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Le testimonianze sono state raccolte durante il cammino dei 7 incontri di preghiera-adorazione in preparazione alla veglia di Pentecoste e la sera stessa della veglia che si è svolta nella Basilica Cattedrale di San Cassiano il 14 Maggio 2016.

DAR DA MANGIARE AGLI AFFAMATI

Giovanni (Imola) - CONDIVIDERE IL BISOGNO PER CONDIVIDERE IL SENSO DELLA VITA Il Banco Alimentare è nato in Italia nel 1989, fondato da don Luigi Giussani e da Danilo Fossati della STAR. Due gli scopi: 1. Educare alla carità come dimensione di chi la fa e di chi in qualche modo ha a che fare con essa. 2. Recuperare alimenti che, pur essendo perfettamente commestibili, finirebbero in discarica e distribuirli a persone e famiglie in stato di povertà, soccorrendoli e facendo intravvedere loro una speranza. Mons. Luigi Giussani ci disse, a Roma nel 1999, in occasione del decennale della fondazione del Banco Alimentare: “In un tempo che ha smarrito il valore infinito della persona concreta, perché ha dimenticato la tradizione cristiana, siete chiamati a rinnovare lo spettacolo della condivisione gratuita del destino dei fratelli uomini, a imitazione di Gesù di Nazareth, che ha dato la vita per i suoi amici, anche soccorrendoli nei bisogni fisici quando li sfamò a migliaia moltiplicando i pani e i pesci. Di questo miracolo, che solo la grazia di Dio può compiere attraverso lo strumento fragile delle nostre persone, il mondo ha bisogno per ritrovare una speranza che sostenga l’infinita fatica del vivere”. Da allora abbiamo fatto tanta strada con tanti amici che hanno camminato con noi. Fino ad oggi la Fondazione Banco Alimentare dell’Emilia Romagna ha recuperato mediamente 8.000 tonnellate di alimenti per ogni anno di attività, distribuiti a circa 140.000 persone bisognose della nostra regione, attraverso l’opera instancabile ed eroica di oltre 800 strutture caritative accreditate al Banco Alimentare, che ha la sua sede operativa e amministrativa a Imola e un

secondo grosso centro logistico a Parma. Siamo così giunti al 2015, anno di grandi incontri. Le cose belle nascono sempre da grandi incontri. Prima di tutto l’udienza che Papa Francesco ci ha concesso il 3 ottobre scorso, in occasione dei 25 anni di fondazione. In Sala Nervi eravamo oltre 7000 e 2000 circa in piazza San Pietro davanti allo schermo gigante. Era rappresentata tutta la realtà che ha a che fare col Banco Alimentare. Ecco alcuni stralci del suo discorso: “Vi ringrazio per quello che fate e vi incoraggio a proseguire su questa strada… Noi non possiamo compiere un miracolo come l’ha fatto Gesù, tuttavia possiamo fare qualcosa, di fronte all’emergenza della fame, qualcosa di umile e che ha anche la forza di un miracolo. Prima di tutto possiamo educarci all’umanità, a riconoscere l’umanità presente in ogni persona bisognosa di tutto. Forse pensava proprio a questo Danilo Fossati… quando confidò a don Giussani il suo disagio di fronte alla distruzione di prodotti ancora commestibili vedendo quanti in Italia soffrivano la fame… Certo il vostro contributo può sembrare una goccia nel mare del bisogno, ma in realtà è prezioso!... Condividendo la necessità del pane quotidiano voi incontrate ogni giorno centinaia di persone. Non dimenticate che sono persone, non numeri, ciascuno col suo fardello di dolore che a volte sembra impossibile da portare. Tenendo sempre presente questo, saprete guardarli in faccia, guardarli negli occhi, stringere loro la mano, scorgere in essi la carne di Cristo e aiutarli anche a riconquistare la loro dignità e a rimettersi in piedi. Vi incoraggio ad essere, per i poveri, dei fratelli e degli amici; a far sentire loro che sono importanti agli occhi di Dio. Le difficoltà che sicuramente incontrate non vi scoraggino; piuttosto vi inducano a sostenervi sempre più gli uni agli altri, gareggiando nella carità operosa.” In secondo luogo la presenza del Banco Alimentare a EXPO 2015, dove abbiamo recuperato alimenti ma anche organizzato convegni sul tema dell’alimentazione, presentando ricerche sulla povertà e sulle eccedenze e gli sprechi alimentari. Abbiamo fatto incontri che ci hanno aperto opportunità per la crescita del Banco Alimentare, per dare risposte sempre più adeguate al bisogno. E’ cresciuta la coscienza della nostra responsabilità ma anche la consapevolezza che questa opera non è nostra, ma ci è stata affidata dal “Socio di maggioranza” e che senza di Lui non possiamo fare nulla. Abbiamo, infatti, sperimentato sempre la forza della provvidenza. Un esempio per tutti, quello che è accaduto nel 2014: partiti con un deficit di 140.000 euro a bilancio preventivo, abbiamo chiuso a pareggio!

