Francesca e un soldo

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Achille Mascheroni FRANCESCA e UN SOLDO GALEATICA EDITRICE

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Breve biografia di Santa Francesca Cabrini

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Achille Mascheroni

FRANCESCA e UN SOLDO

GALEATICA EDITRICE

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BREVE STORIA DISANTA FRANCESCA CABRINI

Achille Mascheroni

FRANCESCA e UN SOLDO

GALEATICA EDITRICE

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PREFAZIONE

Forse solo il fatto che Madre Cabrini (così continuiamo tutti a chiamarla, an-che dopo che è stata proclamata Santa) non sia vissuta in un’epoca in cui i mass media potevano dare enfasi e registrare tutte le fasi del suo prodigioso operato, ha impedito che la sua immagine ci fosse familiare come quella di Madre Teresa di Calcutta. Non a caso quest’ultimo libro di Achille Mascheroni che parla di lei inizia proprio con una frase di Madre Teresa: “Io vorrei fare per l’India ciò che Madre Cabrini ha fatto per l’America”. Una biografia (“breve storia”, definisce questa della Cabrini, il Mascheroni) riesce sempre in qualche modo a parlare di due persone: una è quella cui appartiene la vita che si vuole narrare, l’altra è quella del narratore; e in questo caso si deve dire che queste due personalità si integrano perfettamente. Achille Mascheroni è stato definito “Cabrinologo “ per eccellenza, e infatti soltanto chi avesse perfettamente sotto mano tutte le notizie riguardanti la Santa, avrebbe potuto sintetizzarle in modo così esauriente e insieme piacevole. Ma c’è anche, in questo libricino, un grande equilibrio tra la realtà storica degli eventi e qualche piccolo tocco di ricostruzione fantastica che li rende accattivanti e vivi, c’è la ricostruzione fedele di un’epoca così critica per tanti italiani emigrati in America, c’è la descrizione dell’ambiente misero e degradato in cui si svolgeva la loro vita lontano da casa. La particolare sensibilità dell’autore sa scegliere gli eventi più significativi della vita della Cabrini, una vita indubbiamente unica, e li sa inserire nel contesto storico in cui quegli eventi si sono verificati. La figura di Madre Cabrini riesce così a rivelarsi umile e nello stesso tempo gigantesca, la sua voce è nello stesso tempo un sussurro e un comando che sa imporsi, le sue opere sono quelle di una semplice suora, ma hanno, nello stesso momento la risonanza mondiale e la pregnanza di quelle dei personaggi più in vista del ‘900. “Francesca e un soldo non sono niente, Francesca, un soldo e Dio sono tutto”, questa frase di Madre Cabrini, di cui la prima parte dà il titolo al picco-lo libro e la parte intera è stampata sul retro di copertina, vuole essere un po’ la sintesi di tutta la vita della Santa, una vita instancabile che l’ha portata su e giù per le Americhe, avanti e indietro sull’Oceano, in continuazione, per pren-dere nuove suore, per fondare nuovi orfanotrofi e nuovi ospedali, rispettata e onorata dai grandi della terra e dal Papa stesso, proprio così come sarebbe stata, decenni dopo, Madre Teresa. Gli emigranti italiani sono stati riscattati dalla sua infaticabile opera, i loro bambini sono stati puliti, nutriti, istruiti, curati, e tutti hanno riavuto una dignità e la possibilità di una vita diversa, grazie a questa

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piccola suora che era partita da Sant’Angelo portandosi dietro tutta l’intrapren-denza, il fiuto per gli affari, e la grande comunicativa tipici dei santangiolini. Ma pare ci sia anche una marcia in più nella sua storia e nella sua vita: si avver-te, scorrendo le pagine del libro, la discreta presenza di qualcosa di superiore, di una Provvidenza che Achille Mascheroni non enfatizza mai, e su cui mai si sofferma, che anzi tocca solo di sfuggita e come tra le righe, ma che si avverte in tutta la sua forza. E poi ci sono tanti piccoli episodi che costellano l’esistenza di questa suora, che Mascheroni narra con la consueta grazia e poesia. France-sca viene al mondo settimina, quasi avesse fretta di cominciare a darsi da fare, con una nascita annunciata al padre da un volo di colombe bianche; bambina gioca con piccole barche di carta piene di viole che affida alla corrente dei fossi, fingendo che siano navi piene di suore missionarie in viaggio verso la Cina. Sì perché la Cina era il sogno della sua vita, anche se poi ha dovuto “accontentarsi “ delle Americhe. La premonizione del suo futuro è dunque già presente nei primi anni della sua vita che si svolgerà poi in modo frenetico tra tanti episodi che spesso hanno il fascino dell’incredibile. La fine del libro ci lascia allibiti: Mascheroni elenca le opere che Madre Cabrini, morendo a Chicago all’età di 67 anni, lascia dietro di sé: 17 orfanotrofi, 57 Scuole materne, 23 Collegi, 54 Scuole Elementari, ...8 Ospedali, 7 Dispensari ...e via, e via. Questo piccolo libro riesce a farci pensare a tantissime cose: innanzitutto ha il pregio di tener viva la memoria di una figura che forse anni fa era più celebrata e conosciuta, anche perché esistevano ancora molti che le erano stati compagni di strada, e che oggi rischia invece di essere solo un nome disgiunto dalla realtà che l’ha reso grande, poi riesce a darci un concetto di santità dinamica, mo-derna, agganciata al “fare” più che al pregare, che è in asse proprio con i ritmi e le necessità del mondo di oggi; ma queste pagine ci fanno anche meditare sul problema dell’immigrazione che tanto ci tocca da vicino (stando noi, oggi, dall’altra parte) per come Madre Cabrini l’ha affrontato e risolto. Comunque la peculiarità di questo testo sta proprio nello stile di Mascheroni, fluido, sempli-ce, narrativo, ma ricco di spunti poetici, di piccole ricercatezze formali, buttate lì quasi in sordina, senza enfasi, uno stile scorrevole che rende estremamente piacevole la lettura delle sue pagine, e che riesce però a comunicare a chi legge l’entusiasmo per una suora come tante altre e diversissima da tutte le altre, una suora che è riuscita a convincere tante persone a cercare la felicità nel bene che potevano fare agli altri, nella meravigliosa bellezza del donare, per aiutarla a fare “con un soldo e Dio” cose che avevano tutta l’aria di essere impossibili.

Zaira Zuffetti

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Deo ducta impavida processit *

*Guidata da Dio avanzò coraggiosaBasilica S. Eugenio, Roma - motto nella cappella di S. Francesca Cabrini

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Teresa di Calcutta e Francesca di Sant’Angelo

“ Io vorrei fare per l’India ciò che Madre Cabrini ha fatto per l’America”. Questo dichiarava Madre Teresa di Calcutta all’inizio della sua missione. Un grande sogno. Forse una grande follia. Cosa aveva fatto per l’America Madre Cabri-ni, una donna italiana, una donna lombarda? Lei - nata in Italia, in un paese della Lombardia, del Lodigiano, chiamato Sant’Angelo, il 15 luglio 1850 - cosa aveva fatto per essere considerata addirittura la prima santa degli Stati Uniti? Cosa c’entra l’America, l’Occidente? Si, proprio l’Occidente, mentre il suo sogno, fin da bambina, era sempre stato l’Oriente, la Cina. Da bambina, infatti, giocava a fabbricare barchette di carta che riempiva di viole, affidan-dole poi alla corrente della roggia, dicendo che erano le navi con le suore di-rette in Cina a convertire gli infedeli… La Cina, l’Oriente… L’Oriente dove il Saverio - anche Francesco, come il suo nome al maschile - era diretto e vi era morto appena prima di entrarci, quell’Oriente a causa del quale Francesco Saverio era diventato il patrono delle missioni cattoliche. E lei, la Francesca Cabrini di Sant’Angelo Lodigiano (anzi: la piccola Cecchina Cabrini che la sera in casa ascoltava il padre Agostino, detto “il cristianone”, leggere i gior-nali di Propaganda Fide dove si parlava di missionari in Oriente, in Cina), lei, la Cecchina, si era infiammata del Cuore di Gesù ed aveva deciso che sarebbe diventata missionaria.

