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La ragazza col violino
di
Michele Muraro
Prologo
L'allievo genialeNoi facciamo della musica libera, dura, che picchi forte
sull’Anima in modo da aprirla
Jimi Hendrix
Vienna 1877
Gustav si svegliò di soprassalto, colpito dalla flebile luce del mattino che faceva
capolino dalle tende tirate a metà. Con mano incerta, cercò a tentoni i piccoli occhiali tondi
abbandonati sul pavimento la sera prima, stropicciandosi gli occhi ed emettendo sbadigli di
disapprovazione. Poi, ancora intontito dal sonno, pigramente guardò fuori. La luce del
mattino era chiara e limpida e si rifletteva sugli squadrati comignoli della città, i quali,
ancora appesantiti dal freddo della notte precedente, si accontentavano di tossire opache
nuvole di buongiorno. Il loro fumo, denso e acre, aveva cominciato a spargersi nell’aria,
dando così il via ad una nuova e piuttosto fredda giornata.
L’inverno, seppur fossimo a marzo inoltrato, sembrava non volersi arrendere
all’arrivo di una più mite temperatura, aggrappandosi con il suo alito gelato agli stipiti
delle porte o agli irregolari vetri delle finestre ancora ghiacciati e, dappertutto, si poteva
notare ancora un sottile strato di brina ricoprire ogni cosa.
Gustav aspirò d’un fiato l’aria fredda del mattino, facendo vibrare tutti i suoi sensi.
L’ultima cosa che ricordava era la luce delle candele e la campana della chiesa del
quartiere di Josefstadt battere le due di notte in lontananza. Quando però notò di essere
vestito come il giorno prima, capì. Per l’ennesima volta, era rimasto alzato fino a tardi a
comporre e inconsapevolmente si era addormentato davanti alla propria scrivania, con
l’unico risultato che ora si sentiva così stanco che a malapena riusciva a tenere gli occhi
aperti.
Distolse lo sguardo dalla città in risveglio e si concentrò sul suono insistito della
campana del conservatorio. L'inizio delle lezioni mattutine era vicino ed il vocio indistinto
e confuso degli altri studenti fuori dalla sua porta lo avvertì che gli rimaneva poco tempo
per raggiungere la propria aula. Doveva sbrigarsi. Sbadigliò nuovamente e, dopo aver fatto
ricorso a tutta la sua buona volontà, si alzò dalla sedia, dirigendosi verso un catino colmo
di acqua gelida.
Prima di immergere le mani e risvegliare definitivamente i suoi sensi, si specchiò per
qualche istante sulla sua superficie immobile. Gustav lo strambo, così lo chiamavano gli
altri alunni e, visto il suo aspetto, non poteva dar loro torto. Aveva un volto magro,
asciutto, dai lineamenti duri e che lo facevano assomigliare ad un uomo malato più che ad
un ragazzo nel pieno della giovinezza. Gli occhi, circondati sempre da due pesanti
occhiaie, erano coperti da un paio di occhiali ormai fuori moda, aggiungendo ancora più
stranezza al suo aspetto. Ma ciò che lo rendeva veramente unico erano i capelli, un
ammasso corvino di ricci sempre in disordine che, anche a causa di una fronte molto
spaziosa e ad un attaccatura dei capelli molto alta, lo facevano assomigliare a quegli
scienziati pazzi che tanto spopolavano nei romanzi, come quel dottor Frankstein, per
esempio.
Aveva appena finito di sciacquarsi via quei desolanti pensieri, quando il suono
inopportuno di una mano alla porta della sua camera riecheggiò tra i suoi spartiti e i suoi
libri, sistemati alla rinfusa tra il pavimento e la scrivania.
“Chi è?”, chiese fiaccamente. L'effetto della nottata passata a comporre, invece che a
riposare, si faceva sentire.
“Dai muoviti, siamo noi… abbiamo grandi notizie Gustav!”, un brusio di voci
squillanti e, da quanto si poteva udire, anche alquanto impazienti, attendeva di essere
ricevuto nella stanza.
“Un attimo…”. Gustav cercò di dare una parvenza di ordine agli abiti spiegazzati ed
al viso stropicciato e aprì la porta. Dall'altra parte, aspettavano due giovani di bell'aspetto,
carichi di entusiasmo. Il primo, un ragazzo biondo e dai lineamenti delicati, lo salutò con il
suo sorriso più affabile, quello che aveva fatto cadere ai suoi piedi ogni singola ragazza nei
dintorni del conservatorio. Il secondo, un ragazzo moro, leggermente più basso del suo
compagno, lo apostrofò con un caloroso buongiorno. Aveva uno sguardo fiero e
orgoglioso, e le sue movenze decise trasmettevano molto bene il suo carattere passionale.
Gustav li squadrò, sospirando. “In quale altro guaio mi caccerete oggi?”.
“Esimio signor Gustav Mahler…”, esordì il ragazzo biondo, in tono quasi offeso e
allargando le braccia in segno di discolpa, “io giuro -e mi possa essere da testimone l'amico
che mi è di fianco e che risponde al nome di Hans- che mai nella mia vita, come nella sua,
abbiamo cercato i guai. Purtroppo…”, e qui la sua voce si fece leggermente più acuta,
“come ben sa, sembra che la sfortuna e il divertimento si siano innamorati di noi e ci
perseguitino ogni giorno con proposte che, mi permetta di dire, potremmo qualificare come
indecenti…”.
I tre, dopo quella appassionata orazione, si guardarono, scoppiando a ridere. Hans
Root e Hugo Wolff erano i migliori amici di Gustav e, per pura coincidenza, anche gli
allievi più indisciplinati di tutto il conservatorio.
“La signorina Hoppe darà un ballo questo sabato, e noi di certo non mancheremo…
vero?”. Hugo, il cui tono, pur essendo mattina presto, era fin troppo eccitato, almeno per le
sensibili orecchie di Gustav, passò velocemente le mani tra le numerose tasche della sua
divisa, finché non tirò fuori dal taschino, proprio sotto lo stemma del conservatorio, un
violino ricamato con filo d’oro, un piccolo foglio di carta consunto e che aveva tutta l’aria
di assomigliare ad un invito.
“Dai, non essere timido! Lo sappiamo che hai una cotta per quella bella signorina!”,
aggiunse Hans, dando una pacca amichevole alla spalla di Gustav, facendogli così
scivolare via le sue legittime esitazioni.
“Va bene, va bene… mi avete convinto…”, sbuffò il giovane assonnato, incapace di
resistere a quelle ostinate proposte. Quando i suoi amici si mettevano in testa di fare
qualcosa, il suo parere contava poco o nulla, nonostante il più delle volte fosse proprio lui a
pagare il prezzo delle loro eccentriche idee.
“Allora ci vediamo a lezione di pianoforte del professor Kripp, e spero che tu non
voglia presentarti in queste condizioni sabato...”, gli ammiccò Hugo.
Gustav li salutò e buttò un occhio sconsolato al suo misero guardaroba, ma non era
quest’ultimo a farlo dubitare della sua presenza al ballo. Il piccolo specchio, posto proprio
affianco al vecchio ritratto di Mozart, l’unico oggetto della sua vecchia vita che si era
portato dietro quando si era trasferito dalla piccola cittadina di Kalischt, in Boemia, era il
suo amico più sincero e, se avesse potuto parlare, gli avrebbe di certo consigliato di evitare
le feste mondane, visto il suo terribile aspetto. Il volto tirato, le occhiaie scure ed i capelli
lunghi erano come un pugno nell’occhio e sarebbero stati perlomeno disdicevoli, per non
dire alquanto inappropriati, al grazioso e nobile sguardo della signorina Hoppe. Non c’era
altra cosa da fare. Gustav decise che, nei prossimi giorni, avrebbe dormito di più e, cosa
ancora più importante, sarebbe andato a trovare il barbiere, inoltre, se avesse trovato il
tempo, magari avrebbe fatto visita anche al cappellano, un aiuto divino, infatti, era proprio
quello che gli serviva. Al ballo, del resto, non mancava che una settimana.
