strutture, di espandersi sufficientemente nel mercato mondiale e di assorbire la disoccupazione se non facendo ricorso alla guerra. Le origini del nazismo non sono viste tanto nelle peculiarità della storia tedesca, quanto nelle peculiarità tedesche dell’imperialismo mondiale. A parte alcuni aspetti dell’opera che mostrano il segno degli anni, il tipo di discorso che essa affronta è quello che oggi sembra più attuale. Per gli stessi motivi, è fondamentale l’opera di J. Lador- Lederer, Capitalismo mondiale e cartelli tedeschi tra le due guerre, Torino, 1958.25 Cfr. Società delle nazioni, Industrialisation et commerce extérieur, Genève, 1945.

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La « restaurazione antifascista liberista 63

del capitale industriale su quello finanziario, aveva anticipato una politica di investimenti statali nell’industria, spingendo a quel volume di investi­menti che un paese sovrappopolato richiede. La politica di potenza aveva avuto quindi un ruolo positivo, agendo come forza estranea all’iniziativa privata che allargasse il volume degli investimenti. Certo, essa aveva compresso i consumi e — con la guerra — condotto il paese alla rovina; ma aveva dato come positivo sottoprodotto una spinta all’allargamento della produzione e un alleviamento della disoccupazione; inoltre, data la forma politica dello Stato fascista, tutto ciò era avvenuto col denaro dei contribuenti o dei risparmiatori privati, senza controlli e senza utili, a favore di gruppi privati. Le considerazioni del Saraceno, dopo aver messo in luce che le fo r z e e s tra n e e a ll’in iz ia t iv a p r iv a ta che pur avevano in qualche misura risollevato reddito e occupazione erano state, nel periodo fascista, in diretta identità con gli interessi del capitale finanziario e della politica di potenza, indicavano allo stato italiano non più fascista il com­pito di porre l’aumento del reddito e dell’occupazione come obiettivo principale, eliminando la politica bellicista. Inoltre un indirizzo del credito ordinario mirante a risollevare le piccole imprese avrebbe potuto ottenere risultati più « democratici », non devolvendo gli investimenti di stato esclusivamente, come allora, a favore dei grandi monopoli26.

Risultava nuovo, rispetto ai giudizi correnti presso le forze antifa­sciste27, il principio che la politica di concentrazione industriale e finan­ziaria e i salvataggi di stato non erano stati soltanto rapina di denaro dei contribuenti e dei risparmiatori privati, ma avevano operato come con­trotendenza a un grave ristagno, assicurando gli strumenti per intervenire in seguito. Accanto al merito di collocare il ristagno d e n tr o e non fu o r i lo sviluppo economico capitalistico sussisteva l’ambigua definizione di popolazione « in eccesso » in generale, e non relativamente a quel tipo di « sviluppo economico ». Così, nelle ipotesi del Saraceno, le peculiari forme di investimenti statali che nel periodo fascista erano state preva­lentemente orientate verso una politica di guerra potevano essere invece dirottate verso scopi pacifici, di assorbimento della disoccupazione e aumento dei consumi privati; ma senza domandarsi se, a livello mondiale, non si ponesse di nuovo la coincidenza tra in te r v e n to d e llo S ta to e spese belliche. Per il Saraceno, la parentesi imperialista era ormai finita, non solo per l’avvenuto mutamento delle strutture politiche interne, ma

26 I programmi neokeynesiani del Saraceno, insieme alle formulazioni del Lombardini, rappresentarono le premesse dello schema Vanoni (1954) e furono accolte dopo il 1960 nelle risoluzioni ufficiali dei convegni di S. Pellegrino Terme della DC, sosti­tuendosi a più fumose ideologie cattoliche socialeggianti (cfr. Di Toro-Illuminati, Prima e dopo il centrosinistra, Roma, 1970).27 Cfr., in Fascismo e Antifascismo, cit., i giudizi negativi sulle ipotesi del Saraceno espressi da F. Grassini nella relazione Alcune linee della politica industriale fascista,p. 286.

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64 Ester Fano Damasceni

anche perchè l’Italia si trovava ormai in una favorevole situazione inter­nazionale e poteva reperire capitali che nel ’30 e ’40 non c’erano stati.

Secondo questa logica, i capitali che nel ’30 e ’40 non c’erano, la favo­revole situazione internazionale, la possibilità di puntare sull’esporta­zione, gli orientamenti prevalentemente liberisti all’interno dell’area in cui l’Italia si è trovata inserita, rimangono fatti esterni, di tipo metero- logico, dei quali si può soltanto registrare la presenza o l’assenza; lo sviluppo nel periodo di ristagno degli anni trenta e lo sviluppo nel boom del secondo dopoguerra vengono separati strutturalmente dalla questione dello sviluppo capitalistico mondiale.

4. I mutamenti qualitativi degli anni Trenta: documentazione

È importante, si è detto, considerare i mutamenti qualitativi (defini­tivo predominio dell’industria sulla banca, salvataggi e poi creazione di una industria di stato; e su questi temi le analisi di Grifone sono sempre preziose) più importanti dei dati quantitativi veri e propri, rilevanti prima del 1930 ma relativamente modesti — in media — tra il 1930 e il 1940. Tali mutamenti appaiono abbastanza evidenti nella documen­tazione statistica.

Si veda ad esempio, nella pagina a fronte, questo confronto tra il 1927 e il 1939 nella tabella « Alcune classi d’industria nel 1937-39 e nel 1927 » 28 29.

Da questi dati risulta la crescita di importanza delle industrie me­tallurgiche, meccaniche e chimiche, che partecipano per oltre il 65% all’incremento della forza motrice e del numero degli addetti; si ha un certo processo di meccanizzazione (aumenta il numero di CV per ad­detto). Oltre il 50% dei nuovi posti di lavoro è presso esercizi molto grandi, con oltre 1000 addetti. Ciò corrisponde a un notevole sposta­mento della produzione dai beni di consumo ai beni strumentali:

tabella 7 29

industrie producenti cifre assolute percentuali numeri indici

1927 1937-39 1927 1937-39 (1927 = 100)Beni di produzione 1.377.631 2.078.849 40,9 48,6 150,9Beni di consumo 1.991.362 2.194.681 59,1 51,4 1 1 0 ,2

Totale 3.368.993 4.273.530 1 0 0 ,0 1 0 0 ,0 126,8

La perdita di importanza degli esercizi molto piccoli e il peso pro-

28 Fonte: RAC, Industria, vol. 1, p. 256.29 RAC, Industria, vol. 1, p. 260.

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gressivamente crescente degli esercizi con oltre 1000 addetti erano re­lativi a un insieme, quello italiano, ancora molto indietro rispetto alla Inghilterra o alla Germania, che avevano un coefficiente di meccanizza-

tabella 6

Alcune classi d'industria nel 19 3 7 -3 9 e nel 19 2 7

CLASSI D I IN D U STRIA E serc iz i A ddetti CVA ddetti p iù CV

!

1CV p é r ad d e tto

I 2 ' 3 4 5 1 6

E stra ttiv e . . ( 1937-39 ...... ..( 1927 ...............................

h 5 0 6 1 3 6 .0 1 2

9 8 . 7 7 8

2 7 3 .2 8 7

2 8 6 .1 1 5

8 7 9 .0 4 9

197-175 1 4 6 .2 2 8

2 0 8 . 9 2 6

147-733 1 .9 1 0 . 0 4 5

1 .0 5 0 . 9 7 8

3 8 5 - 8 3 5

3 3 3 - 1 8 7 1 . 4

1 . 50 , 8Legno ........... IQ ^ 7~ 3Q ....................... 1 1 8 .4 4 0 4 8 2 , 2 1 3

4 3 3 - 8 4 8

2 . 7 8 9 . 0 9 4

1 - 6 5 2 . 3 9 3

5 9 0 - 7 6 5

/ TQ27 ...............................

Metallurgiche ! 1 9 3 7 - 3 9 ....................... I Q I .Ó 0 3

8 2 .8 0 7

1 9 .4 1 71 7 .4 0 1

6 4 .4 0 6

3 8 - 5 3 87 .9 0 1

5-1553 . 8 8 8

2 . 2 6 7

1 0 .2 7 1

8 . 0 0 2

°> 5

é meccanichè-1 1 0 2 7 ...............................

M inerali non m etallici

1 9 3 7 - 3 9 .......................I Q 27 . . ..........................

2 0 4 .9 3 0

1 7 1 .9 2 2

5 7 1 - 4 2 433r "3861 4 3 .4 6 9

99-5496 2 .6 2 1

45-7496 7 . 0 7 7

57-5085 0 .6 9 3

53-3735 2 6 .2 0 8

6 4 2 .6 5 4

/i ,9

Edilizie -----

Chim iche.;...

' 1 9 3 7 - 3 9 ................1 9 2 7 ...............................

1 9 3 7 - 3 9 .......................IQ 2 7 ...............................

1 5 9 - 6 9 59 2 . 8 6 0

5 4 2 .6 0 9

2 6 7 .4 7 0

2 1 9 .7 0 1

1 2 4 .7 0 3

4 6 . 5 0 4

2 3 - 6 3 9

7 3 1 - 1 1 94 2 4 . 2 4 6

6 8 6 .0 7 8

3 6 7 .0 1 9

2 8 2 .3 2 2

1 7 0 .4 5 2

1 1 3 .5 8 1

.8 1 .1 4 71 1 2 .7 3 6

9 8 .7 1 2

1 . 2 9 6 . 7 1 6

1 .2 8 2 . 9 3 0

1. 4

0 . 3

0 . 33 , 8

2 . 73 . 5

2 . 7C a r ta ............ 1 9 3 7 - 3 9 ........................

Poligrafiche .

Cuoio e pelli 7^584 7 - 95°

1 8 ,6 3 5 1 0 .4 0 6

45-3397 7 0 .5 0 8

6 4 0 . 2 7 6

0 , 8

1 . 51 , 0

<Tessili --------

3 6 3 0 5 1 2 8 0 .6 6 5

2 . 9 1 4 . 7 7 0

2 . 3 8 8 . 4 4 9

4 . 5 0 3 . 0 4 1

2 . 7 7 8 . 4 9 8

7 . 4 1 7 . 8 1 1

5 . 1 6 6 . 9 4 7 1 . 16T o t a l e . . .1 1 9 2 7 • • • • • • - ........

129,4 IO O , 0

1 2 2 , O 1 6 2 ,1 1 4 3 . 6IO O , 0

1 3 2 , 7IO O , 0N um eri indici. IOO. O IOO, 0

zione notevolmente più alto. In Italia i bassi salari e il costo relativa­mente elevato della forza motrice rallentavano questo processo. Mentre negli USA solo il 3% degli esercizi non usava forza motrice, in Italia quasi il 50% degli esercizi, col 14% degli addetti, era in queste con­dizioni. Ma ciò che conta è vedere come dopo il 1927 l’industria di base, con esercizi molto grandi, abbia un deciso incremento30.

30 Cfr. G iorgio Mori, Per una storia dell’industria italiana sotto il fascismo, in

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66 Ester Fano Damascelli

La crescita dell’industria di base

L’insieme dell’industria si configurava ancora, nel 1937-39, come una somma di poche industrie grandi e efficienti, un numero non vastis­simo di industrie medie — ambedue in crescita — e un enorme numero di esercizi minuscoli in progressivo declino31.

Un dato, però, sembra molto significativo: un confronto eseguito con l’Inghilterra del 1930, la Germania del 1925, e gli USA rilevava sì le molto più modeste dimensioni dell’industria italiana rispetto ai tre paesi ma metteva in luce come le industrie metallurgiche, meccaniche e chimiche occupassero in Italia, rispetto agli altri rami di industria, un posto di eguale o maggiore importanza rispetto alla analoga posizione delle stesse industrie nei tre rispettivi paesi32.

La relativa crescita dell’industria di base non è scindibile natural­mente dalle circostanze politiche in cui si è attuata; ben prima dell’av­vento del fascismo essa è stata il momento di saldatura tra i monopoli e lo stato; dopo la « quota novanta » è avviato il suo netto predo­minio relativo, che informerà di sé sia le direttive statali in senso pro­tezionistico, sia la promozione di concentrazioni e consorzi obbligatori, sia il tentativo di creare un mercato interno (concimi chimici, cementi, macchine: bonifica, battaglia del grano); e dopo il 1934 l’avvio alla guerra 33.

Il fatto che gli USA abbiano, con il New Deal, puntato anche su un impulso all’industria leggera, legata al mercato interno, ha la sua spiegazione nella differenza tra la politica sindacale di Roosevelt e i metodi « corporativi » di Mussolini. Non c’è dubbio, e per questo il libro di Grifone resta una guida preziosa, che anche se in Italia la ac­centuata concentrazione monopolistica ha saputo manovrare gli stru­menti dell’intervento di stato in maniera assai « moderna » (con la crea­zione coatta di un mercato interno (bonifiche, autarchia), con la concen­trazione finanziaria che era anche un incentivo alla concentrazione tec-

Studi storici, 1971, n. 1 , pp. 1-35, con pertinenti osservazioni circa lo stato della documentazione e dei censimenti industriali, e circa la difficoltà di condurre indagini sulla qualità dello sviluppo industriale nel periodo fascista.31 RAC, Industria, vol. 1, p. 263.32 RAC, Industria, vol. 1, p. 239.33 Roland Sarti, in Mussolini and the Italian Industrial Leadership in the Battle of the Lira, in Fast & Present, March 1970, pp. 97-112, analizza acutamente le divisioni interne al padronato per quanto riguarda l’alternativa tra semplice stabilizzazione (voluta da tutti) e rivalutazione (invisa all’industria esportatrice, e voluta da Mussolini anche per motivi di prestigio politico). Dopo che la seconda scelta ebbe la prevalenza, l’industria pesante ne approfittò per volgere a proprio favore la situazione, ottenendo le riduzioni di salario, i consorzi obbligatori e la promozione del mercato interno; oltre ad essere favorita nell’importazione di materie prime e a mantenere alti i prezzi. L’industria leggera esportatrice ricevette invece un grave colpo, e manifestò notevoli fermenti antifascisti.

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nica e al diffondersi delle economie di scala), la struttura sociale che lo stesso stato fascista provvedeva a perpetuare costituiva un ostacolo grave alla realizzazione di quei progetti: si potevano inondare di costosi con­cimi chimici nazionali le aziende agrarie capitalistiche della Valle Padana, ma non le minuscole aziende contadine a profitto zero; si poteva pre­vedere la bonifica come creazione di una rete di poderi familiari, politi­camente sicuri, ma non si poteva trovare un mercato per le eventuali produzioni agricole pregiate34; se i consumi alimentari privati subirono il calo che sappiamo, non si può facilmente immaginare la creazione di un vasto mercato interno per beni di consumo.

