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La rassegna stampa di dal primo al 31 luglio 2009 O blique «Non scommetterei un soldo sulle nostre vite. La barbarie è arrivata al potere. Non fatevi illusioni: l’inferno regna» Joseph Roth Mario Baudino, «Il personaggio è mio e me lo gestisco io» La Stampa, 2 luglio 2009 3 Cristina Taglietti, «Romanzi e saggi, libri scolastici e d’arte: così Mondadori affronta la doppia sfida» Corriere della Sera, 2 luglio 2009 5 Dino Messina, «Nelle mani del Mulino il 60 per cento di Carocci: un polo per l’università» Corriere della Sera, 3 luglio 2009 5 Roberto Carnero, «Strega æ: il discusso tris di Mondadori» l’Unità, 4 luglio 2009 7 Goffredo Fofi, «Utopie a Mezzogiorno» Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2009 8 Alessandro Piperno, «Il sorrisino di Nabokov che umilia gli scrittori» Corriere della Sera, 5 luglio 2009 10 Valentina Pigmei, «Com’è virile questa scrittrice» Grazia, 7 luglio 2009 13 Isabella Bossi Fedrigotti, «Le dieci storie più belle di sempre. Ecco come far leggere i bambini» Corriere della Sera, 7 luglio 2009 15 Maria Serena Palmieri, «“Io, la democrazia e i bestseller. Editore al tempo di Berlusconi”» l’Unità, 8 luglio 2009 16 Domenico Peste, «I cadaveri privi di vita dello Strega» Il Riformista, 8 luglio 2009 18 Carla Benedetti, «Diavolo di un editor» L’espresso, 9 luglio 2009 19 Massimo Novelli, «Io, Giulio e una vita di libri» la Repubblica, 9 luglio 2009 22 Matteo Sacchi, «La lotteria degli scrittori» il Giornale, 11 luglio 2009 24 Bruno Quaranta, «Scorpire a 93 anni che l’Ulisse è un bluff» Tuttolibri della Stampa, 11 luglio 2009 26 Antonello Guerrera, «Chi ha paura di uscire con Dan Brown? Tutti i suoi colleghi» Il Riformista, 14 luglio 2009 29 rs_luglio09.qxp 30/07/2009 16.16 Pagina 1

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La rassegnastampa di

dal primo al 31 luglio 2009Oblique

«Non scommetterei un soldo sulle nostre vite. La barbarie è arrivata al potere. Non fatevi illusioni: l’inferno regna» Joseph Roth

– Mario Baudino, «Il personaggio è mio e me lo gestisco io»La Stampa, 2 luglio 2009 3

– Cristina Taglietti, «Romanzi e saggi, libri scolastici e d’arte: così Mondadori affronta la doppia sfida»Corriere della Sera, 2 luglio 2009 5

– Dino Messina, «Nelle mani del Mulino il 60 per cento di Carocci: un polo per l’università»Corriere della Sera, 3 luglio 2009 5

– Roberto Carnero, «Strega æ: il discusso tris di Mondadori»l’Unità, 4 luglio 2009 7

– Goffredo Fofi, «Utopie a Mezzogiorno»Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2009 8

– Alessandro Piperno, «Il sorrisino di Nabokov che umilia gli scrittori»Corriere della Sera, 5 luglio 2009 10

– Valentina Pigmei, «Com’è virile questa scrittrice»Grazia, 7 luglio 2009 13

– Isabella Bossi Fedrigotti, «Le dieci storie più belle di sempre. Ecco come far leggere i bambini»Corriere della Sera, 7 luglio 2009 15

– Maria Serena Palmieri, «“Io, la democrazia e i bestseller. Editore al tempo di Berlusconi”»l’Unità, 8 luglio 2009 16

– Domenico Peste, «I cadaveri privi di vita dello Strega»Il Riformista, 8 luglio 2009 18

– Carla Benedetti, «Diavolo di un editor»L’espresso, 9 luglio 2009 19

– Massimo Novelli, «Io, Giulio e una vita di libri»la Repubblica, 9 luglio 2009 22

– Matteo Sacchi, «La lotteria degli scrittori»il Giornale, 11 luglio 2009 24

– Bruno Quaranta, «Scorpire a 93 anni che l’Ulisse è un bluff»Tuttolibri della Stampa, 11 luglio 2009 26

– Antonello Guerrera, «Chi ha paura di uscire con Dan Brown? Tutti i suoi colleghi»Il Riformista, 14 luglio 2009 29

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– Mario Baudino, «Addio all’editor, ucciso dal mercato»La Stampa, 14 luglio 2009 31

– Dario Pappalardo, «L’arte di scrivere»la Repubblica, 15 luglio 2009 33

– Massimiliano Parente, «Killer letterari»Libero, 17 luglio 2009 36

– Claudio Magris, «Scrittori postcoloniali, l’alibi del trattino»Corriere della Sera, 17 luglio 2009 39

– Domenico Sica, «Scrittori da un’altra lingua»la Repubblica, 17 luglio 2009 41

– Tiziano Scarpa, «Le parole parlanti»L’espresso, 17 luglio 2009 43

– Vincenzo Latronico, «L’editing e la mia esperienza»Il primo amore, 17 luglio 2009 46

– Carla Benedetti, «“Editing” è un falso nome»Il primo amore, 17 luglio 2009 48

– Dario Voltolini, «Editing e scrittura»Il primo amore, 18 luglio 2009 52

– Massimiliano Parente, «Disputa sugli editor. Tagliare i romanzi è contro natura»Libero, 19 luglio 2009 53

– Giuliano Galletta, «Libri, le grandi manovre. Così crescono i gruppi editoriali»Il Secolo XIX, 19 luglio 2009 55

– Antonello Guerrera, «Non ho scritto un sequel, ma Holden è anche mio»il Riformista, 19 luglio 2009 57

– Vitaliano Trevisan, «Le inutili denunce dei nostri scrittori»la Repubblica, 21 luglio 2009 59

– Maurizio Bono, «Il ciclone Bolaño e il successo degli scrittori postumi»la Repubblica, 23 luglio 2009 61

– Mirella Serri, «Nelle umane ferite, per mano al dottor Céline»Tuttolibri della Stampa, 24 luglio 2009 63

– Filippo La Porta, «Un memento mori tra i gialli di Simenon»Il Riformista, 26 luglio 2009 65

– Stenio Solinas, «Joseph Roth: un bevitore poco santo»il Giornale, 26 luglio 2009 67

– Roberto Coaloa, «Povere biblioteche d’I-taglia»Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2009 70

– Maria Novella De Luca, «Addio alla scrittura. Perché i ragazzi non sanno più scrivere»la Repubblica, 28 luglio 2009 72

– Alessandra Farkas, «Strout: la vera America e il mio orgoglio bianco»Corriere della Sera, 29 luglio 2009 74

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C’ è un libro scritto a quattro mani daCarlo Lucarelli e Simona Vinci cheforse non leggeremo mai; o che in ogni

caso dovremo aspettare a lungo, perché èambientato nel mondo di Topolino e Paperino.Chi l’ha visto assicura che è molto divertente. Eranato anni fa, per una collana che la Disney pensa-va di lanciare in Italia: romanzi ispirati ai suoipersonaggi. Venne sottoscritto il contratto, ma ilprogetto non fu realizzato. Gli autori sono perciòtornati in possesso del copyright, cioè del dirittodi disporre come meglio credono della loro crea-zione letteraria: e tuttavia non ne possono farnulla perché i personaggi appartengono a qual-cun altro, cioè alla Disney. Basterebbe cambiare inomi: il racconto è però a chiave e gioca su unaserie di riferimenti precisi all’universo disneyano,ragion per cui la cosa è evidentemente impossibi-le. Il libro diventerebbe troppo diverso, e in qual-che modo «zoppo». Meglio lasciarlo nel cassettofino a quando, come accade per i diritti d’autore,scadranno i diritti su questi eroi del fumetto.

È questo, che ci ha racconto l’agente letterario deidue scrittori, un caso abbastanza tipico, anche se

molto raro almeno in Italia, di potenziale «guerradel copyright»: la stessa che, come riportato dallaStampa, ha recentemente indotto J.D. Salinger,mitico ed elusivo autore del Giovane Holden, ascatenare i suoi avvocati contro un giovane scrit-tore svedese intenzionato a pubblicare una sortadi seguito al celebre romanzo, con HoldenCaulfield, ormai anziano, che si aggira sui luoghidella sua prima – e unica – avventura a New York.Nel mondo di Internet, dove i contenuti diventa-no sempre più «liberi» e gratuiti, sovvertendo iltradizionale sistema della proprietà letteraria eartistica, tutto ciò sembrerebbe suonare antidilu-viano e forse patetico. Ma già Raymond Queneau,il geniale scrittore (e matematico) francese amicodi Calvino e dei surrealisti, aveva previsto tutto.Nel ’68, nel romanzo Icaro involato, aveva imma-ginato che il protagonista fuggisse da un mano-scritto e finisse nella vita reale, creando grossipasticci nella Parigi degli scrittori, ma non solo.

Icaro e i suoi fratelli riescono però raramente a svi-gnarsela davvero. Sebbene non sia scritto in modoesplicito in nessuna legge, appartengono ai loroautori, come i libri in cui abitano. Salinger riuscirà

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IL PERSONAGGIO È MIO E ME LO GESTISCO IO Mario Baudino, La Stampa, 2 luglio 2009

Da Holden a Montalbano, come evitare il “rapimento” dei propri figli letterari

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molto probabilmente a bloccare il presunto seguitodel suo Holden, come ci spiega l’avvocatoGiuseppe Calabi, grande esperto in questa delicatamateria. «Sui personaggi dei cartoni animati ci sonostate molte cause, e non si discute. Su quelli lettera-ri vale in linea di massima lo stesso principio».Inglesi e americani sono anzi rigorosissimi: i seguitia romanzi celebri (l’ultimo è stato una nuova avven-tura di James Bond firmata da Sebastian Faulks)devono essere autorizzati. Nel caso di Bond, poi,l’idea venne dagli eredi di Ian Fleming, e comportòuna specie di concorso per selezionare il romanzie-re più adatto alla bisogna. Lo stesso è accaduto perVia col vento, anche se va detto che questi sequelnon hanno avuto poi tutta quella fortuna.

Forse alla fine «rubare» non è così facile; e, a partele carte del tribunale che comunque spaventanosempre gli editori, non ne vale granché la pena. I«padri» dei personaggi più celebri sembrano piut-tosto fiduciosi nel legame indissolubile che li acco-muna ai loro figli prediletti. Andrea Camilleri, peresempio, non è molto preoccupato per le molteavance che riceve il commissario Montalbano, ivicompresi alcuni tentativi di rapimento. Il suo com-missario fa ogni tanto capolino in qualche roman-zo altrui, ma si tratta quasi sempre di omaggi.«Una sola cosa mi ha fatto arrabbiare di brutto»,ci confida «quando ho scoperto, proprio alla Fieradel Libro, che un editore aveva pubblicato unlibro su I segreti della tavola di Montalbano,ovvero Le ricette di Andrea Camilleri, senza chene sapessi nulla. L’avevano fatto già i tedeschi, maalmeno avevano chiesto il permesso».

Si è rivolto all’avvocato? «No, mi sono incazzatoe basta». Le ricette, ovviamente, erano ricavatedai romanzi «autentici». È un uso possibile?«Mica tanto» risponde l’avvocato Calabi. «Inquesto caso credo che lo scrittore avrebbe avutoottime possibilità di bloccare il libro, se lo avessevoluto. La legge ammette solo le cosiddette riela-borazioni letterarie, che riguardano per lo più illavoro dei critici, e le parodie». Come quella,pesantuccia ma assai gustosa, che il comicoDaniele Luttazzi dedicò a Va’ dove ti porta ilcuore, trasformandolo con pochissimi cambia-menti di parole qua e là, in un delirante Va’ dove

ti porta il clito. L’editore di Susanna Tamaro fecericorso, ma non vinse. Chi invece, pur essendomolto guardingo e decisamente di casa nello stu-dio dei suoi legali, rinunciò in Italia ma non inAmerica fu il figlio di Nabokov. Era il 1995, e quida noi uscì un delizioso romanzo-saggio di PiaPera dal titolo Diario di Lo, scritto dal punto divista di Lolita, ormai cresciuta. Ebbe successo, fucomprato da un editore americano ma gli avvoca-ti cercarono in ogni modo di assassinarlo in culla.

Alla fine l’editore riuscì a trovare una viad’uscita: il libro venne pubblicato con una prefa-zione, piuttosto critica, dello stesso DmitriNabokov. «In fondo è sempre un banale proble-ma di soldi», dice un importante agente letterarioche ama non apparire. A lui si rivolsero molti annifa gli eredi di Margareth Mitchell che volevano farcausa a Rosa Giannetta Alberoni per un romanzodove si faceva un uso un po’ spregiudicato dipagine e pagine tratte da Via col vento. Vennerodissuasi. Non ne valeva la pena, o siamo davverozona franca? I nostri autori di successo, a ognibuon conto, non sembrano preoccupati. O quasi.Gianluca Carofiglio, che è pure magistrato e diqueste cose si intende, sostiene che «situazioni eidee sono libere; in fondo, dall’inizio della lettera-tura, raccontiamo sempre le stesse dieci storie».

Ci faccia capire: se scrivessimo un romanzo daltitolo, che so, L’avvocato Guerrieri va alla guer-ra, lei non reagirebbe? «Non mi spingo a tanto.Questa non gliela lascerei passare. Però se duran-te una chiacchiera venissero fuori temi, situazio-ni, personaggi, magari da parte mia, e poi li tro-vassi nel libro di un altro, mi seccherei, certo,anche un bel po’. Ma considerei la cosa abbastan-za naturale». La verità è che il sequel abusivo del-l’avvocato Guerrieri non troverà mai un editoreabbastanza avventuroso. Nemmeno in Italia.Qualche anno fa, alla Fiera di Francoforte, unbizzarro signore ucraino consumò le suole dellescarpe per mostrare a tutti un dépliant dove pro-poneva i suoi libri di fantasy, firmati HarryPotter. Allegava un documento di identità, da cuirisultava che aveva cambiato legalmente nome esi chiamava perciò come il maghetto. Non ebbemolta fortuna. Anzi, tornò a casa senza uno strac-cio di contratto.

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D a gennaio 2010 Mondadori Libri si sdop-pia. Ieri Maurizio Costa, amministratoredelegato della casa di Segrate, ha annun-

ciato al Corriere che dal prossimo anno il ruolodi Gian Arturo Ferrari, fino ad ora unico domi-nus della divisione Libri, verrà assunto da duemanager, Riccardo Cavallero, a cui verrà affidatal’area dell’editoria «d’autore» (o editoria trade), eAntonio Baravalle, responsabile dell’editoria di«creazione». Due modelli che richiedono strate-gie differenziate e strumenti specifici per affron-tare le sfide di un mercato in profonda tra-sformazione per due manager quasi coetanei,entrambi piemontesi, con formazioni e percorsidiversi.

Bocconiano, 46 anni, Cavallero ha iniziato inOlivetti (e di Ivrea) e lavora nel gruppo dal ’95dove è approdato come direttore marketingMondadori per poi diventare, due anni dopo,direttore generale di Grijalbo e poi, dal 2000,direttore dei libri Mondadori. Dal 2001, quandoviene costituita la joint venture Random House-Mondadori, ne diventa l’amministratore delega-to, prima con sede a New York e, dal 2004, aBarcellona. Antonio Baravalle, torinese, 44 anni,una laurea in biologia e un master in businessadministration, invece viene da un lungo appren-distato in Fiat dove è diventato, nel 2006, ammi-nistratore delegato di Alfa Romeo, prima di rico-prire, nel 2008, lo stesso ruolo all’Einaudi.

Ma che cosa significa in concreto la divisionetra le due aree editoriali? Lo spiega lo stesso GianArturo Ferrari che continuerà a collaborare con ilgruppo assumendo incarichi istituzionali comepresidente delle case editrici e affiancandoMaurizio Costa nell’elaborazione delle strategiedi sviluppo in Italia e all’estero. Ferrari, che nelprocesso di budget verrà affiancato fino alla finedell’anno da Cavallero e Baravalle, spiega che «ladiversità riguarda la struttura dell’attività produtti-va ma si riflette sulla finalità di lettura, sul rapporto

I l Mulino acquisisce il sessanta per centodella Carocci, dando così vita al primo poloeditoriale universitario per quanto riguarda

le scienze umanistiche. Le trattative tra il grup-po bolognese e l’editore romano erano comin-ciate da molti mesi, ma soltanto in questi ultimigiorni è stato raggiunto l’accordo che sarà per-fezionato a Roma giovedì 9 luglio: al Mulino an-drà dunque la maggioranza, il venti per centoalle Messaggerie italiane mentre il rimanenteventi resterà nelle mani di Giovanni Carocci,l’editore giunto alla soglia dei settantasette anniche nel 1980 aveva fondato la NIS, Nuova ItaliaScientifica.

La Carocci, per un fatturato di oltre sei milio-ni di euro, pubblica trecento novità all’anno ediciotto riviste. La Società editrice il Mulino(fondata nel 1954) pubblica 335 titoli e 55 rivisteper un fatturato che supera i tredici milioni dieuro. I conti delle due società editrici, impegna-te oltre che nel settore universitario, nella pub-blicazione di una saggistica di alto livello, sonopositivi.

«Il primo trimestre dell’anno» dice Ugo Berti,editor di storia e direttore della comunicazionedel Mulino «ha fatto registrare un più undici percento rispetto allo stesso periodo dell’anno scor-so. Un risultato molto positivo cui è seguita unaflessione che tuttavia non preoccupa». Dietro ladecisione di passare la mano non c’è dunque lacrisi economica, ma piuttosto la scelta da parte diGiovanni Carocci, in assenza di eredi che vo-gliano dedicarsi all’editoria, di affidare la propriacreature a un gruppo solido.

Alcune materie, come la storia, la critica lette-raria, l’economia, sono trattate dalle due caseeditrici, altre da una sola: per esempio di dirittosi occupa soltanto Mulino, mentre di architet-tura e scienze dell’educazione solo la Carocci. «Èinevitabile» continua Berti «che saranno createdelle sinergie: per esempio nel nostro progetto di

ROMANZI E SAGGI, LIBRI SCOLASTICI ED’ARTE: COSÌ MONDADORI AFFRONTA

LA DOPPIA SFIDA

NELLE MANI DEL MULINO IL 60 PER CENTO DI CAROCCI: UN POLO PER L’UNIVERSITÀ

Vlad Dracula, detto Tepes

Cristina Taglietti, Corriere della Sera, 2 luglio 2009 Dino Messina, Corriere della Sera, 3 luglio 2009

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tra domanda e offerta, sulla nozione di rischio e sulfuturo che le due editorie si troveranno ad af-frontare». Ferrari sgombra subito campo da pos-sibili equivoci sui termini usati: «L’editoria d’au-tore va intesa senza alcuna enfasi sul termine“autore”, ma riferendosi semplicemente al fattoche l’editore viene sempre dopo il gesto e ilmomento essenziale. Il ruolo del produttore deltesto spetta all’autore il quale, autonomamente,dà vita all’opera e la offre poi all’editore.Nell’editoria d’autore vale il principio che i librinon si fabbricano. L’editore si pone al serviziodell’autore per mediare tra lui e il pubblico, finoa diventare una sorta di agenzia di marketing chesi assume però anche l’onere dell’investimento».Quest’area, presidiata da Cavallero, comprende ilibri di narrativa e saggistica pubblicati dalle caseeditrici Mondadori, Einaudi, Piemme, Sperling& Kupfer (ma il prossimo bestseller, l’attesissimoseguito di Il codice da Vinci di Dan Brown, TheLost Symbol, in uscita negli Stati Uniti il 15 set-tembre, dovrebbe ricadere ancora nella gestioneFerrari se è vero che potrebbe arrivare nellelibrerie italiane in autunno).

«Al contrario nei “libri di creazione”» spiegaancora Ferrari «all’inizio della catena c’è l’editoreil quale immagina e progetta il libro e ne affida larealizzazione a uno o più autori: qui i libri si fab-bricano. È una struttura produttiva propria divarie tipologie, dalla scolastica, alla scientifico-tec-nica, al reference. È un modello che si può defini-re anche “editoria di progetto”, sempre nell’acce-zione più dimessa possibile, riferita solo al fattoche il motore, più o meno immobile, dell’interoprocesso è nella mente dell’editore». È questal’area cui sovraintenderà Antonio Baravalle, checomprende i libri scolastici, d’arte e illustrati pub-blicati da Mondadori Education e da Electa.

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creare una banca digitale di monografie scarica-bili online saremo avvantaggiati dall’avere adisposizione anche il grande catalogo dellaCarocci. Tuttavia le due case editrici manterran-no la loro autonoma identità che costituisce unpunto di forza non soltanto per quanto riguardala presenza di certi autori, ma nella peculiareattitudine a confrontarsi con il mercato. LaCarocci per esempio ha una considerevole dutti-lità ed è capace di essere presente con efficacia inpiccole realtà».

Berti si riferisce in questo caso alla capacitàdi stampare molti titoli a bassa tiratura perrispondere alle esigenze di un mercato che cam-bia da un’università all’altra.

La notizia dell’acquisizione, che – gli interes-sati tengono a specificare – non è una fusione, èstata accolta con soddisfazione tra i settantadipendenti della casa editrice bolognese, manonostante un comprensibile nervosismo, anchefra i trenta della casa editrice romana.

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salito alle stelle, tanto da scontrarsi duramente conBruno Vespa che presentava la cerimonia. E anchegiovedì, quando la Rai l’ha intervistato per quarto,Scurati è sbottato: «Come avete deciso l’ordinedelle interviste? Perché io parlo per penultimo eScarpa per ultimo?». Come a dire: qui si sa giàcome andrà a finire la gara. Perdente, ha poi con-fessato: «Ho vissuto queste polemiche con unforte disagio. È un contesto un po’ avvelenato e ilveleno avvelena. Ci sono state polemiche moltobasse ed è una cosa un po’ triste. È molto sgrade-vole però in sintonia con il clima generale delPaese: tutto ciò che accende una ribalta porta consé un discredito anziché un credito».

Scurati non rispondePer tutto ieri Antonio Scurati è stato irreperibile,con il cellulare staccato. L’ufficio stampa Bompianiè rimasto abbottonato e ci ha fatto sapere che loscrittore non intende rilasciare dichiarazioni. Perparte sua, Elisabetta Sgarbi cerca di minimizzare:«Certo, perdere per un voto fa rimanere davveromale. Tuttavia credo che abbiamo comunque otte-nuto un risultato importante: in cinquina Scuratiera entrato per quarto e ora è risalito al secondoposto». Ma perché quella frase rivolta ai giornalistiRai? Vuol dire che sospettava che il risultato fossedeciso a priori? «Io non ero lì quando ha pro-nunciato quella frase, e quindi non so dire qual erail suo tono, se serio o non piuttosto ironico, sarca-stico. Magari era un modo per esorcizzare il timo-re della sconfitta». Pare però che in Bompiani giàda prima non fossero troppo ottimisti. QuandoScurati si autocandidò, Giulio Lattanzi, ammini-stratore delegato del gruppo Rcs (di cui fa parteBompiani), espresse più di un dubbio sul-l’opportunità che la casa editrice lo sostenesseapertamente: proprio per evitare di esporreBompiani a una sconfitta facilmente prevedibile.Vista la forza, in giuria, del gruppo Mondadori.

STREGA Æ. IL DISCUSSO TRIS DI MONDADORIRoberto Carnero, l’Unità, 4 luglio 2009

Dati di fatto. Con Tiziano Scarpa il gruppo di Segrate ha vinto il premio letterario per la terza volta consecutiva.

Lo sottolinea Elisabetta Sgarbi, direttore della Bompiani che ha pubblicato Scurati, secondo per un voto

I giorno dopo il risultato del premio Strega, lepolemiche non accennano a sopirsi. Con lavittoria di Tiziano Scarpa per il suo romanzo

Stabat Mater, pubblicato da Einaudi, è il terzoanno consecutivo che a vincere il più ambito rico-noscimento letterario italiano è il gruppo Mon-dadori (di cui fa parte anche Einaudi). A notarloè Elisabetta Sgarbi, direttore della Bompiani, lacasa editrice che ha pubblicato il libro del secon-do classificato, Il bambino che sognava la finedel mondo di Antonio Scurati, che ha perso perun solo voto (118 contro 119).

«Al di là di questa sconfitta per una sola pre-ferenza» ci dice Elisabetta Sgarbi «il vero proble-ma dello Strega è un altro. Non è mio interesseinnescare sterili polemiche, ma il dato è oggetti-vo: sono tre anni di fila che vince Mondadori. Èqualcosa di cui il presidente della giuria, TullioDe Mauro, nel mettere mano al Premio, come hadetto di voler fare, dovrà tenere conto, per rende-re la competizione più limpida e trasparente».Ciò significa che tra i giurati sono in numero pre-ponderante quelli vicini al colosso di Segrate, chevotano per ragioni di scuderia.

Perché – checché se ne dica – i premi lettera-ri in Italia continuano a essere così: gare tra edi-tori (più o meno potenti), anziché tra libri (più omeno buoni).

Giovedì sera Scurati, quando ha saputo dellasconfitta, ha preso il cappello e poco ci è manca-to che mandasse tutti a quel paese. Del resto èfacilmente immaginabile la frustrazione delloscrittore, che tra l’altro, in maniera assolutamen-te irrituale nella storia dello Strega, alcuni mesi fasi era «autocandidato», chiedendo ai giurati divotare per lui.

Frustrazione simile a quella che Scurati avevaprovato nel 2005 al Campiello, quando era risulta-to vincitore ma a metà, in quanto a pari merito conPino Roveredo. Quella sera il suo nervosismo era

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N el febbraio del 2004 si tenne a GalassiaGutenberg a Napoli un affollato incontrodi scrittori meridionali, di più generazioni

ma perlopiù molto giovani, che aveva per titolo«Narrare il Sud», i cui interventi furono tempe-stivamente raccolti dalla Liguori in un opuscolocui ora Daniela Carmosino, docente pressol’Università del Molise, fa risalire la data di nasci-ta di una nuova narrativa meridionale, la cui vita-lità è certificata dalla quantità di opere che hapreso in esame per questo utilissimo consuntivoragionato.

Una nuova generazione di scrittori si andavaproponendo, che si è affermata negli anni succes-sivi e i cui risultati sono variegati e disparati, mache ha all’attivo opere di assoluto rilievo, le qualihanno avuto il merito di aggredire gli stereotipidi una tradizione sfibrata e hanno affermatomuovi modi di “leggere” (“narrare”) il Sud daldentro della sua mutazione, anche quando, forse,hanno teso frettolosamente a crearne di nuovi.Oggi nessuno può più parlare di una questionemeridionale – come ancora nel ’94 si faceva asinistra con ostinata cecità di fronte ai cambia-menti in corso – fatta di isolamento e di arretra-tezza, oggi la “questione meridionale” non c’èpiù. Se regioni come la Campania e la Calabria(non omogeneamente) continuano a proporsi al-meno nella cronaca come aree di ritardo a causadella massiccia presenza di organizzazioni crimi-nali quali camorra e ’ndrangheta, esse, nella loromescolanza di vecchio e di nuovo, potrebberoanche rivelarsi, chissà, le anticipatrici di un futu-ro più vasto, dove la post-modernità si imponecome intreccio di resistenze e corse in avanti, diieri e di domani, di ritorni barbarici e nuove tec-nologie. In molti casi, nuove alleanze hannonascosto i vecchi modi di intervenire nella realtào li hanno resi obsoleti (penso alla Sicilia) ma ingenerale tutto il Sud è andato rapidissimamenteomologandosi, dagli anni Ottanta in avanti,anche se la sociologia e la letteratura e la politica

centrista se ne sono accorte in ritardo. In questorapidissimo processo, molte regioni i loro ritardili hanno coperti o tradotti in folklore per unNord e un’Europa assetata di un turismo dallediversità rassicuranti e fasulle.

Se la letteratura del Sud si è andata omolo-gando ed è entrata nel grande flusso dell’im-maginario di questi anni di transizione (versoche?), spavaldamente confusi, a essere sconfittadalla velocità della Storia è stata anche la prete-sa dichiarata da «Narrare il Sud» di proporreper la letteratura meridionale una diversità atti-va, non chiusa dentro il nuovo ma capace discalzare i pregiudizi e gli stereotipi in funzionedi una diversità, ancora in qualche modo utopi-ca, che ridesse fiato a quella versa ereticale dellamiglior cultura meridionale del passato, quelladei Silone, degli Sciascia, dei Bene che la realtàha rifiutato (e per molti degli autori che rincor-revano il nuovo vituperando ogni tradizione,come per altre persone di successo di altricampi, politici compresi, ci sembra doverosocitare la nota poesia di Penna buona a tanti usi:«Felice chi è diverso / essendo egli diverso./ Maguai a chi è diverso / essendo egli comune»; citoa memoria). Dapprima il nemico sono stati glistereotipi consegnati dalla letteratura preceden-te, aggrediti da alcuni con impeto iconoclastamentre altri prendevano semplicemente atto delcambiamento in corso. Alcuni si sono affrettati adimostrare l’avvenuto ingresso in convenzioninuove, nazionali e internazionali. Molti hannosentito il bisogno di esplorare e raccontare que-sta realtà mutata, mutante, con occhi nuovi eben spalancati, attraverso una nuova commistio-ne di narrazione, inchiesta, reportage. Altri sisono ancorati, per dire il nuovo, a generi vecchi;il romanzo di formazione, il romanzo storico-favoloso, il romanzo di sentimenti, il romanzo dispaesamento e di confronto tra “qui” e “altro-ve”, e soprattutto il noir. E i migliori sono certa-mente quegli autori, non incantati dalle nuove

UTOPIE A MEZZOGIORNOGoffredo Fofi, Il Sole 24 Ore, 5 luglio 2009

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convenzioni né da ricorrenti astratti furori nédai ricatti dell’editoria e del successo mediatico,che, accanitamente addosso al presente, in modidiversi, interessanti proprio per la loro diversità,stanno nel presente, leggono il presente, ne tes-sono le fila e contribuiscono con le loro opere arendercelo più chiaro (stupisce, nel repertoriocompleto e acuto della Carmosino, la deprecabi-le disattenzione sull’opera di Nicola Lagioia, ba-rese, una delle più ambiziose e più riuscite delleultime leve non solo meridionali).

Il miracolo è forse, ma vale per tutto il paese,che dentro il magma confuso e deprimente delpresente, cresciuti dentro la mutazione e senza lapossibilità di far confronti, ci siano giovani bra-vissimi che sanno leggere e narrare la mutazione,e non solo in letteratura, anche in cinema e teatroe fumetto e giornalismo d’inchiesta eccetera.Questo saggio non lo dice abbastanza, ma è dav-vero assai utile a chi voglia in futuro capire cosaè accaduto nel Sud, cioè in Italia, negli anni dellagrande e irreversibile mutazione.

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Le antologie che hanno per prime “campionato” la nuova letteratura meridionale sono state, nell’or-dine, Luna nuova (Argo 1997, a cura di Goffredo Fofi), cui risposero con scelte del tutto contrarieSporco al sole (Besa 1998, a cura di Gaetano Cappelli, Michele Trecca e Enzo Verrengia) e Disertori(Einaudi Stile libero 2000, a cura di Giovanna De Angelis). Ecco un elenco degli autori più rappresen-tativi e più noti, regione per regione. Da Napoli, dove è scomparsa da poco l’apripista e molto com-pianta Fabrizia Ramondino e la meteora Striano, dopo i “veterani” Giuseppe Montesano e AntonioFranchini, che hanno dato le opere stilisticamente più ambiziose e nuove e sono due dei maggiori scrit-tori di questi anni, vengono Valeria Parrella (dopo i racconti, il romanzo Lo spazio bianco, Einaudi),Maurizio Braucci (in uscita a settembre da Mondadori il suo nuovo lavoro, d’ambientazione messica-na, Lontano da Napoli), Massimiliano Virgilio, Diego De Silva (di vocazione noir), la “milanese” IaiaCaputo, Antonella Cilento, Sergio De Santis, Franco Arminio, mentre dalla vicina Caserta vengono,ormai assai noti, Antonio Pascale e Francesco Piccolo. Dalla Sicilia, Roberto Alajmo, MarcelloBenfante (anche critico attento), Giosuè Calaciura, Fulvio Abbate (antesignano), Evelina Santangelo edi recente una promessa forte, Giorgio Vasta (minimum fax). Dalla Lucania, Gaetano Cappelli, datempo un valore sicuro, e Andrea Di Consoli. Dalla Calabria viene molto poco, o sappiamo moltopoco, dopo Carmine Abate. Dalla Puglia, in un paesaggio assai movimentato, Nicola Lagioia (unnuovo romanzo, in uscita da Einaudi, dopo Occidente per principianti), Andrea Piva, Mario Desiati,Cosimo Argentina, Francesco Dezio, lo spericolato Livio Romano, eccetera. Dalla Sardegna, sulla sciadi Sergio Atzeni prematuramente scomparso, Giovanni M. Bellu, Aldo Tanchis, Flavio Soriga, e sulfronte femminile, Milena Agus e Michela Murgia. La novità della letteratura di confine, attorno alreportage, ha il nome di punta in Roberto Saviano (campano, con Gomorra bestseller assoluto) e nelrigoroso Alessandro Leogrande (pugliese: Uomini e caporali, Mondadori), mentre alcuni altri nomicompaiono nell’antologia di Christian Raimo Il corpo e il sangue d’Italia (minimum fax 2007). Sulfronte del noir, dominano tuttora Camilleri (Sicilia), De Cataldo e il liberty, Carofiglio (Puglia) e Fois(Sardegna). Il panorama è ampio e c’è una nuovissima leva in formazione, che passa in parte attraver-so la rivista Nuovi argomenti, anche se è meno vario di quanto non si possa pensare: la realtà meridio-nale è più forte, ma talenti e scelte non differiscono molto da quelli del Centro e del Nord.