Con questi pensieri a ronzargli nella mente, si sciacquò nuovamente il viso e indossò
l’elegante divisa della scuola. Proprio in quel momento, un violento soffio d’aria fredda
spalancò la finestra, facendo sparpagliare per la stanza tutti gli spartiti e gli appunti delle
lezioni delle settimane passate.
“Maledizione!”, urlò con disappunto. Ormai la campana della scuola stava battendo
l'inizio delle lezioni e non aveva tempo per rimettere tutto a posto. Decise che ci avrebbe
pensato più tardi, al suo ritorno. Stava dunque per andarsene, quando qualcosa lo bloccò. Il
suo sguardo era stato catturato da uno spartito del tutto diverso dagli altri. E questo cos’è?
pensò sorpreso. Cautamente si chinò e lo raccolse. Non aveva mai visto prima quella
partitura, eppure quella era la sua calligrafia. Si sedette sul letto e velocemente fece passare
i suoi occhi tra un rigo e l’altro.
Un ricordo indefinito attraversò allora la sua mente, sfocato da un contorno di
tenebra. Si vide nella sua stanza, a notte fonda, costretto a scrivere quella spaventosa
musica. Ricordava di essersi opposto con tutte le sue forze, ma quell’ombra, quell’essere
spaventoso, era come se non controllasse solo il suo corpo, ma persino la sua stessa anima.
O mio Dio! Cosa sta succedendo? Un conato di vomito lo fece sussultare ed una
sensazione di disgusto si impossessò di lui. Le mani, di solito ferme e dai movimenti
pacati, cominciarono a tremare in modo incontrollabile, come se la sua anima fosse stata
colta da una paura profonda, senza nome.
Si guardò nuovamente allo specchio, una fitta alla testa lo stordì per qualche istante.
Gli succedeva sempre quando si trovava in una situazione particolarmente stressante. Ma
questa volta la sua agitazione non dipendeva da un ritardo nella consegna di un compito o
dal dover affrontare una punizione, no, questa volta il suo turbamento dipendeva da una
causa sconosciuta, della quale aveva solo un ricordo confuso ed agghiacciante.
La campana suonò nuovamente, interrompendo i suoi pensieri e facendo riemergere
il suo spirito dalle preoccupazioni in cui era sprofondato.
Gustav prese i fogli e, con uno sforzo che lo lasciò senza fiato, li buttò dentro al
cassetto. Voleva solo dimenticare quella sgradevole sensazione e andare a lezione. Prima di
chiudere la porta, guardò ancora dentro la stanza, sospirando. La testa, nonostante i suoi
tentativi di rimuovere quanto accaduto, gli rimbombava delle ipotesi più assurde. Ma
avrebbe pensato più tardi al da farsi, ora la lezione del professor Kripp lo stava aspettando.
Uscendo, incrociò proprio il suo maestro. I lunghi capelli bianchi, il viso asciutto e la lunga
barba grigia, erano inconfondibili per il suo allievo.
“Signor Mahler…”, disse con voce non per niente sorpresa, “non ritarderà ancora
una volta alla mia lezione, voglio sperare…”, ma anche se le parole erano rivolte a Gustav,
lo sguardo e i suoi pensieri sembravano essere da tutta un'altra parte, inoltre, l'aria più
stanca del solito sottolineava il fatto che lo studente non era l’unico ad avere molte ore di
sonno arretrato.
“Mi scusi professore… vado subito”. Gustav cercò di darsi un aspetto dignitoso e si
diresse verso la sezione dell'edificio dove erano presenti le aule.
Il professor Kripp lo squadrò per un istante. Reputava quel ragazzo uno dei migliori
allievi che avesse mai avuto, ma era giovane, e gioventù e genio spesso cadono
nell'indolenza. Per ottenere i propri obiettivi bisogna faticare, il solo talento non bastava e
lui lo sapeva bene. Gettò un'ultima occhiata alla porta della stanza del ragazzo che, per la
fretta, aveva dimenticato aperta. “Il solito sbadato geniale Gustav…”, borbottò, mentre la
chiudeva.
La campana rintoccò per l’ennesima volta, era tempo anche per lui di dirigersi in
classe.
Gustav, intanto, pochi metri più in là, era impegnato a percorrere di corsa i corridoi,
cosa impegnativa visto che aveva deciso di farlo a testa bassa, prestando la massima
attenzione a non alzare lo sguardo. Di solito gli piaceva trarre ispirazione dai grandi ritratti
appesi alle pareti, rappresentanti i più grandi compositori austriaci. Le loro figure,
immobili e statuarie, erano una fonte inesauribile di ispirazione, ma oggi gli suscitavano
tutto un altro effetto. I vari Strauss, Schubert, Haydin sembravano agitati, quasi come se,
per l’effetto di qualche strana magia, volessero uscire dalle loro decorate ed ingombranti
cornici. Tutti pronti a ricordare con il loro severo sguardo ed il dito puntato, quanto fosse
indegno per quel ragazzetto di campagna, che a quanto pare stava pure impazzendo, essere
lì tra loro.
Quando Gustav decise che aveva osservato fin troppo le sue scarpe ondeggiare tra le
assi pregiate del parquet, alzò la testa, sbottando, “Che diavolo avete da guardare tutti?”,
infine si massaggiò le tempie e cercò di aggrapparsi a ciò che rimaneva della sua
razionalità. “È stato solo un brutto sogno …”, mormorò, prima di avviarsi verso la
direzione giusta.
Quando, affannato, finalmente raggiunse il suo posto proprio affianco di Hans, fu
felice di constatare che finalmente il suo cervello aveva ripreso il controllo dei suoi
pensieri e appena la lezione di Kripp cominciò, lui lentamente relativizzò il problema. “Sì,
è stato solo un incubo, non c’è altra spiegazione”, pensò, alzando le spalle e decidendo così
di chiudere la questione.
I
La ragazza con il violinoPlic, plic, plic... sottili e insistite gocce di pioggia continuavano a infrangersi sulla
vetrina dello Starbucks, indifferenti al nervoso tamburellare delle dita di Margaret sul
bordo della sua tazza. La ragazza assaporò il gusto agrodolce del caffè tostato, mischiato
ad una generosa dose di sciroppo al caramello, farsi strada nella sua bocca, ma nemmeno
questo la aiutò a rendere meno amari i suoi pensieri. Era da venti minuti ormai che
aspettava notizie della sua amica Hellen, ma di lei non c’era traccia.
Maggie, come la chiamavano i suoi amici, sbuffò nuovamente. Ripensò alle corse
che aveva dovuto fare per arrivare in tempo, alla metro piena, all'ombrello che aveva
dimenticato a lezione e alla pioggia insistente. Cercò di calmarsi, dai prima o poi arriverà,
pensò tra sé e sé, attingendo all'ultima scintilla di ottimismo che le era rimasta.
Provò a calmarsi sfogliando distrattamente le pagine dei suoi appunti del college, ma
non servì a molto. C’era solo una cosa che non sopportava più di quelle complicate analisi
integrali ed era il forte temporale che si era scatenato lì fuori. Ma dove diavolo sei finita?
sospirò nuovamente, ripensando alla sua amica.
Per un attimo, il suo sguardo cadde sulla grande vetrata che ornava l’entrata della
caffetteria, proprio di fronte a lei. Da lì, la luce colpiva la vetrina in modo obliquo e lei
poteva chiaramente vedere il suo riflesso, proprio come se fosse davanti ad uno specchio. I
suoi lunghi capelli castani erano tutti bagnati ed arruffati, mentre i suoi occhi scuri e
profondi, segnati da vivaci sfumature color nocciola, erano velati da due leggere occhiaie.
Un naso sottile scendeva fino a due labbra piccole, ma carnose. Si era sempre reputata una
ragazza carina, ma dopo aver passato diverse ore a lezione e sotto la pioggia, aveva proprio
un pessimo aspetto. Passò la mano tra i suoi capelli ancora bagnati, “cavolo sono troppo
lunghi… devo andare dal parrucchiere”; ormai non contava più le volte in cui lo aveva
detto, cercando di dimenticare l’insopportabile ritardo della sua amica.
Una vibrazione interruppe i suoi pensieri. Lesse velocemente il messaggio con
disilluso interesse. “Lo sapevo…”, commentò infine sconsolata, lasciando che la sua rabbia
sprofondasse, insieme al suo corpo, nella morbida poltrona in pelle nera della caffetteria.
