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“Stava seduto nello studio per ore bevendo tè. Ogni tanto sentivo che era sul punto di dirmi qualcosa, ma poi non lo faceva” John Dos Passos su Edward Hopper Manuela Maddamma, “Suicidio in quattro canti” Il Foglio, 3 novembre 2007 3 Viola Papetti, “I tasselli tematici del mosaico letterario” il manifesto, 3 novembre 2007 7 Pino Corrias, “Hopper, il pittore che catturò la luce” La Domenica di Repubblica, 4 novembre 2007 9 Daria Galateria, “La memoria inquieta di Marguerite Yourcenar” la Repubblica, 8 novembre 2007 13 Alfonso Berardinelli, “Quer pasticciaccio der modello RomaIl Foglio, 10 novembre 2007 15 Antonio Monda, “Norman Mailer, il pacifista sempre in guerra” La Domenica di Repubblica, 11 novembre 2007 19 Bruno Cartosio, “La sua grandezza nella sfida della realtà” il manifesto, 11 novembre 2007 23 Giordano Bruno Guerri, “Sorella, madre, amante da sempre nella mia vita” il Giornale, 14 novembre 2007 25 Tommaso Pincio, “La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami” il manifesto, 15 novembre 2007 29 La rassegna stampa di Oblique dall’1 al 15 novembre 2007 RassStampa_1-15novembre2007.qxp 19/11/2007 14.20 Pagina 1

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“Stava seduto nello studio per ore bevendo tè. Ogni tanto sentivo che era sulpunto di dirmi qualcosa, ma poi non lo faceva”

John Dos Passos su Edward Hopper

– Manuela Maddamma, “Suicidio in quattro canti”Il Foglio, 3 novembre 2007 3

– Viola Papetti, “I tasselli tematici del mosaico letterario”il manifesto, 3 novembre 2007 7

– Pino Corrias, “Hopper, il pittore che catturò la luce”La Domenica di Repubblica, 4 novembre 2007 9

– Daria Galateria, “La memoria inquieta di Marguerite Yourcenar”la Repubblica, 8 novembre 2007 13

– Alfonso Berardinelli, “Quer pasticciaccio der modello Roma”Il Foglio, 10 novembre 2007 15

– Antonio Monda, “Norman Mailer, il pacifista sempre in guerra”La Domenica di Repubblica, 11 novembre 2007 19

– Bruno Cartosio, “La sua grandezza nella sfida della realtà”il manifesto, 11 novembre 2007 23

– Giordano Bruno Guerri, “Sorella, madre, amante da sempre nella mia vita”il Giornale, 14 novembre 2007 25

– Tommaso Pincio, “La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami”il manifesto, 15 novembre 2007 29

La rassegna stampa di Obliquedall’1 al 15 novembre 2007

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Percorrendo le rovine del Novecento puòcapitare in un giorno di pioggia, di udireuno strano coro di solenni voci femminili. Il

canto indimenticabile di quattro donne che perl’intero arco della loro vita furono perseguitate dauna terribile maledizione, e tuttavia condusserouna decisa riflessione sul “cosa ci faccio qui”, maiintrapresa da alcuna prima di loro. Figlie di unaciviltà che aveva deciso di incendiare la terra, sen-tirono per prime le sirene d’allarme del secolo e,pur soggiacendo al nuovo paradigma di violenza esopraffazione, prima di lasciarci presero una deci-sione che con zelo assolsero. Condussero i restiprovati delle loro vite in una nuova patria dovericoverare ciò di cui nessuno le poteva privare, dicui nessun uomo riuscirà mai a privare una donna:la parola. Nel 1917 nasceva in Inghilterra una pic-cola casa editrice a conduzione familiare. Si chia-mava Hogarth Press e il titolo d’esordio era “TwoStories”. Del secondo racconto, “Three Jews” diLeonard Woolf, nessuno serba il ricordo; il primoavrebbe cambiato la storia della letteratura. Si inti-tolava “The Mark on the Wall” (“Il Segno sulMuro”) e la sua autrice, Virginia Woolf, moglietrentacinquenne di Leonard, collaborava con ilNational Review, il Guardian e il Times LiterarySupplement, aveva già pubblicato un romanzo,“The Voyage Out” (“La Crociera”) e un nuovoromanzo era pronto per gli scafali.

Il “Segno sul Muro” scardinò il modo in cui lestorie fino a quel momento erano state raccontate:nella breve vicenda narrata (una donna sta sedutanel suo salotto e nota un segno sul muro, chieden-dosi di cosa si tratti), il pensiero diventava

improvvisamente materico, la fuga dall’azionediventava essa stessa azione. Dopo questo raccon-to la Woolf poté prendere congedo anche dallaforma romanzo, da quel “romanzo di fatti” comelei stessa lo denominò, di cui sentiva ormai odoredi decomposizione. Iniziò così il percorso che trapensiero critico e pensiero artistico tramite gioiellicome “Mrs Dalloway” (“La signora Dalloway”) e“To the Lighthouse” (“Gita al Faro”) la condusseall’equilibrio tra forma e pensiero di “The Waves”(“Le Onde”). Qui, mentre il mare-bestia scalpita incatene sulla battigia, Bernard, Louis, Neville,Susan, Jinny e Rhoda, cercano negli anni, esfruttando quanto gli anni in consapevolezza epazienza concedono, di accettare la vita, di cui ilmare diventa simbolo evidente e ricorrente. L’ideastessa di romanzo e di personaggio è dilaniata dalsusseguirsi delle pagine, dai sei monologanti a-parte rivolti al lettore. Non solo non ci sono fatti,ma non c’è nemmeno protagonista né intreccio.Lo stesso egocentrismo maschile del personaggio,di cui la Woolf accusava Joyce – cui la HogarthPress negò peraltro la pubblicazione – è superatodalla folla, dal riuscito tentativo di raccontare unmondo in cui, come la direbbe la Stein, siamo cosìin tanti. Mentre la Woolf scriveva, un’invasione eraperò già in corso. Ancora risuonavano i tamburidella Prima guerra mondiale, che gli uomini aveva-no deciso che era tempo di tornare al disordine.“Lunedì – possiamo leggere nelle ultime paginedel diario dell’autrice – eravamo a Londra. Andaial London Bridge. Guardai il fiume; molto brumo-so; qualche ciuffo di fumo, forse da case in fiam-me. Sabato c’era stato un altro incendio. Poi vidi il

Suicidio in quattro canti

Manuela Maddamma, Il Foglio, 3 novembre 2007

Virginia Woolf, Anne Sexton, Amelia Rosselli, Sarah Kane. Erano le vestali della parola. Sonomorte per acqua, aria, terra e fuoco

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muro dirupato, tutto un angolo mangiato via; ungrande angolo sfasciato; una banca; il Monumen-to in piedi; cercai di prendere un autobus; ma c’erauna ressa tale che scesi; e il secondo autobus miconsigliò di andare a piedi. Completo ingorgo ditraffico; facevano saltare le strade. Così, con laSotterranea, fino al Temple; e là vagai tra le deso-late rovine delle mie vecchie piazze: squarciate;smantellate; gli antichi mattoni rossi tutti polverebianca, qualcosa come il cortile di un cantiere.Terra grigia e finestre rotte; curiosi; tutta quellaperfetta compiutezza strappata via, demolita”. Ilmilieu londinese dei salotti letterari, delle mostrepostimpressionistiche, delle sperimentazioni, tuttoaveva perso il suo significato. La mattina del 28marzo del 1941 Virginia andò sulla spondadell’Ouse e cercò con pazienza due pietresufficientemente pesanti. La sua parola aveva perògià scavato il rivolo di un flusso che non si sareb-be arrestato più.

Nel 1971, nei sobborghi della stessa città tantoamata da Virginia, nacque un angelo che fumavatenendo la sigaretta dietro la schiena per noninfastidire l’interlocutore, che conosceva comepochi la storia del teatro inglese e europeo, e cheraccolse con autorevolezza l’eredità dei magnifici earrabbiati anni Sessanta quando a soli ventiquattroanni scandalizzò sessanta persone (tra i quali par-ticolarmente infuriati i critici teatrali di mezz’etàmaschi), stipate nel piccolo Royal Court TheatreUpstairs con la sua prima opera, “Dannati” (ma iltitolo originale è “Blasted”, che suggerisce un de-stino peggiore di una condanna: una vera e propriadisintegrazione). Tra occhi succhiati, mutilazioni,sodomie, masturbazioni interrotte da attacchi epi-lettici, tre personaggi – una giovane ritardata, ungiornalista razzista malato di cancro al polmone eun soldato chiaramente ispirato alle allora dilagantiatrocità nell’ex Jugoslavia – chiusi in una stanzad’albergo di Leeds che finirà sbriciolata da uncolpo di mortaio, perdono la testa e, lentamente,ogni barlume di umanità, senza mai rinunciare aparlare, battuta dopo battuta, di amore. È l’amorel’arma con la quale giustificano ogni vendetta, ognirappresaglia, ogni tortura. Amore tradito, violato,degradato, amore che chiama follia e vendetta.Nessuno comprese come la drammaturga dalvolto etereo e dai modi schivi e gentili potesse ser-bare tanto odio. Nessuno comprese che quell’odio,soprattutto, lo volgeva contro sé stessa. “Satana,mio signore, sono tua”, pronuncia il personaggio

denotato solo dalla lettera A nella terza opera diSarah, “Febbre”, mentre poco prima il personag-gio C dice semplicemente: “ES3”, sigla del repar-to dell’ospedale psichiatrico che ella conoscevabene e dove riprendeva fiato quando le idee di sui-cidio la soffocavano. Ma non c’è consolazione.“Odio il consolato e il consolatore” ribadisce A, epoi, sanguinando umor nero: “Il mondo esterno èdecisamente sopravvalutato”.

Sarah Kane nel giro di pochi anni diventa la piùpromettente, brillante, energica voce del teatroinglese cosiddetto In-Yer-Face, qualcosa comeSbattuto-In-Faccia, etichetta che accettò scrollan-do le spalle: “Almeno fa un po’ meno schifo dineo-brutalismo”. A differenza dei suoi colleghi,impegnati a descrivere l’alienazione delle sordide,grigie città della Britannia thatcheriana, tutte leopere di Sarah si tengono alla larga dal realismo edalla critica sociale letterale, preferendo seguire unprincipio di pura metafisica che esprimeva così:“Se puoi immaginare qualcosa, allora puoi ancherappresentarlo”. Le ultime immagini sono le subli-mi, rarefatte dissonanze che formano “Psicosidelle 4 e 48”, il suo capolavoro, senza indicazionedi personaggi, in cui voci mentali discutono, comein un allucinato dialogo platonico, se valga la penavivere, producendo ora argomenti emotivi, orapsichiatrici, ora sottili cavillosità tipiche del delirio.Sarah scrisse l’opera quando il buio dentro di séera ormai dilagante. Aveva già ingerito centinaia dicalmanti e sonniferi, da cui però era uscita. Poiancora un ricovero nel King’s College Hospital diLondra. Aveva ventott’anni quando decise che “glistrumenti per affrontare l’inesorabile”, come disseil suo mentore Edward Bond dopo aver appresodella sua impiccagione nel bagno dell’ospedale,“sono la morte, un lavandino e i lacci delle scarpe.Sono il suo giudizio sull’assenza di significato nelnostro teatro, nelle nostre vite e nei nostri falsidei”. Gli spazi separati del sacro, del grottesco,della tradizione e dell’avanguardia giacevano ametà del Novecento come lacerti privi di anima.Una donna in fuga, Amelia Rosselli, ne raccolse levertebre e le compose in una nuova fondazione,fondazione lirica e antigrammaticale, significante eappena liberata, scandita in un verso in cui è lostesso io a farsi musa, incatenata dallo choc e nellochoc della storia. Al termine di un’infanzia eun’adolescenza da perseguitata – dopo l’omicidiopolitico del padre e dello zio, importanti esponen-ti del nascente Partito d’Azione, dovette fuggire da

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Parigi, dove risiedeva, verso Londra e l’America –la Rosselli sceglie l’Italia. Elabora una lingua chesubisce la vita e le lingue passate, il francese e l’in-glese, che così violano l’italiano, confluiscono nel-l’italiano: una lingua altra, uno smozzicamento dellinguaggio verso l’inarticolato, con un risultato chefa scalpicciare le sillabe come piedi sul selciato. Laparola non è più parola, ma è suono, è compostada moduli agibili. Nel saggio “Spazi Metrici”, pub-blicato in allegato a “Variazioni Belliche”, la poe-tessa afferma: “…era necessario, nel cercare ifondi della forma poetica, parlare… della sillaba,intesa non troppo scolasticamente, ma piuttostocome particella ritmica. Salendo su per questamateria ancora insignificante, incorrevo nella‘parola’ intera, intesa come definizione e senso,idea pozzo della comunicazione. Generalmente laparola viene considerata sì come definizione diuna realtà data, ma la si vede piuttosto come un‘oggetto’ da classificare e da sottoclassificare, enon come idea. Io invece… consideravo perfino‘il’ e ‘la’ e ‘come’ come ‘idee’, e non meramentecongiunzioni o precisazioni di un discorso espri-mente un’idea. Permettevo che il discorso interoindicasse il pensiero stesso, e cioè che la frase (contutti i suoi coloriti funzionali) fosse un’idea dive-nuta un poco più complessa e maneggiabile, e cheil periodo fosse l’esposizione logica di una ideanon statica come quella materializzatasi nella paro-la, ma piuttosto dinamica e in divenire e spessoanche inconscia”.