Con noi in prima fila a Roma il 3 ottobre c’erano anche Paola della Caritas di Budrio e Habiba con sua figlia Ranya, che ha ricevuto gli aiuti ed ora è collaboratrice della stessa Caritas. Paola: La Caritas della parrocchia di S. Lorenzo di Budrio usufruisce del servizio offerto dal Banco Alimentare da oltre 15 anni. Poter avere, dal Banco Alimentare, generi alimentari per persone in difficoltà ci permette di andare incontro a tante situazioni di bisogno presenti nel nostro territorio. Alla prima domanda, di poter avere qualcosa da mangiare, ne seguono altre altrettanto importanti: evitare uno sfratto, sostenere i figli nello studio, trovare un lavoro. Così, timidamente, inizia un percorso di relazioni in cui ascoltare e dare risposte, si costruisce pian piano una rete di amicizie fatta di tanti volti, tante storie, tante fatiche e tante croci. Con ognuna delle persone che abbiamo incontrato abbiamo provato a fare un pezzo di cammino insieme. Con Habiba abbiamo condiviso tanti momenti difficili e tanti momenti belli, come quello di partecipare, con il banco Alimentare, all’udienza con Papa Francesco il 3 ottobre scorso a Roma, in Sala Nervi. Habiba: Vengo dal Marocco, sono arrivata in Italia 10 anni fa con uno dei tanti barconi di migranti. Sapevo che avrei potuto rischiare la vita, ma la determinazione a voler fuggire dalla miseria mi dava tanto coraggio e speranza. Quando sono arrivata a Bologna mi sono accorta di essere incinta. Non avevo nessuno, mio marito era andato in Spagna, non avevo un soldo, non conoscevo la lingua ed una connazionale mi ha accompagnata alla porta della Caritas. Il loro aiuto è stato molto importante, perché mi hanno inserito in una comunità di suore fino alla nascita della mia prima figlia, poi mi hanno trovato un lavoro e una casa e ho potuto fare ricongiungimento famigliare con mio marito. Ho avuto problemi di salute e mio marito un grosso incidente sul lavoro, ma la Caritas ci è sempre stata vicina. Ci ha aiutati con sporte di generi alimentari forniti soprattutto dal Banco Alimentare, con aiuti economici e con tanta amicizia. Sono di fede mussulmana, ma per me e per mia figlia è stato molto bello essere col Banco Alimentare in prima fila ad incontrare il Papa a Roma, perché è una persona buona, che parla con tutti e abbraccia tutti.

Maria (Imola) - Durante questa Pasqua e in questo anno giubilare, mi è stato chiesto di fare un’opera di carità. Chiesi a me stessa cosa potessi fare: l’elemosina la faccio sempre, quasi d’abitudine, e non sentivo che questa poteva ritenersi un’opera di carità dove il superfluo non fa del bene né a chi lo riceve né a chi lo dà. Sentivo di dover fare di più ma non sapevo come… L’occasione mi è arrivata da un appello fatto da un fratello del RnS: “C’è una famiglia che ha bisogno di tutto e ci sono anche dei bambini!”. Le mie “antenne” si sono subito drizzate: ho chiesto come e cosa potevo fare… sono andata quindi al supermercato a fare un po’ di spesa per questa famiglia. Era quello di cui avevo bisogno: essere di aiuto nel mio piccolo a qualcuno! Ho portato pace nel mio cuore e mi sono sentita meglio come se mi fossi alleggerita da un grosso peso che avevo dentro… difficile a descriversi ma è come se fossi stata io ad aver bisogno di aiuto. Penso che Nostro Signore si prenda cura di noi nella stessa misura in cui noi ci prendiamo cura degli altri: aiutare il prossimo ci arricchisce interiormente e ci avvicina sempre di più sulla strada che porta a Lui.

DAR DA BERE AGLI ASSETATI

Suor Benedetta (Piccole Suore di S. Teresa di Gesù Bambino) - Vengo dal Kenya, dal distretto di Embu: nel luogo dove sono nata c’è scarsità di acqua. Si tratta di una zona semi-arida e quindi dipendiamo molto dall’acqua piovana. Quando ero piccola ricordo che andavo anch’io alla diga con gli altri bambini a prendere l’acqua e per questo camminavamo più di 7 chilometri. A volte andavamo prima della scuola, perché a periodi andavamo a lezione alle 13: di mattina andavo a prendere l’acqua e al pomeriggio andavo a scuola. In quegli anni potevamo fare la doccia due volte alla settimana: sabato e domenica. Gli altri giorni si lavava solo la faccia e le gambe. I vestiti si lavavano solo al fine settimana, per cui ci portavamo tutti gli indumenti sporchi e li lavavamo nella diga. Quando non pioveva per molto tempo, anche la diga si seccava, così che la distanza per andare a prendere acqua aumentava. A volte ci toccava condividere il poco di acqua che avevamo con gli animali, specialmente quelli piccoli e malati. I miei fratelli e sorelle maggiori, insieme ai loro compagni della stessa età, uscivano di casa sull’una di notte per cercare acqua e ritornavano sulle 4 o le 5 di mattina, pronti per andare a scuola. Anche se l’acqua per la mia famiglia scarseggiava, quando veniva un’altra mamma a chiederne un po’ per cucinare, mia madre gliene dava; questo significava che dovevamo sacrificarci di più e la stessa cosa succedeva a tutte le famiglie: così abbiamo imparato a condividere. La nostra casa è vicino alla strada e molte volte i passanti venivano a chiederci acqua: mia mamma ne lasciava un po’ a parte per quelli che arrivavano e cercavano acqua. Se non avesse fatto così, alla fine del giorno, avremmo potuto rimanere anche senza mangiare. Ringrazio il Signore perché oggi la situazione è migliorata e non bisogna più andare lontano a cercare l’acqua.

VESTIRE GLI IGNUDI

Angela (Lugo) - Da diverso tempo, al sabato pomeriggio, alla distribuzione degli abiti usati alle persone in difficoltà economiche: italiani ed extra comunitari. Il “negozietto” - così noi lo chiamiamo - è un’opera della San Vincenzo ed è diventato, per grazia, un notevole punto di raccolta. È aperto 3 giorni la settimana e sempre più persone della città portano abiti, giocattoli, scarpe, borse. Il sabato pomeriggio è un momento nel quale potrei concentrare nella mia casa vari lavori domestici visto che lavoro tutta la settimana. Qualcosa però mi accade: spesso mi succede di ridecidere sul dover andare e ogni volta, presa da un’attrattiva, vado. Qual è per me questa attrattiva? Quando arrivo, prima di tutto, incontro lo sguardo della Maddalena, dell’Anna, di Cristian e per alcuni istanti fra di noi, prima della distribuzione, c’è un chiederci di come siamo stati nei sette giorni che ci hanno separato. In quegli attimi si mettono in comune oltre ai saluti, domande e dubbi sull’attività di volontariato, può succedere anche di chiedere qualche consiglio personale… ed anche conforto. Tutti riconosciamo che quel luogo serve soprattutto alle nostre persone. Veniamo poi a contatto con delle persone dalle quali c’è molto da imparare come ad esempio la pazienza e l’attesa. C’è chi ha pazienza di passare al negozio più volte per vedere se è arrivato quello che cercava. Io domando a Gesù che quella pazienza e quell’attesa diventino anche mie, necessarie alla mia conversione. Oppure davanti alla giovane coppia dove lei aspetta un figlio e non hanno un letto su cui dormire, sperimento il mio limite e la mia incapacità ad andare incontro al loro bisogno e non posso fare altro che dire una preghiera che scaturisce dal guardare chi sta lì con me.