Hellen non sarebbe venuta.
“Scusami ancora, mi farò perdonare la prossima volta! Baci Hellie”, Maggie riguardò
la fine del messaggio ed il suo umore virò ulteriormente verso una decisa rassegnazione.
Cercò di distrarsi, guardando la custodia del suo violino. Sarebbe potuta essere una
custodia come un'altra, se non fosse stato per la grande arpa celtica disegnata sulla parte
centrale. Era stata lei a farla. Quel simbolo le ricordava l'Irlanda, un luogo magico, dove
leggenda e fantasia spesso si uniscono in una sorprendente realtà. Dove il vento, a volte
freddo e penetrante, a volte caldo e rassicurante, porta con sé il respiro delle colline, il
brontolio delle montagne e la libertà dell’oceano. Si era subito innamorata di quella terra,
dei suoi spazi aperti e della sua atmosfera, ma tutto era improvvisamente cambiato. Passò
la mano sopra il tessuto ruvido della custodia, venendo involontariamente risucchiata in un
vortice di ricordi che avrebbe preferito dimenticare.
In brevissimo tempo, la caffetteria, la sua amica e i grandi grattacieli di New York
scomparvero attorno a lei, sostituiti da colline verdi e montagne brulle. Era arrivata in
Irlanda, ma non in un posto qualsiasi. Il castello in lontananza, il profilo della sua rocca, il
profumo dell’orzo appena tagliato e il placido brucare delle pecore era inconfondibile: si
trovava a Cashel.
Proprio davanti a lei, sotto un grande faggio la cui corteccia risplendeva di riflessi
argentati, c’era una bambina. Aveva i capelli lunghi e il viso furbetto, ed i suoi occhi,
sempre in movimento, specchio fedele di un carattere curioso ed irrequieto, contrastavano
con la tranquillità ed il senso di lentezza che il grande albero ispirava.
“Alzati Margareth... non puoi stare seduta lì...”, una donna comparve al fianco della
bambina, “dobbiamo andare… oggi è un giorno speciale per te… è il giorno della tua
iniziazione”, concluse con tono rassicurante.
Maggie vide la bambina alzarsi, abbracciare la nodosa superficie dell’albero e
salutarlo con affetto, quasi come se quel compagno di giochi occasionale fosse diventato
un amico prezioso. Ma se solo la bambina avesse saputo cosa la aspettava, se solo le fosse
stata data l'occasione di scegliere, probabilmente sarebbe scappata il più lontano possibile
da quel posto. “Non andare!”, gridò disperatamente, ma la sua voce non ebbe nessun
effetto. La bambina prese la mano della donna che le era vicino, diede un ultimo sguardo
all’alto faggio e scomparve, inghiottita nell'oscurità della memoria.
Maggie riemerse da quella ventata di ricordi, annaspando, come se fosse stata
costretta a trattenere il respiro per troppo tempo. Lentamente sorseggiò la sua tazza di
caffè, cercando di allontanare da sé quei brutti ricordi, infine sospirò, decidendo di
dedicare la sua attenzione a qualcos'altro. Frugò nella sua borsa e tirò fuori una copia de I
doni della morte, l'ultimo capitolo della saga di Harry Potter, uno dei suoi libri preferiti.
Si passò la mano tra i capelli, portandoli dietro all’orecchio, e cominciò a sfogliare le
pagine. Ormai aveva perso il conto delle ore passate a leggere quel libro, ma non ci poteva
fare niente, anche a distanza di tempo, la sorpresa e le emozioni erano come quelle che
aveva provato la prima volta che lo aveva preso in mano. Abbandonò nuovamente la
pioggia, New York e la sua amica Hellen ed entrò nel fantastico mondo di Hogwarts.
Dopo una decina di minuti di appassionante lettura, poteva quasi dire di aver
dimenticato le sue preoccupazioni, quando un potente tuono squarciò le nuvole in
lontananza, facendo vibrare il grande vetro che ornava l'entrata dello Starbucks.
Maggie, completamente immersa nella spettacolare fuga di Harry e dei suoi amici
dalla Gringott, sussultò. Si era dimenticata del temporale che la aspettava fuori e l'inatteso
boato la colse di sorpresa, provocandole un lungo ed intenso brivido che le attraversò la
schiena come una scarica elettrica. Appoggiò il libro sul tavolino e, avvicinatasi alla
vetrina del negozio, guardò in alto. I lampi continuavano a rincorrersi uno dietro l’altro,
squarciando il manto completamente nero del cielo ed illuminando con una potente luce i
tetti che sovrastavano la strada. Rabbrividì al pensiero di dover tornare a casa sotto quel
diluvio. Ma la preoccupazione lasciò presto spazio allo stupore, quando, quasi per caso,
notò una strana figura appostata sul cornicione di fronte a lei.
In quel preciso momento, il suo respiro si bloccò, incatenato dal più puro terrore.
Quella di fronte a lei era solo un’ombra, un’immagine sfocata tra pioggia e fulmini, ma la
ragazza intuì immediatamente di cosa si trattasse. I suoi muscoli si tesero, proprio come le
corde del suo violino, pronti a reagire a qualsiasi impulso. Cercò di trovare conforto nella
logica, dando la colpa di quello che aveva visto ad uno strano riflesso. Ma quando provò a
riguardare nello stesso punto, sentì che quell’ombra la stava osservando.
Aveva già avuto a che fare con quegli esseri, ma non aveva mai provato una paura
così forte, così vera. Le voci ed i rumori attorno a lei scomparvero, fagocitati da un
innaturale silenzio. Poteva solo avvertire una presenza insostenibile di spietati artigli
grattare la sua anima in profondità. C’era qualcosa lì fuori e non c’era alcun dubbio sul
quale fossero le sue intenzioni. Per la prima volta nella sua vita, Maggie si sentì
completamente impotente, esattamente come una preda. Afferrò di fretta il violino e la
borsa, fiondandosi per strada. Una volta all’esterno, alzò nuovamente lo sguardo, ma ad
aspettarla non c’era nessuna ombra, nessun essere mostruoso, niente, solo l'aria pesante del
temporale che le riempì immediatamente i polmoni e gelate gocce di pioggia che le
graffiarono il viso, come uno schiaffo violento.
Senza preavviso, qualcosa la tirò indietro, facendola sussultare.
“Ecco tenga… aveva dimenticato questo sul tavolo…”, un ragazzo dal volto
sorridente le porse la sua copia di Harry Potter.
Maggie lo ringraziò, cercando di calmare i battiti accelerati del suo cuore. Per
l’ultima volta, girò la testa verso i tetti alla ricerca della misteriosa ombra, di lei, però,
nessuna traccia. Se ne era andata, lasciando alla ragazza una delle più angoscianti
sensazioni della sua vita.
II
Il ragazzo con la chitarraMaggie percorse di gran fretta la 53esima strada. Tra una pozzanghera e l’altra, la
sua mente si sforzò per dare un nome all’ombra che aveva appena visto, ma non ci riuscì;
poi, una volta arrivata all’incrocio con la Lexington, si dovette fermare. Il traffico
sostenuto e il semaforo pedonale che intimava l'alt erano ostacoli troppo ostici da superare
in una grande metropoli come New York, soprattutto con il maltempo.
Pregando di non venire inzuppata da un taxi di fretta, si spostò sul bordo del
marciapiede, pronta a scattare al segnale del verde. Nell'attesa del via libera, i suoi ricordi
riaffiorarono nuovamente, confondendosi l’uno con l’altro. Il viaggio in Irlanda, la
scoperta di possedere un potere che andava al di là delle facoltà della maggior parte degli
uomini e la sua conseguente iniziazione a Solista sembravano solamente un sogno, non la
sua vita. Ancora oggi, si stupiva che quella fosse la sua realtà e non la strampalata storia di
un qualche libro fantasy. Sua madre le aveva fatto un dono che molti avrebbero invidiato,
ovvero la capacità, attraverso la musica, di dare forma alla propria anima e plasmare,
attraverso di essa, il mondo attorno a lei. Certo, un potere meraviglioso, ma che richiedeva
un enorme sacrificio dal nome terrificante: Incubi, così erano stati chiamati. Mostri e
demoni le cui ombre strisciavano nel buio dell’esistenza, traendo forza dalla paura e delle
ansie degli uomini. Le anime degli esseri viventi, quello era il loro cibo preferito.