La sua è una voce spezzata, dilaniata dall’espe-rienza, dal secolo, ma pronta ad agire la parola diconseguenza, per regalare, prima di abbandonareper sempre lanciandosi nel vuoto le stanze di viadel Corallo a Roma, la sua orma alla lingua italia-na: premendola, schiacciandone i vermi, le minu-scole radici, le foglie immote da stagioni, i restimarcescenti di frutti caduti secoli e secoli fa, i restidi ossa di animali da tempo defunti. “La malattiaera la CIA – scrive la Rosselli nella ormai disturba-ta testimonianza resa a Nuovi Argomenti nel1977, sotto il titolo di Storia di una Malattia – e ilsuo corrosivo o punto d’attacco il SID o l’UfficioPolitico o ambedue. La cura fu lunga e costosa, evi sono ricadute”, il mondo l’aveva ormai sopraf-fatta e le allucinazioni prodotte dal suo debolestato mentale già l’avevano avuta vinta. Entrarenel mondo poetico di Anne Sexton, bostoniananata nel 1928 e morta suicida nel 1974, è assai piùarduo che non entrare nel rovente abbraccio della

sua femminilità. Pressoché illetterata Anne scoprìprima le beatitudini della passione, le scorciatoiedella seduzione vanesia e sfrontata, e solo quandofu troppo tardi il rigore e la quiete del verso. Chisi avvicina vergine ai testi della Sexton non di ra-do indietreggia con raccapriccio di fronte alla con-gerie caotica di dati corporali, fisiologici, psichia-trici che lo assalgono con la cadenza diun’interminabile confessione impudica. Gli arginidella forma furono travolti già nell’infanzia acausa di un padre alcolizzato e di una madre chele sbatteva la porta in faccia a ogni richiesta diconforto, e i semi della follia diedero i loro fruttinella pubertà, quando la meravigliosa proziaNana, unico suo affetto familiare, non le perdonòdi aver osato baciare un uomo e dal suo ricoveropsichiatrico negò di conoscerla. Il corpo scacciatoe castigato dalla famiglia rientra incontenibilmen-te nei versi, che si devono piegare ai suoi capriccie alla sua natura contraddittoria: anarchica mafatalmente legata alla corruzione del biologico. Ilmiracolo avviene: la parola stempera le crudezzedel desiderio e la carne soffia vita e concretezza alverso. La macchina per scrivere diventa la madreche apre la porta, il padre sobrio, la prozia cheapprova ogni legame sentimentale. Nasce conAnne Sexton un nuovo e geniale modo di rappre-sentare nel suo continuo, inarrestabile farsi edisfarsi di quell’unicum che è il corpo della donna.Ogni frammento poetico delle sue raccolte è undettaglio di flusso di coscienza nato dai vagiti disensazioni proibite che riaffiorano sulla pelle pri-ma che nella mente. Membra strappate da uncorpo poeticamente ricostruito e che infine pos-siamo palpare, stimolare, veder vivere e amare edisperarsi. Estati di fuoco e inverni di gelo, eccita-zione e inerzia, attenzione e trance, sono queste lecalde deiezioni dell’oscena poetessa. Nessunaingenuità nell’utilizzo di materiali tanto immediati,è la stessa Sexton a riconoscere di appartenere aun genere di muse e dunque di donne affatto spe-ciale nella poesia “Her Kind”: “Sono balzatafuori, strega posseduta sfrecciando nell’aria nera,incoraggiata dalla notte, sognando il male... Unadonna del genere non è una donna. Io sono statadi quel genere”. In altri tempi un simile affrontoalla fissità puramente scenografica dell’energiafemminile sarebbe stato perseguito su una pirafiammeggiante, ma è un altro il fuoco cui laSexton è destinata. Nei suoi tempi l’inizio dellarappresaglia poteva avvenire con la nascita di un

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figlio e il conseguente scontro con un corpo pro-prio e al tempo stesso estraneo. La straordinariaprofondità con cui Anne scandagliava gli abissicorporali della sua persona era paradossalmente ilpiù grande ostacolo all’apertura verso l’altro, fos-sero anche le sue figlie o, vero e proprio intrusotra le sue pagine, il marito Alfred Muller Sexton II,col quale si unì a diciannove anni per divorziarnesolo poco prima del suicidio. Non è forse del tuttofrivolo ipotizzare che l’unica cosa che l’abbia spin-ta alle nozze sia stata il suono sessuale (Sex-Ton)del cognome. Gli unici legami sentimentali neiquali si mise in gioco furono, non a caso, quelliche coinvolgevano integralmente carne e parola,corpo e psiche, avvolte in un’unica vampa fattaparola. Il dottor Martin Orne, che l’ebbe in tera-pia psicoanalitica per otto anni e dopo di lui OllieZweizung, il “doctor daddy”, dottor padre, cheprima di bruciarsi nell’olocausto dell’amore imma-

ginato da Anne pensò opportuno tornare dallamoglie. “Diciamocelo, sono stata di passaggio...Lei è così nuda e unica, lei è la somma di te e deituoi sogni. Montala come un monumento, gradi-no per gradino. Lei è solida. Quanto a me, io sonoun acquerello. Mi dissolvo”. E la dissoluzioneavvenne il 4 ottobre del ’74 dopo mesi di isola-mento assediata da voci che le rimavano nella testai versi dei postumi “Taccuino della morte” e “Iltremendo remare”. Per l’ultima volta il suo corpodiede ordini: si infilò una polverosa pelliccia dellamadre, salì a bordo della sua macchina chiusa ingarage e si lasciò spegnere dal monossido di car-bonio. Se Theodor Adorno aveva affermato chedopo Auschwitz la poesia non era più possibile,queste quattro voci tra le rovine dimostrano cheancora la parola può dire, può raccontare l’acqua,l’aria, la terra e il fuoco, nonostante la rapina delNovecento sia ancora in corso.

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I tasselli tematici del mosaico letterario

Viola Papetti, il manifesto, 3 novembre 2007

Da poco uscito per la Utet, il «Dizionario dei temi letterari», curato da Remo Ceserani, MarioDomenichelli e Pino Fasano, presenta in tre volumi, e quasi tremila pagine, le unità narrativeessenziali delle migliaia di racconti di ogni tempo e luogo

Morte e resurrezione della critica tematica?Fino a qualche decennio fa, una tesi dilaurea di argomento tematico (per esem-

pio, l’aerostato nella narrativa ottocentesca, lamorte per acqua, il ballo in Jane Austen, le finestrein Proust, e così via) caratterizzava lo studente sve-glio, ludico e parolaio, ed era seguita con soffertaindulgenza dal docente. Il pericolo insito nella cri-tica tematica è che spesso in suo nome si consu-ma, non senza una certa frenesia liberatoria, lafrattura tra forma e contenuto, la definitiva cadutanel plot, per cui una storia è letta e commentatasenza più un sospetto sul come è raccontata.

Oggi forse non siamo a un ritorno nostalgicoalla critica tematica degli anni ’50, ma più propria-mente a quel derivato dello strutturalismo seman-tico, che a suo tempo – per esempio con Greimans– riguardava il recupero dei temi. A suo tempo, lacritica letteraria Naomi Schor ha notato che comel’iperrealismo in pittura è un «ritorno al figurativopassando attraverso una griglia minimalista, il neo-tematismo è un tematismo passato attraverso il fil-tro della critica strutturalista». Quindi, il provatodocente cerca di abbassare la guardia.

L’Ofelia di John Everett Millais, addormentatatra i fiori mentre le acque dell’Avon la trascinanonel mito, fa dimenticare la tormentosa Ofelia diShakespeare? Uno studio rigoroso dei temidovrebbe rifuggire dal personaggio Ofelia edestrapolare la sua morte per acqua facendone ilpunto focale su cui si incontrano la tradizione cul-turale e le complessità di altri testi e temi affini. Perl’Otello shakespeariano, ad esempio, basta collega-re l’interfaccia del tema letterario della gelosia

maschile con l’esperienza reale, e subito dalle pagi-ne della cronaca nera ci assale la follia omicida ditanti Otello italiani.

Un poderoso aiuto chiarificatore ci viene oradall’enciclopedico catalogo di temi, topoi, figure,motivi, orme, percorsi intrecciati sull’orizzontedella letteratura, che con il titolo Dizionario deitemi letterari è da poco uscito per la Utet, a curadi Remo Ceserani, Mario Domenichelli e PinoFasano (3 voll. pp. 2882) , l’opera più voluminosae razionalmente condotta fra quante ne sono statepubblicate con lo stesso scopo. Del resto, ci sonovoluti più di duecentocinquanta collaboratoricirca per redigere circa seicentottantotto voci,ognuna delle quali delimita il proprio camposemantico-etimologico ed è seguita da un elencodi opere citate, da voci affini e da una bibliografia.Inoltre, vengono enunciati i cluster, ossia i noditematici, il cammino storico nell’ambito del cano-ne euroamericano e viene contemplata qualcherara deviazione nell’ambito postcoloniale. Insom-ma, le ubbidienti voci di questo Dizionario deitemi letterari possono far pensare all’armata diterracotta dell’imperatore defunto, divinizzato edunque salito in cielo: un esercito di «voci» che ciindica dove è possibile trovare la letteratura, omeglio i suoi contenuti, mentre restano assenti gliaspetti formali. Inoltre, per gli studiosi amantidella ricerca in mare aperto, questo Dizionario èun invito a affrontare le avventure della navigazio-ne, alla quale offre varie bussole, come la retetematica, l’indice degli autori citati, e l’indice deipersonaggi, sebbene entrambi abbiano poco spa-zio a disposizione.

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Se a giudizio dei curatori, che non permettonoclandestini a bordo, il personaggio di per sé nonvale come tema, essendo troppo complesso ecompromesso con altri compiti, ci sono però i«tipi», insidiosi e simpatici consanguinei, come«Briccone, trickster», «Cugini», «Eroe», «Creaturemagiche», «Cavaliere», «Buffone, clown» e tantialtri, che movimentano il lemmario con sortitegustose. Né, del resto, il tema si identifica con l’ar-gomento, o il soggetto. In bilico tra astrazioneconcettuale e concretezza dell’interfaccia, tra tipi ecaratteri a tutto tondo, tra situazioni e emozioni,tra allegoria e storia, il tema cerca un equilibrio, eforse lo trova proprio nella sua funzione di allac-ciamento, elastico e imprevedibile, tra testi di epo-che e tipologie diverse. Quindi, non esibisce un insé platonico – come Bremond avverte – ma «unreferente al tempo stesso dentro e fuori del testo,una risorsa sempre disponibile di nuove espressio-ni che creano differenze di significato.»

I temi sono dunque i necessari tasselli dellamemoria poetica e della vita umana, contagiati edeformati, e prolificano pur alla loro manieracompromessa da una secolare manipolazione:sono le unità narrative essenziali delle migliaia diracconti sparsi nel mondo. L’antropologia è nellosfondo, quanto la mitologia e la filosofia. «Checosa posso fare se non enumerare i vecchi temi?»aveva scritto Yeats, confermando che sono antichiquanto il raccontare, carichi di una spontaneaenergia espressiva, ineluttabili. «Ogni tema è con-nesso a ogni altro tema. Ogni tema è di per sé unatraccia mnestica, un engramma (Warburg) nellamemoria collettiva, nella memoria culturale, e cioè

nella tradizione rappresentativa. La rete dei temi èvirtualmente infinita», scrive Domenichelli.

La neotematologia porta l’innovazione dell’im-postazione critica, i temi – sempre vecchi, ma sem-pre pronti a essere rilanciati – impongono la lorometamorfica, suggestiva presenza. Altre discussio-ni sono in corso, nei vari dipartimenti di letteratu-ra comparata, sulla natura politica della compara-zione, sia come metodo, sia come risposta storicaal multiculturalismo attuale, legittimando il sospet-to che il dibattito sulla critica tematica sia infinito,quanto i temi. Meglio, allora, lasciare la parola auno scrittore, J.M. Coetze, che sposta ancora ilproblema, e lo declina in maniera totalmentediversa: «Per quanto mi riguarda non è il tema checonta ma il tematizzare. Quali che siano i temi cheemergono nel processo, essi sono euristici, provvi-sori e, in questo senso, insignificanti.

L’immaginazione raziocinante pensa per temiperché questi sono i soli mezzi che ha; ma i mezzinon sono il fine. È quasi inutile dire che è possibi-le uno scrivere in cui l’immaginazione raziocinan-te sia ingannata dal principio alla fine (o inganni sestessa), in cui i temi che scopre non sono i temiche il lettore troverà, o invero i temi che lo scritto-re può trovare rileggendo. Questa può essere unaparte dell’astuzia dell’opera, mentre avanza oltre ledifese della mano che ha scritto.»

