La responsabilità del magistrato nell’ordinamento...

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La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano La progressiva trasformazione di un modello: dalla responsabilità del magistrato burocrate a quella del magistrato professionista di Francesco Dal Canto ∗∗ SOMMARIO : 1. Premessa: la responsabilità del magistrato come concetto unitario. Delimitazione del tema; 2. I presupposti: la funzione giurisdizionale come esercizio di un potere “pieno” e indipendente; 3. Una precisazione: possibile la reductio ad unum tra responsabilità del giudice e quella del pubblico ministero?; Sezione I : 4. La responsabilità disciplinare: a) il periodo liberale e quello fascista; 5. Segue: b) la legge sulle guarentigie del 1946 e la Costituzione repubblicana del 1948: la ratio e il fondamento costituzionale della responsabilità disciplinare; 6. Segue: c) il sistema previgente fondato sull’art. 18 della Legge sulle guarentigie della magistratura: i limiti, la prassi e gli interventi della Corte costituzionale; 7. Segue: d) cenni al dibattito sulla riforma della responsabilità disciplinare nell’ordinamento italiano prima del 2005; 8. Segue: e) la legge “Castelli” n. 150/2005: considerazioni generali; 9. Segue: f) i profili sostanziali della giustizia disciplinare nella legge “Castelli”; 10. Segue: g) la legge “Castelli” e il ruolo del giudice: la responsabilità del magistrato tra attività interpretativa e coinvolgimento politico; 11. Segue: h) i profili processuali della giustizia disciplinare nella riforma “Castelli”; 12. Segue: i) le modifiche apportate dalla legge “Mastella” n. 269/2006: finalmente un punto fermo?; 13 Segue: l) all’indomani delle riforme: i fluidi confini tra deontologia, professionalità e responsabilità; Sezione II : 14. La responsabilità civile del magistrato e la responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari: a) cenni al sistema vigente nello Stato liberale e al codice di procedura civile del 1940; 15. Segue: b) la Costituzione repubblicana del 1948, l’art. 28 sulla responsabilità dei pubblici dipendenti e l’interpretazione datane dalla giurisprudenza; 16. Segue: c) Il referendum abrogativo del 1987 e la l. n. 117/1988: i dubbi di costituzionalità, i problemi applicativi e le ipotesi di riforma; 17. Segue: d) la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee e il suo possibile impatto sul sistema italiano della responsabilità civile; Sezione III : 18. Cenni alla responsabilità penale del magistrato …; 19. … e a quella contabile; 20. Osservazioni conclusive. 1. Premessa: la responsabilità del magistrato come concetto unitario. Delimitazione del tema Quello della responsabilità del magistrato è un concetto unitario, strettamente collegato al ruolo del Potere giudiziario nell’ordinamento e alla natura della funzione giurisdizionale. Le diverse aggettivazioni che tradizionalmente seguono il termine responsabilità (civile, penale, disciplinare, contabile, perfino politica), pur richiamando formule dirette al raggiungimento di obiettivi non coincidenti ed essendo evocative di forme di tutela di beni differenti, corrispondono tuttavia a profili distinti di una medesima problematica. Ciò che, in primo luogo, conforta tale affermazione è la circostanza per la quale le diverse forme di responsabilità trovano tutte la propria ragion d’essere nella constatazione che la funzione giurisdizionale si sostanzia nell’esercizio di un “potere”; ciò da cui consegue, Relazione svolta in occasione delle VI Giornate italo-spagnole di giustizia costituzionale, dedicate al “Poder judicial”, a La Coruňa (Spagna), nei giorni 27-28 settembre 2007. ∗∗ Professore associato di diritto costituzionale nell’Università di Pisa. 1

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La responsabilità del magistrato nell’ordinamento italiano La progressiva trasformazione di un modello: dalla responsabilità del magistrato

burocrate a quella del magistrato professionista∗

di Francesco Dal Canto∗∗

SOMMARIO: 1. Premessa: la responsabilità del magistrato come concetto unitario.

Delimitazione del tema; 2. I presupposti: la funzione giurisdizionale come esercizio di un potere “pieno” e indipendente; 3. Una precisazione: possibile la reductio ad unum tra responsabilità del giudice e quella del pubblico ministero?; Sezione I: 4. La responsabilità disciplinare: a) il periodo liberale e quello fascista; 5. Segue: b) la legge sulle guarentigie del 1946 e la Costituzione repubblicana del 1948: la ratio e il fondamento costituzionale della responsabilità disciplinare; 6. Segue: c) il sistema previgente fondato sull’art. 18 della Legge sulle guarentigie della magistratura: i limiti, la prassi e gli interventi della Corte costituzionale; 7. Segue: d) cenni al dibattito sulla riforma della responsabilità disciplinare nell’ordinamento italiano prima del 2005; 8. Segue: e) la legge “Castelli” n. 150/2005: considerazioni generali; 9. Segue: f) i profili sostanziali della giustizia disciplinare nella legge “Castelli”; 10. Segue: g) la legge “Castelli” e il ruolo del giudice: la responsabilità del magistrato tra attività interpretativa e coinvolgimento politico; 11. Segue: h) i profili processuali della giustizia disciplinare nella riforma “Castelli”; 12. Segue: i) le modifiche apportate dalla legge “Mastella” n. 269/2006: finalmente un punto fermo?; 13 Segue: l) all’indomani delle riforme: i fluidi confini tra deontologia, professionalità e responsabilità; Sezione II: 14. La responsabilità civile del magistrato e la responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari: a) cenni al sistema vigente nello Stato liberale e al codice di procedura civile del 1940; 15. Segue: b) la Costituzione repubblicana del 1948, l’art. 28 sulla responsabilità dei pubblici dipendenti e l’interpretazione datane dalla giurisprudenza; 16. Segue: c) Il referendum abrogativo del 1987 e la l. n. 117/1988: i dubbi di costituzionalità, i problemi applicativi e le ipotesi di riforma; 17. Segue: d) la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee e il suo possibile impatto sul sistema italiano della responsabilità civile; Sezione III: 18. Cenni alla responsabilità penale del magistrato …; 19. … e a quella contabile; 20. Osservazioni conclusive.

1. Premessa: la responsabilità del magistrato come concetto unitario. Delimitazione del

tema Quello della responsabilità del magistrato è un concetto unitario, strettamente collegato al

ruolo del Potere giudiziario nell’ordinamento e alla natura della funzione giurisdizionale. Le diverse aggettivazioni che tradizionalmente seguono il termine responsabilità (civile, penale, disciplinare, contabile, perfino politica), pur richiamando formule dirette al raggiungimento di obiettivi non coincidenti ed essendo evocative di forme di tutela di beni differenti, corrispondono tuttavia a profili distinti di una medesima problematica.

Ciò che, in primo luogo, conforta tale affermazione è la circostanza per la quale le diverse forme di responsabilità trovano tutte la propria ragion d’essere nella constatazione che la funzione giurisdizionale si sostanzia nell’esercizio di un “potere”; ciò da cui consegue,

∗ Relazione svolta in occasione delle VI Giornate italo-spagnole di giustizia costituzionale, dedicate al “Poder

judicial”, a La Coruňa (Spagna), nei giorni 27-28 settembre 2007. ∗∗ Professore associato di diritto costituzionale nell’Università di Pisa.

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secondo uno dei principi fondanti degli Stati democratici, l’esigenza di configurare un corrispondente sistema di responsabilità1.

In particolare, il principio per cui la responsabilità presuppone un potere e al potere segue una responsabilità appare imprescindibile sia che si voglia fare esclusivo riferimento a forme di responsabilità di natura giuridica sia, in un certo senso a maggior ragione, che invece si voglia estendere lo sguardo alla c.d. responsabilità politica del magistrato2.

E’ noto, infatti, che di responsabilità politica dei magistrati si è cominciato a parlare3, da varie angolature e fino a prefigurare di essa anche una versione piuttosto ridotta - quella della c.d. responsabilità “diffusa”4 - soprattutto a partire dagli anni Settanta, in particolare facendo leva sull’ambigua formula contenuta nell’art. 101 Cost.5, ai sensi del quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo”. Tale tipo di responsabilità - che periodicamente, soprattutto nei periodi di crisi dei rapporti tra giustizia e politica, viene in vario modo rievocata6 - sottintende, com’è evidente, una qualche forma di inserimento della funzione giurisdizionale nel circuito di quelle che trovano la propria legittimazione nella sovranità popolare, e, dunque, tocca al cuore problemi di enorme portata quali quello riguardante la stessa legittimazione del potere giudiziario.

Tuttavia, le numerose speculazioni su tale tematica, pur orientate a dare risposte ad esigenze reali7, hanno trovato - mi pare - anche in Italia un insuperabile ostacolo nel dato, in fondo ovvio, ricavabile dal principio della separazione dei poteri e dall’assunto in base al quale la funzione giurisdizionale si configura in primo luogo come una funzione di controllo8, ancorché dotata di una, talora marcata,“intrinseca politicità”.

Senza diffondersi ulteriormente su tali questioni, pare comunque indubbio che la responsabilità politica presenta dei tratti di maggiore disomogeneità rispetto a quelli che sono

1 In questo senso si veda già M. CAPPELLETTI, Giudici irresponsabili?, Milano, 1988, 6ss. 2 Cfr. F. BIONDI, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale, Milano, 2006, 1ss., la

quale, affrontando nel suo recente ed approfondito lavoro monografico anche gli aspetti concernenti la responsabilità politica del magistrato, prende le mosse da una definizione molto ampia di responsabilità quale quella formulata da Mortati (C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, 229), secondo il quale con la stessa si intende la situazione che si verifica quando si è chiamati a rispondere degli effetti non conformi a quelli che si sarebbero dovuti attendere dall’esplicamento di una determinata attività.

3 Sul problema della responsabilità politica dei magistrati, cfr., con accenti e posizioni diverse, M. RAMAT, Responsabilità politica della magistratura, in Foro amm., 1969, III, 75ss., G. BORRÉ-P. MARTINELLI-L. ROVELLI, Unità e varietà nella giurisprudenza, in Foro it., 1971, V, 45ss., A. PIZZORUSSO, Democrazia partecipativa e attività giurisdizionale, in Quale Giustizia, 1975, 1ss., G. VOLPE, Sulla responsabilità politica dei giudici, in Scritti in onore di C. Mortati, IV, Roma, 1977, 809ss. E. CHELI, Funzione giurisdizionale e responsabilità poitica, in AA.VV., Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Bologna, 1978, 143ss.e G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 220ss., A. PIZZORNO, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo delle virtù, Roma, 1998, 1ss., A. PIZZORUSSO, Principio democratico e principio di legalità, in Questione giustizia, 2003, 1ss., G. SILVESTRI, Sovranità popolare e magistratura, in AA.VV., La sovranità popolare nel pensiero di Esposito, Crisafulli, Paladin, a cura di L. Carlassare, Padova, 2004, 229ss., F. BIONDI, La responsabilità del magistrato, cit., spec. 97ss.

4 Da intendere, secondo la definizione di G.U. RESCIGNO, La responsabilità politica, Milano, 1967, 65, quale assoggettamento del magistrato ad una critica non qualificata ed espressa come mero esercizio di libertà e delle cui conseguenze non vi è una “misura oggettiva”.

5 Su cui ora, per tutti, cfr. N. ZANON-L.PANZERI, Sub art. 101, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. BIFULCO, A. CELOTTO E M. OLIVETTI, Volume III, Torino, 2006, 1957ss.

6 Si pensi, di recente, alla decisione dell’allora Ministro della Giustizia on. Claudio Castelli, più tardi da altri revocata, di affiggere nelle aule giudiziarie una targa con la dicitura per la quale “la giustizia è amministrata in nome del popolo”.

7 Non è un caso, del resto, come più avanti meglio si dirà, che, data l’impraticabilità dell’idea di configurare espressamente una responsabilità di natura politica, vi sia stato talora il tentativo di piegare le formule classiche della responsabilità del magistrato, quella disciplinare e quella civile, verso finalità ulteriori rispetto a quelle che sarebbero state loro proprie (cfr. Cfr. A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità del giudice, cit., 176s.).

8 Cfr. per tutti G. SILVESTRI, Giustizia e giudici, cit., 220ss.

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propri delle (pur tra loro diverse) forme di responsabilità giuridica, e dunque, anche a prescindere dalla questione pregiudiziale della stessa sua teorica configurabilità con riguardo ai magistrati, l’accostamento delle varie formule non può che apparire solo parzialmente indicativo. In particolare, del tutto differenti sono i parametri di valutazione utilizzabili nei giudizi sulla responsabilità politica rispetto a quelli utilizzabili nei giudizi sulla responsabilità giuridica, essendo i primi, a differenza dei secondi, svincolati, com’è ovvio, da criteri giuridici e dunque caratterizzati da una “libertà di sostanza” del tutto assente negli altri.

Ragioni per le quali, in ultima analisi, si ritiene opportuno dedicare il presente contributo esclusivamente ai temi della responsabilità “giuridica” del magistrato. Conseguentemente, la nozione di responsabilità che si ritiene di prendere in considerazione è quella, com’è stato osservato, che intende tale istituto non come uno strumento teso a conformare attività lecite ad orientamenti espressi da altri, né come soggezione ad una generale e diffuso potere di critica da parte del quisque de populo, “ma come uno strumento sanzionatorio e riparatorio in risposta ad atti illeciti” eventualmente compiuti dai magistrati9.

Com’è stato efficacemente puntualizzato, tale forma di responsabilità può essere qualificata come “indipendente”, nel senso che la stessa non pretende un dovere di “recettività nei confronti delle altrui esigenze”, ma, semplicemente, una “condotta responsabile” ossia “competente ed efficiente”10.

Ed è in tale contesto che si inseriscono le pur diverse forme di responsabilità giuridica: quella rivolta verso le parti del processo, eventualmente lese in una loro situazione giuridica soggettiva da un provvedimento illegittimo adottato dal magistrato, e quelle rivolte verso lo Stato, e dunque verso l’interesse generale di cui lo stesso è portatore, nelle tre varianti della responsabilità disciplinare, di quella penale e di quella contabile.

2. I presupposti: la funzione giurisdizionale come esercizio di un potere “pieno” e

indipendente Una volta realizzata la predetta actio finium regundorum appare utile fissare alcune

ulteriori coordinate di riferimento. Le richiamiamo in modo assai conciso, essendo le stesse oramai quasi del tutto “metabolizzate” negli ordinamenti contemporanei.

In primo luogo, si è detto che di responsabilità del magistrato può parlarsi nella misura in cui si presuppone che la funzione giurisdizionale si sostanzi nell’esercizio di un “potere”. Può ora aggiungersi che il problema della responsabilità del giudice si è accresciuto nel corso del tempo, fino a divenire centrale negli ordinamenti contemporanei, mano a mano che si è acquisita la consapevolezza delle trasformazioni che hanno caratterizzato il ruolo delle istituzioni giudiziarie ed è apparso incontestato l’assunto in base al quale la funzione giurisdizionale non può essere qualificata come esercizio di un potere “nullo”, secondo il celeberrimo insegnamento del barone di Montesquieu11, bensì ad essa corrisponde un considerevole margine di discrezionalità e di libertà12.

Caduto il mito dell’ordinamento positivo chiaro e completo, inesorabilmente crollato il modello illuministico del “giudice bocca della legge”, acquisito il dato per il quale l’esercizio della funzione giurisdizionale, pur inteso come interpretazione e applicazione della legge al

9 Cfr. G. ZAGREBELSKY, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Problemi di riforma, in Giur.cost., 1982, 780.

10 Le espressioni sono tratte da G. SARTORI, Elementi di teoria politica, Bologna, 1987, 282. 11 C. L. DE SECONDAT, barone di Montesquieu e de la Brède, De l’Esprit des lois, 1748, traduzione italiana a

cura di S. Cotta, Torino, 1992. 12 Cfr., per tutti, G. U. RESCIGNO, voce Responsabilità (diritto costituzionale), in Enc.dir., XXXIX, Milano,

1988, 1349, secondo il quale la responsabilità richiede sempre un qualche grado di libertà degli uomini, “perché si può imputare ad essi dei fatti, solo se si muove dall’idea che essi avrebbero potuto comportarsi diversamente”.

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caso concreto, non è un’attività che può essere ridotta ad una serie di meccaniche e formali operazioni di tipo sillogistico - tanto più in conseguenza del rapporto diverso in cui viene a trovarsi il giudice rispetto alla legge in un sistema a Costituzione rigida e fondato, inoltre, sul principio di prevalenza del diritto comunitario su quello interno13 - la conseguenza è stata quella di dover riconoscere al giudice un compito assai più impegnativo di quanto non fosse nella visione tradizionale; un compito, sebbene da realizzarsi soltanto attraverso e nei limiti dell’attività ermeneutica, di vera e propria compartecipazione alla “creazione del diritto”14.

E conseguenza ulteriore è stata altresì quella per cui è apparso sempre più doveroso raccordare il carattere creativo della giurisdizione con forme di responsabilità del suo esercizio. Consapevolezza che trova, come meglio si dirà, qualche appiglio esplicito già nel testo della Costituzione del 1948, seppur in modo da lasciare spazio a qualche margine di incertezza, ma che solo successivamente è divenuta patrimonio generalmente condiviso.

Vi è poi un altro presupposto teorico che è utile brevemente fissare per affrontare il discorso sulla responsabilità del magistrato.

Se infatti una serie di ostacoli tradizionali all’ammissione di forme di responsabilità degli organi giudiziari è nel tempo caduta, come più avanti si dirà con riguardo alle specifiche forme in cui la stessa si sostanzia, non poteva non rimanere in piedi quello fondato sul principio di indipendenza della magistratura, di portata trasversale e anch’esso di rilievo costituzionale (cfr., in particolare, l’art. 101, comma 2, Cost., a mente del quale “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”). Autonomia e indipendenza degli organi giudiziari, come si sa, negli ordinamenti democratici sono considerati un tutt’uno con la funzione giurisdizionale, dal momento che ne garantiscono lo svolgimento neutro e imparziale.