Cecchina, la matta

“Tu, così piccola e ignorante, osi pensare di diventare missionaria?, la rimprove-rava la sorella Rosa, di quindici anni più grande di lei, che se ne era presa cura, data la malferma salute della madre Stella, che - dopo la Cecchina - aveva dato alla luce l’undicesimo ed ultimo figliolo. Per la sua pietà religiosa, in paese venne denominata “ la santina”, ma in famiglia, per le sue avveniristi-che idee e i suoi desideri reputati strani ed assurdi, fu definita “Cecchina, la matta”. Quel 15 luglio del 1850, quando la Cecchina nacque verso il mezzogiorno, padron Agostino vide scendere sull’aia della sua casa uno stuolo di colombe bianche. Temeva venissero a beccare il grano del suo raccolto messo ad essic-care al sole. “Sciò, sciò”, voleva allontanarle… e non si era accorto che erano venute ad annunciargli la nascita della sua decima figliola, venuta alla luce pochi istanti più tardi, anche se prematuramente. Settimina, infatti, e così piccola e gracile da temere di perderla. Perciò la portò subito al fonte battesi-male. Maria Francesca fu il nome di quella figlia delle colombe in volo. Anche la sua vita sarebbe stata un volo. Non di colomba: di aquila reale. Maestra come la sorella Rosa, dopo due anni di insegnamento a Vidardo e sei

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di tirocinio nell’orfanotrofio della Provvidenza a Codogno - chiuso proprio perché provvedeva a ben poco - fu convocata da monsignor Gelmini, vescovo di Lodi: “ So che vuoi farti missionaria. Il tempo è maturo. Io non conosco alcun ordine di suore missionarie. Fondane uno tu!”.Gli rispose un sussurro: “Cercherò una casa”.La trovò proprio a Codogno. E, proprio come il suo protettore Francesco Saverio, volle chiamarsi anche lei Saverio. Al maschile.Così, il 14 novembre 1880, la piccola Cecchina di Sant’Angelo divenne la Madre Francesca Saverio Cabrini, fondatrice e prima superiora generale del-l’Istituto delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù. Un Ordine religioso per l’educazione della gioventù.Il carisma di Madre Cabrini era così straordinario che numerose furono le vo-cazioni e molte le richieste di fondazione. La prima fondazione fu a Grumello Cremonese, cui seguirono quelle di Casalpusterlengo, Borghetto Lodigiano, Milano. Intraprendente, intrepida, volitiva, energica, era riuscita ad ottenere due fondazioni nella città eterna: una in Sabina, l’altra in piena città, a Porta Pia. Così, “Cecchina, la matta” faceva il suo ingresso ufficiale a Roma da Por-ta Pia. Come i bersaglieri diciassette anni prima. Lei, la bersagliera di Cristo.

“E la Merica l’è lunga e l’è larga…”

Era, quello, il tragico tempo dalla emigrazione in massa. Milioni e milioni di Italiani, prima dal sud e poi dal nord, abbandonavano la patria per andare in America a… trovare la “Merica”. “E la Merica l’è lunga e l’è larga - circondata da monti e da piani - col lavoro dei nostri Italiani - abbiam fondato paesi e città”. Così si cantava allora in questa canzone dalla grammatica poco ortodossa. Ma non canto era, bensì pianto. Anzi, dolore. “Italiani, negri bianchi”, così erano definiti i nostri connazionali laggiù. “Siamo qui come bestie, si vive e si muore senza preti, senza maestri e senza medici”: questo leggeva l’onorevole Antibon alla Camera dei Deputati in una lettera pervenutagli da un giovane emigrato, all’epoca in cui era Primo Ministro Agostino De Pretis, “vinattier di Stradella” di carducciana memoria e primo cugino di Cecchina Cabrini.Tra il 1878 e il 1914 emigrarono circa quattordici milioni di Italiani, secondo le nostre statistiche, mentre i paesi che furono invasi dalle turbe dei nostri poveri parlavano invece di diciotto milioni. E l’intera popolazione italiana non superava allora i trenta milioni.Erano arrivati, i “nostri Italiani ”, nel sud e nel nord dell’America, disposti a tutto. Zappaterra, manovali, braccianti, sterratori: tutti quanti a farsi sfrut-tare laggiù, in “paesi e città”, nelle miniere, nelle ferrovie, nel dissodamento

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di pianure incolte, nei pozzi di petrolio, nelle officine dell’industria pesante, nella lavorazione delle carni insaccate e delle conserve, nella costruzione di porti e grattacieli, nelle piantagioni di cotone e di tabacco, nella coltivazione di grano e cereali.Materiale umano sfruttato senza pietà, mercanteggiato a migliaia di capi da procacciatori ingordi e senza scrupolo che ne ricavavano una vera fortuna.Vivevano per lo più negli umidi tuguri delle Little Italy, le “Piccole Italie” sorte un po’ dovunque. Disprezzati da tutti, aiutati da nessuno, sfruttati e maltrattati, uomini e donne vivevano passivamente la loro rabbia. I bambini altro non erano che bestioline selvagge, abbandonati per la strada, miseri, sporchi, tra le frequenti liti a coltello su quei marciapiedi dove povere ragazze vendevano l’amore. Italo Balbo scriveva che i nostri connazionali erano “l’Italia di nessuno… un popolo anonimo di schiavi bianchi… un materiale umano mercanteggiato a migliaia di capi”.Grande piaga nel cuore di papa Leone XIII la situazione degli emigranti ita-liani, ai quali nessuno aveva pensato, men che meno il Governo.Fu solamente un sensibile vescovo piacentino, monsignor Giovanni Battista Scalabrini, che si prese cura di tanti miseri connazionali ed aveva inviato laggiù alcuni sacerdoti. Troppo pochi e troppo soli, però. Occorreva affiancar loro un gruppo di suore per accudire ai piccoli figli degli emigrati italiani.Ma dove trovarle?Fu un giorno del 1887 che le trovò, facendo la conoscenza di Madre Fran-cesca Cabrini. Lei, era proprio lei quella che aveva invano cercato! Lei, una donna intraprendente e volitiva, carismatica, affascinante. E le prospettò il suo progetto circoscrivendole New York come campo di lavoro.“Eccellenza, New York è troppo piccola, il mondo intero è troppo piccolo per me. E poi… io ho sempre desiderato andare in Cina, in Oriente. Grazie, Eccellenza Reverendissima, ma per me l’Occidente no!”.Francesca, che al tempo della fondazione del suo Istituto missionario, a trent’anni sembrava una bambina vestita da suora, ora a trentasette anni so-gnava ancora la Cina, l’Oriente, come quando era bambina veramente e affi-dava alla roggia le sue barchette di carta colme di viole.Ma fu papa Leone XIII che la distolse dal suo sogno orientale. Ricevutala in udienza ai primi di marzo del 1889, la ascoltò benevolmente, poi - natural-mente interessato dal vescovo Scalabrini - diede una virata di bordo alle sue barchette di viole.“Non all’Oriente, ma all’Occidente”, le disse paternamente. Ed aggiunse: “Andate negli Stati Uniti, Cabrini. Quella è la vostra Cina: vi troverete un gran-de campo di lavoro”.