Non deve sembrare eccessiva, dunque, l’im-presa degli onesti e avventurosi autori delDizionario che, malgrado le insidie tese dal demo-ne dell’analogia, si sono impegnati a riportare sultavolo dello scrittore (e del lettore) le tessere delgrande mosaico.

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In silenzio. «Parlare con lui», disse una volta suamoglie Josephine Nivison, «è come lanciareuna pietra nel fondo di un pozzo, la senti

andare a fondo». E il suo amico John Dos Passos,l’autore di Manhattan Transfer. «Stava seduto nellostudio per ore bevendo tè. Ogni tanto sentivo cheera sul punto di dirmi qualcosa, ma poi non lofaceva».

In silenzio e lentamente. Edward Hopper haguardato l’America e ha visto il cuore di noi cheguardiamo. La luce dei suoi quadri, dilatata e obli-qua – che immobilizza l’interno notturno di unbar, la casa isolata sull’oceano, la stazione di ben-zina, la stanza di un motel, lo scompartimento diun treno, uomini e donne che aspettano – rac-conta l’ombra che ci portiamo dentro. E la verti-gine che la circonda. Il suo mondo di spazi esilenziose circostanze ci è familiare anche se nonl’abbiamo mai visto prima. Ha i colori reali e lapotenza dei sogni che ci svegliano, ma mai disoprassalto. È lo sguardo che abbiamo provato inun addio. È il lampo di un ricordo. È la lontanan-za che rimpiangeremo.

Hopper nacque e abitò in quella lontananza.Era il suo baricentro e il suo segreto. Venne susolitario e introverso – carattere di pietra e dentiforti, occhi grigio azzurri, grosse labbra a sigillarela timidezza – in un paese da nulla, Nyack, tra ilfiume Hudson e New York City, anno 1882, fami-glia benestante, padre e madre proprietari di unnegozio di tessuti, infanzia senza scosse e domeni-che alla chiesa battista per ringraziare il Signore deicieli tersi, del pane ben guadagnato, dei destinidella bianca America. Edward sa disegnare. Il

padre lo asseconda. Frequenta la New YorkSchool of Art.

I ragazzi dipingono cavalli, grano appenatagliato, paesaggi d’acquerello, epopea dellaFrontiera. Lui incontra Robert Henry, il pittore,che gli insegna a copiare dal vero e a rendere niti-do il disegno, pulito il colore. Quando ha impara-to il necessario su quello che si vede in superficie,parte per Parigi, a caccia di tutto il resto, quello chevive imprigionato nella luce. Ci arriva nell’invernodel 1906, malinconia da pioggia, e un atelier in ruede Lille. Ma senza bohème, senza incontrareGertrude Stein o Picasso, senza abitare le notti diMontmartre con i suoi strascichi di assenzio.Indossa cravatte e non ha amici. Dipinge lungo ibordi della Senna e nei parchi. Cammina assorto.Disegna i ponti. Studia gli interni di Degas, le stra-de bagnate di Sisley, i cieli di Manet. Copia gliimpressionisti, ma impara subito a fare correrealtra luce per secretare di più il suo baricentro soli-tario. «A Parigi», racconterà, «la luce è diversa datutti gli altri posti. Persino le ombre sono lumino-se». Ci viaggia dentro un anno intero e poi duealtre immersioni, fino all’ultimo ritorno nel 1910:da quell’anno in poi mai più Europa o viaggi inaltri mondi. Solo un pezzo di Messico e poi lavastità d’America, che girerà con la sua grossaBuick verde e bianca, in silenzio, con la moglieaccanto, fino alla California, al bianco abbagliantedel Texas, agli abissi disturbanti del Colorado.

Guardare è il suo lavoro più puro, più faticoso.Il suo modo di mettersi in viaggio verso il cuoredelle cose: «Non dipingo quello che vedo, maquello che provo». Detesta l’astrattismo che

Hopper, il pittore che catturò la luce

Pino Corrias, La Domenica di Repubblica, 4 novembre 2007

Un indirizzo, una donna, una casa nel nulla, una sola automobile. Molto poco accade nella vitadell’autore di Nighthawks

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dall’Europa sgocciola fino alle tele di Pollock: «Èsolo un freddo esercizio intellettuale». Non gliinteressa il realismo, con i suoi troppi dettagli, per-ché il suo sguardo vede di più: «Se potessi espri-merlo con le parole, non ci sarebbe bisogno didipingerlo».

Negli anni della sua fama celebrata dalle grandiretrospettive del Modern Art e del WhitneyMuseum, la critica si inchinerà a quello sguardo dieyewitness, di testimone oculare. Alla sua capacitàdi parlarci di quel colpo di scena che ci riguarda:fronteggiare la vita, farsi piegare dalla vita, in unpomeriggio qualunque, inondato di sole, o in unanotte al neon. Quando c’è appena il tempo di chie-derci: cosa è successo? Cosa sta per succedere?

Ma con Edward Hopper parlare di un prima- edi un dopo-fama non ha molto senso.Quell’implosione del tempo che ci spaventa e checi attrae nelle sue inquadrature di specchio ameri-cano, è il maggiore dettaglio della sua lentissimaesistenza, il perimetro che la contiene. Senza maitroppe interferenze. Nel 1913 affitta una casa stu-dio all’ultimo piano del numero 3 di WashingtonSquare, cuore del Greenwich Village, e sarà il suoindirizzo per sempre: settantaquattro scalini perarrivarci, le ampie finestre, la stufa, un grosso ca-valletto che si è disegnato e costruito a mano,pochi mobili intorno, niente disordine, un quadroda lavorare alla volta. Nel 1924 sposa Josephine esarà sua moglie per sempre. La sola donna. Lasola compagna di viaggi. La sola modella, de-clinata cento volte, in piedi sulla soglia, intravistada una finestra, nuda o vestita, mentre legge,mentre guarda, mentre aspetta un treno che nonparte o qualcuno che non arriverà. Quell’annovende il suo primo quadro. Smette di disegnareillustrazioni pubblicitarie, velenose per la suaricorrente depressione. Legge Freud e Bergson.Nel 1930 scopre Cape Cod, le spiagge, la luceoceanica. Sceglie un rettangolo e dentro cicostruisce una casa, isolata dal resto del mondo,con le assi, il tetto spiovente, monumentali fine-stre su ogni lato, per tutte le sue estati a venire,fino alla fine.

Un indirizzo, una donna, una casa nel nulla, unasola automobile. Tutto dentro i confini della pro-pria esistenza. Dove concentrare le linee e la luce.Citando a perpetua memoria l’insegnamento diGoethe: «Riprodurre il mondo fuori di me, coimezzi del mondo che è dentro di me». Seguendola traiettoria di Degas: «Si dipinge solo quello che

è necessario». Sbarazzandosi di tutto il superfluo:«Sono l’unica persona che mi ha influenzato».

Un’estate viaggia lungo i confini messicani.Prende appunti, riflette, ma troverà materiale perun solo quadro, una locomotiva. «Guardo tutto iltempo per trovare qualcosa che mi suggestioni».Non lo sa mai prima e quando se ne accorge nonlo sa spiegare: «Non so perché dipingo determina-ti oggetti». Per esempio Gas, la sua famosa pompadi benzina che sorprese come una rivelazione: «SuGas non c’è niente da dire. Avevo in mente didipingerla da un po’». Nulla è realistico anche se losembra. E in quel nulla i corpi hanno la stessa fis-sità dei paesaggi e forse la medesima sostanza.Dirà: «Tutto quello che volevo fare è dipingere laluce del sole sul lato di una casa». Lo ha fatto per366 volte in una sessantina d’anni, dipingendomeno di cinque quadri l’anno.

Nelle foto che gli scatta Bernice Abbott, a caval-lo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in cima ai set-tantaquattro scalini, nella casa studio, sta moltocomposto sulla poltrona, accanto alla stufa, congiacca, cravatta, panciotto, lo sguardo dritto, ilvuoto intorno. Ed è più o meno tutto quello cheserve a descriverlo, compreso il fatto che manchi Jo,la moglie, tanto inseparabile da scomparire allosguardo del mondo. Cancellazione niente affattoinvolontaria che generò conflitti silenziosi e lun-ghissimi litigi, ma anche (come accade) abnegazio-ne al reciproco dolore. Perché poi nel vero mondoa olio di Hopper lei gli sta sempre accanto, davantial mare inondato di luce, o dentro la notte diNighthawks, I nottambuli, quadro celebre e celebratoper purezza di notte americana, solitudine e cinema.Inizio di infiniti racconti e suggestioni per conso-nanza con altri tormentosi incanti che arriverannofino all’inchiostro di John Cheever, fino a RaymondCarver, fino agli accordi lenti di Miles Davis. E chenessun giocattolo dell’imminente pop art saprà ren-dere con tanta immobile efficacia.

La rivista Time nel Natale del 1956 gli dedica lacopertina: «Il testimone silenzioso dell’America».L’apoteosi non lo scalfisce. Le quotazioni nonincidono sulla sua vita spartana. Il suo ultimo qua-dro, anno 1965, si chiama Two Comedians, ha unpalcoscenico in primo piano e sul nero che li cir-conda, due attori in costume bianco, lui e lei, chesi inchinano per il congedo. Se ne vanno per dav-vero due anni dopo, prima lui, il 15 maggio del1967, poi lei, dieci mesi più tardi. Uno alla volta,però insieme.

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Così costruiva il suo “teatro del silenzio”

Ambra Somaschin

Scarni, sobri, vuoti, niente dettagli, perché i dettagli suggeriscono suoni. Hopper dipingeva per sottrazione, toglie-va, limava, estirpava. Dipingeva i suoi silenzi a olio per gradi. Il teatro del silenzio: l’arte di Edward Hopper (di Walter

Wells, Phaidon Press Limited, 69,95 euro, 240 pagine, 220 illustrazioni, in libreria dal 13 novembre in Italia, Spagnae Germania) mette insieme diari, bozzetti, schizzi, taccuini: un’arte preliminare archiviata giorno per giorno, annoper anno, dalla moglie Jo Nivison. Il libro restituisce il pensiero del pittore impresso su carta di quaderno, per lo piùa righe. Walter Wells, professore emerito di English and American Studies alla California State University diDominguez Hills, ci spiega come.

Professor Wells, i journal sketches di Hopper approdano in Italia. Sono conosciuti nel mondo?«Sono stati esposti al Whitney Museum di New York, riprodotti nella biografia di Gail Levin, raccontati daDeborah Lyons (E. Hopper : a Journal of his Work). The silent Theatre ha saputo condensare un po’ tutto, gli schiz-zi, il pensiero, i disegni preliminari.

Cosa significa per lei silent theatre?«In senso letterale tutti i dipinti sono silenziosi. Ma quelli di Hopper sono anche misteriosamente vuoti, le figuresembrano mute. Sapeva anzi semplificare, eliminava l’inessenziale, caricava il silenzio di palpabile tensione.Un’opera che richiama le emozioni dell’espressionismo di Munch, del surrealismo di Magritte. Dal punto di vistapsicologico qualcosa sta succedendo o sta per succedere… Veniamo come trasportati di fronte a una soglia esi-stenziale».

Come lavorava?«Molti dei suoi acquerelli sono dipinti en plein air. Per gli oli predisponeva schizzi preparatori sulla scena, poili portava negli studi di Washington Square a New York, di Truro a Cape Cod. Diceva: “Cerco di proiettare sullatela le mie più intime reazioni al soggetto come mi è apparso nel suo momento migliore… Credo siano i sog-getti il mio miglior medium per una sintesi della mia esperienza”».

Un esempio.«Nighthawks. Tre clienti e un oste in un ristorante aperto di notte. Era sul cavalletto il giorno in cui i giapponesibombardarono la flotta americana a Pearl Harbor. Nighthawks fa emergere il nostro desiderio di un rifugio illumi-nato, sicuro nel turbamento della notte. Racchiude i legami dell’artista con il Caffè di notte di Van Gogh; con A CleanWell-Lighted Place di Hemingway; con una poesia, Settembre 1, 1939 di W.H. Auden».

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C’è un antenato di Marguerite Yourcenar– tra tutti quelli declinati nell’autobio-grafia Archivi del Nord – che ha un

nome profetico, Adriansen, «figlio di Adriano».Margherite evoca anche un altro ascendente illu-stre, Rubens – parente acquisito: quando dipinge-va, si faceva leggere ad alta voce Tacito e Seneca.Tacito e Seneca sono le letture ininterrotte dell’im-peratore Adriano. La Yourcenar, anche per rac-contarsi, amava consegnare il proprio enigma altempo più lontano; alla storia, o, semplicemente,al ripensamento. Teorizzava «l’allontanamento»,che rende più chiare e auguste le cose; e citavaRacine: a mille anni o mille leghe, «major e longin-quo reverentia».