Una volta dunque concordatosi con il rilievo per cui il principio della responsabilità riguarda anche le istituzioni giudiziarie, deve subito aggiungersi come lo stesso debba essere bilanciato, e quindi possa subire temperamenti ed eccezioni, purché ragionevoli, con quello dell’autonomia dell’ordine giudiziario. Si tratta certamente di un bilanciamento complesso: com’è stato efficacemente osservato in proposito, “l’avvertita esigenza di indipendenza interna ed esterna rischia di sfociare in una vera e propria irresponsabilità dei magistrati (ed un potere senza responsabilità è incompatibile col sistema democratico), [mentre] un’assoluta irresponsabilità può essere fonte di arbitri, negligenze ed imperizia tali da ledere gravemente i fondamentali diritti dei cittadini e l’ordine della comunità”15. Tuttavia è questa anche la posizione della Corte costituzionale italiana, laddove la stessa ha affermato esplicitamente la “conciliabilità in linea di principio dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità del suo esercizio”16.

13 Su questi aspetti, da ultimo, R. ROMBOLI, Il ruolo del giudice in rapporto all’evoluzione del sistema delle

fonti ed alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, in Quaderni dell’Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Torino, 2006.

14 Su tali temi vi è, com’è noto, un’ampissima letteratura. Cfr., per tutti, M CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano, 1984, I ss., il quale osserva come il dato della natura creativa dell’attività interpretativa sia, in fondo, una “verità banale”, per quanto non vi sia dubbio che “la produzione del diritto ad opera del legislatore e del giudice [avvenga] certamente con forme e modalità differenti ed entrambi i soggetti [operino] nell’ordinamento secondo differenti forme di responsabilità e di legittimazione democratica”.

Nell’esperienza italiana, uno snodo cruciale del cammino verso la piena consapevolezza del ruolo del giudice nell’ordinamento è stato senz’altro rappresentato dal Convegno dell’Associazione nazionale Magistrati svoltosi a Gardone nel 1965, in occasione del quale, tra gli orientamenti più radicali, si manifestò addirittura l’idea secondo cui i magistrati avrebbero dovuto essere considerati portatori di un proprio “indirizzo politico” (cfr., in particolare, G. MARANINI, Funzione giurisdizionale e indirizzo politico nella Costituzione, in Funzione giurisdizionale ed indirizzo politico nella Costituzione, Atti del XII Congresso nazionale magistrati italiani, Gardone Riviera, 25-28 settembre 1965, Roma, 1965, 7ss.).

15 G. VOLPE, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, in L’Ordinamento giudiziario, a cura di A. Pizzorusso, Bologna, 1974, 442ss.

16 Così Corte cost. n. 385/1996.

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Occorre poi tenere presente che, con specifico riguardo alla magistratura, il problema del rapporto tra indipendenza e responsabilità si presenta in modo diverso a seconda della forma di responsabilità alla quale si intende fare riferimento. Anzi, per inciso, può essere utile ricordare come il perseguimento in concreto di tale obiettivo abbia storicamente condotto alla configurazione di almeno due modelli alternativi17: da un lato quelli, affermatisi nel diritto romano (iudex qui litem suam fecit) e poi nella civiltà comunale (actio de syndacatu), che, privilegiando al massimo l’indipendenza del giudice nei confronti dei titolari del potere politico e la sua netta separazione rispetto al “gubernaculum”, hanno bilanciato tale garanzia con la previsione di un penetrante controllo “esterno” sul loro operato e sulla loro “professionalità”, sotto forma di una disciplina severa in materia di responsabilità civile, ma senza alcuna previsione di forme di responsabilità disciplinare. Dall’altro lato i modelli che, affermatisi sul presupposto del carattere statuale del diritto e sviluppatisi con maggior forza a partire dalla fine del Diciottesimo secolo, si sono inseriti in sistemi caratterizzati dalla presenza di un giudice inteso quale “funzionario del sovrano”, immune, in quanto “inglobato fra i governanti”, da qualsivoglia forma di responsabilità nei confronti delle parti ma soggetto ad un rigoroso controllo “interno”, anche di tipo disciplinare.

In altre parole, la responsabilità disciplinare e quella civile, seguendo gli archetipi tradizionali, non si rapportano allo stesso modo con il principio di indipendenza. Un impianto caratterizzato da una sistema rigoroso di responsabilità civile, ma senza alcuna previsione dedicata a quella disciplinare, si è storicamente associato ad un modello di giudice molto indipendente, mentre un impianto caratterizzato da un penetrante sistema di responsabilità disciplinare, ma senza alcun cenno a quella civile, ha potuto vieppiù svilupparsi in ordinamenti ispirati alla figura di giudice burocrate.

Ovviamente in epoca recente la richiamata schematizzazione, pur ancora utile ai fini orientativi, è divenuta assai meno significativa. E ciò in forza di almeno tre fattori di novità: in primo luogo, a differenza di quanto avveniva nel passato, è caduto progressivamente il mito per il quale la collocazione del giudice all’interno dello Stato-apparato comporta necessariamente l’impossibilità di configurare forme di responsabilità civile dello stesso; in secondo luogo, perché le diverse forme della responsabilità del giudice sono state caricate nel tempo di significati nuovi e sovente piegate verso fini ulteriori, o alternativi, rispetto a quelli tradizionalmente assegnati. In terzo luogo, la collocazione del giudice tra i poteri dello Stato non ha impedito che in molti ordinamenti il compito di adottare i provvedimenti disciplinari potesse essere sottratto agli Esecutivi e affidato ad organi di autogoverno, proprio com’è avvenuto in Italia.

3. Una precisazione: possibile la reductio ad unum tra responsabilità del giudice e quella

del pubblico ministero? Fin qui abbiamo parlato di magistrato e di giudice come se fossero due nozioni fungibili,

senza distinguere tra autorità giudicanti e autorità requirenti. In verità occorre chiedersi se le considerazioni svolte in tema di responsabilità, che a prima vista sembrano meglio attagliarsi al ruolo del giudice, debbano essere riviste, o pongano problemi peculiari, se estese anche ai pubblici ministeri.

In linea generale, con riguardo al normale esercizio delle funzioni requirenti, i pubblici ministeri, come i giudici, interpretano la legge e qualificano i fatti cui applicarla, allo scopo, anziché di rendere delle pronunce, di sostenere l’accusa o, meglio, di far emergere la verità processuale. Se così è, non pare che vi sia motivo per cui non debbano valere per loro le

17 Cfr. A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità del giudice, Milano, 1987, XIss.

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stesse considerazioni svolte per i giudici. E’ ovvio, peraltro, che saranno diversi gli atti e le circostanze dalle quali potranno sorgere violazioni, sanzionabili in ambito civile, disciplinare oppure contabile.

Vi sono, tuttavia, com’è stato puntualmente notato18, alcuni profili caratteristici del pubblico ministero suscettibili, almeno in linea di principio, di produrre ricadute altrettanto peculiari sul tema della responsabilità.

In primo luogo è possibile richiamare la questione, di estrema attualità, riguardante l’organizzazione interna degli uffici requirenti. E’ nota, a questo proposito, la querelle circa lo statuto costituzionale del pubblico ministero19 e in particolare la contrapposizione tra due orientamenti, cui si aggiungono tutta una serie di soluzioni intermedie: da una parte coloro che ritengono che le garanzie di indipendenza di tale organo debbano tutte rinvenirsi fuori della Carta e dunque si trovino nella completa disponibilità del legislatore; dall’altra chi invece sostiene, esattamente al contrario, l’impossibilità addirittura di distinguere le garanzie costituzionali dei giudici da quelle dei pubblici ministeri.

Il problema ha delle ricadute indirette sul tema della responsabilità. Accogliendo la tesi della neutralità della Costituzione in ordine alle garanzie del pubblico ministero, infatti, o comunque collocandosi in prossimità di tale orientamento, sarebbe possibile ritenere il legislatore libero di plasmare la disciplina dell’organizzazione interna degli uffici del pubblico ministero fino al punto di configurare una sorta di responsabilità del sostituto procuratore nei confronti del Procuratore della Repubblica.

Ed è proprio tale soluzione, di fatto, che può dirsi oggi in buona parte accolta nell’ordinamento italiano all’indomani dell’entrata in vigore della legge di riforma dell’ordinamento giudiziario n. 150/2005 (c.d legge “Castelli”, dal nome del Ministro proponente), anche al netto delle modifiche apportate sul punto dalla successiva legge n. 269/2006 (c.d. “prima” legge “Mastella”, ancora dal nome del Ministro proponente). Ai sensi della normativa vigente (cfr. art. 1, comma 2, della l. n. 269), infatti, il Procuratore della Repubblica è “titolare esclusivo dell’azione penale”, che “esercita personalmente o mediante assegnazione a uno o più magistrati dell’ufficio”, potendo “stabilire criteri ai quali il magistrato deve attenersi nell’esercizio della relativa attività” e, in caso di violazione di tali criteri, o comunque se “insorge un contrasto circa le modalità di esercizio”, il Procuratore della Repubblica “può, con provvedimento motivato, revocare l’assegnazione”.

Come si vede, per quanto la disciplina introdotta con la legge “Mastella” abbia parzialmente “limato” quella contenuta nel precedente d.lgs. n. 106/2006 - sopprimendo sia la previsione per cui l’esercizio dell’azione penale da parte del Procuratore deve avvenire “sotto la sua responsabilità” sia il riferimento espresso all’istituto della “delega”, preferendo invece quello, meno evocativo, di “assegnazione” - la possibilità tuttavia del Procuratore di revocare il mandato per qualsiasi contrasto con il suo sostituto sembra comunque configurare un sistema nel quale risulta assai incisa l’autonomia del singolo pubblico ministero e, conseguentemente, assai ridimensionato il suo ruolo complessivo. Tramonta il modello della “sovra-ordinazione”, o della “gerarchia attenuata”, faticosamente affermatosi nel corso degli ultimi vent’anni attraverso una serie di interventi realizzati dal legislatore o dallo stesso CSM - che avevano gradualmente trasformato l’originario sistema centralizzato disegnato dal r.d. n. 12/1941 in un sistema di tipo personalizzato, fondato sull’autonomia del singolo pubblico

18 Da N. ZANON, La responsabilità dei giudici, relazione al Convegno su Separazione dei poteri e funzione

giurisdizionale, svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, in corso di pubblicazione e da F. Biondi, La responsabilità, cit., 24.

19 Cfr., per tutti, N. ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova, 1996, 1ss.

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ministero - e si consuma un deciso quanto repentino cambiamento di rotta, con un ritorno al modello originario, fortemente gerarchizzato20.

Tornando al tema della responsabilità, non vi è dubbio come il nuovo assetto configuri una rapporto tra capo dell’ufficio e sostituti procuratori non molto dissimile da quelli che normalmente si registrano all’interno della pubblica amministrazione e, dunque, una peculiare forma di responsabilità in capo ai sostituti, i quali dovranno rispondere (anche) della non corretta attuazione delle indicazioni (rectius: direttive) provenienti dai titolari dell’ufficio.

Vi è poi un altro profilo problematico al quale potrebbe ipoteticamente collegarsi un’ulteriore forma di responsabilità del pubblico ministero. E’ quello concernente la concreta applicazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, di cui all’art. 112 Cost., nella misura in cui la sostanziale, e ben nota, discrezionalità che si registra in via di fatto nell’esercizio della stessa, cui si collega l’esigenza di fissare delle priorità nel perseguimento delle notizie di reato, pone - o meglio dovrebbe porre - anche una problema di responsabilità in capo a colui che quelle scelte è chiamato a prendere. Responsabilità, a ben guardare, che dovrebbe coinvolgere non tanto l’autorità requirente in generale ma, alla luce della recente riforma dell’ordinamento giudiziario, esclusivamente il Procuratore della Repubblica nella sua qualità di “titolare esclusivo” dell’azione penale.

Vero è, tuttavia, che tale ulteriore forma di responsabilità si porrebbe su di un piano di patologia del sistema, almeno fin quando non sarà modificato il richiamato art. 112 della Costituzione.

Sezione I

4. La responsabilità disciplinare: a) cenni al periodo liberale e a quello fascista E’ noto che lo Statuto albertino del 1848 conteneva, agli articoli 68ss., pochi è generici

principi dedicati all’“ordine giudiziario”. In esso si prevedeva, in particolare, che “la giustizia emana dal re ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce”, prefigurandosi, sul modello napoleonico del 1810, una magistratura composta da funzionari nominati dal Governo21. Coerentemente con tale impostazione, il primo testo legislativo italiano denominato “ordinamento giudiziario”, adottato con r.d. n. 2629 del 1865, delineava un corpo di magistrati posto alle dipendenze del Ministro della Giustizia.

Sotto il profilo della responsabilità disciplinare, l’ordinamento giudiziario del 1865 stabiliva, all’art. 213, che “il giudice che non osserva il segreto delle deliberazioni o compromette in qualunque modo la sua dignità e la considerazione dell’ordine a cui appartiene, ovvero altrimenti contravviene ai doveri del suo ufficio, è soggetto a provvedimenti disciplinari”.

Veniva dunque tratteggiata una nozione elastica di illecito disciplinare, la cui concreta applicazione era lasciata alla piena discrezionalità dei superiori gerarchici, in particolare della Corte di cassazione, e del Ministro guardasigilli. L’iter procedurale (cfr. artt. 231ss.) era caratterizzato poi dall’iniziativa del pubblico ministero, dalla mancanza di un’istruttoria

20 Cfr., in argomento, G. SCARSELLI, La riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, in AA.VV., La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Foro. it., 2006, V, 27ss. e F. DAL CANTO-T. GIOVANETTI, La riforma dell’ordinamento giudiziario, in S. PANIZZA-R. ROMBOLI (a cura di), L’attuazione della Costituzione. Recenti riforme e ipotesi di revisione, III ed., Pisa, 2006, 311ss. Sui diversi modelli di organizzazione degli uffici del pubblico ministero, cfr. N. PIGNATELLI, L’indipendenza interna del p.m. e l’organizzazione degli uffici requirenti, in DAL CANTO-ROMBOLI (a cura di), Contributo al dibattito sull’ordinamento giudiziario, Torino, 2004, 195ss.

21 Cfr., da ultimo e per tutti, A. PIZZORUSSO, Considerazioni generali, in AA.VV., La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2006, V, 1ss.

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preventiva, dalla non pubblicità delle udienze e dall’impossibilità dell’intervento di un difensore.

La responsabilità disciplinare del pubblico ministero veniva disciplinata separatamente (artt. 242s.), e in modo ancora più rigido, sul presupposto che lo stesso fosse “il rappresentante del potere esecutivo”, gerarchicamente dipendente dal Ministro della Giustizia, cui era attribuito in via esclusiva il potere disciplinare.

La legge Zanardelli n. 6878 del 1890 introdusse alcune lievi modifiche all’assetto precedente, ma fu soprattutto con le leggi Orlando del 1907 (n. 511) e del 1908 (n. 438) che il modello di derivazione napoleonica venne ripensato e parzialmente mitigato, pur sempre nell’ambito di una piena fedeltà alla concezione burocratica e gerarchica della magistratura.

Nel frattempo anche il clima che si respirava dentro e intorno alla magistratura era parzialmente mutato e, soprattutto all’indomani della nascita dell’associazionismo giudiziario22, si cominciava ad avvertire una certa esigenza di rinnovamento, nella forma di un riconoscimento di garanzie di indipendenza.

A tali aspirazioni di autonomia corrispose, peraltro, un certo aumento dell’utilizzo dello strumento disciplinare23, favorito vieppiù dalla introduzione, per la prima volta nell’ordinamento italiano, di un sistema fondato sulla tipizzazione degli illeciti disciplinari24, pur integrato, secondo i vecchi schemi, dalla previsione di una clausola di chiusura di portata generalissima25. A comminare le sanzioni erano preposti, in primo grado e per i soli giudici inferiori, i Consigli di disciplina, costituiti presso ogni Corte di Appello e composti di soli magistrati, mentre, per i soli magistrati superiori, ovvero, in caso in appello, anche per gli altri, la Corte suprema disciplinare, costituita presso il Ministero della giustizia e formata da magistrati e senatori del Regno. Il titolare dell’azione disciplinare diveniva il solo Ministro della giustizia, che tuttavia ne delegava l’esercizio ad un pubblico ministero.

Per completare il quadro riassuntivo del sistema disciplinare operante nello Stato liberale vanno poi segnalati tutta una serie di strumenti previsti dall’ordinamento giudiziario di allora, che, pur non costituendo strumenti formalmente disciplinari, vennero di fatto sovente utilizzati alla stregua di mezzi di controllo paradisciplinare26.

Nel corso del regime fascista le principali riforme furono introdotte con la legge Oviglio del 1923 (r.d. n. 2786 del 1923) e con la legge Grandi del 1941 (r.d. n. 12 del 1941), entrambe in linea di sostanziale continuità con le discipline previgenti, sia quanto al ruolo assegnato al

22 L’“Associazione generale magistrati italiani” nascerà nel 1909. Sul punto cfr. E. R. PAPA, Magistratura e

politica, origini dell’associazionismo democratico nella magistratura italiana (1861-1913), Padova-Venezia, 1975, 4ss.

23 Cfr. A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità, cit., 113ss. 24 Nella legge n. 438 del 1908, agli artt. 5ss., si prevedeva che: “a) i magistrati non possono accettare

incarichi di qualsiasi specie senza l’assenso dei capi gerarchici. Non possono assumere le funzioni di arbitro, se non nei casi previsti da legge o regolamenti; b) I capi delle corti non possono assumere alcun incarico fuori dalla loro residenza, tranne quelli cui sono chiamati in virtù di leggi o regolamenti; c) I magistrati debbono osservare il segreto su quanto riguarda le loro deliberazioni ed ogni affare da essi trattato; d) E’ rigorosamente vietato ai magistrati ricevere informazioni private relativamente a cause pendenti davanti ad essi e ricorrere ad altri per la compilazione delle sentenze e delle ordinanze. E’ colpa grave per il magistrato l’ingerirsi, quando il suo dovere di ufficio non lo richieda, nell’andamento degli affari giudiziari ed il prestare in essi opera retributiva od esercitarvi influenza con sollecitazioni o raccomandazioni; e) E’ colpa grave per il magistrato contrarre debiti indecorosi oppure con persone interessate in affari che rientrino o possano rientrare nella sfera della sua competenza; f) I magistrati debbono scrupolosamente astenersi dal ricorrere a raccomandazioni per appoggiare o sollecitare interessi di carriera presso i membri del governo o presso le persone da cui tali interessi dipendono, ed è loro vietato in special modo di ricorrere per tale scopo a persone appartenenti all’ordine forense”.