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Figlia di Abramo, Francesca obbedì. Sparita la Cina. Cancellati l’Oriente e i suoi sogni. L’America! Questa la sola realtà: l’America!E la Cabrini, un paio di settimane dopo, vi andò. Con sei suore par-tì dal porto francese di Le Havre, sventolando il fazzoletto a… nessuno. Il 31 marzo 1889 il piroscafo Bourgogne attraccò al molo North River, sotto una fitta pioggia. Con il sospirato “Admitted”, Francesca e le suore poterono finalmente sbarcare. Admitted! Admitted ai rifiuti derelitti di terre brulicanti, ai senzatetto sbattuti dalla tempesta, come recitava la lapide ai piedi della statua della Libertà, “davanti alla porta d’oro”.Avrebbe dovuto affiancare i padri Scalabriniani nella assistenza dei figli de-gli emigrati ed avrebbe diretto un orfanotrofio per povere bambine italiane. Di quell’orfanotrofio se ne era fatto carico la contessa Mary Reid, moglie del conte Palma di Cèsnola, direttore del Metropolitan Museum of Arts di New York.Con il permesso dell’arcivescovo, Monsignor Michele Agostino Corri-gan, aveva effettuato una raccolta fra le sue ricche conoscenze ed ave-va preso in affitto nella 59° strada una casa da adibire ad orfanotrofio. Ma, giunta finalmente a New York, seppe che non c’era nessuna casa pronta per lei e le suore. Dovettero adattarsi a passare la notte in una lurida locanda della Little Italy, sedute sulle sedie a causa di letti sudici, pieni di cimici con topi saettanti sul pavimento.Cos’era che non andava? Lo seppe subito. La 59° strada era situata in un quar-tiere troppo aristocratico per l’arcivescovo, che temeva le cattive impressioni dei ricchi abitanti alla vista di tante misere orfanelle, italiane per giunta. La contessa, invece, lo voleva proprio lì, per attirare le simpatie e le offerte della gente.Il dissidio si era acuito a tal punto che il prelato aveva deciso di soprassedere ed aveva inviato una lettera - mai arrivata - alla Cabrini perché sospendesse la partenza. Francesca, ignorante della lingua inglese, decise allora di affrontare subito l’arcivescovo, che fortunatamente l’italiano lo parlava.Monsignor Michele Agostino Corrigan, detto “Miky, the smile” (Michelino, il sorridente) per una malformazione alla bocca, non sorrise affatto alla Ca-brini, anzi, dopo poche gelide parole, la stava congedando:“Madre, la soluzione migliore è che se ne ritorni in Italia con le sue suore. Se si sbriga, nel porto c’è ancora il piroscafo con il quale è arrivata ieri”.Pallidissima, Francesca estrasse le lettere commendizie, gliele presentò ed ag-giunse con tutta la sua energia:“Questo poi no, Eccellenza! Sono venuta qui per ordine della Santa Sede e qui devo restare!”.Anche lui, l’arcivescovo di New York - come tutti gli altri prelati che France-

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sca incontrava sul suo cammino - comprese di trovarsi di fronte a una donna non comune e di un coraggio più che virile. Anche lui, a Madre Cabrini, non seppe dire di no.“Ebbene, si fermi pure. Pensi però solo alla scuola nella chiesa degli Scalabriniani. Per ora, l’orfanotrofio no!”.Iniziò la scuola in quella chiesa sempre aperta al culto. Si tirò una tenda e… di qua una classe, di là un’altra, una in sacrestia, un’altra sulla cantoria. La scuola fu piena di ragazzi, circa duecento. Con i figli, vi fecero capolino molte mamme e anche qualche papà.Nel frattempo, Francesca riuscì a convincere per l’orfanotrofio l’arcivescovo, che il 21 aprile, festa delle palme, vi portava di persona l’olivo benedetto.L’orfanotrofio fu chiamato “Asilo degli angeli”.La Cabrini, felice, lavava e pettinava le bambine, aiutava le insegnanti, accu-diva ad ogni faccenda e trovava pure il tempo per scoprire gli Italiani nelle loro misere abitazioni.Ma le fu impossibile descrivere in quali situazioni drammatiche e disumane li andava scoprendo in quei luoghi, tra il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l’umidità fetente, l’ingombro e il disordine che vi regnava. I panni venivano a volte stesi senza bucato per seccarne il lordume. Gli uomini andavano in giro faticosamente da una bottega all’altra; le donne, in mezzo alla strada, sugli usci, sui gradini delle scalette, su sgabelli di legno e di paglia allattavano, cucivano, mondavano la verdura avvizzita, lavavano i panni in mastelli unti e bisunti, si pettinavano a vicenda i capelli. La gente viveva il più possibile all’aperto. Infatti, nelle abitazioni era quasi impossibile vivere. Al 36 di Cher-ry Street, in uno stabile di cinque piani con due gabinetti per piano, stavano ammassati ottocento persone in piccole stanze di sei metri quadrati.Persino la religione era diventata un problema. Per entrare in chiesa si doveva pagare, perciò i nostri poveri venivano ammassati nei sotterranei e sbrigati con brevi funzioni. Inoltre i circoli “Giordano Bruno” diffondevano un acce-so anticlericalismo. Così gli Italiani finivano col non andare più in chiesa.Molto triste era pure la sorte dei piccoli. Bambine mezze nude erano mandate a chiedere l’elemosina, bambini abbandonati a se stessi si arrangiavano a esse-re strilloni, lustrascarpe a cinque cents per servizio, diventando piccole guide ammaestrate per accompagnare i turisti danarosi nei bordelli di Bovary. Molti di loro venivano “commissionati” direttamente in Italia. Un bambino italiano era pagato circa duecento dollari dal raket dell’accattonaggio, una bambina dai cento ai cinquecento dollari.Povere bambine, che molte volte Francesca riusciva ed accogliere all’ Asilo de-gli angeli. Ma siccome erano ormai più di quattrocento e l’orfanotrofio non aveva sussidio alcuno né sovvenzioni, dovette decidersi a stendere la mano,

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pur se ne sentiva ripugnanza. Riuscì a vincerla e da quel giorno trovò la que-stua “deliziosa”.Per cercare di ridare agli Italiani Dio, patria e pane, sempre accompagnata da un’altra suora, li andava a scoprire, oltre che nelle loro abitazioni, persino nelle bettole malfamate e frequentate da uomini abbruttiti. Si presentava su quelle squallide soglie calma e sorridente e finiva sempre col fare amicizia, vincendo l’ostilità e l’indifferenza iniziale. Sentivano parlare la loro lingua e la ascoltavano.

Donna di proposito

Lo strano pellegrinaggio di casa in casa bene impressionava Italia-ni e non. Se ne fece eco il giornale “New York Sun”, che così riportò: “In queste settimane, donne di bruna carnagione, vestite da suore di carità, sono state vedute percorrere i quartieri delle Piccole Italie, arrampicarsi per scale strette ed oscure, discendere in sudici sotterranei ed arrischiarsi ad entrare in certe caver-ne, in cui neppure il poliziotto oserebbe metter piede senza essere in compagnia. Queste donne sono tutte esili e delicate. Vestono una divisa e portano un velo differente da quello delle solite devote. Poche di loro parlano inglese. E’ un Istituto che si prende cura delle orfane e tutti i suoi componenti sono italiani. Le cinque o sei di esse che si sono stabilite in questa città sono i pionieri della Congregazione negli Stati Uniti. A capo è la Madre Francesca Cabrini, con grandi occhi azzurri ed un sorriso attraente. Non sa l’inglese ma è donna di proposito”. Non sapeva l’inglese, o meglio, ne sapeva quel tanto “per non morire di fame e per non perdere la strada”. Al cronista di quel giornale, che andò ad inter-vistarla chiedendole quale fosse il proposito della sua Congregazione, rispose: “Il nostro proposito è di salvare gli orfani italiani di questa città dalla miseria e dai pericoli che li minacciano, per farli diventare buoni cittadini. Nella parola ‘orfano’ comprendiamo non solo chi è senza genitori, ma anche chi ha genitori che non si occupano di lui. Abbiamo trovato molti fanciulli abbandonati dopo il loro arrivo in questa città. I genitori sono venuti qui aspettandosi di diventare ricchi immediatamente, ma poiché sono rimasti senza mezzi, lasciano che i loro figli si arrangino e li abbandonano in mezzo alla strada. Perciò, noi missionarie li accogliamo all’Asilo degli angeli. E non soltanto i bambini italiani, ma anche i piccoli negretti, i mulatti o i cinesi”.Questa non fu solamente una dichiarazione per accontentare i giornali. I frutti del lavoro delle missionarie fu sotto gli occhi di tutti addirittura solo un paio di settimane dopo. Protestanti incuriositi e cattolici irlandesi non crede-vano ai loro occhi mentre assistevano ad una processione in città bassa nella Little Italy. Quei bambini, composti, in silenzio, con bracciali e stendardi, e