Il ruolo della rendita

Dal 1910 al 1942 le società industriali in Italia hanno avuto un incremento di gran lunga maggiore (157 volte) delle società immobiliari (26 volte) o commerciali e bancarie (11 e 9 volte). Alla fine della seconda guerra mondiale le società industriali possedevano il 70% del capitale sociale delle società per azioni. Quasi il 60% del capitale azio­nario investito nelle industrie era detenuto dalle industrie elettriche, me­tallurgiche, meccaniche, chimiche e tessili — prevalentemente di dimen­sioni grandi o gigantesche. Se si considera che l’incremento del capitale sociale delle società per azioni in Italia dal 1881 alla seconda guerra mondiale è stato calcolato come circa doppio dell’incremento della ric­chezza e del reddito 3S, si capisce in che maniera la rendita fondiaria sia stata incoraggiata a convertirsi in capitale finanziario, piuttosto che in investimenti agricoli; e in che maniera la rapina del risparmio privato, attuata dai monopoli attraverso lo stato nelle maniere che il Grifone ci ha descritto, presupponesse l’incoraggiamento a quel risparmio, attra­verso la difesa della rendita a tutti i livelli, anche microscopici.

Gli elementi di forza del capitalismo di stato

In conclusione: la crescita delle industrie di base in Italia in tutto il ventennio, stimolata dalla « spesa pubblica » delle commesse di stato e assicurata dai « salvataggi » attuata a costo dei consumi e dei redditi, sovvenzionata col pubblico denaro, è sfociata nella guerra; ma non è andata distrutta dalla guerra.

C’è da domandarsi se questa alta importanza relativa dell’industria

34 II che non mancava di trovare legittimazioni ideologiche da parte degli intellet­tuali fascisti: cfr. la lettera di Camillo Pellizzi alla rivista II Selvaggio del 31 ottobre 1931, nella quale si sosteneva la necessità di « una economia antieconomica, perché se ogni nazione avesse avuto un piano quinquennale si affogherebbe nella sovraprodu- zione ». Cfr. anche C. Pellizzi, Una rivoluzione mancata, Milano, 1948.35 RAC, Industria, vol. 1, p. 336.

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di base, insieme alle possibilità di controllo degli investimenti da parte dello stato, e — felix culpa — i salari di fame non siano stati un ele­mento di forza nel secondo dopoguerra36.

Le manovre dello stato hanno fatto sì che tra il 1927 e il 1938 aumentasse relativamente la percentuale di prodotti finiti esportati e le importazioni si configurassero prevalentemente come importazioni di materie prime industriali; il che può essere interpretato come un elemento di forza.

Gli investimenti netti delle società per azioni tra il 1925 e il 1930 furono di circa 16 miliardi di lire, con una media annua di 2 miliardi e 600 milioni, essendo l’indice medio dei prezzi all’ingrosso di circa 97. Nel periodo 1931-35 si ebbe, invece, un totale disinvestimento netto di oltre 7 miliardi di lire. Nel 1936-39 gli investimenti netti ripresero a salire ad un complesso di 13 miliardi e 172 milioni di lire con una media annua, per i quattro anni, di 3 miliardi di lire, essendo i prezzi all’ingrosso a un indice medio di circa 83 37.

Questa ripresa degli investimenti azionari dopo la crisi avviene, come ci spiega il Grifone, con nuove garanzie organizzative grazie alla isti­tuzione dell’IRI e alla riforma bancaria; gli investimenti privati vengono così distolti dagli impieghi speculativi intorno alle banche, e avviati verso l’esercizio delle grandi imprese industriali ben più remunerative38.

Il credito a sua volta viene controllato dallo stato e svolge soltanto un lavoro di ordinaria amministrazione, utilissimo e indispensabile ai fini del buon andamento generale del sistema, ma non più apportatore di grossi dividendi: l’apparato creditizio viene tenuto separato da quello produttivo al fine di servirlo meglio.

Questa razionalizzazione del capitale sociale ha fatto sì che sotto la

36 per cu; q prop Valletta affermava nel 1946 che l’Italia del nord poteva essere il « granaio meccanico » dell’Europa. Cfr. RAC, Industria, Appendice - Interrogatori, p. 348. Circa il ruolo positivo delle imprese pubbliche, cfr. M. V. P osner - S. J. W oolf, L’impresa pubblica nell’esperienza italiana, Torino, 1967.37 RAC, Industria, vol. 1, p. 19.38 Intorno a ciò si imbastiva la retorica fascista dei « frutti del lavoro » contrap­posti alla « speculazione », del « capitale produttivo » contrapposto alla « plutocrazia ».

In Inghilterra, il fascismo di Mosley seguì linee abbastanza analoghe, ma con contenuti molto meno reazionari: rifacendosi ai primi anni in cui, insieme a John Strachey, aveva promosso un movimento laburista di sinistra che, contro gli interessi della City, promuovesse l’inflazione per assorbire la disoccupazione, Mosley chiedeva che fossero scoraggiate le esportazioni di capitali verso le colonie, per assorbire la disoccupazione all’interno del paese. Se il fascismo italiano ha dato una copertura statale sufficiente a rendere gli impieghi industriali più remunerativi di quelli specu­lativi di Borsa, ciò non è stato dovuto a una recrudescenza di « diciannovismo », come ha supposto lo storico inglese Woolf (S.J. W oolf, Did a Fascist Economie System exist?, in The Nature of Fascism, London, 1970) ma alla struttura dell’impero britannico (quello, sì, stagnante) che certe operazioni speculative consentiva, e che agli italiani non erano possibili. Sulle forme e varianti deH’imperialismo, cfr. G iam­piero Carocci, Contributo alla discussione sull’imperialismo, in II movimento di liberazione in Italia, gennaio-marzo 1971, n. 102.

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protezione dello stato si sviluppasse, pur con le contraddizioni che sappiamo, una borghesia imprenditrice e non compradora, anche se impastata di parassitismo economico e sociale. Anche questo può essere stato un elemento di forza nel secondo dopoguerra.

A questi dati, di forza potenziale che ha potuto dare i suoi frutti quando si è aperto un mercato alle esportazioni italiane, si riferiscono i neo-estimatori della funzione « moderna » e progressiva del fascismo39 ; i quali, dando come verità eterna il principio che lo sviluppo economico è accumulazione capitalistica, possono tutto sommato sostenere che il fascismo ha favorito il progredire di questa considerando che la rendita parassitarla ha dato un suo contributo attraverso il capitale finanziario e che, in anni di crisi, l’accumulazione capitalistica si misura attraverso la capacità di razionalizzazione e concentrazione e non in semplice cre­scita delle forze produttive. Il problema è, naturalmente, non soltanto di vedere in quali forme reazionarie questa presunta « modernizzazione » è stata portata avanti, ma quanto la sua intrinseca contraddizione tra sviluppo dei « poli » e sottosviluppo delle economie esterne, tra crescita delle forze produttive e finalizzazione al profitto sia un fatto strutturale nel « malthusiano » fascismo e nel « keynesiano » New Deal40. Dopo di che, lo « sviluppo » del secondo dopoguerra non risulta più un approdo definitivo del capitalismo e della scienza sociale, ma si vede a quali sbocchi imperialistici sia condizionato, e quale ristagno questi nascondano.

Il fallimento della guerra fascista

L’argomento che viene generalmente opposto agli estimatori della « razionalizzazione » fascista è quello della disastrosa debolezza dell’ap­parato produttivo italiano nella seconda guerra mondiale, mentre nella prima guerra mondiale il movimento di capitalizzazione dell’industria privata ebbe un certo movimento anche negli anni di guerra41. Si tratta di un argomento che non può essere esaurito con semplici considerazioni eco­nomiche; intanto bisogna valutare lo sviluppo assoluto relativamente

39 E cioè, principalmente, R. Bendix, Stato nazionale e integrazione di classe, Bari, 1969, A. F. K. O rganski, Le forme dello sviluppo politico, Bari, 1970, Ludovico Garruccio, L’industrializzazione tra nazionalismo e rivoluzione, Bologna, 1969; G ino G ermani, Sociologia della modernizzazione, Bari, 1970; C. Black, La dinamica della modernizzazione, Milano, 1971. Fascismo e nazismo trovano posto tra gli «stadi» necessari per raggiungere un sufficiente grado di « modernizzazione », raggiunto il quale si è « maturi » e quindi anche « democratici » (come i più « moderni » di tutti, gli USA); oppure, con una brutalità che non dispiace, il nazismo, ovviamente più « industriale » e quindi « moderno » del fascismo italiano, è già una forma di « integrazione » delle masse, una « società del benessere ».40 Cfr. Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico, Torino, 1966, cap. 8 e Sweezy, Stagnazione dell’economia e stagnazione della scienza economica, in Monthly Review, ed. italiana, maggio 1971, con il calcolo della disoccupazione effettiva, sottratti i posti di lavoro legati alla politica di guerra.41 RAC, Industria, vol. 1, p. 19.

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molto basso dell’apparato produttivo italiano, la mancanza di materie prime e l’immanità del conflitto; e poi forse bisognerebbe introdurre considerazioni di tipo diverso; di fatto, il grosso della produzione e sperimentazione bellica è stato smistato verso le imprese IRI, proprio quelle che hanno subito i più gravi bombardamenti42; alla fine della guerra la maggior parte dell’industria utilizzabile per fini « di pace » era in piedi, anche l’industria di base. È possibile che gli industriali italiani non abbiano mai avuto dubbi « democratici » e antifascisti prima del 1943? Bisognerebbe saperne di più. Comunque ciò che conta per valutare la « modernizzazione » del fascismo sono i dati strutturali che erano ancora operanti alla fine della guerra: importanza relativa del­l’industria di base, pronta a essere volta a produzioni di pace, organiz­zazione statale del credito, partecipazioni statali nell’industria, abbon­danza di manodopera a buon mercato; a cui si sono aggiunti i « capitali che nel ’30 e ’40 non c’erano » di cui parlava il Saraceno, e la possi­bilità di inserirsi nel mercato capitalistico internazionale, come allora non si era potuto.

La restaurazione antifascista liberista

I dati che abbiamo visto portano a credere che i mutamenti organizza­tivi e qualitativi del capitalismo italiano nel periodo fascista abbiano posto le basi per il « miracolo » successivo. Anche se le forme cultural­mente arretrate e socialmente reazionarie in cui queste novità organizza­tive si sono realizzate possono far pensare il contrario, la debolezza del « ritardato » capitalismo italiano e tedesco ha anticipato forme di com­penetrazione del capitalismo privato con lo stato, e forme di neo-impe­rialismo che il capitalismo delle «Grandi democrazie» (Inghilterra, USA, Francia) ha praticato dopo.

Recentemente Sweezy e Magdoff, in occasione di un salvataggio della Chrysler Corp. da parte delle banche, effettuato per evitare una serie di fallimenti a catena, e al conseguente progetto del senatore Javits di co­stituire un istituto di credito statale per aiutare aziende a corto di liqui­dità, si domandavano se questo non fosse il primo passo per misure analoghe all’IR I43.

Ciò richiama quanto Togliatti diceva nelle lezioni sul fascismo del1935:

Non si tratta [...] di un nuovo sistema, ma si tratta del sistema capitalista al suo punto più alto, al punto dell’imperialismo. L’imperialismo italiano ha

42 Cfr. V. Foa, op. cit., p. 279.43 P. Sweezy - H. Magdoff, La crisi della liquidità, in Monthly Review, ed. italiana, ottobre 1970.

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un carattere più accentuato che negli altri paesi. È vera l’affermazione che noi facciamo deU’imperialismo italiano: è fra i più deboli perchè ci mancano le materie prime, etc., ma dal punto di vista dell’organizzazione, della struttura, esso è, senza dubbio, uno dei più largamente sviluppati [ ...]44.

La nozione che lo sviluppo capitalistico in Germania, Italia e Giap­pone sia stato moderno e reazionarip insieme45, rappresentando la verità del capitalismo maturo e anticipando l’impasto di modernità e di barbarie -che si vede oggi nella « civiltà » degli Stati Uniti46 poggia su una analisi che parte dalla visione del capitalismo mondiale, per poi vedere la spe­cificità dei casi particolari; il che pone al centro del discorso il problema dell’imperialismo.

Volendo invece eludere la questione dell’imperialismo, il miglior inserimento dell’Italia nel mercato mondiale, gli sbocchi per l’esporta­zione di uomini e di merci, il facile reperimento di capitali, le migliorate circostanze esterne che hanno permesso il « miracolo italiano » vengono spiegate esclusivamente con l’esercizio delle libertà politiche e sindacali

44 Palmiro Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma, 1970.45 Per negare il crociano ripudio del fascismo come « onagrocrazia » o « invasione degli Hyksos », recentemente P. Ungari ha indicato come il regime abbia tentato di legittimarsi « come il regime delle grandi bonifiche, della nuova aviazione, delle trasvolate oceaniche, delle 'zone industriali’, di nuovissime tecniche dei processi econo­mici molto simili a quelle che oggi intitoliamo al ’programma’ e al suo mito »; e Inoltre esso avesse « Rocco alla legislazione, De’ Stefani alle finanze, Beneduce all'IRI, o Gentile all’istruzione, o d’Amelio alla Cassazione, o Santi Romano al Consiglio di Stato, o Serpieri all’agricoltura », ecc.

Il rilievo sarebbe giusto se, come altri studiosi del movimento nazionalista met­tono in luce, il fascismo fu sì « una diversa maniera di organizzare le forze reazionarie », ma rappresentò in tutti i sensi una continuazione dei periodi precedenti, del prote­zionismo autoritario, dello stato forte con la sua formazione delle élites che il regime quasi totalmente recuperò. Il discorso dell’Ungari però mostra la corda, non tanto nel definire certe soluzioni dei Commis d’Etat del fascismo come « riforme di struttura [...] pensate con aderenza alle condizioni effettive della società italiana e a moderni problemi di direzione degli apparati statali », quanto nel collocare la definitiva involuzione del regime intorno al 1929, col Concordato, e il tramonto di Rocco legislatore, che si era opposto in parte ad esso, l’accantonamento della filo­sofia gentiliana, alla quale succede il bolso realismo orestaniano. A questo punto, egli dice, «[.. .] le trincee spirituali del fascismo apparivano progressivamente deserte, e il regime piuttosto una struttura di potenza, una situazione di fatto, un mito di massa che non un ideale unificato di classe dirigente nuova, uno stato nuovo in .atto di costruire sé stesso. E a questo punto la sua ’fine in dea’ era già decretata [...] ». Oltre alla crociana distinzione tra liberismo e liberalismo, rivive qui l’idealistica convinzione che ordo et connectio rerum idem est ac or do et connectio idearum\ che non può spiegare come mai iniziative indubbiamente moderne come l’IRI o le più importanti bonifiche si siano realizzate proprio quando, accantonato Gentile e esorcizzati i futuristi, trionfava il bolso realismo orestaniano e si veniva affermando Starace.