Inversamente, per animare il «freddo liquoredella memoria», poteva essere necessario un bru-sco riavvicinamento. All’epoca in cui studiava ilvolto di Antinoo, per scavare nei suoi tratti lemotivazioni del «colpo di sole dell’ amore» che,ben tardi, appare nella vita dell’imperatore, laYourcenar stava confrontando alcune effigi delgiovinetto con una archeologa, conservatriceall’epoca del museo di Ostia, Raissa Calza. Raissaera stata la prima moglie di de Chirico, e avevavisto i Balletti Russi; guardando uno dei ritratti diAntinoo, esclamò: «Nijinskij». Il leggendario balle-rino «era la migliore formula possibile», riconobbepoi, nel ricordo, la Yourcenar: era la persona che dicolpo viene a incarnare le aspirazioni di un granderegista – come Diaghilev per i balletti russi: «e inun certo senso l’Imperatore era un grande regista».

Lo dicono anche le Memorie di Adriano; l’impe-ratore varius, multiplex, multiformis sente cresce-

re in sé un nuovo personaggio, «un diretto re dicompagnia. Conoscevo i nomi dei miei attori,regolavo le loro entrate e le loro uscite. La versati-lità mi era necessaria. Ero multiforme per calcolo;camminavo sul filo come un acrobata»; quelle rap-presentazioni pian piano lo formano.

Scommettendo sulla natura teatrale della recita-zione del potere, Maurizio Scaparro ideò nel 1989il mitico spettacolo a Villa Adriana delle Memorie,nell’adattamento di Jean Launay, interpretato daquasi vent’anni, in giro per il mondo, da GiorgioAlbertazzi (e che ora è un libro e un dvd da mini-mum fax firmato dall’attore, Memorie di Adriano, Lavoce dell’Imperatore, pagg. 80, euro 25). Al dettato delromanzo, inciso nel marmo di uno smagliante,meticoloso e diffidente classicismo, Albertazzi lolascia cadere con una specie di spoglia e grave tra-scuratezza, perché non la retorica ma le parolesbalzino il ritratto – che intanto sempre più sidistanzia dal suo proprio distacco dalla con-temporaneità.

A vent’anni dalla morte, la più augusta scrittri-ce francese del Novecento vede sfumare unapeculiarità delle sue opere, denunciata al loroapparire: l’inattualità. Nel dopoguerra dell’im-pegno e degli sperimentalismi, la sua misura atem-porale l’aveva resa una Sibilla che enunciava«forme immortali» chiuse nel loro «sogno» mar-moreo (Album italiano). Nei saggi la Yourcenardenunciava bensì i cataclismi dell’epoca – i geno-cidi, la tragedia ecologica, l’incultura – e li maneg-giava con furore («i fanatismi più o meno masche-rati, più o meno larvati aspettano solo il momentodi riapparire armati»; «la corruzione è quasi un sine

La memoria inquieta di Marguerite Yourcenar

Daria Galateria, la Repubblica, 8 novembre 2007

A vent’anni dalla morte della scrittrice, esce in volume e in dvd la versione teatrale del celebreromanzo dedicato ad Adriano

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qua non della politica»). In letteratura e in poesia,invece, i materiali più incandescenti dovevanoconoscere la sutura del tempo e dello stile; ma soloper diventare più forti.

Oggi è impossibile credere che la Yourcenartrasformi la terra in falde geologiche. Vediamoquanto disagio della guerra mondiale nutrisse ildisegno della Pax romana di Adriano – ma «la paceè uno scopo, non un idolo». Nel Cinquecentoalchemico dell’Opera in nero è consegnata la preoc-cupazione per la proliferazione delle sette e la cre-scente repressione omosessuale nel mondo. Congli anni, Adriano si accosta alle nostre inquietudi-ni; imperatore del disincanto, ma rispettoso delleistituzioni, curioso delle religioni e dei miti orien-tali, vede stendersi un mondo unico, ma non credenelle annessioni violente. Ci tocca anche il metododella Yourcenar, «l’attenzione» indù fissava il pen-siero sul nulla, per prepararsi alla scrittura, e anchealla comprensione di mondi lontani: dalla storia,dopo lo studio più scrupoloso, bisogna lasciarsiattraversare, imponendo il silenzio a quello checrediamo di sapere.

«È stata una bambina solitaria?» le avevanochiesto una volta. «L’abitudine precoce alla solitu-dine è un bene infinito, si impara a fare a menodegli altri», aveva risposto Marguerite, che avevaperso la madre alla nascita; nessuno le parlava dilei, e la sua prima fotografia era stata mostrata a 35anni; «del resto, c’è un fondo di indifferenza neibambini», notava. Nei racconti contemporanei enelle poesie della Yourcenar, come nelle ultimepagine (Cosa? L’eternità) del Labirinto, l’auto bio-grafia in tre volumi, appare ormai bruciante la pre-senza di un trio (una donna, un uomo che ama gliuomini, un amante, non esclusivo, tra i due) chesembra riprodurre una specie di sua scena origina-ria – la presenza nella sua fanciullezza di Jeanne,l’amica della madre, di suo marito Egon, e diMichel de Crayencour, il padre di Marguerite.Sono queste cicatrici, espresse, nel frastuonomoderno, con la sua consueta impassibile compas-sione – Don Miguel l’incestuoso «si strofinavasempre le mani, come per cancellarne qualcosa» –il luogo più arroventato da cui ci parla oggi laYourcenar.

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Giorgio Albertazzi in Memorie di Adriano

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Come groviglio di patologie Gadda è insu-perabile. La cosa singolare è che questepatologie (psicologiche, linguistiche, intel-

lettuali, sociopolitiche) abbiano finito per attirarei conformisti. Il paradosso però è solo apparente.Gadda infatti è a sua volta un conformista furio-so e spaventato di sé stesso: spaventato cioè siadel sé stesso conformista che del sé stesso furio-so. La conformità infatti pretende una sottomis-sione alle norme del vivere comune, sociale, pre-scritto e accettato dal gregge umano: cosa cheterrorizza Gadda. La furia contro la conformità èd’altro lato a sua volta temibile: ci rende invisi aglialtri, attira la furia altrui, richiama su di noi l’atten-zione dell’ambiente, ci segnala alla pubblica opi-nione come anarchici, come irregolari e forsecome pericoli pubblici. Dato che la società umanaè un grosso, feroce, incontrollabile animale caricodi istinti elementari e violenti, tutto ciò che distur-ba e risveglia questo animale è sommamente e perdefinizione temibile. Questa ambivalenza o dop-piezza di Gadda è ciò che lo rende spettacolarecome individuo e scrittore. Perché Gadda è scrit-tore anzitutto in virtù del semplice fatto di essereun singolarissimo individuo, che non sa mai dovemettersi. Vorrebbe trovare un posto, un rifugioche lo renda socialmente invisibile e invece i suoiistinti, le sue paure e le sue rabbie lo segnalanoall’attenzione. Essendo un conformista ribelleche teme di ribellarsi e un ribelle conformistaincapace di normalità, Gadda incarna perfetta-mente la caotica, angosciosa, rabbiosa, comica,metafisica e materialistica immobilità italiana.Con Gadda e secondo Gadda, il pasticcio e il gro-

viglio (suo e nostro) sono indistricabili: il male èinguaribile, le colpe sono evidenti ma ancheocculte, tra vittime e carnefici c’è sempre un’oscu-ra, innegabile complicità.

Come il suo “Pasticciaccio”, il nostro romanzonazionale è un romanzo irrisolto, senza una veratrama, senza personaggi se non fittizi o pretestuo-si o simili a groppi di materia, niente avrà esito,non ci sarà una conclusione, non si scoprirà nulla,nessuno verrà giudicato o punito, dopo che tuttosarà accaduto sarà come se niente di nuovo siaaccaduto. Come l’Italia novecentesca, che non èpiù antica e non ha saputo essere moderna, nellascrittura di Gadda si manifesta un puro presentesenza storia: e tuttavia, linguisticamente e material-mente, tutto un passato italiano, pluristratificato edestoricizzato, piove sul presente come un lurido,biblico alluvione. Così il presente dei libri diGadda sembra esplodere e rivelarsi, ma nello stes-so tempo è anche mascherato e occultato da unapioggia di detriti linguistici e di capricci formaliche precipitano da chissà dove. Come ha scrittoLuigi Baldacci in un saggio del 1983, “Gadda nonsi libera nel suo scrivere, come troppo ottimisti-camente si potrebbe immaginare. Gadda sinasconde. (…) Nella sua scrittura e nel suo corposi agitavano oscuramente pulsioni di morte e insie-me una gran voglia biologica di vivere. (…) Perquesto è difficile riconoscere un pessimismo gad-diano, anche perché in Gadda non c’è una visionetotale del mondo, una qualche possibilità di alzar-si al di sopra della pagina. (…) C’è una schizofre-nia che è riscontrabile innanzitutto nella sua inca-pacità di stabilire un rapporto con l’esterno, se

Quer pasticciaccio der modello Roma

Alfonso Berardinelli, Il Foglio, 10 novembre 2007

Provate a rileggere il libro più famoso di Gadda e scoprirete perché la prima parodia del labora-torio romano fu ideata dallo scrittore milanese

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non, appunto, nei termini della scrittura che è unaforma di fagocitazione retorica degli altri, e bastache una comare entri in scena, col suo italianopopolare e dialettale, perché sia assimilata, in gra-zia delle sue stesse reali parole, all’universo lingui-stico di Gadda, il quale intrattiene con lei il rappor-to che l’intestino ha col cibo” (in “Novecentopassato remoto”, Rizzoli 2000, p. 272). Sinte-tizzando tutto in una formula felice e agghiaccian-te, Baldacci dice che il caso è molto semplice:“Gadda era un uomo d’ordine che nell’ordine sof-focava. In lui c’erano due persone: un vivo e unmorto legati insieme, supplizio praticato nellaremota antichità. Due metà assolutamente distin-te; e in Gadda la destra non sapeva mai che cosafacesse la sinistra” (ivi, p. 270). Quindi un Gaddasenza visioni del mondo: un Gadda senza unacoscienza unificante. Un Gadda che esiste solo allivello della pagina scritta, non si eleva al di sopradelle sue reazioni linguistiche e retoriche fagoci-tanti, inglobanti, vitali e insieme distruttive, che lonutrono e lo avvelenano, che rivelano la realtà pre-sente e nello stesso tempo, anzi di più, la masche-rano, la travestono, la deformano, la occultano. InGadda le esibizioni sono anche rimozioni, perchéil ribelle che “bestemmia come un turco” nascon-de il borghese e l’uomo d’ordine, il quale a suavolta maschera e rimuove la furia non tanto del-l’anarchico, ma dell’uomo “distrutto dalla nevrosisociale”. Come si manifesta questo scrittore spet-tacolare e sfuggente nel suo libro più famoso,“Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”?

Già nel titolo Gadda si traveste grottescamentee parodisticamente si mette in maschera.L’ingegnere milanese, coltissimo e maniacale uma-nista, entra in scena in dialetto romanesco. È uncoup de théâtre, ma anche un omaggio alla mimè-si naturalistica: dato che la realtà esiste solo nelleparole con cui parla di se stessa. Un delitto avve-nuto a Roma sarà perciò necessariamente un delit-to in romanesco. Gadda anche qui è composto didue parti: fa finta di imitare onestamente la realtà,invece la rende iperrealistica, la sovraccarica diattributi, ci gioca e la ingoia golosamente. Inoltrequesto romanzo incompiuto, o cosiddetto (da al-tri) antiromanzo, che l’autore cominciò a scriverenel 1946, non risponde esattamente all’idea che diGadda ci dà Baldacci. È vero solo in parte cheGadda non si solleva dalla superficie della suascrittura e che non dispone di una visione di insie-me. Gadda è puramente reattivo e retorico, ma

anche puramente gnoseologico. Solo che i suoidiligenti e scientifici “studi dal vero” diventanoaggressioni deformanti, interventi soggettivi e vio-lentemente disgregatori della trama delle apparen-ze. Senza la potenza reattiva e aggressiva della sualingua plurima e onnicomprensiva, i sottosuoli e leviscere della realtà non sarebbero accessibili all’in-dagine. Prima lo stato di allarme. Poi la paura e l’i-ra. Infine la voglia di fagocitare, inglobare, mima-re. In sequenza, sono questi gli stadi psichici da cuinasce la scrittura di Gadda. Sono i moventi fisici ebiologici che lo spingono all’autodifesa, allo stu-dio, all’aggressione, alla cognizione per via di rap-presentazione mimetica. Come il Rabelais di cui ciparla Erich Auerbach, non solo Gadda è preso dauna continua “smania d’inventare parole”, ma creacontinui mutamenti e “contrasti di prospettiva”che non permettono mai al lettore di “riposarsi suun piano di fatti ordinari” e la “quantità di erudi-zione grottesca e bizzarra” gli serve per far “turbi-nare i fenomeni” e spingere chi legge “ad avventu-rarsi nel gran mare del mondo”.