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quelle bambine con coroncine e velo, erano proprio italiani? Quella non era la solita processione con urla e botti come si usava tra gli Italiani, specialmen-te fra napoletani, calabresi o siciliani, memori delle feste patronali del loro paese. Quelli non erano i soliti Italiani facinorosi, attaccabrighe ed accattoni dei famigerati quartieri bassi. Quei bambini in processione erano infatti il frutto di ciò che la Cabrini si era prescritta: salvare la dignità e il buon nome degli Italiani all’estero.

Bambini da vendere

Per mantenere le orfane, non solo si recava alla questua tra i bottegai italiani, ma si rivolgeva pure ai ricchi negozianti o ai magnati dell’industria america-na.Un giorno si presentò per l’ennesima volta ad un certo mister Wentworth, che si era sempre rifiutato di riceverla. Lo attese pazientemente davanti al suo ufficio. Quando la vide, non potendola evitare, le chiese arrogante: “Cosa avete da vendere?”.“Da vendere, mister Wentworth? Bambini! Bambini, niente altro”, rispose con candore e aggiunse: “Se siete riuscito così bene negli affari, avevate certamente dei sogni all’inizio. Anch’io ho dei sogni. Magari diversi dai vostri, ma sempre sogni. Se vi chiedo un aiuto, siete voi che dovreste essermene grato, perché vi do la possibilità di fare del bene”.Ammutolì, il miliardario, e staccò l’assegno sul sorriso di Francesca.A volte, se il benefattore le firmava il solito assegno di trecento dollari, la Madre riusciva a guidargli la mano sull’ultimo zero fino a tracciarne ancora uno.Insegnava così la carità, come insegnava ai piccoli emigrati a leggere, scrivere e far di conto.“E’ un Istituto che si prende cura delle orfane”, aveva pubblicato il “New York Sun”. Ma erano diventate tanto numerose che l’Asilo degli angeli non bastava più. Dall’arcivescovo - diventato ormai suo amico - seppe che a West Park, a centocinquanta miglia da New York, sulla riva del fiume Hudson, i Gesuiti svendevano una grossa proprietà chiamata Manresa. La vendevano per poco perché non c’era acqua. Francesca fiutò l’affare e, con l’aiuto di Corrigan e di alcuni benefattori, lo concluse.Per l’acqua non si scoraggiò e, mentre le suore andavano giù al fiume con i secchi, lei invece andò su, verso la collina, portandosi dietro una suora armata di piccone. “Colpisci qui!”. La suora ubbidì… ed uno zampillo improvviso s’alzò nel sole. E fu l’acqua. Raccolta in piscine, serve ancor oggi per le neces-sità dell’Istituto.

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Un piccolo cimitero per i Padri Gesuiti era annesso alla proprietà. Visitan-dolo, la Madre esclamò: “Io sarò sepolta qui”. Così avvenne il primo gennaio del 1918.

La strada dell’orto

“Stati Uniti - Italia”, un viaggio per mare che era ormai diventato di routine. Tornare in patria, visitare le sue case, prendere nuove suore e tornare con loro negli States. Voleva che le sue figlie ( come chiamava le suore ) non facessero nessun sacrifico nel seguirla. Infatti, un giorno, al porto di Genova, una suora stava salutando i parenti, autocommiserandosi:“Faccio volentieri questo grave sacrificio di partire per l’America”.La sentì, la Madre, e la interruppe: “Iddio non vuole importi sacrifici così gravi. Resta, figliola, resta”.E la sostituì immediatamente.

Andare per mare era per lei come percorrere la strada che dalla sua casa di Sant’Angelo portava all’orto. Ormai la sua esistenza era diventata un eterno, continuo, incessante viaggio, sia sugli oceani che attraverso le strade del mon-do. Fu perciò denominata “Suor moto perpetuo”. Incessantemente in aiuto degli emigranti. Per loro divenne la Chiesa, la patria, la famiglia, la mamma.“La madre degli emigranti” la chiamarono. E ad essi recava ovunque, con la fede di Cristo, l’amore per la patria. Ovunque portava loro una briciola d’Italia, ovunque riuscì a riscattare il buon nome degli Italiani, non molto ben visti perché puzzavano, litigavano e non andavano d’accordo tra loro. Scrisse: “La mia italianità sta nel cuore dei poveri, che sono il popolo e l’anima della mia fede”.In quell’America, dove “time is money” (il tempo è denaro), dove non si parla che di dollari, negli anni in cui i Ford, i Morgan, i Rochefeller stavano creando un impero economico, anche questa piccola suora malaticcia creò il suo impero per gli emigranti.Dagli Stati Uniti si portò in Nicaragua, invitata dalla facoltosa signora Elena Arellano ad aprire un collegio. Un ponte verso gli emigranti in Argentina e Brasile. Dopo qualche anno, però, la solita “revolucion” esiliò le suore che dovettero rifugiarsi a Panama. Dove fondarono un collegio.“L’esilio fu un onore per il nostro Istituto così giovane”, esclamò la Madre, lieta perché in quella occasione la sua Congregazione aveva ricevuto il battesimo del fuoco.

Viaggiando sulla sua strada dell’orto era sempre attorniata dalla reverenza dei

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comandanti e dei marinai - che la denominavano “lupo di mare”- oltre che dei passeggeri che ne contendevano la compagnia. I comandanti la invitava-no a pranzo, i passeggeri le offrivano biglietti della lotteria o inutili inviti… alle feste da ballo nel salone. Anche i non cattolici o addirittura i miscredenti erano felici di stare in sua compagnia. Persino quell’anticristo di Gabriele d’Annunzio. Che si lusingava di conversare con lei, attratto dal fascino che emanava dai suoi occhi azzurri e dal suo sorriso irresistibile. Anche se, alla proposta di convertirsi, rispose alla Madre che il suo genio ne sarebbe stato danneggiato.“Non ne fu danneggiato quello del cartaginese Agostino”, gli rispose Francesca.