Cfr. l’intervento di P. Ungari al dibattito sul libro di A. Aquarone, L’organiz­zazione dello stato totalitario, in II Cannocchiale, 1966, n. 1-3, pp. 91-96. Cfr. anche: P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, 1963.44 I sociologi della modernizzazione, che vedono una evoluzione al cui culmine sta il modello degli Stati Uniti, non hanno mai pensato che qualche paese « ritardato » potesse anticipare qualche aspetto dello sviluppo di un paese « più avanzato ».

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72 Ester Fano Damasceni

all’interno e con la pratica dei sani principi del liberismo del commercio internazionale.

È interessante vedere quanto, nella lezione già citata47, osservavaV. Foa:

[...] è stata una disgrazia per l’Italia che il pensiero liberale, nelle sue varie correnti, essendo stato all’opposizione fra il 1926 e il 1945, abbia larga­mente coinciso, come formazione culturale media, col pensiero antifascista anche nelle formazioni politiche di sinistra. L’intervenzionismo statale concepito come tipico dell’economia fascista, la sconoscenza di fatti e teorie che, soprattutto- negli anni trenta, caratterizzarono il capitalismo di stato anche in paesi demo­cratici, un forte provincialismo e isolamento culturale tutto confluiva verso una restaurazione antifascista liberalista. Questo elemento andava rilevato perchè esso è una componente importante nelle vicende posteriori al 1945 [...].

[...] contribuì indubbiamente al fallimento dell’epurazione la debolezza del pensiero economico antifascista. Non penso certo alle correnti di pensiero legate alle forze politiche più direttamente impegnate nella lotta, alle avan­guardie politiche per le quali il rapporto fra pensiero e azione nella lotta sul terreno immediato costringeva ad affondare la ricerca alle radici sociali della storia: alludo per alcuni anni alla critica dei quaderni di Giustizia e Libertà per la parte redazionale di provenienza interna, alludo per molti anni a Stato Operaio, la rivista del Partito Comunista d’Italia, alludo alla Storia della Grande Industria di Morandi, che rifiuta tutta la tradizione liberistica di Einaudi e Giretti, il pensiero del monopolio come superfetazione del capitalismo anziché come sua forma moderna di organizzazione. Ma l’insieme del pensiero econo­mico medio, anche dei partiti di sinistra, fu fortemente influenzato dal libe­rismo einaudiano, e ancora una volta, come nel 1921, anche nel 1943-45, esso ebbe un peso decisivo nei rapporti fra le forze politiche di sinistra e la classe industriale [...].

È opportuno approfondire queste indicazioni. La restaurazione capi­talistica del secondo dopoguerra ha vestito panni antifascisti e liberisti,, è vero; ma insieme alla debolezza del pensiero economico antifascista (debolezza non ideologica ma politica, evidentemente) c’è da doman­darsi quale sia stata la forza dell’establishment del secondo dopoguerra, che ha potuto sbandierare come verità fondamentali alcune parole d’or­dine liberistiche (sviluppo della piccola e media industria leggera, spo­polamento delle campagne, incoraggiamento all’agricoltura pregiata, libero scambio, ecc.) anacronistiche e donchisciottesche negli anni della crisi mondiale, ma realistiche e realizzabili negli anni del « miracolo econo­mico »; tanto da alimentare i noti e fastidiosi beri dicebamus degli ideologi della libera iniziativa.

Il liberismo einaudiano ha potuto esercitare una egemonia sul pen­siero economico antifascista, perchè si è trovato all’opposizione per quasi

A1 V. Foa, op . c it.

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La « restaurazione antifascista liberista 73

tutto il periodo fascista, e perchè le più consistenti alternative ad esso (le interpretazioni marxiste messe in sordina dopo il lancio dei fronti popolari) per motivi politici che vedremo non sono più state sostenute col dovuto rilievo, per tema di una rottura dell’unità antifascista, dopo il 1935-36.

D’altra parte il liberismo einaudiano; messo ai margini negli anni dell’oligopolio protetto e promosso dallo stato, ha trionfato nel secondo dopoguerra anche come ideologia padronale: dopo anni di mistica corpo­rativa e autarchica il padronato italiano ha riscoperto le virtù della libera iniziativa, razionalizzatrice e progressista.

Nella intervista alla Commissione d’inchiesta per la relazione econo­mica alla Costituente (1946) di Angelo Costa, presidente della Confin- dustria, si leggono queste parole 48:

Domanda:Lei concepisce [...] un intervento dello Stato per regolare l’equilibrio

economico con una larga capacità di autonomia?

Risposta:L’intervento dello Stato deve essere concepito come una necessità dettata

da particolari situazioni di fatto, non come una brillante conquista. Abbiamo avuto l’esempio di tutta la politica economica del fascismo. Apparentemente non c’è stata nessuna politica economica voluta dal fascismo che non abbia avuto un successo. Il fascismo ha voluto fare la battaglia del grano e l’ha vinta; ha voluto esportare e col sistema dei premi ha favorito le nostre tessiture e filature che hanno lavorato appieno, c’è stata la crisi del 1931 e le ripercus­sioni per l’Italia sono state molto ridotte. A forza di vittorie, però, si è arrivati alla fame. Anche se non ci fosse stata la guerra del 1935, con questo sistema di interventi statali si sarebbe arrivati egualmente alla rovina del paese. Perchè lo Stato quando risolve un problema attraverso il proprio intervento, non crea ricchezza (sarebbe come, infatti, poterla creare per mezzo di decreti!) ma crea soltanto degli spostamenti di ricchezza. Prende da cento, da mille, da un mi­lione di persone e concentra su due o tre persone o gruppi di persone. Poiché lo Stato assorbe poco da molti, nessuno se ne accorge; dove invece arrivano i contributi, che sono le sostanze di tutti, a favore di pochi, lo Stato fa una bella figura; si dice allora: a che bei risultati è pervenuto lo Stato! [...].

Domanda:Quale è il suo pensiero sulla tendenza ancora in atto verso la costituzione

di grandi organismi industriali?

Risposta:È l’eccessivo protezionismo che consente la formazione dei trust e dei

grandi organismi. In regime di economia libera questa tendenza verso i grandi

48 RAC, Industria, Appendice, p. 79.

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organismi non può verificarsi. Se si fa la curva dei costi si vede che mentre la curva dei costi industriali è generalmente decrescente con l’aumento della pro­duzione e l’ampiezza dell’azienda, quella invece dei costi amministrativi generali è nettamente crescente per cui la dimensione ottima dell’azienda dovrebbe stabilirsi dove la somma delle due ordinate dà un minimo.

La formazione dei Consorzi ha portato a un aumento dei costi; ha dan­neggiato la piccola industria a favore della grossa, facendo pagare, attraverso il Consorzio, prezzi elevati anche alle piccole aziende. È stata questa elefantiasi amministrativa che ha portato le aziende ad assumere dimensioni maggiori dei giusti limiti, quindi vi è il problema fondamentale della misura giusta nel trovare il limite delle aziende [...].

Conoscendo la situazione delle organizzazioni padronali nel 1946 (cfr. nella stessa raccolta l’intervista di A. Cajtimi49), non è il caso di scam­biare i duri giudizi del Costa sulla politica economica del regime per il punto di vista di tutto il padronato italiano, o dei suoi settori di punta (i rappresentanti dei grandi monopoli con la dovuta discrezione espri­mono vedute molto meno settarie). Il risentimento per la rapina del risparmio privato e il sacrificio delle piccole imprese nei consorzi riflette la voce di chi da quei benefici era stato escluso — le medie e piccole imprese e buona parte dei ceti agrari.

Le loro lamentele — storicamente fondate — nel boom del dopo­guerra, quando a fianco dei monopoli si è creato nuovo spazio per le piccole imprese, diventano l’ideologia dell’intero fronte padronale e non soltanto dei suoi settori di retroguardia. Tanto meglio se queste lamen­tele, che nel preciso contesto del secondo dopoguerra hanno la funzione di reclamare nuove forme di laissez faire, più adatte alla congiuntura in espansione e più sicure di fronte allo stato non più fascista, possono conferire a chi le esprime una patente di antifascismo, dimostrando allo stesso tempo l’« oggettiva » nocività della politica fascista per l’« eco­nomia ».

Questo è il senso del liberismo einaudiano come ideologia padronale, e insieme la spiegazione della imbarazzante somiglianza tra le espressioni usate dal Costa e quanto era stato detto, durante il fascismo, dalle cor­renti antifasciste democratiche.

Le critiche che i liberisti hanno rivolto alla politica economica del fascismo dopo il 1926, se consideriamo la situazione internazionale, ri­sultano ben miopi e astratte; le concentrazioni monopolistiche, la crea­zione di oligopoli protetti dallo stato sono state realtà di tutti gli stati capitalistici negli anni della crisi e non soltanto negli stati fascisti dit­tatoriali.

Nel sacrificio dell’agricoltura pregiata (dopo i ritocchi alle leggi di bonifica che confermavano la figura del proprietario assenteista e dopo

49 RAC, Industria, Appendice, p. 295.

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il lancio della battaglia del grano) e dell’industria leggera esportatrice (dopo la quota novanta e le successive strette protezionistiche e consor- tilistiche) essi hanno visto altrettante deviazioni dalla « razionalità » eco­nomica, in altre parole un concreto danno all’accumulazione capitalistica per aver colpito i profitti dell’agricoltura pregiata e dell’industria leggera esportatrice. In questo, avevano ragione: essi denunciavano disagi reali, che, se fosse esistito un regime parlamentare, avrebbero trovato espres­sione attraverso qualche partito; ma non vedevano che, nelle strette del mercato imperialistico mondiale, il debole capitalismo italiano si difen­deva: con le concentrazioni, il protezionismo, la rapina del risparmio privato, il privilegiamento dell’industria di base. Queste misure, e l’eser­cizio della dittatura, hanno fatto parte di una forma di accumulazione- concentrazione che ha comportato modi di appropriazione diversi dal profitto aziendale (furto di stato, profitti di monopolio) e che ha sacri­ficato unità aziendali di per sé vitali per sostenere altre « parassitarle »; ma che noi oggi possiamo tuttavia definire come una forma storica di accumulazione capitalistica 50.

Essi non riuscirono perciò a vedere che i tecnocrati dell’Assonime (Associazione italiana società per azioni) e della Confindustria, lungi dal gettare la compagine capitalistica italiana in strette improduttive e irra­zionali, attuavano l’unica forma possibile di razionalizzazione capitalistica in quelle circostanze internazionali, nei modi specifici in cui l’esercizio della dittatura l’ha agevolata.

Questa incapacità storica della dottrina liberista di rappresentare in quegli anni una istanza di razionalizzazione del capitalismo italiano ha gettato molti militanti antifascisti, politicamente più avanzati degli Einaudi, Giretti e Cabiati (quasi tutti filofascisti fino al delitto Matteotti e oltre), ma fondamentalmente fedeli al credo liberista, fuori dell’orbita borghese dalla quale le loro premesse democraticistiche non sarebbero uscite: è il caso di Ernesto Rossi. Le sue battaglie contro i « padroni del vapore » hanno avuto il limite di indicare responsabilità personali o di gruppo, non di classe; ma hanno avuto il merito di sollevare non pochi dubbi intorno al ruolo progressista dello sviluppo capitalistico.

Quanto ai liberisti-liberali, l’appello alla civiltà e alla ragione da essi lanciato durante il fascismo non ebbe successo; il fascismo, secondo loro, calpestava la razionalità intellettuale (cosa c’era di serio nel corpo­rativismo?) e la razionalità aziendale (il prevalere delle imprese più « sane »); poi, nella mutata situazione del secondo dopoguerra, il nuovo

50 Tra il T9 e il ’2 1 , La riforma sociale ha sferrato attacchi biliosi contro gli scioperi, l’occupazione delle terre e delle fabbriche, sempre in nome della lesa accu­mulazione manchesteriana. Ciò spiega come abbia continuato le sue pubblicazioni anche sotto il regime, che tollerava questo tipo di fronda, la quale peraltro ha eserci­tato, come è noto, molta influenza sugli antifascisti democratici; è stata anche una importante fonte per Grifone.

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spazio per la media e piccola industria, il liberismo voluto dagli Stati Uniti prima che dal padronato italiano hanno reso di nuovo attuale l’ideologia del libero confronto delle imprese. Tanto più che l’accresciuto potere dei grandi monopoli si copre più agevolmente vantando la libera iniziativa, di quanto non si potesse fare prima con la mistica corporativa fascista.

5. Attualità del libro di Grifone

Due esperienze fondamentali sono confluite nella elaborazione del libro di Grifone, nato in origine come corso in dispense sulla struttura del capitalismo italiano e la natura di classe del fascismo, ad uso dei compagni di confino a Ventotene: l’aver lavorato, tra il 1931 e il 1933 nell’Ufficio studi dell’Assonime, cervello del capitalismo italiano; e l’aver applicato, al materiale che la censura carceraria permetteva di con­sultare, il ricco patrimonio di analisi e di metodo del partito comunista. Nella elaborazione di questo materiale (pubblicazioni finanziarie, rela­zioni bancarie, testi — a saperli leggere — molto eloquenti), oltre al­l’opera tecnicamente e teoricamente valida dell’autore sono confluite le esperienze di analisi e di lotta del partito negli anni precedenti l’arresto e negli anni del carcere e del confino, attraverso le discussioni con i compagni di reclusione. Perciò jl libro ha un notevole interesse anche come documento di storia del partito comunista italiano.

Come giustamente nota V. Foa nell’introduzione alla ristampa del libro, il taglio della ricerca è quanto mai pertinente e attuale, perchè contro le persistenti schematizzazioni che vedono nel fascismo, e soltanto in esso, la realizzazione organica dell’intervento dello stato nell’economia, dimostra come invece lo stato sia emerso fin dall’Unità come soggetto permanente dello sviluppo economico, come organizzatore dell’accumu­lazione capitalistica.