Se, dunque, la musica dei Solisti era la luce del mondo, loro ne rappresentavano la
metà oscura. E, nella notte, queste due forze continuavano a darsi battaglia, cacciandosi a
vicenda.
Incapaci di esistere uno senza l’altro, si erano affrontati tra le pieghe della storia per
secoli e secoli. Un equilibrio instabile, in continuo movimento e dannatamente fragile.
La folla che la spintonava la riportò brutalmente al presente. Il semaforo era
diventato verde e i pedoni avevano cominciato a passare velocemente da una parte all'altra
del marciapiede, lei si unì a quel flusso e riprese a camminare.
Ripensò agli anni spesi ad allenarsi e ai numerosi Incubi che aveva affrontato nella
sua vita, ma niente l’aveva mai spaventata tanto come quell’ombra. Sentiva ancora la sua
gelida presenza, attorcigliata attorno al suo cuore come pungenti spine di ghiaccio. Doveva
tornare a casa e parlare con sua madre, lei aveva combattuto per anni contro quelle creature
e, di sicuro, avrebbe saputo cosa fare in questa situazione.
Quando però svoltò verso Bakery Street, fu fermata da una piccola folla raggruppata
attorno ad un artista di strada. Con suo enorme disappunto, decise di spostarsi sul
marciapiede di fronte, non aveva tempo da perdere, ma appena mise piede sull'asfalto,
qualcosa la bloccò.
Una voce, il cui effetto fu di paralizzarla, si diffuse nella sua testa: non essere così
agitata, fermati e ascolta un po' di musica.
Quando scelse di non farci caso e proseguire, ecco che la udì di nuovo. In quel
preciso momento, riuscì solo a pensare di vivere uno strano sogno. Si girò di scatto e tornò
indietro, incapace di resistere a quella specie di richiamo. Alcuni secondi dopo, si ritrovò
proprio davanti al musicista. Era un ragazzo affascinate, forse di vent'anni. Aveva dei
capelli castani e corti, due grandi occhi di un intenso color azzurro e con labbra ben
proporzionate; ma quello che stupì la ragazza fu il suo egocentrismo sfrenato. Prima di
cominciare a suonare, infatti, si presentò come il più grande chitarrista vivente.
Che stupidaggini! Maggie cacciò lontano da sé quella sensazione di antipatia e si
mise a guardare l’esibizione. Riconobbe subito la musica: Highway to Hell, una canzone
degli AC/DC e dovette ammettere che il ragazzo, seppur presuntuoso, non se la stava
effettivamente cavando male. Il riff era potente e ben curato e l'assolo fu eseguito alla
perfezione, eppure c’era qualcosa di strano. Tra le note, Maggie percepì qualcos’altro, una
forza che non riusciva a descrivere, ma che in qualche modo allentò la morsa dell’ombra
dalla sua anima, rasserenandola. Inoltre la chitarra ardeva di un rosso fiammante, quasi
magico, e quando la canzone finì, tutti ne erano estasiati.
Lo sconosciuto, approfittando del momento, passò tra la gente per raccogliere
qualche offerta e quando le si avvicinò, lei fu colpita nuovamente dai suoi occhi azzurri
con dei curiosi riflessi verdi che prima non aveva notato e che la ipnotizzarono. Non era
però il momento di perdersi dietro a queste cose. Si armò di tutto il suo coraggio e, dopo
aver aspettato che la maggior parte della gente si allontanasse, provò a parlare allo
sconosciuto. “Scusami...”, disse con tono lievemente imbarazzato, “volevo chiederti una
cosa...”.
Il giovane musicista si voltò con l'aria interrogativa e un po' scocciata, “mi
dispiace… ma non parlo con chi mi lascia meno di un dollaro di mancia”.
Maggie fu spiazzata da quella risposta maleducata e decise una cosa: quel ragazzo le
stava antipatico. La voce, però, era così somigliante a quella che aveva sentito poco prima
nella sua testa, che decise di deglutire i sentimenti di odio verso di lui e continuò, “mentre
suonavi per caso mi hai detto qualcosa?”. La sensazione che aveva sentito poco prima non
se la era inventata, doveva assolutamente scoprire cosa stava succedendo.
“Direi di no, visto che, come hai appena sottolineato, ero impegnato a suonare”, il
suo sguardo ed il sopracciglio alzato erano più espliciti di qualsiasi parola, la credeva
stramba, se non addirittura pazza. “Senti, se vuoi un autografo puoi anche chiedermelo…”,
sbuffò spazientito, “comunque ora vado decisamente di fretta, ci si vede in giro…” e,
caricata la chitarra in spalla, si allontanò.
Maggie non poteva crederci, era così furiosa che non riusciva a trovare le parole per
esprimere tutta la sua rabbia e, quando finalmente si calmò, lui era già sparito dietro
l'angolo, inghiottito dai giganteschi palazzi newyorkesi.
Oggi proprio non sono in me, pensò, lasciandosi alle spalle quel curioso incontro e
affrettandosi verso la metro. Ipotizzò che, vista la reazione di quel ragazzo, forse aveva
solo immaginato la sua voce e quella piacevole sensazione che le aveva procurato la sua
musica. Iniziò anche a dubitare di aver veramente visto quella mostruosa creatura quel
pomeriggio. Si massaggiò le tempie con le punte delle dita. Era stata una lunga giornata e
probabilmente aveva solo bisogno di riposare.
Scese rapidamente gli scalini che portavano alla metro, fece passare il suo
abbonamento sul lettore automatico e, in men che non si dica, si ritrovò sui bordi del
binario ad aspettare il treno, schiacciata tra la folla. Il brutto tempo e l'ora di punta avevano
infatti spinto una moltitudine di persone sotto terra, con l'effetto di sovraffollare il già
ridotto spazio della fermata ferroviaria.
Attese qualche minuto, prima che una voce robotica gracchiasse l'arrivo del suo treno
e, un paio di spintoni dopo, si poté finalmente sedere. Il sedile era scomodo e le premeva
contro la parte inferiore della schiena, ma non le importava. Ora voleva solamente godersi
un tranquillo e asciutto ritorno a casa.
Si infilò le cuffie alle orecchie, impostò il menù su brani casuali e chiuse gli occhi,
stringendosi nei vestiti ancora umidi e lasciandosi trasportare dalle canzoni. Il suo stupore
fu grande quando cominciò a sentire le note di Highway to Hell. Ormai la musica era
iniziata e non la fermò. Ripensò al ragazzo che aveva conosciuto poco prima e alla sua
maleducazione. “Certo che era proprio un cafone…”, sbuffò, mentre le buie gallerie di
New York scivolavano via, fuori dal finestrino, “anche se però non era niente male”. Infine
chiuse gli occhi e si lasciò trasportare dai suoi pensieri.
III
La stazione di Holmes StreetMaggie fu svegliata di colpo da una brusca frenata. Un cartello, dai toni spenti e
ormai divorato dalla ruggine, la informò che era in arrivo alla stazione sopraelevata di
Holmes Street, la sua. L'apparizione che aveva visto fuori dalla caffetteria e lo strano
ragazzo incontrato lungo la strada sembravano solamente dei ricordi sbiaditi, appartenenti
alla distante isola di Manhattan; ora era a Brooklyn, a casa.
Il treno rallentò lentamente, adagiandosi con un sibilo metallico lungo la banchina
deserta. Maggie guardò dal finestrino, ormai erano le nove e il buio autunnale aveva già
inghiottito la città, avvolgendo la stazione in una spettrale atmosfera.
Appena mise il piede fuori dal treno, nonostante il luogo apparisse piuttosto
inquietante, trovò immediatamente un motivo per cui rallegrarsi: il temporale che aveva
scosso i grattacieli del centro, aveva concesso una pausa alla città e, della sua rabbia
tambureggiante, non era rimasto altro che opache nuvole tinte di un intenso nero grigiastro.