ALLOGGIARE I PELLEGRINI

Don Francesco Bonello (Parroco di Fontanelice) - Nei primi anni della mia permanenza a Bagnara di Romagna, una sera, mentre ero in casa, ha bussato alla porta uno sconosciuto, inviatomi da un confratello non ben disposto nei suoi confronti. L’ho fatto entrare e ho ascoltato pazientemente la sua dolorosa storia. Era uscito dal carcere da alcune settimane, dopo che aveva scontato la sua condanna, ma, visti i suoi precedenti, nessuno era più disposto a offrirgli un posto di lavoro e si trovava in grande difficoltà, avendo anche un bambino di circa 10 anni da crescere. Avevo ancora i genitori con me e mia mamma, sempre attenta alle persone bisognose, gli ha preparato la cena e poi gli ha dato una sportina piena di viveri da portarsi a casa per lui e per il suo bambino. Veniva da Ancona, era arrivato a Solarolo ed era venuto a piedi fino a casa mia (presso il Santuario della Beata Vergine del Soccorso) comprensibilmente amareggiato per tanti rifiuti ricevuti… Terminata la cena, l’ho accompagnato in macchina fino alla stazione di Solarolo, gli ho pagato il biglietto del treno per Ancona e gli ho dato qualche soldino per le sue necessità più urgenti. Passate alcune settimane me lo son visto tornare con il suo bambino. Subito ho pensato che venisse a chiedermi altri soldi, ma, quale non è stata la mia sorpresa, quando mi ha riferito di essere venuto a dirmi che aveva trovato lavoro presso una falegnameria e che sentiva il dovere di manifestare la sua gratitudine e far conoscere a me e a mia mamma il suo bambino!

Don Francesco Bonello (Parroco di Fontanelice) - Era il mese di novembre di qualche anno fa (2012), al termine di una giornata piovosa e fredda, ha bussato alla mia porta un immigrato, bagnato fradicio e infreddolito; mi chiedeva qualcosa da mangiare e una coperta per coprirsi la notte: mi è parso di vedere in lui il volto sofferente di Cristo! L’ho fatto entrare, ho ascoltato la sua storia: era senza famiglia, clandestino, senza documenti, senza casa, senza lavoro… Mi ha detto che passava la notte presso la stazione di S. Agata sul Santerno, sotto una tettoia, riparato da qualche cartone e che non riusciva a dormire per il freddo e la fame. Era venuto a piedi, sotto la pioggia, chiedendo inutilmente aiuto lungo la strada a persone che sperava gli aprissero la porta, ma che invece si rifiutavano di dargli qualsiasi forma di aiuto. L’ho accolto in casa, gli ho dato qualcosa da mangiare, gli ho detto che l’avrei accompagnato in macchina al suo giaciglio per evitargli almeno altra pioggia e anche per rendermi conto di persona di dove dormiva. Quando ho visto con i miei occhi la realtà, mi sono commosso, gli ho chiesto quanto costava passare la notte in albergo e mi ha detto che ci volevano 25 euro la notte. L’ho fatto risalire in macchina e gli ho pagato il corrispettivo di 10 notti in albergo con l’impegno che nel frattempo avremmo cercato un modo per risolvere la sua situazione. Dopo qualche giorno si è presentata la possibilità di lavorare presso un signore che stava ristrutturando la casa. Ha subito accettato il lavoro, che è durato oltre un mese, ed essendo vicino alla canonica, per tutto quel periodo è venuto a pranzo da me. Nel frattempo ha cominciato la pratica per procurarsi i documenti, uscire dalla clandestinità e cercare lavoro presso qualche impresa. È stato un percorso durissimo, lungo e molto costoso sia per motivi burocratici, sia per sanzioni che aveva accumulato nel suo paese di origine e in Italia, a causa di comportamenti inconsulti con i suoi connazionali e con le forze dell’ordine, in seguito alle ubriacature di birra e alla tensione nervosa, seguita alla perdita dei suoi genitori… Dopo anni di sacrifici da parte sua e mia e con l’aiuto economico di altre persone, ora sembra finalmente sistemato: ha il passaporto, il permesso di soggiorno, lavora, ha acquistato una macchina d’occasione per recarsi al lavoro, vive in un mini appartamento e si paga l’affitto.

Paola (Missionaria della Comunità Missionaria di Villaregia) – Cosa ha significato per noi missionari vivere l’opera di misericordia “alloggiare i pellegrini”? Tre anni fa, abbiamo cominciato ad accogliere nella nostra casa madre in provincia di Rovigo, per qualche giorno, giovani immigrati di passaggio, su richiesta delle forze dell’ordine locali che avevano bisogno di un posto in cui far dormire i malcapitati. Questa nuova esperienza e lo studio della Evangelii Gaudium di Papa Francesco, fatto insieme ad un gruppo di giovani studenti, ci ha portato a concretizzare questa opera di misericordia facendo visita ai centri di accoglienza del territorio per offrire qualche servizio di traduzione e insegnamento della lingua italiana. In questo modo però facemmo pure la triste scoperta di quanta speculazione avveniva alle spalle degli immigrati, da parte di albergatori che ristrutturavano i loro alberghi ma non si preoccupavano minimamente della salute né dell’integrazione degli stranieri a loro affidati. Ci siamo chiesti allora cosa potevamo fare per rispondere a questa emergenza in modo più umano e cristiano. Così alcune delle nostre comunità hanno iniziato ad accogliere stabilmente qualche decina di immigrati o a collaborare con le Caritas locali. Qui a Imola, pur non avendo strutture adeguate per fare accoglienza stabile abbiamo cominciato a prendere i contatti con i centri di accoglienza del territorio e a pensare a quale tipo di collaborazione dare insieme ai nostri gruppi missionari. Abbiamo capito che non basta fare qualche visita, o qualche corso di lingua, ma che occorre favorire l’incontro con la gente e la conoscenza reciproca. Così abbiamo organizzato un capodanno alternativo, al quale hanno partecipato un centinaio di persone, tra cui anche una quarantina di ragazzi immigrati che ci hanno fatto gustare alcuni piatti tipici dei loro paesi, permettendo loro di esprimersi valorizzando i loro talenti. Abbiamo portato la testimonianza di questi ragazzi anche in qualche assemblea d’istituto di alcune scuole di Imola. In altre occasioni il nostro centro missionario di via Turati è diventato luogo di incontro tra giovani immigrati dei centri di prima accoglienza locali e le persone che ci frequentano. Domenica scorsa abbiamo organizzato una partita di calcio con una trentina di giovani dei centri di accoglienza di Casalfiumanese e di Castel Bolognese, conclusasi con una cena a base di pizza e qualche danza africana. Alla fine della serata qualcuno di loro ci ha espresso la gioia di essere uscito dal centro, dove si passano tante ore senza fare nulla, per conoscere giovani di altri centri, per passare qualche ora in compagnia di altre persone, per condividere le proprie storie. Storie di viaggi che iniziano dal desiderio di una