Morte agli Italiani “Ingresso vietato a negri e Italiani”. “Se siete ebrei non siete i benvenuti, se siete wops (dispregiativo usato per Italiani e Latini) è meglio che non entriate, se siete negri entrate pure perché ne uscirete con i piedi in avanti”.Così stava scritto in certi locali, soprattutto a New Orleans, dove nel 1891 avvenne un fatto così grave da costringere il Governo italiano a rompere i rap-porti diplomatici con gli Stati Uniti. Al grido di “Morte agli Italiani”, tredici nostri connazionali erano stati linciati ed uccisi dalla folla inferocita e appesi ai lampioni sulla strada, perché accusati dell’assassinio del capo della polizia.Eppure erano stati assolti dal tribunale della città.Erano tanti i nostri connazionali in quel feroce paese. E volevano solamente lavorare nei campi e coltivare cotone. Ma non c’erano già i negri da soppor-tare? Perché avrebbero dovuto sopportare anche gli Italiani, negri di pelle bianca, wops pidocchiosi e, inoltre, cattolici?Anche stavolta Madre Cabrini comprese che toccava agli Italiani stessi correg-gere il giudizio sfavorevole che gravava su di loro. Perciò occorreva educarli, spiritualmente e italianamente. L’italiana “Cabrini Francesca” si mise a setac-ciare i quartieri bassi, veri alveari di connazionali e di neri. Finalmente trovò tre locali in affitto in Saint Philips street, nel vieux carrèe francese, proprio a due passi da quel carcere dell’orrore e da quei tristi lampioni.La casa divenne orfanotrofio, scuola, chiesa e luogo di convegno, dove la do-menica convenivano tanti coltivatori di cotone, scesi dai boats sul Mississipi. Sapevano di trovarvi, con il confessionale, anche un sorriso e una parola ami-ca nella loro lingua che era tornata a farsi sentire. E anche una partita a carte e un bicchiere in compagnia. In quel pionieristico centro sociale trovavano uno scorcio luminoso del loro paese di là dal mare. Educati, puliti e non più pidocchiosi, vennero allora trattati con rispetto. Anche quei famosi cartelli sparirono dai negozi.

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L’orfanotrofio di Saint Philips street ormai non divenne più sufficiente. Per-ciò Francesca decise di rivolgersi al capitano Salvatore Pizzati, l’Italiano più facoltoso d’America e molto sensibile alle necessità dei poveri.“ La sua visita mi onora, Madre Cabrini. Di lei parla tutta l’America. In che cosa posso esserle utile?”, le chiese il capitano.“In niente. Vorrei io essere utile a lei”, rispose Francesca.“Io non ho bisogno di nulla. Desidero soltanto che mi lascino fare in pace il mio lavoro”, dichiarò Pizzati.“Mi hanno detto che lei è sposato da molti anni, ma non avete figli. E’ triste. Pec-cato, proprio peccato! Con tutte queste belle cose, neanche un figlio cui lasciarle. Non sa quanta gioia possono dare i bambini?”, insinuò Francesca.A questo punto, Pizzati credette che la Madre volesse fargli adottare un bam-bino. Riflettè, poi esclamò:“Madre, non le dico di no. Lasci che ne parli a mia moglie, e se Maria è d’accordo, lei mi porta il bambino”.“Il bambino? Chi le ha parlato di un bambino? Perché uno solo?”.“Perché, quanti me ne vorrebbe dare, Madre!?”, si allarmò Pizzati.“Cosa ne direbbe di un… sessantacinque, tanto per cominciare?”, rispose Fran-cesca con disinvoltura.Il capitano finì col finanziare l’intero orfanotrofio. Più tardi le offrì altri ses-santacinquemila dollari - una somma vertiginosa per l’epoca - con i quali la Madre fece innalzare un grande orfanotrofio in Esplanade Avenue.Ora è la famosa scuola superiore “Cabrini High” di New Orleans.

Ormai, a New Orleans le figlie della Cabrini erano diventate molto popolari, tutti le conoscevano e le stimavano. In ogni occasione, le suore non manca-vano di porgere il loro aiuto. Quando scoppiò un tremendo colera, si prodi-garono con estremo coraggio e abnegazione in soccorso dei malati. Quando l’epidemia cessò, un giornale, pur non molto benevolo verso i cattolici e verso gli Italiani, le esaltò in un articolo molto significativo:“Nascoste sotto il velo che le ricopre, ciascuna di esse non è per il pubblico che una semplice monaca: il suo nome, la sua personalità scompaiono. Chi siano e a quale condizione sociale appartengano nessuno lo sa. Gli infelici, al servizio dei quali si sono consacrate, non le conoscono che sotto il nome di ‘suora’. Ma tutti coloro che hanno un animo nobile salutano in esse le serve di Dio e dei poveri, e dinanzi a loro si inchinano con rispetto”.

Il mondo è troppo piccolo

“E’ troppo piccolo il mondo per soddisfare i miei desideri. Non mi darò pace fin-

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chè sul mio Istituto non tramonterà mai il sole”, diceva parafrasando il famoso Carlo V. “Vorrei avere una nave, che chiamerei Cristofora (portatrice di Cristo) e con essa percorrerei le vie del mondo”.Le percorse freneticamente per tutta la sua vita, con qualsiasi tem-po, caldo o freddo non importa. Una volta, “Cecchina la matta” scrisse: “L’altro giorno viaggiai per tre ore sotto la neve; ieri, dopo essere stata male tutta la notte, altre due ore sotto la pioggia che veniva a secchi, e con le scarpe rotte, per cui nuotavano i piedi nell’acqua. Però me la godevo tutta riflettendo che così avevano viaggiato i più grandi santi per il bene del loro Istituto e per la salute delle anime. E tal gioia fece sì che non ne soffrissi affatto”.

Divenne “la zingara di Dio”, percorrendo il mondo “in fretta, in fretta e al-legramente, ardentemente, velocemente”, come scriveva lei stessa, incontrando molte volte disagi, sorprese e pericoli.Una notte, nel Colorado, i briganti assalirono a fucilate il treno su cui viag-giava, catapultando persino sassi, pezzi di ferro e grossi chiodi. Appunto uno di questi penetrò con violenza dal finestrino della carrozza di Francesca e andò a conficcarsi nella parete di fondo della vettura. Passato il perico-lo, il personale di polizia, meravigliato e incredulo, si stupì perché il proiet-tile - calcolandone la traiettoria - le avrebbe dovuto attraversare la testa. “Certo qualcuno vi tiene le mani sul capo. Dopo quanto è successo, credo che se vi sparassero in faccia rimarreste illesa”, esclamò l’agente.La Cabrini, perfettamente tranquilla, tolse con un temperino il chiodo dal legno, se lo mise in tasca per ricordo e poi gli sorrise compiaciuta. Sottovoce, però, sussurrò:“Grazie, Qualcuno!”.

A Seattle aveva necessità di un orfanotrofio. Aveva perlustrato tutta la zona, ma, non trovando nulla di suo gradimento, andò in periferia per vedere un grandioso palazzo in una vasta tenuta, che… aveva visto in so-gno. Nel ritorno, invece di prendere il mezzo pubblico, fece l’autostop! Si fermò la lussuosa automobile di una signora. A bordo le chiese come mai una suora si fosse avventurata fin lì. Avutane risposta, la signora dichiarò: “Forse io la posso aiutare, sister. Quella tenuta appartiene a mio marito”.Con i centomila dollari, donati da un anonimo benefattore, vi potè aprire l’orfanotrofio “Casa del Sacro Cuore”.

Un’altra casa per gli orfani fu aperta a Dubbs Ferry, con palestra, piscina, campi da gioco. Alla sontuosa inaugurazione parteciparono numerose Au-torità, cardinale Bonzano in testa. Anche stavolta se ne occupò la stampa: “Tutti facevano a gara nel congratularsi con la reverenda Madre Cabrini, con

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questa piccola donna che ha saputo destare intorno a sé la stima, l’affetto, l’am-mirazione e la venerazione generale e la più grande meraviglia per l’opera sua che ha del sorprendente, quasi del miracoloso”.