25 All’art. 11 della legge Orlando del 1908 si prevedeva infatti che “il magistrato deve tenere, in ufficio e fuori, una condotta tale da non renderlo immeritevole della fiducia e considerazione di cui deve godere e da non compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario”.

26 Cfr. A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità, cit., 117ss., ove si fa riferimento esplicito, tra le altre, alle norme riguardanti le nomine “politiche” dei magistrati, alle promozioni, ai trasferimenti.

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giudice nell’ordinamento che con riguardo alla natura della funzione giurisdizionale, ancora saldamente ancorata al formalismo giuridico.

La disciplina della responsabilità disciplinare conobbe in questo periodo due diverse fasi: dapprima l’ordinamento Oviglio, nel recepire lo schema del decreto Orlando, si limitò a riprodurre la norma di chiusura ivi prevista sopprimendo invece la parte dedicata alla tipizzazione degli illeciti.

Successivamente il decreto Grandi - ispirato all’idea del “rapporto particolare di dipendenza” che lega il magistrato allo Stato, “che impone speciali doveri di condotta nell’esercizio della pubblica funzione e nella vita privata”27, soppresse (art. 236ss.) i Consigli di disciplina presso le Corti di Appello e riformò la Corte disciplinare, degradandola ad organo di consulenza del ministro e privandola al suo interno della componente laica. Inoltre, nello stesso decreto venne prevista la nomina governativa di tutti i componenti togati della Corte e, al disopra di tutto, un netto rafforzamento dei poteri disciplinari del ministro (cui venne attribuito non solo il potere di esercitare l’azione disciplinare ma anche di prosciogliere e di condannare), obiettivo raggiunto attraverso l’estensione a tutti i magistrati del sistema disciplinare originariamente previsto per i soli pubblici ministeri.

Interessante, tuttavia, segnalare, in conclusione di questo paragrafo, che ricerche condotte su quel periodo hanno dimostrato come il sistema della responsabilità disciplinare sia stato in verità poco utilizzato28; e ciò a dimostrazione, non tanto di una poco credibile morbidezza del Governo dell’epoca, bensì, al contrario, dell’efficacia dei meccanismi indiretti di controllo (a cominciare dalla gerarchizzazione esasperata e dai trasferimenti senza consenso) e al contempo della tendenziale omogeneità, ovviamente al netto delle comunque poche epurazioni, della maggioranza dei magistrati rispetto alle logiche e alle aspirazioni del nuovo regime.

5. Segue: b) dalla legge sulle guarentigie del 1946 alla Costituzione repubblicana del

1948: il fondamento e la ratio della responsabilità disciplinare All’indomani della caduta del regime fascista il tema della responsabilità disciplinare

venne ripreso dal legislatore con la Legge sulle guarentigie della magistratura del 1946 (r.d.lgt. n. 511), con la quale si realizzò un sostanziale ritorno alle leggi Orlando dell’epoca liberale.

Tale normativa, in particolare, si caratterizzava per uno netto spostamento delle competenze dal ministro al Consiglio superiore della magistratura, istituito già dalla legge Orlando del 1907 come organo consultivo del Governo, oggetto a più riprese di modifiche ad opera del legislatore ordinario, e tornato solo nel 1946 alla sua configurazione originaria di organo a carattere elettivo29. Su di essa ci soffermeremo nel dettaglio nel paragrafo successivo, essendo rimasta in vigore, pur con una serie di adattamenti resi indispensabili dalla successiva approvazione della Carta costituzionale, fino al 2005.

Per quanto concerne il ruolo della magistratura nell’ordinamento costituzionale, non c’è dubbio che i tratti di maggiore innovazione vennero introdotti, non senza ambiguità e contraddizioni, dalla Costituzione del 1948, nella quale veniva sancito, per la prima volta, il

27 Le parole sono tratte dalla Relazione al Re del Guardasigilli Grandi, su cui si veda A. GIULIANI-N. PICARDI, La responsabilità, cit., 134.

28 La disciplina dei magistrati: dall’Italia Albertina alla Repubblica democratica, in Quale giustizia, 1980, 211ss.

29 Sui precedenti storici di tale organo, cfr. G. FERRARI, Consiglio superiore della magistratura, in Enc. giur., VIII, 1988, 1, BONIFACIO-GIACOBBE, Sub art. 104, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e A. Pizzorusso, Tomo II, Bologna-Roma, 1986, spec. 41 ss. e, da ultimo, S. PANIZZA, Sub art. 104, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti,Volume III, Torino, 2006, 2007ss.

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principio dell’indipendenza dei giudici e la loro soggezione “soltanto alla legge” e veniva istituito un nuovo Consiglio superiore quale organo di effettivo autogoverno dei magistrati.

Tratti tanto originali che, come si sa, ci vollero decenni perché essi permeassero davvero l’ordinamento giudiziario italiano, regolato fino al 2005, almeno nella sua architettura di riferimento, dal regio decreto Grandi del 1941, pur profondamente modificato nel tempo sia da una serie di puntuali interventi legislativi che dall’opera di adattamento delle vecchie regole ai nuovi principi compiuta dal Consiglio superiore.

Con specifico riguardo ai profili inerenti la responsabilità del magistrato, può dirsi che nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente tale tema fu oggetto di scarsa considerazione. La ragione di tale disinteresse può essere rinvenuta nella circostanza che, pur con qualche autorevole eccezione30, all’epoca non vi era ancora piena consapevolezza del grado di discrezionalità insito nell’esercizio della funzione giurisdizionale e la maggior parte dei Costituenti era ancora ancorata ad una concezione formalistica dell’attività giurisdizionale.

Tuttavia il problema non fu del tutto ignorato. Se ne occupano infatti, per quanto incidentalmente, due disposizioni, quali l’art. 105, laddove si attribuisce al Consiglio superiore il compito di adottare “provvedimenti disciplinari”, e l’art. 107, comma 2, ove si prevede che il Ministro della giustizia “ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare”.

La scarsità di indicazioni ricavabili dalla Carta costituzionale ha favorito il protrarsi di un intenso quanto sovrabbondante dibattito intorno al problema del fondamento della giustizia disciplinare. In particolare, per lungo tempo ci si è chiesti se la stessa si ponesse in funzione della soddisfazione di un interesse particolare, di categoria, tutto interno all’ordine giudiziario, ovvero se invece fosse l’interesse generale al buon andamento del “sistema giustizia” il valore cui esclusivamente, o almeno in prevalenza, doveva intendersi rivolta la tutela offerta dal sistema disciplinare.

Già dalle due disposizioni sopra richiamate, in verità - anche se, più in generale, da una lettura sistematica dell’intero titolo IV, Parte II, della Costituzione, dedicato a “La Magistratura”, compiuta alla luce, com’è stato detto, dello “spirito del tempo”31 - sembra possibile cogliere indicazioni utili per fornire una risposta al dubbio sopra avanzato. Da una parte, infatti, il concreto funzionamento del sistema della giustizia disciplinare è posto nelle mani dell’organo di autogoverno della magistratura32, istituito, nell’esclusivo interesse del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale33, allo scopo di garantire l’indipendenza esterna dell’ordine giudiziario. Dall’altra, è affidato al Ministro della giustizia il ruolo di promotore dell’azione disciplinare, quale organo di raccordo tra potere giudiziario e sovranità

30 Piero Calamandrei, ad esempio, già dall’osservatorio privilegiato dell’Assemblea costituente, aveva avuto

modo di notare come “ridurre la funzione del giudice a un puro sillogizzare vuol dire impoverirla, inaridirla, disseccarla…” (P. CALAMANDREI, Processo e democrazia, in Opere giuridiche, Napoli, 1965).

31 Secondo la felice espressione utilizzata da G. VOLPE, Diritti, doveri e responsabilità dei magistrati, cit., 406ss.

32 Su cui cfr., tra gli altri, S. BARTOLE, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario, Padova, 1964, C. GUARNIERI, L’indipendenza della magistratura, Padova, 1981, A. PIZZORUSSO, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in Italia, in Questione Giustizia., 1984, ID., L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Torino, nuova ed. 1990, 281ss., G. VERDE, L’amministrazione della giustizia fra Ministro e Consiglio superiore, Padova, 1990, F. TERESI, La riforma del Consiglio superiore della magistratura, Napoli, 1994, B. CARAVITA (a cura di), Magistratura, Csm e principi costituzionali, Roma-Bari, 1994, G. FERRI, Il Consiglio superiore della Magistratura e il suo Presidente, Padova, 1995, A. POGGI, Il sistema giurisdizionale tra “attuazione” e “adeguamento” della Costituzione, Napoli, 1995, G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, A. MAZZAMUTO (a cura di), Il Consiglio superiore della magistratura. Aspetti costituzionali e prospettive di riforma, Torino, 2001, S. PANIZZA, Sub art. 104, in Commentario alla Costituzione, cit., 2007SS.

33 Di “pietra angolare dell’ordinamento giudiziario” ha parlato la Corte costituzionale nella sent. n. 4/1986.

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popolare34, quasi quale “portavoce” dell’interesse generale dello Stato a sanzionare i comportamenti illeciti dei magistrati.

Ne consegue, con una frattura evidente rispetto al precedente assetto disegnato nel periodo liberale e in quello fascista, che la responsabilità disciplinare nella Costituzione italiana appare preordinata alla tutela non tanto di una categoria di pubblici funzionari, né tanto meno di una corporazione professionale, bensì del singolo cittadino che si trova dinanzi al sistema giustizia.

E la conferma della bontà di tale ricostruzione è giunta, ad oltre trent’anni dall’entrata in vigore della Carta costituzionale, dallo stesso Giudice delle leggi italiano laddove ha espressamente affermato che “il potere disciplinare è volto a garantire - ed è rimedio insostituibile - il rispetto dell’esigenza di assicurare il regolare svolgimento della funzione giudiziaria, che è uno degli aspetti fondamentali dello Stato di diritto”35. E nella stessa decisione, coerentemente, si è altresì sottolineato che “il fondamento del potere disciplinare non può ricercarsi, come per gli (altri) impiegati pubblici, nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti, dovendosi escludere un rapporto del genere nei riguardi dei magistrati stessi “sottoposti soltanto alla legge”.

Concetti più tardi ulteriormente ribaditi dallo stesso Giudice costituzionale quando ha limpidamente asserito che “il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale è un bene affidato alle cure del Consiglio superiore della magistratura, che non riguarda l’ordine giudiziario riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartiene alla generalità dei soggetti, presidio dei diritti dei cittadini”36.

La predetta ricostruzione può apparire sul piano teorico, in un certo senso, scontata, ma, come meglio si dirà, la stessa si è rivelata nell’esperienza italiana degli ultimi cinquant’anni tutt’altro che un dato acquisito, almeno sul piano della prassi e dei comportamenti concreti.

6. Segue: c) il sistema previgente fondato sull’art. 18 della Legge sulle guarentigie della

magistratura: i limiti, la prassi e gli interventi della Corte costituzionale Il sistema di giustizia disciplinare vigente in Italia prima dell’entrata in vigore della

riforma “Castelli” del 2005 si fondava, come anticipato, oltre che sulle poche norme di rango costituzionale, su una serie di disposizioni introdotte dalla Legge sulle guarentigie del 1946, come successivamente modificata e integrata dalla successiva legge n. 195 del 1958, istitutiva del Consiglio superiore della magistratura.

La funzione disciplinare, attribuita dalla Costituzione al Consiglio superiore, veniva assegnata in concreto, dall’art. 4 della legge del 1958, alla Sezione disciplinare, costituita al suo interno e composta da nove componenti effettivi e nove supplenti37.

34 Cfr. G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale italiano, cit. 35 Così Corte cost. n. 100/1981. 36 Così Corte cost. n. 497/2000. 37 Quanto ai membri effettivi, si tratta del Vice Presidente del Csm, che la presiede, di due componenti eletti

dal Parlamento, di un magistrato di cassazione con esercizio effettivo delle funzioni di legittimità, e di cinque magistrati con funzioni di merito. In passato la dottrina si è chiesta se la concreta attribuzione della funzione disciplinare alla Sezione, operata dal legislatore ordinario, fosse o meno compatibile con l’art. 105 Cost., laddove lo stesso sembrerebbe fare riferimento al Consiglio superiore inteso come plenum La stessa Corte costituzionale, d’altra parte, con sent. n.12/1971, si è data carico di respingere tali censure osservando che “la legge (…) può legittimamente porre norme attinenti all’organizzazione di quel consesso: tali sono indubbiamente quelle che concernono l’istituzione di un’apposita sezione disciplinare. Dalle norme costituzionali di raffronto, in definitiva, non è data in alcun modo la possibilità di dedurre che la Costituzione abbia voluto che tutte le competenze elencate nell’art. 105 siano esercitate dal Consiglio nel suo plenum”.

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Per quanto riguarda i profili sostanziali, la normativa del ’46 stabiliva, all’art. 18, che era passibile di sanzioni disciplinari il magistrato che “manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”.

Almeno all’apparenza, dunque, veniva accolta una nozione di illecito disciplinare prevalentemente funzionale all’esigenza di tutela del prestigio dell’ordine giudiziario, in continuità con il passato, ma in contrasto, almeno a ritenere corretta la lettura in precedenza proposta, con i nuovi principi nel frattempo fissati nella Costituzione.

Tuttavia, non dello stesso avviso si è mostrata la Corte costituzionale, quando, con la sent. n. 100/1981, chiamata a pronunciarsi circa la conformità dell’art. 18 al principio costituzionale di legalità, ha avuto modo di affermare che “non appare pertinente il richiamo all’at. 25, comma 2, Cost.”, in quanto tale norma “si riferisce soltanto alla materia penale”, mentre “l’esercizio del potere disciplinare è regolato da principi sostanzialmente differenti e meno incisivi di quelli che reggono il magistero penale”. Motivazione che, per inciso, potrebbe far ritenere, a chi la legge a distanza di anni, come, qualora la Corte fosse stata sollecitata a giudicare circa il rispetto, non tanto dell’art. 25, comma 2, bensì, direttamente, della ratio complessiva del sistema della giustizia disciplinare, la stessa avrebbe forse optato per una soluzione diversa.

Si trattava, inoltre, di una nozione che rinviava quasi in toto la concreta determinazione dell’illecito, in prima battuta, al promotori dell’azione disciplinare e, in seconda, all’organo di autogoverno, chiamato ad irrogare gli eventuali provvedimenti. La ratio di tale soluzione, come è stato puntualizzato, poteva essere rintracciata nell’“esigenza che la fissazione della norma [avvenisse] in sede di applicazione di essa, ad opera di organi formati da componenti l’ordine professionale, idonei come tali ad esprimere la sensibilità deontologica dell’ordine stesso”38. Ma, come si è detto, era una ratio non del tutto compatibile con la Carta costituzionale.

Quanto invece ai profili processuali, gli stessi venivano disciplinati agli artt. 27ss. del r.d.lgt. n. 511/1946, agli artt. 4ss. della legge n. 195/1958, agli artt. 56ss. del D.P.R n. 916/1958, nonché, per quanto non espressamente previsto, dalle norme del codice di procedura penale del 1930 (e ciò, anche dopo la riforma intervenuta nel 1988).

Volendo segnalare gli elementi di maggior rilievo del procedimento disciplinare, anche per come lo stesso si è venuto definendo negli anni successivi, si possono segnalare quelli seguenti.

Le novità più significative consistevano nella scansione puntuale ed analitica delle diverse fasi processuali, schematizzabile nel modo seguente: titolarità dell’azione disciplinare, da esercitarsi facoltativamente, in capo sia al Ministro della giustizia che al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che svolgeva altresì funzioni di pubblico ministero; previsione di una fase istruttoria, sommaria o formale; fase di formulazione delle richieste da parte del Procuratore generale alla Sezione disciplinare, che decide in Camera di Consiglio; fase dibattimentale, alla presenza dell’incolpato; decisione della Sezione (entro due anni dalla fissazione dell’udienza di discussione, a pena di estinzione del procedimento), in Camera di Consiglio, con dispositivo di proscioglimento, di assoluzione o di condanna; ricorribilità della

La stessa Corte, per inciso, nella stessa richiamata decisione ha avuto modo di riconoscere alla Sezione

disciplinare una natura giurisdizionale, sebbene “ai limitati fini” della proposizione della questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale.

38 In questi termini si esprimeva, a metà degli anni Settanta, la stessa Corte di cassazione. In argomento cfr. G. ZAGREBELSKY, La responsabilità disciplinare dei magistrati, cit., 439ss.

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pronuncia dinanzi alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.39.

Gli aspetti di maggior problematicità del procedimento potevano essere tutti interpretati quali manifestazione della concezione originaria cui si ispirava nel suo complesso il sistema della giustizia disciplinare, pensato come procedimento autocorrettivo e interno al potere giudiziario, in ossequio ad una visione corporativa della magistratura40.

In particolare, tali profili problematici si sostanziavano in una serie di deroghe al carattere giurisdizionale del procedimento, quali la mancata previsione di termini di prescrizione e di decadenza, la non pubblicità delle udienze, l’impossibilità di farsi assistere, da parte dell’incolpato, da avvocati o consulenti tecnici (si prevedeva soltanto la possibilità della autodifesa o dell’assistenza da parte di un collega).

Deroghe alle quali, pur senza particolare solerzia né intransigenza, si è posto rimedio nel tempo, grazie ad una serie di interventi operati dal legislatore e dalla giurisprudenza costituzionale41.