vita migliore fuori del proprio paese segnati purtroppo, schiavitù, di fame e di sfruttamento per terminare con la morte in mare o, nel migliore dei casi con l’arrivo in Europa dove inizia un lungo periodo di attesa del permesso di soggiorno, col timore, ogni giorno rinnovato, di essere rimpatriato. Non è facile per loro raccontare cosa hanno vissuto perché si riapre una ferita, i ricordi di quanto hanno sofferto nel deserto, o nelle carceri libiche o in mare, sono ancora vivi e bruciano. Mentre si conversa insieme viene spontaneo chiedere “da dove vieni, chi hai lasciato al tuo paese?”. Purtroppo la risposta si ripete molte volte: “i miei genitori sono stati uccisi, la mia fapiù…”. Non si ha più il coraggio di chiedere perché ogni parola di risposta suscita ricordi che fanno male. Ci dobbiamo chiedere chi ha più paura, noi di loro perché sono diversi o loro di noi perché non sanno cos’altro gli potrà capitare? Questi momenti di incontro si sono rivelati occasioni preziose per conoscersi e per aiutare qualche famiglia a prendere la decisione di accogliere giovani immigrati che, dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno, non hanno più il sostegno del centro di accoglienza e devono cercarsi un lavoro e un alloggio entro poche settimane. Così una coppia, con 4 figli ne ha presi in casa due e un’altra con tre figli ne ha accolto uno. Spesso chi ha “già dato”, si può dire, riesce a fare ancora spazio. Accogliere i pellegrini è farsi prossimo, come quel samaritano che si chinò sul malcapitato e se ne fece carico, senza calcolare a che razza o a che religione appartenesse. E’ riconoscere nei volti di tanti immigrati il volto di Gesù che ti dice: “ero forestiero e mi hai ospitato”.

dall’esperienza di schiavitù, di fame e di sfruttamento per terminare con la morte in mare o, nel

opa dove inizia un lungo periodo di attesa del permesso di soggiorno, col timore, ogni giorno rinnovato, di essere

Non è facile per loro raccontare cosa hanno vissuto perché si riapre una ferita, o nelle carceri libiche o in mare,

sono ancora vivi e bruciano. Mentre si conversa insieme viene spontaneo chiedere “da dove vieni, chi hai lasciato al tuo paese?”. Purtroppo la risposta si ripete molte volte: “i miei genitori sono stati uccisi, la mia famiglia non c’è più…”. Non si ha più il coraggio di chiedere perché ogni parola di risposta suscita ricordi che fanno male. Ci dobbiamo chiedere chi ha più paura, noi di loro perché sono diversi o loro di noi perché non sanno cos’altro gli potrà

uesti momenti di incontro si sono rivelati occasioni preziose per conoscersi e per aiutare qualche famiglia a prendere la decisione di accogliere giovani immigrati che, dopo aver ricevuto il permesso di soggiorno, non hanno più il

coglienza e devono cercarsi un lavoro e un alloggio entro poche settimane. Così una coppia, con 4 figli ne ha presi in casa due e un’altra con tre figli ne ha accolto uno. Spesso chi ha “già dato”, si può dire,

legrini è farsi prossimo, come quel samaritano che si chinò sul malcapitato e se ne fece carico, senza calcolare a che razza o a che religione appartenesse. E’ riconoscere nei volti di tanti immigrati il volto di Gesù che ti

Federica e Carlo (Sposi della Comunità Missionaria di Villaregia) - Era già un po’ di tempo che il dramma dei migranti in fuga da guerre e povertà e le sollecitazioni di Papa Francesco sul dovere dell’accoglienza ci provocavano e ci questionavano. Eravamo pieni di perplessità soprattutto per questioni logistiche. Non abbiamo una camera per gli ospiti, non abitiamo troppo vicini ai mezzi pubblici, questo ci faceva ritardare nel prendere una decisione. Ne discutevano coi nostri figli: che spazi loro erano disposti a “sacrificare”? Filippo il nostro figlio maggiore ci diceva “Se almeno lo conoscessimo, potrei anche condividere la mia stanza”. E tutto rimaneva da decidere. La scossa definitiva ci è stata data quando si è avvicinata la fine dell’emergenza freddo (nella nostra città Bologna il comune offre la possibilità ai rifugiati con già il permesso di soggiorno di poter rimanere nelle strutture fino al 31 marzo, ma dal 1° aprile questi sarebbero rimasti in strada). Tra loro c’era anche Oumar, che Filippo aveva conosciuto durante l’organizzazione del Capodanno organizzato con la Comunità di Imola. Una sera dopo Messa Giovanni Vai, uno sposato della Comunità che tiene i contatti con la Caritas, ci disse che Oumar e altri ragazzi sarebbero usciti a breve dal centro di accoglienza. Senza pensarci troppo siamo rientrati a casa e abbiamo parlato con i nostri tre figli. Abbiamo detto loro che non potevamo non ascoltare questa richiesta di aiuto. Del resto qualcuno di quei ragazzi li avevamo conosciuti al capodanno, in quell’occasione avevamo potuto dare un nome a dei volti. In breve tempo abbiamo dato inizio a questa nuova avventura. Abbiamo così aderito al Progetto di Caritas italiana “Un rifugiato a casa mia”. Il 17 marzo Oumar, originario della Guinea Conacry, 19 anni, è arrivato a casa nostra. Abbiamo fatto spazio, sia fisicamente che nelle relazioni, a questo ragazzo, che accompagneremo per almeno sei mesi, perché possa integrarsi nella nostra realtà e possa rendersi autonomo. Ci siamo messi in gioco; la convivenza non è sempre semplice e immediata, ma abbiamo compreso e stiamo sperimentando che questa è per noi è per i nostri figli un’opportunità per aprire il nostro cuore e la nostra mente, e anche per essere un segno, nel nostro piccolo, nei confronti di una società che, di fronte alla realtà dei migranti, sembra dominata dalla paura e dallo smarrimento. Per quanto ci riguarda il cammino è appena iniziato. Ci sentiamo davvero grati nei confronti del Signore che ci offre questa opportunità proprio in questo anno giubilare della misericordia.