Nel New Jersey, a Newark, aprì una scuola in una bottega dalle pareti di vetro: freddo intenso d’inverno e caldo eccessivo d’estate, con quattrocento bambini e nemmeno un banco o una sedia. “Staremo in piedi, scolari e insegnanti”.Una scuola che, come altre simili, erano grave peso per l’Istituto, non solo perché completamente gratuita, ma anche perché gli scolari dovevano essere riforniti del necessario per lo studio. Inoltre, non essendo sufficienti le suore, doveva ricorrere a maestre esterne stipendiate. E pensare che il fondo cassa iniziale di Newark era stato di sessanta centesimi. Il Columbus Hospital

Negli ospedali americani, i nostri emigrati come potevano spiegare la loro malattia se non conoscevano l’inglese ? Non conoscevano nemmeno l’italiano e parlavano soltanto il loro dialetto. Occorreva pertanto un ospedale italiano. Perciò fu fatta richiesta a Madre Cabrini perché provvedesse. Ma lei rifiutò decisamente, anche perché era già fallito l’ospedale Garibaldi che gli Italiani avevano tentato di aprire ed ora era pure in fase di fallimento un ospedale degli Scalabriniani.Fu un sogno, uno di quei sogni di cui erano costellate le sue notti, a farle mutare atteggiamento. Sognò una corsia di ospedale dove una bella signora, veste rialzata e maniche rimboccate, accudiva i malati. Accortasi che era la Madonna, corse per aiutarla. Ma la Vergine, allontanatala con un gesto deci-so, le disse: “Faccio io quello che non vuoi fare tu”.Fu così che la Cabrini decise di fondare un ospedale italiano. Un ospedale di dieci letti, con materassi fatti in casa, lenzuola tagliate dalla tela di balla, po-chi strumenti chirurgici donati dal dottor Villari e poche bottiglie di medici-nali. Mancava l’acqua, il gas, il riscaldamento e, per la cucina, si ricorse a una vicina trattoria. Le suore dovettero dormire per terra, su un poco di paglia.Perché si sapesse che era un ospedale italiano, volle chiamarlo Columbus Ho-spital , mentre le suore furono definite dalla gente “le sorelle di Colombo”.Quel Columbus Hospital che diede il proprio nome anche a tutti gli altri, fondati da Francesca in diverse città.Quel Columbus che ora a New York è a tutti noto come “Cabrini Medical Center”.Un giorno vi giunse il commendator Egisto Rossi, nuovo Commissario della

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Emigrazione Italiana, accompagnato dal giornalista Agostino De Biase, colla-boratore del giornale italiano “Il carroccio” di New York.Era venuto per appurare se il Columbus giovasse veramente agli Italiani.Conosciuta la fondatrice, si sentì dire:“Voi uomini che vi occupate di questi problemi avete troppo da fare e poi volete fare tutto in una volta. Per esempio: non è necessario discutere molto sulla necessi-tà di proteggere gli emigranti. Questa protezione, invece, bisogna farla. Lo vedete? Io non sto lì a discutere, trovo che un bene si deve fare? Mi metto subito all’opera con il mio piccolo Istituto. Non dispero di trovare i mezzi, perché ho fiducia che, in un modo o nell’altro, li troverò. Non so dove li troverò, e nemmeno gli altri lo sanno, ma forse perché sono una piccola suora di cui nessuno si cura, incontro meno opposizioni e la gente è pronta ad aiutarmi.Sono venuta qui a New York dal sud, ora riparto per Chicago, tra un paio di settimane sarò a Los Angeles. Il vescovo di quella città pretende che le scuole che ho aperto laggiù per i bimbi italiani vengano chiamate “Scuole di Los Angeles”. Io ho sempre ubbidito ai miei superiori, l’ubbidienza è la prima virtù che pra-tico, ma stavolta Sua Eccellenza non potrà impormi questo. Anche nel nome, le mie scuole restano italiane, restano degli emigrati e dei loro piccoli figli. Da Los Angeles è probabile che ritorni qui all’est per recarmi in Italia a prendere nuove suore da portare negli States per assistere i nostri connazionali. E lei, signor Com-missario dell’Emigrazione, non è persuaso che questo ospedale giovi proprio agli Italiani?”.E gli aprì il fascicolo che segnava, fino a quel momento, più di centomila nomi di Italiani ricoverati al Columbus Hospital.Il commendator Egisto Rossi, Commissario dell’Emigrazione italiana, dichia-rerà: “Madre Cabrini fa più lei per gli emigrati italiani che tutto il Ministero degli Esteri preso insieme”.

A Chicago, su suggerimento dell’arcivescovo Quigley, aveva fondato un altro Columbus Hospital, comprando il grandioso Hotel North Shore, sei piani, duecentocinquanta camere. Come in altre circostanze del genere, anche qui dovette affrontare mille difficoltà.“Devo lavorare come una giovinetta, devo sostenere forti ragioni contro uomini ingannevoli; e ciò si deve fare”.Il giorno della firma del contratto, alla cinque del mattino, due suore con una corda in mano andarono a misurare il terreno annesso all’albergo. Infatti i proprietari le avevano tolto una striscia in fondo, fabbricabile, che perciò ne avrebbe diminuito il valore.“L’ho fatto misurare”, annunciò. Ebbe così ciò che aveva convenuto.Ma proprio per quell’ ospedale dovette sostenere molti soprusi.

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Lasciata Chicago per altre fondazioni, durante il lavoro di adattamento, alle suore rimaste, incompetenti e sprovvedute, l’impresa propose una quantità di lavori dove solo una modifica poteva bastare, tanto che, dopo poco tem-po, dell’antico albergo erano rimasti in piedi soltanto i muri. Richiamata sul posto, la Madre licenziò immediatamente tutti, portando le prove delle loro truffe e dei loro imbrogli.“Il direttore dei lavori ora sono io”, annunciò e diresse il restauro di quello che ormai era diventato un cantiere. Preventivato un anno di lavori, le bastaro-no otto mesi. Il 26 aprile 1905 veniva inaugurato il Columbus Hospital di Chicago.

Sempre in quella città sul lago Michigan aveva acquistato il “Extension Ho-spital”, per ricoverarvi esclusivamente malati italiani. Stavolta dovette com-battere contro tentativi mafiosi che - durante i lavori di adattamento - aveva-no rotto le tubature dell’acqua tanto da far ricoprire di ghiaccio i pavimenti e addirittura tentato di incendiare lo scantinato.“Anche se i lavori non sono terminati, entriamo subito ugualmente. Voglio vedere se faranno arrostire vivi i malati”.Non ci fu più alcuna rappresaglia.Quella volta, Madre Cabrini aveva addirittura sconfitto la mafia.

A Seattle - dove aveva assunto la cittadinanza statunitense per poter meglio agire negli States - lasciò uno dei suoi capolavori.Era riuscita ad aggiudicarsi il faraonico “Perry Hotel”, chiamato “Big Ele-phant“, in una gara vertiginosa con i potenti di quella città, vincendo batta-glie commerciali e legali.Trattando l’affare con il solito rigore di un finanziere e mettendosi contro banche, autorità politiche, società ospedaliere timorose di concorrenza, versò la caparra di diecimila dollari.Il giorno prima della scadenza del contratto, però, non era ancora riuscita a racimolare la cifra da versare, pena lo scioglimento del contratto. Con tutta Seattle che aspettava il “Mother Cabrini ko”, schiacciata… dall’elefante.All’ultimo momento arrivò Mr. A. Kilber, di religione ebrea, presidente della Scandinavian Bank, che si mise a sua disposizione per qualunque somma. La “little strange lady” - come era stata definita laggiù - aveva vinto la sua più strenua battaglia. Trasformò l’hotel nel “Columbus Sanitarium”.Al giornalista De Biase, del giornale italiano “Il carroccio“ di New York, scris-se : “Il Perry Hotel non è più. Esiste in sua vece il Columbus Sanitarium. E’ un edificio di maestosa bellezza; ha duecento camere mobiliate così sontuosamente da pareggiare con il più grandioso hotel d’Europa”.