Questo ruolo dello stato viene giustamente rilevato insieme nei suoi aspetti economici e politici: salvataggi, sovvenzioni, manovre fiscali e monetarie da un lato, le scelte belliche, l’esercizio della repressione e l’organizzazione del consenso politico, da un altro, appartengono a una stessa logica e non possono essere analizzati separatamente. Così, contro la storiografia etico-politica che ha opposto la « normalità » giolittiana alle « degenerazioni patologiche » del fascismo, Grifone vede il fascismo come il punto di arrivo di un processo iniziato molto prima, non come dovuto all’improvviso emergere di forze nuove ed estranee; gli equilibri politici giolittiani tramontano perchè nella mutata situazione interna e internazionale non sono più sufficienti, non perchè siano cambiati i « mandanti ».

Grifone vede però molto bene che il fascismo come movimento di

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massa, con la sua vasta base piccolo-borghese, non è stato meccanica- mente inventato dalla grande borghesia; la quale ha pur preso all’inizio le distanze dal movimento « spontaneo » degli agrari e degli ambienti finanziari; e poi, vista l’utilità pratica e l’efficacia di una maniera forte esercitata da un movimento di massa, si è convertita ai suoi metodi.

L’attenzione al divario tra fenomeni di fondo e fenomeni di super­ficie gli permette di capire quali siano le effettive manovre della grande industria attraverso gli strumenti della politica economica di stato, dietro le apparenze di una stabilizzazione stagnante, attestata sulla difesa della rendita fondiaria e della piccola borghesia.

Nella analisi delle misure di stabilizzazione a quota novanta, che cad­dero quasi contemporaneamente alla battaglia del grano e alle leggi eccezionali, egli indica come il sistema, eliminata la scomoda incognita delle lotte politiche e sociali, scelga una razionalizzazione che pur ser­vendo bene i suoi interessi generali ha un costo immediato abbastanza grave: una recessione economica che colpirà irrimediabilmente quasi tutta l’agricoltura e l’industria esportatrice. La rivalutazione della lira ha però un importante ruolo politico ed economico insieme, perchè rafforza il consenso della piccola borghesia risparmiatrice, base di massa del regime, e ristabilisce la fiducia nei depositi bancari, che sono la base dei finan­ziamenti industriali; senza la grande massa dei piccoli risparmi privati, il capitalismo italiano, fin dal suo sorgere, non avrebbe potuto — attra­verso le banche — portare avanti il proprio sviluppo. La stabilizzazione monetaria, che serve gli interessi generali del sistema ed è indispensa­bile per incoraggiare i prestiti stranieri, soprattutto americani51, si ac­compagna a una grave recessione; interessata al nuovo assetto è non sol­tanto la rendita e la piccola borghesia risparmiatrice, come apparve evi­dente, ma soprattutto l’industria di base, favorita nelle importazioni di materie prime e che da allora utilizzò in maniera più diretta la politica statale per imporre al mercato interno la sua produzione, in mancanza di sbocchi sui mercati stranieri.

Proprio dopo il 1927 vengono varati gli stanziamenti per la bonifica, e sorge il nuovo insediamento industriale di Porto Marghera, punto di confluenza dell’industria chimica, elettrica e siderurgica. Le contempo­ranee iniziative di bonifica, annota Grifone, hanno insieme scopi di promozione di un mercato interno in sostituzione di quello mondiale che va sempre più restringendosi; e obiettivi di stabilizzazione sociale rifor­mista-conservatrice (appoderamenti, sbracciantizzazione); tanto più che dopo la rivalutazione monetaria l’agricoltura ha subito il colpo da cui non si risolleverà più.

La fondazione di Porto Marghera vede invece Volpi, nella duplice

51 Sulla opportunità di indagare meglio gli strettissimi legami di dipendenza del­l’Italia dagli Stati Uniti fin dal 1916, cfr. G. Mori, op. cit.

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qualità di ministro delle finanze e capo dell’Adriatica, come promotore. I principali trusts italiani vi impiantano stabilimenti, sorretti e spronati dalla Commerciale, e favoriti dalle esenzioni fiscali. Come studi più recenti hanno confermato52, la quota novanta ha segnato un definitivo predominio dell’industria di base, facilitata nell’importazione di materie prime, e ormai diretta ispiratrice della tendenziale autarchia delle ini­ziative statali.

Gli anni della crisi

Quando sopraggiunge la crisi internazionale del ’29 l’economia ita­liana è assai gravemente colpita, anche se la persistenza di un vasto settore agricolo precapitalistico può mascherare l’entità del disagio. L’as­setto sociale del regime e la tradizionale linea di sviluppo dell’industria, basata sul rastrellamento del risparmio privato attraverso le banche o il mercato azionario, impediscono di scegliere una strategia inflazionisticà.51 continua perciò secondo una linea stabilizzatrice, che aggrava i disagi delle industrie e di conseguenza delle banche, proprietarie dei pacchetti azionari.

Tra il 1931 e il 1934 l’intervento dello stato per gli interessi generali del sistema si fa particolarmente articolato e incisivo; come annota Grifone) protagonista della trasformazione dell’economia italiana in eco­nomia monopolistica di stato è lo stesso capitale finanziario:

[ .. .] esso è troppo perm eato con lo sta to stesso, sa di averlo a sua com pleta discrezione e perciò non può che auspicarne la totale aperta im m issione in tu tti i se ttori della vita economica, sicuro com ’è che ogni nuova attribuzione assunta dai pubblici po teri è u n ’attribuzione di p iù di cui si può servire, per i suoi p ropri fini, chi tiene il controllo di tali po teri [ . . . ] 53.

Negli anni della crisi matura un tipo di intervento dello stato che porterà a cambiamenti qualitativi molto vistosi nella organizzazione ca­

52 II De Felice, nel pubblicare alcuni documenti sulla « quota novanta », che testi­moniano i propositi propagandistici-politici di Mussolini nello scegliere la rivalutazione, e le consistenti rimostranze che seguirono le sue decisioni, da parte di ambienti industriali e finanziari, fa propria la tesi che fu allora della Concentrazione antifa­scista di Parigi, cioè che quello fosse un esempio di autonomia del meccanismo dimostra come la ostilità dei tessili e degli esportatori alla rivalutazione fosse effettiva­mente reale e accentuata. Gli industriali dei grandi monopoli, non altrettanto ostili, non vollero assumersi la responsabilità della rivalutazione, che Mussolini aveva voluto intraprendere anche per motivi di propaganda, e per rassicurare i rispar­miatori; ma una volta che la scelta fu fatta, con le loro lamentele volsero la situazione a loro favore, consolidando il loro potere a scapito dell’industria esporta­trice, ottenendo la sicurezza dei prezzi di cartello, la promozione del mercato interno, ecc. Cfr. Renzo D e Felice, Lineamenti politici della « quota novanta », in II Nuovo osservatore, 1966, n. 50.53 P. G rifone, op. cit., p. 121.

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pitalistica 5“. Lo stato rileva il portafoglio di azioni industriali delle banche in dissesto, diventandone il proprietario; le banche, risanate, diventano banche puramente commerciali e, con la garanzia dello stato, svolge­ranno d’ora in poi un semplice lavoro d’ordinaria amministrazione,

[ .. .] utilissim o e indispensabile ai fini del buon andam ento generale del sistem a, ma affatto proficuo di grossi dividendi e perciò scarsam ente in teres­sante e certo assai meno appetitoso dell’esercizio delle grandi im prese industriali ben p iù copiosam ente rem unerative [ .. .] 54 55.

Con i crismi di legalità che accompagnano le iniziative di stato, ven­gono rafforzate le posizioni di monopolio e incoraggiati, anche per ini­ziativa di legge (corporazioni, consorzi obbligatori, legge sulla disciplina dei nuovi impianti, legge mineraria, ecc.) i processi di concentrazione e cartellizzazione. L’autorità dello stato codifica vari saggi del profitto particolari, non concorrenti, mentre viene incoraggiata e potenziata la pratica dell’autofinanziamento e aumentano le riserve di capitale delle società56.

Lo stato si assume in proprio la funzione di rastrellatore (e rapina­tore) del risparmio privato, attraverso l’emissione di titoli di stato, i prestiti forzosi, ecc.; e d’altra parte; con le partecipazioni di stato nel­l’industria, diventa un investment banker, al posto delle banche miste, liquidate perché strumenti troppo aleatori e insicuri dell’accumulazione capitalistica.

Fino a quando le banche miste hanno dominato la scena, esse hanno operato una sorta di sviluppo forzato nell’economia del paese, avvenuto in parte a spese dei depositanti della banca (capitalisti minori, redditieri): perché quel tipo di finanziamento industriale non poteva non portare a crolli bancari, data la sproporzione tra depositi e immobilizzi industriali. Basta pensare al fatto che alla vigilia dell’istituzione dell’IRI, su un totale di depositi e conti correnti pari a 14,5 miliardi di lire di allora, gli immobilizzi industriali delle banche ammontavano a ben 12 miliardi di lire, mentre le operazioni di credito ordinario assorbivano soltanto 4 miliardi di lire.

Quando lo stato ha rilevato in proprio quegli immobilizzi industriali,

54 Cfr. A. Caracciolo: La crescita e la trasformazione della grande industria durante la Prima Guerra Mondiale, in G. FuÀ, op. cit., pp. 187 sgg. Si tratta di una analisi molto valida su uno dei periodi chiave per il consolidamento della grande industria in Italia. L’A., nel saggio II processo di industrializzazione nella stessa raccolta, p. 96, che tratta di tutto il periodo 1861-1961, in vista di un punto di vista « stagnazionista », non sembra assegnare altrettanta importanza alle successive svolte-chiave del dopo­guerra e del periodo fascista.55 P. Grifone, op. cit., p. 127.56 Cfr. l’introduzione di G. Pietranera a II Capitale finanziario di Rudolf H ilfer- ding, Milano, 1960, dove si sottolinea l’aspetto generalizzato, e non limitato all’Italia, di questi fenomeni.

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e ha assunto il controllo delle banche limitando la loro attività alle sole operazioni di credito ordinarli}, il peso dell’operazione è ricaduto sulla collettività, e in particolare sui cittadini più poveri; basta pensare ai sistemi fiscali basati sulle imposte indirette, ai prezzi di monopolio per i generi di largo consumo, alla partecipazione; negli organismi di salva­taggio, degli istituti di previdenza sociale.

Rapina o accumulazione?

La descrizione del Grifone non si limita a denunciare la rapina del pubblico denaro, attuata in forme molto più massicce e indirette di quanto non avvenisse al tempo degli scandali bancari, ma vede come questo sia un processo di stabilizzazione e razionalizzazione capitalistica, che comporta la crescita di potere dei grandi monopoli in stretta sim­biosi con lo stato.

Così non è possibile scindere l’intervento politico dello stato (avvento del fascismo) dalla progressiva compenetrazione in esso del capitale mo­nopolistico, e non si può scindere questa dall’analisi della crisi mondiale. Così la progressiva socializzazione del capitale va vista come premessa dell’intervento dello stato e della formazione dei monopoli. Così non si può distinguere tra lo stato che realizza la riforma bancaria e quello che attua in proprio la rapina del risparmio privato (dal prestito del Littorio in poi); e soprattutto, queste operazioni vanno messe in rela­zione alla situazione del mercato mondiale: lo stato investment banker è insieme uno stato imperialista.

La crisi mondiale dopo il 1929, dice Grifone,

[...] pone all’ordine del giorno la prospettiva di un altro conflitto mon­diale come la più probabile delle alternative verso cui essa conduce [...] il fenomeno bellico, considerato non più come episodio eccezionale nella vita dei popoli ma come un fatto permanente e per così dire normale di essa, costituisce la premessa e la giustificazione massima della formula autarchica, la quale costituisce poi — in sostanza — il modo più acconcio, nella situa­zione di estrema acutizzazione delle contraddizioni fondamentali, per attivare il processo di accumulazione, concentrazione e centralizzazione del capitale[ . . . l 57.

Tutto ciò dimostra l’insufficienza del generoso antifascismo di E. Rossi, che nel brano già citato distingueva tra legge bancaria del 1936, « buona », e la conversione del debito fluttuante in consolidato « cat­tiva », la bonifica pontina, « buona », e la trasformazione dei consorzi agrari in organi burocratici, « cattiva ». Le une cose e le altre sono state, nel fascismo, strettamente unite, ed è difficile immaginare il pro-

57 P. G rifone, op. cit., pp. 79 e 127.

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cesso di concentrazione monopolistica, l’avvio all’autofinanziamento, gli sviluppi imperialistici, come aggregati casuali; secondo le indicazioni di Grifone, ciò rappresenta una forma storica di accumulazione-concentra­zione-centralizzazione capitalistica, nelle strette di una difficile crisi in­ternazionale e delle contraddizioni intrinseche dello sviluppo capitalistico. Metterla in questione significa mettere insieme in questione lo sviluppo capitalistico.

Le notizie che Grifone riferisce ci sembrano inoltre una preziosa occasione di verifica, attraverso l’analisi storica, delle ipotesi di Marx sulla funzione del credito e delle società per azioni per estendere l’espro­priazione dei piccoli produttori ai capitalisti piccoli e medi e integrare nello sviluppo capitalistico forme non capitalistiche di reddito: « P o ic h é la p r o p r ie tà e s is te q u i s o l ta n to s o t to fo r m a d i a z io n i, il s u o m o v im e n to e i l s u o tr a s fe r im e n to n o n s o n o c h e i l p u r o e s e m p lic e r is u l ta to del g io c o d i b o rsa , d o v e i p e sc i p ic c o li s o n o d iv o r a t i d a g li s q u a li e le p e c o re d a i l u p i d i b o rsa [...] »

L’analisi del rapporto tra il capitalismo privato e lo stato, con le forme di intervento che a partire dalle misure protezionistiche giunge all’assunzione in proprio di interi settori industriali e della garanzia del credito, parallelamente alle iniziative imperialiste, oltre a una verifica delle classiche teorie sull’imperialismo offre il terreno per controllare la ipotesi che le formazioni monopolistiche e l’intervento dello stato im­perialista siano la principale controtendenza alla caduta tendenziale del saggio del profitto. Temi che negli ultimi anni in Italia sono stati di­battuti quasi esclusivamente in sede di storia delle dottrine58 59.