L’uso che Gadda fa della lingua è anch’esso uncontinuo “incitamento a guardare, a sentire, a pen-sare” giocando con il rapporto tra parole e cose.Se non ha, propriamente parlando, unaWeltanschauung, Gadda qualche precisa idea sulmondo e sulle possibilità di conoscerlo ce l’ha. Nel“Pasticciaccio” queste idee vengono esposte non acaso in apertura. Fanno corpo, per così dire, con ilpersonaggio di Ciccio Ingravallo, un trentacin-quenne molisano “forse un po’ tozzo, di capellineri e folti e cresputi”, giovane funzionario nellasezione investigativa della squadra mobile. La teo-ria di Gadda-Ingravallo è ormai ben nota e moltoapprezzata da tutti i gaddiani del mondo: si trattadella teoria del “nodo o groviglio, o garbuglio, ognommero, che alla romana vuol dire gomitolo”.È una “teoretica idea (idea generale s’intende)”secondo cui “le inopinate catastrofi non sono maila conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’ununico motivo, d’una causa al singolare: ma sonocome un vortice, un punto di depressione cicloni-ca nella coscienza del mondo, cui hanno cospiratotutta una molteplicità di causali convergenti”. Nelcaso dei delitti, degli omicidi le cose andavanocosì: “la causale apparente, la causale principe, erasì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosadi causali che gli eran soffiate addosso a molinello(...) e avevano finito per strizzare nel vortice deldelitto la debilitata ‘ragione del mondo’”.

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L’investigatore del “Pasticciaccio” è un meridio-nale fisicamente tipico, anzi caricaturale. Un meri-dionale sospettato di essere sempre un po’ troppoassonnato e assorto: ma un meridionale tipicoanche in quanto lettore di “libri strani” e con latesta piena di “filosoficherie”. Quando si parla diGadda e della sua opera si oscilla sempre tra psi-cologia, linguistica, sociologia e gnoseologia. Se aLuigi Baldacci interessa in modo particolare ilGadda sociopsichico e sociopatico, a Calvino, peresempio, interessa piuttosto il Gadda filosoficoche cerca la verità navigando in mezzo a “corren-ti diverse”, a una pluralità di concause e di effetti-cause, dato che il mondo altro non è che un “siste-ma di sistemi”. Perciò, secondo Calvino, pocoimporta se come romanzo poliziesco il“Pasticciaccio” risulta incompiuto e non approdapositivamente a nulla. La sua sola forma possibiledi compiutezza è l’incompiutezza, perché si navi-ga tutti in una corrente che non si sa dove porta.È questo il motivo per cui “l’intreccio poliziesco apoco a poco viene dimenticato”. Sul più bello, nelmomento in cui forse eravamo “sul punto di sco-prire chi ha ucciso e perché” Liliana Balducci,tutto si ferma, il narratore si distrae, gira la testa daun’altra parte: si mette a descrivere con tantoimpegno una gallina e i suoi escrementi che lasoluzione del mistero viene dimenticata. Perché?La risposta di Calvino, nitida e geometrica comesempre, suona così: “è il ribollente calderone dellavita, è la stratificazione infinita della realtà, è il gro-viglio inestricabile della conoscenza ciò che Gaddavuole rappresentare. Quando questa immagine dicomplicazione universale che si riflette in ogniminimo oggetto o evento è giunta al parossismoestremo, è inutile chiederci se il romanzo è desti-nato a restare incompiuto o se potrebbe continua-re all’infinito aprendo nuovi vortici all’internod’ogni episodio. La vera cosa che Gadda aveva dadire è la congestionata sovrabbondanza di questepagine attraverso la quale prende forma un unicocomplesso oggetto, organismo e simbolo che è lacittà di Roma” (in “Perché leggere i classici?”,Mondadori 1991, p. 249).

Pur non sembrando un vero romanzo, dunqueil “Pasticciaccio” è un romanzo tipico perché con-tiene un fatto o atto cruciale, cioè un delitto.Prende la forma di indagine sul come, sul quando,sul chi e sul perché del delitto. Ma si risolve come“romanzo su Roma”, studio e rappresentazionefedele di un ambiente urbano particolarmente

complicato, socialmente e materialmente barocco:rappresentazione tanto fedele da offrirci un’imma-gine caotica benché precisa del caos, un’immaginepolimorfa e inconclusa di una città stratificata einconcludente. Come al solito e da par suo,Calvino ci tranquillizza, mette a tacere i nostridubbi sul romanzo di Gadda: perché in sostanza,se il libro è così, è perché così doveva essere, l’au-tore non ha sbagliato, non si è perso, non è incap-pato in problemi imprevisti che non ha saputorisolvere o che ha perso la voglia di risolvere. PerCalvino le intenzioni dell’autore non contano. Illibro è quello che è perché Gadda ha fatto la solacosa che veramente voleva fare. Il “Pasticciaccio”,che contiene una teoria dello gnommero o grovi-glio, è a sua volta un groviglio o uno gnommeroperché è il romanzo di Roma, città rappresentabi-le solo come groviglio, garbuglio e gnommero.

Perché allora leggiamo il “Pasticciaccio”?Non certo per scoprire chi è l’assassino dellaBalducci, ma per goderci l’indistricabile pluralitàdel mondo e per capire Roma. La risposta diCalvino è ineccepibile, perché un libro, comequalsiasi cosa, è così perché così doveva essere.È anch’esso il frutto, il risultato di una serie plu-rima di concause, note e ignote. Fra queste causee concause, le intenzioni consapevoli e i pro-grammi originali di Gadda non sono tutto.L’inconscio di Gadda, come si è detto, è potentee vasto: secondo Luigi Baldacci, in uno scrittorecome lui, “la destra non sapeva mai che cosafacesse la sinistra”. Così, un romanzo di indagi-ne e investigazione gli diventa fra le mani unromanzo del quale non si arriva a conclusioniconoscitive. Sul progetto costruttivo si innestauna serie di fatti e fenomeni stilistici. La raziona-lità in Gadda è un conato, spesso è un fallimen-to. Il caos prevale, anche se ben descritto. Preva-le l’istinto, a sua volta duplice, mai univoco:l’istinto mortale di distruggere e l’istinto vitale diinglobare tutto l’esistente senza ordine e regola.È ancora una volta (secondo la vecchia formuladi Lukács) “il trionfo del realismo”, o forse piùsemplicemente il trionfo della realtà, l’incontrocon una realtà mai preliminarmente definibile,che mette al suo servizio ogni intenzione o pro-gramma precedenti e si impone allo scrittorecostringendolo a registrare, reagire, e soprattuttoimmergersi in quel “sistema di sistemi” che è unacittà, in questo caso la città di Roma. L’im-mobilità nevrotica e antistoricistica di Gadda si è

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espressa anzitutto nella scelta del suo tema, delcontenuto narrabile. Lui milanese e spregiatoredei milanesi, ha incontrato la realtà che gli eradestinata arrivando a Roma e perdendosi nellesue viscere sociali, culturali, storiche. La CittàEterna è infatti una città in cui niente avvieneche non sia già avvenuto e che non lasci le cosecome prima. Come la Sicilia di Lampedusa, laRoma di Gadda è una grande allegoria realisticadell’immobilità italiana, del nostro rifiuto dellastoria e della razionalità. Scrivendo, come diceCalvino, “il romanzo di Roma”, Gadda dimostradi amare la cosa che meno gli somiglia e chemeglio incarna il caos vitale che più teme. In luila rabbia e la paura sono anche una mascheradell’attrazione e dell’amore. E così torniamo algroviglio psicanalitico di Gadda. Ma dobbiamospiegare Gadda? O non sarà lui che spiega a noi

qualcosa? Il malato Gadda è un diagnostico dellasocietà italiana e dei modi in cui la nostra lun-ghissima e stratificata storia continua a produrrenel presente meravigliose, mostruose, comiche,grottesche concrezioni. Come un geologo,Gadda sa leggere nella tettonica sociale delnostro paese la quarta dimensione, la dimensio-ne temporale e storica, tutte le lingue e tutto ilpassato che noi come nazione non abbiamodigerito e che va in putrefazione nelle nostreviscere: romanità mitica, cristianesimo abortito,borghesia incapace di governo, plebi asservite emalavitose, Risorgimento, fascismo. In questosenso Gadda è “viscerale”. La sua smania gno-seologica è famelica. Ma non c’è conoscenzavera senza fame e paura. Il malato Gadda e ilGadda filosofo, scienziato e scrittore sono unacosa sola. Meglio: due e più cose in una.

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Norman Mailer è morto ieri all’ospedaleMount Sinai di New York per insuffi-cienza renale. Aveva ottantaquattro anni.

Era stato ricoverato più volte durante l’anno, l’ul-tima volta il mese scorso per un problema ai pol-moni. Con un asciutto comunicato diffuso dallasua famiglia e dal suo agente e biografo MichaelLennon, se ne va una delle voci più critiche, sov-versive e scomode della letteratura americana.Tanto discreta la sua morte quanto rumorosa fu lasua vita. I genitori lo avevano chiamato NormanKingsley Mailer, e da piccolo il futuro scrittore eraparticolarmente attaccato al secondo nome, che lamadre aveva tradotto dall’ebraico “malech”: re.Nel corso di tutta l’adolescenza se ne vantò e ver-gognò a seconda delle circostanze, e solo negliultimi anni ricominciò ad utilizzarlo con una puntadi orgoglio. Era nato a Long Branch, nel New Jer-sey, da una coppia di ebrei sudafricani, ma era cre-sciuto a Brooklyn nel quartiere povero e violentodi Crown Heights, dal quale si allontanava soltan-to durante l’ estate per andare a trovare i nonni chepossedevano un piccolo albergo a Long Beach. Ilpadre, un ragioniere che era costretto a fare ognitipo di sacrificio per arrivare a fine mese, avevariversato su di lui un desiderio di riscatto e affer-mazione nella terra delle opportunità, e la madre,che stravedeva per il figlio con un destino da dare,aveva promesso a tutti i parenti che il piccolo liavrebbe resi l’orgoglio del quartiere. NormanKingsley non deluse le loro aspettative: promise aigenitori di diventare un «grande scrittore» e scris-se a nove anni un romanzo di duecentocinquantapagine intitolato Invasion from Mars. In un primo

momento i due rimasero perplessi: avrebbero pre-ferito che il piccolo si dedicasse a qualcosa di piùconcretamente redditizio, ma perfino in quellepagine infantili risultavano evidenti una passione eun talento fuori dal comune. Reagirono con com-mozione e entusiasmo quando Norman Kingsleyriuscì ad iscriversi ad Harvard, e non seppero maiquanto avesse sofferto provando sulla sua pellecosa significasse non far parte dell’élite WASP: per-fino recentemente lo scrittore ha rievocato la sen-sazione bruciante di non avere «i vestiti, l’accentoe la religione giusta».

Nel periodo universitario scrisse sulle riviste delcampus e sfogò il proprio senso di inadeguatezzatirando di boxe. Non fu mai il grande pugile chevolle far credere in seguito, ma è certo che sul ringera in grado di terrorizzare i colleghi di studio chelo snobbavano in pubblico. La laurea coincise conil momento più cruento della Seconda guerramondiale e, uscito da Harvard, non esitò ad arruo-larsi, ma nonostante avesse sperato di essere tra iliberatori dell’Europa fu inviato a combattere nelPacifico, dove un commilitone lo descrisse comeun soldato che passava più tempo a combattere isuperiori che il nemico. Il carattere provocatorio eaggressivo era già formato, così come l’insofferen-za per ogni tipo di imposizione irrazionale. La suaesperienza al fronte divenne il soggetto di parten-za per il capolavoro giovanile Il nudo e il morto, ilromanzo che lo rese una star della letteratura a soliventicinque anni. Il libro, tradotto in tutto ilmondo, venne accolto come uno dei casi letteraripiù importanti dell’epoca ed ebbe ovunque recen-sioni osannanti con l’eccezione di Mary McCarthy,

Norman Mailer, il pacifista sempre in guerra

Antonio Monda, La Domenica di Repubblica, 11 novembre 2007

Se ne è andata ieri a ottantaquattro anni una delle voci più potenti d’America. Famoso già a ven-t’anni, polemista, attivista politico, libertario, pugile e sindaco mancato, attore. Ma anche vio-lento nella vita privata, sregolato, odiato. Uno scrittore che insieme a Truman Capote cambiò persempre il modo di raccontare il mondo, la guerra, gli abissi della mente umana. Tutti posti in cuivedeva la vittoria del male sul bene

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che parlò di «ambizione più che di talento» e diGore Vidal, che arrivò a metterne in dubbio l’au-tenticità. Due anni dopo consegnò alle stampe Lacosta dei Barbari, che fu accolto tiepidamente, equindi decise di rivolgersi ad Hollywood, dovecercò di ottimizzare commercialmente il propriosuccesso editoriale, ma l’avventura si rivelò unagrande delusione.