VISITARE GLI INFERMI

Marisa (Riolo Terme) - Da tre anni insieme ad Anna, Carmela e Maria Pia, una volta alla settimana, vado a pregare insieme agli anziani, il lunedì a Villa Bella e il Venerdì a Villa Linda. È un’esperienza bellissima perché puoi dare l’opportunità anche a chi è in queste condizioni di sentirsi parte viva ed utile alla Comunità. Ogni giorno che passa cresce sempre di più, in me, questo desiderio di donarsi agli altri e ringrazio veramente tanto Don Marino e Don Matteo che mi hanno dato questa opportunità. Da subito, ho conosciuto Iolanda… il primo impatto è stato quello di vedere una persona triste. In seguito, mi ha confidato che era rimasta completamente sola e che si è dovuta trasferire a Villa Bella per essere accudita. Tra di noi si è creata un’amicizia che va oltre… Ogni volta che la vado a trovare condividiamo la nostra vita con le gioie e le sofferenze. Negli atti degli Apostoli troviamo scritto “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” infatti, ricevo molto di più di quello che dò! Signore Gesù fa che io non corra per cose inutili ma che vada piano per vedere il Tuo volto nel fratello che soffre moralmente e fisicamente per ascoltarlo e consolarlo.

Katiuscia (Riolo Terme) - Sono infermiera dal 1992. Ai tempi non scelsi di seguire quel triennio professionale perché non era un mio sogno fin da piccola come altre mie colleghe, ma piuttosto un fuggire da una scuola superiore (Istituto Magistrale) che mi stava stretta e che avevo scelto per seguire alcune amiche e per avere una prospettiva di lavoro sicuro. Fin da subito mi piacque la tipologia di studi e non mi spaventavano le difficoltà: già a 17 anni mi ritrovai in un reparto geriatrico a medicare piaghe da decubito che oggi per fortuna si vedono solo su qualche libro specialistico. Conseguito il diploma, ho avuto non poche difficoltà a trovare un posto fisso, il boom delle assunzioni finì proprio poco tempo prima, quindi mi ritrovai ad accettare ogni incarico che mi si presentava, anche a km. di distanza da casa, costringendomi a una situazione pendolare. Esiste un “prima” e un “dopo” nella mia vita professionale... e non solo. Prima.... Ho toccato diverse realtà che hanno contribuito ad arricchire non poco il mio bagaglio di esperienze, reparti di emergenza, terapia intensiva, chirurgie, reparti specialistici, case di riposo, fino a capitare per caso all'assistenza domiciliare, dove sono ancora oggi dopo 10 anni. Dico “capitare per caso” perché inizialmente non ero molto felice del mio nuovo incarico, uscire dalla stabilità dell'organizzazione di un reparto, con tutto ciò che serve a portata di mano, per finire in una struttura operativa in cui l'organizzazione dell'attività sarebbe dipesa tutta da me, mi spaventava parecchio. Non mi ero resa conto della grazia che avevo ricevuto... intanto ero a due passi da casa! Ho realizzato subito che nell'ambiente ospedaliero, si viene a contatto solo con una parte dell'infermità della persona colpita da malattia. Ancora più oggi, in cui l'economia e la crisi riducono le prestazioni erogate, dispositivi e farmaci; a volte non c'è nemmeno il tempo di concedere uno sguardo in più al malato, tanto si è costretti a correre. Mi sono fatta un'idea dell'infermità diversa rispetto a quella che avevo incontrato nei reparti ospedalieri. L'infermo non è solo colui che vive sulla propria persona un alterazione del suo stato di salute, non esiste solo una persona inferma. Cambiando prospettiva ho avuto modo di realizzare che esiste piuttosto una famiglia inferma, quella vicino alla persona malata. Malattie gravi improvvise mettono a dura prova le diverse realtà familiari, fino a mettere in ginocchio ogni componente della famiglia. Queste sono vere e

proprie croci pesanti da accettare, e queste persone dimostrano di avere bisogno di aiuto, anche senza chiederlo espressamente. Così spesso mi sono ritrovata ad assistere non solo la persona malata, ma l'intera sfera familiare. L'assistenza domiciliare non è come quella ospedaliera, dove la persona colpita si reca e vive un periodo più o meno lungo, con orari scanditi e ritmi che non corrispondono alle proprie abitudini, rendendo ancora più difficile la degenza. Nell'ospedale è la persona che vi si reca per ricevere cure. A casa invece è tutto il contrario, è l'infermiere che entra nelle case e spesso non è un processo facile. Un infermiere a domicilio entra nell'intimità delle mura familiari, non sempre la realtà viene automaticamente accettata, entra in gioco la fiducia reciproca, e spesso le abitudini familiari vengono stravolte per poter applicare meglio le cure necessarie. La sfera familiare non ha un porta da sfondare, ma un portone pesante che viene aperto gradualmente accompagnandolo da entrambe le parti; si entra in “punta di piedi” per non rischiare di calpestare un equilibrio già molto fragile. Non sempre il mio lavoro si esaurisce con una prestazione ben eseguita, ma si completa con l'ascolto. Raccogliere dubbi, perplessità, sfoghi, rabbia, sorrisi, ma anche lacrime.... succede ogni giorno! Una ferita guarisce con una buona medicazione, ma la famiglia inferma migliora con l'ascolto e il conforto. Dà più beneficio un gesto o una parola detta con il cuore che una flebo messa frettolosamente e in silenzio. Ho sempre cercato per professionalità di compiere al meglio il mio lavoro, ma non mi sono resa conto, finché non mi è stato dimostrato, che mancava un dettaglio importante. ...apro una parentesi... Provengo da una famiglia “credente-non-praticante”, ho frequentato il catechismo e ho ricevuto i Sacramenti perché si dovevano fare, non per il loro vero significato. Sono stata comunque fortunata perché almeno mi è stata data la possibilità di riceverli (oggi conosco persone che temporeggiano e non battezzano nemmeno i figli, pensando che poi “lo faranno quando saranno grandi a loro scelta”). Però come tanti altri adolescenti, dopo la S. Cresima ho mollato buona parte del mio cammino, riservando solo qualche “passo” per poche festività solenni. Nel 1999 ho incontrato quello che solo da pochi anni è mio marito: abbiamo convissuto circa 11 anni e ricevuto in dono due figli.