NON SOLO SAVIANO

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R isorgo da una singolare esperienza. Eroimmerso nella prefazione di Zadie Smith aUno straniero nella terra di Lolita, libret-

to in cui Gregor von Rezzori racconta un viaggioda lui intrapreso negli anni ’90 sulle tracce diHumbert e Lolita (proprio loro, la coppia delsecolo, gli struggenti eroi nabokoviani!). Quandoa un certo punto la testa ha preso a girarmi. Perun secondo ho avuto l’illusione di essere sull’orlodi un eccitante precipizio, e a un passo dalla fol-lia. È l’effetto Nabokov, mi sono detto. Ognivolta che hai a che fare con lui (anche per inter-posta persona), la mente ti gioca brutti scherzi.

Per una virtuosa abitudine di lettura, compul-savo la prefazione subito dopo aver assaporato ilreportage di Rezzori. La ragione per cui ho sus-sultato – sentendo la Smith rivolgersi al propriotesto in questi termini: «Non c’è dubbio che (aNabokov) avrebbe fatto orrore» – dipende dalfatto che, solo un quarto d’ora prima, mi eroimbattuto in un analogo scrupolo di Rezzori:«Riesco a immaginare bene il risolino sardonico

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di Nabokov all’idea che qualcuno volesse visitarei luoghi reali di una storia di invenzione».Insomma, sia l’una sia l’altro sembravano eccessi-vamente intimiditi dal giudizio che Nabokovavrebbe potuto formulare su ciò che loro si accin-gevano a scrivere su di lui.

Allora – mi dico – non sono il solo a sentirsischiacciato dal «risolino sardonico» del vecchioVlad? Non sono il solo che quando scrive diNabokov ha paura di Nabokov (sebbene datempo non sia più tra noi)? Allora si tratta diuna sensazione condivisa da scrittori più espertie affermati di me? Quando, leggendo, ti imbattiin qualcosa che ti suscita un caldo afflato diempatia, capisci che il motivo per cui non smet-ti di leggere qualsiasi cosa ti capiti a tiro è per-ché non vedi l’ora che un sentimento che ti simuoveva dentro – errabondo e ineffabile –prenda corpo in una forma (a te finora scono-sciuta) che lo cristallizza dandole senso. L’espe-rienza è quella di chi trova qualcosa che non sa-peva di conoscere.

Il risolino di Nabokov che umilia gli scrittori

Zadie Smith e von Rezzori intimiditi dal genio. Soltanto Saul Bellow in disaccordo su Lolita

Alessandro Piperno, Corriere della Sera, 5 luglio 2009

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Rassegna stampa, luglio 2009

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Il «sentimento ritrovato» stavolta – conl’esemplare contributo offerto dalla coppia me-ravigliosamente mal assortita Smith-Rezzori – è ildisagio. Quando scrivi di Nabokov ti senti a disa-gio. Come il fan che molesta la popstar preferitaper un autografo e viene da questi scacciato conmalagrazia. «La cosa che più mi piace di me stes-so è che non mi sono mai lasciato intimorire dallascemenza e dalla virulenza di un critico» diceNabokov con orgoglio, ignorando fosse che se c’èun intimidatore, beh quello è lui! Non credo esi-sta altro scrittore che eserciti sul lettore un cosìvivo spavento (lo stesso Rezzori dice che, poten-do incontrare il suo eroe, nel ritiro svizzero, scel-se di non farlo). È come se Nabokov provasse ungusto sadico a farsi contemplare da dietro il vetroantiproiettile di una villa sontuosa mentre fuoriimperversa il temporale. Condannando l’ammira-tore a un’eterna sfibrante anticamera.

E non credo che sia di per sé un tratto delgenio. Prendi Kafka. Pur essendo l’architetto diun’opera angosciosamente inospitale, lui, comeessere umano, è un pezzo di pane. Esserlo è partedel suo Dna, dell’educazione giudaica ricevuta infamiglia. Leggi lettere, diari, gli aneddoti che gliamici raccontano di lui e subito ti viene voglia didargli del tu. È vero, un’accoglienza che ha favo-rito la proliferazione di migliaia di quelli cheMilan Kundera definisce con sprezzo i «kafkolo-gi». Ma pur sempre un’accoglienza.

Nabokov no. Il lettore che gli interessa è quello«che vede nello specchio ogni mattina mentre si fala barba». Ecco il genere di facezie con cui ti dicedi sloggiare. Per esempio, il Narratore de La veravita di Sebastian Knight, presunto fratello del pro-tagonista (tutto in Nabokov presunto), non fa chelamentarsi di un certo Mr Goodman, emblema del-l’accademico ficcanaso che ha dedicato una biogra-fia pettegola a Sebastian, provocando nel fratelloun sentimento di sdegnosa riprovazione.

È evidente che sia in Rezzori, sia in Zadie Smi-th, per non dire di me, agisca la sindrome-Goo-dman. È il terrore di apparire agli occhi dellospettro di Nabokov gli ennesimi Mr Goodmanche ci fa mettere le mani avanti. Rezzori, da uo-mo d’altri tempi qual è, utilizzando la lusinga:«Lolita è l’unica storia d’amore davvero convin-cente del nostro secolo». La Smith, assai più spi-

golosa, cercando di trovare una relazione gemel-lare tra Rezzori e Nabokov, e di mostrare le qua-lità del primo rispetto ai difetti del secondo, neiconfronti del quale tuttavia non riesce a nascon-dere una sconfinata ammirazione («Non è statoun piacere per nessuno scrittore spartire ilNovecento con il genio di Nabokov» commentaa un certo punto con tristezza). Ed io, nel miopiccolo, scrivendo questo verboso articolo.

La verità è che più il tempo passa più è diffici-le non dirsi nabokoviani. In fondo quando Na-bokov scriveva, coltivando un patrizio isolazio-nismo, nel mondo andavano di moda i romanzidi Sartre, di Hemingway, di Robbe-Grillet, che aguardarli oggi, in confronto a quelli del Nostro,sembrano ottimi elaborati di liceali brillanti.L’influenza nabokoviana sugli scrittori delle suc-cessive generazioni è di una portata che alloranon era preventivabile.

Il primo nome che mi viene in mente è fintroppo facile. Thomas Pynchon: scrittore piùimportante per la storia della letteratura che per ilibri che ha scritto. Nel suo caso, quando parlo diinfluenza nabokoviana non alludo all’immaginesuggestiva dell’imberbe studente Thomas che,negli anni ’50, segue i corsi del temibile ProfessorNabokov alla Cornell. Ma di qualcosa di moltopiù essenziale: nessuno potrà negare che ilmondo siderale e improbabile dei romanzi pyn-choniani paghi pegno al Nabokov di Ada o diFuoco pallido, tanto per fare un paio di esempi.

Il dato sorprendente è che la produzione na-bokoviana è talmente estesa ed eccelsa che a luidevono qualcosa sia i cosiddetti scrittori postmo-derni, che da lui mediano il gusto per la parodia,la citazione, la mescolanza, gli apocrifi, il cocktaildi kitsch e sublime; sia quelli di ispirazionemodernista all’affannosa ricerca del dettagliorivelatore. Sentite qui cosa scrive ne Il dono: «Lacostante sensazione che i nostri giorni terrenisiano solo argent de poche, monetine che tintin-nano nel buffo delle tasche, e che da qualcheparte esista il vero capitale da cui finché siamovivi dobbiamo saper riscuotere i dividendi informa di sogni, lacrime di felicità, montagne lon-tane». (Eppoi vedete: appena lo citi subito laprosa del pezzo cambia passo e tu ti senti un boc-cheggiante Salieri).

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Insomma, ti dici, ecco un tipo che non cercaepigoni. Lo scrittore meno demagogo e più sco-stante del ventesimo secolo: «Mi vanto di essereuna persona priva di interesse per il pubblico.Non ho mai fatto parte di circoli e associazioni.Non c’è credo o scuola che abbia avuto su di me ilben che minimo influsso». Che sia a causa di que-sto esibito disprezzo per il prossimo che la confra-ternita dei suoi detrattori non è meno nutrita diquella degli ammiratori? Partendo dai piani alti,Saul Bellow, una volta, riferendosi a Lolita, disse:«Mettiamo pure che non sia una cosa troppo orri-bile che uomini di mezza età copulino con le bam-bine, ma bisogna proprio che ne facciano filoso-fia? Io sarei capace di scrivere un libro migliore dalpunto di vista di Lolita». Di recente il suo allievopiù geniale, Philip Roth, ha espresso analoghe per-plessità, affidandole al suo famoso alter egoNathan Zuckerman che, a un certo punto, defini-sce Lolita un libro pieno di «stupid jokes». Il chemi accende nella memoria un ricordo personale:un giorno in cui, nella grande biblioteca della casadi campagna di Enzo Siciliano, scovai la corri-spondenza epistolare tra Nabokov e Wilson. Chie-si a Enzo se me lo prestava e lui: «Serviti pure, mavacci piano con Nabokov. Certo, si tratta di unoscrittore enorme, ma per i miei gusti troppe farfal-le e troppi scacchi…». Anni dopo, in un contestonon meno suggestivo (i bordi di una piscina di unalbergo caprese), lo scrittore Daniel Mendelsohnmi esprime su Nabokov un analogo sospetto: «Madopo un po’ non ne hai abbastanza dei suoi truc-chi?». Per la risposta a questa domanda mi affidoidealmente a Martin Amis che una volta scrisseche il problema con la prosa di Nabokov è chequando la assaggi poi non ne hai mai abbastanza,ne vuoi ancora e ancora e ancora. E Dio solo sa selo capisco. E a giudicare dai loro libri, lo capisco-no anche scrittori come Eugenides, Foster Wal-lace, Chabon, la stessa Zadie Smith e volendo, perpatriottismo, fare un nome italiano, direi AldoBusi (o almeno la sua metà più estrosa).

D’altro canto mi rendo conto che l’incedereestatico ed esibizionista della prosa nabokovianapossa contrariare i seguaci della scorrevolezzache affollano le librerie di tutto il mondo. Opossa indurre qualcun altro a formulare l’accusa

infamante per un narratore di «anacronismo».Un giudizio che non sta in piedi. Nabokov si puòpermettere parole antiche e preziose proprio invirtù di uno spirito pazzamente contemporaneo.

Nabokov ha insegnato ai suoi successori –proprio come Flaubert con l’esempio senza alcunintento didascalico – un sacco di cose sulla scrit-tura. E non parlo di espedienti, per altro fonda-mentali, tipo l’uso geniale delle parentesi (a pro-posito di parentesi ho appena finito il nuovomagnifico libro di Joyce Carol Oates la quale uti-lizza le parentesi in modo mirabilmente naboko-viano. Non solo: ha un modo tutto nabokovianodi chiamare in causa ogni tanto il lettore; per nondire della destrezza con cui salta dalla prima allaterza persona con uno stratagemma ipernaboko-viano…). Ma di un atteggiamento allo stessotempo leggero e integralista nei confronti dellaletteratura. Che si rispecchia nel legame compli-cato tra quest’ultima e la nostra vita.

Lui ti insegna che per quanto grande sia la tuatragedia privata (così chiama la propria, che eraenorme) non c’è alcuna necessità di non metterla alservizio di romanzi che diano al lettore piacere, bel-lezza, integrità, amore per il particolare e tensioneverso l’assoluto. Si sa, le tragedie più commoventisono quelle implicite. Così come gli occhi piùespressivi sono quelli asciutti.

È con questo spirito che Nabokov ha ridatolustro a un sentimento come la nostalgia svaluta-to dall’uso smodato che ne hanno fatto i lirici –restituendole la favolistica originaria nitidezza dirosa e di azzurro che ti spezza il cuore. Dateun’occhiata a Il dono o a Parla, memoria e capi-rete cosa intendo.

Zadie Smith riepiloga la lezione nabokovianain una troika composta da «bello stile», «elusio-ne della volgarità», «rifiuto delle grandi idee».Ma non sapete che sforzo attenersi a questi prin-cipi. E quanto sia importante tenerne conto alsolo scopo di trasgredirli qua e là, prendendosiuna vacanza da tanta rigidezza aristocratica. Peresempio, Nabokov è ostile all’uso del turpilo-quio. Rabbrividisco al pensiero di quanto saràcomplicato, ora che devo scrivere un romanzo disuccesso, evitare anche una sola parolaccia.Accipicchia!

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U na cosa è certa, scrivere come un uomovuol dire essere un uomo, non si può fin-gere, né mentire». Sono parole di Sin

Hustvedt, acclamata scrittrice americana, mogliedi Paul Auster e vera maestra nell’immedesima-zione in voci narranti maschili: esce in questi gior-ni il suo Elegia per un americano (Einaudi), in cuil’autrice dà voce a Erik Davidsen, uno psicoanali-sta quarantenne “nel pieno della sua potenza ses-suale”. «Ho lavorato molto per riuscire a calarminella mente maschile. Di certo la loro sessualità èmolto diversa dalla nostra: una donna non s’im-magina un uomo nudo trenta volte al giorno!».Per Hustvedt l’idea di scrivere al maschile è unapriorità e non ha a che fare con una maggior ricer-ca di distacco o intellettualismo, al contrario è allabase della creazione letteraria: «Il senso della nar-rativa in generale è quello di diventare un’altrapersona: maschio o femmina, vecchio o giovane,bianco o nero. L’arte del romanzo è sempre unviaggio dentro una singolarità e tutte le sue idio-sincrasie». La fiction non è altro che l’arte diesplorare ciò che non si conosce: forse per questole donne tendono a calarsi sempre di più nei

panni degli uomini? Da Marilynne Robinson aZadie Smith, da A.L. Kennedy (che con il premia-tissimo Day ha dato voce a un aviere della Se-conda guerra mondiale) a A.M. Homes, sonosempre di più le donne che hanno scelto protago-nisti maschi o, addirittura, di scrivere in primapersona maschile (da notare: le due ultime nonhanno un nome, ma solo cognome e cifre “ases-suate”, come pure M.J. Hyland). «Personalmentese uso protagonisti maschili è per non essere trop-po influenzata o sopraffatta dal personaggio chedescrivo», dice Zadie Smith (L’uomo autografo,Mondadori). A.M. Homes ha scritto una serie diracconti e due romanzi al maschile: Jack, storia diun ragazzino alle prese con la scoperta dell’omo-sessualità paterna, e La fine di Alice dove a parla-re è un pedofilo in galera (entrambi minimumfax). «Per me è sempre stato più facile scriverecon una voce narrante da maschio», dice. «Forseperché sono una donna e mi conosco bene, nonsono così interessata a entrare nella mente femmi-nile. Però mi piacciono gli uomini, e mi affascinacapire che cosa passa nella loro testa e come sicomportano».

COM’È VIRILE QUESTA SCRITTRICEValentina Pigmei, Grazia, 7 luglio 2009

Sono donne alcune sposate, alcune giovani, altre già affermate. Scrivono al maschile, nei loro romanzi i protagonisti sono uomini che raccontano in prima persona. Perché, dicono, è più interessante entrare nella testa di un maschio.Dagli Usa all’Italia: un fenomeno

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Le ragioni sono le più disparate: spesso è unbanale senso di riscatto, ma anche un’esigenzadella Storia, come per Laleh Khadivi, l’iraniana-americana autrice di L’età degli orfani (Rizzoli),storia di Reza Khurdi “uomo, soldato, padre,ribelle e amante”. «Volevo scrivere un romanzopolitico, sulla trasformazione di una regione daPaese tribale a stato governato. In una società delgenere solo gli uomini vivono una vita sociale einteragiscono con i governi». Tra gli esordi d’ol-treoceano, vera rivelazione è Rivka Galchen con ilsuo strabiliante Atmospheric Disturbances (usciràper Piemme nel 2010), la cui voce narrante è quel-la tragicomica di uno psichiatra malato di mente.Altro esordio notevole è The Invention ofEverything Else di Samantha Hunt (uscirà daAlet), ambientato nella New York degli anni ’40 enarrato a capitoli alterni da Nikola Tesla, uno deipionieri dell’energia elettrica, ormai anziano, e dauna cameriera del New Yorker Hotel. Plausianche per Secret Son di Laila Lalami, storia diYoussef, un ragazzino di Casablanca alla ricerca

del suo vero padre. «Youssef, c’est moi, conbuona pace di Flaubert», ha dichiarato Lalami.Marilynne Robinson, autrice di Gilead (Einaudi) –una lunga lettera scritta da un pastore 76enne alfiglio – ha vinto Pulitzer e Orange Prize conHome, sequel del precedente, dove a narrare è ilfiglio del pastore (dallo stesso editore, a fine anno).Infine l’australiana M.J. Hyland finalista al BookerPrize, che ha assunto il punto di vista di un ragaz-zino in Il bambino che non sapeva mentire(Bompiani). E in Italia? Veronica Raimo, con Ildolore secondo Matteo (minimum fax), ha usatocome narratore un trentenne dai modi gentili,impiegato in un’agenzia di pompe funebri. AncheGisela Scerman, scrittrice e modella di nudo perl’Accademia di Bologna, con Vorrei che fossenotte (Elliot) – storia di un’infanzia “candida e tre-pidante, tra adulti teneri e infernali” – ha raccon-tato la storia dal punto di vista di un bambino.«Sebbene si tratti di un’infanzia simile alla mia, miè venuto istintivo scriverlo al maschile. Volevo unnarratore meno compassionevole, meno fragile».

Rivka Galchen Samantha Hunt

Marilynne RobinsonSin Hustvedt

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I n Italia l’indagine non è ancora stata fatta, masi può scommettere che i risultati sarebberopiù o meno uguali a quelli registrati negli Stati

Uniti. O forse anche peggiori, visto che da noi levacanze scolastiche durano all’incirca tre mesi enon due come in America. Un interregno fatale,rivela la ricerca, per il cervello di bambini e ragaz-zi, in quanto la mancanza di esercizio mentale nonsoltanto abbassa il loro livello di lettura ma fa an-che precipitare di un paio di punti il loro quozien-te intellettivo. E se i figli delle classi alte più omeno riescono a salvarsi da questo infausto desti-no in quanto i genitori li iscrivono a corsi estivi oinsistono perché si dedichino ogni tanto alla let-tura, gli altri, lasciati per due mesi a televisione eplaystation, vedono precipitare in modo significa-tivo le loro capacità di apprendimento. Anchecolpa delle vacanze, dunque – conclude l’indagine– se i percorsi scolastici degli alunni economica-mente svantaggiati risultano così spesso peggioririspetto a quelli degli studenti più abbienti.

Nicholas Kristof, editorialista del New YorkTimes, scandalizzato dai drammatici risultati dellaricerca, ha sollecitato i lettori a tener lontani que-st’estate i figli da tv e pc e a indurli, invece, a legge-re, costi quel che costi. E per facilitarli nel compitoha fornito una lista dei – per lui – dieci più bei libriper l’infanzia, tra i quali, accanto a una serie di tito-li da noi poco noti, si trovano le avventure di HarryPotter, Il piccolo Lord Fauntleroy o Il principe e ilpovero che, tra i romanzi di Marc Twain, egli con-sidera appassionante almeno quanto Tom Sawyer.

Una analoga lista di libri per l’estate di bambinie ragazzi italiani potrebbe comprendere: 1) Emilio Salgari, La tigre della Malesia è sempreviva. Malgrado l’Oriente non sia più così misterio-so, la serie dei pirati inventata dallo scrittore ve-ronese continua a far sognare: parola di fan, figlia esorella di fan nonché madre di fan.2) Zanna bianca di Jack London. Come eranomiserabili i cacciatori di pellicce e come eranointelligenti gli animali braccati, nel segno di unnobile animalismo ante litteram che i ragazzi di

oggi apprezzano forse anche meglio di quelli di ieri.Per maschi, certo, ma se le rudi avventure estremeelettrizzavano le bambine antiche, figurarsi quellemoderne.3) La mia famiglia e altri animali di GeraldDurrell, scrittore ed etologo che, per la gioia parti-colare dei giovani lettori, ha raccontato con ugualeumorismo i comportamenti strampalati, impreve-dibili, un po’ pazzi di familiari e animali.4) La fabbrica di cioccolato di Roald Dahl, tra iprimi autori a capire che ai ragazzini piacciono –anche – l’horror, la paura e gli eroi malvagi (ma unpo’ ridicoli): non sempre solo storie etiche troppomelense per le nuove generazioni.5) La serie di Harry Potter. Le avventure dell’ap-prendista mago piacciono ai bambini americanicome a quelli italiani. E spesso rappresentano ciòche lo spinello rappresenta per la droga pesante: laporta d’ingresso dalla quale non c’è ritorno.6) La serie di Geronimo Stilton, il sapiente topogiornalista di origine italiana che, incredibile mavero, è riuscito, quasi, a fare le scarpe a un miticotopo americano.7) La serie gialla del Battello a vapore perché,sulla falsariga di quel che succede tra i lettori gran-di, anche tra quelli piccoli giallo e mistero conqui-stano sempre più.8) Cipollino di Gianni Rodari, ma va bene ancheun altro dei suoi tanti titoli, «alimento» quasi obbli-gatorio per i giovani lettori italiani, grazie alla per-fezione dello stile che dà l’impressione di poter«bere» il libro in pochi lunghi sorsi.9) Diario di una schiappa, irresistibile memorialedi un ragazzino sfigato a cui vanno tutte storte.Fino a un certo punto, però, perché poi c’è la rivin-cita che lascia sperare in un domani luminoso itanti che si sentono, appunto, schiappe.10) Ultima della lista, una personale passione infan-tile: La Primula Rossa, perché tra i tanti aristocra-tici malvagi e codardi della letteratura, mi consola-va il protagonista, sir Percy, eccezione di nobilealtruista e coraggioso, «resistente» contro la rivolu-zione francese.

Le dieci storie più belle di sempre. Ecco come far leggere i bambiniIsabella Bossi Fedrigotti, Corriere della Sera, 7 luglio 2009

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I l Gruppo Editoriale Mauri Spagnol – 13 caseeditrici, 130 milioni di fatturato nel 2008 –acquista la Bollati Boringhieri, casa editrice

classificabile come media perché occupa mezzopunto di mercato, 52 anni di gloriosa storia –quella scientifica pura degli inizi con PaoloBoringhieri, quella delle «due culture», scien-tifica e umanistica, poi, con Giulio Bollati – uncatalogo di prima classe (tutto Freud…), macon bilanci in rosso per centinaia di migliaia dieuro da alcuni anni. Partiamo da questa notizia– in incubazione da settimane ma maturatalunedì – per saggiare con Stefano Mauri,presidente e amministratore delegato di Gems,cosa sta succedendo di nuovo nel mondo dellanostra editoria.

Tempi di crisi. I primi segnali del 2009, però,dicevano che per i libri la crisi non c’è. Dopo unsemestre, è ancora vero?«I dati Nielsen registrano nei primi sei mesi diquest’anno un calo di vendite del 2,5 per cento.Noi no. Fatturiamo il 5 per cento in più. Fattisalvi, però, i venti milioni di euro portati nel 2008dall’ultimo volume di Harry Potter. I quattro

esordienti di maggior successo sono nostri:Donato Carrisi, Brunonia Barry, Glenn Cooper,Gianluigi Nuzzi con Vaticano Spa».

E senza passare per Che tempo che fa, questavariabile nuova del mercato. Anche i «giga-libri»come Harry Potter, libri che sanano i bilanci, co-me la Meyer per Fazi e Larsson per Marsilio,sono tali. Ma parliamo della strategia espansiva diGems: oltre a Bollati Boringhieri nel 2009 avetecomprato la Coccinella, varato in Spagna Duomoediciones e avviato una partnership con Giuntiper la rete di librerie. In tempi di crisi lo shop-ping, per chi può, è conveniente?«Le imprese costano meno, il denaro costa poco,quindi, se si può, conviene. Ma non la chiamereiuna strategia: noi valutiamo caso per caso».

Il caso Bollati Boringhieri è questo: una casaeditrice di altissima qualità e, sì, élitaria. Potràrispondere alle aspettative economiche delGruppo senza perdere qualità? Oppure varrà ilteorema che André Schiffrin applica alle «corpo-rate» americane e cioè che la legge del 20 percento di margini ammazza l’editoria classe?

«IO, LA DEMOCRAZIA E I BESTSELLER EDITORE AL TEMPO DI BERLUSCONI»

La notizia di lunedì è questa: arriva a conclusione l’acquisto di Bollati Boringhieri da parte di Gems. Cosa dice su questo e sullo stato più generale della nostra editoria? A colloquio con Stefano Mauri

Maria Serena Palmieri, l’Unità, 8 luglio 2009

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«Ci vorrà tempo. Magari, dovranno trovare nuovifiloni. La Garzanti da quando l’abbiamo acquisita,nel 2003, ha raddoppiato il fatturato, e non mi sem-bra abbia perso identità. La forza d’un gruppo èaver maturato esperienza, dunque un metodo. Ma,in cambio, magari dall’esperienza della Bollati comeeditrice indipendente impareremo qualcosa».

Si fa il nome di Piergiorgio Odifreddi comedirettore editoriale. E questo farebbe intravede-re un mutamento di linea, verso la divulgazione.È lui l’uomo?«No. Per ora il nostro riferimento resta AlbertoConte, preside della facoltà di Scienze a Torino egià nel comitato scientifico. È lui che ogni annova alla Buchmesse e fa gli acquisti».

La vostra nuova impresa – le librerie – significache oggi un grande gruppo in Italia non regge senon ha un piede anche lì?«Messaggerie Libri da cinque anni era già leaderin Internet e nei supermercati. Ora saremo alterzo posto come catena di librerie».

C’è un motivo per cui l’editoria indipendente nelNord Italia non regge e deve farsi adottare daigrandi gruppi e a Roma, invece, ce la fa?«Forse a Roma c’è più elasticità, la piccola edito-ria si regge più su collaboratori che su lavoratoridipendenti… No, diciamo che a Milano il picco-lo editore compete coi grandi e grandissimi pertrovare spazio su giornali e periodici. A Roma no.E a Roma ci sono le tv, è una grancassa. Non saràun caso se Einaudi ha deciso di aprire Stile libe-ro lì anziché a Torino».

Avere un presidente del Consiglio che è proprie-tario del più grande gruppo editoriale è un van-taggio o un ostacolo?«È una questione che ha molti aspetti, sarebbeuna cipolla da sbucciare un velo dopo l’altro.Diciamo che sul piano normativo, in questo cam-po, non ha agito il conflitto di interessi: non c’èstato un provvedimento normativo che, in sensostretto, abbia favorito la Mondadori. Semmai èun problema per i miei colleghi che lavorano lì,per quello che non hanno potuto pubblicare: Bel-politi, Cordelli, Raboni, Saramago…».

Le poesie postume di Raboni le ha pubblicateGarzanti. Bollati Boringhieri pubblica il Saramagorespinto da Einaudi. E, fra lei e lo Struzzo, c’èstata una polemica al calor bianco.«È una questione di democrazia. Tra un po’, cidiranno che anche la democrazia è una variantedelle ideologie. Dunque da buttare».

Voi avete il 39 per cento di Chiarelettere. Chia-relettere ha messo 100mila euro nel giornale diAntonio Padellaro e Marco Travaglio che usciràin autunno. Un nuovo ramo d’impresa?«Un augurio a Travaglio».

Cosa ha imparato dalla partecipazione alloStrega con Garzanti? «Che non è cambiato nulla. Il nostro esperimen-to è riuscito. Senza partecipare alle manovre dicorridoio, con Andrea Vitali, autore di grandequalità, e il più venduto, siamo arrivati ultimi. LoStrega è lo specchio di una bella festa dove nes-suno rispetta le regole».

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I CADAVERI PRIVI DI VITA DELLO STREGADomenico Peste, Il Riformista, 8 luglio 2009

I l conduttore della diretta televisiva è un gior-nalista di lungo corso. Ci tiene a farmi sapereche ha letto tutti e cinque i libri e a riprova

me ne porge uno aperto, invitandomi a leggerel’attacco del paragrafo. «A Garlasco, in provinciadi Pavia, il cadavere di Chiara Poggi, una giova-ne di 26 anni, viene ritrovato privo di vita». Ilcadavere privo di vita? Sì, ho letto bene. Con-fesso che il truismo mi era sfuggito. Va ad aggiun-gersi a una lunga lista di refusi, periodi zoppican-ti, goffi accostamenti verbali da segnalare in vistadelle anche perciò augurabili ristampe.

Opere finaliste o escluse, pubblicate da picco-li o grandi editori: ormai è evidente che corretto-ri di bozze approssimativi e editor frettolosi nonguardano in faccia a nessuno. Sarebbe auspicabi-le che a un premio letterario rinomato giungesse-ro solo buoni libri in una veste editoriale decen-te. Invece è come assistere alla serata finale diMiss Italia e scoprire che una ragazza ha il rimmelche le cola lungo la guancia e un’altra claudica

sopra un tacco rotto. Allora ecco qui un campio-nario minimo di strafalcioni a stampa. Posto chela salma di cui sopra è a pagina 131 del romanzodi Antonio Scurati, Il bambino che sognava lafine del mondo (Bompiani), un altro autore infi-la una serie tremendamente cacofonica di allitte-razioni per raccontarci che a un uomo d’affaril’eccessiva spregiudicatezza «era costata unacatasta di protesti» (Ugo Barbara, In terra consa-crata, Piemme, p. 221). Che dire poi del protago-nista del noir di Massimo Lugli, L’istinto dellupo (Newton Compton), che decide di prende-re in prestito «una macchina parcheggiata vicinoal paese più vicino» (p. 191)?

D’accordo, le ripetizioni per chi scrive sonospesso un terrore tanto infondato quanto ance-strale, ma qui avverbio e aggettivo sembrano dav-vero troppo… vicini. Poche pagine prima vienedescritto un violento corpo a corpo: «Mentrecadeva imprecando lo centrò con uno dei suoiterribili calci in faccia» (p. 149). Attenzione a non

immaginarvi la scena sbagliata: come si capiscedalle parole seguenti, il soggetto della subordina-ta è diverso da quello della principale, perciò èchi cade che riceve il calcio dell’avversario, nonviceversa. La lotta non ha nulla di acrobatico, esolo pura volontà di mettere fuori causa l’altro.

Cambiamo libro e risolleviamoci il morale conun po’ di lirismo: «Ad ogni figlio la vita come unincendio si mangia la boscaglia, si spingeva unpo’ più in là, sempre più lontana la guerra, e glianni difficili delle agitazioni contadine, ormai lavita sempre più lontana dalla vita» (FilippoBologna, Come ho perso la guerra, Fandango, p.71). Bello, ma che mi significa? direbbe il rudeMontalbano. Vale la pena ripetere un concetto:non gettate la croce sugli autori, che hanno com-piuto tre quarti del loro dovere nell’attimo esattoin cui consegnano il dattiloscritto. E poi si sa,anche Omero di tanto in tanto sonnecchia.

Se l’editoria libraria piange, la stampa quoti-diana non ride. Chi domenica avesse letto il sup-

plemento culturale del Sole 24 Ore saprebbe chel’editore milanese Grazianti (sic!) ha recente-mente pubblicato un romanzo di Libia Graverà.Nome come tanti diffusi in Italia dopo l’avventu-ra coloniale e cognome francamente bizzarro, chenell’insieme suonano come un monito a non sot-tovalutare i rapporti con Gheddafi.

Per fortuna ci soccorre l’occhiello, dove ap-prendiamo che in realtà si tratta dell’ultima faticadi Lidia Ravera. Ma tutto l’articolo è un esempioesilarante di ermeneutica patafisica: «tornerà a casadopo l’aborto spontaneo della madre, che ha persoun mischiato» (restiamo col dubbio che voglia diresemplicemente un maschio). Grandioso il finale, dagustare senza commenti: «È il celo (riscuotesissi-mo) il traguardo raggiunto, magari suo malgrado,dalla scrittrice: e vuoi essere, il nostro, un apprezza-mento sincero». Dimenticavo, il titolo della rubricadi recensioni è anch’esso un ircocervo del signifi-cante, una chimera del significato: NarrItalia. Inquesto caso temo però sia voluto.

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D iciamolo, scrivere è un duro lavoro. E pro-prio quando pensi di aver raggiunto qual-cosa comincia una nuova sfida: non solo

come pubblicarlo ma come renderlo pubblicabi-le. L’idea è buona, i personaggi sono credibili, idialoghi convincenti, ma la narrazione pencola, lastruttura manca di drammaticità… Fa’ un viaggioda noi, troverai professionisti affidabili!».