Il nudo e il morto divenne un film solo molti annidopo per la regia di Roul Walsh, e Mailer si dedicòinsieme a Jean Malaquais alla scrittura di una sce-neggiatura che non venne mai realizzata. Entròrapidamente in contrasto con i principali produt-tori hollywoodiani (in particolare con SamGoldwyn che aveva l’abitudine di riceverlo inaccappatoio) e dopo essere tornato a New Yorkcominciò a scrivere un nuovo romanzo intitolatoThe dear park, basato sulle esperienze nella fabbri-ca dei sogni. Nonostante fosse ancora viva l’ecodello straordinario successo di Il nudo e il morto, ilnuovo libro faticò a trovare un editore, e venneaccolto da critiche negative. Sul momento sembròche Mailer abbandonasse per sempre il cinema, mail tempo dimostrò che si trattava di un rapportointimo e intenso; in seguito si cimentò nella regia(adattando con scarsi risultati il suo romanzo Iduri non ballano), nella recitazione (tra i tanti filmha partecipato a Ragtime di Milos Forman e Re Leardi Jean Luc Godard) e, ovviamente, nella sceneg-giatura; è sua la prima stesura di C’era una volta inAmerica, scritta su richiesta di Sergio Leone che poila bocciò dopo aver detto all’amico “sei un grandescrittore mai non sei fatto per il cinema”.

Innumerevoli le partecipazioni in cui interpretase stesso, tra le quali la più memorabile rimanequella in Quando eravamo re, dove rievoca l’incontrodi boxe Ali-Foreman che raccontò anche in uno deisuoi libri più appassionati: Il Match. La delusionecinematografica e il disincanto verso il mondo del-l’editoria lo convinsero a tentare altre strade: sonogli anni in cui si dimostrò un saggista di prim’ordi-ne con analisi sociali come The White Negro e unpamphlettista appassionato con i celebri interventisulla guerra in Vietnam. Ma furono soprattutto glianni in cui si rivelò un motore della cultura ameri-cana con progetti quali The Village Voice, settimana-le alternativo che acquistò immediatamente unadimensione di culto e che lo vide tra i fondatori. Èil periodo in cui si trasferisce nel Greenwich Villagee si appassiona alla cultura “hipster”, ma anche ilmomento dei maggiori eccessi e violenze: nel 1960

dopo una notte di droghe e alcool accoltellò laprima moglie Adele, che lo salvò dal carcere nonsporgendo alcuna denuncia, ma poi raccontò tuttonel libro autobiografico The last party. Da un puntodi vista della saggistica, si tratta probabilmente delperiodo più felice: nei suoi scritti, raccolti principal-mente in Advertisment for myself, Mailer esamina laviolenza, l’isteria, il disordine della società america-na dell’epoca con un’energia prettamente statuni-tense ma anche sotto l’influenza di alcuni autorieuropei studiati ed amati profondamente, a comin-ciare da Jean Genet. Tra i libri più importanti diquel periodo ci sono The presidential papers, Cannibalie Cristiani, nel quale accusò gli scrittori americani dinon dare una visione chiara della propria realtàsociale e culturale, e, soprattutto, The armies of thenight, nel quale raccontò la marcia pacifista del 1967a Washington e grazie al quale vinse il premioPulitzer. Mai come in quel periodo si aggiunseall’energia e all’intelligenza dell’argomentazione unapproccio aggressivo sino alla provocazione, e lapubblicazione di The prisoner of sex lo fece diventa-re uno dei bersagli preferiti delle femministe: inSexual Politics Kate Millet lo definì senza mezzi ter-mini un «porco maschilista». Mailer accettò dibuon grado lo scontro in numerosi interventi pub-blici che alimentarono la tensione delle polemiche,poi scrisse un libro su Marilyn Monroe che fu mas-sacrato dalla critica (John Simon lo definì «politica-mente demente») ma divenne un successo interna-zionale, e quindi Executioner’s Song, forse il migliorlibro di “new journalism” dai tempi di A sangue fred-do. Truman Capote, che soffrì la rivalità di Mailernon meno di Gore Vidal, reagì con fastidio a quel-la che visse come un’invasione di campo, eparagonando il suo libro a quello di Mailer sugliultimi giorni del condannato a morte Gary Gil-more definì Executioner’s Song il testo di «un cor-rettore di bozze».

Dopo il tentativo di candidarsi a sindaco diNew York (ebbe solo il sei per cento dei voti),Mailer cominciò ad appassionarsi anche alla politi-ca internazionale e decise di visitare l’UnioneSovietica che definì «non tanto l’impero del male,quanto un paese del terzo mondo». È il momentoin cui codifica nei saggi e nei romanzi con maggiorprecisione il parallelo tra gli Stati Uniti e l’imperoromano, ritagliando per sé il ruolo di Petronio. Illibro più significativo di questo periodo è Antichesere, che sorprese la critica per l’ambientazione nel-l’antico Egitto. Dopo l’incerto risultato di I duri non

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ballano, un violento noir ambientato nel mondodella boxe, Mailer raggiunse una delle punte piùalte della sua produzione con Harlot’s Ghosts, unacronaca spietata ed inquietante delle attività dellaCia. Meno riusciti i successivi Oswald’s Tale dedi-cato al presunto assassino del presidente Kennedy,e Vangelo secondo il Figlio, una rivisitazione delVangelo sulla falsariga dei testi di Saramago eKazantzakis, che fu accolta molto tiepidamente.

Gli ultimi anni sono stati caratterizzati dallapubblicazione di numerose antologie e dalla pre-

parazione del grande romanzo americano cheinvocava dai tempi di Cannibali e Cristiani.Esemplare la scelta tematica dei due ultimi libri:nel Castello nella Foresta ha individuato in Hitler unavera e propria incarnazione del demonio, quindiha dato alle stampe On God, un testo nel quale sidefinisce un esistenzialista che crede nell’esistenzadi Dio, si interroga sul perché l’Onnipotente abbiabisogno di essere amato, e quindi si dichiara con-vinto che il diavolo stia vincendo l’eterna battagliatra il bene e il male.

Il nudo, il morto e il new journalism

Nadia Fusini

Indimenticabile: rauca, non parlo della sua voce naturale, ma della voce che ogni vero, autentico, scrittore sicostruisce scrivendo. E di quella altrettanto artificiale che sfoggiò nel bellissimo documentario su e con

Mohammed Ali, Quando eravamo re, di Leon Gast. All’epoca, nel 1996, Mailer aveva più di settant’anni, ed era bel-lissimo per la straordinaria ironia con cui esibiva la faccia stanca, l’età avanzata, la senilità sessuale. E il suo amoreper la boxe, e insieme per i neri, per lo sfidante Ali, per Miriam Makeba. E il suo disprezzo per il rinnegato GeorgeForeman, per il tiranno Mobutu.

Era un tipo esibizionista, Norman Mailer. Voleva essere osceno. Aveva ben presto deciso che la sua vicenda discrittore fosse pubblica, in questo erede del protagonismo di Hemingway, ma anche di certi giganti della lettera-tura americana come Emerson e Whitman, che come ben si sa hanno un’idea profetica della parola. Per i quali par-lare, e tanto più scrivere, sono atti rivolti alla correzione; bisogna correggere le storture del mondo. Che altro do-vrebbe fare lo scrittore? La sua è una vocazione pastorale, l’esercizio di un carisma. D.H. Lawrence, figuracertamente carismatica, riconosce nella letteratura americana quel vizio, che altri potrebbe chiamare virtù; ovvero,la smania (lui dice «la solita smania») di salvare la gente, l’idealismo. Il modo dell’accusa è sempre violento, provo-catorio in Mailer. Norman non avrebbe mai e poi mai potuto scegliere il silenzio allucinato di Salinger. Né nascon-dersi nella paranoia come Pynchon. Né costruirsi un castello murato dal disprezzo come Roth. Non era nel suocarattere stare con le mani in mano. Mailer era un interventista, doveva dire la sua. Non poteva stare zitto. È statoa tutti gli effetti un polemista brillante e un commentatore sociale, politico, e letterario sulle colonne del VillageVoice e di Dissent di straordinaria intelligenza. Quando ho saputo che è morto, d’istinto sono tornata a prendere inmano Pubblicità per me stesso, del 1959: nella traduzione di Materassi e Serpieri per Bompiani, dove uscì nel 1978.

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Era già uscito per Lerici nel 1962, ma io l’ho in edizione Bompiani, dove si fatica a leggere, tanto minuscoli sonoi caratteri, e sbiadito l’inchiostro. Come «un bellimbusto vanitoso, vuoto e prepotente» si presenta l’autore, in unaconfessione che lui stesso definisce «aggressiva». Rivela anche di avere aspirazioni «eroiche», e proprio questo lofa soffrire: è difficile essere eroi in tempi tanto gretti e stupidi. In una società cripto-fascista, farisaica. Si rischia didiventare il tipo del vanaglorioso, una specie di comico, anzi patetico miles gloriosus, se l’unica arma è la rivolta, laprotesta. Mailer accetta il rischio: protesta sempre. E negli anni si produce in una virtuosistica performance dellaprovocazione sui temi più disparati: dal sesso alla guerra alla politica ai neri agli ebrei alla droga al delitto al jazzalla psicoanalisi. E se le sue idee vengono considerate sconce, beh, lui cerca la rissa. Gli piace davvero la boxe.Quanto alla forma espressiva, non ha neppure il tempo di chiedersi quale e come… In Francia scrittori comeRobbe-Grillet o Nathalie Sarraute, si prendevano il lusso di porsi il problema del nouveau roman, di un romanzocioè che non dimenticasse le grandi rotture del modernismo, forse perché la realtà da rappresentare non era altret-tanto urgente. In America Truman Capote e Norman Mailer inventavano senza saperlo un nuovo genere. Non più“fiction”, la forma che scelsero si potrebbe piuttosto definire “faction”, un ibrido di fatti e di invenzione, unanuova creazione dall’identità borderline, una specie di “reality” ante litteram, qualcosa che la televisione di lì a pocoavrebbe fatto anche meglio, in un certo senso. Si trattava di riprendere in presa diretta la vita mentale dell’assassi-no condannato a morte, la cui vita e morte diventavano parte dell’esistenza dello scrittore, e non perché lo scrit-tore si identificasse col proprio personaggio, ma perché l’esperienza della scrittura realmente avvicinava scrittoree personaggio. Si trattava di ricostruire la marcia di protesta dei pacifisti contro il Pentagono, di dare conto delleArmate della notte, in un romanzo in cui chi scrive dichiara ad apertura di libro: «Io, Norman Mailer, presi parte allamarcia nell’ottobre 1967 contro la guerra in Vietnam, fui arrestato. E dopo che uscii di prigione, arrivato a casa,cominciai a scrivere – carburante la rabbia – di quel che era successo e succedeva. È per sfogare la rabbia che mifeci cronista della gente anonima e arrabbiata come me – gli hippies, i giovani pacifisti che bruciavano le cartoli-ne che ordinavano la leva».

Sì, Norman Mailer è stato per molti versi il bardo dell’America contemporanea, quell’America che abbiamoamato e amiamo; così come amiamo il suo sogno americano, e il suo eroe hipster, il ribelle che emana energie psi-chiche, sessuali non represse, o il suo eroe esistenziale alla John Kennedy. O alla Marilyn Monroe.

Per onorare la sua memoria vi invito a rileggere Il nudo e il morto, del 1948: dove il tema è la guerra, così comes’imprime e deforma il cuore e la mente di un gruppo di uomini esposti alla sua esperienza; i quali, se ne patisco-no, è soprattutto per l’inutilità. L’azione di ricognizione del manipolo americano tra le montagne inaccessibili del-l’isola alle spalle dei giapponesi risulterà infatti superflua; chi è morto, è morto inutilmente. E il saggio Il negro bian-co, che apparve su Dissent nell’estate del 1957. E perché no, vi invito a rivederlo nel film Quando eravamo re, lui cheera davvero Re, e cioè Norman Kingsley Mailer.

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Norman Mailer ha trascorso i suoi ultimianni a Provincetown, nel Massachusetts,lontano da New York. L’aria della città

mi fa male, diceva. Per uno che ha passato quasitutta la sua vita a sgomitare nel mondo con l’ir-ruenza, l’arroganza, il passo dell’uomo metropoli-tano, il luogo del tramonto è come la chiusura diun cerchio storico: Provincetown è il piccolo cen-tro in riva al mare da cui gli intellettuali, e le intel-lettuali, più intraprendenti diedero vita alla rivolu-zione culturale statunitense di un secolo fa.

Erano stati loro a creare il Greenwich Villageanticonformista, femminista, di sinistra che sareb-be poi stato uno dei luoghi-cardine nell’esperienzapersonale di Mailer, dopo gli studi di ingegneriaaeronautica a Harvard, dopo la guerra combattutanel Pacifico nel 1944-’45, e dopo le esperienze diParigi e di Hollywood, con le quali aveva ripercor-so molti dei sentieri che gli artisti e scrittori del suopaese avevano battuto prima di lui. Il Village avevacontato talmente tanto per Mailer che, nel 1955,aveva fondato un giornale chiamandolo The VillageVoice.