7. Segue: d) cenni al dibattito sulla riforma della responsabilità disciplinare

nell’ordinamento italiano prima del 2005

39 Nel secondo grado di giudizio, dinanzi alla Corte di cassazione, si seguono quindi le disposizioni del

codice di procedura civile e non quelle, seguite in primo grado, del codice di procedura penale. 40 Cfr. G. SILVESTRI, La difesa del magistrato nel procedimento disciplinare tra garanzia oggettiva e difesa

coroporativa, in Giur.cost., 1994, 1838ss. 41 Nella sent. n. 145/1976 la Corte costituzionale, pur auspicando un esercizio delle azioni “senza ritardi

ingiustificati, o peggio arbitrari”, ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale riguardante la mancata previsione di termini di prescrizione e decadenza per la ragione che “in questa materia la discrezionalità legislativa spazia entro un ambito larghissimo (…), trattandosi di operare una valutazione comparativa dei due contrapposti interessi, del prestigio della funzione e di una giusta tutela dei diritti dei singoli dipendenti pubblici”. E’ stato il legislatore, tuttavia, con la legge n. 1/1981, ad intervenire sul punto integrando la disciplina con la previsione di diversi termini di (sola) decadenza entro i quali l’azione disciplinare doveva essere esercitata (un anno) e dovevano essere compiute le successive fasi del procedimento; previsione sulla quale è poi intervenuta la Corte costituzionale (sent. n. 579/1990), che ha dichiarato l’incostituzionalità di tale previsione nella parte in cui la stessa non prevedeva alcun termine con riguardo all’inizio del procedimento in sede di rinvio operato dalla Corte di cassazione.

Riguardo alla pubblicità delle udienze, non consentita ai sensi dell’art. 34, comma 2, r.d.lgt. n. 511/1946, la Corte, nel respingere le censure rivolte a tale disposizione, ha osservato che tale regola, pur ritenuta “coessenziale ai principi ai quali in un ordinamento democratico deve conformarsi l’amministrazione della giustizia”, “può subire eccezioni in riferimento a determinati procedimenti, quando esse abbiano obiettiva e razionale giustificazione”. E’ stata più tardi la stessa Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ad introdurre la regola della pubblicità delle udienze, quando, nella sent. n. 6/1985, ritenne abrogato l’art. 34 sopraccitato per effetto dell’art. 6, comma 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (resa esecutiva in Italia con legge ordinaria n. 848/1955), laddove appunto si stabiliva la regola generale della pubblicità delle udienze. Soluzione più avanti recepita nella legge n. 74/1990, ove peraltro, ambiguamente, si consente di procedere “a porte chiuse” qualora ricorrano “esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria con riferimento a fatti contestati all’ufficio che l’incolpato occupa”.

Infine, sul diritto ad una difesa tecnica, la Corte costituzionale è intervenuta dapprima con la sent. n. 119/1995, ritenendo infondata la questione sollevata avverso la previsione circa la possibilità del magistrato di ricorrere alla propria autodifesa, e poi con la sent. 497/2000, ove, oltre a respingere le censure rivolte alla previsione per la quale l’incolpato poteva essere difeso da un collega magistrato, si dichiarava incostituzionale quella stessa previsione nella parte in cui non consentiva la possibilità di ricorrere all’assistenza di un avvocato, dal momento che “con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio di beni compresi nel loro status professionale vi è quello dell’indipendenza”. Per un commento a tale importante decisione, cfr. S. PANIZZA, Al magistrato incolpato l’assistenza (se vuole) dell’avvocato, in Foro it., 2001, I, 383ss.

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Il dibattito sulla riforma della giustizia disciplinare dei magistrati ha preso avvio almeno a partire dagli anni Settanta. Almeno da quella data, infatti, si è cominciato a segnalare da più parti l’insufficienza e l’indeterminatezza della previsione contenuta nell’art. 18 del r.d.lgs. n. 511, per quanto da un lato la stessa, come si è detto, fosse passata immune dal giudizio di costituzionalità (sent. n. 100/1981) e dall’altro la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura avesse realizzato, attraverso la propria giurisprudenza, una serie di importanti risultati volti alla razionalizzazione delle fattispecie di illecito42.

Risultati che, tuttavia, non avevano impedito le penetranti critiche ad un sistema che vedeva il Consiglio superiore svolgere il duplice ruolo di giudice e di “legislatore del caso concreto”, con un approccio allo strumento disciplinare apparso talora improntato ad una logica corporativa e di stampo “paternalistico”43.

La necessità di introdurre un più rigoroso sistema della responsabilità disciplinare, teso non soltanto, secondo gli orientamenti più risalenti e invero mai del tutto superati, al mantenimento del prestigio dell’ordine interno, ma anche, e soprattutto, alla tutela del cittadino contro le possibili degenerazioni dell’amministrazione della giustizia, si era del resto progressivamente rafforzata contestualmente alla presa di coscienza, alla quale prima si è fatto cenno, del ruolo assunto dal giudice nel sistema contemporaneo, ormai del tutto svincolato dal modello ottocentesco del funzionario ‘bocca della legge’.

E il problema della mancata tipizzazione degli illeciti era stato poi riproposto con una certa forza nel dibattito italiano in seguito ad un intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale, con una sentenza del 2 agosto del 2001, aveva condannato l’Italia per una sentenza comminata dalla Sezione disciplinare ad un magistrato a causa della sua partecipazione ad una associazione di tipo massonico. In tale pronuncia - ove il fenomeno viene ovviamente valutato dall’esclusiva prospettiva del magistrato, con riguardo al problema del mancato rispetto del principio di legalità - poteva leggersi che le limitazioni dell’esercizio della libertà di associazione “non possono costituire oggetto di altre restrizioni oltre quelle che, stabilite per legge, sono fondamentali per la tutela di beni fondamentali dello Stato”.

In definitiva, soprattutto negli ultimi anni le sole divisioni registratesi in ordine ad una siffatta prospettiva di riforma riguardavano le modalità attraverso le quali giungere ad una sua concretizzazione, contrapponendosi le diverse soluzioni rappresentate da una tipizzazione di tipo “rigido”44, solitamente ritenuta di difficile realizzazione data l’oggettiva difficoltà di prevedere analiticamente degli elenchi completi di condotte perseguibili, una tipizzazione “media”45, caratterizzata dalla individuazione di ampie “categorie” di illecito, o ancora una tipizzazione soltanto “tendenziale”, quest’ultima contraddistinta dalla codificazione di un sistema di “doveri” del magistrato seguita da un elenco limitato di ipotesi tipiche di violazione

42 Da un esame condotto sui massimari della Sezione disciplinare dal 1958 al 2003 (cfr. A. PRANESTINI,

L’illecito disciplinare dei magistrati ordinari, tesi di laurea, Pisa, 2003) è risultato che, delle due macro-ipotesi di illecito previste dall’art. 18 del r.d.lgt. del 1946, il 95% dei procedimenti abbia riguardato quello relativo al mancato rispetto dei doveri (mutuati, ad opera della Sezione disciplinare, dai doveri tipici del pubblico impiego: correttezza, diligenza, imparzialità, operosità e riserbo), mentre soltanto il restante 5% quello concernente direttamente la lesione del prestigio dell’ordine giudiziario. Tuttavia, la prassi seguita fino a circa la metà egli anni Novanta è andata nel senso di sanzionare la violazione di un dovere soltanto quando la stessa aveva in concreto comportato anche una lesione del prestigio della magistratura. Solo negli ultimi dieci anni si è assistito ad una parziale inversione di tendenza, nel senso che da parte della Sezione disciplinare si è cominciato ad utilizzare la violazione dei doveri anche come parametro esclusivo nei procedimenti disciplinari, e, al contempo, si è dato avvio ad una giurisprudenza più attenta alle “cause di giustificazione”.

43 G. ZAGREBELSKY, La responsabilità disciplinare dei magistrati, cit., 439ss. 44 Cfr. S. SENESE, La responsabilità disciplinare, in La Giustizia, 1982, VV, 5ss. 45 Cfr. G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale italiano, Torino, 1997, 212ss.

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degli stessi, da integrare, con il ricorso all’analogia, attraverso puntuali e circoscritte clausole generali di chiusura46.

8. Segue: e) La legge “Castelli” n. 150/2005: considerazioni generali La legge n. 150/2005, a prescindere per adesso dai suoi contenuti, ha avuto senz’altro il

merito di coprire un vuoto legislativo che si trascinava da decenni. Come si è accennato, infatti, l’ordinamento giudiziario italiano era stato regolato, fino alla

sua entrata in vigore, dal regio decreto Grandi del 194147, pur modificato nel corso del tempo da una serie di puntuali interventi normativi e giurisprudenziali che avevano progressivamente contribuito, unitamente all’opera del Consiglio superiore della Magistratura, a conformare l’ordinamento giudiziario italiano ai principi contenuti nel Titolo IV della Carta costituzionale.

Con specifico riguardo al sistema della responsabilità disciplinare, poi, tale urgenza trovava, se si vuole, delle ragioni ulteriori, già richiamate nel paragrafo precedente e ben presenti nel dibattito che aveva anticipato la riforma. In particolare, l’esigenza di irrigidire il sistema della giustizia disciplinare era rafforzata anche dalla constatazione della scarsa efficacia che, come meglio si dirà nel prosieguo, avevano dimostrato nel frattempo le altre forme di responsabilità del magistrato. Come è stato osservato48, infatti, alla responsabilità disciplinare si chiedeva implicitamente di svolgere una funzione di “supplenza” della più ampia esigenza di “responsabilizzare” il giudice, nel senso che su di essa venivano a scaricarsi una serie di istanze che non sarebbero state propriamente da ricondurre alla stessa, ma che, per vari motivi, non avevano trovato altra ragionevole forma di riconoscimento.

9. Segue: f) profili sostanziali della giustizia disciplinare nella legge “Castelli” Per quanto attiene al problema della definizione degli illeciti disciplinari, la legge Castelli

ha introdotto una puntuale ed analitica tipizzazione. Rispetto alle soluzioni che erano state prospettate in dottrina, sopra richiamate, o nei pochi progetti di riforma elaborati senza successo negli anni Novanta49, quella codificata nell’art. 2, comma 6, della l. 150/2005, e successivamente dettagliata dal d.lgs. n. 109/2006 (che, in verità, si limita per lo più a riprodurre, pur con alcune utili puntualizzazioni, le disposizioni già previste dal legislatore delegante), si colloca in una posizione intermedia, potendosi definire come una tipizzazione “tendenzialmente rigida”.

46 Cfr. N. ROSSI, Il potere disciplinare, in Il Consiglio superiore della magistratura, a cura di S. Mazzamuto,

Torino, 2001, 69ss. 47 E’ a tutti noto, del resto, che gli stessi Padri Costituenti avevano avuto assai chiara la consapevolezza

dell’estrema fragilità dell’ordinamento giudiziario del 1941 al cospetto dei nuovi principi costituzionali, come dimostra l’insolita previsione contenuta nel comma 1 della VII disposizione transitoria e finale della Costituzione, a mente della quale “fino a quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento giudiziario vigente”.

48 N. ZANON, La responsabilità dei giudici, relazione al Convegno su Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, in corso di pubblicazione.

49 Cfr., in particolare, il disegno di legge n. 1247/1996, recante “norme in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari, di incompatibilità e di incarichi estranei ai compiti di ufficio”, di iniziativa dell’allora Ministro della Giustizia Flick (cfr. L. SCOTTI, I sette disegni del “secondo pacchetto giustizia”, in Documenti giustizia, 1996, II, 1633ss.), nonché, a livello di revisione costituzionale, il progetto predisposto dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. Massimo D’Alema e istituita con legge cost. n. 1/1997 (cfr. AA.VV., La Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, Padova, 1998, 339ss.).

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All’enunciazione dei doveri cui ciascun magistrato deve attenersi segue infatti la previsione di un lunghissimo elenco di condotte illecite tipiche, all’evidenza predisposto in modo da risultare per quanto possibile esaustivo, con la particolarità che - a differenza di quanto, ad esempio, era stato previsto nel disegno di legge Flick n. 1247/1996 - tali condotte non vengono raggruppate, almeno in modo esplicito, in ragione della loro attinenza ad uno specifico dovere di riferimento, ma soltanto all’ambito all’interno del quale le stesse vengono realizzate. Cosicché il richiamo ai doveri, pur assai importante per la sua valenza simbolica e sotto il profilo deontologico, finisce per non avere grande rilievo ai fini della definizione delle fattispecie di illecito.

Anche le clausole di chiusura, caratteristiche della tipizzazione di tipo tendenziale, non vengono previste in raccordo a serie “omogenee” di violazioni, ciascuna con riferimento ad uno specifico dovere, limitandosi la legge a prevederne soltanto due: la prima (art. 3, co. 1, lett l, d.lgs. n. 109), con riguardo agli illeciti commessi fuori dall’esercizio delle funzioni, e l’altra concernente gli illeciti conseguenti al reato (art. 4, co. 1, lett d, d.lgs. n. 109).

In particolare, all’art. 1, co. 1 e 2, d.lgs. n. 109, si prevede che il magistrato debba esercitare le funzioni attribuitegli “con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio” e nel rispetto della “dignità della persona”, e che, anche fuori dall’esercizio delle sue funzioni, egli “non debba tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro”, suoi e dell’istituzione.

Le condotte illecite che seguono tale generica enunciazione vengono suddivise in tre distinte categorie: quelle inerenti all’esercizio della funzione, quelle ad esso estranee, ed infine quelle conseguenti al reato.

Tra gli illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni (art. 2, d.lgs. n. 109) rientrano, ad esempio, i comportamenti che arrecano “ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti”, la “consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione”, i “comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni”, l’“adozione di provvedimenti non consentiti dalla legge che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali”, la “grave violazione di legge” o “il travisamento dei fatti” per ignoranza o negligenza inescusabile, il “reiterato, grave o ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni”, la “divulgazione di atti del procedimento coperti da segreto”, l’adozione di provvedimenti “privi di motivazione” o dalla natura cosiddetta “suicida”.

Nel secondo raggruppamento (art. 3, d.lgs. n. 109), riguardante le fattispecie disciplinari che si realizzano al di fuori dell’esercizio delle funzioni, meritano di essere richiamate, tra le altre, l’“uso della qualità di magistrato per ottenere vantaggi ingiusti”, il “frequentare persona sottoposta a procedimento penale o di prevenzione comunque trattato dal magistrato”, l’“assunzione di incarichi extragiudiziari senza la prescritta autorizzazione”, l’ottenere “prestiti o agevolazioni” da soggetti “coinvolti in procedimenti penali o civili pendenti presso l’ufficio giudiziario”, la “pubblica manifestazione di consenso o dissenso in ordine ad un procedimento in corso”, la “partecipazione ad associazioni segrete”, “l’iscrizione o la partecipazione a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di centri politici o affaristici”.

Infine, nell’ultimo gruppo di illeciti (art. 4, d.lgs. n. 109) vengono inseriti i fatti accertati con una sentenza di condanna irrevocabile, per reati, nei casi più gravi anche colposi, per i quali è prevista la pena detentiva. Si prevede altresì che dia luogo a responsabilità disciplinare anche “qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato”.

Non è possibile in questa sede svolgere l’esame puntuale delle numerose condotte illecite ora succintamente richiamate50, molte delle quali sono state all’evidenza tratte dalla

50 Si rinvia a S. DE NARDI, Finalmente illeciti disciplinari codificati , in Guida al diritto, n, 32, 2005, 103ss., L. DI PAOLA, Illeciti disciplinari: questo è il catalogo. Spunta l’“interferenza” con altri poteri, in Dir.giust., n.

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giurisprudenza della sezione disciplinare o ispirate dal Codice etico approvato dall’Anm nel 1994 e che in numerosi casi appaiono letteralmente riproduttive di ipotesi già a suo tempo contemplate nel disegno di legge Flick, sopra menzionato.

Per la maggior parte di tali fattispecie di illecito si può esprimere un giudizio di sostanziale condivisione. Ve ne sono alcune, peraltro, che hanno suscitato le critiche della stessa magistratura associata e della prevalente dottrina. Sebbene la quasi totalità di queste ultime, come meglio si dirà nel prosieguo, sia stata cancellata o riformulata in seguito all’intervento legislativo del 2006, pare necessario tuttavia farne un cenno, dal momento che le stesse appaiono assai significative di un certo modo di intendere il ruolo del magistrato di cui si fa tuttora interprete una parte cospicua dei membri del Parlamento.

Si tratta, in primo luogo, di quelle previsioni che risultavano definite in modo non sufficientemente determinato e in relazione alle quali vi poteva essere il concreto rischio di un indiscriminato ampliamento della loro portata applicativa e di una proliferazione degli esposti disciplinari. Alcune di esse sono tuttora vigenti: possono in particolare segnalarsi le previsioni ai sensi delle quali costituiscono illecito i comportamenti che arrecano “ingiusto danno” o “indebito vantaggio” alle parti, ovvero la “grave” violazione di legge, o ancora l’adozione di provvedimenti che abbiano “leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali”.

Ma le preoccupazioni maggiori provenivano invero da una serie di ipotesi di illecito rientranti tra quelle realizzate nell’esercizio delle funzioni. Queste ultime, nel palesare un’evidente sfiducia nella categoria dei magistrati, se non un vero e proprio intento vessatorio, sembravano dirette a spostare il fuoco della responsabilità disciplinare dai “comportamenti” del magistrato ai suoi “provvedimenti”51, andando ad incidere in modo rilevante sul rapporto tra il giudice e la legge. Su di esse ci soffermeremo nel successivo paragrafo.

10. Segue: g) La legge “Castelli” e il ruolo del giudice: la responsabilità del magistrato

tra attività interpretativa e coinvolgimento politico Tra le disposizioni più significative dello spirito complessivo della riforma Castelli,

entrambe successivamente modificate dalla legge n. 269/2006, vi erano quella che configurava quale illecito l’adozione di provvedimenti che “costituiscano esercizio di una potestà riservata dalla legge ad organi legislativi” (art. 2, comma 1, lett. ff, d.lgs. n. 109) e l’altra ai sensi della quale non poteva “dar luogo a responsabilità disciplinare l’attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale” (art. 2, co. 2, d.lgs. n. 109).