D’altra parte, contro le ricorrenti rivalutazioni del fascismo « antica­pitalistico » e « pianificatore », il quadro mostrato da Grifone indica come esso regolasse lo sviluppo dei monopoli esaltando e non modi­ficando le loro qualità, ma non pianificasse certo una diversa ripartizione dei redditi, visto che, come stato, esisteva per confermare q u e i rapporti di proprietà.

L a d e f in iz io n e d i « c a p ita le fin a n z ia r io »

Grifone ha intitolato la sua opera II C a p ita le fin a n z ia r io e parla del fascismo come « re g im e d e l ca p ita le fin a n z ia r io », cioè come frutto del consiglio di amministrazione della borghesia italiana, che non era parti­colarmente omogenea ed ha subito l’egemonia dei consiglieri di ammini­strazione delle banche e delle h o ld in g s finanziarie:

58 Cfr. K. Marx, Il Capitale, libro III, voi. 2, p. 126.59 L’ipotesi sostenuta da Pietraneta nel saggio cit. non ha suscitato un dibattito in sede di verifica storica; il che prova quanto sia diffusa una separazione tra teoria e storia di stampo non marxista.

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[...] nessuno dei vari strati della borghesia italiana ha la compattezza, la forza coesiva e soprattutto la potenza del capitale finanziario ed è perciò che esso, e non altri, riesce a imporsi come strato decisivo, la cui volontà diviene volontà dell’intera classe [...] 60.

Quando passa a descrivere i salvataggi e la creazione dell’IMI prima, dell’IRI poi, Grifone parla dell’« a t to d i n a sc ita d e l c a p ita lis m o m o n o ­p o lìs t ic o d i S ta to , operato dallo stesso capitale finanziario. La intercam­biabilità dell’uno o dell’altro termine, che seguendo le orme di Lenin contro Hilferding 61 i partiti della I II Internazionale hanno sempre usato, è riflessa in un errore di stampa che ha intitolato il libro I I ca p ita le f i ­n a n z ia r io in I ta l ia sulla copertina e I I c a p ita le m o n o p o lis t ic o in I ta l ia sulla costola.

Hilferding, dopo aver analizzato la crescente centralizzazione del cre­dito, il progressivo assoggettamento di tutto il sistema economico a un piccolo numero di grandi banche che controllavano i pacchetti delle più importanti società per azioni, immaginava, in una prospettiva riformista- revisionista, che impossessarsi di quelle banche significherebbe impos­sessarsi dei settori più importanti della grande industria: una sorta di teoria della « stanza dei bottoni », affine a quelle del Kautsky « rin­negato », che proponeva una società capitalistica « controllata » e volta a promuovere la prosperità, avviando al socialismo.

Negli anni in cui lo stato italiano diventava proprietario di quelle poche grandi banche, e delle industrie di cui queste erano proprietarie, ciò sembrava ai comunisti una chiara smentita delle illusioni riforniste di Hilferding e Kautsky ; rappresentando una stabilizzazione e un raffor­zamento del capitale monopolistico. L’uso che Grifone fa del termine « capitale finanziario », come proiezione della crescente concentrazione in senso monopolistico della produzione e del capitale continua l’analisi di Lenin. Non trova quindi sorprendente che la funzione della banca mista scompaia per lasciare il posto allo stato, mentre le posizioni di monopolio avviano all’autofinanziamento le aziende rimaste private, tut- t’altro che piegate a una disciplina socialista.

« B u o n p a ssa to e c a t t iv e n o v i tà »

In polemica con Lukacs, Brecht aveva affermato 62 che per combattere il nazismo occorreva non « riallacciarsi al buon passato, ma alle cattive novità » della Germania.

E il discorso d’insieme del libro di Grifone è proprio un lucido e

60 P. G rifone, op. cit. p. 79.61 Cfr. G. P ietranera, op. cit.62 Citato da C. Cases, prefazione a Brecht, Me-Ti, libro delle svolte, Torino, 1970,. pag. XXXI.

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spregiudicato riconoscimento delle cattive novità del fascismo, novità che piuttosto che svolte rappresentano la punta avanzata di sviluppi pre­cedenti. Le crisi del 1907 e 1921 sono le anticipazioni di quella ben più violenta del 1929; la rapina del risparmio privato che al tempo dell’in­dustrializzazione italiana è stata avviata ad opera delle banche miste, viene ora esercitata direttamente dallo stato; la penetrazione del capitale finanziario nelle campagne attraverso il credito viene centralizzata e fina­lizzata alle manovre statali di creazione di un mercato interno in agri­coltura; la bonifica integrale tenta di portare gli investimenti di stato in zone agricole dove, da sola, l’iniziativa privata non sarebbe incoraggiata a intervenire; il processo di concentrazione bancaria del periodo giolit- tiano è soltanto l’avvio a quelle che Engels, commentando nel 1894 le indicazioni che Marx aveva dato trenta anni prima, chiamava le « società per azioni alla seconda e terza potenza », cioè i cartelli e i trusts. Il pro­cesso di concentrazione monopolistica e l’uso degli strumenti statali in favore di questa, la finalizzazione allo sviluppo dell’industria di base, gli sbocchi imperialistici di essa in corrispondenza al peggioramento della situazione dell’Italia nel mercato internazionale rappresentano l’esaspe­razione di contraddizioni strutturali già presenti ed evidenti nel perioda giolittiano.

Dirette come erano ad un pubblico di militanti comunisti e antifa­scisti, le lezioni di Grifone mettono deliberatamente tra parentesi ciò che tutti conoscevano molto bene: la situazione arretrata, arcaica e de­gradata delle campagne, l’alleanza, altrettanto reazionaria e degradante, col trono e l’altare, la corruzione e l’inefficienza dei burocrati del regime: tutti dati, empiricamente ovvi, che appaiono dalle testimonianze di chi ha vissuto in quegli anni, o da una analisi sociologica del regime fa­scista. Questa deliberata indifferenza per la realtà immediata si spiega in parte con la censura carceraria che impediva di tradurre in considerazioni etico-politiche i dati di fondo che venivano esaminati; in parte con la precisa esperienza che Grifone aveva fatto nell’ufficio studi dell’Assonime e della Confindustria, i cui dirigenti non erano stati mai sostituiti, né nel 1922 né nel 1926 né dopo, da incompetenti buro­crati fascisti. Lì in quegli anni più che in qualunque altro periodo, ciò che è andato bene per i grandi monopoli è andato bene per l’Italia; l’economicismo rappresentava quindi una metodologia pertinente, data la morte della politica che il regime aveva realizzato. La borghesia ita­liana, economicamente e sociologicamente non omogenea, ha subito l’ege­monia dei grandi monopoli, che rappresentavano un gruppo accentrato e forte dentro lo stato. Il brechtiano distacco con cui Grifone, tra le righe delle relazioni tecniche, riesce a leggere i veri discorsi di questi gruppi al potere, che hanno parlato poco e agito molto, rappresenta un efficace antidoto alle ricorrenti interpretazioni psicologiche e di costume

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del fascismo, anche se talvolta la lucidità con cui vede la fondamentale subordinazione di tutta la politica di stato agli interessi e ai piani dei monopoli gli fa trascurare le contraddizioni sociali che hanno largamente impedito a quei piani di realizzarsi: la tragica esiguità dei redditi operai e contadini che urtava contro il proposito di potenziare e sfruttare il mercato interno; il potere degli agrari assenteisti che da un lato erano funzionali al capitale finanziario, dall’altro impedivano a questo di pene­trare nelle campagne, boicottando la bonifica. Resta comunque implicito il giusto principio che la punta più avanzata e concentrata del capita­lismo, quando non può trasformare i rapporti sociali precapitalistici, li utilizza per i propri fini, anche se ciò in parte rappresenta una contrad­dizione per il suo sviluppo; e resta fondamentale l’annotazione che lo sviluppo economico capitalistico è tale anche nei momenti di crisi e di depressione, quando invece di espandersi si concentra e si razionalizza; per cui analizzare questi periodi significa non limitarsi a vedere l’an­damento della produzione, ma vedere invece anche gli aspetti qualitativi: la concentrazione monopolistica, il suo coagularsi con l’apporto decisivo dello stato. Infine, vedere come questi processi di razionalizzazione e concentrazione urtino con le contraddizioni sociali dello stesso sviluppo capitalistico all’interno del paese e nel mercato mondiale spiega gli sbocchi imperialistici come esiti necessari e non accidentali dello sviluppo capi­talistico stesso.

Si diceva prima che, ristampato a più di trent’anni dalla sua stesura, il libro di Grifone rappresenta oggi una novità: perchè la storiografia marxista del secondo dopoguerra ha largamente trascurato il suo campo di indagine, e perché un discorso che abbia la stessa ampiezza di sguardo e spessore teorico risulta, nella sinistra, insolito.

Basta vedere, a titolo di esempio, i giudizi che sul periodo giolittiano e sulla definizione del « ristagno economico » nel periodo fascista, dava G. Amendola nella relazione « Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione » 63 del Convegno dell’Istituto Gramsci sulle carat­teristiche del capitalismo italiano (1965):

,<a Tendenze del capitalismo italiano, Roma, 1962, e cfr. nello stesso volume la relazione introduttiva di A. Pesenti e V. Vitello, che riconosce sì il carattere fon­damentalmente imperialista del capitalismo italiano nel periodo giolittiano e poi nel periodo fascista; ma vede le novità del secondo dopoguerra principalmente nel tenta­tivo, da parte degli Stati Uniti, di influenzare i paesi sottosviluppati che rappresen­tano una grande forza sulla quale ha notevoli effetti economici e politici la competi­zione pacifica e il cui spostamento è decisivo. La stessa scienza economica borghese, nell’ossessione del confronto con i paesi socialisti, si sarebbe così posta alla ricerca di un tasso ragionevole e sufficiente di sviluppo, sia per le economie « mature » che per le economie sottosviluppate (p. 25).

Altri motivi di vantaggio per l’Italia, la diminuzione dei prezzi delle materie prime (non commentata) (p. 34). Conseguenza dell’integrazione europea l’allargamento del mercato, la più accentuata concentrazione, legami internazionali sempre crescenti, un neocolonialismo gestito in comune (p. 43). Ancora (p. 43) notizie sulla esportazione

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[Dopo il 1945] [...] l’Italia [...] ha compiuto la sua trasformazione da paese agrario-industriale in industriale-agrario. Si sono create così nuove con­dizioni alla lotta di classe, che si svolge su linee più avanzate, non più in un paese economicamente arretrato, costretto in condizioni di stagnazione dal pre­potere di un blocco dominante che trovava nel fascismo il suo strumento poli­tico, ma in un paese economicamente in sviluppo, maggiormente inserito nella competizione economica internazionale, e nel quale le classi dominanti, pur attraverso gravi contraddizioni politiche e sociali, sono costrette a ricercare [...] i mezzi per assicurare una continuazione dell’espansione economica [...].

E ancora:

[■■•] una considerazione storica può essere utilmente avanzata. In cento anni di vita unitaria dello Stato italiano, i due decenni nei quali ha luogo un rapido incremento dei tassi di sviluppo sono stati il 1900-1919 e il decennio 1950-1960. Questi due decenni sono stati entrambi caratterizzati da una forte avanzata del movimento operaio e da una vivace azione della classe operaia. Invece il periodo nel quale, per le condizioni create dalla dittatura fascista, la lotta di classe è stata con violenza maggiormente imbrigliata, e soffocate le possibilità di vita democratica, è anche quello della massima stagnazione eco­nomica. Tra il 1910 e il 1950 le guerre e il fascismo provocano un rallenta­mento dello sviluppo economico dell’Italia [...]. Bisognerebbe compiere uno studio del costo economico del fascismo. Che cosa è costato all’Italia il fascismo, come motivo di stagnazione economica, di arresto del suo progresso civile e culturale, di peggioramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici [...].

Questo discorso economicistico sulla n e g a t iv i tà e c o n o m ic a del fascismo, sul suo aver servito male la causa dello « sviluppo economico » (capita­listico) è funzionale a un programma politico secondo il quale, data la fondamentale identità tra s v i lu p p o e c o n o m ic o e benessere dei lavoratori, questi, lottando per i propri interessi, rappresentano le « e s ig e n ze g e n e ra li d e lla n a z io n e »; e quindi sono la « n u o v a classe d ir ig e n te n a z io n a le »:

[...] codesta collettività che si chiama Italia ha esigenze di sviluppo, esi­genze oggettive di cui noi dobbiamo essere interpreti: un aumento del reddito e un impiego del reddito che assicuri una elevazione delle condizioni materiali e culturali delle masse lavoratrici, ed un crescente soddisfacimento dei bisogni collettivi della società [...]. La borghesia ha saputo assolvere a queste funzioni in altri momenti, oggi non sa assolvere ad una funzione dirigente, ha lasciato cadere la bandiera dell’interesse nazionale [...]. [L’8 settembre 1943] noi [...] abbiamo preso in mano la bandiera dell’Italia. Si compiva allora da parte

di capitali italiani verso il Medio Oriente, Nord Africa e America Latina; ma non commentati.

Si rileva l’aumento della quota del reddito nazionale destinata al capitale, e l’aumento assoluto della redistribuzione del plusvalore sotto forma di rendite e inte­ressi; ma per vedere come ci sia un certo equilibrio tra le possibilità del sistema di estendere l’occupazione e concedere rivendicazioni salariali, e il potere di rifarsi con le cospicue esportazioni e il meccanismo dei prezzi.

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del movimento operaio italiano quella conquista della patria che nel ’19 e nel ’20 era fuori e contro di esso [...] [il compagno Togliatti ha dimostrato] quanto lunga e faticosa fosse stata la conquista da parte della classe operaia della democrazia e della nazione [...]. La bandiera di cui parliamo noi [...] è la bandiera dell’interesse nazionale [...] e bandiera del progresso economico e civile, che poi vuol dire sviluppo economico, in una atmosfera di pace, di indipendenza e di amicizia con il mondo socialista e con i paesi che conqui­stano così faticosamente la loro indipendenza [...] nel momento in cui pren­devamo nelle nostre mani la bandiera nazionale, dicevamo che proprio l’interesse nazionale esigeva una lotta conseguente [...] contro i gruppi privilegiati antina­zionali che, per i loro sordidi interessi particolari, si mettono contro gli interessi generali della collettività nazionale [...].