Ma la sua felicità non durò che pochi attimi. Un brivido freddo circondò il suo corpo in una
morsa gelida e la sua preoccupazione ritornò a divampare come un incendio
incontrollabile. Accelerò il passo, ma si fermò quasi immediatamente.
Seduto su una panchina, poco distante da lei, c'era lo stesso strano ragazzo che aveva
incontrato in Bakery Street. Era lui, ne era sicura.
Il musicista guardò nella sua direzione, sembrava aspettarla.
Nell’incontrare i suoi occhi, il cuore le balzò letteralmente in gola. Attorno al suo
corpo percepiva la stessa presenza oscura che avvertiva negli Incubi. Che diamine sta
succedendo?, pensò sempre più terrorizzata. Era agitata, confusa e spaventata a morte.
Osservò il ragazzo ancora per pochi istanti, giusto il tempo di vederlo armeggiare con la
custodia della sua chitarra. Qualunque cosa stesse succedendo, di certo quel ragazzo era
coinvolto, ma non si sarebbe di certo avvicinata per chiedere spiegazioni. Il suo istinto, di
solito infallibile, aveva ben chiaro cosa fare. Corri! sentì riecheggiare nella sua testa e,
senza pensarci due volte, si girò e cominciò a scappare. Il brivido che aveva avvertito
appena scesa dal treno, stava scendendo sempre più nella profondità della sua anima,
sconvolgendone la sua naturale armonia.
Inaspettatamente una mano fermò la sua corsa, qualcuno la stava tirando per un
braccio. Maggie si girò di scatto, non riuscendo a credere a quel colpo di fortuna.
“Tutto bene?”, la figura rassicurante di un poliziotto era comparsa all’improvviso al
suo fianco.
Lei si rasserenò immediatamente. Non poteva di certo dirgli cosa l’avesse spaventata,
ma ora, con lui al suo fianco, si sentiva molto più tranquilla.
“E sì, oggi c'è proprio un tempaccio”, ammise il tutore dell’ordine, scambiando la
paura della ragazza per un timore dovuto alla sinistra atmosfera della stazione e, stringendo
le spalle nel pesante cappotto, continuò, “a dir la verità, questo posto mette i brividi anche
a me…. Quando ho visto il tuo viso terrorizzato, ho pensato che ti fosse successo qualcosa,
eri tutta bianca e...”, la frase gli morì in gola con un ultimo e debole sussurro. Tutto quello
che riuscì a pronunciare, prima di stramazzare al suolo, fu solo un incomprensibile gemito.
In quell’istante, il cuore di Maggie ricominciò a battere velocemente. Cercò di farlo
rinvenire, scuotendolo, ma non ottenne nessuna reazione. L'uomo sembrava vivo, eppure
era incosciente e freddo, tanto freddo, come se la sua anima gli fosse stata portata via,
lasciando sul marciapiede solo un involucro vuoto.
Maggie cercò di calmarsi. Se voleva uscire da quella situazione, doveva riprendere il
controllo di sé stessa. Forse il poliziotto aveva avuto solo un malore, del resto, non era
un’ipotesi così improbabile. Con lo sguardo, cercò qualcuno che potesse aiutarla, ma la
stazione sembrava deserta, tranne per quello strano musicista e, seppur non le piacesse, non
aveva altra scelta. Provò a richiamare la sua attenzione gridando aiuto, ma le sue parole
uscirono confuse e a bassa voce, quasi come se fossero state sussurrate. Provò ad urlare
nuovamente, ma, questa volta, dalla sua gola non uscì altro che il freddo alone soffocato
del suo respiro. Una sensazione di gelo si impossessò prima della sua testa, poi del torace.
Qualcosa le stava portando via le forze. Con la poca energia rimasta, quasi d’istinto, afferrò
la custodia del violino e subito riprese il controllo del suo corpo.
Tossì, cercando di respirare più aria possibile. Poi imprecò. L'Incubo che aveva visto
alla caffetteria non era frutto della sua immaginazione, era reale, e per di più l'aveva
seguita. Non poteva esserci altra spiegazione.
Un vento spettrale le sfiorò i capelli. Maggie rabbrividì, ma non si sarebbe lasciata
sconfiggere. Di solito gli Incubi sono invisibili ad occhio umano, a meno che non decidano
di manifestarsi, ed è impossibile notare la loro presenza. Ma lei non era un essere umano
qualsiasi. Velocemente estrasse il violino e cominciò a suonare.
Una musica antica e allegra, veloce come il vento che oscilla selvaggio tra i
rododendri nelle tiepide mattine primaverili irlandesi, scosse il silenzio della metro. Il
suono rimbalzò vigoroso in tutte le direzioni fino a quando, dopo una impercettibile
distorsione, si fermò.
La ragazza indirizzò il suo violino in quella direzione, eseguendo ancora lo stesso
ritornello. Questa volta, il suono, prima chiaro e potente, sfumò in un angosciante rumore
metallico. Maggie si concentrò e riprese a suonare, avrebbe costretto quella creatura a
rendersi visibile.
Da un anonimo pilastro di mattoni, man mano che la musica proseguiva, emerse
un'ombra. All’inizio non era altro che una figura indefinita, dai contorni imprecisi e sfocati,
poi molto lentamente assunse una fisionomia più precisa, terrorizzandola.
In quegli anni, la ragazza si era ritrovata in molte situazioni pericolose, ma non aveva
mai visto niente di simile. L’Incubo che ora le si ergeva di fronte, assomigliava più ad un
animale che ad un mostro demoniaco; un lupo per la precisione. Era grande, molto più
grande di un lupo comune ed il suo corpo era più nero della notte stessa. La coda, lunga e
robusta, terminava in una sottile appendice, proprio come una frusta. Dal muso
pronunciato, invece, uscivano quattro lunghe zanne mentre, incorniciati da due grandi
orecchie, risplendevano degli occhi iniettati di sangue, le cui sfumature rosso rubino erano
semplicemente agghiaccianti. La criniera, molto simile a quella di un leone, non era fatta
da peli, ma da oscuri filamenti che continuavano ad ondeggiare e che sembravano
rispecchiare l’umore dell’Incubo. Tra il manto quasi imperscrutabile del corpo, proprio
all’altezza del torace, la ragazza notò risplendere una luce di fuoco. Il cuore rabbioso
dell’animale, che ardeva dalla brama di cibo. Ma non era il suo aspetto esteriore a
impressionarla. Da quando si era reso visibile, Maggie sentiva la sua anima più pesante,
come se un sentimento di angoscia la stesse opprimendo, fino quasi a soffocarla. Questo si
rifletteva nel suo modo di suonare, in particolare, i suoi movimenti erano diventati di colpo
più imprecisi e lenti. Per sua fortuna, comunque, la musica emessa dal suo violino
sembrava funzionare, e il suo avversario, all'apparenza intontito, sembrava immobile.
Maggie decise di non perdere tempo. Si posizionò a pochi metri dal suo avversario e
riprese a suonare. Le note diventarono più lente e profonde, ed il suono assunse un
carattere più nostalgico, quasi triste, e che impregnò l’aria di una forza magica ed
invisibile, cominciando a spazzare via tutto quello che aveva di fronte.
Il timbro musicale, che per molti versi ricordava quello melanconico delle arie
irlandesi, doveva essere una tortura per la creatura, la quale cominciò a emettere orrendi
latrati di dolore, talmente forti e acuti che Maggie ebbe l'impressione che presto le sue
orecchie sarebbero esplose. Ma proprio quando stava per raggiungere il limite della
sopportazione, il mostro si fermò. Lei sorrise, stava per catturarlo.
Ma l’Incubo, invece di stramazzare a terra, alzò lo sguardo e cominciò a fissarla
intensamente. Le sue fauci si trasformarono in un ghigno spaventoso e si spalancarono in
quel che sembrava un riso divertito.
Maggie sussultò. Nessuna creatura aveva mai resistito al suono del suo strumento.
Il tuo potere è troppo debole, umano!
Un ammonimento profondo e metallico le rimbombò in testa, facendole perdere la
concentrazione. L’Incubo, intanto, continuava a fissarla, con il muso ancora deformato in
quell’orribile smorfia di superiorità.