Quest’ultima disposizione, in particolare, rappresentava ciò che era rimasto dell’assai criticata previsione sul divieto di “interpretazione creativa”, soppressa dall’originario disegno di legge nel corso del dibattito parlamentare anche in seguito alla presa di posizione contraria dell’intera comunità scientifica. Ma ciò che era rimasto era altrettanto significativo dell’obiettivo del legislatore: vale a dire, quello di diminuire il più possibile lo scarto tra il comando codificato nella legge e l’applicazione giudiziaria, riducendo il “margine di manovra” del giudice nell’ambito della sua attività interpretativa.

Si trattava dunque di una clausola di esonero dalla responsabilità assai restrittiva: certamente più restrittiva di quella, solo apparentemente analoga, contenuta nella legge n. 117 del 1988 sulla responsabilità civile del magistrato, ove si prevede, come meglio si dirà, che

31, 2005, 1ss., S. ERBANI, Gli illeciti disciplinari del magistrato, in AA.VV., Il nuovo ordinamento giudiziario, a cura di D. Carcano, 297ss.

51 Cfr. M. E. BUCALO, La responsabilità disciplinare del giudice fra diritto e politica del diritto: necessità di una riforma o ricerca di soluzioni alternative?, in AA.VV., Contributo al dibattito sull’ordinamento giudiziario, a cura di F. Dal Canto e R. Romboli, Torino, 2004, 71ss.

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non possa dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme, con il solo limite della “grave violazione di legge” determinata da negligenza inscusabile, senza qui alcun riferimento all’“angusto recinto” di cui all’12 delle disp. prel. cod. civ.52.

Si tenga poi conto che il presupposto di partenza dal quale sembrava muovere il legislatore, quello per cui sarebbe stato possibile regolamentare rigidamente l’attività interpretativa, non poteva che apparire del tutto irrealistico. E’ a tutti ben noto che lo stesso art. 12 delle Preleggi contiene più criteri ermeneutici tra loro non gerarchicamente ordinati, e che tra di essi il giudice deve comunque operare una selezione, la quale non potrà che essere basata su valori e principi situati al di fuori dell’art. 12. Tale disposizione, come si sa, approvata nel 1942, non poteva contemplare l’esigenza di contemperare i canoni legali di interpretazione con la pervasività dei principi costituzionali, che richiedono al giudice, tra l’altro, una maggiore attenzione alle esigenze dei “casi” concreti.

Ma vi era anche un’altra previsione, anch’essa parzialmente modificata nel 2006, piuttosto rivelatrice dello spirito della legge Castelli. Ci riferiamo a quella a mente della quale costituiva illecito disciplinare “l’iscrizione o la partecipazione ai partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di centri politici” (art. 3, comma 1, lett. h, d.lgs. n. 109).

La prima limitazione rappresentava una delle possibili forme di attuazione dell’art. 98, comma 3, della Costituzione, laddove lo stesso prevede che il legislatore può stabilire limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici da parte dei magistrati. Si potrebbe osservare che si trattava di una interpretazione assai estensiva del disposto costituzionale, che prevede la possibilità di “limitazioni” e non la soppressione del diritto costituzionale di iscrizione ai partiti; inoltre, si potrebbe anche aggiungere che l’imparzialità del magistrato, che si vorrebbe garantire con tale previsione, è soltanto una mera “apparenza” di imparzialità, mentre risulta convincente il ragionamento condotto da coloro i quali sostengono che, probabilmente, un magistrato che fosse posto in grado di manifestare pubblicamente le proprie idee politiche, assumendosi così una sorta di responsabilità pubblica, darebbe forse maggiori garanzie, al di là delle apparenze, di “decidere imparzialmente”53. Ma è pur vero che tale soluzione, per quanto non perfettamente armonica con la legislazione elettorale - che ad oggi consente ad un magistrato, salvo alcune limitazioni territoriali, di candidarsi alle elezioni politiche - rientrava nella piena discrezionalità del legislatore ordinario.

Diverso il discorso per l’altra limitazione che veniva introdotta dalla disposizione sopra richiamata, laddove si prevedeva, in violazione di una serie di libertà costituzionalmente garantite anche ai magistrati, addirittura il divieto di coinvolgimento nell’attività di “centri politici”. Senza affrontare qui il problema di una complicata esegesi della locuzione “centri politici”, in linea di principio tale previsione poteva anche essere interpretata nel senso di un divieto generalizzato per il magistrato di partecipazione alle attività politiche in senso lato. Se così fosse ,anche tale previsione - a prescindere dalle difficoltà della sua concreta applicazione - sarebbe stata funzionale alla definizione di un modello di giudice “impolitico”, ovverosia di un giudice rintanato all’interno di una sorta di “campana di vetro”, più insensibile al pluralismo di voci, di idee e di valori e alle esigenze mutevoli della società. Un modello di giudice assolutamente lontano da un approccio “mite” al diritto54.

In definitiva, dalle due disposizioni ore considerate poteva evincersi con chiarezza, dalla peculiare prospettiva della responsabilità disciplinare, il tentativo che era stato realizzato dal legislatore del 2005, teso a riavvicinare, non senza una buona dose di ingenuità, il nostro sistema giudiziario ad un modello probabilmente già inadeguato nell’ottocento. Un modello

52 Cfr. S. SENESE, La riforma dell’ordinamento giudiziario, in AA.VV., Contributo al dibattito

sull’ordinamento giudiziario, cit., 15ss., da cui è tratta l’espressione virgolettata. 53 Cfr. S. SENESE, La riforma, cit., 25ss. 54 Per riprendere la suggestiva immagine di G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992, 1ss.

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cha trovava il suo fulcro nella figura del “giudice-funzionario”, mero applicatore del comando codificato nella legge.

Inutile spendere troppe parole per sottolineare la miopia culturale che caratterizzava un simile approccio.

11. Segue: h) i profili processuali della giustizia disciplinare nella legge Castelli La legge delega, successivamente dettagliata dal d.lgs. n. 109/2006, ha introdotto alcune

rilevanti novità anche con riguardo agli aspetti attinenti al procedimento disciplinare55. Il principio ispiratore, certamente condivisibile, è stato quello della piena

giurisdizionalizzazione del procedimento. In particolare, l’art. 2, comma 7, della l. 150/05 ha ridisegnato sia la fase di avvio del procedimento disciplinare sia quelle istruttoria, dibattimentale e dell’eventuale impugnazione del provvedimento.

Con riguardo alla prima fase, la novità più rilevante è rappresentata dall’esercizio dell’azione disciplinare, che rimane facoltativo per il Ministro della giustizia ma diviene obbligatorio per il procuratore generale presso la Corte di cassazione. Soluzione che, unita a quella riguardante la tipizzazione degli illeciti disciplinari, contribuisce significativamente a rendere il sistema complessivo assai rigido.

Con riferimento alla fase istruttoria, gli aspetti più qualificanti attengono al rinvio, in quanto compatibile, al nuovo c.p.p. del 1988 e non più a quello abrogato e alla rigida scansione temporale dei tempi del procedimento disciplinare.

Infine, in ordine all’impugnazione del provvedimento, su iniziativa dell’incolpato, del Ministro della giustizia oppure del Procuratore generale, il ricorso per Cassazione viene ad essere regolato dal nuovo c.p.p., mentre a decidere sono, ragionevolmente, le sezioni unite “penali” e non più quelle “civili”.

Con riguardo infine alle sanzioni disciplinari, il catalogo di quelle già previste dal r.d.leg. 511/46 (ammonimento, censura, perdita di anzianità e rimozione) viene ora integrato con le nuove figure della “incapacità temporanea ad esercitare un incarico direttivo o semidirettivo” e della “sospensione dalle funzioni”.

Da segnalare inoltre le previsioni riguardanti il ruolo e le prerogative del Procuratore generale e del Ministro della giustizia nel corso del procedimento disciplinare. Il primo, se lo ritiene necessario, può acquisire atti coperti da segreto investigativo senza che tale segreto possa essergli opposto.

Quanto al secondo, che diviene il vero dominus del procedimento, viene dotato di una serie di attribuzioni nuove e assai rilevanti: si va dalla richiesta di estendere l’azione disciplinare ad altri fatti alla facoltà di opporsi alla richiesta di declaratoria di non luogo a procedere; dalla possibilità di chiedere l’integrazione, o, se l’azione era stata da lui promossa, la modificazione della contestazione al potere di chiedere al Presidente della Sezione disciplinare di fissare l’udienza di discussione orale, formulando l’incolpazione, anche a fronte della richiesta di non luogo a procedere avanzata dal Procuratore generale. Inoltre, il Ministro può partecipare all’udienza delegando un magistrato dell’ispettorato generale, cui vengono riconosciute una serie di importanti prerogative.

Una menzione a parte merita, invece, il Capo III del d.lgs. n. 109 del 2006, recante “modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento d’ufficio”. E’ noto, infatti, che i cosiddetti trasferimenti per “incompatibilità ambientale e funzionale”, disciplinati all’art. 2 del r.d.lgt. n. 511/1946, pur non essendo qualificabili come

55 Sui quali cfr. S. PANIZZA, La responsabilità disciplinare: aspetti processuali, in AA.VV., La riforma dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2006, V, 46ss. e M. CASSANO, Il procedimento disciplinare, in AA.VV., Il nuovo ordinamento giudiziario, cit., 327ss.

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provvedimenti disciplinari - dal momento che gli stessi prescindono, o dovrebbero prescindere, da una valutazione della condotta del magistrato, dovendo invece presupporre esclusivamente apprezzamenti di tipo oggettivo56 - e pur essendo adottati a conclusione di un procedimento di natura amministrativa, in passato hanno tuttavia prestato il fianco alle critiche di coloro che hanno segnalato un loro utilizzo strumentale in chiave para-disciplinare.

La nuova disciplina ha il merito di definire con maggiore chiarezza rispetto al passato l’ambito di applicazione di tali provvedimenti, senza tuttavia sgombrare del tutto il campo dai timori già registrati con la vecchia normativa, circa una possibile pericolosa commistione tra procedimento di trasferimento e procedimento disciplinare.

Due sono le norme che rilevano in proposito. Innanzi tutto, l’art. 26, comma 1, ove si precisa che il trasferimento deve adottarsi qualora, “per qualsiasi causa indipendente da loro colpa”, i magistrati “non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità”. In secondo luogo, l’art. 26, comma 2, del d.lgs. n. 109, a mente del quale “gli atti relativi ai procedimenti amministrativi di trasferimento di ufficio (…) pendenti presso il Consiglio superiore, per fatti astrattamente riconducibili alle fattispecie disciplinari (…), sono trasmessi al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione per le sue determinazioni in ordine all’azione disciplinare”.

12. Segue: i) le modifiche apportate dalla legge “Mastella” n. 269/2006: finalmente un punto fermo?

All’indomani delle elezioni politiche della primavera del 2006 la nuova maggioranza di centro-sinistra è riuscita a tradurre in provvedimenti legislativi l’intenzione, già manifestata in sede di campagna elettorale, di tornare in tempi brevi alla fase antecedente a quella della legge Castelli, per poi, subito dopo, realizzare una nuova riforma. Su iniziativa del nuovo Ministro della giustizia, Clemente Mastella, il primo obiettivo - parzialmente, anche il secondo - è stato raggiunto con l’entrata in vigore della legge n. 269/2006, recante “sospensione dell’efficacia nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario”, ove, oltre a sospendersi fino al 31 luglio 2007 l’efficacia di tutte le disposizioni contenute nel d.lgs n. 160/2006, in tema di accesso alla magistratura, si è provveduto a modificare direttamente alcune parti della riforma Castelli. Il secondo obiettivo, com’è noto, è stato invece raggiunto con la legge n. 111/2007, promulgata il giorno 30 luglio, ultimo giorno utile per evitare che le norme sospese riacquistassero efficacia.

Quanto alla materia disciplinare, le novità sono tutte contenute nella “prima legge Mastella” (n. 269/2006), che apporta un incisivo ritocco al d.lgs. n. 109/2006, pur mantenendone inalterato l’impianto complessivo.

Per quanto riguarda le singole fattispecie di illecito, la maggior parte delle previsioni contenute nella precedente disciplina che avevano destato le maggiori perplessità, sia con riguardo alla loro genericità sia in quanto potenzialmente impattanti sul ruolo del giudice, è stata modificata o abrogata.

In particolare, vengono soppresse alcune fattispecie di illecito che erano state enunciate nel d.lgs. n. 109 in modo estremamente generico, tra le quali, ad esempio, la stessa clausola d’apertura a mente della quale il magistrato, “anche fuori dall’esercizio delle funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziario” (art. 1, comma 2); oppure, la previsione ai sensi della quale costituisce illecito per il magistrato il “perseguimento di fini estranei ai suoi doveri ed alla funzione giudiziaria” (art. 2, comma 1,

56 In questo senso cfr. di recente anche Consiglio di Stato, Sez. IV, sent. 3 marzo 2006 n. 1035, in Giurisdizione amministrativa, fasc. 3, 2006, 362ss.

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lett. i), ovvero il “rilasciare dichiarazioni o interviste in violazione dei criteri di equilibrio e di misura” (art. 2, comma 1, lett bb), o ancora “esprimere una “pubblica dichiarazione di consenso o dissenso in ordine ad un procedimento in corso quando (..) sia idonea a condizionare la libertà di decisione nel procedimento medesimo” (art. 3, comma 1, lett f), o infine tenere “ogni altro comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato” (art. 3, comma 1, lett l).

Per quanto concerne le previsioni che avevano sollecitato critiche in ragione della loro idoneità ad interferire con il ruolo del magistrato nell’ordinamento, occorre in particolare segnalare l’intervenuta soppressione del riferimento all’art. 12 delle Preleggi nella richiamata clausola di esenzione dalla responsabilità per l’attività interpretativa, nonché, con riguardo alla stessa clausola, l’aggiunta, in analogia con quanto previsto dalla disciplina sulla responsabilità civile, anche del riferimento all’attività di “valutazione del fatto”.

Da segnalare anche la sostituzione dell’originaria previsione sul divieto di partecipazione a partiti e centri politici con quella, più morbida, ma anche più ambigua, in forza della quale costituisce illecito “l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possano condizionare l’esercizio delle funzioni o comunque compromettere l’immagine del magistrato”.

Infine, di particolare rilievo l’inserimento di una clausola generale sull’irrilevanza della condotta illecita. Nel nuovo art. 3 bis nel d.lgs. n. 109, infatti, si prevede che “l’illecito non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza”. Si tratta di una previsione assai innovativa, il cui obiettivo è chiaramente quello di introdurre nel sistema, irrigidito dalla combinazione tra tipizzazione degli illeciti ed obbligatorietà dell’azione disciplinare, un elemento di flessibilità, allo scopo di scongiurare il rischio, da più parti paventato, di una proliferazione eccessiva degli esposti disciplinari57.

Tra l’altro, una versione un poco diversa di tale previsione, certamente formulata in termini complessivamente assai meno felici, era stata già inserita nel disegno di legge che poi sarebbe divenuto il d.lgs. n. 109 (“l’illecito disciplinare non è configurabile quando la condotta non incide negativamente, in concreto, sulla credibilità, il prestigio ed il decoro del magistrato o sul prestigio dell’istituzione giudiziaria”) proprio allo scopo di temperare gli effetti delle novità previsti dalla stessa riforma Castelli. Nella stessa relazione di accompagnamento allo schema di decreto, o meglio in una sua prima stesura, si poteva leggere che l’introduzione del principio della necessaria offensività della condotta “era necessaria per assicurare la ragionevolezza del sistema sanzionatorio nei casi in cui i beni-interessi assicurati non siano concretamente lesi. Tale principio costituisce, in qualche modo, un bilanciamento del principio di tipizzazione degli illeciti disciplinari”. Tale previsione, tuttavia, era stata cancellata in uno dei passaggi finali dell’iter di approvazione del decreto soprattutto in ragione dei (pertinenti) rilievi di costituzionalità per eccesso di delega dei quali era stata prontamente, e da più parti, fatta oggetto.

La soluzione ora raggiunta, condivisibile sotto molti profili, desta però anche qualche perplessità. Non può nascondersi, infatti, come la stessa porti con se il rischio, almeno in prospettiva, di essere “troppo” efficace, lasciando ampio margine di discrezionalità al promotore dell’azione nel valutare la scarsa rilevanza del fatto e conseguentemente mortificando un poco il senso della obbligatorietà. Il rischio, in definitiva, è quello per cui possa “rientrare dalla finestra” quella discrezionalità nella gestione della giustizia disciplinare che, con la riforma, si era inteso “scacciare dalla porta”. Naturalmente, le presenti sono soltanto obiezioni “a prima lettura”, manifestate senza alcun conforto della prassi effettiva; e

57 Prima dell’entrata in vigore della riforma Castelli i procedimenti disciplinari decisi annualmente dalla

Sezione disciplinare ammontavano già a circa centocinquanta.

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dunque un giudizio più approfondito potrà essere dato soltanto tra qualche tempo, quando il nuovo sistema avrà cominciato a marciare a pieno regime.

Per quanto invece riguarda i profili processuali della disciplina, mi pare che le principali novità da segnalare siano due.

La prima attiene ai termini che scandiscono le diverse fasi del procedimento. Si passa, sia per quanto riguarda il termine entro il quale il Procuratore generale deve formulare le richieste sia quello entro il quale la Sezione disciplinare è chiamata a pronunciarsi, da un anno a due anni. Inoltre, si prevede per la prima volta un termine, assai ampio a dire il vero, entro il quale l’azione disciplinare si prescrive: in particolare, l’art. 15, comma 1 bis, del novellato decreto n. 109, stabilisce che “non può comunque essere promossa l’azione disciplinare quando siano decorsi dieci anni dal fatto”.

L’altra novità concerne invece il ruolo del Ministro della giustizia. Innanzi tutto, egli può opporsi al provvedimento di archiviazione adottato dal Procuratore generale in caso di condotta irrilevante, chiedendo al Presidente della Sezione disciplinare di fissare ugualmente l’udienza di discussione orale. Viene poi cancellata la previsione ai sensi della quale il Ministro poteva partecipare all’udienza tramite un suo delegato.