...dopo Per la convinzione che comunque frequentare la comunità era una buona cosa e che ai figli bisogna dare il buon esempio per primi (...non si può pretendere di far accettare le cinture di sicurezza ai bambini in auto se per prima non le mettiamo noi...), piano piano abbiamo ripreso a piccolissimi passi il cammino che avevo lasciato da ragazzina, per poi finire ad un pellegrinaggio a Medjugorje, quasi per caso, nel capodanno 2013. Lì la conversione e 5 mesi dopo, il 26 maggio il Matrimonio. Cosa c'entra tutto questo con l'opera di misericordia “visitare gli infermi”? E' bastata una semplice frase di Paolo, un amico, a farmi capire quanto era importante il mio lavoro e come lo era, se fatto al meglio. Eravamo in fila davanti al “Gesù risorto”, una statua in bronzo molto grande del Crocifisso, dal cui ginocchio trasuda in maniera irregolare e ancora inspiegabile una goccia di acqua. Molti pellegrini si mettono in fila per vedere il fenomeno e per cogliere la goccia, chi facendosi un segno di croce, chi portandola in un fazzolettino a persone care. Nonostante i cartelli che chiedevano in più lingue il silenzio e il rispetto per chi pregava, in quel momento c'era molta confusione, quasi fosse un mercato; si era perso un po' il vero senso del pellegrinaggio, troppe persone a caccia di segni da esibire, per cui mi ero innervosita un po' e me ne volevo andare. Paolo mi ha preso sottobraccio e mi ha detto: “andiamo e torniamo in un altro momento, tanto tu, le ginocchia ferite di Gesù non le tocchi tutti i giorni sul tuo lavoro?” Non ci avevo mai pensato... eppure era così evidente! Quante volte mi ripassa in mente il brano del Vangelo di Marco “...In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” Sembra scontato, ma non lo è. E Gesù aiuta veramente a portare la croce se gliene si dà la possibilità. Anche se il lavoro a volte è pesante e spesso faccio più ore di quelle che dovrei, cerco di ripetermi il brano di Marco… la fatica sembra diminuire e un sorriso rimane a disposizione per tutti. Mi sono assegnata un impegno personale: far capire ai familiari di una persona morente che l'Unzione degli infermi non è cosa di cui avere paura e che, anche se non si crede, molte persone traggono sollievo nell'incontro con un sacerdote nelle loro ultime ore di vita.

Guido (Riolo Terme) - Quando mi fu proposto di fare il Ministro straordinario della Comunione non mi sentivo per niente all'altezza, ma ora che ne sto facendo esperienza, la domenica che è il giorno in cui faccio questo servizio alla chiesa, è diventato per me un giorno speciale molto più di prima. Voglio raccontarvi questa mia piccola esperienza che mi ha toccato moltissimo e mi ha aiutato a svolgere meglio questo servizio... Un giorno vedo una persona molto anziana rifugiarsi sotto un albero per ripararsi da una pioggia improvvisa: sono subito corso a prendere la macchina che avevo parcheggiato poco lontano, mi accosto a lui per offrirgli un passaggio fino a casa sua ma non voleva salire per non darmi troppo disturbo. Sono riuscito a convincerlo, è salito, mi sono fatto dire dove abitava e l'ho portato fino alla porta della sua abitazione a circa un km. di distanza: non finiva più di ringraziarmi poiché era meravigliato di questa mia attenzione per lui. A me sembrava di aver fatto un'azione talmente ovvia! Dopo questo episodio ogni volta che mi incontrava per strada mi salutava con un bel sorriso: avevo trovato un nuovo amico! E' passato più di un anno da quell'incontro... Una domenica mentre stavo portando Gesù Eucarestia a persone anziane o ammalate, che non possono partecipare alla Messa festiva, ho incontrato quel mio nuovo amico che stava parlando con una persona. Appena mi ha visto, mi ha salutato e indicandomi ha detto: “Questo signore ogni volta che lo incontro, lo vedo sempre più bello!” e le ha raccontato l'episodio della pioggia. Io sono rimasto molto colpito da queste parole - ma non era uno scherzo - lo diceva sul serio! Lo si vedeva bene dal suo volto anche se a me sembrava nuovamente di avere fatto così poco per lui. Ho proseguito il mio cammino meditando, ho pensato a quello che avevo sentito dire... che una veggente della Madonna di Medjugorje aveva detto ai pellegrini che più amiamo, più diventiamo belli. Ma poi mi sono venute in mente le parole di Gesù che ha detto: “Ogni cosa che avete fatto ad uno dei più piccoli dei miei fratelli l'avete fatto a me”. Queste parole del Vangelo le avevo già sentite tante volte ma in questa occasione sembravano dette personalmente a me e sono stato invaso da una grande gioia... veramente non avevo mai provato una sensazione così bella e ho pensato che Gesù, presente in quella persona a cui avevo dato un piccolo aiuto, mi aveva fatto una carezza per farmi capire che amando il prossimo chiunque esso sia, amiamo Lui Gesù. Allora mi sono detto che non dovevo più perdere nessuna occasione di aiutare chi ha bisogno di me perché è Gesù stesso che me lo chiede. Da quel giorno cerco e mi sforzo di vedere Gesù in tutti specialmente nelle persone a cui porto la comunione: sento di amarle perché incontro in loro un Gesù