É inutile... ora morirai.
Maggie risentì la stessa voce echeggiarle nel cervello, poi il suo sguardo si spostò
sullo strumento, un suono stridulo aveva attirato la sua attenzione. L'umidità di quel giorno
era penetrata nel legno del violino, allargandolo e mettendo sotto sforzo la struttura. Ora,
con il suo movimento, aveva danneggiato il ponticello e le corde erano saltate fuori dalla
loro sede naturale. Questa volta era davvero nei guai.
I suoi occhi cominciarono a muoversi velocemente tra il suo avversario e il violino,
ormai inutilizzabile. Provò a cercare una soluzione, ma non c’era niente da fare, era alla
completa mercé del suo avversario.
L’Incubo si accorse subito del suo vantaggio, ma non agì di fretta. Assaporò ogni
metro che lo separava dalla sua preda, godendosi ogni singolo istante. Secondo dopo
secondo, il suo respiro si fece via via più impaziente. Le zanne risplendevano come lunghi
coltelli di avorio e già pregustavano il sapore della sua vittima. L’odore della ragazza,
infatti, era così vicino e penetrante che poteva gustare la sua stessa paura. I suoi occhi,
spietati e famelici, la osservarono per qualche istante, poi, appena prima dell’attacco, si
strinsero in due sottili fessure, infine si lanciò su di lei, come una bestia selvaggia.
Maggie si buttò di lato, riuscendo ad evitarlo per pochissimo. Il suo sesto senso
l’aveva salvata, facendola chinare giusto un momento prima che il suo avversario si
scagliasse su di lei. Cercò di alzarsi immediatamente da terra per cercare un nascondiglio,
ma quando appoggiò il braccio per farsi forza, questo non rispose. Un piccolo rivolo di
sangue cominciò ad uscire lentamente dalla manica lacerata del suo vestito, le zanne
dell’Incubo l’avevano in qualche modo colpita. Non provava dolore, probabilmente perché
l'adrenalina stava agendo da morfina, ma, in queste condizioni, evitare un altro assalto
sarebbe stato impossibile. Con sguardo frenetico, cercò qualche indizio che svelasse la
posizione del suo avversario senza, però, alcun risultato.
Sentiva che la fine era vicina. Si portò la mano alla bocca per non urlare, non gli
avrebbe dato anche questa soddisfazione, quando un rumore la fece girare
improvvisamente. Riuscì solo a intravedere l’Incubo comparire dal nulla ed avventarsi su
di lei, poi chiuse gli occhi e tutto divenne buio.
IV
Ensemble
Un boato improvviso squarciò l'aria.
Il corpo di Maggie continuava a tremare per la paura e passarono diversi secondi
prima che riaprisse gli occhi. Sentì un forte odore di bruciato invaderle le narici, e dei
sottili solchi, ancora fumanti, sul cemento della stazione, proprio vicino a lei, ma
dell’Incubo non c’era traccia. Non voleva sapere che cosa fosse successo, né il perché
fosse ancora viva, voleva solo scappare il più lontano possibile da quel posto. Si alzò e
cominciò a correre. Ma la sua fuga non durò molto. Nella fretta, infatti, non vide l'ostacolo
alle sue spalle e lo urtò.
“Ahia!”, esclamò, cadendo pesantemente a terra.
“Devi stare più attenta…”, le sussurrò una figura familiare, “non dovresti giocare con
queste cose, sono molto più pericolose di quanto pensi…”.
Maggie riprese lucidità, davanti a sé c’era il ragazzo che aveva incontrato a Bakery
Street. Si era completamente dimenticata di lui. Quando era iniziato lo scontro, lui si
trovava lì, a qualche decina di metri da lei. Era proprio da lui che era scappata
inizialmente, ma ora la sua figura, contrariamente a quanto successo prima, la faceva
sentire protetta.
“Chi… chi sei?”, chiese con voce incerta.
“Ora stai tranquilla…”, la rassicurò lui, senza però rispondere alla domanda, poi le
passò la mano sul braccio ferito, fasciandolo con un pezzo strappato dalla sua camicia.
Per un istante, Maggie si dimenticò dell’Incubo, della ferita, dell'aver quasi perso la
vita e arrossì leggermente. “Gra… grazie…”, riuscì solo a balbettare confusamente.
Lui le porse la mano, aiutandola. Poi la fece sedere su una vecchia panchina
arrugginita. “Non ci metterò molto…”, le sussurrò in un orecchio.
Maggie arrossì. Che idiota che sono! Era appena scampata alla morte ed ora non
riusciva a fare altro che a balbettare e arrossire come una stupida.
Il ragazzo, intanto, era tornato sui suoi passi ed aveva preso la chitarra che aveva
appoggiato poco più indietro, collegandola al piccolo amplificatore che teneva legato alla
cintura e cominciò a fischiettare.
L'attenzione della ragazza si spostò poco più avanti, per la precisione tra un cumulo
di rifiuti che tremavano di una forza irreale. Da esso sbucò fuori l’Incubo. La parte destra
del muso ardeva, completamente sfigurata da una curiosa cicatrice, formata da sei sottili
segni, e che a Maggie ricordarono immediatamente i solchi presenti poco più in là.
I suoi occhi, dilatati da una rabbia incontrollabile, lo fissavano pieni di ira. Nessuno
aveva mai osato tanto. Gli avrebbe mangiato l’anima lentamente, divorandola pezzo per
pezzo e dando così sfogo alla sua vendetta. Cominciò a ringhiare e a mordere l’aria,
impaziente di affondare le sue zanne su quel fragile corpo. La sua criniera, così come la
coda, si muovevano violentemente a desta e a sinistra, come sospinte da un vento
capriccioso.
Il ragazzo, al contrario di Maggie, non sembrava per nulla spaventato dalla rabbia
dell’Incubo e, in tutta tranquillità, cominciò a strimpellare gli accordi di Highway to Hell.
Maggie, in quell’istante, sentì scomparire pian piano tutta la sua ansia e la sua
preoccupazione. La sua anima si stava finalmente liberando dal peso angosciante a cui
l’aveva soggiogata l’Incubo.
“E ora l'assolo!”, disse il musicista con teatralità, mentre, con la mano destra, settava
al massimo il volume del suo mini-amplificatore attaccato alla cintura dei pantaloni. Poi
passò il plettro sulla chitarra e ricominciò a suonare. All'inizio tutto sembrava uguale
all'esibizione a cui Maggie aveva assistito nel pomeriggio ma, appena l’Incubo si mosse, le
cose decisamente cambiarono. Le corde dello strumento cominciarono a vibrare sul
manico, fino a quando incredibilmente non si animarono. La musica, intanto, continuò a
crescere e a farsi più potente ad ogni nota, diffondendosi nell’aria e penetrando nel cuore di
qualsiasi cosa fosse nei paraggi. Maggie sentì le sue ossa e la sua anima vibrare all’unisono
con il ritmo della canzone. Poi le corde cominciarono ad ondeggiare e, senza nessun
preavviso, si allungarono come lunghe e terrificanti serpi, lanciandosi conto il nemico e
stringendosi intorno alle sue zampe, spezzandole. L’Incubo, completamente sorpreso, non
ebbe scampo. Infine si riavvolsero verso il manico della chitarra, trascinando la creatura
che ora gemeva e lanciava orripilanti latrati di dolore. La stretta si intensificò ad ogni nota,
fino a che il corpo dell’Incubo non fu completamente stritolato.
Il ragazzo spense il piccolo amplificatore e si girò verso la ragazza, un sorriso di
soddisfazione si dipinse sul suo volto.
Maggie, incredula, non riuscì a dare un senso a quello che aveva appena visto, ma
all’improvviso si sentì soffocare, il suo respiro divenne lento e sempre più faticoso, finché
non svenne.
Si risvegliò da sola poco dopo, non sapeva dire quanto tempo era passato, ma non
doveva essere stato per molto. Nell'aria sentiva ancora l'odore di morte e putrefazione che
aveva percepito quando l’Incubo era stato annientato. La testa le girò nuovamente, questa
volta però riuscì a controllarsi, si calmò e cominciò a guardarsi intorno. A una decina di
metri da lei, sulla sua destra, c'era lo strano chitarrista, il quale, chinato per terra, era
intento a rianimare il poliziotto che aveva cercato di aiutarla.