Così si presenta in rete una delle tante agenziedi editing americane. Questa ha sede nella valledi un fiume e nel pacchetto mette anche un sog-giorno relax. I prezzi variano secondo l’entitàdell’intervento: «Vi serve qualcuno per una velo-ce revisione grammaticale? Oppure che vadaoltre la struttura e entri nel cuore della storia? Cisono infatti diversi tipi di editing» si legge nel-l’annuncio «e ognuno ha un costo diverso».

Quindi oggi lo scrittore non è solo. So-prattutto se esordiente e imperfetto, trova subitoqualcuno pronto ad “aiutarlo”.

Anche in Italia c’è ormai tutta una filiera pro-fessionalizzata di curatori editoriali, agenti lette-rari, agenzie di editing, che lavorano sul testoprima di proporlo a un editore. Negli ultimi anniè cresciuta come un rampicante, con propaggininelle case editrici e radicine sparse fin dentro allescuole di scrittura. Vogliono tutti partecipare allagenesi del libro, ansiosi di metterci le mani, dientrare nella scatola nera (situazione che AntonioMoresco ha prefigurato, portandola agli estremi,nel romanzo Canti del caos).

Perché questa mania? Gli editor fanno il loromestiere, è ovvio.

Ma perché ce ne sono in così gran numero spar-pagliati lungo la filiera? Da dove viene tanta do-manda e tanta offerta? E cosa cambia nei libriquando sono prodotti in questo modo, che qualcu-no chiama “artigianale” ma di fatto è industriale?

Se interroghi gli interessati ricavi poco. Glieditor più seri ti diranno che c’è un interventobuono (che rispetta l’autore e l’identità del libro)

e uno cattivo, più invasivo. Ma tutti ritengonoche il loro sia un lavoro assolutamente necessario.E lo nobilitano parlando di funzione maieutica,lo paragonano addirittura a una terapia, contanto di transfert dell’autore sull’editor (comeogni nuova professione anche questa canta lapropria epopea).

Molti sostengono di lavorare per il lettore, innome del popular e del popolo, per libri più frui-bili, bonificati dalle pretese “élitarie” di certiscrittori presuntuosi, imbevuti del mito dellagrande letteratura. Ma tacciono la cosa più evi-dente: se la loro “utilità” è aumentata è solo inragione della sovrappopolazione libraria. L’in-dustria editoriale, come ogni industria, deve sfor-nare una quantità “industriale” di libri, ma perpubblicarne così tanti bisognerà prendere anchequelli di poco valore, della materia inerte, che glieditor davvero migliorano. Ma la loro ragione diesistere è legata all’aumento del fatturato, noncerto al nutrimento dei lettori.

Gli scrittori editati o non ne parlano oppure tidicono questo: “comodo avere un editor così. Tucachi diavoli, e lui ne fa angeli del paradiso”.Parole di Pierangelo Buttafuoco dette per il suoeditor Sergio Claudio Perroni (il quale a sua voltanella quarta di copertina di un suo romanzo sipregia di essere “editor di alcuni fra i romanzi dimaggior successo degli ultimi anni, Caos calmo[di Sandro Veronesi] e Le uova del drago [diButtafuoco]”).

Donato Carrisi, nel romanzo Il suggeritore(Longanesi), ringrazia i suoi agenti letterari così:“A Luigi e Daniela Bernabò, per i loro preziosiconsigli che mi hanno permesso di maturare comescrittore, aiutandomi a curare lo stile e l’efficaciadi queste pagine, e per averci messo il cuore.”

Spesso vengono ricordati i tagli di Ezra Poundalla Terra desolata di Thomas Eliot. Ma Poundera un maestro per Eliot, che gli dedicò il librocon la famosa espressione dantesca “il miglior

DIAVOLO DI UN EDITORCarla Benedetti, L’espresso, 9 luglio 2009

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fabbro”. Li legava un’affinità di sentire e di poe-tica. Ma cosa sono Perroni per Buttafuoco, iBernabò per Carrisi o Laura Lepri per SimonettaAgnello Hornby? Non maestri, né scrittori affini,semmai esperti, esperti in libri che possono averesuccesso oggi.

Pound aiutò Eliot a portare quell’opera parti-colare più vicina alla sua perfezione intrinseca,alla sua forma sostanziale o entelechia. Ma l’agen-zia specializzata nel “rendere pubblicabile” ciòche chiunque scrive, a cosa può avvicinare tuttequelle cose imperfette se non alla forma cheimmagina più adatta a superare la selezione delmercato, piacere all’editore a cui lo presenterà, aimediatori e ai media che ne dovranno parlare?Così l’editor si trova per forza di cose, nonostan-te la sua bravura e sensibilità, ad agire come unformattatore, che uniforma e normalizza secondoi canoni del momento (quelli che lui ritiene tali, esi potrebbe anche sbagliare).

Il lavoro dell’editing resta di solito tra i segre-ti di fabbricazione. Molti lettori ne ignorano per-sino l’esistenza. Però ne avvertono gli effetti.Letto in un blog: “Il 90 per cento dei libri cheescono per le grandi case oggi paiono scritti sem-pre dalle stesse 10 persone talmente si somiglia-no”. Come i cetrioli europei, tutti pressoché dellestesse dimensioni, fissate da una legge comunita-ria, molti libri hanno una certa uniformità di stile,di concezione e di struttura narrativa.

Spesso i lettori se ne lamentano, soprattutto ipiù giovani. Un fenomeno che nella musica pop ènoto da tempo: uno stesso sound, riconoscibile,si imprime sui diversi gruppi musicali lanciati dauno stesso produttore. Già alla fine degli anni’80, il superproduttore americano Waterman,della SAW, rispose così a chi lo criticava pertante canzoni tutte uguali: “Sì, hanno tutte losteso ritmo. Il ritmo del successo”. E infatti ilmodello comune è quello: cosa venderà di più. Omeglio, cosa immaginiamo che possa vendere dipiù. Una proiezione (che talvolta fallisce) ma chefunziona di fatto come un formato.

Anche in un romanzo di successo come Lasolitudine dei numeri primi di Paolo Giordanosi avverte quel sapore di fondo: idea interessante,costruzione a norma, parametri conformi. Non è

detto che sia stato editato da qualcuno. Lo scrit-tore è il primo editor di sé stesso e a volte intro-ietta i canoni della filiera.

Degli effetti dell’editing si è discusso soprat-tutto in rete, con varie leggende. Ma è sempremancato un caso concreto su cui ragionare. Oralo abbiamo. Principianti (Einaudi) è la versioneoriginale della seconda raccolta di RaymondCarver, Di cosa parliamo quando parliamod’amore, pubblicata nel 1981. L’editor GordonLish aveva tagliato più del cinquanta per centodel testo, cambiando titolo e molti finali. Oggipossiamo leggere e confrontare le due versioni.

Secondo Philip Roth «nella versione origina-le ogni cosa è perfettamente ponderata ed ese-guita. Mai opera narrativa ebbe meno bisognodi revisioni». Eppure Lish la fece a pezzi,togliendo ai racconti gran parte della loro ric-chezza emotiva. Carver si oppose in privato(come risulta da una lettera pubblicata dal NewYorker) ma non ebbe, per un misto di gratitudi-ne e di debolezza (era uscito appena dall’alcoli-smo), la forza di impedirne la pubblicazione. Ilcaso è davvero esemplare. Da un lato un grandescrittore oggi consacrato, ma allora quasi esor-diente. Dall’altra uno scrittore minore, ma edi-tor di prestigio e insegnante di scrittura creativa,noto anche come “Capitan Fiction” per la quan-tità di autori che lanciò anche attraverso la rivi-sta Esquire.

Spesso si tacciano di superbia gli scrittori chenon cambierebbero una virgola in quello chehanno scritto. Ma non sono semmai superbi glieditor, che credono di sapere con certezza cosavuole il pubblico, e non esitano a soffocare la vitaparticolare che c’è in un libro? Mentre lo scritto-re testardo spesso è solo uno che con umiltàdifende qualcosa di impersonale: il diritto dinatalità per ciò che nemmeno lui domina fino infondo, un impensato in cui gli è capitato di entra-re, una bellezza o una perfezione che come tali –scriveva Simone Weil – «abitano il campo dellecose impersonali». Difendendole il grande scrit-tore non dice “io”. Lo dice invece l’editor, che èsottomesso al gusto del pubblico (o di quello cheimmagina sia il gusto del pubblico) e parla innome di un “noi”.

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Ma la cosa ancora più esemplare, su cui valedavvero la pena di riflettere, è che dal taglioferoce di Lish, fatto senza il consenso dell’auto-re e senza una vera necessità, uscì fuori un para-digma, se non una corrente, registrata neimanuali: il minimalismo letterario. Lo stile fred-do, il ritmo veloce, le storie sospese nel finale,hanno ispirato una generazione di narratori,sono state un modello per tanti editor, case edi-trici e scuole di scrittura, in diversi paesi, com-presa ovviamente l’Italia. Tutta un’invenzionedell’editor.

Prima dell’intervento di Lish le storie diCarver avevano un vero finale, i personaggi,come scrive Alessandro Baricco (su Repub-blica), «piangono, hanno emozioni, pensanopensieri leggibili, tradiscono posizioni morali»,l’autore mostra «complicità con coloro che sba-gliano, mentre nella versione di Lish tutto que-

sto scompare in favore di una sovrannaturalefreddezza».

Per Baricco l’intervento di Lish portò nel librodi Carver una “genialità” e un’“audacia” che glimancavano. Però la vicenda imbarazza l’editoriaamericana, che infatti tarda a pubblicare Prin-cipianti (solo un racconto è uscito sul NewYorker). Chissà quanti editor e insegnati avrannofatti propri i criteri di di Lish: sfoltire, sospendere,rendere più minimal. E ora si trovano davanti laprova della natura artificiale di quel modello. Unvirus isolato in laboratorio.

Certamente il minimalismo ha avuto successo.Ma forse se ha potuto riprodursi con tanta facilitàè perché darwinianamente era il più adatto alnuovo ambiente, in grado di entrare nel dna dellanuova scrittura a fecondazione assistita. È statasolo questa la sua “genialità”. Un editor ha costrui-to un gene destinato ad avere fortuna tra gli editor.

«Gli editor più seri ti diranno che c’è un intervento buono

(che rispetta l’autore e l’identità del libro) e uno cattivo, più invasivo.

Ma tutti ritengono che il loro sia un lavoro assolutamente necessario.

E lo nobilitano parlando di funzione maieutica, lo paragonano addirittura a una terapia,

con tanto di transfert dell’autore sull’editor(come ogni nuova professione anche questa

canta la propria epopea)»

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D a ragazza la chiamavano Pierina. AncheCesare Pavese prediligeva il diminutivosbarazzino, affettuoso. Nell’agosto del

1950, l’ultimo della sua vita, le scrisse due lunghelettere e alcuni biglietti, annotando nel diario:«Anche tu sei la primavera, un’elegante, in-credibilmente dolce e flessibile primavera, dolce,fresca, sfuggente». Adesso che i giochi sono fatti,dopo la vendita della sua casa editrice, a RomildaBollati di Saint Pierre, come confida lei stessa, stacapitando di ritornare ragazza. Quella ragazza,quella Pierina, la fanciulla che Pavese descriveva«molto bella» e che «vorrebbe essere spensierata,ama ballare». «Da qualche giorno mi sta suc-cedendo una cosa davvero curiosa: se penso ame, mi rivedo da bambina, da adolescente. Mi ri-tornano in mente episodi passati, che ora hovoglia di rivivere in questa parte della mia vita. Èuna sorta di regressione, chissà. Forse perchéesco da un periodo duro, pieno di incertezze».

Non deve essere stato semplice, per lei, cedere laBollati Boringhieri.«Ho resistito fino a quando ho potuto. Mi pare-va di tenere in vita mio fratello Giulio, seguendoi suoi insegnamenti, la sua concezione unitaria

della cultura. Per qualche anno ce l’ho fatta, sonoriuscita ad arrivare fino a qui. Poi ho capito cheavrei dovuto prendere delle decisioni, lo dovevofare in ogni caso per dare continuità alla casa edi-trice, era necessario. L’ho fatto da sola, perché imiei figli non se ne sono mai occupati».

E alla fine ha scelto il gruppo Mauri Spagnol perpassare le redini. Che cosa l’ha convinta nellaloro offerta?«Intanto non parliamo di “redini”, gli autori nonsono dei cavalli. Diciamo comunque che sonostati loro a scegliermi, questi interlocutori cosìgiusti, adatti. Gente che peraltro non conoscevomolto bene, ma pure questo significa qualcosa:sarebbe stato più difficile decidere con degli edi-tori amici amici. Pensi che una cara amica, piut-tosto nota nel mondo dell’editoria, ha rinunciatoa venirmi a trovare, come faceva di solito nei suoisoggiorni a Torino, proprio per non influenzarminelle scelte che dovevo fare. Il suo è stato ungesto di grande delicatezza».

La Signora dei Libri resterà tale. Stefano Maurile ha assicurato che continuerà a presiedere laBollati Boringhieri, no?

IO, GIULIO E UNA VITA DI LIBRI

Pavese, Carlo Levi ed Einaudi. I ricordi di Romilda Bollati. «Ecco perché ho venduto la casa editrice»

Massimo Novelli, la Repubblica, 9 luglio 2009

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«Mi piace questo “Signora dei Libri”. È moltoromantico, lo sa? Sì, è vero: hanno voluto a tuttii costi che rimanessi come presidente. D’altrondesono sempre vissuta in mezzo ai libri, sebbene al-l’inizio non fossero i miei. Erano quelli di Giulio.La nostra casa di Parma era letteralmente infesta-ta da carrettate di libri. Non avevamo troppi soldia quell’epoca, perciò io e mia sorella MariaChiara per le nostre letture notturne prendevamoi libri di Giulio. Io avevo studiato dalle Orsoline,lì non ci facevano leggere dei libri stuzzicanti. Ilibri di Giulio mi hanno abituato a stare con uncerto tipo di persone, isolandomi da altre esegnando la mia vita. Ricordo che ero da poco aTorino, mi ero appena sposata, e mio marito midiceva: “Non parlare di quello che leggi, se nosembra che tu ti voglia dare delle arie”. LeggevoScott Fitzgerald, Flaubert, Conrad. Dicevano cheero un po’ strana, anomala».

Nel 1949 Giulio Bollati era entrato nella reda-zione dell’Einaudi, assieme a Paolo Boringhieri.Anche lei si trasferì a Torino e avrebbe vissutoancora tra i libri.«Sono arrivata a Torino nel 1950, facevo qual-che sfilata di moda. Andai ad abitare da Giulio ecominciai a frequentare il gruppo dell’Einaudi.Era molto divertente passare le vacanze conloro, con Elio Vittorini, con Italo Calvino, contutti gli altri; però lo facevo senza rendermiconto delle persone con cui trascorrevo tuttoquel tempo, che naturalmente erano grandiscrittori, intellettuali importanti. Un giorno, adaprile, andai a una festa per gli autori della casaeditrice, alla corte di Giulio Einaudi. Il festeg-giato era Carlo Levi, che già aveva avuto succes-so con Cristo si è fermato a Eboli e che stava perpubblicare L’orologio. L’Imperatore Giulio, aun tratto, chiamò Levi e, alzando il braccio, indi-cando me e altre tre ragazze presenti, gli do-mandò: «Chi vuoi di loro?». Cioè di noi quattroschiave, pronte a eseguire gli ordini di Giulio.Venni scelta io. Accompagnai Levi per Roma eper altri posti, visitando una libreria dopo l’al-tra, dove lui firmava copie dei suoi libri con unapenna stilografica d’oro. Vennero anche Calvino

e Adolfo Occhetto, il papà del futuro segretariodel Pci».

Ripensa spesso a Cesare Pavese, a quell’estatedi Bocca di Magra, alle lettere che mandava aPierina?«Oh, Pavese! È il più caro tra quelli che ho cono-sciuto. Io ero molto giovane, nella fase in cui ci siguarda intorno, cerchi di capire che cosa sai fare.Pavese era adorabile. Una volta mi trascinò a pas-seggiare per la collina torinese, ero vestita da mezzasera, avevo una gardenia e portavo i tacchi alti. Alritorno mi sentivo distrutta, i piedi mi facevanomale, forse avevo un po’ di febbre. Anche la garde-nia si era sciupata. Passammo davanti a un fioraio,che stava aprendo. Allora Pavese si fermò, entrònel negozietto e mi comprò una gardenia nuova.Mi faceva tenerezza. Non era tanto per il fatto chefosse piuttosto cupo come carattere, ma perchépareva un bambino rispetto a me. Mi faceva delledomande sulla vita, mi chiedeva come si dovevacorteggiare una donna. Gli era andata male con laCostance Dowling, e io non volevo continuare conlui un gioco, perché di questo si trattava, che loavrebbe fatto soffrire. Non ero una seduttrice, avreivoluto aiutarlo. Invece lui aveva in testa quello cheavrebbe scritto nel diario: “Chiodo scaccia chiodo.Ma quattro chiodi fanno una croce”».

Non pensava allora che sarebbe diventataun’editrice di primo piano. È così?«Non me lo sarei mai immaginato. Lo diventai perdare una mano a Giulio, quando nell’87 acquistam-mo la casa editrice da Paolo Boringhieri. Pur-troppo il sodalizio con Giulio non durò quantoavrei sperato. Iniziò a sentirsi male, era sempre piùaffaticato, un’epatite se lo portò via nel ’96. Hocontinuato per essergli fedele. Dopo la morte diAlfredo Salsano, il nostro grande direttore editoria-le, mi sono resa conto che non avrei potuto più far-cela. E siamo giunti alla fine».

Non proprio. Si ricordi che è sempre presidente.«Già. Prima di riprendere, però, mi riposo. Nonsono tanto giovane, sa? Ma l’età delle signore nonsi dice».

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L’ ora di letteratura non è l’ora di matemati-ca. Questa è una delle poche certezze checi è rimasta dai tempi di scuola. E una for-

mula non è né prosa, né poesia. Ma è una certez-za che si fa vacillante appena uno dà un’occhiataad ampio spettro alle librerie. Viene sin troppofacile constatare che i numeri primi sono solitari,è ormai cosa nota a ogni lettore. Colpa di PaoloGiordano. Ormai non c’è signora da salotto chenon sia in grado di spiegare con dovizia di parti-colari che «i numeri primi sono divisibili soltantoper 1 e per sé stessi. Se ne stanno al loro postonell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciaticome tutti fra due, ma un passo in là rispetto aglialtri. Sono numeri sospettosi e solitari». Non sa-rà la descrizione matematica esatta, c’è una colo-ritura romantica, ma ormai non saranno pochi iprofessori che se la sentiranno ripetere in classe.Perché il numero di copie vendute da Giordanomagari non è primo, ma sicuramente ha un saccodi zeri.

Ed è inutile dire che dopo l’exploit del torine-se, in Italia se appena un editore può mettere incopertina qualche numero, o almeno una legge oun teorema, ce lo mette: I numeri della sabbia, Ipazzi numeri del tempo, La formula del professo-re, L’equazione del tempo, L’ultima equazione…Ma la mania numerica non è solo italiana. Tanteper dire: La formula del professore di Yoko

Ogawa (Il Saggiatore, pagg. 200, euro 15), davve-ro un bel romanzo, ha avuto enorme successo inGiappone. E per tutto il libro le vicende di unostrano professore la cui memoria dura soltantoottanta minuti, sono castellate di formule.Esempio: «Subito dopo la sua esposizione, incisaper terra, della congettura di Artin, scrisse:28=1+2+4+7+14. Un numero perfetto».

Il legame fra letteratura e numeri, anzi lamaniacalità che avvicina gli scrittori ai numeri,non è una cosa nuova, anzi. Per rendersene contobasta leggere il dotto libro di Arthur I. MillerL’equazione dell’anima (pagg. 438, euro 21).Racconta di come il più letterario degli psicanali-sti, Carl Gustavjung, si fece convincere dal piùgeniale dei suoi pazienti, il fisico Wolfgang Pauli,a sviluppare una vera e propria mania per ilnumero 137. Finirono per pensare entrambi chefosse una costante fondamentale dell’universo,quasi un trait d’union tra la fisica e la metafisica,tra la scienza e la cabala.

Ecco: il numero evoca. Il numero ordina ediviene simbolo. Nel fluire delle parole il numerodiventa àncora, roccia su cui costruire. Da lì l’os-sessione per scrittore e lettore. E gli esempi sonotanti, radicati nell’ossatura stessa della letteratu-ra. Nella Bibbia c’è il libro dei Numeri, che partecon un censimento e trasforma il popolo diIsraele in cifre. E la Commedia del «sommo

LA LOTTERIA DEGLI SCRITTORI

L’autore ha dato i numeri? Sarà un bel libro. L’equazione dell’anima racconta la mania di Jung per il 137. Ma non è un caso unico: da Alighieri a Foster Wallace passando per PaoloGiordano. La letteratura si alimenta spesso di ossessioni algebriche

Matteo Sacchi, il Giornale, 11 luglio 2009

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poeta» è divina perché Dante Alighieri racchiudela genialità dei versi in una maniacale numeralità.Al centro c’è il 3 trinitario, ma attorno ruota tuttala Sapienza occidentale sul numero. Basti unamanciata di terzine del XXIX canto delPurgatorio: «Ventiquattro seniori, a due a due…Vennero appresso lor quattro animali… Ognunoera pennuto di sei ali».

Retaggi medievali? Non solo. Italo Calvino hascritto la splendida raccolta Ti con Zero. Il titolofa riferimento al paradosso di Zenone sulla plura-lità delle cose e il movimento. E non crediate chequesta formula sia stata una fissazione solo diCalvino. Si ritrova nei romanzi di Jorge LuisBorges, Lewis Carroll e in un poema di PaulValery, Le Cimetière Marin. E la poetessa dane-se Inger Christensen, più volte in odor di premioNobel, ha sviluppato una mania per la serienumerica di Fibonacci in cui ogni termine è lasomma dei due che lo precedono(1, 2, 3, 5, 8, 13,21, 34, 55, 89…).

Sulla base di questo principio ha costruito lasua raccolta poetica più famosa, Alfabeto. Piùpragmatico il poeta greco Nikos Kazantrakis(forse lo ricordate per Zorba il Greco), il qualeha scritto un seguito dell’Odissea in 24 libri. E,visto che il 3 era il suo numero totem, lo ha fattoin 33333 versi. Un’ossessione che gli è costata 14anni di lavoro. Peccato non siano stati 15, cioè 3

per 5 o meglio 3+3+3+3+3… In compenso ne hafatte 7 stesure e 7 per 2 fa 14. Una vera faticaccia.

Ma niente in confronto a quella di DavidFoster Wallace, per passare agli autori re-centissimi. Prima ha messo l’infinito (in ma-tematica è un 8 coricato) in un titolo: InfiniteJest. Poi ci ha scritto sopra un saggio: Tutto, e dipiù. Storia compatta dell’infinito. L’assoluto èmeno consolante del numero, o meglio dei nume-ri più piccoli… Ma ecco che il ragionamento si facomplesso. E senza aver nemmeno sfiorato lafantascienza, nata da una costola di Jules Verne,uno che metteva in pagina quasi più cifre cheparole: «Così un litro di polvere pesa circa 2 lib-bre; infiammandosi, esso produce 400 litri di gas;questi gas… sotto l’azione di una temperaturaportata a 2400 gradi, occupano lo spazio di 4000litri». (Dalla terra alla luna).

Meglio fermarsi, prendere atto che anche pergli articoli di giornale ci si attacca sempre ainumeri. Così quando domani qualcuno ci scrive-rà per ricordarci che James Joyce era ossessiona-to dal numeri e dal tempo (aveva addosso quat-tro orologi) e che è lesa maestà non citare ErnstJiinger tra i pazzi per la matematica, noi rispon-deremo: «Gli autori citati in neretto sono 13. È ilnumero fortunato del redattore, per di più èprimo, uno e trino, come somma fa 4. Non sipretenda altro!».

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N ovantatré. Si può augurare anche cosìbuon compleanno a uno scrittore (e a ungiornalista di speciale caratura). Evo-

cando un capo d’opera ottocentesco: Novantatrédi Victor Hugo, il monumento, il monarca dellapenna, che fu. Novantatré sono gli anni cheManlio Cancogni ha appena compiuto, il 6 luglio,tra i quadri di Marcucci e di Bartolini, di Carozzie di Venturino Venturini. Celebrati con un’anto-logia di racconti per Elliot, La sorpresa, unbiglietto di visita lungo mezzo secolo e oltre, dal1936 al 1993.

Marina di Pietrasanta, Fiumetto, la Versilia, èfin dalla fanciullezza il dominio misterioso di que-sto signore: forse Corto Maltese nella terza o quar-ta età, forse l’eco, la scheggia, di un «eroe» segui-to passo passo per L’espresso di Arrigo Benedetti,il Generale, De Gaulle, «la cara, indimenticabilegirafe», incantevole la sua «aria annoiata di gransignore», ma lesto a cogliere la scintilla.

Perché Manlio Cancogni ha attraversato ilNovecento così: testimoniando «lo stupore della

realtà». Tra un elzeviro, una corrispondenza, unadirezione (La Fiera Letteraria), un ventaglio diinvenzioni del vero, sia, il vero, l’amicizia conCassola in Azorin e Mirò, la Torino di PieroGobetti (La gioventù), la guerra in Albania (Lalinea del Tomori) – «…questo spettacolo straor-dinario del fronte con il fuoco della nostre arti-glierie contro le linee greche. C’è poco da fare: laguerra ha, purtroppo, questo aspetto straordina-rio» –, non scordando Allegri, gioventù (PremioStrega nel 1973), ancorché malamato («Il miolibro peggiore»).

Una vita così lunga, Cancogni, cosparsa di chis-sà quanta letture…«E invece sono diventato lettore a ottant’anni. Daallora assaporo il piacere della lettura: un donodella vecchiaia. Da giovane non leggevo volentieri.Certo, non senza eccezioni… A quindici anni sco-prii Dostoevskij: Delitto e castigo mi entusiasmò.Il mio rapporto con il libro è stato sempre, fino al1996, strumentale: in funzione dello scrivere».

«SCOPRIRE A 93 ANNI CHE L’ULISSE È UN BLUFF»

Intervista a Manlio Cancogni.Lo scrittore versigliese festeggia il nuovo traguardo con un’antologia di racconti, una testimonianza che ha come contrassegno «lo stupore della realtà»

Bruno Quaranta, Tuttolibri della Stampa, 11 luglio 2009

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Rassegna stampa, luglio 2009

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Dostoevskij e poi? Quale altro autore l’ha anco-rata nell’adolescenza e nella giovinezza? «Dedalus di Joyce, consigliatomi da CarloCassola. Divenne il mio livre de chevet. Adafferrarmi era soprattutto la scoperta dell’infan-zia come conoscenza metafisica del mondo, dovesi annida il senso della filosofia e della poesia.Ovvero: perché l’essere e non il nulla?».

Da Joyce a Joyce, alfa e omega… «A novantadue anni, in una settimana, ho attra-versato l’Ulisse, appena sfiorato intorno ai ven-t’anni nella traduzione francese di ValéryLarbaud. Ebbene: è un fallimento, una gonfia-tura, rivela un temperamento poetico limitato, adifferenza di Dedalus e della liriche: Musica dacamera e Poesie da un soldo».

La poesia. Quali i suoi autori? «Montale era il numero uno. Nella lingua è, resta,comunque il maggiore, il più forte. Ma, passando lestagioni, scorgo nella sua opera un po’, come dire?,di impostura… A lievitare è Betocchi. Lo caratteriz-za la disponibilità, non lo grava una visione precon-cetta. E Penna: puro estetismo. E Caproni, sino alCongedo del viaggiatore. Dopodiché cede allaleziosità, comincia a giocare…».

L’amicizia con Cassola…«Risale al ginnasio. Carlo era di poco più giova-ne, ma più precoce. Mi fece scoprire diversi,grandi autori: da Lawrence a Huxley, allaMansfield. No, Kafka lo scoprii io prima di lui.Era la migliore letteratura europea, che trovavaospitalità nella Medusa».

Anni Trenta, il Fascismo in auge…«Ma la politica culturale fu l’unico punto positi-vo del Ventennio. Dalla Treccani a Cinecittà,dalla Biennale di Venezia alla Quadriennale diRoma, alle case editrici e alle loro collane. Hocitato la mondadoriana Medusa, penso aFrassinelli, che accolse L’armata a cavallo diBabel’, sulla rivoluzione russa. E lo stesso Ma-nifesto del Partito Comunista, in appendice a untesto di Labriola, era di continuo ristampato. E ilMaggio Fiorentino. E Stravinskij a Roma. El’Accademia d’Italia, “un bel prendere”, come

ammetterà Bacchelli, sicuramente non fascista. Ela Città universitaria, con l’impronta piacentinia-na – ma il migliore Piacentini – e le opere diPagano che facevano sentire il visitatore adAmsterdam».

Quando l’intellettuale «rompe» con il Fascismo?«Con le leggi razziali, e lo scoppio della guerra. Il1938 sarà devastante per un amico come GiorgioBassani, messo al bando dalla sua città di pianu-ra. Lo conobbi nel ’43, a Firenze, alle GiubbeRosse, il ritrovo degli scrittori fino al 25 luglio.Sotto la protezione di Ottone Rosai: era statosquadrista, garantiva la nostra indifferenza allapolitica».

Bassani scrittore…«Di sicuro nel mio pantheon. Come il Cassola deiracconti e dei romanzi brevi, da La visita, re-censito su Corrente, a Il taglio del bosco. Comela Ginzburg. Come Romano Bilenchi che diede ilmeglio di sé nel decennio ’30-’40. Come AntonioDelfini, un signorotto di provincia, capriccioso,sprezzante verso chi lavorava. Come MarioTobino: saldo, saldissimo, non è mai calato diqualità. La ladra, per esempio, il racconto lungodell’84: eccelso».

Amici e maestri…«Di maestri ne riconosco uno solo, io che mai neavevo avuti: l’Università, la Facoltà di Giurispru-denza, mica l’ho frequentata, mi presentavo agliesami… Ebbene: il maestro lo riconoscerò inCarlo Levi, di cui lessi per primo Cristo si è fer-mato a Eboli al di fuori della tradizione italiananovecentesca. Lo aveva scritto a matita, con na-turalezza e facilità, come con naturalezza e facili-tà faceva ogni cosa».

Maestro perché?«Era stato a Parigi. E in Inghilterra. Aveva spu-gneggiato Piero Gobetti. Uno straordinario baga-glio di esperienze. Di un cosmopolitismo chediscendeva per li rami dell’ebraismo. Era unafigura biblica, una sorta di Mosè. Avanzava comese le acque dovessero sicuramente dividersi. Unafiducia che lo aiutò non poco a superare la trage-dia della guerra».

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La guerra e dopo. Lo scrittore Cancogni non sa-rà editorialmente monogamo. Tra le sue case,Einaudi, il rapporto con Vittorini e conCalvino… «Vittorini… Conversazione in Sicilia eAmericana, l’antologia del ’41, soprattutto unmanager della cultura… Calvino: appartiene allaletteratura francese più che a quella italiana. Èuno scrittore luministico. La sua è una bellezzache sento profondamente esteriore».

Cancogni e l’altro mestiere, il giornalismo, quan-ti fogli…«Due giornalisti hors-catégorie? Gian CarloFusco: il giornalismo era un mestiere al di sottodel suo talento, per il Mondo pannunziano lo sol-lecitai a mettere nero su bianco, lui magistrale nelteatro orale, i racconti che formeranno Le rosedel Ventennio. E Indro Montanelli, impareggia-bile divulgatore di storia, non storico, egli stessonon si riteneva tale. Ma anche sicuro scrittore:XX Battaglione eritreo in primis».

Dall’Espresso all’Osservatore Romano, dovesono comparsi gli ultimi suoi elzeviri…«Già, che parabola… Una collaborazione cherisale al ’98. Mi venne proposta dopo un’udienzacon Giovanni Paolo II che sconvolse NelloAjello. Su la Repubblica parlò di me come folgo-rato dalla Grazia in piazza San Pietro. In realtà lamia conversione risale al ’93, coincide con lamorte di una mia figlia, è l’esito di un contrasta-to cammino, lungo come la mia esistenza, do-minata dal pensiero della morte».

Da ottant’anni a oggi, il piacere puro della lettu-ra. Quali scoperte? «Letture e riletture, scoperte e riscoperte. Quandovoglio sentirmi fresco, bene, giovane apro L’isoladel tesoro, il trionfo del mare, dell’infinito oriz-zonte che il mare è, neppure Moby Dick…».

Di metamorfosi in metamorfosi, Manlio Can-cogni, fino a indossare un verso di Betocchi:«…son colmo di quest’esistere / in cui mi trasfor-mo e muovo».