Le definizioni di Amendola, che parla di « sviluppo economico » senza aggettivi, di inserimento dell’Italia nel mercato mondiale senza verificare la qualità di questo, o di riconoscimento dell’indipendenza, pace e amicizia come garanzia di rapporti non imperialistici coi paesi ex-coloniali, via via fino alla riscoperta della democrazia e della nazione non sono evoluzioni recenti delle posizioni comuniste; già nel 1945 To­gliatti così si esprimeva64 :

[...] è matura [...] la necessità di una ricostruzione economica che tenga conto degli interessi generali della Nazione e non degli interessi esclusivi di pochi gruppi privilegiati [...] vecchi gruppi reazionari, autori del fascismo e appoggio fino all’ultimo del regime fascista [...].

[...] Noi vogliamo che venga lasciato un ampio campo allo sviluppo della iniziativa privata, soprattutto del piccolo e medio imprenditore. In pari tempo, però, affermiamo la necessità che lo Stato intervenga per dirigere tutta l’opera di ricostruzione, per coordinare tutte le iniziative private e indirizzarle, legan­dole organicamente le une alle altre, e impedendo che la sana iniziativa privata venga soffocata e infine distrutta dal prevalere dei gruppi plutocratici e della speculazione [...].

Lo « sviluppo economico » senza aggettivi di Amendola è soltanto la crescita delle forze produttive, senza vedere i rapporti sociali che la animano e quindi senza vedere se, nello sviluppo capitalistico, essa sia un lineare progresso verso il benessere e la democrazia, o non sia organicamente legata a squilibri e storture. Lo « sviluppo economico » italiano a sua volta si inserisce in un mercato mondiale altrettanto lineare ed equilibrato, così come lineari ed equilibrati risultano gli interessi della « Nazione ».

Ristagno è quindi l’assenza di sviluppo, speculazione e rendita le zone d’ombra che lo « sviluppo » non ha ancora raggiunto. I vari dati storici dello sviluppo capitalistico italiano (la « via prussiana » dell’accu-

64 Discorso di Reggio Emilia del 24 settembre 1946; corsivi nostri.

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mutazione originaria, la banca mista, l’accentramento finanziario, l’emi­grazione, la questione meridionale, il capitalismo di stato, l’imperiali­smo, ecc.) sono qui visti non come componenti organiche di uno stesso fenomeno, ma come aggregati che possono essere scissi — idealistica­mente — attraverso la lotta politica e sindacale; così da evitare il ristagno e ottenere lo sviluppo, assorbire la disoccupazione e ottenere il benessere, colpire la rendita e potenziare il profitto.

Le definizioni del periodo fascista come « tra s fo r m a z io n e in s e n so a g rario d e lla so c ie tà ita lia n a » e come esempio di « c o n s e g u e n za d e lla p o l i t ic a d e i m o n o p o li , d i te n d e r e n o n a d u n p ro g re sso d e l le fo r z e p r o d u t ­t i v e so c ia li, m a a d u n a su a so s ta n z ia le s ta g n a z io n e a n ch e a d u n liv e l lo b a sso e a rre tra to , p u r c h é s ia n o m a n te n u te c e r te c o n d iz io n i e s se n z ia li p e r il lo ro d o m in io . . . », che avevamo incontrato nel brano di Sereni citato all’inizio, sono a loro volta funzionali alta esaltazione dello « sviluppo economico » come risultato delle lotte. La visione, di per sé esatta, del capitalismo italiano nato in ritardo, che ha utilizzato per i propri fini, senza distruggerle, le forme di produzione e i rapporti sociali precapita­listici ditata l’importanza di quei residui precapitalistici mettendo in secondo piano la crescita relativa del capitale industriale e finanziario a cui queste sono subordinate, insistendo sulla persistente vistosità della figura del latifondista, tralasciando di verificare se, a parte le conferme dei rapporti sociali, che il regime ha scrupolosamente rispettato, il tati- fondista non si sia trovato, dopo anni di protezione granaria ma di pro­gressiva « crisi delle forbici », più debole del capitalista agrario impiegato da cospicui profitti differenziali6S.

Ciò corrisponde a un programma che ritiene fondamentale la e l im i­n a z io n e d e i r e s id u i agrari e fe u d a li sul cui tronco lo sviluppo capitalistico si è innestato, e d i c u i q u in d i i l fa sc ism o a v r e b b e ra p p re se n ta to u n a r iv in c ita . La promozione di rapporti sociali e di mercato di tipo capitali­stico nella campagna rappresenterebbe una realizzazione delta rivoluzione borghese che la « via prussiana » all’accumulazione originaria non ha realizzato66.

L’importanza attribuita alta « reazione agraria e feudale » nel periodo fascista è proporzionale all’importanza attribuita alla prospettiva di li­quidarlo attraverso lo sviluppo dell’economia agricola in senso capitali­stico. *

*5 Bisognerebbe indagare meglio, ad esempio, sulla legge sul latifondo siciliano del 1940, congegnata come una sorta di « IRI del latifondo ». Fallì, e sicuramente nacque come contentino ai contadini in vista della guerra, ma si può pensare che colpisse un settore che il ventennio non aveva rafforzato.« Cfr. Emilio Sereni, Antifascismo, democrazia, socialismo nella rivoluzione ita­liana, in Critica marxista, settembre-dicembre 1966.

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« Reazione » e « modernizzazione »

Dal punto di vista dei rapporti sociali, non c’è dubbio che il fasci­smo sia stato reazione e stagnazione, in particolare nelle campagne. Per quanto riguarda le condizioni di vita della classe operaia, il quadro è altrettanto nero.

Dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica invece, e della stessa espansione delle forze produttive (più potenziale che effettiva, ma comunque consistente) il periodo fascista, stando ai dati che si pos­sono ricavare da una documentazione non sicura nei dettagli, ma abba­stanza eloquente nelle linee generali, e dalle indicazioni del libro di Grifone, sembra aver rappresentato tu tt’altro che un regresso o una sta­gnazione. Tanto più se si mette quella potente concentrazione e stru­mentalizzazione delle leve statali in relazione alle difficoltà non indiffe­renti del mercato mondiale in quegli anni.

Se si accetta il principio che nello sviluppo capitalistico la crescita delle forze produttive sociali sia in fondamentale contrasto con i rap­porti sociali su cui esso poggia (come Amendola non fa) si può ben am­mettere che nel periodo fascista il capitalismo fascista abbia realizzato la propria crescita e l’arretramento dei rapporti sociali; ovvero che at­traverso rapporti sociali imperialisti e reazionari lo sviluppo (perché no, economico) capitalistico sia andato avanti. Ciò non cancella affatto il principio che quello sviluppo è comunque distorto, anche senza lo stato di polizia, e che quindi a determinati settori e livelli, all’interno del paese e su scala mondiale, produce effettivamente la stagnazione delle forze produttive sociali-, ma ciò deve spronare a una analisi delle circo­stanze specifiche che nell’insieme hanno migliorato le posizioni dell’Italia nel campo imperialistico mondiale nel secondo dopoguerra; e allo stesso tempo a verificare le storture e le stagnazioni all’interno dell’Italia del miracolo.

Se lo « sviluppo economico » e la « liquidazione dei residui feudali » derivano principalmente dalla lotta delle masse con l’esercizio delle li­bertà democratiche, non è possibile riconoscere al fascismo una buona gestione dello « sviluppo economico ».

Ecco spiegata la persistenza della convinzione che il fascismo sia stato una parentesi di « stagnazione economica »; e quindi la prevalenza di indagini sulle sue origini e la sua fine; oltre alla prevalenza di una storiografia del movimento operaio piuttosto che del capitalismo italiano.

La separazione tra « sviluppo economico » e rapporti sociali nel fa­scismo, rivive, rovesciata, nelle ideologie della « modernizzazione » se­condo le quali il fascismo avrebbe avuto una funzione propulsiva per la « industrializzazione » e quindi per la « modernizzazione »; costituendo una sorta di male necessario per approdare alla « maturità economica »

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e quindi alla « democrazia ». L’Italia diventa quindi un utile simbolo della necessità del fascismo dei regimi sorretti dalla CIA in tutto il mondo (l’immagine di Cenerentola che ha sposato il principe) senza precisare quante probabilità ci siano, nella situazione dell’imperialismo mondiale, per quei paesi appartenenti al « mondo libero » di diventare altrettante Italia67.

La svolta del V II Congresso dell’Internazionale

La promozione dello « sviluppo economico » senza aggettivi, e la con­seguente insistenza sul fascismo come mancato o rallentato sviluppo del capitalismo — che sono alla base della oggi corrente interpretazione del fascismo come regresso e stagnazione economica — hanno una origine più lontana nel tempo, di cui rappresentano una versione corrotta: le risoluzione del VII Congresso dell’Internazionale (1935), e in particolare la definizione del fascismo come dittatura terroristica aperta dei gruppi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario.

Come si vedrà oltre, tale definizione riprende letteralmente le parole di una risoluzione precedente, quella varata nel XIII Plenum del 1933, che però era apparsa con significato politico molto diverso; l’impiego delle stesse parole servì a conferire alla svolta del 1935, con il lancio della politica dei fronti popolari, un crisma di apparente continuità con le po­sizioni precedenti.

Il mutamento di tattica, volto a realizzare in vista del pericolo nazista alleanze le più vaste possibili, estese alla borghesia « dinamica » e « de­mocratica », fu una necessità reale; meno consistenti le parole d’ordine che comparvero da allora in poi: distinzione all’interno del capitalismo di gruppi più o meno imperialisti, restrizione progressiva della cricca di potere di cui il fascismo sarebbe stato rappresentante esclusivo, messa in questione dei rapporti sociali di produzione arretrati della campagna pre­capitalista piuttosto che della fabbrica moderna; sul piano culturale, la riscoperta dei passati meriti progressisti della borghesia (il « buon pas­sato » tedesco a cui si riferiva Brecht contro Lukàcs); in Italia, la rivalu­tazione del Risorgimento 68 e la maggiore insistenza sulle forme arcaiche precapitalistiche che il fascismo aveva congelato e rafforzato.

Quelle formulazioni riduttive sono sopravvissute alle occasioni im­mediate che le avevano giustificate; come se lo sdoppiamento tra parole d’ordine scelte per esigenze tattiche e analisi di fondo avesse finito per coprire queste ultime. Il vuoto di ricerche dello stesso spessore e dello stesso taglio in cui si è collocata la ristampa de II capitalismo nelle cam-

« V. nota 39.68 Cfr. Claudio Pavone, Le idee della resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento, in Passato e presente, 1959, n. 7.

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pagne di Sereni e II capitale finanziario di Grifone va spiegato in questo senso.

Le analisi comuniste del fascismo tra il 1926 e il 1936

Prima del 1936 nelle analisi del partito comunista italiano sul fa­scismo al potere prevale l’attenzione alle « cattive novità » del regime, alla forza che la crescente concentrazione del potere economico e finan­ziario da un lato, le novità organizzative del « regime reazionario di massa » dall’altro hanno conferito alla fragile compagine del capitalismo italiano.

L’analisi delle forze sociali che animano il fascismo « dal basso » è sempre in funzione del riconoscimento delle forze di classe del fascismo « dall’alto » che in quegli anni hanno effettuato la loro crescita e con­centrazione, cogli strumenti di uno stato di cui più che in qualunque altro periodo si potevano fidare.

Questo tipo di analisi, assai più sfumata e dialettica di quelle che ormai prevalevano nei consessi dell’Internazionale, compare già decisa­mente nelle Tesi di Lione (1926), elaborate nel momento in cui il potere fascista andava prendendo alcune importanti iniziative: dalla sostituzione di De’ Stefani, all’avvio alla rivalutazione monetaria, alle misure pro­tezionistiche e consortilistiche, alla battaglia del grano e alle leggi ecce- zioanli69.

Nella instaurazione del regime si vede il punto di incontro tra l’esi­genza di difendersi completamente da ogni attacco rivoluzionario e il proposito di unificare organicamente tutte le forze della borghesia; per questi motivi il movimento fascista ha potuto esprimere una mentalità da « capitalismo nascente »; anche se la collocazione nell’imperialismo mondiale, e la presenza all’interno del paese degli squilibri dello sviluppo capitalistico in forme esasperate, non poteva non portare l’Italia fascista verso la guerra imperialista.

In quegli anni dominava negli ambienti antifascisti socialdemocratici e liberali l’ipotesi del fascismo come fenomeno « agrario » e « precapi­talistico », come manifestazione del mancato sviluppo della borghesia. La Concentrazione antifascista di Parigi si faceva portavoce di queste posizioni; le risposte che Lo Stato operaio (mensile) ha dato, tra il 1927 e il 1935-36, in polemica con quelle posizioni e in vista di un appro­

69 In Trenta anni di vita e lotta del PCI, Roma, 1952, pp. 93-103. Questo è sol­tanto uno sguardo molto sommario alle evoluzioni successive al 1927 su Lo Stato operaio. Un esame dei precedenti politici e del significato delle Tesi di Lione sarebbe molto importante per misurare il modo in cui il giudizio sul fascismo ha marcato le distanze tra le correnti interne del PCI e tra questo e l’Internazionale; su questo tema rimando alla letteratura sull’argomento (Humbert - Droz, Hajek, Togliatti, Berti, Spriano, Ragionieri, Merli, Cortesi, De Clementi, ecc.).

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fondimento dei termini reali della situazione continuano le linee inter­pretative delle Tesi di Lione, anche se dal 1928-29 in poi sottolineano in senso più spiccatamente eversivo le indicazioni sulla specificità della situazione italiana.

Il primo numero de L o S ta to o p era io del 1927 ristampava l’arti­colo di Lenin sull’imperialismo italiano del 1915, nel quale smen­tendo gli slogans socialpatrioti della « Nazione proletaria » egli de­finiva quello italiano un im p e r ia lism o s tr a c c io n e : riprendendo l’annota­zione marxiana sullo sviluppo capitalistico che crea « d a u n la to eccesso d i c a p ita li, d a ll’a ltro eccesso d i m a n o d o p e ra », Lenin dimostrava come l ’Italia fosse allo stesso tempo un paese straccione (perché esportava pro­letari verso paesi più ricchi, il che alimentava appunto la retorica della « nazione proletaria ») e un paese imperialista, come dimostrava la guerra di Libia e l’intervento nella guerra mondiale. A questo tema dell’impasto di reazionarietà e modernità che coesistevano nelPimperialismo strac­cione italiano si riferiva anche l’editoriale di E rc o li (Togliatti) dello stesso numero, che definiva il fascismo una forza e non una debolezza dell’organizzazione capitalistica italiana, tale da far risultare assurda la spe­ranza di una sua caduta spontanea.