Cercando di controllare i nervi, si alzò e si diresse verso di lui.
Stava per parlare, ma il ragazzo alzò la mano mimandole di stare in silenzio. Quando
si rialzò, si rivolse alla ragazza. “Scusami se ti ho spaventato prima e non sono
intervenuto…”, sospirò, facendo una piccola pausa, “a mia discolpa però non pensavo fossi
così scarsa come Solista…”.
Le sue parole la colpirono nel profondo e in meno di un istante si ritrovò a odiarlo
nuovamente. Decise di lasciar perdere la crescente irritazione e si concentrò sull'infinità di
domande che le passavano in testa, così tante che non sapeva nemmeno da quale
cominciare.
Il ragazzo, nel frattempo, sembrava aver perso interesse per la ragazza ed aveva
riposto la chitarra nella custodia, facendo così cenno di volersene andare.
“Aspetta!”, gli urlò Maggie, tirandolo per la manica, “mi devi delle spiegazioni! E
poi cosa hai fatto al poliziotto? Cosa ne sarà di lui?”
“Non ti devi preoccupare, al suo risveglio non si ricorderà nulla, penserà solo di
essersi addormentato, tutto qui”. Poi la squadrò, come se cercasse qualcosa che
evidentemente non riusciva a vedere. “Non so proprio cosa ci abbia trovato in te il signor
Hendrix!”, sospirò alquanto deluso. “Tieni questa è per te…” e le porse una lettera.
Il ragazzo, esaurito il suo compito, la ammonì. “Sono tempi duri questi… se non sai
come affrontarli non ti conviene uscire di casa…” e se ne andò fischiettando la canzone
degli AC/DC che Maggie stava sinceramente cominciando ad odiare.
Non ci fu il tempo per pensare o farsi domande. Il poliziotto si stava riprendendo, e,
nonostante il ragazzo l'avesse tranquillizzata in proposito, lei non aveva nessuna voglia di
dare spiegazioni. Prese da terra il violino e lo ripose nella custodia. Il ponte che sosteneva
le corde, ormai compromesso, era rimasto l'unico segno tangibile di quello che era
avvenuto poco prima. Raccolse le forze e si avviò velocemente verso casa.
Lungo il tragitto, cercò di non ripensare a quello che era successo, ma non ci riuscì.
Aveva molte domande e nessuna risposta. Solamente la vista di casa sua riuscì
parzialmente a tranquillizzarla. Aprì il cancelletto del giardino e si diresse verso l'entrata.
Mentre girava il pomello della porta, si ricordò della lettera che le aveva lasciato il ragazzo
e la guardò, solo allora si accorse di non avergli nemmeno chiesto come si chiamava.
Sull'intestazione c'era scritto “Scuola di Musica Gershwin” e nient’altro. Maggie rimase
perplessa, ma non ebbe tempo di pensare ad altro. Entrando, fu assalita dall'odore
penetrante della cena preparata da sua madre e per un attimo tutto scomparve. Ora il suo
stomaco aveva la priorità, almeno per un'ora poteva dimenticare tutto quello che era
successo e tornare alla sua quotidiana normalità, chiuse gli occhi, per lasciarsi inondare dal
senso di pace che quelli odori familiari le trasmettevano. Il peso che la sua anima aveva a
fatica sopportato, era definitivamente scivolato via come se quel ragazzo, con la sua
chitarra, l’avesse soffiato via.
V
Vecchio contro nuovoMaggie fu svegliata di colpo dal suono insistito della sveglia. Con gli occhi ancora
chiusi, cercò a tentoni sul comodino, finché non trovò la fonte di tutto quel trambusto e non
la scagliò lontana. Ma il gesto, invece di interrompere quella acuta ed insopportabile
litania, non fece altro che aumentarne il tintinnio digitale e, di conseguenza, anche la sua
irritazione.
La ragazza sbuffò dal disappunto. Era così stanca che sarebbe potuta rimanere a letto
tutto il giorno, ma ormai non aveva altra scelta che alzarsi e spegnere quell’aggeggio
demoniaco; con tutto quel rumore che rimbombava nelle sue orecchie, sarebbe stato
impossibile per chiunque continuare a dormire.
Ormai arresasi, scagliò il cuscino contro la sveglia e si stropicciò gli occhi. La luce
del sole, seppur ancora debole, filtrava dalle finestre, riflettendosi sullo specchio posto
davanti alla scrivania e frantumandosi in diversi colori e sfumature. L’attenzione di
Maggie, per qualche istante, fu catturata da quel curioso effetto. Gli avvenimenti della
notte precedente sembravano solo il ricordo sbiadito di un brutto sogno e, per qualche
istante, la sua mente cercò riparo in quella fragile illusione. Ma la lettera che giaceva
accanto al comodino raccontava tutta un’altra storia. Maggie la riprese in mano, la carta era
spessa e odorava vagamente di rose, sull’angolo destro, in alto, era impresso un curioso
simbolo, raffigurante un sassofono, ma oltre a queste striminzite impressioni, non è che
dentro ci fosse scritto molto.
Cara signorina Margareth,
saremmo felicissimi, se volesse accettare di diventare allieva della nostra scuola.
Sig. Stephenson
Maggie rilesse attentamente quelle parole, sperando di scorgere almeno un indizio
che rispondesse alle sue innumerevoli domande, ma non trovò niente. Riguardò quelle
poche righe ancora e ancora, ma non c’era nulla da fare, quelle parole erano come pietra,
mute ed impenetrabili Allora, delusa, risprofondò tra le coperte, era proprio in un grande
pasticcio. Tornò ad esaminare la sua ferita, per fortuna era solo un taglio superficiale e
ormai non le faceva quasi più male, anche se sarebbe stato bastato qualche centimetro più
in là per… No, non ci pensare Maggie, si ordinò, cercando di forzare la sua mente altrove.
Ricordare quanto era stata vicina alla morte non avrebbe aiutato nessuno, anzi avrebbe solo
peggiorato la situazione.
Alla disperata ricerca di una qualsiasi distrazione, guardò davanti a sé. Sulla
scrivania, tra i libri di architettura e alcuni vecchi spartiti sistemati alla rinfusa, aveva
trovato spazio il suo violino, o almeno quello che ne rimaneva. Il suo strumento, purtroppo,
non era stato fortunato quanto lei: il ponte si era staccato dalla sua sede naturale, le corde
erano saltate e, come se non bastasse, tra la effe e il tiracantino, erano presenti numerosi
graffi. Sapeva che il danno era grave, lo aveva già capito alla stazione della metro ed ora
non aveva la minima idea di cosa fare.
Quel violino era stato il suo fedele compagno per dieci anni, ma adesso la sua anima
aveva perso la sua voce, forse per sempre. Certo, avrebbe potuto chiedere aiuto a sua
madre, del resto era stata una Solista per molto tempo, e sicuramente avrebbe saputo cosa
fare; purtroppo questo avrebbe voluto dire confessarle quello che era successo, e
conoscendone -ahimè fin troppo bene- il carattere apprensivo, aveva infine deciso di tenere
nascosto l’accaduto, almeno per il momento.
Il problema però rimaneva. Senza idee, si alzò dal letto e si sedette alla sua scrivania.
Passò la mano sulla superficie del violino. “Ci hanno proprio messo ko, vero?”, gli
sussurrò con tono amorevole, poi appoggiò la testa sul tavolo in scuro legno di quercia, con
la speranza di avere un colpo di genio ma, tutto quello che ottenne, fu di riaddormentarsi
profondamente.
Toc, toc, toc, un rumore improvviso di nocche che battevano sulla sua porta la
risvegliarono dal sonno in cui era caduta.
“Maggie, posso entrare?”, la voce di sua madre non lasciò alcun dubbio sul
proprietario della mano che aveva bussato.
“Sì… solo un attimo!”, rispose lei affannosamente, cercando di rimettere il violino
dentro la custodia, senza provocare ulteriori danni. Usò la massima attenzione, riuscendo a
chiudere la cerniera un attimo prima del suo ingresso.