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C hi ha paura di Dan Brown? Tutti. Da quan-do, la settimana scorsa, è stata resa nota ladata d’uscita di The Lost Symbol, sequel di

Il codice da Vinci, prevista per il 15 settembreprossimo, svariati colleghi scrittori di lingua an-glosassone hanno cominciato freneticamente adanticipare l’uscita delle loro ultime creazioni. Traquesti figurano nomi altisonanti come SebastianFaulks, Nick Homby, addirittura il Nobel 2003Coetzee, il Booker 2000 Margaret Atwood e moltialtri. Il motivo è semplice: nessuno vuole compete-re con The Lost Symbol (“Il simbolo perduto”).Perché la battaglia pare persa in partenza.L’ultimo di Dan Brown avrà una prima tiratura diben 6,5 milioni di copie, un record nella storiadella sua Random House, la più grande casa edi-trice di lingua inglese nel mondo. E considerandole oltre 81 milioni di copie vendute in giro per ilmondo da Il codice da Vinci, è lapalissiano preve-dere un’imponente schiera di ristampe di TheLost Symbol dopo il suo lancio. Ragion per cui,pubblicare un libro nello stesso periodo di questoannunciato bestseller sarebbe un clamoroso auto-gol. E per il confronto del numero di copie vendu-

te. E per la risonanza mediatica, che intorno al 15settembre sarebbe inevitabilmente ristretta, con gliscaffali di librerie e supermercati assolutamenteinvasi dalle strabordanti copie di The LostSymbol. Che è già in cima alla lista di Amazon deilibri più prenotati.

E così, per i colleghi di Brown, è partita lacorsa a pubblicare i rispettivi inediti il prima pos-sibile. Prendiamo ad esempio l’inglese SebastianFaulks, il cui ultimo romanzo Non c’è tempo permorire – che celebra James Bond e i cento annidalla nascita del suo inventore Fleming –, inpatria stabilì un record con la casa editricePenguin, vendendo oltre 44mila copie nei primiquattro giorni. Mentre il più vecchio Il canto delcielo, pubblicato nel 1993, ha venduto più di tremilioni di copie. Un bel curriculum che però,paragonato ai numeri di Brown, impallidisce disoppiatto. E così Faulks, che aveva previstol’uscita del suo inedito A Week In December perl’inizio del nuovo anno, ne ha forzatamente anti-cipato la data al 3 settembre.

Allo stesso modo hanno pensato di agire glialtri, nonostante un passato da bestseller. Il

CHI HA PAURA DI USCIRE CON DAN BROWN?TUTTI I SUOI COLLEGHI

Una settimana fa è stato annunciato che l’ultimo libro dell’autore americano,Il simbolo perduto, sarà pubblicato il 15 settembre. Da allora, tante altre pubblicazioni previste nello stesso periodo sono state anticipate. Per non essere travolte dal successo annunciato

Antonello Guerrera, Il Riformista, 14 luglio 2009

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primo di questa lista di “anticipatori” saràl’81enne irlandese William Trevor, totem inpatria, meno conosciuto in Italia, che vanta unamonumentale produzione letteraria. L’uscitadella sua ultima fatica Love and Summer erastata prevista dalla Penguin per i primi di set-tembre. Alla fine, è stata anticipata al 27 agosto.La gloriosa casa editrice ha ammesso al DailyTelegraph: «Appena abbiamo scoperto che illibro di Brown sarebbe uscito il 15 settembre,abbiamo dovuto cambiare i nostri programmi».Una spiegazione valida anche per un altro scrit-tore di casa Penguin, quel Nick Hornby diFebbre a 90° e Alta fedeltà, che dopo l’ultimoromanzo Tutto per una ragazza pensava diprendersela con più calma per l’ultimo Juliet,Naked. Anche lui, invece, è stato anticipato al 3settembre.

Destino analogo e data di pubblicazioneaggiornata anche per la femminista Fay Weldon(con Chalcot Crescent), il Nobel – e doppioBooker – John Maxwell Coetzee (con il suoSummertime, epilogo della trilogia di memorie“fantastiche”), Iain Banks (con Transition), Sadie

Jones (Small Wars) e Rachel Cusk (TheBradshaw Variations). Più tardi hanno anticipa-to, per evitare il ciclone Brown, anche MargaretAtwood (con The Year of the Flood, 4 settem-bre), William Boyd (Ordinary Thunderstorms, 7settembre) e il cantante superdark Nick Cave (conil primo romanzo dopo venti anni, The Death ofBunny Munro, ora fissato al 9 settembre).

Una mole di cambiamenti definita «senzaprecedenti» da Simon Burke, manager della cate-na di librerie britanniche Waterstones. Ma solu-zioni alternative, evidentemente, ce n’erano benpoche. Quando arriva Brown, è meglio stare allalarga. Il codice da Vinci è rimasto piantato nellatop ten di vendite del Regno Unito per oltre dueanni dal 2004, oltre ad essere il romanzo per adul-ti più venduto nella storia britannica, davanti a,neanche a dirlo, La verità del ghiaccio, Angeli eDemoni e Crypto. Un monopolio per ora imbat-tibile. E le probabilità che Il simbolo perduto –che vedrà nuovamente protagonista il professoredi Harvard Robert Langdon e che si addentrerànel mondo massonico di Washington – rafforziquesto monopolio sono più che realistiche.

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L a parola suona tecnica e misteriosa, ma tut-ti coloro che frequentano la scrittura,l’editoria, i libri, la conoscono bene. Si

tratta dell’editing: e cioè quella procedura percui, consegnato un manoscritto, qualcunocomincia a fare le pulci all’autore: segnala lelungaggini, i punti morti, quelli dove si è invecetirato via. E poi le trasandatezze stilistiche, leripetizioni, gli eventuali errori di grammatica osintassi, insomma ciò che non va nel nostrocapolavoro. L’editor è in teoria colui o colei checi aiuterà a portare il libro all’altezza dellenostre aspettative.

Figura benemerita? Non tutti sono d’accordo.C’è chi la rifiuta e chi ci scherza, come il Nobelsudafricano J.M. Coetzee, che nel Diario di unanno difficile fa ammettere al suo alter ego diaver bisogno di «un leggero editing» per i suoimanoscritti. I nemici dell’editing non mancano.La critica Carla Benedetti, per esempio, si è sca-gliata di recente contro questa pratica che«pastorizzerebbe» la letteratura in funzione com-merciale, mettendola al servizio del mercato. Poisi leggono i libri, e sorge il dubbio che il proble-

ma sia un altro. Non sarà per caso un falso bersa-glio, questo editing in via di estinzione?

La scorsa settimana, sul Riformista, un arti-colo firmato con lo pseudonimo di DomenicoPeste faceva le pulci ai finalisti dello Strega, sco-prendo qui e là qualche distrazione, come «unamacchina parcheggiata vicino al paese più vici-no» in L’istinto del lupo di Massimo Lugli e uncadavere «ritrovato privo di vita» nel Bambinoche sognava la fine del mondo, di AntonioScurati. In quest’ultima caso la diagnosi è dub-bia. È possibile che Scurati faccia il verso aigiornali, regno del refuso e di ogni tipo di erro-re, dati i tempi rapidissimi di scrittura e stampa.Un altro autore Ugo Barbàra, In terra consacra-ta, scrive che a un uomo d’affari l’eccessiva spre-giudicatezza «era costata una catasta di prote-sti» (allitterazioni e cacofonia a gogò). Senzadimenticare, scrive ancora il Riformista, il liri-smo di Filippo Bologna (Come ho perso la guer-ra): «Ad ogni figlio la vita come un incendio simangia la boscaglia, si spingeva un po’ più in là,sempre più lontana la guerra, e gli anni difficilidelle agitazioni contadine, ormai la vita sempre

ADDIO ALL’EDITOR, UCCISO DAL MERCATO

Oggi anche nei libri di grande successo abbondano sviste, strafalcioni e ripetizioni

Mario Baudino, La Stampa, 14 luglio 2009

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più lontana dalla vita» in cui è difficile non per-dere il filo del discorso. E i vecchi marpioni edi-toriali sorridono con una certa superiorità,ricordando che questi errori non sono mai deci-sivi per il successo o l’insuccesso di un libro.Anni fa, quando uscì Seta, il bestseller diAlessandro Baricco, ci si accorse solo con note-vole ritardo che l’autore lasciava «sfarfallare» ibachi, cosa che non deve assolutamente avveni-re perché il bozzolo si squarcia e non se ne puòpiù ricavare il pregiatissimo filo. L’elenco dellesviste è, al proposito, sterminato: da Asor Rosache scrive Curzio Maltese invece di CurzioMalaparte nella sua celebre Storia europea dellaletteratura italiana, a George Steiner che in Unacerta idea di Europa si vede tradurre il titolo diuna celebre poesia di Rilke, Arcaico torso diApollo, in «antico busto»; per non parlare diEugenio Scalfari che nella prima edizione diAlla sera andavamo in via Veneto aveva com-messo alcuni errori di francese, sbertucciatiall’epoca da Mario Cervi. La recente ristampa liha riproposti tali e quali. Ora, se anche iVenerabili Maestri, come direbbero Arbasino eBerselli, non vengono seguiti con tutte le infini-te cure che meritano, che accadrà agli altri? Larisposta è persino ovvia. Il bravo LeonardoColombati, in Rio, scrive, parlando di Londra,Savile road invece di Savile row, e fa arrivare laCircle Line fino a Oxford Street, cose che stupi-rebbe ogni londinese.

Anche Il codice da Vinci di Dan Brown rigur-gita, fin dalla prima edizione, di errori e svisted’ogni tipo, e non è detto che la cosa sia menograve per il solo fatto che si tratta di bestsellerscritto comunque malissimo. C’è stato un tempoin cui Vittorini e Calvino tenevano inchiodati gliautori anche per anni, magari su una frase. O, epi-sodio celeberrimo, c’è stato un editor che hainventato Raymond Carver, costringendolo a scri-vere frasi brevi ed elementari, quasi violentando-lo, e facendone il padre del minimalismo. Si chia-mava Gordon Lish, e sul nome ancora ci siscontra: Carla Benedetti, per esempio, lo conside-ra il vero pericolo, il modello da evitare, il padre

di tutti gli editor che uccidono la letteratura. Datala situazione, ha ancora senso discuterne? Ebbenesì, risponde Ferruccio Parazzoli, romanziere efunzionario editoriale, storico editor dellaMondadori. «A patto di metterci d’accordo sullaparola. C’è un editing “principale”, che si rivolgealla struttura del testo, e un altro che potremmodefinire lavoro di redazione. Quest’ultimo riguar-da le piccole imperfezioni, le scelte lessicali, le svi-ste, e si continua a svolgerlo con molta acribia,all’interno o all’esterno della casa editrice. Puòaccadere che qualche volta il lavoro non sia svol-to alla perfezione, ma questo non inficia il princi-pio. L’editing principale, che è invece importan-tissimo, si fa quando ne vale la pena».

Parazzoli è convinto che l’editing dovrebbeessere sempre letterario: «Anch’io sono contra-rio a quello “uniformante”». Ogni buon libro hadiritto a un suo editing particolare, dedicato.Ben detto, ma è ancora possibile? Laura Lepri,editor indipendente, insegna questa delicataarte al Master di editoria della FondazioneMondadori e conduce giornate di studio perconto dell’Aie, l’associazione degli editori. Nonè convinta che la situazione sia così grave. Leiriceve richieste sia dagli editori sia dagli autori.«Si tratta di un investimento» spiega. «Certo,Calvino si prendeva un tempo enorme per “ilibri degli altri”; ora tutto è più complicato.Però questo rimane un lavoro di servizio e diseconda linea, in cui si discute con l’autore sullabase del suo progetto e della realizzazione. Nonci sono autorità esterne, ma un libro che vieneverificato insieme all’autore». Allora ha tortochi lo vede come un procedimento di omologa-zione appiattito sul mercato? «Queste polemi-che sono provinciali; anche perché da noi il pro-blema è semmai che non se ne fa abbastanza.Tant’è vero che spesso i libri escono “sciabatta-ti”». Resta da chiedersi se dobbiamo scandaliz-zarci. Ma da esperto di lungo corso, è Parazzoliche invita a sdrammatizzare: «In ciabatte alloStrega? Se anche così fosse, non sarebbe unanovità. Basta guardare con attenzione al passa-to: c’è da divertirsi, e non poco».

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Se intervistare è un’arte, dal 1953 la rivista The Paris Review pubblica capolavori. Ritratti a tutto tondodelle più grandi voci della letteratura. Come i sedici contenuti nell’antologia che adesso Fandango pubbli-ca in esclusiva per l’Italia (The Paris Review Interviste vol. 1, traduzione di Francesca Valente, pagg. 502,euro 22), di cui anticipiamo alcuni estratti. Da più di mezzo secolo, le firme del magazine americano inse-guono gli scrittori nelle stanze da lavoro. Cercando i trucchi del mestiere, i tic, i ricordi. E loro, gli autori,li lasciano fare. Perché il risultato è frutto di una collaborazione: nessun testo è stato mai licenziato senzal’approvazione dell’intervistato. È così che sono nati incontri memorabili. Come quello del 1958 con ErnestHemingway, che appare a George Plimpton quasi coinvolto in uno scontro fisico con la sua scrittura: «Sene sta lì, nei suoi mocassini sformati di pelle di cudù tutta consunta, e di fronte all’altezza del petto, la mac-china per scrivere e il piano da lettura»). Opposta l’immagine di Truman Capote, che, ricevendo Pati Hillnella casa gialla di Brooklyn Heights condivisa con il bulldog Bunky, non fa mistero di usare il letto comescrittoio. E via così: la Paris Review ha colto in più di mezzo secolo la grazia con cui Borges trattava dellasua cecità. Lo humour amaro di Saul Bellow. I ricordi dal fronte di Kurt Vonnegut, interrotti dalla sua tosseda fumatore di lungo corso. E ancora: i giudizi di Dorothy Parker sui colleghi e l’insospettabile leggerezzadi Elizabeth Bishop.

L’ARTE DI SCRIVERELe tecniche di narrazione e i segreti del mestiere spiegati dai grandi della letteratura.

Ecco i brani delle interviste tratte da The Paris Review e pubblicate ora in edizione italiana

Dario Pappalardo, la Repubblica, 15 luglio 2009

Gli inizi«Mi rendevo conto che volevo essere uno scrittore, ma non fui sicuro che lo sarei diventato fino all’età dicirca quindici anni. All’epoca avevo cominciato a inviare senza modestia i miei racconti a riviste e perio-dici letterari. Naturalmente nessuno scrittore si scorda la prima risposta positiva, ma un giorno a dicias-sette anni io ottenni la prima, la seconda e la terza tutte nella stessa mattinata».

Dove scrive«Sono un autore totalmente orizzontale. Non riesco a pensare se non sono sdraiato, sul letto o sul diva-no, e con una sigaretta e caffè a portata di mano. Devo fumare e sorseggiare. A mano a mano che passail pomeriggio passo dal caffè al tè alla menta allo sherry al martini».

La tecnica:«No, non uso la macchina per scrivere. Non all’inizio. Scrivo la mia prima versione a matita. Poi faccio unarevisione completa, anch’essa a mano. Poi batto una terza bozza su carta gialla, un tipo molto speciale dicarta gialla. No, non esco dal letto per farlo. Mi metto la macchina per scrivere sulle ginocchia. Quando èfinita la copia gialla metto via il manoscritto per un po’: una settimana, un mese, a volte di più. Quandolo tiro fuori, lo leggo nel modo più freddo possibile, poi lo leggo a voce alta a un amico o due, e decidoche cambiamenti voglio fare e se voglio o no pubblicarlo».

I maestri«Ci sono entusiasmi che rimangono costanti: Flaubert, Turgenev, Cechov, Jane Austen, James, E.M. Forster,Maupassant, Rilke, Proust, Shaw, Willa Carther – ma questa lista sarebbe troppo lunga, quindi finirò conJames Agee, uno scrittore meraviglioso la cui morte è stata una grave perdita».

Truman CapoteCOMPONGO A LETTO BEVENDO SHERRY

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Gli inizi«Per il Kansas City Star (il giornale per cui lavorònel 1917, ndr), si doveva scrivere imparando a usa-re frasi semplici ed esplicative. E questo è utile, perchiunque. Lavorare per un quotidiano non fa certomale a un giovane scrittore, e di sicuro gli può ser-vire, a patto che se ne tiri fuori in fretta».

Dove scrive«Su un tavolo da lavoro, un metro quadrato scar-so, assediato su un lato dai libri e sull’altro damanoscritti, opuscoli e pile di fogli coperti da gior-nali. C’è appena lo spazio per la macchina per scri-vere, sormontata da un asse di legno sul qualeappoggiarsi durante la lettura, per cinque o seimatite e per un minerale di rame usato come fer-macarte. La scrittura avviene sempre in piedi».

La tecnica«Quando lavoro a un libro o a un racconto, comincioa scrivere la mattina, alle prime luci dell’alba. Non c’ènessuno che mi disturbi, e poi fa fresco, talvolta fred-do, così mi scaldo lavorando. Leggo quello che hoscritto il giorno prima e siccome m’interromposapendo sempre quello che verrà dopo, ricomincio dalì. Scrivo fino a quando ho ancora qualcosa chepreme per uscire e passare sul foglio, e so che cosadeve succedere, allora mi fermo e cerco di vivere finoal giorno successivo. Ogni giorno, prima di ricomin-ciare, rivedo il testo fin dove sono arrivato e quandoho finito lo rileggo interamente. Poi posso di nuovocorreggerlo dopo che è stato battuto a macchina edè scritto chiaro. Di Addio alle armi ho riscritto la fine,l’ultima pagina intendo, trentanove volte».

I maestri«Prima di rileggere Twain bisogna aspettare alme-no due o tre anni, altrimenti lo si ricorda troppo.Invece riprendo in mano Shakespeare ogni anno,soprattutto il Lear».

Ernest HemingwayHO FATTO UN FINALE TRENTANOVE VOLTE EVITO LA FANTASIA, INFASTIDISCE I LETTORI

Jorge Luis Borges

Gli inizi«Da giovane mi consideravo un poeta. Quindi pensa-vo: se scriverò un racconto tutti capiranno che sonoun semplice outsider, che sto invadendo un territo-rio proibito. Poi ebbi un incidente. Mi dicevo: “Forsenon potrò più scrivere”. Così pensai di mettermi allaprova scrivendo un articolo o una poesia. Ma pensaianche: ho scritto centinaia di articoli e poesie. Se oranon riuscirò a farlo, saprò subito di essere finito, chenulla ha più senso per me. Allora mi venne l’idea dimettermi alla prova con qualcosa che non avessi maifatto prima: se non ci fossi riuscito non ci sarebbestato niente di strano… Perché mai infatti avreidovuto essere capace di scrivere racconti?».

Dove scriveNel suo ufficio alla Biblioteca Nacional di BuenosAires, della quale era direttore. Agli angoli diago-nalmente opposti della stanza ci sono due grandilibrerie girevoli, che contengono libri consultati difrequente, tutti disposti in un ordine preciso e maispostati per permettere a Borges di riconoscerli daquando ha perso la vista.

La tecnica «Quando ho cominciato a scrivere pensavo chetutto dovesse essere ridefinito dallo scrittore. Peresempio, dire “la luna” era severamente proibito;bisognava trovare un aggettivo, un epiteto per laluna. Pensavo di dover essere fantasioso, ora credoche questo infastidisca il lettore… Cerco di usareparole comuni, eliminando quelle insolite».

I maestri «Credo che Mark Twain sia appartenuto alla cate-goria degli scrittori veramente grandi. Oggi i lette-rati sembrano trascurare i loro doveri in fatto diepica. La tradizione epica è stata salvata per ilmondo nientemeno che da Hollywood».

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IL SUGGERITORE DENTRO DI MESaul Bellow

Gli inizi«Quando ho scritto i miei primi libri ero pieno ditimori. Mi sembrava un gesto d’incredibile sfronta-tezza il fatto di presentarmi al mondo (e in parteintendo il mondo dei bianchi americani) come scrit-tore, come artista. Mi sentivo sempre in dovere discendere in campo e segnare una tripletta, di dimo-strare le mie capacità, di tenere in gran conto i for-malismi. Insomma, avevo paura di lasciarmi andare».

Dove scrive«In uno studio riempito senza rigore estetico dauna coppia di scrittoi e alcune sedie sgangherate emal assortite».

La tecnica«Per poter scrivere Henderson e Herzog dovettiammorbidire e moderare lo stile che avevo matu-rato in Angie March. Entrambi riflettono questocambiamento di tono. Non saprei davvero comedescriverlo, e non ho intenzione di scervellarmi pertrovare una definizione esatta. Posso dire, però,che ha qualcosa a che vedere con una specie dinecessità incombente, di sollecitudine nel registra-re le impressioni scaturite da una fonte della qualesappiamo poco. Credo che in ciascuno di noi ci siaun suggeritore o un commentatore ancestrale chefin dall’inizio della nostra vita ci consiglia, indican-doci quale sia il mondo reale».

I maestri«Mi piacciono Hemingway, Faulkner e Fitzgerald.Penso a Hemingway come a un uomo che hacostruito un significativo modello d’artista, uno stiledi vita rappresentativo dello scrittore. Ma apprezzodi più i romanzi di Fitzgerald, anche se spesso ho lasensazione che non sapesse distinguere tra innocen-za e scalata sociale. Mi riferisco al Grande Gatsby».

Gli inizi«Ho sempre scritto con facilità. E inoltre, ho impa-rato a scrivere per i miei coetanei più che per i pro-fessori. La maggior parte degli scrittori in erba nonaveva interesse a scrivere per i coetanei – e beccar-si i loro cazziatoni».

Dove scrive«Ovunque purché con pacchetti di sigarette PallMall posti accanto alla macchina per scrivere».

La tecnica«È un problema meccanico. Gran parte del proces-so di costruzione di una storia è meccanica pura,ha a che fare, cioè, con i problemi tecnici chedevono essere risolti perché la storia funzioni. Peresempio, le storie di cowboy e poliziotti finisconocon una sparatoria, dal momento che le sparatoriesono i meccanismi più credibili per far concluderele storie di quel tipo. Non c’è nulla di simile allamorte per dire quella parola falsa che sempre èfrutto di una decisione arbitraria: Fine. Sono untecnocrate talmente barbaro da essere convintoche si possa armeggiare e rattoppare una storiacome si fa con una Ford modello T».

I maestri«Cristo Santo, avevo trentacinqueanni quando hoperso la testa per Blake, quaranta quando ho lettoMadame Bovary, e prima dei quarantacinque nonavevo nemmeno mai sentito parlare di Céline.Fortuna volle che leggessi Angelo, guarda il passa-to all’età giusta per farlo. A diciotto anni».

Kurt VonnegutRIPARO I RACCONTI COME UN MECCANICO

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A forza di ripetere che il romanzo è morto,non è che lo hanno ammazzato sul serio?Sarà per questo che i romanzi fanno schi-

fo?» mi ha chiesto Alessandro Gnocchi. Già. Danoi è vero più che altrove, perché il refrain è statosubito accolto come un tana libera tutti. Tuttaviase il romanzo è stato ucciso individuare i man-danti e le relative ideologie mortiste sembra com-plicato, anche perché da un certo punto in poiassassini e vittime coincidono. Ecco quindi unpiccolo manuale per saperli riconoscere. E dun-que, chi ha ucciso il romanzo?

L’estetica crocianaLetteratura o no? Era la fissazione di BenedettoCroce, che ci ha messo in croce per decenni, anti-romanzesco di prima fila, come ci ha crocifissoper un secolo con la frase: «Non possiamo nondirci cristiani». Nella sua distinzione tra “poesia”e “non poesia” tra i tanti ha buttato alle orticheFederico De Roberto e l’umorismo di LuigiPirandello, ma guardava con sospetto anche laDivina Commedia. Il romanzo, per lui, era pocacosa: se andava bene era un oggetto platonico, seandava male un oggetto da buttare via.

MarxismoCiò che attecchisce, della critica marxista, èun’idea di morte del romanzo in quanto fictionborghese, in nome di un realismo che schiaccia larealtà sulla lotta di classe. È l’avvento dell’arte alservizio del popolo, degli intellettuali organici,dei narratori organici, mentre la narrativa nonorganica è collaborazionista. La chimica, conquesta fissazione dell’organico, c’entra poco: siama tutto ciò che fuoriesce dall’estetica e dall’ar-te, e dunque biografia, diario, scritti corsari,reportage, articoli, e da lì a poco il romanzo o è“impegnato” o non è. È la letteratura espropriatadal giornalismo, e viceversa.

FormalismiIl formalismo, lo strutturalismo, la semioticacominciano con il mettere fuori gioco l’autore eazzerare le gerarchie estetiche. L’autore nonconta niente, produce solo dei testi, e ogni testoè un testo da smontare, un giocattolo. Ne derivache un testo vale l’altro: un fumetto, unapubblicità, un elenco del telefono, la DivinaCommedia o l’Ulisse di Joyce sono sullo stessopiano.

Killer letterariMassimiliano Parente, Libero, 17 luglio 2009

I critici gufi sono soddisfatti. Alla fine il romanzo è morto.Gruppettari, marxisti e sedicenti avanguardisti teorizzanoda decenni l’esaurimento della narrativa. Accontentati: ora trionfa la spazzatura

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NeoavanguardismoAlcune delle avanguardie centrali del primoNovecento, in particolare futurismo, dadaismo,surrealismo, attaccano tutto ciò che è opera d’ar-te, con buone ragioni da una parte e con granditorti dall’altra, perché nel tritacarne dell’operad’arte ci finisce anche il romanzo. Paroliberi,scritture automatiche, cut & paste, rifiorirannonegli anni Sessanta, in Italia con il Gruppo 63, inpolemica con il marxismo dell’impegno, per unascrittura del disimpegno che, a parte Fratellid’Italia di Alberto Arbasino, non ha lasciatoopere, solo proclami. Tuttavia della “morte nelromanzo” ne parlavano già Ortega y Gasset nel1925 e Walter Benjamin nel 1930.

BenedettismoLa critica vivente Carla Benedetti, autrice de Iltradimento dei critici, attaccò anni fa questaideologia funebre della morte dell’autore(«L’ombra lunga dell’autore»), però ricadendosubito dopo in un’ideologia postmarxista, che è ilmarxismo senza Marx. Nel suo Pasolini controCalvino mette i due autori a confronto e parteg-gia per Pasolini, ma solo per valori extraletterari,di lotta politica. Se togliete la società, del Pasolinidella Benedetti non resta nulla. Anche per laBenedetti “l’arte” è un concetto borghese, daabbattere, e dunque il romanzo è morto. Nonammette inoltre alcuna forma di elitarismo esteti-co, su L’espresso elogia sia Moresco sia la bio-grafia del tronista Costantino di Genna, e dun-que è perfino un tantino postmodema. Nonditeglielo che ci resta male.

PostmodernismiIl postmodernismo è invenzione del secolo scor-so relativamente recente, e nasce già quando sicomincia a definire un modernismo. Lyotardc’entra poco, era già nell’aria. Dopo le avanguar-die storiche, dopo i grandi del Novecento(Proust, Joyce, Kafka) non si può far altro cheessere postumi. L’ideologia del postmodernospezza anche ogni idea di progresso nell’arte. Seè possibile rintracciare una linea evolutiva cheporta dall’impressionismo al cubismo, dal dadai-smo fino alla Pop art, se è possibile leggereun’evoluzione di pensiero da Balzac a Flaubert,

da Flaubert a Proust, nel postmoderno tutto èuguale, vengono abolite le differenze.

MulticulturalismiIl multiculturalismo è la variante terzomondista delpostmodernismo, dove non esistono più canoni.Dopo aver ucciso i valori estetici, si deve abolirel’eccellenza, e dunque si predilige tutto ciò che èmarginale e straccione. Se ne è lamentato più volteHarold Bloom, che ha scritto Il canone occidenta-le e Il genio, vale a dire roba reazionaria. Il mul-ticulturalismo si fonde con gli ultimi residui del-l’ideologia marxista e produce un terzomondismonarrativo che ama la narrativa d’emarginazione,d’immigrazione, d’emigrazione, la letteratura deiPaesi in via di sviluppo nei Paesi non occidentali ela letteratura antioccidentale nei Paesi occidentali.Se riportassimo questo discorso alla comunitàscientifica rifiuteremmo un antibiotico per unaqualsiasi terapia esotica. E in effetti, fuori dall’arte,è diffuso l’atteggiamento di ammirazione per tuttociò che è “alternativo” e “naturale”, medicineorientali, africane, l’omeopatia, l’agopuntura, leenergie da liberare, il cattolicesimo ibridato colbuddismo ibridato con scientology.

GenerismoSi esce da scuola con l’idea inculcata che ogniromanzo appartenga a un genere e non con quel-la giusta che, se appartiene a un genere, non è let-teratura ma intrattenimento. Gli scrittori di ge-nere, approfittando della gracilità della critica,del postmodemismo e del terzomondismo,condiscono i propri thriller di complottismo poli-tico così da risultare perfino impegnati. Ti rifiloun thriller, ma combatto il potere.

MassimalismoTermine inventato recentemente, dallo scrittoredi genere Giuseppe Genna e altri, per annullarele differenze gerarchiche tra un giallo e la lettera-tura, che non ha generi, casomai ti sfonda e fondail proprio. Con questo escamotage Camilleri è ungiallista e Robert Musil un massimalista, sempli-cemente due generi diversi. Uno scrittore, chenon ha uno status se non su facebook, si sentechiedere: «Scrivi romanzi? Di che genere?». Iorispondo sempre: «Faulkner che genere era?» e

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Chi ha ucciso il romanzo?

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l’interlocutore che non conosce il trucco di Gen-na resta senza parole.

RuffianismoPoiché il romanzo è morto, se vincete un premioletterario, per esempio lo Strega anche se sieteuno di quelli che ha sempre gridato al sistemainfame e all’idiozia dei critici, siate felici e anzi,fate i complimenti anche al romanzo del secondoarrivato, tanto chi se ne accorge che siete uguali esiete lì per questo.

CazzonismoIn Italia tutto questo si fonde con il cazzonismocritico e narrativo degli ultimi della classe che,morti i primi, sono diventati gli unici. I neocriticimortisti leggono solo saggetti scritti dai critici e sidomandano chi sono i critici, cosa ci stanno afare, e di questo hanno fatto un mestiere. Gliscrittori scrivono come se non ci fosse stato nien-te prima, come se si fossero svegliati oggi. I criti-ci non si ricordano più neppure quello che c’eraprima, leggono sé stessi facendo finta di leggerequalcosa. Se riportassimo questo discorso allacomunità scientifica avremmo abolito Galileo.Cureremmo un’infezione batterica con le erbearomatiche. Tuttavia molti lo fanno.

OpinionistiI suddetti cazzonisti approfittano della debo-lezza della parola, che non conta più nulla, per-ché le opinioni si rispettano. Negli Stati Unitinacque pure un’ideologia apposita, formulatada Richard Rorty, i “reader oriented”, ognunoè critico quanto un altro. Ogni opinione valel’altra. Solo che mentre in America è duratapoco, in Italia l’abbiamo presa alla lettera e leredazioni assumono chiunque sappia talmentepoco da poter parlare di tutto. Critico è chi ilcritico fa.

ParentismoE l’idea di Massimiliano Parente, terribilmentesnob, spietata e autolesionista. Per Parentecontano solo le grandi opere mentre il resto,che non resta, è l’effimero temporaneo e den-tro ci finiscono critici, scrittori, giornalisti,nemici e amici. Per Parente il postmodernonon è mai esistito. Lo sapeva Flaubert, che diAugé non sarebbe rimasto niente, lo sapevaProust, che di Hamp non sarebbe rimastoniente, lo sa Parente, che di Scurati non reste-rà niente, solo che i geni sono così generosi dacitare gli altri per vezzo, per regalargli un bri-ciolo di eternità.

Estetica crociana

MarxismoFormalismo

Neoavanguardismo

Benedettismo

Postmodernismo

MulticultularismoGenerismo

Massimalismo Ruffianismo

Cazzonismo

Opinionismo

Parentismo

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H o conosciuto Sergio Perosa 47 anni fa,all’Università di Trieste, diventando subi-to suo amico. Devo alla lettura del saggio

di Perosa su Fitzgerald, idealmente proseguitacon quella dei suoi libri su James e le vie dellanarrativa americana, un’apertura non solo su fon-damentali autori e correnti letterarie, ma anche esoprattutto sulla costruzione e dissoluzione dellestrutture del romanzo novecentesco. La criticaletteraria può essere non meno creativa del-l’invenzione romanzesca, in quanto può rivelare,in forme diverse ma con altrettanta forza, unmondo e le strade per percorrerlo.

Puntigliosamente rigoroso nella precisionefilologica e linguistica e versatile nei suoi inte-ressi, Perosa si è occupato di classici e di con-temporanei, di storia del teatro e teoria del ro-manzo come delle correlazioni tra letteratura earti figurative o musica, dell’America come dellavecchia Inghilterra e del suo grande ex impero,ha tradotto otto drammi di Shakespeare.Abbiamo in comune un’altra passione, la criticaletteraria esercitata sui giornali – da molti anni,entrambi sul Corriere della Sera – con le suetempestive incursioni e la guerriglia per salvare laprofondità nella necessaria rapidità e leggerezza,come dimostrano i brevi saggi di questo suo feli-ce volume, L’albero della cuccagna (AccademiaOlimpica), che spaziano con lievità e rigore daiclassici (Shakespeare, Ford, Dryden, Byron,James, Woolf, Beckett) ai contemporanei.