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Al vescovo O’ Dea, che temeva fosse troppo grande e lussuoso per una città come Seattle, che metropoli ancora non era, rispose: “Questa casa che lei reputa troppo lussuosa non è per oggi. Lo è per il futuro. Seat-tle crescerà, avrà collegamenti con la Cina, il Giappone, il Canada, l’Alaska. La nostra grande casa si riempirà tutta sino a sembrare piccola. E sarà aperta a tutti: cattolici, protestanti, di altre fedi, perché questo è il lavoro di noi missionarie”.Alla inaugurazione, il vescovo dichiarerà:“Madre Cabrini è la più grande donna del ventesimo secolo.”

In America Latina

“Lavoriamo, Cabrini, lavoriamo… Cabrini, voi avete lo spirito di Dio, portatelo in tutto il mondo… Avanti a lavorare, Cabrini, fino alla morte”.Così le diceva papa Leone XIII quando lo incontrava di ritorno dai suoi viag-gi. Viaggi che affrontava ignorando pericoli e difficoltà. Diceva:“Difficoltà, difficoltà… Cosa sono le difficoltà? Giochi di fanciulli ingranditi dalla nostra fantasia. Cosa sono i pericoli? Fantasmi che sorprendono le anime”.Non trovò difficoltà alcuna e tantomeno pericoli quando, per andare dal Cile in Argentina a fondare il collegio Santa Rosa a Buenos Aires, dovette attra-versare la cordigliera delle Ande in compagnia di Madre Chiara. Prima con il treno, quindi addirittura a dorso di mulo attraverso otto metri di neve. Aveva addirittura rischiato di essere inghiottita da “un formidabile crepaccio” (come lo definì lei stessa), che si era aperto davanti alla carovana di cui faceva parte. Bisognava saltarlo. Lei, un po’ ingenua e un po’ testarda, pensando fosse fa-cile, rifiutò l’aiuto della guida e spiccò il salto. Ma, “un po’ per il freddo, un po’ per l’aria rarefatta” che le aveva tolto le forze, il suo salto “sembrò quello di una piuma che non si muove né si solleva se non è portata dall’aria”.Sarebbe perita nella profondità del crepaccio se il previdente mulattiere non si fosse buttato a terra e non avesse fermato la caduta con i piedi, mandandola a finire sull’altra sponda con l’aiuto del suo bastone e del suo compagno. Eppu-re, Francesca Cabrini dichiarò poi la sua soddisfazione di essere salita tanto in alto: per poter avere così un argomento che la obbligasse ed eccitasse a salire pure nella perfezione. Monte ben più alto che non la Cordigliera delle Ande.Al collegio Santa Rosa di Buenos Aires seguirono altre fondazioni a Flores, Caballito, Rosario di Santa Fé e negli estremi margini delle pampas, a Villa Mercedes. Questa fondazione assunse un carattere schiettamente missionario. Gli Italiani erano sparsi un po’ dappertutto “a strappare al terreno quelle ric-chezze di cereali da cui aspettavano un agiato avvenire”.Le suore si recavano ovunque potessero arrivare e con qualsiasi mezzo, in quell’immensa pianura erbosa. Troppa era quella povera gente abbandonata,

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troppo poche le suore, uno solo il sacerdote.“Perché voi suore non andate a confessare le donne e lasciate al Padre di confessare i tanti uomini?”, chiese una donna, con la grande ingenuità dell’ignoranza.Partita da Buenos Aires, arrivò in Brasile, dove la colonia italiana era molto fiorente. Sorsero, così, i collegi di San Paolo e di Rio de Janeiro.In quest’ultima città, in soli dieci giorni di frenetico lavoro, arredò un colle-gio sulla Praia do Flamenco, di fronte alla baia.“Ma vedete i miracoli che sa fare la Madre Cabrini? E’ come Giulio Cesare:«Veni, vidi, vici» (venni, vidi, vinsi)”, esclamò il cardinale Arcoverde di Rio de Janeiro.Per difendere le alunne dalle frequenti epidemie, cercò “un buco sui monti”.Lo trovò nella Tijuca e lo chiamò Colegio Regina Coeli, con ben trecento alunne.La “straordinaria donna” - come la definì il cardinale - lasciò il Brasile per altre fondazioni negli Stati Uniti. Purtroppo, nell’attraversare le zone malariche nei pressi di San Paolo, contrasse i germi delle febbri. Che si rinnovarono ad intervalli negli ultimi anni della sua prodigiosa esistenza. Italiani senza …

Pervasa di febbre e di fede, trascorreva le Americhe, che ne erano esaltate. La sua frenetica attività la conduceva dove forti erano le necessità. Ogni mez-zo di locomozione era sufficiente, dalle navi alle chiatte, dai transatlantici alle barche, dalle carrozze ai treni. Proprio da un treno della ferrovia Santa Fè, diretta a Los Angeles, lo sguardo di Francesca spaziava su quelle immense pianure intorno a Denver popolate dai casolari di agricoltori italiani, che erano una minima parte “di quelle numerose falangi che sbarcano annualmente sulle rive dell’Atlantico”.“Poveri Italiani, senza Dio, senza Patria, senza pane”, scriveva, “sfruttati tante volte da coloro che si atteggiano a loro protettori e ingannati tanto più, quanto meglio questi sanno colorire i loro privati interessi col manto della carità e del-l’amor patrio. Li vedevo nei miei viaggi questi cari nostri connazionali intenti a costruire ferrovie nelle più intricate gole dei monti, lontano miglia e miglia dall’abitato, quindi per anni separati dalle loro famiglie. (…) Qui, al lavoratore italiano sono riservati i lavori più pesanti, pochi v’hanno che con occhio di sim-patia si curino di lui. (…) E’ vero che anche qui l’Italiano sa farsi stimare perchè sobrio, onesto, fedele, operoso, ma di quante pure gioie si priva colui che abban-dona la nostra patria per venire in queste terre forestiere, senza chi lo guidi sulla strada del vero benessere che consiste solamente nel raggranellare un gruzzolo che tante volte, per infortuni sopraggiunti, nemmeno si gode.(…) Però mi è di sommo

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conforto il constatare nel mio giro nelle nostre missioni il bene che si fa a favore degli emigranti in ogni città dove sono aperte le nostre case. In esse si ricoverano gli orfani, gli ammalati, i poveri, si istruiscono migliaia di fanciulli. Le relazioni fra gli emigrati e le suore sono cordialissime: le chiamano Madri e Sorelle, perché fanno proprie le loro pene, le loro gioie, i loro interessi”.

Senza aria e senza luce

Dei lavoratori italiani sparsi negli States, le stavano molto a cuore i minatori, tra cui quelli di Trinidad e di Scranton. Francesca ed altre suore li andavano a visitare in quelle miniere “senz’aria e senza luce”, facendosi calare fino a novecento piedi di profondità dentro una specie di grandi secchi, attraverso un’apertura non più larga di un metro quadrato, praticata obliquamente nella roccia. Poi, dopo qualche chilometro a piedi in quelle strette gallerie, illumi-nate qua e là da alcune candele di sego, respirando a stento l’aria compressa introdotta con un cavo, arrivavano finalmente a consolare quei poveretti.“Non è difficile parlare loro del paradiso, perché nell’inferno ci sono già”, diceva. Così scriveva a proposito dei minatori italiani:“Le nostre suore li visitano regolarmente e per quei poverini tale vista è come un raggio di sole in quelle tenebre.Parlano loro delle figliole che tengono presso di sé, delle loro famiglie che hanno visitato, li confortano nella tristezza della loro misera condizione e sempre li la-sciano più contenti, almeno più rassegnati alla loro povertà. (…) Poveri mina-tori, lontani dalle famiglie, separati dal commercio degli uomini, con un lavoro non interrotto per anni e anni, finchè viene la vecchiaia, l’impotenza, oppure finchè un giorno una frana, un’esplosione, un accidente qualsiasi tronca loro la vita e nemmeno di un sepolcro avranno bisogno, sepolti nella tomba in cui hanno vissuto per tutta la vita”.