sofferente e con loro, si è instaurato un rapporto di amicizia. Quando mi vedono arrivare “sboccia” nel loro volto un bel sorriso e ci accogliamo con gioia consapevoli che abbiamo la presenza di Gesù Eucarestia con noi. Dopo avere dato loro l'Ostia santa ed avere pregato insieme, ci salutiamo sempre con un abbraccio. Ringrazio tanto il Signore ma anche il mio parroco don Marino che mi ha dato questa opportunità e devo dire che è la cosa più bella che faccio nella mia vecchiaia... chissà quante volte il Signore ci passa accanto, ci parla e non ce ne accorgiamo perché siamo troppo distratti e indaffarati.

VISITARE I CARCERATI

● Chi è il carcerato?

1. Il carcerato è un essere umano che ha sbagliato il modo di vivere i rapporti sociali, a volte gravemente, ma che resta un uomo pienamente degno di questo nome; è, e resta, una persona con problemi, spesso cronicizzati e aggravati dalle sue vicende personali, ma internamente ancora capace di bene. 2. Il carcerato è un povero, che ha bisogno di tutto, soprattutto sul piano materiale ed è abituato a chiedere oggetti o favori; soprattutto abbisogna di aiuto e sostegno sul piano spirituale, anche se spesso nemmeno lo sa (a volte per ragioni dipendenti dal suo passato remoto).

3. Il carcerato resta dunque soggetto di speranza e recupero interiore; non ha bisogno di ascoltare “prediche” o “paternali” o discorsi asetticamente burocratici. Egli ha soprattutto bisogno di qualcuno che si metta al suo fianco per non farlo sentire solo nei momenti difficili della sua storia personale, qualcuno su cui egli possa contare e che sia disposto a condividere ogni suo problema, ad ascoltarlo e suggerire (forse) soluzioni diverse. ● Chi si occupa di lui… - Deve sapere chi è e che cosa muove un carcerato, quella precisa persona che ha di fronte, non uno qualsiasi creato artificialmente nella propria mente. - Deve non dimenticare mai che quell'uomo è in carcere perché comunque ha commesso dei reati e soprattutto è arrivato a quel percorso di vita per alcune deviazioni comportamentali che hanno costituito danno al tessuto sociale e alle persone. - Deve restare coi piedi per terra ed attenersi ai fatti; quell'uomo è lì per delle ragioni oggettive (anche se a volte può essere vittima davvero di un errore giudiziario); perciò ha bisogno di rielaborarle - processo doloroso -, e soprattutto resta un essere umano. Perciò: ascolto, comprensione, qualche favore ma null'altro; si parte da quella situazione e si va avanti con carità. - Deve prepararsi alla sconfitta dei propri obiettivi ed al fallimento delle proprie giuste speranze, accettando qualsiasi risultato come già “buono”. - Deve prepararsi al dolore perché ripercorrere i suoi errori vuol dire rivivere i propri e quindi rimettersi in discussione. - Deve pregare per lui/loro ricordando che noi, alla fin fine, siamo “servi inutili”; noi possiamo soltanto “seminare”: il resto del “viaggio” lo fa' con Gesù. ● Luigi (Modena) - Da questa opera di misericordia mi sono tenuto alla larga per tantissimo tempo, per molteplici ragioni, nonostante il RnS di Modena la pratichi da tanti anni e nonostante l’invito a più riprese a parteciparvi. Finalmente - quando al Signore è piaciuto coinvolgermi - ho acconsentito. E' accaduto che, per realizzare il progetto Sicomoro nel carcere di Modena, servisse la testimonianza di una persona che avesse subìto una truffa. Era il mio caso e Francesco mi ha interpellato; io, senza nemmeno sapere di che cosa si trattasse, ho accettato e mi sono ritrovato a contatto e alla presenza di alcuni detenuti, fra i quali un paio autori di truffe. L'obiettivo di fondo del “Progetto Sicomoro” è quello di mettere a contatto, in una serie di incontri, alcuni detenuti con persone che hanno subìto dei reati

(qualunque genere di reato, purché attinente alle colpe dei detenuti selezionati). Negli incontri (generalmente otto) ciascuno dei partecipanti, vittime e carnefici, raccontano le proprie vicende e ciascuno può interloquire, contestare, accettare, compartecipare e/o reagire come si sente di fare. Il tutto, naturalmente, nel rispetto delle persone che si hanno di fronte e restando dentro le regole di comportamento dettate dal regime carcerario. Ciò che si dice nel contesto degli incontri resta all'interno del gruppo (fosse anche la confessione di un omicidio) e ciò è garanzia di massima libertà di espressione. Questa completa sincerità è la fonte di tanti risultati positivi; non solo i carnefici capiscono le conseguenze del loro reato, ma anche le vittime si liberano da rancori stratificati nell'anima, comprendono la fragilità dei carnefici, e scoprendoli uomini. Queste loro “povertà”, sia di detenuti sia di vittime, assumono un valore che li riabilita e consente di intravvedere in loro ciò che vi ha visto Gesù: così nasce l'amore per queste persone - che sono e rimangono autori di reati -, e nasce l'amore per le loro vittime, nasce il desiderio di rimediare, in qualche modo al male fatto. Penso che il fondamento di questa comprensione umana sta nella capacità di mettersi a nudo di fronte a dei fratelli sconosciuti, fidando nella loro umanità; questo è il vero azzardo: fidarsi di chi ha commesso dei reati anche gravi, con la certezza che anche lì c'è il Signore, che c'è ancora una speranza, una possibilità di recupero, forse con modalità sconosciute. Non è soltanto un fatto emotivo, ma una vera azione di grazia, dove Gesù si fa presente e sparge la reciproca comprensione, con tutto ciò che ne consegue. La mia partecipazione al “Progetto Sicomoro” tenuto a Modena, è dunque nata per caso (ma io ci vedo la manina santa di chi mi ama!), per l'esigenza estemporanea di avere nel gruppo un testimone vittima di una truffa. Questo grave evento, che ha distrutto la mia serenità economica, e la tranquillità della mia vita familiare è accaduto molti anni fa (almeno 15) ed io l'avevo rielaborato nell'intimo - o almeno così credevo - trovando nella preghiera la forza di andare avanti e di perdonare. Ho scoperto che non era così. Nel momento di raccontare che cosa mi era accaduto, il male che era ancora dentro di me, il rancore, il dolore che credevo di avere superato e… perdonato, è riemerso in tutta la sua drammaticità e ha fatto crollare tutte le barriere che avevo eretto a difesa della mia sopravvivenza. Non era certamente un fatto da quattro soldi: si trattò di perdere tutto ciò che avevo onestamente accumulato in una vita di lavoro ad un'età in cui si comincia a pensare alla pensione! E, ciò che è grave, questa situazione