«Fra tanti temi» gli dico incontrandolo aVenezia «vorrei concentrarmi su uno già di per sévastissimo, quello della “letteratura post-colonia-le”, di cui sei così esperto, come un altro grande

anglista e americanista da cui pure ho molto impa-rato, Claudio Gorlier. Tu parli di Walcott, dell’an-glo-pachistano Hanif Kureishi, delle anglo-benga-lesi Tahmina Anam o Jhumpa Lahiri, per citaresolo alcuni esempi; autori e autrici che si pongonoil problema dell’identità (talora lacerata fra lacultura d’origine e quella occidentale) e di comefondere organicamente queste due culture. Cosasignifica, in tale contesto plurale e composito, scri-vere un’opera che possa divenire un classico?Conosco un po’ di più i post-coloniali di linguafrancese, alcuni dei quali veramente grandi, comeGlissant, e mi sembra che essi siano integrati nellaloro realtà – nel suo caso le Antille francesi moltodi più degli scrittori dei Paesi dell’ex impero bri-tannico, i quali appaiono più sradicati, inseriti inuna jet society piuttosto che nella loro terra d’ori-gine o in una reale nuova cultura composita».

Perosa: Cosa sia un classico per i post-colo-niali lo dice il sudafricano Cootzee. È lo scrittoreche esprime o incarna l’istanza dell’esule e dellosbalestrato fra nazioni, che non rinnega ma devecostantemente ridefinire le proprie radici o ècostretto a ricercarle altrove: Enea, più che Vir-gilio. I grandi francesi sono più integrati perchéla loro cultura è più unitaria. Quella dell’ex impe-ro britannico è più variegata, spesso con proprieradici (l’India, l’Africa), e si estende e configurasu Paesi enormi, continenti già diversificati fraloro e che nel corso del tempo hanno già definitouna loro identità nazionale: canadese o austra-liana, ecc. Nei Paesi africani più piccoli, neiCaraibi, a Singapore, a Hong-Kong, identità eculture sono più instabili, sfuggenti, in forma-zione, da definire quasi da zero.

SCRITTORI POSTCOLONIALI, L’ALIBI DEL TRATTINOClaudio Magris, Corriere della Sera, 17 luglio 2009

Identità divisa: da terreno di ricerca a scorciatoia esotica per il successo

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Magris: Nei e dei Paesi ex coloniali scrivonoautori di origini locali e autori di origine europea,i cui padri, nonni o bisnonni sono arrivati colcolonialismo. C’è differenza fra l’uno e l’altro«post-colonialismo» letterario? E fra gli autorinon europei, c’è in generale differenza tra quellidi fede islamica e gli altri?

Perosa: Gli autori di origine europea hanno unrapporto ambivalente con la nazione ex coloniale:guardano alla vecchia padre-patria con attrazione,revulsione e risentimento, e cercano nel rapportocon la madre-patria natia, che hanno contribuitoa formare, succhi e prospettive nazionali. Gli«indigeni» si risentono di dover usare una linguae una cultura non propria, la ridefiniscono ericreano con calchi e conii linguistici, forzatureverbali, sovrapposizioni di miti propri, rinvigo-rendo dall’interno tradizioni «esterne» (pensa aDerek Walcott). Ma c’è chi abbandona l’ingleseper scrivere nella lingua natia, e il suo capolavorosarà conosciuto solo se tradotto. La perdita di rea-dership è enorme. Quanto agli islamici, dalPakistan come dal Bangladesh, il loro rapporto èpiù conflittuale, l’assimilazione più difficile e sof-ferta, talvolta scopertamente sfidata: sentono dipiù il doppio legame.

Magris: Ho l’impressione che anni fa sia natauna letteratura di autori non solo grandi e origi-nali, come ad esempio Chinua Achebe, ma ancherealmente espressione di una nuova realtà cultu-rale che stava nascendo nelle ex colonie liberate eche essi contribuivano a fondare. Ora, con l’invo-luzione politica di molti Paesi ex coloniali e conla crisi mondiale, molti autori sembrano non soloisolati da ogni progetto di fondazione culturalema anche disinteressati ad esso, consapevoli oinconsapevoli sfruttatori di una realtà lacerata dicui usano il fascino esotico, garante di un succes-so che esilia dalla popolazione…

Perosa: C’è, sì, l’isolamento di scrittori in Paesidiventati a loro ostili come lo erano stati quand’era-no colonie – è il caso di Wole Soyinka, respintodalla nuova come dalla vecchia Nigeria. Non pochialtri diventano globe-trotter, più che cosmopoliti,fluttuano come in un’aria rarefatta e sopranaziona-le, sfruttando l’esotismo di casa per facili successi.

Forse si sono persi nelle lacerazioni, hanno scelto lavia più facile: il ricordo a luoghi geografici e luoghicomuni che assicurino fama e cospicui diritti, emeglio ancora riduzioni cinematografiche. I lorolibri finiscono nelle edicole degli aeroporti interna-zionali. Nel mio, ho usato un po’ di malizia intito-lando la sezione «Post-coloniali di successo»: cisono i grandi Premi Nobel, scrittori di tutto rispet-to, ma anche qualche profittatore.

Magris: Nel tuo libro metti in risalto la gran-dezza di alcuni scrittori d’origine africana oindiana, ma denunci pure severamente il facilegioco di altri, anche acclamati autori o autrici che«adattano» i loro romanzi al prevedibile gustodei lettori, fornendo loro il Bangladesh o laNigeria che essi vogliono leggere, trasformando ildramma dell’identità complessa in un prodottodi sicura audience. Argutamente e duramente cri-tichi l’abuso del trattino (anglo-bengalesi, indo-inglesi) che sembra divenuto una comoda patria.La globalizzazione sfrutta bene la regressiva eridicola «febbre identitaria» delle piccole patrie –dimenticate, oppresse e talora liete di esserlo –una febbre che essa stessa produce. Anche peralcuni di quegli autori di bestseller vale la frasedel preromantico Young che tu citi: «Nati origi-nali, come accade che moriamo copie?»

Perosa: Non pochi, come i migranti di ieri e dioggi (ci siamo anche noi), imparano presto lescorciatoie e i sotterfugi offerti da Paesi e lingued’arrivo, dalla cultura «globale». Lucrano pre-bende e riconoscimenti in due o tre parti diverse:il Governor’s Award come il Booker Prize. Ne èresponsabile proprio la definizione col trattino,che è come un servire due padroni. In tutti que-sti casi — temi che definiranno non solo le cultu-re e le letterature, ma le nazioni future – ricordola frase del poeta di lingua francese originario diMauritius, Edouard Maunick: «Tutti i nostriantenati vengono da qualche parte». Siamo tuttiibridi, chi più chi meno, a seconda del tempopassato. In prospettiva, non c’è vero natio. Servea superare il «locale» e le sue piccolezze, come letronfie sicumere nazionali. Ma vale per tutti, vaapplicato agli inuit come ai bengalesi, ai bantùcome ai boeri, ai veneti come ai borgognoni.

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S ono gli “autori migranti”, quelli che cam-biano vita e lingua, quelli che hanno vissutoil trauma del “dispatrio” – secondo il titolo

di un libro di Luigi Meneghello. Arrivano nelnostro paese carichi di storie dolorose, di memo-ria, d’inguaribile nostalgia. E scrivono libri in ita-liano, in una lingua che si trasforma alla ricercadel parlato o della perfezione, della metafora o delneologismo sfrenato: straniante e spaesata.

Sono tanti gli “scrittori italieni”, così li chiamala rivista Internazionale: per l’esattezza 325 autori(181 uomini e 144 donne), secondo i dati aggior-nati al settembre del 2008. A contarli in un da-tabase è Armando Gnisci, professore di Lette-ratura comparata alla Sapienza di Roma eappassionato studioso di questo fenomeno (a set-tembre uscirà un suo nuovo libro dal titoloL’educazione del te, Sinnos, pagg. 144, euro 13).Tutto – dice – comincia nel ’90 con due autobio-grafie romanzate: Immigrato del tunisino SalahMethnani (Theoria e poi Bompiani) e Il venditoredi elefanti del senegalese Pap Khouma (Garzanti).Due libri firmati a quattro mani: il primo conMario Fortunato, il secondo con Oreste Pivetta.

Da allora il fenomeno si è accresciuto di moltoe sta diventando oggetto di scouting delle grandicase editrici. Il caso più recente e anche più sor-prendente è senz’altro quello di Nicolai Lilin, extatuatore ventinovenne nato in Transnistria, unaregione della Moldavia: la sua Educazione sibe-riana – uscita da Einaudi – sfiora le cinquantami-la copie di venduto, sarà tradotta in una decina dilingue (anche in finlandese, forse in coreano),diventerà un film. È un romanzo che costruisceun’epopea dal tratto elegiaco, affollata di onesticriminali, è vita dura e violenta in una tribù diguerrieri antichi che non stuprano, non tradi-scono, rispettano gli anziani, aiutano i deboli.

«Non ingannatevi», dice però Lilin. «Io nonsono un autore: non sono Tolstoj che per me èvicino a qualcosa di divino. Io davvero non misento così: sono un ragazzo onesto, che non vuoleapparire per quello che non è. Ho scritto un libroattraverso i miei ricordi e le storie che mi sonostate raccontate, ma che cos’è io non lo so, nonsono un critico letterario, mi viene difficile dareuna definizione, e so benissimo che mi manca latecnica, la padronanza della lingua e anche del

SCRITTORI DA UN’ALTRA LINGUALuciana Sica, la Repubblica, 17 luglio 2009

Nicolaj Lalin

Hamid Ziarati

Amara Lakhous

Pap Khouma

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pensiero. Sentivo di raccontare quello che avevovisto, vissuto, ascoltato, punto e basta: Educazionesiberiana non è un’inchiesta giornalistica e nep-pure un saggio storico. E solo la mia verità».

Lilin lo ripete: è umile lui, non si dà arie,anche se da noi è arrivato solo sei anni fa e dopol’esordio di successo ha già scritto un altro libro– sulla guerra cecena – in programma da Einaudiil prossimo anno. Parla un italiano imperfetto,un po’ strampalato, ma sempre molto efficace:«So che la mia lingua è sbandata, ma si vede chealla gente piace così, perché risulta espressiva,semplice, normale, di strada». “Autore migran-te” invece è un’etichetta che rifiuta vi-sceralmente perché suona strano: è frustrante eaddirittura maleducato – dice – definire così«chi comunque dà un contributo alla letteraturaitaliana».

Il caso Lilin ricorda quello di Amara Lakhous,l’algerino che ha venduto settantamila copie conScontro di civiltà per un ascensore a piazzaVittorio, un libro nel segno del grottesco uscito dae/o nel 2006. E comunque di recente si sono affer-mati più autori che scrivono in italiano ma hannoradici altrove, con età e storie diverse, arrivati dallearee più disparate del mondo – per questo è avven-turoso racchiuderli in un movimento. Si va, adesempio, dall’iracheno Younis Tawfik (La stranie-ra, Bompiani) al croato Maksim Cristan (Fancu-lopensiero, Feltrinelli), dalla slovacca JarmilaOckayova (tre romanzi con Baldini Castoldi Dalai)al bosniaco Alen Custovic (Eloi Eloi, Mondadori).

Due anni fa e/o ha pubblicato Amiche per lapelle dell’indiana Laila Wadia, tra le autrici diun’antologia di racconti (Pecore nere, Laterza), ein maggio il nuovo romanzo del congoleseJadelin Mabiala Gangbo: Due volte (pagg. 272,euro 16). È stato piuttosto fortunato quest’auto-re di trentatré anni che ora vive a Londra: Versola notte Bakonga, il suo primo romanzo uscitonel ’99 da una piccola casa editrice (la Porto-franco) piace all’editor Gabriella d’Ina che locontatta e gli chiede se sta scrivendo qualcos’al-tro. E così che Feltrinelli pubblica Rometta eGiulieo, storia degli impedimenti di oggi nell’in-contro tra una studentessa alle prese con il cine-ma di Greenaway e un consegnapizze cinese –

scritta con un linguaggio teatrale, stralunato,pieno di arcaismi curiosi, originalissimo.

Due volte finora ha venduto intorno alle tremi-la copie. Libro autobiografico ben accolto dallacritica, tragico e spiritosissimo, racconta di unacoppia di allegri gemellini rasta finiti in un orfana-trofio bolognese. La sostanza drammatica dellastoria è polverizzata dallo stile candido e disi-nibito, a tratti decisamente comico. Gangbo, arri-vato da noi all’età di quattro anni, parla un italia-no impeccabile, ma dice che la sua biografia rendecomunque la nostra lingua «apolide, personale,esterna, nomade», riflesso di un’identità incertache gli consente di essere in più luoghi seppuresempre un po’ smarrito. Non conosce autori italia-ni ma ha frequentato i classici, da Dostoevskij aMusil. Quanto al suo spiccato humour, alladomanda “cos’è per lei l’ironia?”, risponde inveceseriosamente: «L’ironia è un modo per asseconda-re la vita che è ironica di per sé. Sottrarsi alla vita,affrontarla in modo ostile, ti fa perdere».

In maggio è uscito anche il nuovo romanzodell’iraniano Hamid Ziarati, e ha già venduto tre-dicimila copie: Il meccanico delle rose si chiama(Einaudi, pagg. 280, euro 18,50). Figlio di un tas-sista e di una casalinga, Ziarati è nato a Teherannel ’66 e dall’età di quindici anni vive a Torinodove si è laureato in Ingegneria al Politecnico:«Scrivo» dice «soprattutto per i miei figli, perchéconoscano le mie origini, le atrocità e i soprusiche avvengono nel mio Paese».

Il meccanico delle rose rievoca mezzo secolodi storia iraniana, dagli anni Trenta agli Ottanta,con un protagonista che si nasconde tra le righe inun Iran che non viene mai nominato – bello e ter-ribile il capitolo di una coppia di giovani torturati euccisi dai guardiani della Rivoluzione: lui perchénon mostra entusiasmo per il nuovo regime, lei soloper essere la sua ragazza. Ziarati: «Scrivo in italianoperché un libro in persiano non lo leggerebbe nes-suno e nel mio Paese non sarebbe pubblicabile. Inqualche modo c’è una reinvenzione della vostra lin-gua, forse con un’eco della nostra tradizione che èantichissima e basata sulla poesia, e quindi sullerime e le metafore. Non ci sono però neppure trop-pi giochi artificiosi nella mia scrittura: piuttosto –spero – una certa cura nella costruzione letteraria».

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S ono un po’ in apprensione. Ho un appunta-mento importante e temo di non essereall’altezza. Non è una diva del cinema, né un

uomo politico. Devo fare un’intervista sulla faticadi scrivere. Ci ho pensato molto, e ho capito chenon c’è nessun altro che mi può rispondere. Nonè una persona, per la verità. Ho chiesto alle paroledi farsi intervistare. Sì, fare un’intervista alle paro-le. Ho contattato il loro agente, ho preso accordi.Sono giorni che aspetto una chiamata, per sapereil posto e l’ora. Finalmente squilla il telefono.Qualcuno mi sussurra un indirizzo. Come? Non cicredo. O forse non ho capito io. Me lo faccio ripe-tere. Mi avvio. È una strada che conosco moltobene, ci arrivo quasi a occhi chiusi. Tiro fuori le

chiavi. Apro la porta. Entro. Le parole mi stannoaspettando a casa mia, accovacciate sul tavolo dicucina. Sono fatte di una sostanza che non avevomai visto prima: una pasta elastica, luminosa, sem-brano vetro allo stato magmatico, la crosta frantu-mata è sinuosa, manda bagliori catarifrangenti,come occhi di gatto disseminati a decine. Un orga-nismo che si dimena, sciogliendosi e affondando insé stesso.

Buon… buongiorno.Ciao. Perché ci guardi così, a bocca aperta? Be’, vi conoscevo nere su fondo bianco. Di

solito preferite spegnere le superfici chiare, glischermi, le pagine. Le annerite a poco a poco.

Non ci chiedi niente?

LE PAROLE PARLANTITiziano Scarpa, L’espresso, 17 luglio 2009

Solitudine, gioia, dolore, follia. E il timore di fallire. Il vincitore del premio Strega parla della fatica dello scrivere. Attraverso un dialogo immaginario con le parole

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Mi avete preso alla sprovvista. Vuoi che rompiamo il ghiaccio?Magari, grazie.Guarda, se vuoi ci mettiamo in fila una dopo

l’altra in una frase che comincia facendo finta diniente e improvvisamente si ritrova nel mezzodell’oceano, dove c’è un’isola infestata da tartaru-ghe feroci, che producono un enzima risolutivoper la cura della psoriasi.

Che cosa state dicendo?Oh, niente, inventavamo una cosa qualsiasi.

Per mostrarti quello che sappiamo fare. E tenerticompagnia.

Perché mi avete convocato proprio qui?Alla fine è questo il posto dove ti trovi meglio

a scrivere, no? Sul tavolo di cucina. Eh, sulla scrivania succede solo la scrittura. Su

questo tavolo invece ci ho mangiato, tagliato leverdure, ho dato dei baci, e una volta una miaamica ha cambiato il pannolino a suo figlio.

Ah, sì, la retorica della scrittura sparpagliatain mezzo alla vita… La verità è che nell’altra stan-za, sulla scrivania, ti senti a disagio col brusio deiclassici allineati sugli scaffali, che crepitano comele cicale in un bosco, d’estate.

Non è solo quello. È che sulla scrivania c’è ilcomputer connesso alla rete, e allora non riesco astare da solo con voi. Troppe interferenze. Statediventando sempre più difficili da incontrare.

Noi? Ma se siamo dappertutto! Assomigliamopericolosamente a Dio. Pervadiamo, brulichia-mo. Come lo spirito del Signore che vaga sopra leacque della creazione. Ma anche se ti chini sottoil tavolo, e guardi rasente il pavimento, ecco chevedi una briciola di pane, e subito pensi:“Briciola”. Siamo anche lì, ci siamo sempre.

Non generalizzate. Io volevo dire che la primadifficoltà dello scrivere, più che sgomberare irumori e le immagini, è zittire le altre paroleintorno a voi, quelle che arrivano da tutte le parti.Dal telefono, a voce e per messaggino, e quellesullo schermo, la rete, la posta elettronica. Ho latentazione continua di sfuggirvi, per ridiventarelettore. Leggere, al posto di scrivere. Percorrereuna strada già segnata, confortante, invece ditracciarla da me. Perché scrivere è duro, è fareesperienza di una solitudine assoluta.

Quanto sei pomposo!È la verità. No?No. E dovresti saperlo anche tu. Non ti ri-

cordi quella sera, lo scorso aprile, alla Fon-dazione Buziol a Venezia?

Alla commemorazione di Betto?Sì. C’era tutta quella gente ad ascoltare le pagi-

ne di Filippo Betto, l’autore di Certi giorni sonomigliori di altri giorni, morto poche settimaneprima. Leggevate i suoi inediti, tu e i tuoi amici,Bugaro, Di Renzo, Ferrucci, Garlini, Mancassola,Villalta. In prima fila, il padre di Betto si contor-ceva nel dolore. E tu lì hai sentito qualcosa. Nonrinnegarlo, adesso. Non rinnegarci.

Vedevo quegli scrittori che davano voce alleparole di un altro scrittore morto da poco, mi èsembrato di sprofondare con un’intensità fortissi-ma nella situazione di un uomo solo dentro il lin-guaggio, che scrive immerso in un paesaggioimmenso, il paesaggio delle parole. ImmaginavoFilippo Betto, che non ho mai conosciuto di per-sona, come un guerriero solitario, lo vedevo com-battere e trovare il suo varco dentro un vortice diparole che vengono da lontanissimo, dai millennipassati, e che dureranno per chissà quante gene-razioni, ancora.

Vedi che non esiste la solitudine assoluta,quando scrivi. Non lagnarti. Sei sempre insieme aqualcuno: gli antichi, gli antenati, i vivi, quelli chenon sono nati ancora, le loro parole, noi.

Però, la storia che sto inventando, con quellasì che rimango da solo.

Niccolò Ammaniti le sue storie le collaudaraccontandole agli amici: una volta, a Venezia,avete perso la fermata del vaporetto, non vi sieteaccorti che eravate arrivati perché lui vi avevaipnotizzati con la trama del suo prossimo libro.

Io invece le mie storie non le anticipo mai anessuno, mentre le sto scrivendo. Mi chiudo den-tro la crisalide, senza sapere che cosa ne uscirà.Una farfalla, oppure una falena. Sarebbe già unottimo risultato, una falena! Scrivere un romanzoper me significa stare da soli con una storia alme-no un anno o due, con un’ansia di sottofondo.Magari la trama è insensata ed è completamentefolle dedicarci due anni di vita.

Be’, ma è proprio questo il bello!

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Che cosa?Non sapere che cosa verrà fuori. Scrivere è

un’esperienza, non il resoconto di qualcosa giàaccaduto altrove, nella mente. Non si trascrivequel che si è immaginato in precedenza. Si imma-gina durante la scrittura. Si sogna a occhi aperti,a parole aperte, per così dire. Ti vediamo, quan-do sbaracchi infervorato le dita sulla tastiera.Anche se hai in testa una qualche idea preventivadella scena che stai per scrivere, non puoi preve-dere nei dettagli che cosa scriverai, e così dalletue parole all’improvviso sprizza un personaggioche dice una battuta inaspettata, una trovata cheti fa scoppiare a ridere.

Sì, rido spesso mentre scrivo, davanti allo scher-mo del computer, come un imbecille, da solo.

Non da solo, non da solo! In nostra com-pagnia, semmai.

Non è così per tutti. Mesi fa, nella stessa setti-mana mi è capitato che ben tre scrittori sui tren-t’anni mi proponessero di leggere le prime paginedei libri che avevano appena cominciato a scrive-re, per avere un parere. Ma come?, ho risposto,come si fa ad aprire una botola e far entrare den-tro la crisalide qualcun altro mentre il brodo bio-chimico è ancora in fermentazione? Uno di loromi ha ribattuto che è una cosa piuttosto diffusa,oggi, far leggere un libro mentre lo si scrive,soprattutto al proprio editor.

Per ideare un romanzo in linea con le aspetta-tive dell’editoria?

Per non sentirsi soli con voi, credo.Ti pesa tenerti dentro un segreto? È questo

che vuoi dire?Ho sempre invidiato un po’ quegli artisti che ti

invitano nel loro atelier, e ti dicono: ecco, questoè il quadro che sto dipingendo. Questo è il videoche ho girato, devo ancora finire il montaggio,guarda. Una condivisione che io non riesco adavere, non voglio avere finché l’opera non è finita.

Scusa, ma non ci sembra molto faticoso dasopportare. Stai facendo il sofferente, è solo unaposa. Ammettilo: è dolce fancasticare una storiaclandestina, portare in giro per mesi dentro di séuna visione che nessuno conosce.

Sì, ma non basta fantasticarle, le storie.Bisogna mettersi faccia a faccia con voi.

Sorvegliare le frasi che escono dalla punta delledita e prendono forma sullo schermo. Reimpa-stare continuamente. Riformulare la base, sem-pre, decine di volte. Tornare a rileggere, delusiper il risultato. Incerti. Insicuri sul valore di quel-lo che si sta facendo.

E ogni tanto cliccare sull’icona del conta ca-ratteri di word!

Come?!Non fare finta di niente. Lo fai continuamente.Io?Per rassicurarti da solo. Come se si trattasse di

accumulare un buon punteggio alla Playstation.Non fatemi confessare queste debolezze. A

proposito, a quanto siamo? Ottomilacentoundicicaratteri.

A quanto dobbiamo arrivare?Novemila, più o meno. Potremmo parlare

proprio di questo. La lunghezza. Quante sono lecose da dire rispetto ai formati di mercato. Ilromanzo come mattoncino di carta compatto,che finché non è grosso abbastanza non può esse-re considerato finito. Lo scrittore come manova-le, artigiano metodico, indefesso, che si guadagnala reputazione di buon lavoratore.

A noi tutto questo fa ridere. È una falsi-ficazione. Pura esteriorità. La scrittura è una cosagratuita. La letteratura è gratuita. È il suo scanda-lo. Qualcuno ha da dire la sua su quello chevuole: ecco che cos’è la letteratura. Un atto disuperbia di un singolo, che parla alla comunitàsenza avere i titoli per farlo. È inutile giustificar-la con il mestiere, la laboriosità, la sapienzacostruttiva, la fatica del lavoro. La letteratura èfondamentale perché è infondata.

Però ci sono anche quegli aneddoti moltobelli su Anthony Trollope, il romanziere vitto-riano che scriveva dalle sei alle otto del mattino,prima di lavorare in un ufficio postale. Quandoterminava un romanzo alle sette e dodici, met-teva la parola fine, non festeggiava, non si ripo-sava, andava a capo e alle sette e tredici scrive-va il titolo del romanzo successivo, capitoloprimo, e via di seguito fino alle otto in punto,tutti i giorni.

Facciamo così anche noi, allora. Mettiamo laparola fine, e ricominciamo immediatamente.

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C ara Carla Benedetti, ho letto con interessequello che negli ultimi giorni si è scritto, suIl primo amore, a proposito di editing.

Appartengo al gruppo degli scrittori “editati” –seppur, come dirò, in modo molto diverso daquanto ha fatto, ad esempio, Lish – e confermo latua accusa: di editing si parla poco, almeno daparte degli scrittori (per quanto io sappia), equando lo si fa è spesso per opporre un rifiutomolto netto o, viceversa, per cantare le lodi dellaforma di irresponsabilità garantita dalla consape-volezza di avere qualcuno che ci penserà al postomio. L’esperienza di editing che ho avuto con ilmio primo romanzo non è rispecchiata da nessu-na di queste posizioni. Il rifiuto di ogni interven-to diverso da quello dell’autore è, in genere,motivato con un appello all’autorità (appunto),che nega legittimità ad ogni intervento altrui, perdir così, a priori. Penso, ad esempio, all’appassio-nata (e nel complesso molto coerente) invettivacontro l’editing che fa Massimiliano Parente a uncerto punto di Contronatura. Questa posizionenon mi ha mai conquistato del tutto, perché per-sonalmente, da scrittore alle seconde armi, non

credo di essere in grado di tracciare una lineamolto precisa fra l’intervento altrui e la mia deci-sione (influenzata da qualcosa che ho letto, o daun commento, o da un brandello di conversazio-ne sentito al bar) di ripensare a qualcosa che hoscritto.

Un esempio: ho letto alcune pagine di quelloche sto scrivendo ad un amico. Al termine dellalettura, si è complimentato con me per la scelta dicitare, nella descrizione di un certo personaggiofemminile, quella che Roberto Bolaño fa di LizNorton sotto la pioggia all’inizio di 2666. Non miero reso conto di aver citato quel passaggio (chepure conosco), e tuttavia, appena me lo ha fattonotare, mi sono accorto che l’influenza era moltoevidente, e ho deciso di riscrivere quel pezzo.Ovviamente si trattava di pagine che avevo appe-na scritto, e probabilmente (o forse no?) rileg-gendole me ne sarei accorto (fra l’altro, questiplagi inconsapevoli mi capitano spessissimo) esarei intervenuto. Ma questo, mi sembra, si puòqualificare come una forma, molto blanda e sì,“maieutica”, di editing. Per quanto mi riguarda,l’intervento mi è stato gradito: e mi sembra chetanto basti a desiderare argomenti contro l’edi-ting invasivo che non costringano a delegittimareinterventi come questo. Deve essere possibiledistinguere.

Si potrebbe, volendo, considerare il rifiutoradicale di ingerenze nel testo come prodotto diuna certa metafora della scrittura: la metafora delcreatore, che a proprio indiscutibile arbitriodispone delle sorti delle sue creature. In questocaso, la posizione di chi vede nell’editing unacomoda deresponsabilizzazione e una facilitazio-ne del lavoro dello scrittore sembrano – come nelcaso di Buttafuoco da te citato – riflettere unametafora della scrittura come fase di una filiera diproduzione industriale. Un mio compagno diuniversità ha lavorato, per alcuni mesi, al control-lo qualità di una ditta di servizi. Dopo i primigiorni di lavoro, a cena, gli ho chiesto se nontemesse di trovarsi in un rapporto conflittualecon i colleghi (suoi pari grado) che era suo com-pito “bacchettare”. Al contrario, mi ha spiegato,questi erano molto lieti della sua presenza: litoglieva dall’imbarazzo di ricevere un reclamodai clienti, e dava loro la possibilità di migliorare

L’EDITING E LAMIA ESPERIENZAVincenzo Latronico, Il primo amore, 17 luglio 2009

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le proprie competenze lavorative. In questosenso, posizioni come quella di Buttafuoco misembrano vedere nell’editor una specie di addet-to al controllo qualità. Non è un caso, mi pare, sel’argomento principale della cantilena in difesadegli editor “forti” si impernia proprio sull’aspet-to industriale dell’editoria: il rapporto col grandepubblico, la derisione di un autore “asserragliatosulla sua torre d’avorio”, spesso un caricaturaleuomo di paglia in cui nessuno scrittore si potràmai rivedere pienamente e la cui demonizzazioneè del tutto funzionale alla produzione di un certotipo di narrativa. Lo scrittore, in questo caso, èvisto come una sorta di fornitore di contenuti, lacui forma andrà tuttavia dettata da una voce incontatto con i misteriosi “gusti del grande pub-blico” e al riparo dall’influenza di pericolosemistificazioni intellettuali. Al di là della fuorvian-te categorizzazione forma/contenuto, questaimpostazione mi sembra tradire completamentequella che è, o dovrebbe essere, la natura dell’at-tività dello scrittore.

Ma non solo. Ho sentito di autori che si con-sultano con gli editor (o gli agenti) addiritturasulla trama di ciò che scrivono, così abdicandopersino al ruolo, già mesto e ridotto di suo, di for-nitori di idee da scrivere in uno stile altrui. Inquesto caso la metafora industriale trova il suocompimento perfetto: è in atto una divisione dellavoro in cui i ruoli sono interscambiabili, e il cuiprodotto finale è a tutti gli effetti frutto di unacollaborazione quasi paritetica. Non conosco leprassi di editing di Sergio Claudio Perroni (checome traduttore, però, mi è sempre parso moltorispettoso ed attento): la sua aspirazione a parte-cipare del successo di certi romanzi a cui ha lavo-rato sembra, tuttavia, riflettere un’impostazioneeditoriale di questo tipo. Che, per fortuna, non èquella che ho incontrato io.

Il mio editing è stato una versione più comple-ta e strutturale dell’osservazione casuale mossamidal mio amico. È consistito in una serie di incon-tri con una persona che aveva letto con moltaattenzione il dattiloscritto che avevo mandato allacasa editrice. Il mio editor non ha mai lavoratodirettamente sul testo. Quando ci vedevamo, nelcorso di varie ore mi parlava dei dubbi che, “dalettore”, aveva incontrato leggendo quello che

aveva scritto. Se decidevo di modificare o diriscrivere qualcosa, glielo mandavo prima dell’in-contro successivo. Altrimenti, no. Quando deci-devo di mantenere inalterato un passo del roman-zo mi chiedeva se avevo pensato alle sueosservazioni, e mi invitava a rispondervi. Ciò, tut-tavia, non era indispensabile. Concluso l’editing,ho avuto un paio di mesi per apportare al testo lemodifiche che preferivo, quindi è andato in stam-pa senza che egli neppure lo rivedesse.Per certi versi, anche un operato così blando puòessere visto come ingerente. Si potrebbe dire cheogni volta che ho accolto una sua osservazione(ce ne sono state) ho dato una piccola prova diessere uno scrittore imperfetto. È vero, lo sono.Mi sono convinto della bontà di molte delle criti-che che mi sono state mosse. Non si è mai tratta-to, però, di critiche “costruttive”, che indicasserocosa scrivere. Si è sempre trattato di critichenegative legate, immancabilmente, a specificipassi testuali, che era comunque mia facoltà ser-bare intatti. Posso dirmi certo che il mio roman-zo ne sia uscito migliore – più vicino a quello cheio stesso avrei voluto che fosse. Ripensando agliinterventi che ho fatto in seguito alle considera-zioni del mio editor, non ne “rimangerei” neppu-re uno.

Devo confessare di aver imparato, sì, dal mioediting. Quello che ho imparato è forse qualcosadi ovvio, di implicito nella stessa decisione di scri-vere qualcosa, e che era mia colpa non avere giàben solido dentro di me prima di iniziare a scrive-re: ho imparato che ogni virgola, ogni aggettivo,ogni personaggio deve essere difeso, e in quantotale deve avere, per me, una ragion d’essere. Hoimparato ad essere meno pigro. Ricordo un saggio(possibile che fosse in appendice a un vecchioSellerio?) intitolato Il chiodo e l’impiccato, in cuisi teorizzava che se in una pagina di un romanzoveniva descritto un dettaglio di una stanza comeun chiodo era necessario che, prima dell’epilogo,qualcuno vi si impiccasse. Non è questo il tipo diragion d’essere a cui mi riferisco. Esiste, però – oalmeno, esiste in me, e forse è una dimostrazionedi immaturità artistica o di inadeguatezza – unapigrizia che scopro di avere quando scrivo, unatendenza a rinunciare, alle volte, a riscrivere anco-ra una volta una pagina di cui sono scontento, ad

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abbandonarmi a certi artifici in fondo facili facili– e che magari so essere d’effetto – quando non socome cavarmela con l’immaginazione e la forzadel linguaggio. Sono queste pigrizie e queste ten-denze che ha scovato il mio editor – non tutte(anzi, rileggendo oggi il mio romanzo, uscitoappena due anni fa, vorrei proprio cantarne quat-tro allo scalcagnato ventitreenne che l’ha scritto),ma alcune. Invitandomi a rifletterci non mi ha inalcun modo deresponsabilizzato a loro riguardo,poiché potevo mantenerle intatte. Ha semplice-mente sostituito la sua voce alla mia quando que-st’ultima ha omesso di ripetere, ancora una volta,“Sei proprio soddisfatto di come ti è venuta que-sta pagina?”. La mia esperienza è, più o meno,questa. Una questione, certo, resta intatta: cosadistingue un editing di questo genere, ammessoche si tratti di un genere “sostenibile”, da quell’in-tervento sul lavoro autoriale che è contiguo con lariscrittura, o addirittura la commissione di untesto? La facoltà di chi scrive di rifiutare un certointervento? Ma l’esistenza di agenzie di editing apagamento dimostra, se non altro, che molti auto-ri sono ben contenti di sottoporvisi. Come mai?