Le celle della morte

Madre Cabrini ebbe pure molto a cuore gli Italiani carcerati nelle prigioni americane, perché (come già gli ammalati prima della fondazione dei Co-lumbus Hospital) anche nelle carceri non riuscivano a spiegarsi in inglese e potersi così difendere. Molte volte venivano addirittura accusati di colpe mai commesse. Riuscì ad ottenere il permesso di entrare con altre suore nelle prigioni di Sing-Sing, di Chicago e di New Orleans. Sì, proprio quelle di “Morte agli Italiani”.Portava così parole di conforto, oltre a giornali e sigari. Si interessava delle famiglie, sbrigava pratiche, spesso riusciva persino ad ottenere la revisione di

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processi, e più d’una volta ottenne diminuzioni di pena ed anche assoluzioni. Ottenne pure che un sacerdote italiano, il Padre Indelli, li avesse ad assistere moralmente e spiritualmente. Era ormai diventata consuetudine per le suore soffermarsi nelle camerate, visitare le infermerie, entrare nelle celle.Ma la missione diventava davvero drammatica, angosciosa e penosa quando era necessario assistere i condannati a morte. Si ribellavano, all’inizio, quei poveretti. Non era facile calmarli e renderli rassegnati al loro crudele destino. Occorreva tatto e pazienza, fino a che, giorno dopo giorno, poco a poco, finivano con l’abbandonarsi completamente alle suore. A volte chiedevano che fossero proprio loro ad accompagnarli lungo l’ultimo miglio (come ve-niva chiamato quel terribile corridoio che portava alla cella dell’esecuzione). Qualcuna di esse, travolta di commozione dopo l’ultimo addio, fu costretta a letto per qualche giorno di incubo e di febbre.

Omnia possum in Eo qui me confortat

“Tutto posso in Colui che mi dà forza”. È la traduzione del motto di San Pao-lo che Francesca Cabrini adottò per la sua missione leggendaria, incredibile, stupefacente ed eroica. Una autentica Madre Coraggio delle Americhe.Il suo lavoro fu letteralmente immane ed instancabile. Diceva:“Lavoro e mi affatico, ma tutto è come niente… Il Sacro Cuore fa tanto in fretta a fare le cose, che io stento a tenergli dietro… Io non sono altro che la spettatrice delle sue meraviglie... Francesca e un soldo non sono nulla. Francesca, un soldo e Dio sono tutto”.

Il Ministro Francesco Saverio Nitti, anticlericale fino al midollo, dopo averla incontrata, esclamò: “Peccato che sia una donna. Se fosse un uomo, che grande Ministro sarebbe!”.

Il cardinale di Buenos Aires, monsignor Castellano, dichiarava: “Madre Cabrini non cammina: vola”.

Il dottor Thomas Martin così giudicava: “Lo sviluppo che l’opera della Cabrini ha avuto nei primi venticinque anni può, in proporzione, paragonarsi allo sviluppo che la grande nazione degli Stati Uniti ebbe dopo la battaglia dell’indipendenza”.

Lo scrittore Divo Barsotti pubblicò: “La sua vita sembra una leggenda. Una Storia della Chiesa che ignori questa fra-gile donna è gravemente manchevole. Una Storia d’Italia che non voglia parlarne è settaria”.Al tempo del famoso Watergate, illustri personalità americane dichiararono

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che, in quel particolare momento della Storia americana, a governare gli Stati Uniti ci sarebbe dovuta essere Mother Cabrini.

Mother Superstar

Madre Francesca Saverio Cabrini, rivolgendosi alle sue figlie, raccomandava: “Crescete e moltiplicatevi, perché troppo è lo strazio che provo nei miei viaggi ve-dendo quante necessità estreme vi siano, alle quali non posso rimediare per man-canza di soggetti. Scioglietevi e mettete le ali, in fretta, in fretta e allegramente. Il vostro volto ilare metta letizia in chiunque vi circonda.Coraggio! E’ nella prova che il valore del soldato si misura. Cerchiamo di giungere dappertutto, ardentemente, velocemente. Io correrò dietro a Lui sempre, sempre. Sino alla fine della corsa”.

La sua corsa finì all’improvviso il 22 dicembre 1917, in una camera del Co-lumbus Hospital di Chicago .Il barone Edmondo Mayor des Planches, Ambasciatore italiano in America, richiesto di una sua testimonianza, proclamò:“Madre Cabrini era un grande uomo!”

Nei suoi 67 anni di vita aveva fondato 67 Istituti, così divisi:17 orfanotrofi, 57 scuole materne, 23 collegi, 54 scuole elementari, 26 scuole superiori e medie, 8 ospedali, 7 dispensari, 14 case di cura, 6 laboratori, 6 nidi d’infanzia, 2 scuole agrarie, 3 pensionati, 3 scuole per infermiere, 1 brefotrofio, 1 ricovero per anziani.

Da Chicago, la sua salma fu trasportata con un treno trionfale a West Park, quindi a New York per la beatificazione voluta da Pio XI il 13 novembre 1938. Fu canonizzata il 7 luglio 1946 da Pio XII, che la proclamò “Patrona di tutti gli emigranti” nel settembre 1950.Giovanni Paolo II la definì “Missionaria della nuova evangelizzazione”.

E’ la prima santa degli Stati Uniti e la prima santa della Repubblica italiana.

Quale esempio migliore avrebbe potuto trovare Madre Teresa di Calcutta? Quale migliore intitolazione potrebbe trovare l’aeroporto di Malpensa?

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VOLUMI

Madre Cabrini - la santa che scoprì gli Italiani in America - 1983

Il monumento a S. Francesca Cabrini e all’emigrante - 1987

Quando Cecchina tornò dall’America - 1997

Madre Coraggio delle Americhe - 2000

RIVISTE MENSILI

Il Messaggero - Arenzano - 1978

Dalle api alle rose - Cascia - 1982

Il broletto - Lodi - 1982

Cento Santi e Beati - Loreto - 1985

M.C. Messanger - Chicago - 1989

Pavia Economica N.1 - Pavia - 1989

Historia - Milano - dicembre1989

Nuovi orizzonti - Cagliari - 1996

Magazine Pipielle - Lodi - 2004

Magazine Bipitalia - Lodi - 2006

DVD

Madre Cabrini, Portatrice di pace

Per la Provincia di Lodi con la Bottega dei mestieri teatrali - 2003

COPIONI TEATRALI

Francesca degli emigranti - 1987

La strada dell’orto - 1996

Madre Coraggio delle Americhe - 2005

Copione Musical “Mother Cabrini” - 2005

Io, Mother Superstar - 2007

VOLUMETTI E DEPLIANTS

Calendari cabriniani 1974 - 1976 - 1977

Pieghevole Casa natale - 1974

Depliant turistico EPT - edizione italiano-inglese - 1975

La basilica romana minore di Sant’Angelo Lodigiano - 1982

Tre differenti pieghevoli Monumento - 1987

Il salotto letterario di Lodi - 1990

Sulla strada dei pellegrini. Ente Turismo - 2000

Francesca e un soldo - 2008

Francesca e un soldo nuova edizione riveduta - 2009

(oltre a centinaia di articoli su quotidiani italiani e stranieri)

http://web.tiscali.it/madrecabrini/

Bibliografia Cabriniana di Achille Mascheroni

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Seconda edizioneFinito di stampare Maggio 2009

Galeatica Editrice - Lodi

© 2008 Achille MascheroniIn copertina: Progetto moneta “Un soldo”, design Galeatica

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