Ancora significativa la pubblicazione di un articolo di E. Varga su L e v ie d e l c a p ita lism o ita lia n o (n. 6, 1927), nel quale Varga ripeteva la sua previsione della crisi mondiale e si riferiva al caso italiano come gravido delle stesse contraddizioni degli altri paesi capitalistici. Una postilla di Tasca correggeva alcune grosse inesattezze dello scritto di Varga, nel quale questi si era riferito all’Italia come paese prevalente­mente agrario, precisando che anche dopo l’avvento del fascismo l’in­fluenza dell’industria era andata crescendo relativamente all’agricoltura; perché nella struttura politica l’industria esercita una pressione maggiore di quella strettamente relativa alle sue forze reali [...] perciò in Italia i ceti agrari non potranno impedire (come già nel 1915) l’entrata in guerra dell’Italia, termine a cui la sospingono, ben più che il cesarismo provinciale delle gerarchie politiche fasciste, lç tendenze fondamentali del capitalismo italiano [...] ».

Così contro le interpretazioni della Concentrazione antifascista che vedevano il fascismo come forza piccolo-borghese, S e c o n d in o T r a n q u i l l i (Ignazio Silone) nel saggio B o rg h es ia , p ic c o la b o rg h e s ia e fa sc ism o (L o S ta to o p era io , 1928, n. 4 )70 affermava che per capire la collocazione sociale del movimento fascista bisognava saper distinguere tra le fo r m e che esso assumeva e le fo r z e che effettivamente lo manovravano; di conseguenza l’identità tra fascismo e capitalismo andava ricercata non già nelle forme esteriori di esso, ma nella sua politica. L’apparente in-

70 Cfr. anche, dello stesso autore, Elementi per uno studio del PNF, in Lo Stato operaio, 1927, n. 8.

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terclassismo piccolo borghese del movimento consentiva ai fascisti di parlare di rivoluzione popolare diretta dalla piccola borghesia, mentre i socialisti vedendo la sua base di diffusione parlavano di movimento con­servatore diretto dagli agrari. Ma il fascismo si doveva giudicare dalla politica che faceva, dove appariva evidente la mano della grande, non della piccola borghesia.

Lo stesso principio, che si dovessero giudicare le linee di fondo e non le forme che il movimento fascista prendeva, applicava Grieco, quando nel parlare della crisi agraria seguita alla deflazione del 1927, e dell’alto prezzo dei concimi voluto dal monopolio chimico, faceva i conti in tasca ai grandi agrari, deducendo che essi avevano potuto ac­cettare l’alto prezzo dei concimi perché, se le dimensioni delle loro aziende erano abbastanza cospicue, si rifacevano, sugli alti dividendi che percepivano come azionisti della Montecatini, della differenza di prezzo che avevano dovuto pagare per i concimi.

Mentre i socialisti della Concentrazione di Parigi avevano interpre­tato la quota novanta e la battaglia del grano come una concessione agli agrari, che avrebbe rovinato i capitalisti « moderni » (un gesto « retrivo », secondo le loro parole, e « precapitalistico », che spogliava ora i capi­talisti gettandoli nel mucchio con i proletari già spogliati71, Tasca spie­gava come nella grave situazione inflazionistica del momento la stabiliz­zazione monetaria fosse quanto qualunque governo borghese avrebbe fatto nell’interesse generale del sistema, e quanto era indispensabile fare per assicurare un terreno più sicuro ai prestiti americani72. Alla luce delle tendenze fondamentali alla razionalizzazione e concentrazione, se­condo Tasca evidentissime senza soluzione di continuità in tutti i paesi capitalistici dopo la fine della prima guerra mondiale, e alla luce della tendenza a tutti comune di utilizzare gli strumenti di intervento statale del periodo bellico per risolvere i nuovi problemi della ricostruzione e del dopoguerra, la stabilizzazione monetaria andava vista come lo stru­mento principale di questa concentrazione73.

71 Le Quotidien del 16 luglio 1927 uscì col titolo: Il manganello che colpì i poveri colpisce ora anche i ricchi. Il Corriere degli Italiani del 24 giugno era uscito con il titolo: Agrari, commercianti e industriali si staccano dal fascismo.72 In parziale polemica con Tasca, fu pubblicata nel novembre 1927 una corrispon­denza privata di « un amico dall’Italia » (Piero Sraffa), che sosteneva che il modo in cui la stabilizzazione era stata condotta faceva pensare che si trattasse di deliberata rivalutazione e non semplice stabilizzazione; il che richiedeva una maggiore attenzione ai motivi politici di prestigio del gesto, e non permetteva di vederlo come meccani­camente suggerito dal capitale finanziario. Sraffa non vedeva che la recessione (e la diminuzione dei salari, non seguita da analoga riduzione dei prezzi) avrebbe danneg­giato i lavoratori molto più di quanto la rivalutazione potesse momentaneamente fa­vorirli; ma la sua preoccupazione di osservare con più attenzione le mediazioni politiche, e l’esattezza dei suoi rilievi che di deliberata rivalutazione si era trattata (e non di semplice stabilizzazione come Tasca tendeva a interpretare) arricchirono il discorso.73 La rivalutazione della lira e i prestiti americani, in Lo Stato operaio, 1927, n. 3 e

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La « restaurazione antifascista liberista » 93

Le frasi di Mussolini sulla « ruralizzazione » dell’Italia venivano in­terpretate, letteralmente, dagli uomini della Concentrazione come for­mula retrograda, che avrebbe ricondotto l’economia del paese a forme arretrate, ecc. ma veniva loro replicato che al di là del prodotto speci­fico e puramente retorico dello spirito piccolo-borghese del fascismo e del suo capo (« le correnti perniciose della civiltà contemporanea », « io non voglio industrie intorno a R o m a », ecc.) il progetto di avviare investimenti in agricoltura per promuovervi un mercato interno era di per sé quanto una borghesia illuminata avrebbe dovuto fare, dato il disagio dovuto a mancanza di materie prime e di sbocchi. Si era alla vigilia degli stanziamenti per la bonifica integrale, e ci si rendeva conto che — oltre a una stabilizzazione sociale che non intaccava l’assetto proprietario —• queste forme, piuttosto che una regressione al Medio Evo, erano semmai una forma di keynesismo straccione: necessariamente li­mitato nei risultati ma non arretrato come disegno.

In conclusione: le indagini che appaiono su L o S ta to o p era io nel 1927-29 riprendono le indicazioni delle Tesi di Lione per quanto riguarda gli specifici modi, non p iù rivoluzionari e già reazionari in cui era avve­nuto lo sviluppo capitalistico in Italia, per sottolineare quanto di mo­derno e organicamente utile alla parte più forte e avanzata della bor­ghesia ci fosse nella politica del fascismo, anche se questa si manifestava con forme e compromessi politici reazionari. Le forme « arretrate » del fascismo vengono viste come una verità dello sviluppo capitalistico nel­l’età dell’imperialismo, e non del suo mancato sviluppo; le forme più deboli della coalizione padronale fascista (latifondisti, industria leggera) vengono visti nella loro posizione non soverchiarne e subordinata ri­spetto ai grandi monopoli.

Tra il V I e il V II Congresso

Il VI Congresso dell’IC (estate 1928) e soprattutto il X Plenum •(estate 1929) sanciscono le tesi del « socialfascismo » e le indicazioni economicistiche e catastrofistiche del capitalismo giunto alla « terza fase », « dittatura del capitale finanziario » « dittatura del capitalismo giunto alla fase di decomposizione » ecc.

Anche se tale catastrofismo si appoggiava all’esperienza della crisi mondiale, che era stata prevista per tempo, mancava a questo quadro la prospettiva della lotta di classe, e la genericità del quadro impediva una strategia più puntuale e precisa per combattere il pericolo nazista: l’ipotesi del « socialfascismo », e la tattica che ne seguì produssero i danni che sappiamo 74.

La politica dei prezzi del regime fascista, ibid.74 Cfr. Enzo Collotti, Fascismo internazionale-, un aggiornamento bibliografico, in II movimento di liberazione in Italia, luglio-settembre 1968, n. 92, p. 114.

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Il partito italiano, come è noto, non ha meccanicamente applicato quegli schemi75, e ha insistito sulla specificità della situazione italiana per dedurre l’impossibilità di una sua assimilazione a quella tedesca; ma proprio la specificità della situazione italiana è in questi anni rivendicata per una soluzione eversiva e rivoluzionaria.

Ne Lo Stato operaio n. 5, 1928, Ercoli (Togliatti) così scrive:

[...] La tesi del nostro partito è che il fascismo è espressione e conseguenza dello sviluppo organico, economico e politico, del capitalismo italiano [...] sviluppando questa concezione noi dimostriamo che l’avvento del fascismo non ha reso storicamente attuale e politicamente possibile in Italia una seconda rivoluzione borghese-democratica ma ha posto in evidenza nel modo più brutale che all’ordine del giorno della politica italiana è la rivoluzione proletaria [...].

Dopo il 1929 si moltiplicano gli attacchi alle forze antifasciste so­cialdemocratiche e liberaldemocratiche, impersonate sempre più spesso dal movimento « Giustizia e Libertà ». I propositi neorisorgimentali di rivoluzione democratico-borghese vengono bollati di velleitarismo e ir­realizzabilità, insieme a sprezzanti giudizi sul « cosiddetto Risorgimento » (secondo la definizione delle Tesi di Lione). Gli attacchi non intendono identificare le correnti antifasciste borghesi col fascismo, ma piuttosto indicano come i loro propositi siano stati portati avanti in maniera neces­sariamente distorta dal fascismo stesso. È il caso delle polemiche che Grieco condusse con il programma agrario di « Giustizia e Libertà » 76 sostenendo che se la borghesia italiana non aveva voluto fare la rivolu­zione democratica nel 1848, non poteva pretendere di risolvere i pro­blemi con piccole riforme in ritardo; o dei rilievi di Togliatti intorno ai giudizi di Salvemini sulla politica estera fascista, in cui si ribadiva che non era la buffoneria o la mania di grandezza di Mussolini a determinare le oscillazioni e le incoerenze della sua politica estera, ma il carattere organicamente imperialistico del capitalismo italiano a determinare una politica di satellitismo nell’orbita dell’imperialismo americano, inglese e francese77.

75 Cfr. G iorgio Caforno, Il dibattito al X Plenum della I I I Internazionale sulla socialdemocrazia, il fascismo e il socialfascismo, in Critica marxista, 1965, n. 4; e Ernesto Ragionieri, Togliatti, Grieco e Di Vittorio alla Commissione italiana del X Plenum della IC, in Studi storici, 1971, n. 1 e Paolo Spriano, Storia del PCI,. vol. II, Torino, 1969.76 Cfr. La socialdemocrazia italiana e lo spettro del comuniSmo, in Lo Stato operaio, n. 6, 1931; Ercoli, Sul movimento di G .L., in Lo Stato operaio, n. 9, 1931; R. G rieco, Riforma o rivoluzione agraria, in Lo Stato operaio, n. 12, 1931; R. G rieco, Il programma agrario di G. L., in Lo Stato operaio, n. 4, 1932; R. G rieco, Il nostro programma contadino e i suoi critici, in Lo Stato operaio, n. 6, 1932, ecc.77 Cfr. Ercoli, Per comprendere la politica estera del fascismo italiano, in Lo Stato operaio, n. 5, 1933. Sulle componenti neocoloniali del fascismo, v. L. G allo, Aspetti dell’imperialismo italiano, in Lo Stato operaio, n. 4, 1932.

Per una recente discussione su quest’ultimo tema, cfr. Franco Catalano, L’Italia

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La « restaurazione antifascista liberista 95

Come ha osservato giustamente C. Pavone, Lo Stato operaio in quegli anni, utilizzava anche le analisi degli anni precedenti per sostenere che « ciò che si deve, senza rimpianti, rimproverare alla borghesia italiana (se avessero un senso rimproveri di tal fatta) non è di essere stata poco coerente, ma di essere, puramente e semplicemente, borghesia » 7S. Gli attacchi duri e spesso ingiusti, contro gruppi e persone che pur subivano con coraggio e dignità i colpi della repressione fascista, erano intesi a negare la validità di qualunque istanza borghese-progressista in quella fase del capitalismo imperialista; e ciò in aderenza alle prospettive eco­nomicistiche e catastrofistiche dell’Internazionale.

Tema centrale delle risoluzioni dell’Internazionale in quegli anni è la definizione del capitalismo maturo come capitale monopolistico di stato, o come dittatura del capitale finanziario. Si sottolinea con maggiore insistenza come il processo di concentrazione capitalistica comporti la dittatura di un pugno di parassiti sempre più ristretto, contrapposto alla massa della popolazione (tesi che sarà utilizzata per conclusioni politiche del tutto opposte con la svolta del VII Congresso); e come il capitalismo dei monopoli, riflettendo in forma esasperata la contraddizione tra svi­luppo delle forze produttive e rapporti capitalistici di produzione, porti a un arresto delle forze produttive stesse, preparando la strada alla rivo­luzione.

Tra il 1929 e il 1935 Lo Stato operaio presta particolare attenzione alla progressiva concentrazione del capitale finanziario; appaiono contri­buti diretti e indiretti di Grifone e di Sereni79 sulla concentrazione finanziaria e sugli interventi di stato. Ma la crescita e il consolidamento del « capitale monopolistico di stato », si ribadisce, sono fasi del capi­talismo e non, alla Hilferding o alla Otto Bauer, un avvio indolore al socialismo 80.