Con una scelta davvero singolare, inoltre, la cui ratio non è facilmente comprensibile, competenti a conoscere dei ricorsi contro i provvedimenti disciplinari adottati dalla Sezione tornano ad essere, esattamente come in passato, le Sezioni Unite civili - e non più penali, come prevedeva la legge Castelli - della Corte di cassazione.

Con le modifiche apportate dalla legge Mastella, che ha espunto dalla disciplina del 2005 la maggior parte delle sue asprezze ed incongruenze, il sistema della responsabilità disciplinare, dopo decenni di fermento, sembrerebbe essere giunto finalmente ad un punto di “tendenziale stabilità”. Si tratta, a questo punto, di veder come tale sistema potrà concretamente funzionare e, ancora di più, come lo stesso si potrà progressivamente “affinare” nella giurisprudenza della Sezione disciplinare e della Corte di cassazione.

13. Segue: l) all’indomani delle riforme: i fluidi confini tra deontologia, professionalità e

responsabilità In attesa di svolgere una valutazione che possa tener conto degli orientamenti formatisi

nella prassi58, pare utile un’ulteriore breve considerazione d’insieme. Il nuovo sistema di giustizia disciplinare ha ridotto di molto gli spazi che tradizionalmente si ritengono frapposti tra le tre differenti dimensioni riguardanti il comportamento del magistrato: la responsabilità, la professionalità e la deontologia.

Queste ultime, in particolare, potevano tradizionalmente essere immaginate come cerchi concentrici di diversa ampiezza: il cerchio interno rappresentava la dimensione della responsabilità, riguardante quei comportamenti per il magistrato giuridicamente doverosi a cui faceva seguito, in caso di una loro violazione, l’applicazione di una sanzione; al cerchio più ampio corrispondeva invece la dimensione della professionalità, attinente a quelle norme comportamentali funzionali al miglior svolgimento della professione di magistrato e il cui mancato rispetto si traduceva in conseguenze negative sulla carriera; infine, il cerchio dal

58 Uno sguardo sommario alle prime applicazioni del nuovo sistema disciplinare - che, ai sensi dell’art. 32 bis del d.lgs. 109/2006, svolge i suoi effetti nei confronti di tutti i procedimenti promossi dopo l’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo (vale a dire, promossi dopo il 19 giugno 2006; continua peraltro ad applicarsi la vecchia disciplina, se più favorevole, con riferimento ai fatti commessi anteriormente a tale data) - mostra, innanzi tutto, un certo incremento del numero degli esposti. Tale fenomeno, tuttavia, è probabilmente dovuto, in fase di prima applicazione, ad una sorta di eccesso di cautela di molti dirigenti indotto dalla perentorietà della previsione di cui all’art. 2, comma 1, lett dd del richiamato decreto, ove si prevede che costituisce “illecito l’omissione da parte del dirigente dell’Ufficio (…) della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illeciti disciplinari compiuti da magistrati dell’Ufficio …”.

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diametro maggiore era quello della deontologia, comprensivo di tutte quelle regole etiche ispirate all’attuazione di valori morali fondamentali per la categoria di riferimento e non accompagnati da sanzioni di alcun tipo. Spostandosi dal cerchio più piccolo verso quello posto all’esterno aumentava il margine di discrezionalità del magistrato nella realizzazione dell’obiettivo da raggiungere.

Ora, proseguendo nella metafora, all’indomani delle riforme del 2005 e del 2006 le distanze tra le tre circonferenze si sono sensibilmente ridotte. A riprova di ciò è sufficiente scorrere le previsioni contenute nel codice deontologico approvato dall’Associazione nazionale magistrati nel 1993 e constatare come molte delle previsioni in esso contenute sono state oggi elevate al rango di norme disciplinari59. Ed è utile anche dare uno sguardo all’art. 11 del d.lgs. n. 160/2006, come novellato dalla legge n. 111/2007, laddove, nel regolamentare analiticamente i criteri, le condizioni e le modalità riguardanti le valutazioni periodiche di professionalità, si notano, oltre alle inevitabili differenze, anche molti punti di contatto con la disciplina della responsabilità disciplinare.

Il fenomeno può suscitare, in linea di principio, apprezzamenti di segno diverso60: da una parte, la dilatazione estrema della responsabilità disciplinare potrebbe comportare il rischio di irrigidire eccessivamente l’attività del giudice, quasi di ingabbiarla all’interno di maglie troppo strette di comportamenti giuridicamente imposti; dall’altra - soluzione che a chi scrive parrebbe in linea di massima più convincente - un sistema di giustizia disciplinare più rigoroso sembrerebbe anche maggiormente in grado di determinare effetti virtuosi proprio sulla professionalità del magistrato e, conseguentemente, sulla qualità della giustizia. A queste ultime si farà un cenno nelle osservazioni conclusive del lavoro in quanto attengono al sistema della responsabilità nel suo insieme, tenuto conto delle novità e delle tendenze più recenti che hanno riguardato anche la dimensione dell’illecito civile.

Sezione II 14. La responsabilità civile del magistrato e la responsabilità civile dello Stato per

l’attività dei propri organi giudiziari: a) cenni al sistema vigente nello Stato liberale e al codice di procedura civile del 1940

Veniamo ora ai profili riguardanti la responsabilità civile del magistrato61, non prima,

peraltro, di aver premesso come tale tematica, pur nella sua indubitabile autonomia

59 In argomento, cfr. R. BIFULCO, Deontologia giudiziaria, disciplina e interrpetazioen della legge: territori

(limitrofi?) da recintare con cura!, in Politica del diritto, 2004, 619ss. 60 Si veda, di recente, anche G. SALMÈ, La deontologia tra responsabilità disciplinare e dialogo con i

cittadini, secondo il quale le norme deontologiche e quelle disciplinari hanno “funzione e natura diverse”: in particolare, mentre le prime “fissano gli obiettivi massimi di crescita”, le altre debbono invece mirare a sanzionare il “minimo etico”.

61 Di cui trattiamo dopo aver affrontato quelli attinenti alla responsabilità disciplinare a fronte della semplice constatazione in base alla quale, come si è di recente segnalato, tale forma è risultata in Italia “nel complesso marginale per ricorrenza e rilievo rispetto ad altre, in particolare quella disciplinare, tradizionalmente al centro, almeno da noi e in epoche recenti, dell’interesse in questa materia” (così S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati e la responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari, in corso di pubblicazione).

In argomento, limitandoci ad alcuni dei contributi più recenti, cfr. V. VARANO, Responsabilità del magistrato, in Digesto civ., Torino, 1998, vol. XVII, 111 ss., G. SCARSELLI, La responsabilità del giudice nei limiti del principio di indipendenza della magistratura, in Foro it., 2001, I, 3562ss., M. SERIO, La responsabilità della pubblica accusa e del giudice nell’ordinamento italiano, in Giustizia e responsabilità, Milano, 2003, 53ss., A. D’ALOIA, Questioni costituzionali in tema di responsabilità dei giudici, relazione al Convegno su Separazione dei poteri e funzione giurisdizionale, cit., M. MAGRASSI, Il principio della responsabilità

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concettuale, non possa esser affrontata disgiuntamente, per le molteplici ed evidenti interconnessioni, da quella riguardante la responsabilità civile dello Stato in conseguenza dell’attività giurisdizionale.

La ratio della responsabilità civile, in particolare, può essere individuata nell’esigenza in base alla quale le parti che si ritengono danneggiate da provvedimenti di un magistrato adottati nell’esercizio delle sue funzioni debbono poter far valere le proprie ragioni in un processo di natura giurisdizionale. Il presupposto teorico dal quale si muove è quello in forza del quale la decisione giurisdizionale non è riconducibile soltanto alla volontà della legge ma, pur entro i confini segnati dall’attività ermeneutica, anche all’organo giudicante nella sua soggettività.

Si è già accennato alla circostanza per la quale, almeno a partire dall’affermazione del principio di statualità del diritto e dell’idea della funzione giurisdizionale come diretta espressione della sovranità dello Stato, in passato si era lungamente dubitato della stessa possibilità teorica di configurare una tale forma di responsabilità, sul presupposto, più generale, per cui si riteneva che lo Stato e i suoi rappresentanti non potessero commettere atti illegittimi62. Soprattutto all’indomani dell’entrata in vigore delle Carte costituzionali del secondo dopoguerra - ma, in alcune esperienze, e seppur con soluzioni sul principio assai timide, anche in precedenza - tale presupposto, sia sul piano generale che su quello specificamente attinente alla funzione giurisdizionale63, è stato progressivamente abbandonato, e ciò con riguardo tanto alla dimensione dello responsabilità dello Stato che a quello segnatamente concernente la responsabilità diretta del singolo magistrato.

Analogamente, nel tempo è caduto anche l’altro ostacolo teorico che tradizionalmente aveva sbarrato la strada all’introduzione di una qualche forma di responsabilità civile dei magistrati: quello incentrato sulla regola del giudicato. L’argomento sul quale lo stesso si fondava muoveva dal rilievo in base al quale le decisioni giurisdizionali ritenute ingiustamente lesive degli interessi delle parti potevano essere contestate dalle stesse con lo strumento ordinario delle impugnazioni fino al momento del passaggio in giudicato, a partire dal quale l’eventuale irregolarità veniva ad essere in un certo senso “sanata” e nessuna forma di responsabilità avrebbe potuto conseguentemente essere ulteriormente fatta valere. Gli sviluppi successivi registrati dalla scienza giuridica, con il sostegno puntuale della giurisprudenza costituzionale, hanno condotto alla dimostrazione di come il precedente assunto fosse tutt’altro che incontestabile, dal momento che l’autorità del giudicato e la responsabilità civile sono istituti volti alla tutela di beni diversi, tenuto conto, segnatamente, del richiamato carattere (anche) di soggettività insito nell’esercizio della funzione giurisdizionale64.

Volendo fare soltanto pochi cenni alle esperienze precedenti, appare sufficiente ricordare che nel periodo liberale e in quello fascista la responsabilità civile per i danni ingiusti provocati dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni era disciplinata in modo assai limitato, sul presupposto, in primo luogo, che fosse necessario tenere distinta tale regolamentazione da quella dedicata agli altri pubblici dipendenti. Oltre alle ragioni sopra richiamate, per giustificare la disparità di trattamento tra magistrati e impiegati civili dello Stato un ruolo rilevante venne rivestito anche dall’argomento tradizionale incentrato risarcitoria dello Stato-giudice tra ordinamento comunitario, interno e convenzionale, in Dir.pubbl.comp.europeo, 2004, 500ss., F. BIONDI, La responsabilità del magistrato, cit.

62 Cfr. G. SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 216 ss.; per i legami con l’indipendenza del giudice, v. L. M. DIEZ-PICAZO, Notas de derecho comparado sobre la independencia judicial, in Revista Española de Derecho Constitucional, 1992, n. 34, 19 ss.

63 In questo secondo caso, tuttavia, sempre con maggiore difficoltà, in ragione della peculiare natura della funzione giurisdizionale: cfr. S. SATTA, Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1966, 211ss.

64 Cfr. A. VIVIANI, La responsabilità del giudice. Le ragioni di una battaglia, AA.VV., in Garanzie processuali o responsabilità del giudice, a cura di V. Ferreri, Milano, 1981, 26ss.

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sull’esigenza di tutelare il “prestigio” della magistratura, che sarebbe risultato compromesso da una assimilazione delle diverse ipotesi65.

A completare il quadro riguardante il periodo liberale concorreva poi l’ulteriore dato per il quale lo stesso Stato era tenuto totalmente immune da ogni forma di responsabilità per l’attività giudiziaria.

La soluzione accolta, in particolare, già presente nel codice di procedura civile del 1865 (art. 783) e successivamente riprodotta in quello del 1940 (artt. 55ss. e 74), si sostanziava nella previsione volta a circoscrivere la responsabilità del magistrato ai casi di dolo, frode o concussione nell’esercizio delle funzioni, ovvero all’ipotesi in cui lo stesso, senza giusto motivo, avesse rifiutato, omesso o ritardato il compimento di un atto del proprio ministero.

Quanto ai profili processuali, gli aspetti maggiormente qualificanti della disciplina erano rappresentati dalla previsione circa la necessaria autorizzazione del Ministro della giustizia per proporre la domanda per la dichiarazione di responsabilità e dal potere della Corte di cassazione di designare il giudice competente a pronunciarsi sulla stessa.

Si trattò, in effetti, di un sistema caratterizzato da uno scarso impatto pratico, applicato in un numero assai limitato di ipotesi66.

15. Segue: b) la Costituzione del 1948, l’art. 28 sulla responsabilità dei pubblici

dipendenti e l’interpretazione datane dalla Corte costituzionale Con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 la principale novità, destinata ad avere

dirette e rilevanti ricadute sul tema qui esaminato, fu rappresentata dall’art. 28, ai sensi del quale “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civile e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti”, ed inoltre “in tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.

Con tale norma veniva dunque stabilito un principio generale di responsabilità (penale, civile, amministrativa) di tutti i funzionari e dipendenti pubblici per gli atti compiuti in violazione di diritti, nonché l’estensione, in tali casi, della responsabilità civile allo Stato (o all’ente pubblico). Tale previsione67, in effetti, pur dando luogo a diverse letture interpretative con riguardo a specifici profili problematici, non comportò, quanto alla sua ratio complessiva, particolari dilemmi per la maggior parte dei settori della pubblica amministrazione, dove tale principio aveva già trovato, soprattutto nella giurisprudenza, soddisfacenti, ancorché necessariamente puntuali, forme di riconoscimento.

L’art. 28 rappresentò invece un fatto nuovo, malgrado l’esistenza - anzi, per certi aspetti proprio in ragione della stessa - delle previsioni codicistiche sopra richiamate, con riguardo alla prospettiva di una sua piena estensione anche all’attività giudiziaria, tanto che in molti, sulle prime, si dissero contrari a tale possibile interpretazione, mentre altri, pur favorevoli, si posero da subito il problema della compatibilità di tale assunto con le disposizioni contenute nel codice di rito.

Secondo un certo orientamento, l’art. 28 Cost. doveva essere riferito solo ai funzionari e ai dipendenti pubblici intesi in senso stretto, in considerazione del fatto che la magistratura veniva espressamente qualificata dalla Costituzione come un “ordine autonomo”, dinanzi al

65 In argomento già L. MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, II, Milano, 1899,

506ss. 66 Cfr. S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati e la responsabilità civile dello Stato per l’attività

dei propri organi giudiziari, cit. 67 Sulla quale, per tutti, cfr. F. MERUSI-M. CLARICH, Sub art. 28, in Commentario della Costituzione, a cura

di G. Branca e A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1991, cit., 356ss.

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quale non poteva configurarsi alcun principio generale di responsabilità. D’altra parte, a riprova della bontà di tali argomentazioni, veniva addotto anche l’ulteriore dato in forza del quale la stessa Costituzione, con riguardo all’attività giurisdizionale, aveva direttamente disciplinato il diverso istituto della “riparazione dell’errore giudiziario”, e ciò proprio in considerazione del fatto che questa fosse la sola ipotesi prospettabile di riconoscimento delle prerogative delle parti eventualmente danneggiate da una pronuncia.

A porre la parola fine al complesso dibattito intervenne, a metà degli anni Sessanta, la Corte costituzionale, che, sollecitata dal Tribunale di Bologna ad accertare la legittimità costituzionale degli artt. 55 e 74 c.p.c., con la sent. n. 2/1968 sciolse, con parole assai chiare, una buona parte dei nodi sul tappeto.

Nel giungere ad una dichiarazione di non fondatezza della questione, il Giudice costituzionale affermò che: “in verità l’art. 28 (…) ha ad oggetto l’attività, oltreché degli uffici amministrativi, di quelli giudiziari”, avendo inteso estendere “a quanti agiscano per lo Stato quella responsabilità personale che prima era espressamente prevista solo per alcuni di loro (giudici, cancellieri, conservatori di registri immobiliari)”. Ciò ovviamente non impedisce al legislatore ordinario di fare in modo che tale responsabilità sia “disciplinata variamente per categorie o per situazioni”.

In particolare - osservò ancora la Corte - “la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione super partes del magistrato possono suggerire, come hanno suggerito ante litteram, condizioni e limiti alla sua responsabilità, ma non tali da legittimarne, per ipotesi, una negazione totale, che violerebbe apertamente quel principio o peccherebbe di irragionevolezza sia di per sé (art. 28) sia nel confronto con l'imputabilità del pubblici impiegati”.

In altre parole la Corte ritenne in linea di principio applicabile anche ai magistrati il principio generale sancito nell’art. 28 Cost., pur non escludendo in concreto la possibilità del legislatore di inserire delle limitazioni in ragione di un contemperamento con altri principi costituzionali. Più di recente la stessa Corte, tornata sull’argomento, ha mostrato espressamente di ritenere necessario, in ragione dell’imprescindibile bilanciamento con il principio di indipendenza della magistratura, una disciplina legislativa della responsabilità dei magistrati differenziata rispetto a quella generale prevista per gli altri funzionari pubblici68.

Sul versante invece della responsabilità dello Stato, la Corte costituzionale, nella sopraccitata sentenza n. 2/1968, ebbe modo di sottolineare come la stessa si “accompagni” a quella dei funzionari e dei dipendenti, cosicché una legge che negasse al cittadino danneggiato dal giudice qualunque pretesa verso l'amministrazione statale sarebbe “contraria a giustizia”. Proprio in virtù dell'art. 28 Cost., osservò ancora la Corte, “là dove è responsabile il funzionario o dipendente, lo sarà negli stessi limiti lo Stato”, e ciò anche con riferimento alla “responsabilità dello Stato per gli atti e le omissioni di cui risponde il giudice nell'esercizio del suo ministero”.