coinvolse anche il tenore di vita della mia famiglia. Qualcosa, o forse è meglio dire Qualcuno, mi indusse a raccontare tutto questo nella sua drammaticità umana e nello sconvolgimento pratico che ne conseguì. Ne risultò una relazione piena di lacrime trattenute a stento, singhiozzi e sospiri, che resero il racconto un vero supplizio, almeno per me. Non ero, né sono, abituato a queste condivisioni, a queste intrusioni nel mio intimo, eppure accadde esattamente così. L'effetto di questa mia “nudità sincera” fu di ottenere attenzione, partecipazione, condivisione da parte di tutti i presenti; essi colsero la mia fatica di essere sincero e me ne furono grati (ma questo lo capisco oggi!), e me lo manifestarono con dimostrazioni di affetto. Man mano che procedevano gli incontri, questa necessità di essere totalmente e apertamente sinceri condizionò le testimonianze di tutti gli altri con le relative conseguenze. Tutti i detenuti capirono che noi testimoni eravamo decisamente addolorati e stavamo rivivendo per loro il nostro dolore; ciò fu fonte di vero coinvolgimento delle persone presenti, che non erano più chiuse dentro ruoli prefabbricati, ma erano sincere, veri cuori affranti in mano a degli estranei. Non tutti i presenti riuscirono in questa opera di sincera e totale spogliazione, ma intanto qualcuno lo fece ed i risultati furono immediati. Ricordo in particolare Giovanni che un mattino, nel terzo incontro, quando doveva leggere la sua testimonianza, cominciò a singhiozzare e a chiudersi in sé perché si vergognava di quello che aveva da raccontare dei suoi trascorsi. Seduto, testa bassa, gonfio di pianto, non riusciva più ad andare avanti; compresi il suo dramma, perché l'avevo vissuto anch'io pochi giorni prima. Allora gli andai vicino e lo abbracciai ed entrambi scoppiammo in lacrime l'uno nelle braccia dell'altro. Il responsabile degli incontri chiamò tutti attorno a noi due per pregare su di noi... e fu un torrente di grazia; nessuno più fu quello di prima, nessuno più fu un singolo isolato, ma tutti furono un unicum in cui ciascuno era parte dell'altro (Gv. “...ut unum sint”). E questo fu un risultato duraturo, perché quando sperimenti l'amore non sei più quello di prima. Io fui davvero liberato dalle mie angosce relative alla carenza di denaro: ed è questo, un dono grande dovuto al mio donarmi totalmente all'altro senza pensare a me stesso. Giovanni ebbe una profonda conversione (che noi non percepimmo lì per lì), ma che fu vera, profonda, intima e - mi risulta - duratura. Dopo quei fatti si vedeva un altro Giovanni. Il cappellano del carcere (non era presente al fatto) ci vedeva con occhio critico, pensava che fosse un fatto emotivo e dunque passeggero invece, qualche giorno dopo, ci parlò e ci chiese scusa per la sua diffidenza, affermando che mai aveva assistito ad una confessione così

profonda, così coinvolgente così totale come quella di Giovanni (noi riteniamo che questo sia stato un vero miracolo). ● Dal sito Prison Fellowship… - Eddy, giovane carcerato, così descrive quanto accade nel corso degli incontri: “Se io ho spezzato il ramo di un albero, questo rimarrà spezzato. Nessuno potrà cancellare quel danno. Però io posso iniziare ad innaffiare quella pianta e, anche se rimarrà quella ferita, chissà quanti altri rami, fiori cresceranno e magari anche i frutti! Mi succede come diceva Newton AZIONE E REAZIONE. Se io cammino sorridendo a chi mi viene incontro (azione), quello vedendo il mio sorriso mi sorriderà a sua volta (reazione)”. - Tra le vittime del Progetto Sicomoro che si è svolto al Carcere di Opera (Milano) c’è anche Pina, una donna forte e piagata. Il suo unico figlio si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato. Lo hanno ucciso con 8 coltellate perché l’omicida aveva finito i proiettili. È morto dissanguato. Lei non si dà pace pensando a quanto deve avere sofferto. Dieci mesi dopo il marito muore, ufficialmente per un cancro fulminante. Lei dice: “È morto di dolore”. Durante una sessione del Progetto Pina aveva detto: “Preferirei venire a trovare mio figlio qui in carcere pur di poterlo toccare” e nel dirlo aveva poggiato la sua mano sul braccio del ragazzo omicida che aveva accanto. La settimana successiva lui le si siede vicino. È lo stesso che la prima volta ha detto che se avesse potuto avrebbe dato la sua vita per riparare al crimine commesso. Si è offerto di donare il midollo osseo, un rene, qualunque organo, anche solo il sangue. Non ha potuto donare nulla, a causa del regolamento penitenziario. Deve esserselo portato dentro tutta la settimana quel tocco! Verso la fine dell’incontro chiede la parola: “Avrei voluto dirlo già la settimana scorsa. Pina, se vuoi toccare un figlio, io vorrei essere quel figlio; e se tu volessi venire a trovarmi anche dopo, io potrei chiedere ai miei genitori di non venire, perché possa farlo tu” e mentre parla poggia la sua mano timidamente, goffamente sul braccio di Pina. Il sorriso silenzioso di Pina è un inno alla vita e all’accoglienza… un decreto di adozione!