Mentre gli orientamenti dell’Internazionale insistevano sugli esiti catastrofici che la progressiva involuzione del capitalismo maturo non avrebbe potuto non avere, e vedevano anche l’instaurazione dei regimi fascisti come incapace di arginare l’indebolimento della compagine bor­ghese, il partito italiano anche negli anni in cui settariamente rifiutava ogni alleanza con le forze antifasciste borghesi ha insistito sul carattere di forza e di crescita che il fascismo aveva rappresentato per la borghesia italiana 81.

dalla dittatura alla democrazia, Milano, 1968 e G iampiero Carocci, La politica estera dell’Italia fascista, Bari, 1969.78 C. P avone, op. cit., p. 885.79 V. A g r est e , Il capitale finanziario in Italia, in Lo Stato operaio, 1930, n. 78.80 Cfr. La dottrina socialdemocratica del capitalismo di Stato, in Lo Stato operaio, n. 5, 1932; e Luigi G allo, La « cattiva » socialdemocrazia tedesca e la « buona » socialdemocrazia italiana, in Lo Stato operaio, n. 5, 1933.81 Cfr. oltre ai testi della n. 75, il discorso di Togliatti al Presidium dell’IC pub-

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96 Ester Fano Damascelli

Proprio intorno a questo tema si articolano le Lezioni sul fascismo di Togliatti, degli inizi del 1935, quindi immediatamente anteriori al VII Congresso. Esse si aprono con la nota definizione del fascismo come « dittatura terroristica aperta dei gruppi più reazionari ecc. », quale era stata data dal XIII Plenum dell’IC nel 1933, cioè in un contesto e con implicazioni « ultrasinistre » 82. Pur nella sua notevole imprecisione ter­minologica, l’affermazione intendeva distinguere tra i metodi « demo­cratici » e quelli fascisti veri e propri come forme diverse della dittatura della borghesia; quando la stessa definizione fu ripresa da Dimitrov nel 1935 con le stesse parole, essa passò, in apparente continuità con le posizioni precedenti, a indicare le differenze tra una borghesia « parassi- taria » e una borghesia « dinamica », se non a definire il capitale finan­ziario in modo abbastanza ambiguo da poterlo distinguere dal capitalismo tout court83.

blicato in Critica Marxista, a. V ili, 1970, n. 5, pp. 182 sgg. e lo scritto di Togliatti, Dov’è la forza del fascismo italiano? pubblicato nel 1934 su L'Internationale commu­niste e stampato ora in appendice alle Lezioni sul fascismo, cit.

Il giudizio sul periodo 1928-35 nella politica del partito comunista italiano coin­volge questioni ben più cruciali e complesse della documentata differenza e maggiore validità delle posizioni di questo riguardo al fascismo in confronto alle prese di posi­zione dell’Internazionale. Proprio in quegli anni di relativo isolamento settario si vennero costruendo le strutture di quello che più tardi ha assunto i lineamenti di partito di massa. Su questi temi, in occasione della pubblicazione del libro di Secchia (P ietro Secchia, L’azione svolta dal partito comunista italiano durante il fascismo, 1926-1932. Ricordi, documenti mediti e testimonianze, Milano, 1969), cfr. Ernesto Ragionieri, Il partito della « svolta » e la politica di massa, in Critica marxista, n. 5, 1971; Luigi Cortesi, In margine al libro di Secchia. Sul PCI negli anni della « svolta », in Movimento operaio e socialista, n. 4, 1970; N icola G allerano, Il PCd’I tra il 1926 e il 1932, in II movimento di liberazione in Italia, n. 101, 1970; e la risposta di P. Secchia, Le nostre scelte, in II Calendario del popolo, n. 318, aprile 1971.82 In Der Faschismus in Deutschland, Moskau-Leningrad, 1934 si possono vedere i resoconti dei lavori del XIII Plenum (novembre-dicembre 1933). Significativo l’in­tervento di P. Dutt, che dichiarava essere il New Deal rooseveltiano una delle forme più avanzate di fascistizzazione, a riprova della scarsa attenzione prestata alla diversità delle forme di governo borghesi. Cfr. anche, su Lo Stato operaio, n. 8, agosto 1933, l’articolo firmato A. D.: Che cosa è l’esperimento Roosevelt, che non sostiene tesi così generiche, e non mostra di condividere le vedute dominanti nel XIII Plenum, secondo le quali tutte le forme di fascistizzazione avrebbero rappresentato la prova di una debolezza mortale del capitalismo maturo. Alle prime misure di intervento nell’economia da parte di Roosevelt si riconosce un carattere di sanatoria di breve periodo, per ribadire l’organica necessità di ricorrere comunque a soluzioni guerra­fondaie nel più lungo periodo, da parte del capitalismo statunitense.83 II P oulantzas, nel recente libro Fascisme et Dictature. La I l le Internationale face au fascisme, Paris, Maspero, 1970, sostiene che l’economicismo accentuato del periodo 1928-35, e la marcata tendenza a restringere sempre più la definizione della cricca che esercitava il potere, si prestava a un completo rovesciamento di conclusioni politiche come avvenne, nel 1935. È il caso della definizione del fascismo come dit­tatura terroristica aperta ecc. che ritroveremo con le stesse parole al VII Congresso.

C’è da aggiungere che in quel periodo maturavano nella sinistra fondamentali aggiornamenti della teoria economica, che smentivano il catastrofismo e l’attesa di un crollo spontaneo del capitalismo (Kalecki, ad es.). Se il divorzio tra essa e la III

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Nelle Lezioni sul fascismo di Togliatti è ancora presente la tematica degli anni precedenti, ad esempio nella definizione del fascismo come « dittatura aperta », diversa dalla democrazia borghese « altra forma di dittatura » (p. 5); o nella confutazione delle interpretazioni socialdemo­cratiche del fascismo, p. 6; o nel riferimento a Lenin: « [...] non si può sapere cosa è il fascismo se non si conosce Timperialismo », p. 7.

Al centro del discorso è l’avvenuta crescita ed evoluzione della bor­ghesia italiana con gli strumenti dello stato fascista; perché il fascismo si è affermato come « partito di tipo nuovo » della borghesia, e ha rap­presentato quindi un momento di forza e di aggregazione che ha per­messo, nelle sue forme specifiche reazionarie, il rafforzamento e l’avanzata del capitalismo con gli strumenti dello stato. Il fascismo

[...] ha cambiato qualcosa nel senso che ha reso molto più solide, molto più forti, in Italia, le posizioni dell’industria rispetto a quelle dell’agricoltura, ha rafforzato le posizioni della banca in tutto il paese, ha rafforzato in tutta l’economia le posizioni del capitale finanziario f ...]84.

L’analisi del corporativismo, delle bonifiche, della politica granaria, dei miseri provvedimenti contro la disoccupazione, è tutta volta a rintrac­ciare le forze reali che agiscono via via attraverso forme apparentemente popolari o piccolo-borghesi. È nelle crepe degli organismi di massa fa­scisti che si deve inserire l’azione dei militanti; bisogna conoscere bene il « partito di tipo nuovo » della borghesia per vulnerarlo sul suo terreno: ma si tratta di misure tattiche, non strategiche. E le preziose analisi del modo in cui lo stato borghese fascista intrattiene un rapporto con le masse, nuovo e spregiudicato rispetto allo stato liberale, sono volte a riconoscere, dietro alle apparenze demagogiche, i lineamenti del potere di classe 85.

Internazionale non fosse stato completo, si sarebbe insistito meno sulla incapacità del capitalismo maturo di sviluppare le forze produttive; altra tesi che, applicata soltanto al fascismo, è rimasta di uso corrente dopo il VII Congresso.84 P. Togliatti, op. cit., p. 137. Per quanto riguarda il rafforzamento dei residui feudali nelle campagne e in particolare nel Mezzogiorno, Togliatti osservava che il partito non aveva ancora condotto sufficienti indagini sull’argomento. Il caso della Sicilia, dove i grandi latifondisti rappresentavano i pilastri del regime, faceva pensare che la contemporanea crescita del Banco di Sicilia fornisse un esempio di penetra­zione del capitale finanziario nelle campagne attraverso gli elementi feudali; sempre però nel quadro di una generale crescita dei settori più forti e moderni del capita­lismo italiano.85 L. Paggi, in La formazione del partito comunista di massa nella società italiana, in Studi storici, n. 2, 1971, in margine al dibattito sul libro di Secchia e alla recente pubblicazione delle Lezioni sul fascismo di Togliatti, si domanda come mai negli anni successivi al 1945 opere come quelle di Sereni e Grifone non abbiano conosciuto prosecuzioni, aggiornamenti, sviluppi. Un serio ritardo nell’analisi marxista della società italiana nuoce evidentemente anche allo sviluppo degli studi della storia del partito comunista italiano. Secondo il Paggi Togliatti, con la precisione e l’autonomia di giudizio proprie del partito italiano nei confronti dellTnternazionale, si era reso

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98 Ester Fano Damascelli

La svolta del V i l Congresso

Con il lancio della politica dei fronti popolari, la già citata interpre­tazione del fascismo apre la strada alla nuova tattica di alleanze, caratte­rizzata, come è noto, dalla pratica degli accordi di vertice con partiti e movimenti antifascisti non comunisti. Ciò rende improvvisamente molto accentuato il margine di « doppiezza » e divergenza tra parole d’ordine genericamente progressiste e le effettive posizioni dei comunisti86.

Al livello delle indagini sulla situazione italiana, in continuità apparen­te con tutti i periodi precedenti, si proseguono le ricerche sulla specificità

conto tempestivamente che gli anni centrali del fascismo rappresentavano un mo­mento di forza del potere borghese, e insieme una fase di decisiva trasformazione strutturale e della società civile. Avendo giudicato che la borghesia italiana traeva forza dal proprio partito « di tipo nuovo », che organizzava le masse in maniere sconosciute allo stato liberale, Togliatti e il gruppo dirigente del PCI avrebbero gettato le basi per un partito comunista di massa; essendo diminuita la fiducia nella possibilità di giocare sui contrasti interni alla borghesia negli anni successivi al 1930, essi avrebbero sempre più puntato su formule di organizzazione di massa, potenziate poi decisivamente dalla svolta del VII Congresso.

L’ipotesi è assai suggestiva, ma la definizione di « partito di massa » non sembra sufficiente a giustificare, da parte di quel partito, quello che il Paggi definisce « disinteresse per una ricerca teorica marxista e per le nuove tematiche e metodologie sviluppatesi nell’ambito di altre scienze sociali ». C’è da domandarsi se l’equazione partito di massa = partito non di classe, la spiegazione sociologica e non politica dell’avvenuto abbandono di una analisi e strategia rivoluzionaria non siano dovute aWinteresse, da parte dell’autore, alle nuove tematiche e metodologie sviluppatesi nell’ambito di altre scienze sociali.86 Che quella del VII Congresso sia stata una svolta è ben evidente alla lettura dell’appello lanciato dal Comitato centrale del PCI contro la guerra di Etiopia: Salviamo il nostro paese dalla catastrofe! o dall’editoriale La riconciliazione del popolo italiano è la condizione per salvare il nostro paese dalla catastrofe (Lo Stato operaio, 1936, n. 6) dopo la fine della guerra di Etiopia; nel quale ultimo si legge tra l’altro: « [...] tutte le ricchezze del paese, create dal lavoro dei nostri lavoratori e del genio italiano, sono nelle mani di un pugno di persone, di parassiti della Nazione, dei Volpi, dei Donegani, dei Pirelli, dei Morpurgo e compagnia; e dei nobili grandi proprietari agrari e latifondisti, gli Spada, i Doria, i Borghese, i Ruffo, i Pavoncelli e simili. Questa gente si preoccupa delle proprie rendite e non dei bisogni del popolo... (sono essi, che nel loro interesse vogliono la guerra) [...].

Perchè non si apre subito un vasto campo di attività ai giovani lavoratori del braccio e del pensiero? Gli è che i milionari e gli speculatori vogliono la guerra e non vogliono pagarne le spese! [...] I danari ci sono. Sia fatto un prelevamento proporzionale e progressivo su tutti i patrimoni superiori a un milione; siano confiscati tutti i sovrapprofitti superiori al 6%... allora i miliardi verranno fuori [...] [per scuole, ospedali, campi sportivi, ecc.]. Sia fatta una politica di pace [...]. Se l’Italia entra nel novero degli Stati che vogliono organizzare la pace [...] essa potrà alleggerire di molto il peso delle ingenti spese militari [...], perchè la difesa del territorio na­zionale sarà affidata alla organizzazione della sicurezza collettiva. Altri miliardi po­tranno essere così destinati alle opere di pace, che elevino il benessere e la cultura del nostro popolo [...].

Noi comunisti vogliamo fare l’Italia forte, libera e felice. La nostra aspirazione è pure la vostra, o fascisti, cattolici, uomini italiani di ogni opinione politica, di ogni fede religiosa. Uniamoci. Uniamoci in un solo cuore e in una sola volontà [...]: parliamo un linguaggio solo: quello degli interessi del popolo e del paese ».

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del capitalismo italiano, sulla specifica reazionarietà della borghesia ita­liana; m a p e r c o n c lu d e re c h e to c ca v a o ra a lle p iù v a s te a lle a n ze p o p o la r i fa r e c iò c h e essa n o n a v e v a fa t to .

Di conseguenza, viene dilatata l’importanza delle zone precapitalisti­che che questa ha confermato senza liquidarle; e l’asse della ricerca e del­l’intervento modificatore del partito si sposta verso le questioni agrarie.

Le indagini sulla « via prussiana » dell’accumulazione capitalistica in Italia (avviate da Gramsci e Grieco, iniziate da E. Sereni intorno al 1930 sulle pagine de L o S ta to o p e r a io ) vengono proseguite, insistendo però sulle fo r m e feudali e non sulle fo r z e capitalistiche che latifondisti e fami­glie nobili rappresentano.

È dopo il 1936 che appaiono le indagini di Sereni sull’accresciuta pre­senza delle famiglie nobili italiane negli apparati di potere e dello stato 87, e a differenza di quanto era avvenuto prima (e di quello che è il metodo di indagine prevalente de I I c a p ita lis m o n e lle c a m p a g n e ) si insiste sulla re­staurazione della figura del latifondista, senza vedere in quali maniere questo sia, attraverso il capitale finanziario e il controllo dei consorzi, uno strumento di penetrazione del capitale finanziario nelle campagne, trascu­rando relativamente la crescita economica dell’azienda capitalistica della Valle Padana, che non è una azienda proprietaria.

Il libro di Grifone risente meno delle svolte tattiche di quegli anni, perchè ovviamente il linguaggio usato tra militanti in carcere non necessi­tava mediazioni. Una traccia della svolta del VII Congresso si potrebbe ravvisare, tuttavia, nel fatto di circoscrivere il discorso alla situazione italiana, vedendo quella internazionale sullo sfondo, nei suoi aspetti sol­tanto congiunturali.

Ciò, ad altri livelli, ha permesso di continuare a formulare accuse con­tro i monopoli, ma in nome anche della piccola impresa agricola e indu­striale da questi danneggiata, e in nome di una politica di « sviluppo economico » contro la « stagnazione » da questi voluta; mettendo l’accento non più sulla lotta al capitalismo nella sua fase monopolistica, ma sulla lotta contro i monopoli.

E ster Fano D amascelli

87 E. Sereni, La terra d’Italia ai contadini italiani, in Lo Stato operaio, 1936, n. 6.