Quale idea di letteratura sembra diffondersi,se è questo il modello proposto? Si risolve tuttonella tensione economica, nell’aspirazione alleclassifiche? Cosa spinge un autore ad accettare(o rifiutare) di sottoporsi a un certo tipo di edi-ting? La sua segreta virtù? L’offerta economicacome contropartita, la consistenza del conto inbanca prima di firmare? Basta o basterebbe lapresenza di una certa editoria di qualità per dimi-nuire la frequenza di queste rese incondizionate edi questi crolli? E se no, cosa?

C aro Vincenzo Latronico, le tue osservazionimi invitano a tornare sull’argomento e a cer-care di sbrogliare un equivoco terminologi-

co. Noi abbiamo solo tre termini per indicare laterra in rapporto all’altitudine: pianura, collina,montagna. Ma in Perù, dove le terre abitate siinnalzano fino ai 5.000 metri, ce ne sono molti dipiù. Ecco quelli che mi ricordo: “puna”, “que-chua”, “junka”, “suni”, “chala”, “ripa ripa”,“omalga”… scendendo dalla terra più alta alla piùbassa. Ognuna ha clima e coltivazioni differenti.

Da un po’ di tempo è invalso l’uso di chiamare“editing” TUTTE le possibili pratiche di revisio-ne del testo, con tutte le loro diversità di ambito,competenza, gradazione, tradizione e natura. Unasola parola, per tante cose diverse, che pure untempo venivano distinte. Ed è una parola diimportazione, che ci torna indietro da oltreocea-no, ma che è stata prima nostra (“editare”) e ditutte le lingue neolatine (dal latino “editio”) e cheracchiude un’idea di cura del testo che da sempreesiste nella letteratura, antica e moderna, e da cuisono anche nate la filologia e l’ecdotica, con il lorocorpus di regole e una lunga, gloriosa, tradizione.

«EDITING» È UNFALSO NOME

Carla Benedetti, Il primo amore, 17 luglio 2009

«Ho sentito di autori che si consultano con gli editor

(o gli agenti) addirittura sullatrama di ciò che scrivono, così

abdicando persino al ruolo,già mesto e ridotto di suo,

di fornitori di idee da scriverein uno stile altrui»

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Ma la cosa buffa è che mentre noi abbiamoormai due parole distinte, la nostra e quellaimportata, per indicare o l’odierna o l’anticapratica dell’editio, in inglese la parola resta una.”Editing”continua ad avere laggiù tutte questevalenze: si usa sia per indicare il lavoro che si fasu un manoscritto antico, sia il lavoro editorialeodierno.

Questa nostra doppia denominazione perònon aumenta la nostra capacità di distinguere. Alcontrario aumenta la confusione. Ha prodottol’idea (falsa) che l’“editing” sia una cosa del tuttonuova, e molto specializzata, quella che appuntofanno quelli che si chiamano “editor”, altro termi-ne inglese che a sua volta rafforza l’idea di unanuova figura – che invece, come funzione, esisteda sempre; quello che è cambiato è solo il fattoche si è separata, costituendosi in figura professio-nale a sé stante dentro all’industria editoriale.

Ma ciò che mi preme dire è che la parolainglese “editing” viene oggi usata da noi per indi-care cose diversissime. E questo crea un imbro-glio nominale, che a volte viene coltivato a arte.

“Deve essere possibile distinguere” – tu scrivi.Sì, incominciamo a distinguere.

Credo che occorra fare almeno una distinzio-ne netta tra due pratiche di revisione dei testi chenon si possono asolutamente confondere, nono-stante si tenda oggi a metterle alla rinfusa dentroa questa nuova categoria-ombrello. Due prassimolto difformi, per natura e per storia.

1. La prima è quella che tu racconti nella lettera,della cui utilità hai fatto esperienza diretta. Provoa chiamarla “secondo occhio”. Qualcuno di cui tifidi rilegge con attenzione ciò che hai scritto,scova i punti deboli, le eventuali ripetizioni, i cli-ché, gli automatismi, gli errori. Questa figura èsempre esistita, non solo tra amici e sodali maanche nella buona editoria, oggi un po’ più rara,ma ancora ce n’è. È sempre esistita nelle case edi-trici una figura come questa, che legge con atten-zione, ti dice cosa ha notato, non solo gli errorima anche i punti traballanti, e tu puoi rifletterci eaccettare o meno il suo consiglio. Per quantoconti la mia esperienza di saggista, posso direanch’io di non aver mai pubblicato un libro

senza averlo fatto prima leggere a qualcuno di cuimi fidavo, e ascoltato i suoi consigli o dubbi, chespesso mi sono stati utilissimi. In certi casi quelsecondo occhio lo puoi trovare nell’editore stes-so, o in un bravo redattore, o in chi per lui.

Questo tipo di revisione è definita da trerequisiti:– Il rapporto di fiducia, elettivo, tra autore e

revisore;– I suggerimenti restano tali, e le modifiche ven-

gono apportate dall’autore di sua spontaneavolontà;

– Il fine del revisore è aiutare l’autore a portareil testo il più vicino possibile alla sua partico-lare perfezione, a ciò che si intuisce essere lasua forma sostanziale, una sorta di “entele-chia” dell’opera.

2. C’è poi la figura a cui mi riferivo nell’articoloDiavolo di un editor, che è tutt’altra cosa. Lachiamerei “professionista della scrittura a fecon-dazione assistita”. È quella che, tra l’altro, èincredibilmente cresciuta negli ultimi tempi, e cheha fatto sì che se ne cominciasse a discutere. Lasua emergenza ha provocato – direbbe Foucault –la “problematizzazione” di una nozione ovvia,che esiste da sempre: una funzione che è sempreesistita ed è sempre stata considerata naturale escontata, incomincia di colpo a far “problema”,viene cioè tematizzata, esaltata o attaccata, in ognicaso problematizzata.

Si tratta di una figura quasi sempre esternaalla casa editrice, a volte legata a un’agenzia, chespesso fornisce revisione a pagamento, oppure auna scuola di scrittura, ed è rivolta soprattuttoal giovane scrittore principiante (questa è ineffetti la sua “passion predominante...”). Eccoun piccolo esempio preso a caso dal bando diun concorso per esordienti. Nel regolamento silegge: “La giuria si riserva il diritto di abbinaregli editor agli autori secondo il suo insindacabi-le giudizio”).

La mia intenzione, nell’articolo a cui ti riferi-sci, era di sollevare un problema di cui pochi par-lano nonostante le tante discussioni che questafigura ha scatenato. Perché di editor oggi ce nesono così tanti? Da dove viene tanta offerta e

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tanta domanda? Questo è un fenomeno nuovo sucui è lecito interrogarsi.

La mia risposta è questa: la loro “utilità” èdeterminata dalla sovrapproduzione libraria.L’industria del libro pubblica oggi una quantitàeccessiva di libri: eccessiva dal punto di vista deilettori, necessaria dal punto di vista del fatturato.L’industria del libro, come ogni industria, deveper forza sfornare una quantità “industriale” dilibri, molti dei quali inutili, ripetitivi, per occu-pare posto nelle librerie... per raggiungere certiparametri di profitto. E allora attinge da tanteparti, anche da ciò che è inerte (Nota bene, non“imperfetto” ma inerte, che è altra cosa), e che glieditor del secondo tipo davvero migliorano,infondendo loro un minimo di leggibilità, di flui-dità ecc. I professionisti della scrittura a feconda-zione assistita servono molto, certo, ma a miglio-rare questo genere di libri. Lavorano in questazona, che è la zona morta, o resa morta, della let-teratura. Il loro aumento è proporzionale all’al-largamento di questa produzione affogata o senzavita autonoma.

Per forza di cose questa figura non può averedi mira l’entelechia dell’opera (cosa ci guadagne-rebbe un’agenzia di editing odierna a perfeziona-re una nuova Terra desolata? Potrebbe mai lavo-rare come Pound?). Quel che ha di mira èsemmai l’entelechia del successo di mercato, oaltri parametri, comunque esterni all’opera. Ilsuo occhio sarà attento innanzitutto a ciò che siimmagina possa piacere all’editore a cui presen-terà il libro, a ciò che ha maggiore probabilità diattirare l’attenzione dei media, entrando in riso-nanza con i temi caldi del tempo, con ciò di cui siparla ORA.

C’è poi da dire che in questi casi è difficile cheil rapporto tra il revisore e il revisionato possaessere di fiducia (l’agenzia di editing, quasi sem-pre a pagamento, lavora per chiunque gli porti unpo’ di materia interessante, da cui estrarre unlibro che possa piacere), rapporto che invece eraed è ancora possibile con l’editore, che ha unamaggiore individualità, o linea editoriale.

È evidente allora che chiamare la prima figuracon la stessa parola con cui si indica la seconda èuna bestemmia. Genera solo confusione, che,

come dicevo, a volte viene cavalcata ad arte pernobilitare un fenomeno di tutt’altra natura, chedeve la sua ragione solo a un’industrializzazionespinta della scrittura e del mercato librario.In un articolo uscito sulla Stampa del 14 luglio2009, Mario Baudino, facendo la solita confusio-ne tra le due figure, mi chiama in causa come“nemica dell’editing”. Però dell’editing egli dàquesta definizione: “procedura per cui, consegna-to un manoscritto, qualcuno comincia a fare lepulci all’autore: segnala le lungaggini, i puntimorti, quelli dove si è invece tirato via. E poi letrasandatezze stilistiche, le ripetizioni, gli eventua-li errori di grammatica o sintassi”. Ma questo chelui descrive è appunto il secondo occhio. Perparte mia, non ho mai espresso “un rifiuto radi-cale” di ogni possibile “ingerenza nel testo”, tantoda escludere l’utilità del “secondo occhio”. Miriferivo invece – è ovvio – alla seconda figura,quella dei “professionisti della parola a feconda-zione assisitita”, che molti fanno finta di nonvedere. Elogiano la funzione dell’editing giocan-do sulla confusione tra le due pratiche di revisio-ne, e così nascondendo alla vista l’evidenza diquesto nuovo fenomeno, che ha provocatol’emergere di questa nuova figura professionaliz-zata, e di tante agenzie di editing a pagamentospuntate come funghi.

3. C’è poi un altro punto della tua lettera che vor-rei riprendere e a cui vorrei provare a rispondere.Tu scrivi: “Il rifiuto di ogni intervento diverso daquello dell’autore è, in genere, motivato con unappello all’autorità (appunto), che nega legittimi-tà ad ogni intervento altrui, per dir così, a priori.Penso, ad esempio, all’appassionata (e nel com-plesso molto coerente) invettiva contro l’editingche fa Massimiliano Parente a un certo punto diContronatura”.

Le critiche all’editing, è vero, vengono a volteda chi si richiama al mito di un’autorialità forteche si costituirebbe a unico giudice del propriooperato. Ma questa è più la posizione di Parente,che non la mia. Su questo punto sono in disaccor-do con lui. Io credo, al contrario, che l’autorenon sia mai il “giudice del proprio operato”. (Eancor meno lo è l’editor).

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Ciò che secondo me la scrittura a fecondazioneassistita mina e rischia di uccidere non è tantol’“autorità” dell’autore. È invece il rispetto per ciòche è venuto al mondo, e su cui a volte nemmeno loscrittore ha un totale dominio. Quello che cidovrebbe fermare dall’intervenire troppo su untesto è un rispetto simile a quello che si ha per ogniforma vivente. È del resto proprio questa forma diriguardo o di riserbo che ci permette di restare incontatto con l’impensato, e di lasciare aperta la pos-sibilità che qualcosa di inaspettato esca fuori, quasiprendendo in contropiede l’esistente.

Questo rispetto coincide con una posizione diumiltà, non di autorità. È l’umiltà che si ha di fron-te a ciò che non si capisce del tutto. C’è una bellaimmagine di Gregory Bateson che si può usare inquesto caso: “Dove gli angeli esitano” (è il titolodel suo ultimo libro, che non riuscì a finire). Cisono zone della vita dove persino gli angeli si peri-terebbero... Invece, là dove gli angeli esitano, gliagenti della fecondazione assistita si precipitano.Editor che fanno nascere solo ciò che ritengonoadatto, solo ciò che, a loro giudizio, o secondo illoro calcolo, può superare la selezione dell’am-biente… ( un atteggiamento che, se ci pensi, nonè molto dissimile dall’eugenetica).

Nel mio articolo citavo un passo di SimoneWeil, che mi pareva illuminante, tratto dal saggioLa persona e il sacro. La Weil rovescia la posi-zione corrente secondo cui sacra sarebbe la per-sona. Al contrario – lei dice – sacro è ciò che c’èdi impersonale in ogni individuo. E parla della

bellezza e della perfezione come di cose imperso-nali. Se un bambino sbaglia un calcolo di aritme-tica, in quell’errore c’è tutta la sua persona. Ma selo compie alla perfezione, in quel gesto non c’èsolo la sua persona, ma anche qualcosa che la tra-scende. Così anche nella scrittura.

La perfezione appartiene alle cose che sonoimpersonali. E lo scrittore nel cercare di raggiun-gerla non difende la propria tracotante “autori-tà”, ma l’impersonale in cui è incappato. Non èlui a dire “io”. A dirlo semmai è l’editor di secon-do tipo, quello che taglia, modifica, entra nellascatola nera in nome di ciò che ha calcolato possaessere oggi “popolare”, credendo di sapere esat-tamente quello che il pubblico vuole, in questaparticolare stagione, in questa piccolissima fra-zione della storia dell’umanità. È un “io” arro-gante (questo sì un’“appello all’autorità”), un“io” che tra l’altro nasconde un “noi”: il soggettopiù repressivo e più pericoloso di tutti, perchésottomesso all’esistente.

Cosa c’è quindi di più umano e di più “umani-stico” del sottoporre un’opera alla revisione intel-ligente di un secondo occhio, che ne scova gli erro-ri (se ci sono), le ripetizioni, i cliché, e che aiuta iltesto a raggiungere la sua particolare perfezione?

Ma cosa è invece quell’altra nuova cosa che siaggira per l’Europa, l’America e per tutti i paesidall’industria libraria forte, e che è ancora nonha nome, o meglio si nasconde sotto falso nome(editing), così da diminuire le nostre difese con-tro di essa?

«Perché di editor oggi ce ne sono così tanti? Da dove viene tanta offerta e tanta domanda?

Questo è un fenomeno nuovo su cui è lecito interrogarsi. La mia risposta è questa: la loro “utilità” è determinata

dalla sovrapproduzione libraria»

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L a figura recentemente salita alla ribalta, perqualche giorno, dell’editor merita non molteriflessioni, ma un sacco di precisazioni. Io

vorrei farne qualcuna, di precisazione.L’editing del testo letterario è importante.

Serve a evitare che il testo scritto dallo scrittoreabbia delle imperfezioni marchiane che lo mine-rebbero o almeno lo deturperebbero. In un certosenso il testo letterario è come un vetro soffiato:una piccola bolla d’aria indebolisce il tutto, lorende fragile e prima o poi si rompe.

L’editing del testo letterario è importante.Serve a evitare che la nonna morta nel capitolouno ricompaia gagliarda nel penultimo capitolo adire qualcosa di decisivo.

L’editing del testo letterario è importante.Serve a evitare che la protagonista riempia ilbagno di vomito la prima sera che va a cena dalfidanzato medico e che dopo un’ellissi narrativache salta molti anni lui, ormai da tempo sposatocon lei, si renda conto che lei ha disturbi alimen-tari per via delle sue strane mestruazioni.

L’editing del testo letterario è importante.Serve a evitare che lo scrittore dalla prosa alata evirtuosistica si lasci scappare un qualunque “eva-quarono” nel momento topico del terremoto.

Quando una persona consiglia lo scrittore e glidice che la protagonista non deve morire di sten-ti, ma al contrario vivere felice e fare sette figli conun magnifico uomo, non si chiama editing.

Quando una persona consiglia lo scrittore egli dice “devi cambiare stile” oppure “i tuoi per-sonaggi femminili sono troppo deboli”, non sichiama editing.

Quando una persona consiglia lo scrittore dinon scrivere racconti bensì romanzi e quindi con-

siglia di fondere insieme tutti i racconti fin lìscritti in un romanzo, non si chiama editing.Quando una persona può costringere uno scrit-tore a: 1) aggiungere o togliere personaggi, 2)modificare la disposizione dei capitoli, 3) cam-biare l’inizio, 4) cambiare la fine, 5) cambiare lalingua, 6) cambiare la persona, 7) cambiare iltempo dei verbi, 8) cambiare il luogo dell’azione,9) cambiare il tempo dell’azione, non si chiamaediting.

Quando una persona può riscrivere quelloche lo scrittore ha scritto, buttando via quello chegli pare, e aggiungendo le sue proprie stronzate,non si chiama editing.

Io non so come si chiamino queste cose che lepersone fanno sulle pagine scritte da altre perso-ne, per ognuno dei casi va trovato un termineadeguato.

Ma per l’ultimo caso, che è quello del poveroCarver e del disgraziato Gordon Lish, la parola èfacile facile: stupro.

Due considerazioni marginali. La prima:Gordon Lish, ahimè, opera il suo stupro suCarver non tanto e non solo come editor, ma pur-troppo come scrittore. Valga questo come moni-to agli scrittori che si inventano editor sui testi dialtri scrittori. Il pericolo (la tentazione) è quellodi stuprare l’altro. Di inoculare nel suo testo ilproprio codice genetico. Fate, facciamo, faccianoattenzione.

La seconda: si dice che senza Lish non cisarebbe stata la fortunata e importante corren-te del minimalismo narrativo, in questo casoprecisamente inaugurato dal Carver rivisto daLish. Ma la risposta è banale: tanto peggio peril minimalismo.

Editing e scritturaDario Voltolini, Il primo amore, 18 luglio 2009

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M entre in città si suda dal caldo ma que-st’anno, siccome c’è Obama, è sparito ilglobal warming e fa solo caldo, sul sito

Il primo amore (www.ilprimoamore.com) siscambiano opinioni di mezza estate lo scrittoreVincenzo Latronico e la critica militante CarlaBenedetti, con la quale organizzai anni fa dueinterventi congiunti contro lo strapotere deglieditor. Le posizioni, anche se la fanno lunga,sono elementari: Latronico dice evviva gli editor,la Benedetti lo contraddice, almeno in apparen-za. Latronico mi tira perfino in ballo sul ballato-io epistolare: «Il rifiuto di ogni intervento diver-so da quello dell’autore è, in genere, motivato daun appello all’autorità (appunto) che nega legitti-mità a ogni intervento altrui, per così dire, a prio-ri. Penso, ad esempio, all’appassionata (e nelcomplesso molto coerente) invettiva contro l’edi-ting che fa Massimiliano Parente a un certopunto di Contronatura».

La Benedetti, dopo aver elencato tutti i modiin cui in Perù si distinguono le altitudini (mentrenoi stupidi occidentali usiamo solo “pianura”,“collina” e “montagna”, peccato però non

domandi agli indigeni peruviani come definisca-no la materia oscura e i buchi neri, la secondalegge della termodinamica e la relatività, un’infe-zione batterica e il relativo antibiotico, il Dna o lamappatura del genoma umano), risponde:«Questa è più la posizione di Parente che non lamia. Su questo punto sono in disaccordo con lui.Io credo, al contrario, che l’autore non sia mai il“giudice del proprio operato”»). Come sarebbe adire che «non è mai il giudice»? E al posto del-l’opera c’è un «operato»? Dove siamo a scuola, inun sindacato o in una sala operatoria? A nessunodei due viene in mente che l’autorità non è l’au-torialità, poiché se ogni romanzo ha un autorenon tutti gli autori sono autorevoli, e perfinoGide era meno autorevole di Proust. L’autoritàdell’autore non è «a priori», come sostiene Latro-nico, casomai a posteriori dell’opera, quando c’èl’opera. Se l’opera è un prodotto d’intratte-nimento narrativo vengano pure i correttori degliorizzonti d’attesa. Va benissimo editare l’«opera-to» di Scurati o la Agus o Pulsatilla o Faletti,mentre gli scrittori di opere d’arte hanno sempresaputo cosa facevano, provate a vedere cosa nepensavano Kafka, o Joyce, o Gombrowicz, oBeckett, o Céline, o Nietzsche, o Gadda oD’Arrigo di qualsiasi intervento esterno o“secondo occhio” quando non richiesto, ve liavrebbero accecati entrambi. Provate a vederequanto avessero torto i secondi occhi che castra-rono Madame Bovary, o quelli che trovavanol’inizio e altre parti della Recherche troppo lun-ghi e prolissi.

Se a Latronico posso riconoscere che nel com-plesso anche lui è molto coerente, avendo scrittoin nota al suo romanzo Ginnastica e rivoluzione

DISPUTA SUGLI EDITORTagliare i romanzi è contro natura

Massimiliano Parente, Libero, 19 luglio 2009

Sulla rivista Il primo amore lo scrittoreLatronico e la critica Benedetti concordi: gli autori non possono giudicare da soli i propri libri. Così si castrano le opere

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che senza gli editor il libro non sarebbe esistito, èdivertente che lo svuotamento della consapevolez-za artistica dell’autore venga dalla critica più vici-na a Antonio Moresco (fondatore del Primoamore), un grande scrittore che, correzione direfusi a parte, non si è mai fatto modificare untesto da nessuno, e lo ha sempre dichiarato (ades-so pubblicando le mille pagine di Canti del caosper Mondadori, e non a caso il direttore editorialeAntonio Franchini pensa che «sulle grandi operesono contrario a ogni interventismo», e com’è pos-sibile? I direttori editoriali sono più rivoluzionaridella critica rivoluzionaria?). Così come è diver-tente pensare che la Benedetti abbia scritto unlibro denunciando la morte dell’autore (L’ombralunga dell’autore) e tutte le teorie letterarie che lohanno delegittimato, e sia incapace di gerarchizza-re l’arte e di distinguere le autorevolezze, addirit-tura sostenendo che lo scrittore non può maigiudicarsi. Forse però i tempi stanno cambiando esi arriverà all’elogio delle giurie, considerando cheTiziano Scarpa, da sempre accusatore, insieme allaBenedetti, delle lobby culturali e delle terribili“macchine” editoriali e politiche di vario tipo, eanche lui membro del Primo amore, non solo havinto lo Strega ma non si è peritato di rivolgere icomplimenti al secondo arrivato Antonio Scurati,segno che viviamo nel migliore dei mondi possibi-li, basta ci diano un giro di giostra e ci si scola purela bottiglia dell’omonimo liquore.

Ancora più divertente è che il sottoscrittoParente, sopravvissuto all’attacco di decine dieditor Bompiani, tempo fa mandò alla Benedettiun testo (un intervento contro Massimo Onofri)che doveva uscire sul Primo amore e fu anticipa-to da Libero e se lo vide rispedito proprio dallasuddetta emendato e corretto dall’inizio alla fine,sotto forma di consigli non richiesti e per para-dosso su un testo già pubblicato. Alla mia prote-sta allibita («una rivista online, gestita da diecipersone, è più censoria di un quotidiano naziona-le?») la critica militante rispose come avrebberisposto Letizia Moratti a Carmelo Bene:«Massimiliano, ma che bisogno c’è di dire ai cri-tici “perché non vi togliete dai coglioni”? Nonpuoi scrivere “toglietevi di mezzo”? Che bisognoc’è di scrivere “coglioni”?» e per non farmelitagliare, e essere più affettuoso di quanto sarebbestato Céline, fui costretto a risponderle gentil-mente di non rompermeli.

Carla, per ripicca, si sta trasformando nellapropria antitesi, come succede nel film L’inva-sione degli ultracorpi. Tuttavia lei, in quantoautrice de Il tradimento dei critici, potrà mai esse-re giudice di sé stessa? Non vorremo esentarel’operato dei critici dal secondo occhio? E ilsecondo potrà mai giudicarsi senza un terzo e cosìvia? E se il primo amore non si scorda mai, cosasuccede se perde la memoria e va far festa a VillaGiulia, signora mia?

«...l’autorità non è l’autorialità,poiché se ogni romanzo

ha un autore non tutti gli autorisono autorevoli...»

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N el mercato fondato sul bestseller aumen-tano le concentrazioni editoriali e siimpongono le librerie-supermarket. Agli

editori indipendenti, che tendono a soccombereai ferrei meccanismi della distribuzione, nonresta che Internet, più qualche fiera e ai veri librainicchie di specializzazione e nel complesso unavita sempre più dura. Sono le leggi del capitali-smo a cui non c’è motivo debbano sfuggire i libri,merce fra le merci, anzi, semmai arriva in ritardosu questo fronte. Un unico dato basta a illustrarela situazione: il business del libro vale 2,7 miliar-di di euro (443 milioni arrivano dal settore scola-stico), il 57,8 per cento del quale è appannaggiodi cinque gruppi editoriali: Mondadori, che fa laparte del leone, con circa il 40 per cento, e aseguire Rcs, Gruppo Mauri-Spagnol (Gems),Giunti e Feltrinelli.

Ciascuno di questi gruppi riunisce marchidiversi, dai più gloriosi – è il caso di Einaudi perMondadori, controllata dalla famiglia Berlusconie proprietaria anche di Electa, Piemme, Sperling& Kupfer, Bruno Mondadori – ai più recenti einnovativi. I leader del mercato praticano tutti la

stessa politica di espansione, con l’obiettivo dioccupare ogni spazio disponibile, non solo acqui-stando, fondendosi o alleandosi con altre caseeditrici ma cercando di controllare anche le ca-tene di librerie e i nuovi canali, in primo luogo,Internet.

Fra le aziende più attive negli ultimi tempi c’èproprio Gems, nelle scorse settimane al centrodell’attenzione per aver acquisito lo storico mar-chio Bollati Boringhieri. Gems è controllata al 73per cento da Messaggerie Italiane, la più impor-tante società di distribuzione del Paese – che pos-siede anche il 23 per cento di Laterza – e direcente si è accordata con Giunti per gestireinsieme le rispettive reti di librerie. Bollati Bo-ringhieri porta in dote al gruppo Mauri Spagnolun catalogo di grande valore, in cui brillano leopere dei due padri della psicanalisi, Freud eJung, e quelle di Einstein, ma anche dei grandidell’antropologia e di autori come GiorgioAgamben o Serge Latouche. Con questa acquisi-zione Gems ha consolidato il suo ruolo di terzopolo dell’editoria italiana; il gruppo detiene infat-ti marchi importanti quali Longanesi, Garzanti,

Libri, le grandi manovreCosì crescono i gruppi editorialiGiuliano Galletta, Il Secolo XIX, 18 luglio 2009

«La nuova logica imprenditoriale influisce non solo sul metododi lavoro delle case editrici, sempre alla ricerca – a volte inmodo casuale – del “colpo”, ma anche sul lettore che vederidotte le sue possibilità di scelta e rischia di dover optare

fra libri che si assomigliano tutti»

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Guanda, Salani (che pubblica il super-bestsellerHarry Potter), Nord, Corbaccio, Tea, Vallardi ela nuova nata Chiarelettere, di cui il gruppo con-trolla il 49 per cento e attraverso la quale MauriSpagnol potrebbe anche debuttare nel settore deigiornali, grazie al progetto de Il Fatto, il nuovoquotidiano di Antonio Padellaro che dovrebbeuscire a settembre.

La bulimia dei grandi gruppi tende a farscomparire la pluralità editoriale limitando forte-mente l’autonomia e la propensione al rischiotipica dei medi-piccoli. Dall’altra parte il numerodelle case editrici cresce in continuazione –l’Italia può vantare un record mondiale con 9.600editori e ogni anno ne nascono più di 800 – e tuttiquesti libri, molto spesso di notevole valore cul-turale, non troveranno mai né la strada di unalibreria né tantomeno quella di una recensione.

Il caso più emblematico delle difficoltà legateai supergruppi è senz’altro quello di Einaudi cherecentemente è stata oggetto di una polemica peraver deciso di non pubblicare un libro del NobelJosé Saramago e un saggio di Marco Belpoliti per-ché criticavano duramente Berlusconi. In questocaso la questione a più politica che culturale ma ècerto che, in generale, le logiche puramentemanageriali applicate ai libri tendono a una omo-geneizzazione verso il basso. Dal canto suoStefano Mauri, amministratore delegato di Gems,ha voluto rassicurare che «Bollati Boringhierivedrà rafforzata la sua autonomia, così come èstato per le altre case editrici del gruppo».

«Siamo di fronte a una radicalizzazione delmercato» spiega Giuliano Vigini, docente diSociologia dell’editoria all’università Cattolica edirettore della Editrice Bibliografica «che avvie-ne sì sul fronte delle aziende, che vogliono con-quistare le posizioni migliori nella produzione enella commercializzazione, ma anche per quelche riguarda la clientela. I consumi infatti tendo-no a loro volta a concentrarsi su un numeromolto limitato di titoli, grosso modo quelli inclassifica, una decina, che sono pubblicizzati erestano di più in libreria. Tutti gli altri volumirimangono esposti al massimo per 40-50 giorni epoi imboccano il viale del tramonto: i remain-

ders, un mercato che vale 74 milioni di euro, o ilmacero. Questo anche perché l’Italia ha unaminore capacità di assorbimento rispetto ad altriPaesi e ogni anno escono dal mercato 40mila ti-toli. Il pubblico compra quindi quello che vede edella maggior parte dei 180 libri che escono ognigiorno non ha neppure notizia». Per gli editoriche non riescono ad arrivare o a rimanere inlibreria la nuova frontiera è ovviamente Internet,dove è possibile far conoscere la propria produ-zione a un numero teoricamente illimitato dipotenziali lettori. Un settore che cresce del 30 percento all’anno – a fronte dell’uno per cento dellelibrerie – ma che nel 2008 non è riuscito comun-que a fatturare neppure cento milioni di euro.

Esiste poi una concentrazione di tipo geografi-co, incentrata su Milano – che vale da sola il 30per cento del mercato – e Roma. «Facendoun’analisi dei bestseller pubblicati dal 2000 al2008» prosegue Vigini «e prendendo in con-siderazione i primi dieci titoli, quindi 90, si verifi-ca che 80 sono stati pubblicati a Milano e solo 10nel resto d’Italia, nove da Sellerio e uno da Fazi».

La nuova logica imprenditoriale influisce nonsolo sul metodo di lavoro delle case editrici, sem-pre alla ricerca – a volte in modo casuale – del“colpo”, ma anche sul lettore che vede ridotte lesue possibilità di scelta e rischia di dover optarefra libri che si assomigliano tutti. «Alla fine contrecento titoli si fa il grosso del fatturato delle li-brerie e l’80 per cento degli incassi deriva dallavendita del 12 per cento dei libri disponibili sugliscaffali» conclude Vigini. «I grandi gruppi con160 librerie realizzano più della metà del lorogiro d’affari». Si può dire quindi che, in un certosenso, anche nel settore dei libri esiste una “bio-diversità” messa in grave pericolo dalla politicadel bestseller – che di per sé può produrre buonilibri a un buon prezzo – ma che trascina con séun’ideologia che tende a inaridire la cultura e ilsenso critico del lettore. Quando quindi trovatesulla vostra strada una piccola libreria che propo-ne titoli di editori indipendenti che non avete tro-vato in classifica e di cui non avete sentito parla-re in televisione, sceglietela. E un presidiodell’intelligenza.

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S e voleva provocare un putiferio mediatico,John David California, pseudonimo yankeedello scrittore umoristico svedese Fredrik

Colting, ci è riuscito benissimo. Il suo 60 YearsLater – Coming Through the Rye, sequel più cheannunciato del Giovane Holden di Jerome DavidSalinger, ha risvegliato dal torpore l’anziano scrit-tore americano. Che, nonostante viva da decenniin reclusione totale nella sua casetta di Cornish –un paesucolo di mille abitanti dello stato del NewHampshire – ha fatto sentire la sua profondavoce, portando Colting in tribunale. Perché losvedese avrebbe usato per il suo libro i protagoni-sti di The Catcher in the Rye (intraducibile tito-lo originale del capolavoro di formazione diSalinger), pur non detenendone alcun diritto.

Per adesso Salinger ha vinto. Due giorni fa laCorte distrettuale di New York ha bloccato tem-poraneamente la pubblicazione dell’opera diColting, prevista negli Stati Uniti per settembre,

per verificare se il caso rientra nel vituperatoprincipio del “fair use”, del “giusto utilizzo”. 60Years Later, infatti, presenta un HoldenCaulfield ultrasettantenne e incartapecorito. Che,invece di scappare dal collegio – come narravaSalinger –, va via dall’ospizio. Incipit che, come ilresto del libro, non è stato molto gradito dalloscrittore americano.