Ancora, in un passaggio finale della motivazione della richiamata sentenza del 1968, sul momento alquanto sottovalutato forse anche in ragione della sua eccessiva cripticità69, la Corte, preoccupata evidentemente dalla limitata tutela offerta dalle previsioni codicistiche allora vigenti, aggiunse che, “quanto alle altre violazioni di diritti soggettivi, cioè ai danni cagionati dal giudice per colpa grave o lieve o senza colpa, il diritto al risarcimento nei riguardi dello Stato non trova garanzia nel precetto costituzionale; ma niente impedisce alla

68 Cfr. sentt. nn. 26/1987 e 468/1990. 69 Cfr. N. ZANON-F. BIONDI, Il sistema costituzionale della magistratura, cit., 187, ove si osserva che “la

giurisprudenza, però, contrariamente a quanto affermato per gli altri settori del pubblico impiego, ammise questa possibilità solo raramente, richiamando il principio stabilito dall’art. 2043 c.c., applicabile alla pubblica amministrazione, sulla base del rapporto organico tra l’ufficio di giudice e lo Stato”.

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giurisprudenza di trarlo eventualmente da norme o principi contenuti in leggi ordinarie (se esistono)”.

E’ stato di recente osservato70 come il senso di quella parentesi, di per sé piuttosto singolare, appaia oggi, a distanza di decenni, e alla luce degli sviluppi successivi di cui nel prosieguo si dirà, quasi “profetico”, aprendo in prospettiva la possibilità di giungere ad un modello di responsabilità dello Stato estesa anche ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle in riferimento alle quali è già prevista una responsabilità dell’organo giudiziario.

16. Segue: c) Il referendum abrogativo del 1987 e la l. n. 117/1988: i dubbi di

costituzionalità, i problemi applicativi e le ipotesi di riforma A distanza di un paio di decenni dalla pronuncia della Corte in precedenza richiamata, il

tema della responsabilità civile dei magistrati, e dello Stato per l’attività giudiziaria posta in essere dai suoi organi, fino ad allora coltivato per lo più negli ambienti ristretti degli operatori e cultori del diritto, guadagnò gli onori delle cronache quando, com’è stato efficacemente ricordato, “alcune forze politiche, irritate per inchieste e processi a carico di amministratori e dirigenti di partito, decisero una massiccia offensiva contro il potere giudiziario, agitando in modo propagandistico l’obiettivo di abolire l’ingiusto privilegio dei magistrati”71.

In questo contesto politico piuttosto infuocato maturò dunque l’idea dell’iniziativa referendaria del novembre 198772, che condusse all’abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.73 e determinò i presupposti per la successiva approvazione della legge n. 117/1988.

Quest’ultima disciplina, in verità, non ha corrisposto, se non in minima parte, all’intento palesato dai promotori del referendum abrogativo. Essa contempla una serie di ipotesi di responsabilità diretta dello Stato e soltanto indiretta del magistrato74, cosicché il danneggiato può agire esclusivamente verso il primo, al quale è poi attribuita una limitata azione di rivalsa nei confronti del secondo (artt. 7 e 8). I casi invece nei quali è possibile esercitare il proprio diritto al risarcimento del danno direttamente contro il magistrato, oltre che contro Stato, sono invece limitati alle ipotesi, residuali, in cui il danno è conseguenza di un fatto costituente reato commesso nell’esercizio delle funzioni (art. 13)75.

70 Da S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati e la responsabilità civile dello Stato per l’attività

dei propri organi giudiziari, cit. 71 Così G. SILVESTRI, Giustizia e giudici, cit., 217. 72 Con la sent. n. 26/1987 la Corte costituzionale, nel dichiarare ammissibile il quesito referendario, ebbe

modo anche di chiarire che gli articoli del c.p.c. oggetto dello stesso non erano “a contenuto costituzionalmente vincolato” e dunque non erano dotati di una forza passiva che li avrebbe resi insuscettibili di essere validamente abrogati da una legge ordinaria successiva.

73 In verità il successivo d.p.r. 9 dicembre 1987 n. 497 differì l’efficacia dell’abrogazione di 120 giorni, fino al 7 aprile 1988, per consentire l’intervento del Parlamento. Tuttavia la legge n. 117 sarebbe entrata in vigore soltanto il 16 aprile, suscitando alcuni rilevanti interrogativi di ordine intertemporale.

74 All’art. 1 si stabilisce che le disposizioni contenute nella legge si applicano a tutti magistrati che “esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni”. Da tale previsione sembrerebbe doversi ricavare che la legge è applicabile tanto ai giudici che ai pubblici ministeri (in caso contrario, sarebbe stata preferita infatti la diversa formula di “attività giurisdizionale”; cfr. L. SCOTTI, La responsabilità civile dei magistrati, Milano, 1988, 95) e con riguardo all’espletamento sia delle funzioni di natura propriamente giudiziaria che amministrativa o di amministrazione della giurisdizione. Tuttavia la dottrina prevalente ha espresso un orientamento contrario all’estensione dell’azione di responsabilità in relazione a danni conseguenti all’esercizio di funzioni di natura amministrativa (cfr., ad esempio, V. VARANO, voce Responsabilità del magistrato, cit., 114) e a tale indirizzo si è conformata, almeno in un’occasione, la giurisprudenza italiana (Corte di cassazione, I Sez. civ., 22 febbraio 2002, n. 2567).

75 In tale caso viene prevista l’applicazione delle norme ordinarie in ordine all’azione civile per il risarcimento del danno anche con riguardo al suo esercizio nei confronti dello Stato, nonché il ricorso alle norme

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L’art. 2 della legge n. 117 prevede, in particolare, la risarcibilità dei danni, patrimoniali e non, subiti a causa della privazione della libertà personale che derivino da un “comportamento, un atto o un provvedimento giudiziario di un magistrato” (ordinario ovvero appartenente alle magistrature speciali), posto in essere “con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia”.

Al comma 2 si stabilisce altresì, con una clausola di salvaguardia, che “non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”. Ancora, al comma 3, vengono elencate le quattro ipotesi costituenti colpa grave76. Nell’art. 3, infine, si puntualizza quando, e a seguito di quali (inutili) sollecitazioni, può determinarsi il rifiuto, l’omissione o il ritardo sanzionabile.

Sotto il profilo procedimentale, invece, all’art. 4 si individua nel Presidente del consiglio dei ministri l’organo nei cui confronti deve essere esercitata l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato, entro due anni a pena di decadenza, e soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento, mentre si attribuisce la competenza a conoscere della controversia al Tribunale del luogo ove ha sede la Corte di Appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l’ufficio giudiziario al qual apparteneva il magistrato al momento del fatto.

Al successivo art. 5 si prevede, tra l’altro, che la domanda di risarcimento possa essere dichiarata inammissibile dallo stesso Tribunale competente quando appaia “manifestamente infondata”, mentre all’art. 6 si vieta la chiamata in causa del magistrato ma se ne prevede il possibile intervento volontario, stabilendosi inoltre che, se il magistrato non è intervenuto volontariamente, la decisione pronunciata contro lo Stato non faccia stato nel giudizio di rivalsa e nemmeno nel procedimento disciplinare.

Infine, agli artt. 7 e 8 si disciplina l’azione di rivalsa dello Stato nei confronti del magistrati, prevedendosi che la stessa possa essere esercitata dal Presidente del Consiglio entro un anno dal risarcimento avvenuto, e che altresì la misura della rivalsa non possa comunque superare, salvo il caso di dolo, una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio.

Sono poi disciplinati, all’art. 9, i rapporti con l’azione disciplinare, da esercitarsi obbligatoriamente da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione per i fatti che hanno dato luogo all’azione di risarcimento, e viene delimitata, all’art. 14, la sfera di applicazione delle disposizioni della legge rispetto al diverso istituto della riparazione degli errori giudiziari77.

La legge n. 117/1988 fu oggetto di svariate critiche da parte della dottrina e di numerose puntuali censure di costituzionalità78. A fugare molti dei dubbi è intervenuta la Corte ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti per l’azione di regresso dello Stato che sia tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato.

76 Trattasi di grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile (a); affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento (b); negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento (c); emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (d).

77 Sulla diversa natura degli istituti della riparazione degli errori giudiziari, cfr., in particolare, la sent. n. 446/1997 della Corte costituzionale, in tema di riparazione per ingiusta detenzione (di cui all’art. 314 c.p.p.), ove si osserva, tra l’altro, che “l’esborso a cui lo Stato è tenuto (…) si configura non come risarcimento del danno derivante da un fatto illecito ascrivibile ad alcuno a titolo di dolo o di colpa o anche subiettivamente non imputabile, ma come misura riparatoria e riequilibratrice, e in parte compensatrice della ineliminabile componente di alea per la persona, propria della giurisdizione penale cautelare”.

78 Cfr., per tutti, A. GIULIANI-N. PICARDI, I profili di costituzionalità della legge 13 aprile 1988, n. 117, e la sentenza 19 gennaio 1989, n. 18, della Corte costituzionale, in L. SCOTTI (a cura di), La responsabilità civile dei magistrati, Milano, 1988.

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costituzionale con la sent. sent. n. 18/1989, che ha dichiarato l’infondatezza delle numerose questioni sollevate con la sola eccezione di quella che si era appuntata sull’art. 16, commi 1 e 2, in tema di responsabilità dei componenti gli organi giudiziari collegiali, dichiarato incostituzionale, con riferimento all’art. 97 Cost., nella parte in cui imponeva un’incessante attività di verbalizzazione in caso di dissenso interno al collegio e conseguentemente comportava un intralcio costante all’attività giudiziaria, incompatibile col principio del buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Certo è che, a prescindere dalle critiche sui singoli aspetti della legge, non vi è dubbio che il grado di tutela del cittadino danneggiato in essa realizzato non poteva dirsi, nella sostanza, molto diverso da quello che si era avuto prima della sua entrata in vigore. Stato di cose ulteriormente aggravato, se possibile, dall’orientamento seguito negli anni successivi dalla Corte di cassazione, che ha nell’insieme confortato un’interpretazione piuttosto restrittiva della normativa, riducendone ulteriormente i già modesti spazi di applicazione79.

In ultima analisi, la conferma di un sentimento di generale insoddisfazione intorno alla legge può essere tratta anche dai numerosi tentativi registratisi negli anni più recenti per giungere all’abrogazione ancora per via referendaria anche della nuova disciplina, dichiarati fino ad oggi sempre inammissibili dalla Corte costituzionale80.

17. Segue: d) la giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee e il suo

possibile impatto sul sistema italiano della responsabilità civile Le novità più rilevanti in materia di responsabilità dello Stato in relazione all’esercizio

della funzione giurisdizionale sono giunte, a distanza di diversi anni dall’approvazione della legge sulla responsabilità civile, dall’Europa e, in particolare, dalla Corte di giustizia delle Comunità europee.

E’ noto, innanzi tutto, che la giurisprudenza comunitaria è venuta progressivamente riconoscendo, a partire dai primi anni Novanta, la responsabilità extracontrattuale degli Stati membri nei confronti dei singoli in relazione ai danni a questi ultimi causati da violazioni del diritto comunitario. La pronuncia capostipite di tale orientamento può essere individuata nella nota sentenza Francovich del 1991, nella quale la Corte del Lussemburgo ebbe modo di asserire che la facoltà attribuita allo Stato membro, destinatario di una direttiva, di scegliere tra diversi mezzi possibili al fine di conseguire il risultato prescritto dalla medesima non esclude che i singoli possano far valere dinanzi ai giudici nazionali quei diritti il cui contenuto sia determinabile con precisione sufficiente sulla base delle stesse disposizioni della direttiva. Contrariamente, infatti, se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti fossero stati lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro, ne risulterebbe compromessa la piena efficacia delle norme comunitarie.

E ancora - proseguiva il ragionamento della Corte - era proprio nell’ambito delle norme del diritto nazionale riguardanti la responsabilità che lo Stato era tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, precisandosi ulteriormente che le condizioni, formali e sostanziali, stabilite dalle diverse legislazioni nazionali in materia non potevano comunque

79 Per un esame della giurisprudenza in materia, cfr. G. SCARSELLI, La responsabilità del giudice nei limiti

del principio di indipendenza della magistratura, in Foro it., 2001, I, 3558. Una riflessione complessiva e approfondita su tali profili può leggersi ora in S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati e la responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari, cit.

80 Si vedano, in particolare, le sentt. nn. 34/1997, nel senso della inammissibilità per mancanza di chiarezza del quesito, e 38/2000, che ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta a causa della natura propositiva e non meramente abrogativa, oltre che per la mancanza di chiarezza, del quesito.

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essere meno favorevoli di quelle concernenti analoghi reclami di natura interna, né essere costruite in modo da rendere eccessivamente difficile ottenere il risarcimento.

Le pronunce che avevano fatto poi seguito a quella del 1991 si erano date carico di precisare che la responsabilità dello Stato membro poteva sorgere qualunque fosse l’organo la cui azione od omissione aveva dato origine alla violazione del diritto comunitario (sentenza Brasserie du pecheur del 1996), specificandosi ulteriormente che l’obbligo del risarcimento, in ragione dell’esigenza di uniforme applicazione del diritto comunitario, non poteva essere condizionato da norme interne sulla ripartizione delle competenze tra i poteri costituzionali, essendo invece sufficiente la realizzazione delle seguenti condizioni: che la norma giuridica violata fosse preordinata ad attribuire diritti ai singoli, che la violazione fosse sufficientemente caratterizzata e sussistesse un nesso causale diretto tra quest’ultima e il danno subito dai singoli.

Gli sviluppi ulteriori sono rappresentati dalla sentenza Köbler del 2003 e dalla sentenza Traghetti del Mediterraneo Spa del 2006.

In particolare, nella pronuncia del 200381 la Corte di Giustizia ha affermato che gli Stati membri sono tenuti a riparare i danni causati ai singoli dalla violazione del diritto comunitario anche quando la stessa derivi dalla pronuncia di un organo giurisdizionale di ultima istanza82.

Viene dunque considerato del tutto recessivo il tradizionale argomento fondato sull’intangibilità del giudicato83, e ciò in ragione della mera constatazione, cui già in precedenza avevamo fatto cenno, per la quale l’azione di risarcimento dei danni e la sentenza passata in giudicato hanno un oggetto del tutto diverso e, dunque, l’eventuale esercizio della prima non è in grado di determinare alcun tipo di interferenza sulla seconda, sia sul piano sostanziale che su quello processuale.

Non solo, rovesciando esattamente i termini del problema, dalle parole della Corte di Giustizia sembra potersi ricavare che il diritto al risarcimento dei danni diviene una soluzione percorribile esclusivamente nel caso in cui il danno cui lo stesso si riferisce sia stato provocato da una sentenza di un organo giurisdizionale di ultimo grado e sia, al contrario, da escludersi in ogni altra ipotesi84, a cominciare da quella in cui il danno derivi invece da una pronuncia, anche passata in giudicato, resa da organo non di ultima istanza.

Inoltre, il Giudice di Lussemburgo precisa che, tenuto conto della specificità della funzione giurisdizionale nonché delle esigenze di certezza del diritto, la responsabilità dello Stato sussiste soltanto “nel caso eccezionale in cui l’organo giurisdizionale abbia violato in modo manifesto il diritto vigente”, a tal fine rilevando la chiarezza e precisione della norma violata, il carattere intenzionale della violazione, la scusabilità o meno dell’errore di diritto, la posizione eventualmente fatta propria da un’istituzione comunitaria, nonché la mancata

81 Sulla quale cfr. E. SCODITTI, ”Francovich” presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione del

diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale in Foro it., 2004, IV, 4ss., M. MAGRASSI, Il principio della responsabilità risarcitoria dello Stato-giudice tra ordinamento comunitario, interno e convenzionale, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2004, 490ss., S. BASTIANON, Giudici nazionali e responsabilità dell oStato per violazione del diritto comunitario, in Resp.civ. e previdenza, 2004, 63ss.

82 Tale principio era stato affermato anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sent. 21 marzo 2000 (Dulaurans c. Francia), laddove si era condannato lo Stato al risarcimento dei danni provocati al singolo da una decisione della Corte di cassazione. Come si sa, peraltro, le decisioni di tale organo non sono in grado di esercitare effetti generali sugli ordinamenti statali e dunque non avevano comportato alcun obbligo dello Stato condannato di predisporre strumenti risarcitori.

83 Come nota anche F. BIONDI, La responsabilità del magistrato, cit., 222. Tale argomento, al contrario, era stato in precedenza ribadito dal Tribunale di Roma, sentenza 28 giugno 2001, in Giur.merito, 2002, I, 359ss., laddove si era affermato che, qualora il diritto comunitario si pretenda contraddetto da una pronuncia giurisdizionale italiana passata in giudicato, è il primo a doversi arrestare di fronte alla seconda, costituendo il giudicato un “principio di ordine pubblico interno”.

84 Cfr. M. MAGRASSI, Il principio della responsabilità risarcitoria, cit., 500 e F. BIONDI, La responsabilità, cit., 222.

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osservanza, da parte del medesimo organo giurisdizionale, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, TCE. E si aggiunge, altresì, come il carattere manifesto della violazione possa in ogni caso desumersi dalla circostanza che la decisione interessata intervenga ignorando manifestamente la giurisprudenza comunitaria in materia.

E’ lo Stato, poi, coerentemente con gli orientamenti già espressi nella precedente giurisprudenza comunitaria sopra richiamata, il soggetto al quale, secondo la pronuncia qui esaminata, spetta il compito di individuare le modalità e l’organo cui rivolgersi per il risarcimento. Aspetto, quest’ultimo, che si è prestato a diverse letture interpretative soprattutto con riguardo al problema della valutazione dell’impatto della pronuncia della Corte di giustizia sulla legislazione italiana in materia di responsabilità: alcuni, infatti, movendo dal presupposto che la responsabilità civile del magistrato, contemplata dall’art. 2 della legge n. 117, è “fattispecie diversa da quella della responsabilità dello Stato in quanto tale”, hanno escluso che il rinvio operato dalla sentenza agli ordinamenti statali potesse essere interpretato nel senso di consentire la perdurante applicazione della disciplina contenuta nella legge n. 117/198885; altri, e tra questi alcuni giudici comuni italiani, hanno invece seguito un orientamento esattamente contrario86 e, in definitiva, più convincente.