La Voice, su cui lui stesso tenne una rubricafissa, fu una delle bocche di ventilazione attraver-so cui l’inquietudine indistinta di quegli anni usci-va dai sotterranei del quartiere-colonia di NewYork dopo esservi stata rigenerata in forma di lin-guaggi poetici, narrativi, pittorici, musicali. LaVoice iniziò le pubblicazioni nell’ottobre 1955:anche se Joe McCarthy era stato censurato dalSenato meno di un anno prima, il «maccartismosenza McCarthy» e la guerra fredda continuavano;la desegregazione scolastica era diventata legge da

un anno, ma continuava; nel giro di poco più di unmese sarebbe iniziato il boicottaggio degli autobusa Montgomery, guidato da Martin Luther King, ele due grandi centrali sindacali, Afl e Cio, si sareb-bero riunite. Quel giornale e quegli anni furono lapalestra in cui Mailer si attrezzò per diventare unodegli inventori del new journalism, la cronaca «taglia-ta» e raccontata in prima persona con tutta la stru-mentazione linguistica e stilistica del narratore,invece che con l’impersonale obiettività volutadalle regole tradizionali del reporting. Non era certoil fegato della prima persona a mancargli, anchecome narratore; neppure la schiettezza del dire. Ilnudo e il morto, il romanzo che pubblicò venticin-quenne nel 1948, intrecciava le esperienze perso-nali con il racconto crudo dei fatti della guerra.Salutato subito come il miglior romanzo sullaseconda guerra mondiale, rompeva, più che glischemi narrativi, le convenzioni del patriottismo.Nel recensirlo, Time disse che Mailer riportava con«un realismo semplice», «una onestà quasi infanti-le» ma anche con un pieno «controllo del linguag-gio comune» e una buona dose di umorismo, lemille diverse brutture della guerra. Nei romanzisuccessivi – Barbary Shore, Deer Park, An AmericanDream – la forza dirompente del primo si attenuò.

Quella del realismo, inteso come non trattenu-ta disposizione a esprimere la verità dei sentimen-ti, dei pensieri e delle situazioni, inclusi contraddi-zioni e paradossi, era la cifra più vera del Mailerscrittore e intellettuale. Hemingway e Dos Passoserano stati i suoi modelli. Ma quando la PartisanReview gli chiese di dire la sua in un simposio sulla«America e gli intellettuali», nel 1952, Mailer rispo-

La sua grandezza nella sfida della realtà

Bruno Cartosio, il manifesto, 11 novembre 2007

Lo scrittore americano che aveva inventato il “new journalism” e fondato The Village Voice èmorto ieri, ottantaquattrenne, a New York. Esordì nel ’48 con Il nudo e il morto, che resta il ver-tice della sua narrativa. Alla fine degli anni ’50 divenne il cantore del movimento beat. Poi impe-gnò la sua scrittura contro la guerra del Vietnam e raccontò la marcia del ’67 sul Pentagono. Nellasua opera un trionfo di stereotipi sessisti

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se duro: «Scrittori tra i più grandi, Dos Passos,Farrell, Faulkner, Steinbeck e Hemingway sonopassati dall’opposizione a misure diverse di acco-modamento... nei confronti del Secolo Ameri-cano». Non è casuale, continuava, che la loroopera recente sia «singolarmente vuota e flatulen-ta». È andata perduta la «convinzione dell’efficaciadello sfidare la società, senza nulla che rimpiazzas-se la necessità della sfida».

Lo scrittore non poteva rinunciare alla sfidadella realtà. Negli anni ’50, la Voice fu parte dellasua risposta a quella necessità. E quando la sporcaguerra in Vietnam si pose come discrimine – o diqua o di là – Mailer scrisse le sue pagine più fortie chiare: Perché siamo in Vietnam? (1967), Le armate

della notte e Miami e l’assedio di Chicago (1968). Il newjournalist, il polemista, lo scrittore di invettive conil gusto del grottesco e del paradosso e perfino loscrittore di boxe – i testi sull’incontro Alì-Foremandel 1975 sono bellissimi – sono quelli che piùhanno contribuito alla sua grandezza.

L’età non sottrasse energia alla scrittura diNorman Mailer, né al suo spirito. A distanza ditrentasei anni dal 1967 ebbe ancora la forza dirimettersi sulle barricate come ai tempi delVietnam, pubblicando a caldo un pamphletsull’Iraq, Perché siamo in guerra?, denunciando la«direzione imperiale» della politica statunitense eindicando in George W. Bush la vera minaccia perla democrazia del suo paese.

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Diciamo subito, per enfatizzare la retoricain un articolo che rischia di essere retori-co, che per me la Mondadori è madre,

moglie, sorella, amante, amica, zoccola e anche unpo’ figlia. Non sono dunque l’individuo più adattoper parlarne in occasione del suo centenario. Ma sipresume di sì, perché della Mondadori sono statoe sono autore di libri, prima e dopo essere statodirettore e collaboratore di riviste (Storia illustrata ePanorama) e di collane, direttore editoriale delladivisione libri, amico di Leonardo Mondadori e dibuona parte dell’attuale dirigenza. Capite bene cheè forte il rischio di stendere un pistolotto celebra-tivo, e davvero vorrei evitarlo. Allora, come neitest psicologici, meglio prendere la prima impres-sione uscita dalla memoria e tirare quel filo. Nel1986 ero da poco seduto sul trono più alto del-l’editoria libraria italiana, a Segrate, e senza volerloprovocai una polemica da spanciarsi dalle risate.Decisi di pubblicare un libro di plastica, da legge-re sotto la doccia, come quelli che oggi si usano amo’ di giocattolo durante i bagnetti ai bambini (maallora non esistevano ancora). Era un’idea diver-tente di Roberto D’Agostino e mi divertì farlo conlui, sicuro del successo commerciale. Apriti cielo.Infatti dal cielo della cultura e dall’alto dei giorna-li piovvero sul mio capo fulmini e tuoni. Doveandremo a finire, se la più grande casa editrice ita-liana, la casa dei Meridiani e dello Specchio, dei piùgrandi autori del Novecento, si mette a pubblicaregiocattoli, libri-oggetto, idiozie? Andò a finire cheil libro vendette moltissimo, e l’unico vero proble-ma furono le difficoltà a ristamparlo, perché, seavevamo migliaia di tonnellate di carta, non aveva-

mo pensato a rifornirci di plastica. Poi laMondadori continuò a pubblicare i Meridiani e gliSpecchi, gli autori più grandi del Novecento e ascoprirne di nuovi. Tanto che, all’interno della suaimmensa produzione, è – anche e ancora – la casaeditrice che produce più cultura. Questo è il segre-to (di Pulcinella) della Mondadori. «L’editoria èuno strano mestiere», ha detto Gian ArturoFerrari, oggi a capo dell’editoria libraria dell’interogruppo: «Usa lo spirito per fare i soldi, e i soldi perfare lo spirito». Grazie ai «libri di plastica», più cheai Meridiani, la Mondadori ha potuto salvarel’Einaudi dalla chiusura, come grazie al libro diplastica potei affidare a Pier Vittorio Tondelli unacollana di narrativa sperimentale certamente desti-nata al passivo economico.

La Mondadori ha un catalogo dove c’è tutto eil contrario di tutto, dai padri della Chiesa agli anti-clericali più aspri. Ha interessi e attività molteplici,dalle riviste alle librerie, per dire soltanto i piùovvi. Eppure – sarà una suggestione, ma noncredo – nel palazzone di Niemeyer si respira un’al-tra aria rispetto alle aziende che fanno altre cose,come la confinante Ibm. I libri cambiano e sedu-cono anche l’atmosfera, pure se vengono usati,come vengono usati, a paravento contro gli sguar-di altrui, nella periclitante intimità dell’open space.Certo è che la modernità dell’edificio e delle tecni-che editoriali non ha annullato una tradizionelibraria antica e, ormai, centenaria. A parte settoridi nicchia, lo stesso libro vende di più se pubblica-to a Segrate, per la potenza commerciale dellaMondadori, ma non è solo per questo che è la casaeditrice più ambita. A me sentimentalone, per

Sorella, madre, amante da sempre nella mia vita

Giordano Bruno Guerri, il Giornale, 14 novembre 2007

Nella sua storia anche un volume di plastica. Fu molto criticato ma vendette tanto

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esempio, emoziona che il mio prossimo libro, sud’Annunzio, esca nella stessa casa editrice cheottant’anni fa fu quella del Vate. Il quale, menosentimentale, chiamava Arnoldo Mondadori«Montedoro».

Quanto alla famiglia, non ho mai conosciutoArnoldo né Alberto, ma Leonardo e sua madreMimma sì. A Leonardo, scomparso troppo presto,ho voluto bene prima di lavorare con lui e mistrugge ancora il ricordo di una vacanza chefacemmo insieme, sulla sua barca, alla fine del1984. Era il periodo della grande crisi della casaeditrice, messa in pericolo dall’investimento televi-sivo e dall’assalto di Carlo De Benedetti. Leonardonon si godette un minuto di vacanza. Appas-sionato com’era di tecnologie, aveva fatto un

ponte radio e anche in mezzo alle tempeste eraincollato all’apparecchio, per cercare investitoriche gli permettessero di salvare l’azienda.«Marmaris Radio, Marmaris Radio», lo sentivamodire tutto il giorno, dal ponte, mentre cercava ilcollegamento. Mi disse che con cinquecento milio-ni si poteva addirittura entrare nel consiglio d’am-ministrazione. Ma io quei soldi non li avevo ecomprai poche azioni, che un anno dopo valevanododici volte il prezzo d’acquisto. Era buono, gene-roso e amava la sua casa editrice e il suo lavoro,con vera passione d’editore. Caro Leonardo. Ungiorno litigammo, e non mi sono mai perdonato lamia ira di allora, anche se poi facemmo pace.Siccome questo centenario lo sento anche un po’mio, glielo dedico.

La casa dei lettori

Caterina Soffici, il Giornale, 13 novembre 2007

Sono sempre i particolari a fare la storia e quella di Arnoldo Mondadori e della casa editrice che porta il suonome potrebbe essere scritta attraverso piccoli episodi che sicuramente evitano di cadere nella retorica cele-

brativa. Si potrebbe partire dal diploma di V elementare del figlio di un ciabattino di Poggio Rusco, nell’oltrepòmantovano, poi garzone di drogheria, venditore ambulante con cavallo e carretto e quindi tipografo, che nel 1907diventa editore e stampa la rivista anarcosocialista Luce! Si potrebbe parlare della terzina dantesca “In su la cima”(avvolta sullo stelo di una rosa piena di spine), scelta dal poeta ligure Francesco Pastonchi come motto della casaeditrice. Si potrebbe raccontare che Aia Madama di Tomaso Monicelli, uscito nel 1912, fu in assoluto il primo librodell’avventura di Arnoldo Mondadori e da lì prese avvio la moderna industria editoriale italiana.

I cento anni della Mondadori si possono anche raccontare per fotografie, come hanno deciso di fare a Segrate.Ne hanno raccolte 4000 in 840 pagine per dare vita a un mastodontico volume: Album Mondadori 1907/2007.Ideato da Gian Arturo Ferrari e supervisionato da Rossella Citterio e Roberto Briglia, parla da solo, attraverso ledidascalie asciutte, senza censure e senza imbarazzi anche dei periodi più critici, quello fascista e quello della guer-ra editoriale tra De Benedetti e Berlusconi per il controllo della casa editrice e il «drammatico passaggio di pro-prietà» come ha detto Ferruccio de Bortoli che ieri ha moderato il dibattito per la presentazione dell’Album traPaolo Mieli, Ezio Mauro, Roberto Briglia e Gianni Ferrari.

Impossibile riassumere un secolo di avventura editoriale, dagli anni Trenta con l’intuizione dei gialli, le primecollane per l’infanzia, Topolino, le edizioni della Medusa (finestra sulla cultura internazionale nell’Italia autarchi-ca), al dopoguerra con i settimanali, la fantascienza con Urania, i femminili, gli Oscar. Certo, se è impossibile spie-gare tutto questo nei dettagli si può però raccontare come la Mondadori non abbia mai tradito la sua vocazioneiniziale, che era popolare ma di qualità, incarnata nel motto di fare tutto per tutti con un catalogo enorme, popo-lare ed esclusivo. Come ha messo in evidenza Maurizio Costa, vicepresidente e amministratore delegato della casaeditrice di Segrate: «L’industria editoriale concepita originariamente dal fondatore coniugava, come ora, qualità emodernità dei prodotti con una visione non elitaria della cultura».