Ma cosa ne pensa di tutto questo FredrikColting alias California? Il Riformista ha rag-giunto l’uomo, ad oggi, probabilmente più odia-to da Salinger.

Mr Colting, prima di tutto, perché il sopranno-me John David California? Le piace così tantol’America?No, il mio nickname non c’entra nulla conl’America e Salinger. Semplicemente, mi piacecome suona, non c’è alcun significato nascosto inesso. Utilizzo due nomi perché, oltre ad essere

«NON HO SCRITTO UN SEQUEL. MA HOLDEN È ANCHE MIO»Parla Fredrik Colting, lo svedese portato in tribunale da Salinger per il suo Sessant’anni dopo, che ritrae un vecchio Holden in ospizio. «Una mossa folle. L’arte deve essere di tutti».Non è stata una furbata commerciale? «Falso, la mia storia è unica». E una sorpresa: «A Salinger preferisco sempre Moravia»

Antonello Guerrera, il Riformista, 19 luglio 2009

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scrittore, sono anche un editore, tendo sempre adifferenziare le mie professioni.

Quando ha letto Il giovane Holden per laprima volta? E come è nata l’idea di farne unsequel?L’ho letto a scuola, avevo quindici anni se nonricordo male. Ma, e qui devo sfatare un mito ora-mai mondiale, il mio libro non è un sequel.

Però, scusi, dal titolo il suo libro sembra proprioun sequel...Sì, è vero, ma la sua trama, seppur utilizzi perso-naggi del Giovane Holden, non costituisce unvero e proprio seguito, perché la storia non siconcentra su Caulfield diventato anziano. Il mio60 Years Later è composto da ben 25 personag-gi, quasi totalmente inventati da me. Tra questi,ci sono anche Holden, la sorella Phoebe, il fratel-lino Allie (già morto nel romanzo dell’americano,ndr) e Salinger stesso.

Salinger stesso?Sì. Nel mio libro Salinger morirà presto e lottacon i suoi personaggi, invecchiati con lui – unoscenario che, tuttavia, avrei potuto descrivere conqualsiasi altro scrittore. Si parla di cosa hannofatto dagli anni del romanzo ai nostri tempi, conlo scrittore e Holden su tutti. In 60 Years LaterSalinger vuole uccidere i suoi personaggi, perchésono diventati troppo famosi per i suoi gusti,come lui. Perciò, vuole farli fuori tutti per portar-seli con sé nella tomba.

Mentre lei, Mr Colting, vuole portarla in tribunale...Non capisco perché Salinger abbia intentato unacausa simile. Secondo me 60 Years Later nonl’ha letto neanche. Il suo giovane agente deveaver spulciato qualcosa del mio libro, mentre erain vendita in Inghilterra (dove lo è stato per unasettimana e poi è stato ritirato dal mercato per lebeghe legali, ndr), e deve averlo convinto a farequesta mossa folle. Del resto come ha mai potutocomprarlo se se ne sta sempre chiuso in casa? Adogni modo, sono ottimista. Tra due settimanedovremmo ripubblicare il libro nel Regno Unito,mentre anche per gli Usa, credo che in autunnonon ci saranno problemi. In Italia c’è già qualche

editore che vuole tradurlo, ma il mio agente nonmi ha detto quali.

E che risponde a coloro che sostengono che lasua è stata solo una mossa commerciale?Che si sbagliano. Il mio libro è totalmente diver-so da quello di Salinger, è una storia unica. Iodico di leggerlo prima, ma il 99 per cento di quel-li che mi criticano non l’ha neanche letto il libro.Ovvio che sono stato ispirato da Salinger, ma quigiace il significato dell’arte. Gli artisti possonoprendere spunto l’uno dall’altro se non copianospudoratamente. Le storie di detective e noir, inquesto caso, sono emblematiche. Perché in que-sti casi non si dice nulla? Eppure la bellezza del-l’arte è proprio questa.

Che ne pensa delle attuali leggi sul copyright?Tra l’altro il suo paese, la Svezia, è la patria delcaso Pirate Bay e anche del primo parlamentare“pirata” Ue.Le attuali leggi non sono adeguate ai tempi checorrono. Il mondo e i suoi prodotti, veri o reali-stici, appartengono a tutti, non si può avere uncopyright su ogni cosa. Certo un compenso mini-mo per gli artisti è necessario, altrimenti noi scrit-tori non potremmo vivere del nostro lavoro. Mad’altra parte tutti dovrebbero avere accessoall’arte come informazione libera, senza restrizio-ni di sorta. Ma è un equilibrio difficilissimo datrovare, l’unico ago della bilancia dovrebbe esse-re il common sense, il senso comune, di addettiai lavori e fruitori.

A proposito di addetti ai lavori, quali sono i suoicolleghi scrittori preferiti? Immagino che Sa-linger occupi un posto di riguardo nelle sue clas-sifiche personali...Ma vede, mica tanto! Voglio dire, Salinger mipiace moltissimo, ma non è in cima alla lista deimiei favoriti. Preferisco altri, in particolar modoHaruki Murakami e Alberto Moravia.

Ma lei che è svedese, che ne pensa del fenomenoLarsson e del filone noir nordico che impazza intutto il mondo?Ah, non penso nulla. A me il suo genere nonpiace. E non ho mai letto niente di simile.

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L a mia esperienza personale, privata, esi-stenziale, come scriveva PPP: l’autore nonha da offrire niente più di questo. Tenendo

presente che con PPP ho poco a che fare. Nienteestetica della mia vita please, né nella vita, né nel-l’opera. Questo non significa che vita e operasiano due cose distinte, al contrario; a tal punto alcontrario che pensarle separatamente non mi èpossibile. A dire il vero non ci ho mai nemmenoprovato, non mi viene naturale, è uno di queiproblemi che il mio cervello semplicemente rifiu-ta, non riconosce, non decodifica, gli manca l’in-terfaccia adeguata. Una questione di piattaformaio credo. Suonerà strano, ma il fatto è che hosempre ben presente il suolo che calpesto, anchee soprattutto quando scrivo. Una sorta di atteg-giamento – non saprei come altro chiamarlo –che mi porta ad aver sempre coscienza della miagravità e del suolo che mi sostiene. Tutta la miaattività si fonda su questo. Tutta la mia vita sifonda su questo. Che bisogno c’è di scriverlo duevolte? Schopenhauer dice: La vita è un lavoro dasbrigare; in questo senso defunctus è una bellaparola. A patto di non suicidarsi, cosa che avreb-be un effetto positivo sull’opera, ma certo assaimeno sull’autore, trovo che defunctus sia davve-ro una gran bella parola. Non c’è fretta. Ci arri-veremo, come tutti, quando sarà il momento.

Per tornare a noi, malgrado la complessità delmondo, la cosa è relativamente semplice:forma/funzione/contenuto: nelle questioni discrittura, è a questa triade che sempre ci attenia-mo. Per quanto datata, e ormai anche smentita, efatta a pezzi, triturata, letteralmente fagocitata, einfine evacuata da quello stesso organismo chel’aveva partorita, malgrado non sia ormai chel’ennesima deiezione oramai disidratata nell’im-menso scarico della storia, lo stesso noi ci tenia-mo alla forma, alla funzione, al contenuto, e alladinamica che si sviluppa dalla compresenza, inogni momento, ovvero in ogni frase riga parolasegno di punteggiatura e spazio nella pagina, diquesti tre elementi (il packaging, fisico o intellet-tuale che sia, non ci riguarda). Compito non faci-le, ma paradossalmente la letteratura sembra resi-stere meglio di altre discipline, tanto artisticheche scientifiche, nell’attuale delirio d’interpreta-zione, conseguenza – sintomo, di quella crisi pro-fonda e generale che riguarda oggi l’insieme dellerappresentazioni del mondo. A patto di nontrasformarsi in uno di quei professionisti dellarealtà che infestano il globo, e di cui l’Italia èormai satura, che volteggiano leggeri sulle perife-rie diffuse in cerca di cadaveri. Il tempo di spol-parli e di cagare la relativa narrazione, e via dinuovo in volo, in cerca di un terremoto, di una

Dobbiamo guardarci dal ridurre la scrittura, come sempre più spesso accade, a semplice arte della didascalia. La letteratura, come la vita, o è ricerca o non è

Vitaliano Trevisan, la Repubblica, 21 luglio 2009

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Le inutili denuncedei nostri scrittori

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guerra, di un assassino, di una vittima, di unaqualsiasi sfiga, purché di mercato. E se la de-nuncia, civile o meno, è diventata un mercato, ebasta entrare in una libreria, o scorrere il pro-gramma di un teatro, o andare al cinema, oaccendere la televisione, o la radio, o sfogliare ungiornale, per rendersi conto che si tratta di unmercato ormai consolidato, significa che, altempo presente, denunciare una qualsiasi iniqui-tà è molto vicino all’inutile inutile. Sia dunque ilnostro un altro scopo.

Ora, avendo in certo qual modo definito ilcontenuto – il rapporto tra l’autore e la terra chelo sostiene, e dando per scontato che la funzionedi un qualsivoglia scritto sia di essere leggibile,nel senso migliore della parola, non resterà cheoccuparsi della forma. Certo essa, la forma, non ètutto, ma è molto, moltissimo, qualcosa di indi-spensabile: senza una forma, nessuna triangola-zione sarebbe possibile e ci ritroveremmo a cor-rere avanti e indietro per una strada che nonporta da nessuna parte, o meglio, visti i tempi, ciritroveremmo a girare in tondo come trottole nel-l’orbita di una gigantesca rotatoria il cui unicosbocco ci riporterebbe sulla strada da cui siamovenuti. Perché un’azione letteraria possa averluogo, l’autore deve sapersi orientare nel suoambiente, deve cioè costruirsi un’immagine spa-ziale. Questo non significa che le immagini sianoal primo posto; dobbiamo guardarci dal ridurrela scrittura, come sempre più spesso accade, asemplice arte della didascalia, o meglio del sotto-titolo, visto che è ormai implicito che l’immaginea cui si fa riferimento sia da considerarsi in movi-mento. Velocità, ritmo, sincronizzazione, in unaparola: Tempo. Se non considerassimo questofattore, nessuna forma risulterebbe adeguata.Dunque mi correggo: l’immagine dovrà esserespazio-temporale. Ma in un mondo in cui la pia-nificazione del tempo, pubblico e privato, èdeterminante, tutto ciò che non è a tempo, èfuori dal tempo, e si trasforma automaticamentein un potenziale intoppo a quella libera circola-zione delle merci, e delle persone, che nonpotrebbe certo essere così “libera”, se non fosseaccompagnata da una stretta, strettissima, ormaitotalizzante, e asfissiante, regolamentazione del

tempo, e dunque dello spazio, e dunque, comelogico e inevitabile, delle persone.

E tuttavia, anche se ce ne rendiamo contosolo in modo effimero e intuitivo, vi sono, nelmondo che ci circonda e in ciascuno di noi, zonedi resistenza all’evidenza. Lo scopo del viaggio,lo scopo della ricerca letteraria, dovrebbe essere,ed è talvolta, l’esplorazione di queste zone diresistenza (Marc Augé, Le Temps en ruines).

Personalmente, l’autore ritiene che la lettera-tura, così come la vita, o è ricerca o non è. Così, loscopo della nostra azione letteraria non potrà cheessere l’esplorazione/ricognizione di quelle zonedi resistenza all’evidenza di cui parla l’inventoredel non-luogo, con la sostanziale differenza chedella loro esistenza, fuori e dentro di noi, abbiamocoscienza, da sempre, come di qualcosa di affattoconcreto, per niente effimero, assolutamentereale. Spostarsi da una all’altra di queste zone èuna questione complicata e pericolosa. La fram-mentazione, la parcellizzazione, l’atomizzazionedel territorio, esterno e interno, è tale che finirespiaccicati, o formattati, è questione di unmomento. Destrezza, senso del tempo e fortuna cihanno evitato, finora, una simile fine, consenten-doci così di scoprire che, oltre a zone, esistonoanche percorsi che resistono all’evidenza.

Zone e percorsi letterariamente praticabili, apatto, ancora una volta, di non perder tempo acorrere dietro alle immagini, riducendo di nuovotutto a una questione di sottotitoli. Si tratteràpiuttosto, individuato di volta in volta il terre-no/percorso adatto, di abitarlo col giusto atteg-giamento, così che le immagini vi germoglinospontaneamente, con quella forza sorprendente eaddirittura, per l’autore, commovente, che hannoalcune piante quando bucano l’asfalto, o mettonoradici in una crepa sul muro, o nell’incavo di unagrondaia trascurata, e crescono, si sviluppano, inuna parola vivono, senza rendersi conto che nonè lì che dovrebbero essere, e di quanto precariasia la loro situazione.

Come motto, e come bussola, portiamo sem-pre in noi, senza alcuna autorità, una frase delTalmud: Colui che non ha terra sotto i piedi nonè un uomo.

Defunctus!

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A desso muoio, ma ho ancora molte cose dadire. Ero in pace con me stesso. Muto e inpace. Ma d’improvviso sono emerse le

cose». Roberto Bolaño, l’autore postumo oggipiù amato e riverito dell’editoria mondiale, nel2000 lo faceva dire al prete cileno, membrodell’Opus Dei e potente critico letterarioSebastian Urrutia Lacroix, nel suo Notturno cile-no, uscito da Sellerio in italiano sei anni fa.Riletta adesso, però, la frase sembra parlare di lui.

Bolaño, che se n’è andato a cinquant’anni il15 luglio 2003 mentre aspettava un trapianto difegato in un ospedale di Barcellona, è tra i pro-tagonisti più vivi delle ultime stagioni letterariee di quelle che verranno: qualche anno dopo laprima edizione in Spagna, nel 2007 e 2008 èuscito in italiano da Adelphi e in America eInghilterra il suo 2666, decretato libro dell’anno

dal Time e insignito di premi prestigiosissimifino al National Book Critics Circle Awardquattro mesi fa. Ora Sellerio ristampa da noi Idetective selvaggi, importante quanto e più di2666 per stabilirne la fortuna critica e il ricono-scimento del genio (a sua volta vinse nel 1998 e’99 i due più grandi premi di letteratura in lin-gua spagnola). Ma soprattutto l’“ereditàBolaño”, cioè un fittissimo archivio di carte,abbozzi, manoscritti, è al centro di un’alacreattività editoriale che sembra destinata a sforna-re inediti per un lustro.

Passata l’anno scorso la gestione dei dirittidell’opera dalla regina degli agenti spagnoliCarmen Balcells al determinatissimo AndrewWylei, per il gennaio 2010 è annunciato fin dallascorsa Fiera di Francoforte il “nuovo” Bolaño(anche se in realtà scritto prima di 2666) Il Terzo

Il ciclone Bolaño. E il successo degli scrittori postumiIntorno all’autore cileno scomparso nel 2003 è cresciuto l’interesse. I suoi libri inediti sono un’eredità letteraria che ha mobilitato l’editoria mondiale.Ma sono tanti i casi dei narratori che dopo la loro morte diventano un brand, un marchio per catturare il lettore

Maurizio Bono, la Repubblica, 23 luglio 2009

«

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Reich, romanzo su uno scrittore mancato maabilissimo giocatore di videogame (il titolo alludea un gioco elettronico di ruolo) coinvolto inCosta Brava nella sparizione di un tedesco incon-trato in albergo. E già si preparano (a marzo èstato uno scoop del quotidiano La Vanguardia)le redazioni di due racconti (Diorama eAssassini di Sonora) e di un romanzo incompiu-to che potrebbe essere la sesta parte di 2666:molto più di un appendice, se come si dice svelaun retroscena fondamentale dell’intricato affre-sco a più plot dell’opera.

Almeno un Bolaño postumo all’anno di qui al2014? Al di là dell’ironia del ritmo imposto dallamacchina editoriale a un autore che fino a dopo iquarant’anni non pubblicò una riga di prosa (siconsiderava un poeta irregolare e senza mercatoun po’ come i suoi irriverenti e anarchiciDetective selvaggi, versificatori “realvisceralisti”nemici dell’establishment culturale incarnato dal“nemico” Octavio Paz e si decise alla narrativasolo per mantenere moglie e figli), in America c’èchi ha cominciato a sollevare solide obiezionimorali e letterarie in proposito.

Sul numero estivo del Quarterly Conversation,una rivista letteraria online molto letta e consi-derata dalla critica anche accademica, apre il fuocol’editoriale intitolato “Sulla proliferazione dellepubblicazioni postume”. Un andazzo, vi si legge,che andrebbe regolato da due norme: la primapermissiva, “Tutto ciò che non è bruciato va pub-blicato”. La seconda, però, restrittiva: “Ma vapubblicato esattamente come è stato lasciato”. E ilsospetto evidente è che gli scrupoli filologici nonsiano di casa presso agenti, editori e curatori,quando c’è in ballo un potenziale bestseller.

Gli editori del Quarterly Conversation, tutta-via, non si limitano a bacchettare la disinvolturaeditoriale. E la seconda bordata è nel merito:Bolaño, come Vladimir Nabokov e David FosterWallace (gli autori di altri due clamorosi “ultimilibri” inediti e incompiuti annunciati rispettiva-mente in uscita il 17 novembre, The Original ofLaura, e nel 2010, The Pale King), in questomodo smettono di essere i grandi scrittori che ilettori dei loro libri conoscono, per “diventareun brand”.

L’unica medicina prescritta contro il rischiodello svilimento dell’autore famoso in una modaè peraltro scontata: continuare a leggerlo (o ini-ziare a farlo, perché più uno scrittore è celebratoe più si tende a parlarne per sentito dire) nei libricerti e licenziati in tempi non sospetti,possibilmente da vivo e senza interposti interessidi bottega. In questo senso, per Roberto Bolañocade a perfetto proposito la riedizione Sellerio diI detective selvaggi, che da anni era introvabilein libreria. E che letta o riletta dopo 2066 nonsolo non perde nulla, ma completa e precisaretrospettivamente il suo percorso: è un’altra etàe con una disperata allegria che cinque anni dopoavrebbe assunto i toni cupi e minacciosi degliomicidi seriali a Santa Teresa-Ciudad Juarez edella ricerca donchisciottesca del misteriosoBenno von Arcimboldi, l’indagine dei giovanipoeti visceralrealisti Arturo Belano e Ulises Limasul destino della poetessa mai pubblicata CesareaTinejero ne è la premessa, una prova generale daapplauso e insieme un’anticipazione profetica.

Perché se anche Nabokov e forse Wallacehanno seminato in vita quanto basta a difendersida soli dal diventare caricature di sé stessi dapostumi, Bolaño ha un’arma in più, la preveggen-za imparata da Borges sul destino delle storie: in2666 un personaggio minore, in un monologo(quello stesso che ha talmente incantato ancheJonathan Lethem da farglielo citare l’anno scorsoper esteso nella sua recensione del libro per ilNew York Times) riflette sulla durata delle stel-le: una quindicina quelle dello sport, cin-quant’anni se va bene quelle di Hollywood, inve-ce una di quelle nel cielo visto dal deserto«poteva essere morta da milioni di anni e il viag-giatore che la contemplava non ne aveva il mini-mo sospetto… la questione era priva di impor-tanza perché le stelle che uno vede di nottevivono nel regno dell’apparenza. Sono apparenzanello stesso modo in cui sono apparenza i sogni».E naturalmente nello stesso modo della letteratu-ra: come dire che la storia davvero romanzesca diuno scrittore morto che dall’aldilà sforna librisempre “nuovi” capaci di rinnovare la proprialeggenda è una di quelle che proprio Bolañoavrebbe potuto inventare.

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G li scrittori di denuncia, quelli cosiddetti“impegnati”, li detesto insieme a quellidella domenica, di puro intrattenimento o

svago; preferisco gli outsider, quelli che dirazzano,che non sono nel solco». A chi il posto d’onorenello studio romano profumato di gelsomini diMargaret Mazzantini?

All’Irregolare per eccellenza, a LouisFerdinand Céline, gran medico insonne che in ef-figie sorveglia la scrittrice-attrice nata a Dublino. Elo fa con quel suo sguardo perennemente tormen-tato e infagottato in un curioso giaccone di pelo,tipo pastore sardo («una via di mezzo tra il barbo-ne e l’eremita: anche fisicamente finisce per espri-mere lo struggimento, la capacità di addentrarsinelle ferite umane…»).

Insieme all’autore di Viaggio al termine dellenotte, un altro guru ideale della narratrice è JamesHillman, l’analista junghiano che investiga pure luinel buio e nella notte della psiche, scandagliata acolpi di archetipi e miti. Anche Margaret, in questigiorni, è impegnata in un personale vagabondaggio.È entrata nella cinquina del Campiello. Ed è in poleposition anche per il Supercampiello con il suo ulti-mo romanzo, Venuto al mondo (Mondadori), ama-tissimo dal gran pubblico (oltre 400mila copie): inmeeting e tavole rotonde, quasi tutte nel Nordest,farà conoscere i dettagli del pellegrinaggio della suaprotagonista, Gemma, a Sarajevo, là dove guerra,desiderio di maternità, orrore, morte e nascitasegnano la strada per la rinascita finale. Con ilcorpo filiforme da ragazza, scarpe con zeppa equattro figli, vive e scrive (la scrittura «mi arrivaaddosso come se fossi un gladiatore, anche per que-sto ultimo romanzo dopo una gestazione di setteanni, ho trascorso 12 mesi in apnea per gettar giù iltesto») in un viavai di gente (arriva l’attore SergioCastellitto, suo marito, entra baby-sitter, esce baby-

sitter, telefona insegnante, amica, sorella, organizzai campi estivi per i bambini).

A quando il suo primo incontro con le notturnefatiche letterarie di Céline?«Céline o Dostoevskij, oppure I miserabili – ilromanzo d’appendice, con prostitute, usurai,omicidi, mi ha sempre intrigato – sono stati, insie-me a tanti altri narratori, la mia principale compa-gnia. Ci si può sentire veramente soli abitando incampagna. Ho trascorso la mia adolescenza vicinoa Tivoli. Mio padre lavorava all’EnciclopediaTreccani, se ne andava a Roma con la nostra unicamacchina. Io, le altre tre sorelle e mia madre, fra-gile, eterea ma anche concreta irlandese, sapeva-mo far di tutto, dal pulire i polli alla cura dell’or-to. Però poi alle 4 di pomeriggio d’inverno calavail buio. Ci mettevamo vicino alla stufa e papà, per-sonaggio estroso e assolutamente singolare, ci leg-geva Eliot, Saffo, Dylan Thomas e anche Céline.Di Viaggio al termine della notte prediligeva ilregistro linguistico giocato su vari piani e la folliaestrema».

Solitario e «irregolare» anche Carlo, padre-scrit-tore di Margaret, autore di A cercar la bellamorte, racconto della sua adesione a 17 anni allaRepubblica di Salò. «Era un vero eretico, un originale che ti costrin-geva continuamente al confronto intellettuale.Accompagnato tutta la vita dalla memoria di Salòe dei terribili momenti dell’arresto da parte deipartigiani. Leggeva ad alta voce in manierastraordinaria, un vero istrione. Lo stesso avveni-va quando pronunciava discorsi pubblici, magariin occasione di feste, matrimoni, compleanni, inquelle circostanze in cui si dà solennità alla vita ditutti i giorni. Comunque tutto questo arriverà più

«Nelle umane ferite, per mano al dottor Céline»

I dinosauri della scrittrice favorita per il Campiello con Venuto al mondo:

oltre al Grand Maudit, Hillman, anche lui inviato nella notte della psiche

Mirella Serri, Tuttolibri della Stampa, 25 luglio 2009

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tardi. Da bambina ad attirare la mia attenzione,più dei libri, era la zampata del gatto al serpente,il passaggio di una volpe, i colori del bosco».

E allora?«Ero una piccola selvaggia, una monella, non riu-scivo a star ferma. Cosa potevo preferire se nonl’avventura? Ecco L’isola del tesoro, Il mago diOz e poi Zanna Bianca e Martin Eden di JackLondon, dove la sfida è per affermarsi come scrit-tore. Refrattaria come ero, e sono, a qualsiasiobbligo, anche a quello dell’essere inchiodata albanco di scuola, mi cimentavo con Jane Eyre diCharlotte Brontë. Mi identificavo con questaantieroina né bella né ricca che alla fine risulta vin-cente grazie alla sua determinazione. Ma prim’an-cora, quando scorrevo le pagine di PippiCalzelunghe, mi sentivo io stessa Pippi, la primavera rivoluzionaria, capace con le sue calze sdruci-te di organizzare una spedizione nei mari del Sudper liberare suo padre, il capitano di mare Efraim,prigioniero dei pirati sull’isola di Taka Tuka».

Successivamente?«Sono sul pullman che mi sta portando a Roma eIl processo di Franz Kafka che riesco a compulsa-re a spizzichi e bocconi mi commuove e mi fa pian-gere. Poi è arrivato tutto il resto: MargueriteDuras, così derelitta, alcolizzata, e l’altraMarguerite, la Yourcenar, anche lei con la sua vitacomplicata, piena di segreti e misteri, Beckett dicui conservo una foto con quei suoi occhi di ghiac-cio, Ingeborg Bachmann, con Il trentesimo anno eMalina, morbosa storia di un triangolo amoroso,William Faulkner con Palme selvagge, vicenda didue amanti che, nel tentativo d’interrompere unagravidanza, finiscono con l’autodistruggersi. E poiCarlo Emilio Gadda e Heinrich Böll e altri ancora.I libri di cui erano protagonisti i bambini: Useppe,il piccolo della Storia di Elsa Morante, Oskar, alcentro del Tamburo di latta di Gunther Grass».

Galeotto fu per lei il teatro, da tanti punti di vista,anche da quello sentimentale: conquista le scenee pure Castellitto, suo futuro marito. Le sueprime apparizioni non sono quelle undergrounddegli scantinati, umide retrovie dello spettacolo,ma il corpo a corpo con i tragici classici.

«Ifigenia in Tauride di Goethe all’Olimpico diVicenza e Antiperformances».

Spaventata dal debutto?«Per niente. Non sapevo cosa mi aspettava.Piuttosto temevo che arrivasse mio padre, unuomo possente, un Agamennone gigante, e midicesse scendi, ti porto via. Avevo solo 20 anni.Con Sergio ci siamo incontrati recitando ne Letre sorelle di Cechov. Andavamo in trasfertainsieme sulla sua A112, dividevamo le spese epoi… lui stesso è un personaggio cecoviano, con-templativo, silenzioso, un po’ viandante, come lozio Vania. All’inizio ero diffidente, pensavo chegli attori cambiassero compagna con la stessafacilità con cui cambiano compagnia».

Tanto successo sulle scene, qualche incidente dipercorso? «Nella Signorina Julie, storia della contessina Julieche, reduce da un fidanzamento fallito, si unisce alballo della servitù nella notte di San Giovanni ecerca di irretire Jean, un affascinante ma equivococameriere. Jean fa ubriacare Julie e io bevo acquae amarena a go-go. Mi va di traverso e scoproSergio nei panni di Jean che, tenero e preoccupa-to, mi chiede in scena “nun è che te strozzi?”».

Mille pagine il dattiloscritto originario diVenuto al mondo, tanta pazienza per rifilarlo eper tagliarlo, in più passeggini, obblighi vari,bambini. Ce la fa a scorrere qualche pagina? «Leggere è la mia droga quotidiana, un’iniezionedi vitalità. Con Sergio, appena ci siamo conosciu-ti, dopo lo spettacolo, in albergo, ci addor-mentavamo dopo aver letto ad alta voceShakespeare o Dostoevskij, I demoni, GarcíaLorca, Doppio sogno di Arthur Schnitzler,Cervantes, Marina Cvetaeva».

Castellitto ci raggiunge e conferma: «Un tempoa esibirmi ad alta voce ero solo io. Avevo l’iste-ria recitativa», dice ridendo. «Adesso mi sonostancato». «Io per niente. Sono io che leggo perlui», sostiene lei. «Dalla cronaca del quotidianoai romanzi». L’intervista non è più per voce solama a due. Lettore e Lettrice di calvinianamemoria.

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L eggevo all’aperto, di fronte al mare sardo daicolori cangianti, un libro bellissimo e clau-strofobico come Le campane di Bicêtre di

Georges Simenon (Adelphi). E avevo l’impressio-ne di trovarmi davanti al romanzo mancato dellanostra classe dirigente; e poi alla differenza tra lanostra cultura – cattolica e meridionale, autoindul-gente, incline al perdono – e la cultura del Nord-Europa – impastata comunque di radicalismomorale e di severità protestante. Simenon era statoeducato in un collegio di gesuiti e poi si era allon-tanato dalla Chiesa cattolica, tanto che quandoFrançois Mauriac, scrittore ipercattolico e antibor-ghese, definì proprio Le campane di Bicêtre, usci-to nel 1963, uno splendido memento mori in purostile religioso, si dichiarò stupito… Ma perché hofatto riferimento alla classe dirigente?

René Maugras, protagonista del romanzo, cin-quantaquattrenne, è direttore del più importantequotidiano parigino (non appartiene all’altrafamiglia di personaggi simenoniani: irregolari,anarchici, criminali braccati…), e ogni primomartedì del mese si ritrova nell’esclusivo ristoran-te Grand Vefour con amici importanti – avvoca-

ti, accademici, politici, letterati – tutti esponentidella classe al potere. In quella atmosfera ovatta-ta «era tutto un congratularsi reciproco accompa-gnato da abbracci e pacche sulle spalle». E pro-prio nel bagno del ristorante, finita la cena,quando di là passano i liquori, Maugras ha unictus (un’emiplegia), viene ricoverato in ospedalesenza la parola e con i pensieri confusi. Resta inuna specie di coma per qualche giorno. Il roman-zo non ha un vero intreccio (in ciò è la negazionedel “giallo”, genere pur congeniale all’autore) econsiste nel lento uscire di René dalla penombradella semicoscienza, nell’immaginare il propriofunerale sentendo le campane di una chiesa vici-no, nel tornare alle immagini dell’infanzia e nelsuo fare un bilancio impietoso della propria vita(delle tre donne per lui fondamentali, della carrie-ra, che ha sempre anteposto a tutto); e anche nel-l’esperienza dell’ospedale stesso, accudito dalleinfermiere Blanche e Josefa (una per il giorno el’altra per la notte, che risvegliano il suo immagi-nario erotico), mentre intraprende una faticosaterapia e controlli a volte invasivi (la scrittura delromanzo costò molto impegno e fatica a

Un memento mori tra i gialli di Simenon

Le campane di Bicêtre. René Maugras e la sua claustrofobica fuga dall’ipocrisia sociale verso la Verità. Conflitti morali che non toccano l’Italia

Filippo La Porta, Il Riformista, 26 luglio 2009

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Simenon, che andò varie volte a visitare l’ospeda-le di Bicêtre). E soprattutto in questo autoesameaspira a «una sincerità totale», ci si propone – almodo stesso del suo autore – come un «uomonudo».

Al suo capezzale sfilano gli amici e i colleghi.Prima il professore, il luminare della medicinaBesson, che nelle cene è un parigino disincantato,un inesauribile conversatore e raffinato buongu-staio, e ora mentre gli illustra la diagnosi sembrarivelarglisi: «Un famoso barone pieno di meda-glie» che è solo «un personaggio grottesco». PoiColére, il caporedattore, suo coetaneo, la personache lo conosce meglio: eppure in quel momentoscopre che non è il pacioccone un po’ trasandatoche pensava e anzi «sotto un’apparente sottomis-sione nasconde la sua invidia e il suo odio». Poila moglie Lina, clinicamente depressa e con l’ali-to che sa di whisky. E tanti altri, ritratti con laprecisione e la crudeltà di un entomologo, con ilpessimismo di chi forse non crede in Dio, macerto crede nel peccato originale, e cioè nell’incli-nazione umana a deviare, a fare il male, per pro-prio tornaconto o gratuitamente. Simenon è unnipotino di Dostoevskij, anche se è assai più scet-tico sulla redenzione, come si vede dalPrimogenito dei Ferchaux (pubblicato nel1943), dove il giovane e intraprendente segretariodel ricco commerciante lo uccide senza pentirsiaffatto!

Forse le pagine più straordinarie e toccanti delromanzo sono quelle dedicate a Jupin, un ragaz-zo alto e scheletrico, dal pallore terreo, che erastato poeta dadaista e surrealista e si era unito alloro gruppo di amici. Tutti pensano che sia unartista bohémien e disordinato ma quando siammala di tumore scoprono che è sposato davent’anni con una donna molto comune, che loama e che ogni mattina va a fare la spesa nel quar-tiere. Attraverso i due coniugi, e attraverso l’altropersonaggio del padre di Maugras, umile impie-gato al porto, che non invidiava nessuno e nonaspirava a salire nella scala sociale, Simenonesprime la sua nostalgia straziante per la sempli-cità dimessa, per la normalità piccolo-borghese,incolore e al tempo stesso solidissima e misterio-samente vicina all’utopia. Maugras sente di averla parte sinistra del corpo paralizzata. Eppure

non ci tiene a guarire, ne ha paura. Così come haavuto paura nelle uniche due volte in cui si è sen-tito «in perfetta armonia con la natura»: sulle rivedella Loira, in un dolcissimo scenario, accanto aun uomo che pescava con la lenza, e poi in unMediterraneo «limpido e luminoso, da cartoli-na». Forse non si sentiva adeguato a quella armo-nia. Mentre ora ha paura di tornare in una vitafatta di autoinganno e di irrealtà.