In effetti, com’è stato osservato87, “affermare che la responsabilità in sede comunitaria è dello Stato considerato nella sua unitarietà, non esclude però che, al suo interno, vi [possano essere] azioni risarcitorie che differenziano la posizione del magistrato da quella dello Stato”. Il problema, a ben vedere, non era tanto quello se vi fosse o meno la possibilità di ricorrere alla legge n. 117/1988, sembrando difficilmente contestabile la risposta affermativa, anche tenuto conto dell’assenza di alternative percorribili, ma l’altro, che poneva dilemmi assai più delicati, riguardante la compatibilità di tale disciplina con la pronuncia della Corte di giustizia, soprattutto a fronte delle stringenti condizioni sostanziali e procedimentali cui la stessa sottopone l’azione risarcitoria, a cominciare dalla necessità di una condotta dolosa o, almeno, gravemente colposa, per proseguire con le limitazioni previste nella richiamata clausola di salvaguardia di cui all’art. 2, comma 1, della legge88.

A sciogliere buona parte dei dubbi è intervenuta la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia. Nella sentenza Traghetti del Mediterraneo Spa del 200689 quest’ultima, nel definire una questione pregiudiziale promossa dal tribunale di Genova, chiamato a decidere una controversia sollevata dal curatore fallimentare della società Traghetti del Mediterraneo nei confronti della Repubblica italiana per la condanna al risarcimento del danno subito a causa degli errori di interpretazione commessi dalla Corte di cassazione (con la sent. n. 5087/00) e a causa della violazione dell’obbligo di rinvio su di essa gravante, è stata chiamata a

85 In questo senso, E. SCODITTI, “Francovich” presa sul serio: la responsabilità dello Stato per violazione

del diritto comunitario derivante da provvedimento giurisdizionale, in Foro it., 2004, IV, 6, da cui è tratta la frase virgolettata.

86 Cfr., anche per i riferimenti alla giurisprudenza richiamata, F. BIONDI, La responsabilità, cit., 224. 87 Ancora da F. BIONDI, La responsabilità, cit., 224. 88 Ove si esclude, come ricordato in precedenza, che possa dar luogo a responsabilità “l’attività di

interpretazione di norme di diritto” o quella di “valutazione del fatto e delle prove”. A questo proposito, può essere utile segnalare che il Tribunale di Roma, con decreto 29 settembre 2004, in Dir. e giustizia, 2004, fasc. 41, 80ss., ha ritenuto che l’art. 2, l. n. 117/1988, nella parte in cui pone limitazioni all’esercizio dell’azione risarcitoria dei cittadini per cattiva interpretazione della legge da parte del magistrato, fosse in contrasto con la normativa comunitaria come interpretata dalla Corte di giustizia del 2003 e, dunque, dovesse essere “disapplicato”.

89 Sulla sentenza possono leggersi i commenti di P. MORELLI, Quarto grado di giudizio per i “diritti Ue”. Il danno del giudice: respinte le restrizioni della legge 117/88, in Dir. e giustizia, 2006, fasc. 29, 104ss., di G. MERONE, Il naufragio europeo della legge sulla responsabilità dei magistrati, ivi, fasc. 32, 8ss., di F. BIONDI, Un “brutto” colpo per la responsabilità civile dei magistrati, in Forum di Quaderni Costituzionali, 2006 e di F. FERRARO, Questioni aperte sul tema della responsabilità extracontrattuale degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in Il Diritto dell’Unione Europea, 2007, fasc. 1, 55ss.

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pronunciarsi sull’eventuale responsabilità dello Stato per violazioni imputabili ad un suo organo giurisdizionale.

La Corte di giustizia si è dovuta quindi confrontare direttamente con la normativa nazionale italiana in tema di responsabilità dello Stato per errori del giudice e, in particolare, con le strettoie e le limitazioni dalla stessa contemplate. E in perfetta linea di continuità con la propria precedente giurisprudenza, essa ha concluso osservando perentoriamente che “il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”. E ancora, si è ulteriormente precisato che il diritto comunitario altresì “osta ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse a escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente quale precisata dalla sentenza Köbler”.

Anche all’indomani della pronuncia del 2006 la dottrina si è divisa nel tentativo di cogliere quali fossero le ricadute che si sarebbero determinate sul piano dell’ordinamento interno.

Come già era accaduto con il richiamato precedente del 2003, gli orientamenti sono stati assai variegati90. Alcuni hanno attribuito alla pronuncia della Corte di giustizia la forza di “scardinare” le limitanti condizioni oggettive e soggettive che informano l’art. 2 della legge n. 117/1988, ritenendo liberi i giudici comuni di procedere in futuro autonomamente alla “non applicazione” degli stessi in conformità all’ordinamento comunitario91; altri, più cautamente, hanno ritenuto di dover depotenziare l’impatto di tale intervento sulla legislazione italiana in ragione dell’argomento in base al quale “ciò che il giudice comunitario chiama violazione manifesta, il legislatore italiano chiama dolo o colpa grave”92. Per un terzo orientamento93, ancora, occorre sollecitare un intervento normativo sull’impianto della l. n. 117/1988 in ragione del fatto che la sua applicazione in senso conforme all’ordinamento comunitario introdurrebbe un’irragionevole distinzione tra interpretazione del diritto comunitario e interpretazione del diritto interno, oltre che tra responsabilità degli organi di ultimo grado (cui, ancora una volta, in via esclusiva si riferisce la sentenza) e organi di grado inferiore.

Si aggiunga poi che la sentenza si riferisce esclusivamente alla responsabilità dello Stato in conseguenza di violazioni perpetrate dai suoi organi giurisdizionali, obbligando in particolare il legislatore a porre mano alla legislazione in materia di responsabilità per superare le strettoie nella stessa attualmente previste, mentre la pronuncia non si riferisce, se non indirettamente, alla responsabilità dei magistrati, così mettendo allo scoperto l’altro elemento critico della disciplina italiana, quello concernente il sostanziale (quasi completo) parallelismo tra le due differenti dimensioni della responsabilità.

Difficile immaginare quale potrà essere in futuro la soluzione per ovviare a questa situazione di oggettiva difficoltà nella quale, all’indomani della sentenza della Corte di giustizia del 2006, l’ordinamento italiano si è venuto a trovare. Certo e che, volendo scartare una lettura che tende a sminuire la novità dalla stessa rappresentata, e fermo restando un

90 Per un quadro completo e critico degli stessi si veda ora S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati e la responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari, in corso di pubblicazione.

91 P. MORELLI, Quarto grado di giudizio per i “diritti Ue”., cit., 104ss. 92 G. MERONE, Il naufragio europeo della legge sulla responsabilità dei magistrati, cit., 8ss. In verità tale

posizione sembra non tenere conto della irriducibile differenza tra i due criteri segnalati, informandosi il primo alla valutazione di indicatori di tipo oggettivo - peraltro, come si è detto, già puntualmente indicati dalla giurisprudenza comunitaria - e l’altro avente invece una natura esclusivamente soggettiva.

93 F. BIONDI, Un “brutto” colpo per la responsabilità civile dei magistrati, cit.

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auspicabile - e peraltro già in parte dimostrato - attivismo dei giudici comuni per leggere, fin dove è possibile94, la legislazione italiana “in conformità” al diritto comunitario (o, più precisamente, al principio espresso in una pronuncia della Corte di giustizia), sembra difficile, in prospettiva, che si possa rinunciare ad un intervento chiarificatore del legislatore italiano in materia.

In definitiva, dunque, la sentenza della Corte di giustizia, oltre ad una serie di problematiche conseguenze puntuali, ha in primo luogo determinato le condizioni per ritenere oggi assolutamente urgente una nuova disciplina della responsabilità civile, la quale si caratterizzi, sopra ogni altra cosa, per fare uscire tale dimensione della responsabilità da quella posizione di assoluta marginalità in cui oggi si trova.

Sezione III 18. Cenni alla responsabilità penale del magistrato … Solo pochi cenni, per esigenze di completezza, ai profili relativi alla responsabilità penale

e a quella contabile, di cui si dirà nel successivo paragrafo. A differenza di quanto è accaduto in alcune esperienze straniere95, nell’ordinamento

italiano l’idea di prevedere per i magistrati una disciplina ad hoc relativamente alle ipotesi di responsabilità penale non è mai stata presa seriamente in considerazione.

Con riguardo ai reati dei quali possa essere chiamato a rispondere un magistrato, sia sul piano sostanziale che processuale, si applicano dunque le norme che valgono per ogni altro cittadino, ovvero, nel caso di reato compiuto nell’esercizio delle funzioni, di qualunque altro dipendente pubblico. Non sono previsti, in altre parole, nell’ordinamento italiano né reati “propri” del magistrato né un procedimento speciale da seguire per il perseguimento dei reati che lo riguardano.

Sul piano processuale, in verità, vi è solo una piccola deroga rispetto all’affermazione precedente. Rileva, a questo proposito, l’art. 11 c.p.p., ove si stabilisce che “i processi in cui siano parte i magistrati, che sarebbero di competenza dell’ufficio giudiziario ricompresso nell’ambito del distretto di Corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono affidati al giudice, ugualmente competente per materia, situato nel capoluogo del più vicino distretto di Corte di appello”. La ratio di tale previsione è chiaramente quella di evitare che il magistrato imputato possa essere giudicato da un proprio collega, a garanzia dell’imparzialità del giudizio.

Da segnalare, tuttavia, che anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 117/1988 la situazione si presentava un poco diversa. L’art. 328, comma 2, c.p., infatti, in tema di omissione di atti d’ufficio, nella versione in vigore fino al 1988, prevedeva che “se il pubblico ufficiale è un giudice o un funzionario del pubblico ministero, vi è omissione, rifiuto e ritardo, quando concorrono le condizioni richieste dalla legge per esercitare contro di essi l’azione

94 Cfr., a questo proposito, le considerazioni svolte da S. PANIZZA, La responsabilità civile dei magistrati,

cit., laddove osserva che la situazione descritta potrebbe far tornare d’attualità la già ricordata parentesi contenuta nella sent. n. 2/1968 della Corte costituzionale, che rinviava a “norme o principi contenuti in leggi ordinarie (se esistono)” al fine di individuare eventuali ipotesi di responsabilità civile dello Stato per l’attività dei propri organi giudiziari al di là di quelle in cui tale responsabilità sussiste per il magistrato. In particolare, secondo l’A. tale rinvio potrebbe oggi risultare corrisposto non tanto da “leggi ordinarie” bensì, appunto, da pronunce della Corte di giustizia.

95 Cfr., con riguardo alla Germania, l’art. 336 c.p., ove si prevede che costituisca reato l’applicazione deliberata ed erronea del diritto da parte del giudice, ovvero l’art. 334 c.p., ove si punisce la corruzione del magistrato. In Francia costituisce reato il rifiuto del magistrato di rendere giustizia (art. 434.7.1 c.p). In argomento cfr. F. BIONDI, La responsabilità, cit., 163ss.

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civile”. Il rinvio all’art. 55 c.p.c. faceva sì che, affinché potesse configurarsi il reato, la parte doveva aver depositato istanza al giudice e dovevano altresì essere decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito.

La legge n. 117 ha poi modificato la norma succitata del codice penale, cosicché, in seguito a tali modifiche, la stessa disponeva che “se il pubblico ufficiale è magistrato vi è omissione o ritardo quando siano trascorsi i termini previsti dalla legge perché si configuri il diniego di giustizia”. Il medesimo art. 328 c.p. è stato poi nuovamente modificato ad opera della legge n. 86/1990, la quale, evitando qualsiasi forma di coordinamento tra la fattispecie di reato contemplata in tale disposizione e la figura del diniego di giustizia prevista dalla legge n. 117, ha colto il risultato complessivo di assimilare completamente, anche con riguardo a tale fattispecie penale, la disciplina applicabile nei confronti dei magistrati a quella applicabile nei confronti di tutti gli altri pubblici funzionari96.

19. … e a quella contabile La responsabilità contabile si fonda sul rapporto di servizio intercorrente tra il magistrato

e lo Stato e presuppone un danno erariale subito da quest’ultimo a causa dell’attività compiuta dal primo. Analogamente a quanto si è detto con riguardo alla responsabilità penale, l’ordinamento italiano non contempla una normativa speciale dedicata ai magistrati che dunque, almeno in linea di principio, risultano pienamente assimilati agli altri funzionari pubblici.

In verità qualche problema si è posto97. Sul presupposto che la richiamata assimilazione fosse in contrasto con il principio di indipendenza dei magistrati, di cui all’art. 101, comma 2, Cost., la giurisprudenza contabile, almeno in un caso98, ha negato la possibilità di fare valere tale forma di responsabilità nei confronti di un magistrato chiamato da un ente locale a risarcire un danno provocato da un decreto ingiuntivo da lui erroneamente emanato per una somma maggiore rispetto a quella dovuta. In altri casi, tuttavia, la responsabilità è stata ammessa, talora soltanto con riferimento ad attività di natura amministrativa del magistrato99, altre volte, più di recente, anche con riguardo all’esercizio delle funzioni giurisdizionali100.

Sull’argomento ha avuto modo di intervenire anche la Corte costituzionale con sent. n. 385/1996, laddove, pur dichiarandosi inammissibile un conflitto di attribuzioni tra Procuratore generale della Corte dei conti ed un magistrato, si è tuttavia riconosciuta in linea di principio la conciliabilità della responsabilità contabile con il principio di indipendenza dei magistrati, senza considerare determinate la distinzione tra natura amministrativa e giurisdizionale delle funzioni esercitate, salvo poi sollecitare il legislatore ad intervenire per la concreta individuazione di una soluzione “ragionevolmente equilibrata”.

E, a questo proposito, deve essere segnalato l’art. 172 del D.P.R. n. 115/2002 (testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), laddove, con una soluzione che, in effetti, pare assai poco “ragionevolmente equilibrata”, stabilisce seccamente che “i magistrati e i funzionari amministrativi sono responsabili delle liquidazioni e dei pagamenti da loro ordinati e sono tenuti al risarcimento del danno subito dall’erario a

96 Cfr., in argomento, M. ROMANO, I delitti di rifiuto ed omissione di atti d’ufficio, in Riv.it.dir.proc.pen.,

2000, 36ss. 97 Cfr., ancora, F. BIONDI, La responsabilità, cit., 320ss., 98 Corte dei conti, Sez. reg. Sicilia, sent. n. 394/1995, in Foro amm., 1996, 2110ss. 99 Corte dei conti, Sez. reg. Lombardia, sent. n. 1091/1996, in Foro amm., 1997, 326ss. 100 Corte dei conti, Sez. reg. Emilia Romagna, sent. n. 521/2003, in Foro amm., 2003, 3136ss.

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causa degli errori e delle irregolarità delle loro disposizioni, secondo la disciplina generale in tema di responsabilità amministrativa”101.

20. Osservazioni conclusive Vengo ora ad alcune brevi e parziali osservazioni conclusive, sul presupposto, dichiarato

fin dall’avvio di questo contributo, che le diverse forme di responsabilità, pur con le loro evidenti differenze, trovino il proprio fondamento nel medesimo principio, di carattere ordinamentale, sintetizzabile nella formula per la quale all’esercizio di un potere, cui corrisponde un più o meno ampio margine di discrezionalità e di libertà da parte di chi lo esercita, deve corrispondere, pur nell’ambito di un complessivo bilanciamento con altri principi il cui mancato rispetto comporterebbe lo snaturamento del potere stesso, un compiuto ed efficace sistema di responsabilità.

Tra l’altro, un sistema della responsabilità del magistrato più rigoroso e contrassegnato da fattispecie più delimitate non rafforza soltanto le garanzie del cittadino dinanzi alla giustizia ma costituisce anche una condizione essenziale per scongiurare il rischio che il sistema stesso possa essere subdolamente trasformato in uno strumento di condizionamento e controllo politico della magistratura, come talora è accaduto nel passato.

Da questo angolo di visuale, i recenti sviluppi che hanno contrassegnato tanto la responsabilità disciplinare, con le riforme del 2005 e del 2006, che la responsabilità civile, in questo caso soprattutto con riguardo alle prospettive da ultimo dischiuse per effetto delle recenti pronunce della Corte di giustizia, soddisfano ragionevolmente a questa aspirazione di partenza.

Quanto alla responsabilità disciplinare, all’indomani delle riforme la stessa sembra essersi oramai quasi del tutto affrancata dal modello tradizionale burocratico, per assumere, malgrado qualche residua disarmonia, i caratteri di una responsabilità rivolta non più alla tutela di una corporazione ma al buon andamento del sistema giustizia, a garanzia dell’interesse generale del singolo dinanzi alla stessa.

Con riferimento alla responsabilità civile, sebbene allo stato attuale l’ordinamento italiano continui a riservare ad essa un rilievo del tutto marginale, vi sono tuttavia segnali che sembrano annunciare un’imminente inversione di tendenza, che potrebbe condurre, tra l’altro, anche a riconsiderare il rapporto tra la dimensione della responsabilità diretta del magistrato, comunque essenziale, e quella della responsabilità dello Stato per gli atti giurisdizionali, potenzialmente più ampia. Pazienza se tali segnali giungono dall’esterno, purché siano davvero prodromici ad un ripensamento complessivo del sistema, oggi limitato da condizioni e strettoie che lo rendono di fatto inutile ed inutilizzato.

Si potrebbe forse concludere che l’obiettivo indiretto verso il quale, almeno sulla carta, sembra tendere il sistema della responsabilità, inteso nel suo complesso, è quello del rafforzamento della professionalità del magistrato e della qualità della giustizia. Un tassello importante, certo non l’unico, per il passaggio dal giudice burocrate, di recente rievocato dalla riforma Castelli, al giudice “professionista”.

101 Inoltre, la legge n. 89/2001, sull’equa riparazione per irragionevole durata dei processi, stabilisce che il

decreto di accoglimento della domanda debba essere comunicato anche al Procuratore generale della Corte dei conti, e ciò, evidentemente, proprio allo scopo di consentire a quest’ultimo di valutare la possibilità di avviare un procedimento di responsabilità contabile.