La chiave dei cento anni di Mondadori Editore l’ha riassunta Gianni Ferrari leggendo le parole dello stessoArnoldo in una lettera a Virgilio Brocchi del 1937: «Sono il consigliere delegato di una piccola società editrice natain Ostiglia, cresciuta a Verona. Ho stampato fino ad ora solamente, o quasi solamente, libri scolastici. Ho una gran-de ambizione: dare all’Italia la bella casa editrice che ha diritto di avere. Non ho bisogno di danaro: ho solo biso-gno di simpatia». Simpatia. Ne ebbe molta Arnoldo per i suoi autori, coccolati, vezzeggiati e strapagati (leggenda-

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rie le novemila lire a Gabriele D’Annunzio) che ammaliava con la parlantina e il suo carisma, da cui l’abusatosoprannome di “incantabiss” (incantatore di serpenti). La sua casa di piazza Duse a Milano (in affitto perchéArnoldo non faceva mai il passo più lungo della gamba) e la villa di Meina erano sempre aperte agli scrittori, chetalvolta vi soggiornavano per giorni: le bevute di Hemingway, le chiacchiere con Thomas Mann, Piovene, Montale,Soldati, D’Annunzio.

Che Mondadori sia l’editore che ha fatto l’Italia lo si può dire senza paura di cadere nella retorica. E a questoproposito ci piace riportare le parole (finora inedite) che gli indirizzarono tre dei suoi autori più prestigiosi in occa-sione del cinquantesimo anniversario della casa editrice, nel 1957. Elio Vittorini gli riconosce il merito di «produr-re sempre più vaste categorie di lettori» tanto che «si potrebbe considerare l’attività della Mondadori come dellostesso tipo di quella svolta dalle scuole pubbliche (elementari, medie e universitarie)». Forse ancora più lusinghie-re le parole del poeta Ungaretti: «Fu nel 1942. Arnoldo volle accogliermi tra i suoi autori, e da quel giorno la miapoesia, che dicevano ermetica, s’è fatta popolare. Era sempre stata, come ogni buona poesia, segreta e anche popo-lare. Ma per farlo capire a tutti, ch’era anche popolare, ci voleva un miracolo, uno di quei miracoli che solo l’edi-tore Mondadori sa campiere». Ma si capisce cosa abbia significato la Mondadori, le sue edizioni popolari, le suecollane, i suoi periodici, leggendo anche le parole di questo testo inedito di Maria Bellonci: «Per telegrafare aMilano, chiamai una sera al telefono la signorina addetta ai telegrammi; mi rispose come al solito martellando lavoce, professionalmente astratta. Cominciai a dettare l’indirizzo: “Arnoldo…”. “Come?”. “Arnoldo” scandii accu-ratamente. “Arnoldo come Mondadori?” chiese quella dea dell’indifferenza. “Infatti: Mondadori”. Così il nome diArnoldo suggella il suo mito».

Ecco, forse rischiando di cadere nell’inevitabile trappola della retorica, non si esagera a dire che Arnoldo è statol’inventore di un nuovo modo di fare cultura e la Mondadori la casa dei lettori italiani.

Un secolo di loghi Mondadori

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Per troppo tempo il lettore italiano ha cono-sciuto uno dei più grandi romanzi delVentesimo secolo in una traduzione che,

seppure d’autore, non gli rende giustizia. Per erro-ri, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luced’agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confinidello scempio letterario. Finalmente, grazie allacura di un fine conoscitore come Mario Materassi,questo capolavoro è stato ora restituito al suo ori-ginale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23).William Faulkner lo portò a compimento pocodopo essere diventato una celebrità. Fin dall’iniziodella carriera si era guadagnato discrete e talvoltaottime recensioni, ma fu soltanto nell’autunno del1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscita-to davvero molta sensazione» scrisse alla moglierimasta in Mississippi riferendosi al clamore perSantuario, uscito una decina di mesi prima.«Adesso sono la più importante figura letteraria inAmerica. Mi aspetta un grande futuro».

Genesi di un titoloFu in effetti un periodo molto intenso. Faulknerera un trentenne nel pieno delle forze. Aveva giàdato alle stampe due romanzi del calibro di Mentremorivo e L’urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scrit-to anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato aHollywood. In California lavorò alla sceneggiaturadel Grande Sonno e di un altro film tratto da unromanzo di Hemingway, diventò amico diHumphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve moltocome era suo costume da sempre e si fece una sto-ria con la segretaria del regista Howard Hawks. Sulpiano letterario, furono gli anni in cui diede corpo

al mondo di Yoknapatawpha, l’immaginaria con-tea del Sud dove ha ambientato gran parte dei librie che è ormai un luogo mitico del Novecento.Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la formaromanzo ai suoi limiti estremi.

Sotto questo aspetto, Luce d’agosto rappresenta,almeno in parte, un’eccezione. Stilisticamente èforse il suo romanzo più accessibile. Una precisaragione indusse Faulkner a servirsi di una linguameno audace del solito, una ragione che va cerca-ta proprio nel titolo. I biografi raccontano che lotrovò in una sera d’estate. Era seduto in veranda acontemplare il tramonto quando la moglie fece uncommento del tipo «Non c’è nulla come la luce diagosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si pre-cipitò nel suo studio e dopo avere cancellato iltitolo cui aveva pensato in un primo momento,Dark House, appuntò a matita in cima al dattilo-scritto «Light in August», che in inglese ha un dop-pio significato: perché «light» vuol dire anchenascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato checominciò a costruire la trama partendo per l’ap-punto dall’immagine di una ragazza povera eincinta, fermamente intenzionata a trovare il suoinnamorato. E così si apre il romanzo: con LenaGrove che arriva a piedi dall’Alabama nella conteadi Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, ilpadre del bambino che porta in grembo. A quan-to le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in unasegheria della piccola città di Jefferson. Giunta sulposto Lena trova un quasi omonimo, un certoByron Bunch, il quale non ci mette molto a ren-dersi conto che l’uomo colpevole di avere sedottoe abbandonato la ragazza è in effetti un giovane

La luce di Faulkner nei vicoli di Nakagami

Tommaso Pincio, il manifesto, 15 novembre 2007

Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d’agosto»,un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parlaNakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi

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Oblique Studio

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contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con ilnome di Joe Brown e al momento rinchiuso nellepatrie galere in seguito all’omicidio di una donna,il cui responsabile è però un negro dalla pelle chia-ra destinato a fare una brutta fine. Quest’ultimo èil vero protagonista del romanzo, il perno attornoal quale Faulkner fa ruotare e precipitare i senti-menti più oscuri degli abitanti di Jefferson.

Misterioso e sfuggente, per metà bianco e permetà nero, carnefice e martire al tempo stesso,Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo,un personaggio indimenticabile che, al pari delcapitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby diFitzgerald, merita un posto nei piani più alti delpantheon degli antieroi della letteratura america-na. Silenzioso, appartato, l’aria tranquilla e soddi-sfatta, Joe Christmas è tormentato al suo internoda forze tanto violente quanto di origine indefi-nita, restando perciò un enigma sia per se stessoche per gli altri, inclusi noi lettori. E questononostante le tante cose che vengono rivelate sulsuo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbea sottolineare lo stesso Faulkner, l’idea tragica ecentrale di questa storia consiste proprio nel fattoche egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprir-lo. Il suo incoerente e dubbio modo di agirediventa pienamente comprensibile se giudicato inquesta prospettiva: non conoscere se stessi signi-fica non poter mai essere la stessa persona, il chepreclude anche la possibilità di un normale inse-rimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identi-tà – prima ancora del delitto di cui si macchia – afarne un paria. D’altra parte, la grandezza delromanzo consiste proprio nella sua ambiguità,nel lasciare solo il lettore con questioni enormi eirrisolvibili.

Una luce che viene dal mito«Nella mia terra la luce ha una sua qualità partico-larissima; fulgida, nitida, come se venisse non dal-l’oggi ma dall’età classica» dice lo scrittore a pro-posito del titolo. I personaggi di Luce d’agosto ciappaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi emeschini come gli dèi dell’antica Grecia. Le loromiserevoli vicende ci parlano di una condizioneuniversale e se Faulkner ha usato una lingua che sadi orale e antica semplicità è perché voleva resti-tuirci il senso di una narrazione epica, frutto di unintrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, con-traddicono e sovrappongono, fino a condensarsiin un magma fluido, caldo e avvolgente, dove pas-

sato e presente, verità e menzogna, tragedia ecommedia convivono.

Spesso in Luce d’agosto, quel che noi lettori dob-biamo sapere ci viene riferito non dal convenzio-nale narratore onnisciente di romanzesca fattura,bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto,dallo sparlare della gente che crea da sé e senzaquasi rendersene conto le leggende della sua pic-cola comunità. Insomma, la luce a cui pensaFaulkner è quella che emana dalla voce del mito eche fa dell’immaginaria contea di Yoknapatawphaun nuovo Olimpo. In virtù di questa voce perce-piamo Jefferson come un’entità viva e pulsante,coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte èquesta percezione quanto più tragicamente palpa-bile diventano isolamento ed emarginazione di JoeChristmas e degli altri paria del romanzo come,per esempio, il reverendo Hightower.

Non ci sono parole sufficienti per dare aFaulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste unparadiso dei lettori, di sicuro è Luce d’agosto.L’influenza che ha esercitato in America nel corsodegli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavorilasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori enuove storie nei luoghi più inaspettati. InGiappone, per esempio.

Difficile immaginare un paese più distante persensibilità e composizione sociale dal Mississippirazzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esi-ste – o per meglio dire è esistito, visto che è scom-parso nel 1992 – uno scrittore che ha ricavato daibassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondoper molti versi assimilabile alla contea diYoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfererarefatte, essenzialità zen e scene di austera delica-tezza, perché di ben altra pasta è fatta l’umanitàche vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji inMille anni di piacere (Einaudi, a cura di AntoniettaPastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nel-l’impero del Sol Levante una minoranza discrimi-nata, una comunità di emarginati sparsi per tutto ilpaese e bollati con l’etichetta di burakumin, chealla lettera significa semplicemente «abitanti di unvillaggio» ma nei fatti indica i discendenti di unacasta di schiavi costretti ai lavori più umilianti esegregati in ghetti lontani dalle città.

Sul finire dell’Ottocento, con l’apertura delpaese all’Occidente, la divisione della popolazionein classi venne abolita per legge ma, come soventeaccade in casi del genere, il pregiudizio perdurò neltempo. Nonostante il forte impegno del

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Rassegna stampa 1-15 novembre 2007

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Movimento di liberazione buraku, ancora oggi cir-colano liste di persone di discendenza «impura» enon è raro che i genitori ingaggino un investigato-re per accertare le origini di un aspirante genero. Sitratta di una minoranza invisibile perché rappre-senta un problema del quale si preferisce non par-lare apertamente e soprattutto perché nulla tradi-sce all’apparenza l’identità di queste persone datenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 inun villaggio buraku, fu dunque naturale appassio-narsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza,i neri d’America, nonché all’opera di Faulkner che,insieme a Genet, considerava come uno scrittorerivoluzionario.

Un figlio della vergognaÈ probabile che a colpirlo in modo particolare siastato proprio un personaggio come Joe Christmas,nel quale il marchio della negritudine non è imme-diatamente visibile ma rappresenta comunque unamaledizione. In modo analogo, i protagonisti diMille anni di piacere sono uomini bellissimi e lus-suriosi destinati a morte prematura per una colpache non sanno di avere. La loro esistenza si com-pie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoran-za, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza,soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al letto-re: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso,viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagi-na è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si hal’impressione di immergersi in storie nobili e dalsapore epico. Questi bassifondi, che Nakagamichiama semplicemente Vicoli con la v maiuscolacome fossero il centro dell’universo, assurgono auna dimensione mitica e assoluta, tanto più che araccontare il fato degli sfortunati giovani è la lorolevatrice, una vecchia che alla maniera dei poetitiene tutto a mente, perché non conosce l’uso dellascrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti(pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di unafamiglia buraku il cui protagonista è un giovaneossessionato dalla figura paterna che ha avuto

contemporaneamente tre figli da tre donne diver-se, si consuma esattamente come una tragediagreca: nel sangue e nell’incesto, tra maldicenze eodi ancestrali. Per quanto possano sembrare estre-mi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella qualeè cresciuto Nakagami Kenji come l’immaginariacontea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippidei tempi di Faulkner. In un’intervista rilasciata nel1989 al quotidiano francese Liberation, l’autore sidefinì un «figlio della vergogna» che scrive per unpubblico che non può leggere i suoi libri.

«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono anal-fabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto impa-rare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché conl’occupazione americana fu istituita l’istruzioneobbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva dileggere, diceva che faceva diventare matti. Quandoripenso a questa formazione, mi viene da conside-rarla un lusso. La letteratura delle origini era di tiponarrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No eil Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione incui io ho sguazzato da piccolo».

Dal ghetto all’OlimpoPrima di intraprendere la carriera letteraria,Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbricadi auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto.Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò afrequentare gli ambienti di estrema sinistra, dovescoprì il jazz e scrittori occidentali come per l’ap-punto Faulkner, al quale fu spesso accostato dallacritica non soltanto per le effettive affinità, maanche per la difficoltà di collocare un’opera tantobrutale ed esplicita all’intero del panorama giappo-nese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso pre-mio Akutagawa.

Purtroppo, come i suoi personaggi, era destina-to a una morte prematura. Se ne andò per untumore ad appena quarantasei anni, in tempo peròper riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva vistonascere ed essere considerato uno degli scrittoripiù importanti del Novecento giapponese.

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