Verso la fine i suoi amici riuniti di nuovo alristorante Grand Vefour, per spronarlo a guarirein fretta, gli mandano il menu raffinatissimo delpranzo su carta pregiata. Lui se ne vergogna,dentro quell’ospedale, dove ha fraternizzato conmalati e vecchi e gente anonima, e lo strappa inmille pezzi. René ora si appresta, dopo un mese,a lasciare l’ospedale. Tornerà a vivere come tuttigli altri? Nella stanza d’ospedale, in quel periodoche resta il più importante della sua vita, si èposto delle domande fino ad allora censurate. Aun certo punto dice a sé stesso: «Farà comeprima, vivrà in modo frenetico per non pensar-ci». Ma noi sappiamo che non è più possibile. Ecosì René, costretto all’immobilità e all’impoten-za, riscopre un sentimento di amore verso lamoglie alcolizzata, si riconosce nella sofferenza dilei: non ci si può votare al bene dell’intera uma-nità però si può “amare un solo essere e renderlofelice”. E poi: in quelle riunioni conviviali alGrand Vefour “non si affrontano mai i problemiveri” e gli amici/colleghi non fanno altro chespiarsi reciprocamente dietro le maschere del-l’ipocrisia. I problemi veri infatti affiorano esatta-mente dove finiscono il ruolo sociale, il decisioni-smo degli uomini di potere – convinti dicontrollare la realtà –, i riti sempre uguali dellarazza padrona.

Il protagonista a un certo punto, osservando i“vecchietti” ricoverati – poveri barboni che vivo-no per la strada, ricoperti di piaghe – “non sisente la coscienza a posto, gli viene da chiedereperdono a qualcuno”. Ora, sarebbe abusivosovrapporre a René la figura di qualche autorevo-le direttore di quotidiano o uomo di poteredell’Italia attuale, però questo romanzo dà voce aun tormento, a un conflitto morale, che proprionon appartengono alla nostra cultura e meno chemai alla nostra classe dirigente.

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Joseph Roth: un bevitore poco santo

È stato il cantore del crollo degli imperi centrali e ha previsto, ubriacandosi nei bar di Parigi, l’orrore del nazismo. Ora la capitale francese dedica una mostra ai suoi ultimi anni,mentre in Italia esce Al bistrot dopo mezzanotte

Stenio Solinas, il Giornale, 26 luglio 2009

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N el manifesto che al Museo d’arte e storiadell’Ebraismo tiene a battesimo la mostra«Joseph Roth. L’exile à Paris 1933-1939»

(fino al 4 ottobre), lo scrittore è ritratto seduto altavolino di un bistrot, una sigaretta fra le ditagrassocce, due calici colmi di vino rosso sul tavo-lo. La foto è dei primi anni Trenta, quando Rothne aveva meno di quaranta (era nato nel 1894),ed è l’immagine di un vecchio, il volto gonfio, ipochi capelli spettinati, l’eleganza frusta di chiconosce il decoro, ma fatica a non lasciarsi anda-re. Era già alcolizzato Roth, uno scrittore alcoliz-zato fuggito dalla Germania e approdato nellacapitale francese come un naufrago alla terraferma. Eppure, se si va ben a vedere, si era trat-tato di un naufragio particolare, nel senso cheRoth si era buttato in mare molto prima che labarca andasse a fondo, come se lo sapesse e/o lodesiderasse. Aveva cominciato a nuotare all’iniziodegli anni Venti, quando l’impero asburgico nonesisteva più e la Germania era una repubblicasenza repubblicani, in attesa di qualcuno cheavesse l’ardire di rovesciare il tavolo delle istitu-zioni e prendere il potere. Ventenne allo scoppiodella Prima guerra mondiale, apparteneva a unagenerazione che aveva vissuto «il terremoto dopoaver fatto affidamento, fin dalla nascita, sullaassoluta stabilità della terra. Abbiamo saputotutto prima ancora di sperimentare alcunché.Eravamo preparati alla vita, e già ci ha salutato lamorte».

«Monarchico austriaco», «conservatore», siera ritrovato di colpo doppiamente esule: da unapatria che non esisteva più e in una nuova cherazzialmente lo condannava alla dannazione, luiche ebreo impara a esserlo quando esserlo diveni-va vietato. Così aveva deciso per Parigi, ovveroper la Francia, illudendosi di fare una scelta piùche fuggire una minaccia. Si era definito «un fran-cese d’Oriente». «Chi non è stato a Parigi è soloun mezzo uomo» aveva rincarato. Man mano cheil nazismo diveniva un tutt’uno con la Germaniae inghiottiva dolcemente l’Austria, la vita del«francese» Roth si fece sempre più accidentata.Corrispondente della Frankfurter Zeitung e poisua firma di punta, negli anni Venti Roth era statouno dei giornalisti più famosi e meglio pagatidella Germania. Amava vivere bene, non si era

mai posto il problema di dover risparmiare: Pa-rigi si era rivelata perfetta per ambedue le cose.Adesso però chiudevano i giornali per i quali scri-veva, i suoi editori tedeschi passavano la mano, ilsuo stesso nome finiva all’indice, le collaborazio-ni si riducevano alle riviste dell’esilio, ai quotidia-ni degli esuli… Da La cripta dei cappuccini a Lamilleduesima notte, da Tarabas a La leggendadel santo bevitore, Roth scrive in quegli annimolte delle sue cose più belle, ma non è uno scrit-tore francese, non si è mai considerato tale, e laGermania hitleriana non lo considerò più unoscrittore tedesco. Pubblica presso editori in esilioin Olanda, guadagna poco, vive con ancor meno.Chi all’epoca lo intervista, ne traccia l’immaginedi un ufficiale a riposo, ancora dritto nella postu-ra, l’abito che sembra una divisa, ora silenziosoora torrenziale, perso dietro ai sogni malinconicidi un impero scomparso e tuttavia lucidissimo nelsuo pessimismo di fronte al nuovo che avanza.Scriverà nel 1933 all’amico Stefen Zweig: «Nonscommetterei un soldo sulle nostre vite. La barba-rie è arrivata al potere. Non fatevi illusioni: l’in-ferno regna». E ancora, in un articolo: «Molti franoi hanno servito in guerra, molti sono caduti.Abbiamo scritto per la Germania, siamo mortiper la Germania. Abbiamo dato il nostro sangueper la Germania; doppiamente: il sangue che fa lanostra vita fisica e quello con il quale scriviamo.Abbiamo cantato la Germania, la vera! È perquesto che oggi siamo messi al rogo dallaGermania!».

I suoi ultimi anni sono quelli che in un artico-lo del 1938 definirà come il tempo di Al bistrotdopo mezzanotte. Ha difficoltà a camminare, glibasta un pernod per sprofondare nella torpidaubriachezza di chi sa di non avere un futuro, mateme anche che il tempo gli giochi lo scherzo ditenerlo ancora in vita quel tanto che basta perpentirsene. Se ne sta seduto al Café Tournon,davanti al Palais du Luxembourg e a due passidall’Hôtel de la Poste che ha eretto a propriodomicilio. I suoi amici sono il postino, l’autista dipiazza, il poliziotto, la gente di teatro, un’umani-tà minuta che ancora gode di quello che semprepiù gli sembra l’essenza della condizione umana:la libertà individuale, il non dover esibire passa-porti e permessi, il non essere giudicati in base al

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colore della pelle, al tipo di religione… Fa intempo a morire un anno prima che la Germaniadi Hitler entri a Parigi, la catastrofe tanto temutae prevista dalla quale morendo riesce a sottrarsi.Gli amici vorrebbero seppellirlo al cimitero diMontmartre, lì dove c’è la tomba di HeinrichHeine, la memoria di un’altra Germania. Manemmeno loro hanno soldi e si devono acconten-tare del più modesto camposanto di Thiais, asud-est di Parigi.

Al bistrot dopo mezzanotte è anche il titolodel libro che raccoglie adesso gli articoli che Rothscrisse in terra di Francia (Adelphi, pagg. 301,euro 19). È una raccolta ineguale, pezzi d’occa-sione, pezzi alimentari e prose d’arte, recensionie reportage. C’è una bellissima stroncatura delBernanos antisemita di La grande paura deibenpensanti, così come del Paul Morand cosmo-polita e un po’ superficiale di Buddha vivente,stroncature nate dal fatto che, più lucidamentedei suoi confratelli francesi, Roth si rendevaconto di come lo spirito anti-borghese, la criticaalla democrazia , il richiamo alla sanità della razza

da semplici parole si sarebbero trasformate inproiettili e poi in plotoni d’esecuzione... C’è lapiccola-grande apologia di Alphonse Daudet, ilcreatore di Tartarino, ovvero l’ironia al posto delsarcasmo, la risata al posto dell’insulto. Ci sono ipellegrinaggi sui «campi di carne» della Grandeguerra, lì dove «tra quarantamila morti ignoti sidiventa pacifisti» e il vagabondare fra le reti neredi cozze gocciolanti nel porto di Marsiglia, il belmondo della costa Azzurra carico di vecchiesignore cariche di gioielli, la bella stagione aDeauville dove i ricchi dilapidano fortune aitavoli da gioco del Casino, ma non fanno maimancare la mancia a garçons e chauffeurs…

Non tutto, lo abbiamo detto, è di prima scel-ta, non tutto è felice, ma si capisce come in que-gli anni Roth faccia un pieno di vita, assaporitutto ciò che in patria non può più fare, edifichi,mattone dopo mattone, un monumento allamodesta dignità dell’individuo, quella che nonchiede altro che d’essere lasciato in pace, intentoa ritagliarsi un impercettibile spazio di felicità apetto di una vita che non fa mai credito.

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P rovate a entrare in una biblioteca pubblicaitaliana, ad esempio la Sormani di Milano; siha la sensazione che il bibliotecario consideri

il lettore un nemico, un antipatico flâneur, un fan-nullone. Si rimane sconcertati dai tempi di attesaper avere un libro in consultazione e spesso le salesono troppo rumorose per dedicarsi alla lettura. Esorprende ancora di più non trovare opere di auto-ri viventi, ma già classici, come Alberto Arbasino.

Nelle biblioteche italiane l’orario è assurdo:quasi impossibile per chi lavora durante il giornotrovarle aperte di sera (come succede in tuttaEuropa, dove sono accessibili fino a mezzanotte eanche di domenica). Aggiungiamo che il prestitoè scoraggiato. Per lo studioso, l’unica chance diavere un libro in consultazione in tempi ragione-voli è affidata alla conoscenza personale delbibliotecario.

Spesso le biblioteche civiche di provincia, checontengono fondi appartenuti a studiosi insigni oconservano biblioteche di famiglie aristocratiche,sono “dirette” da segretari comunali (non esper-ti bibliotecari dal curriculum comme il faut), chetrasformano la biblioteca in stanze di ricevimen-to per amici.

Negli ultimi 25 anni, molte biblioteche pub-bliche si sono “modernizzate” cercando di at-tirare nuovi utenti, adottando degli spazi piùsimili a quelli di librerie o di negozi. In qualchecomune si pensa anche di realizzare una piscinaper l’estate, assumendo dei bagnini per la distri-buzione di libri. Il miraggio è quello di alcunebiblioteche americane o europee, come laOpenbare Bibliotheek di Amsterdam, dove il set-tore tecnologico è al top, dove l’accesso a internetè libero e i lettori possono bere e mangiare, pas-seggiando tra comodi scaffali aperti nelle sale.

In Italia, l’esistenza di biblioteche di con-servazione rende difficile l’idea di una bibliotecapiù à la page. Alcune hanno però saputo trasfor-marsi, diventando un luogo gradito allo studioso:a Pistoia si trova una delle biblioteche più moder-ne e frequentate della Toscana; in Emilia Roma-gna primeggiano la Panizzi di Reggio Emilia, laDelfini di Modena e soprattutto la Ariostea diFerrara, luogo di forti emozioni per la storia chevi hanno illustrato personaggi come Ariosto eParacelso. Accanto alle sale severe, in un anditobuio si scopre l’altare profano dedicato al culto diVincenzo Monti (è conservato il suo cuore inun’ampolla), ci sono giardini interni dove gli stu-denti possono mangiare e bere conversando congli studiosi che cercano un momento di treguadalle sudate carte.

Lo studioso avvezzo a peregrinazioni e ricer-che conosce altri spazi di eccellenza. A Milano sitrovano vere isole di cultura, come la Braidense ola Trivulziana. Quest’anno ricorre il quarto cen-tenario dell’apertura al pubblico (1609) dellaBiblioteca Ambrosiana. Il responsabile, Monsi-gnor Buzzi, annuncia che per festeggiare la ricor-renza dal 10 settembre e per sei anni consecutivisarà esposto il Codice Atlantico di Leonardo. Nel1816, Lord Byron andò in estasi per la collezionedi manoscritti della Biblioteca Ambrosiana crea-ta dal cardinale Federico Borromeo. Non solo:rubò anche una ciocca di capelli di LucreziaBorgia. Oggi, assicura Buzzi, un furto del generesarebbe impossibile. Quel che resta della cioccadi Lucrezia Borgia è ora visibile nelle sale dellaPinacoteca.

Il direttore della Biblioteca Nazionale diNapoli, Mauro Giancaspro, commenta scon-solato i magri o addirittura assenti fondi destinati

Povere biblioteche d’I-tagliaPenuria di soldi, personale ridotto e abulico, orari rigidi, lunghi tempi d’attesa. Viaggio nelle miserie del patrimonio librario italiano. Le eccezioni: Pistoia, Reggio Emilia, Napoli

Roberto Coaloa, Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2009

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al funzionamento delle biblioteche pubbliche ita-liane: «I tagli presenti nel Bilancio dello Stato sonoun errore: la biblioteca ha un ruolo sociale di rilie-vo, inoltre non è solo un luogo per raccogliereinformazioni, è anche un luogo di emozioni».

A Napoli, infatti, la Biblioteca Nazionale con-serva i capolavori dei Farnese, degli Aragonesi, deiBorbone (al direttore Giancaspro è capitata lasorte d’avere come ufficio la stanza dove è natoVittorio Emanuele…). Lo studioso che si avventu-ri negli spazi della Nazionale (l’entrata è gratuita)può godere di un’ebbrezza anamnestica, in cuitempi e luoghi lontani irrompono nell’attimo enella contemplazione d’antiche pietre. Giancasproè orgoglioso della “sua” biblioteca: «Le porte dellaNazionale sono aperte a tutti, soprattutto ai napo-letani, che quando varcano per la prima volta lasoglia esprimono il loro stupore: “E chi andavaall’idea?” (chi poteva immaginarlo?)».

Il personale attuale della Biblioteca è di 280unità. Si deve occupare di 20mila metri quadrati,con due milioni di libri. L’eccellenza dellaNazionale, osserva Giancaspro, è frutto anche di«situazioni acrobatiche»: con grandi sacrifici eturni di lavoro, l’apertura della biblioteca ègarantita anche ad agosto dalle 8.30 alle 19.30.

A Torino, l’Accademia delle Scienze ricevedal ministero un contributo che è diminuito neglianni da 92mila (2002) a 69.320 euro (2008). Nella

capitale sabauda, la Biblioteca NazionaleUniversitaria vive una situazione drammatica: imagri fondi del ministero per i Beni e le Attivitàculturali non permettono più di aggiornare lacospicua e originale raccolta sul diritto, l’arte e ilcinema. Le materie scientifiche sono le più pena-lizzate. Nel 2005 i fondi ministeriali per l’acqui-sto di libri erano stati di 390mila euro, scesi nel2008 a 216mila euro. Nel 2009, il fondo annun-ciato è di 159mila euro. Negli anni Novanta nellabiblioteca lavoravano 140 persone. Adesso sonorimasti in ottanta. L’ultimo concorso da bibliote-cario risale al 1999 e ha fatto arrivare un solonuovo addetto.

Questo il quadro. I tagli del ministero per iBeni e le Attività culturali pesano su molte dellebiblioteche più importanti del Paese. E penaliz-zano il ricercatore, costretto a costruirsi un pro-prio fondo a casa (il filosofo, ad esempio, puòtrovare prime edizioni di Hobbes ma non studirecenti sul pensatore inglese). Per questo motivol’abitazione di uno studioso italiano diventa unmagazzino ingombro di libri che invadono spes-so anche la cucina e il bagno. Come ha osservatoin varie occasioni Tullio De Mauro, un professo-re americano o francese ha pochi libri in casa, perla semplice ragione che, a differenza dei colleghiitaliani, può contare su ottime biblioteche nellacittà in cui vive.

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La Openbare Bibliotheek di Amsterdam

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A ppena possono abbandonano penne equaderni a favore di notebook e diari elet-tronici. Ragazzi-stampatello che del corsi-

vo si sbarazzano presto, nei temi prediligonopensieri brevi e ridotti all’osso, il 50 per cento diquesti tra i 14 e i 19 anni possiede una pessimagrafia, un’ortografia discutibile, un italiano sem-pre più povero, a favore però di un apparato dinozioni “trasversali” impensabili ai loro coetaneidi qualche anno e generazione fa. Una rivoluzio-ne del sapere e dell’apprendere che preoccupastudiosi e insegnanti di buona parte del mondooccidentale: i giovani nati a metà degli anniOttanta, e tutti i loro fratelli minori, usano infat-ti la penna sempre più a fatica, stanno smettendodi scrivere a mano, e soprattutto hanno gettatoalle ortiche l’uso del corsivo. Quel modo di scri-vere, cioè, dove le lettere sono unite dal trattol’una all’altra e il pensiero, dicono gli esperti,«riesce a fluire con armonia dalla mente alfoglio».

Una tecnica ormai tanto negletta che il setti-manale Time ha deciso di dedicare al tema unaccorato reportage, proprio sulla fine della scrit-tura a mano, con un il titolo che parla di “luttoper la morte del corsivo”, citando quella genera-zione Y per la quale un componimento «è uninsieme di sms cuciti tra di loro…». Nostalgia diadulti diffidenti di fronte al nuovo o vera emer-genza culturale? I governi di molti paesi europeisembrano orientati alla seconda ipotesi. InInghilterra due anni fa diverse scuole hanno rein-tegrato l’uso della penna stilografica, per co-stringere gli studenti a re-imparare la bella grafia,mentre in Francia gli istituti superiori sono tor-nati al dettato, visto che anno dopo anno gli stu-denti avevano deciso arbitrariamente di decapita-re dei loro accenti migliaia di parole. In Italia lecose non vanno meglio, i bambini già a metà dellascuola elementare iniziano a scrivere con il com-puter, se utilizzano la penna è per comporre

parole in stampatello, ma gli effetti sui loro mec-canismi di apprendimento, dice Federico Bianchidi Castelbianco, psicoterapeuta dell’età evoluti-va, «sono disastrosi». «È incredibile quanto l’usodel corsivo al posto dello stampatello, e ancor piùdel computer, possa influenzare la mente di unbimbo. È vero, il mondo adulto non è ancorapronto a recepire le nuove intelligenze di questiragazzini cresciuti con la tecnologia. Ma la perdi-ta del corsivo è alla base di molti disturbi dell’ap-prendimento segnalati dagli insegnanti elemen-tari e che rendono difficile tutto il percorsoscolastico». «Scrivere in corsivo» chiarisceBianchi di Castelbianco «vuol dire tradurre ilpensiero in parole, in unità semantiche, scriverein stampatello vuol dire invece sezionarlo in let-tere, spezzettarlo, negare il tempo e il respirodella frase». Perché la preparazione all’apprendi-mento è fatta sulla scrittura, «e il corsivo cosìcome lega le lettere lega i pensieri, ma troppospesso insegnanti e professori si accontentano ditemi scritti in stampatello, e non hanno più nétempo né pazienza di insegnare la bella grafia».

Un esercizio dunque non fine a sé stesso, macarico di significati. È quanto ritiene MonicaDengo che proprio del corsivo e della calligrafiaha fatto una specializzazione. E in un libro daltitolo Penne in pugno, appena tradotto anche inFrancia e edito dalla cooperativa GianninoStoppani (un vero manuale di calligrafia perbambini), Dengo mostra quanto la “bella scrittu-ra” sia una forma d’arte «dove le linee hannoritmo e musicalità». «Mi capita sempre più spes-so di far “ritrovare” il corsivo agli adulti e didoverlo insegnare dall’inizio ai più piccoli. Ormaiin molti paesi, la Francia ad esempio, si è capitoche non si può prescindere da questa tecnica, mail problema è anche che i maestri non la conosco-no più. Il vero corsivo, ad esempio, consiste nel-lo scrivere una parola con un’unica linea, ma inpochi ormai sanno come si fa. Ai bambini va

ADDIO ALLA SCRITTURAPerché i ragazzi non sanno più scrivereMaria Novella De Luca, la Repubblica, 28 luglio 2009

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insegnato alle elementari, altrimenti diventa trop-po tardi…».

I sistemi devono convivere infatti ma la calli-grafia è un linguaggio dell’anima, diversifica,rende unici. Ed è invece proprio di questo che igiovani sembrano avere paura. «Preferendonascondersi dietro l’omologazione dello stampa-tello». È la tesi dell’insegnante e pedagogista cli-nica Giuliana Ammannati, che per dieci anni haanalizzato la scrittura dei suoi allievi adolescentifra i 14 e i 19 anni, e ha raccolto i dati in una ri-cerca presentata tre anni fa, che cerca di scavaredentro la motivazioni psicologiche che hannoportato all’abbandono del corsivo. Perché oltre asegnalare che quasi il 50 per cento dei teenagernon sa più utilizzarlo, Ammannati ha spiegato diaver incontrato «grandissime resistenze a faruscire i ragazzi dal loro reiterato uso dello stam-patello». «Spesso» aveva affermato GiulianaAmmannati «dopo aver scritto in corsivo non rie-scono a rileggere le proprie parole. Così per evi-tare la confusione utilizzano lo stampatello…».

I guasti però si vedono dopo. Non soltanto alliceo ma all’università, come sottolinea FrancoFrabboni, ordinario di Pedagogia all’ateneo diBologna, e presidente della Società italiana discrittura. «La grafia, il corsivo sono veicoli e fontidi emozioni. Tradiscono la personalità, lo statod’animo… L’abbandono della scrittura a manoporta a una scarnificazione del messaggio, lovedo spesso nelle tesi dei miei studenti, povere,troppo brevi, dove la sintesi non è un pregio mauna incapacità di sviluppare il pensiero. Quasisempre nelle mie lezioni faccio fare esercizi discrittura, invito gli studenti a scrivere di sé, araccontarsi, a confrontarsi con la propria biogra-fia. E noto difficoltà crescenti». «Tornare all’in-segnamento della calligrafia è una battaglia fon-

damentale, ormai condivisa dagli studiosi di tuttoil mondo. Anche perché» aggiunge FrancoFrabboni «l’altra faccia di questa metamorfosi èla perdita della lettura. Sono due vasi comunican-ti. Se non si impara il corsivo, i suoi tempi, le suamusicalità, come si farà a concentrarsi sulle paro-le di un libro? È chiaro che il computer è oggiuna nostra appendice, un pezzo del nostro pen-siero. Ma è un pensiero binario mentre la scrittu-ra a mano è ricca, diversa, individuale, ci rendeuno differente dall’altro. Bisognerebbe educare ibambini fin dall’infanzia ad annotare i propripensieri, a capire che la scrittura è una voce didentro, un esercizio irrinunciabile».

Eppure i ragazzi della generazione stampatel-lo scrivono e scrivono, mai tante parole sono cir-colate tra gli adolescenti dell’era digitale, attra-verso sms, mms, mail, blog, Facebook,intrecciando vite, storie d’amore, felicità, delusio-ni, tristezze. In stampatello okay, piene di acro-nimi e di sigle, spaventosamente abbreviate…Parole, però. «A volte credo che gli adulti cerchi-no di nascondere la paura di non essere all’altez-za dei loro figli attraverso battaglie di retroguar-dia» dice con pacatezza Irene Bagnati, cheinsegna lettere alle scuole medie «e anche questolamento sul “corsivo perduto” in qualche modomi fa sorridere. Esiste certo un problema legatoalla scrittura, e soprattutto all’ortografia. Ma hoallievi brillantissimi che hanno una pessima grafiae non per questo il loro percorso scolastico nerisente. Utilizzano il corsivo per prendere appun-ti, su fogli che poi soltanto loro sanno rileggere.Ma sanno studiare, questo è ciò che conta. Ciòche a me interessa è che apprendano, e che scri-vano in un buon italiano. Se poi al posto dellapenna utilizzano la tastiera pazienza, questo è illoro tempo…».

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Strout: la vera America e il mio orgoglio bianco

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«Sono figlia del Maine povero e puritano, come Stephen King»Alessandra Farkas, Corriere della Sera, 29 luglio 2009

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È emigrata a New York dal Maine negli anniOttanta, perché, spiega, «mi piaceva l’ano-nimato che solo New York ti concede».

Vent’anni più tardi, Elizabeth Strout si scopre,suo malgrado, una celebrità grazie al Pulitzer. Lagiuria che dal 1901 ogni anno, assegna il ricono-scimento, uno dei più ambiti per la letteraturamondiale, ha premiato la 53enne scrittrice e do-cente universitaria per il suo terzo libro, OliveKitteridge (Fazi editore).

Si tratta di un romanzo patchwork di trediciepisodi, sconnessi ma tutti collegati fra loro, nelquale la protagonista Olive è al centro di una se-rie di vicende sullo sfondo di Crosby, cittadinasulla costa atlantica del Maine, nel cuore del-l’America Wasp (bianca, anglosassone e prote-stante). Testimone non indulgente, ma sempreempatica, è lei che regge i fili delle vite dei suoiconcittadini, specchio di un mondo di ben piùampio respiro.

«La letteratura è un luogo», spiega l’autricedal salotto del suo appartamento al 26° piano diun grattacielo dell’Upper East Side, pieno di lucee rose colorate come un grande giardino di cam-pagna. «Guerra e Pace», aggiunge, «non avrebbepotuto essere scritto in nessun altro posto almondo se non in Russia». Così come la protago-nista, il romanzo è figlio del Maine, al pari del-l’autrice: «Sono nata in Maine da una famigliaemigrata in America dalla Scozia nel 1603. Le no-stre radici non potrebbero essere più profonde.Nelle zone rurali l’identità è intrinsecamente con-naturata alla terra».

Qualcuno ha parlato di ritorno del premio Pu-litzer alla letteratura Wasp, dopo anni di predo-minio dei cosiddetti «autori etnici». «Dev’esserevero», nota la Strout, «visto che già nel 2005 Ma-rilynne Robinson vinse per Gilead, la storia di unpastore protestante in Iowa. Pero è bene dire chevi sono moltissime gradazioni di Wasp ed è unerrore generalizzare, pensando che il termine siasinonimo solo di ricchezza e privilegio».

Certo, l’insegnante di mezza età eroina del suolibro, Olive, e al cento per cento americana. «Ècome una conchiglia attaccata a uno scoglio. Se lasi portasse fuori del suo ambiente, soffrirebbe damorire. I francesi probabilmente la mande-rebbero in tilt, mentre l’Italia, terra sensuale e

carnascialesca, la spaventerebbe a morte, maforse la incuriosirebbe più dell’Inghilterra».

In un certo senso Olive è il suo alter ego: «An-che se sono tecnicamente una Wasp, non sonocerto nata ricca. Il Maine è uno Stato in partemolto povero. Ciò spiega il suo lato oscuro e na-scosto, che Stephen King, un vero figlio del Mai-ne, è riuscito a incarnare più di tutti». Non par-latele invece del clan Bush: «Il fatto di avere unaresidenza estiva», osserva, «non li rende partedella cultura o della tradizione locale. Sono visticon sospetto, quasi come intrusi, anche dai re-pubblicani». Il suo Maine, come quello di King,è lontano anni luce da Kennebunkport: «Il no-stro background è una filosofia frugale e schiva,fatta di duro lavoro e puritanesimo, dove non esi-ste il culto del denaro».

«Nei miei libri esploro l’attaccamento atavicodella mia gente – yeoman, cioè gli yankees delNew England – alla terra dove arrivarono perprimi. L’orgoglio americano da queste parti è for-tissimo anche per chi, come mia madre, è stato infila per ore ai seggi per votare Obama». È la stes-sa fierezza che si respira in certi libri di JohnCheever e John Updike, di cui la Strout si consi-dera l’erede spirituale: «Sento una grande affini-tà soprattutto con Cheever. Abbiamo un’estra-zione culturale molto simile, salvo che lui si davaun sacco d’arie e aveva problemi con l’alcol, men-tre la mia è una famiglia di astemi».

La madre, che oggi ha 81 anni, è stata la suamusa: «Quando verso i quattro anni cominciai ascrivere, mamma, che avrebbe voluto essere unascrittrice ma era un’insegnante di inglese, micomprò un quadernino e mi disse di annotarvi imiei pensieri, cosa che facevo puntualmente ognigiorno. Da allora non ho più smesso».

Più tardi, fu sempre lei a insegnarle la regolad’oro di ogni scrittore. «Quando lessi Piume dipiccione di Updike rimasi colpita dal tono moltocritico nei confronti di sua madre. “La mamma diUpdike si sentirà in imbarazzo a leggere questecose”, dissi a mia madre, che senza batter ciglio mirispose: “No! Lei sa benissimo che suo figlio è unoscrittore e certe cose non le può evitare”. Mi spie-gò che la paura di esporsi impedisce alle personedi lasciarsi andare, anche nella fiction. Quelleparole m’insegnarono una lezione preziosissima».

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La sua passione per Philip Roth nasce propriodall’onestà senza pudori dell’autore di Pastoraleamericana. «Le sue opere sono così ricche di for-za e di energia, il frutto di un’esperienza di mino-ranza ebraica americana che imprime velocità econsistenza ai suoi personaggi. I miei invece ris-pecchiano le caratteristiche del New England pu-ritano e tendono ad essere più introversi. Nonprovano la stessa gioia nel condividere cibo, hu-mour e sventure».

Ma sugli scaffali della sua libreria Roth fa a garacon Alice Munro, William Trevor, Virginia Woolfe D.H. Lawrence. «Gli scrittori russi e in partico-lare Tolstoj occupano un posto speciale nel miocuore. Mi interessa anche come si è evoluta la vocedegli americani: Theodore Dreiser e SherwoodAnderson che hanno introdotto lo stile giornalisti-co e aperto la strada ad Ernest Hemingway.Ammiro anche John Steinbeck, F.S. Fitzgerald e,tra i più recenti, Raymond Carver, NormanMailer, Joan Didion e Joyce Carol Oates».

Tra i contemporanei ama Oscar Hijuelos, Ju-not Diaz, Michael Chabon («soprattutto Lefantastiche avventure di Kavalier e Clay»),Andre Dubus III e Joshua Ferris, pur confessan-do una passione smodata per la poesia.

«Penso che il verso di una poesia abbia ilpotere di salvare una vita. Abbiamo bisogno dipoesia che dia dignità ai nostri sentimenti piùprofondi ed è fantastico che poeti come BillyCollins siano letti anche da chi non è appas-sionato di poesia».

Oltre a comporre versi da quand’era bambina,la Strout scrive ancora a mano. «Se passassi alcomputer mi mancherebbe questa fisicità: il pc va

troppo veloce e a me piace il caos creativo». Perquesto ha deciso di laurearsi in legge comeTurow, Dershowitz, Wolfe, che però giudica«molto più commerciali» di lei. «Come scrittricetendo a essere irrazionale ed emotiva, quindi mi èservito esercitarmi a pensare in modo più logico:già all’università notai che persone assolutamenteintelligenti ragionavano sulla base delle emozio-ni, e per questo erano irrazionali e impulsive.Non volevo fare la stessa fine».

Ma invece di fare l’avvocato, ha cominciato aspedire i suoi racconti al New Yorker, che, a sor-presa, li ha pubblicati. «È ancora un’ottima pale-stra, che continua a lanciare talenti nuovi, comedel resto altre riviste letterarie quali Plou-ghshares, Granta, The Paris Review, KenyonReview». Ma anche il settimanale diretto daDavid Renmick non è privo di nei. «Qualcheanno fa Francine Prose ha scritto un pezzo suHarper’s dove sosteneva che su circa 52 storiedel New Yorker, quelle scritte da donne eranopochissime. La riprova che le pari opportunitàtra scrittori maschi e femmine, soprattutto nelgenere fiction, non esiste».

Nonostante il divario, lei ce l’ha fatta e il suoprossimo romanzo – la storia di tre fratelli tra ilMaine e New York – è già uno dei libri più atte-si. Il suo unico rimpianto è la notorietà. «Essereuno scrittore implica una ricerca solitaria emeditativa. Richiede un voto di solitudine emolta concentrazione, quasi uno stato di trance.Al contrario, tutti gli autori escono allo scoper-to e si presentano al pubblico, si esibisconocome istrioni. Io vorrei continuare a essere unascrittrice».

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«Nei miei libri esploro l’attaccamento atavico della mia gente –yeoman, cioè gli yankees del New England – alla terra dovearrivarono per primi. L’orgoglio americano da queste parti èfortissimo anche per chi, come mia madre, è stato in fila per

ore ai seggi per votare Obama»

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