Una donna sulla cinquantina fece il suo ingresso nella stanza. Nadine, questo era il
suo nome, aveva dei capelli corti, tagliati a caschetto, con una incantevole frangia che si
posava delicatamente sui suoi grandi severi occhi scuri. Era alta e la sua figura, snella e
slanciata, frutto di una passione ardente per qualsiasi tipo di sport, aveva la capacità di
farla sembrare molto più giovane, attirando ogni tipo di attenzione.
Maggie la osservò con un po’ di invidia, pensando a come avrebbe tanto voluto
assomigliarle. Aveva infatti ereditato da sua nonna sia l’altezza non troppo elevata, seppur
fosse nella media, che l’interesse per hobbies decisamente più tranquilli e il suo fisico,
tonico e asciutto, era dovuto più ad una qualche benevole coincidenza genetica che per la
pratica, assai rara a dire il vero, di qualche tipo di attività fisica.
“Quante volte ti ho detto di sistemare questa camera?”, Nadine guardò in alto, quasi
rassegnata. Sua figlia, quando voleva, poteva essere disordinata quanto e se non più di un
ragazzo adolescente. “Ormai stai finendo il college, dovresti avere più cura delle tue
cose…”, sospirò, indicando un gruppo non ben identificato di vestiti accartocciati in un
angolo.
Maggie, contrariamente al solito, non protestò, né inventò qualche scusa per quel
disordinato e confusionario buco nero che era poi la sua stanza. Da piccola, aveva sempre
una bugia pronta: è stato il cane, oppure il gatto dei vicini è entrato dalla finestra o peggio
è stato un tornado, scuse fragili, visto che non avevano mai avuto un cane, i vicini
odiavano i gatti e un tornado a New York? Bè, questo si commentava da solo. Quindi
aveva lasciato perdere quelle scuse ed aveva adottato un altro tipo di tattica. Con il tempo,
aveva infatti imparato che sua madre era molto simile al fuoco, se lo si alimentava,
cresceva fino a bruciare, ma se lo si lasciava in pace, si spegneva lentamente da solo.
Dunque abbassò diligentemente il capo e promise che avrebbe rimesso a posto. Sarebbero
stati guai, se avesse scoperto cosa le era accaduto e, almeno per una volta, si trovarono
d’accordo sul fatto che sì, forse, la sua camera aveva bisogno di una sistemata, seppur
piccola, intendiamoci.
“Mamma…”, disse, cercando di usare il tono più conciliante di cui era in possesso,
“non ti preoccupare, stamattina metto apposto, tanto non ho lezione”. In realtà, non aveva
nessuna voglia di farlo, ma sapeva che dandole ragione, sarebbe andata via.
“Grazie, finalmente mi ascolti...”, Nadine allargò le braccia e aprì la finestra, facendo
entrare un po’ più di luce. Poi, dopo aver gettato un ultimo e sospirato sguardo alla massa
di vestiti sparsi per terra, si allontanò. La colazione non si sarebbe preparata da sola.
Maggie aspettò qualche secondo, poi riprese finalmente a respirare. Questa volta ce
l’aveva fatta. Le dispiaceva nascondere le cose a sua madre, ma se glielo avesse detto,
probabilmente non l’avrebbe più fatta uscire di casa per i prossimi mesi, e avrebbe avuto
ragione. Non bisognava essere un genitore ultra protettivo per capire che aveva rischiato la
vita e che se l’era cavata solo per l’intervento di un completo sconosciuto che le aveva
consegnato una ancora più enigmatica lettera. C’erano tutte le ragioni per allarmarsi.
Alle sue preoccupazioni, lo stomaco di Maggie rispose brontolando. La sua priorità,
ora, era di mettere qualcosa sotto ai denti. Forse, con la pancia piena, sarebbe riuscita ad
avere qualche idea riguardo a come aggiustare il proprio violino. Indossò la vestaglia ed
imboccò il corridoio. Il contatto dei piedi nudi con il legno del pavimento le provocò una
specie di sollievo, le era sempre piaciuto camminare scalza, fin da piccola, e, in casa, era
raro vederla con un paio di calzini addosso.
Stava per scendere le scale, quando si fermò. Appese alle pareti, incastonate in
cornici scure, brillavano una costellazione di fotografie. Maggie le guardò con un po’ di
nostalgia. Erano sempre stati una famiglia di viaggiatori, anche grazie anche al lavoro di
Nadine, insegnante in una scuola pubblica e di Lawrence, suo padre, coach di basket in un
college privato. Avevano dunque impegnato le loro estati libere in avventurose vacanze nei
posti più impensabili. In una, erano tutti e tre su di un grande cammello ai piedi della
piramide di Giza, Maggie ricordava ancora l’odore non invitante dell’animale e il caldo
soffocante; in un’altra, erano in un lunghissimo tandem a tre posti dal colore rosso acceso,
all’interno di un parco naturale olandese. All’epoca era ancora piccola, ma dal suo sorriso
spensierato, incastonato in due guance un po’ paffute, sembrava felice e lo era veramente.
Ma tra quelle foto ne mancava una, quella più importante della sua vita.
Sapeva dove sua madre la teneva e, a pensarci bene, non c’era posto migliore. Decise
che il suo stomaco avrebbe aspettato qualche minuto e, invece di scendere le scale, si
diresse verso l’altra estremità del corridoio. Qui, una grande porta in legno scuro si ergeva
a barriera dei segreti della sua famiglia. Dietro infatti, c’era lo studio di sua madre, uno
scrigno pieno di libri, foto, spartiti e ricordi della sua vita da Solista, una vita finita proprio
quando era nata lei.
Maggie girò lentamente il pomello e la aprì, immergendosi nell’altro lato della sua
vita, quello che solo in pochi, se non pochissimi, conoscevano.
La stanza, abbastanza piccola in verità, era arredata in modo molto semplice con un
piccola libreria, una scrivania ed un tavolino dalle modeste dimensioni che occupava il
centro dell’ambiente. Al di sopra, faceva bella mostra di sé una lunga scatola in legno
chiaro e sulla cui superficie erano intagliati dei complicati motivi celtici.
Non c’erano finestre, tranne per una piccola apertura opposta all’entrata e da cui
filtrava una luce opaca che attraversava la stanza fino a colpire il tavolino. Nelle poche
volte che Maggie era entrata lì, aveva visto la luce del sole o della luna compiere sempre
quello stesso percorso e spegnersi al di sopra di quel curioso contenitore, come se quegli
ancestrali simboli dell’Isola di Smeraldo avessero il potere di assorbirla. Al suo interno,
protetto da uno spesso strato di veltro rosso, risplendeva un elegante flauto traverso
completamente in argento e rifinito con delle decorazioni floreali. Era leggermente più
affusolato dei flauti comuni, e ciò aveva costretto il liutaio a rendere i contorno più
smussati e spigolosi, indurendone l’aspetto esteriore, reso comunque affascinante dalle
decorazione a tema naturale.
Maggie si avvicinò, sussurrando un motivetto. Da piccola, aveva sempre avuto
timore di quello strumento, ma un giorno sua madre l’aveva fatta sedere vicino a sé e le
aveva detto di chiudere gli occhi. Subito dopo, la sua anima era stata attraversata da una
forza unica, travolgente, ma al tempo stesso delicata, espressa con tenue note che sapevano
avvolgere l’anima di chi la ascoltava. Maggie smise di canticchiare, pensando a quanto gli
strumenti, per i Solisti, non fossero solo un mezzo, ma una vera e concreta espressione
dello spirito di chi li suonava.
Allungò la mano e provò a toccarlo. Un calore innaturale le sfiorò le dita, mettendola
in soggezione. Il flauto sembrava infatti vivo, come un bellissimo e letale serpente, sospeso
in una specie di sonno e pronto a risvegliarsi, solo quando il suo proprietario avrebbe
voluto.
Maggie distolse lo sguardo e si avvicinò alla scrivania in stile francese appoggiata
alla parete. Qui, sopra una polverosa pila di spartiti, trovò subito quello che cercava. Era
una foto un po’ sfocata e ritraeva lei e sua madre a Cashel, solo pochi giorni prima della
sua iniziazione, anche se questo ovviamente lei, al tempo, non poteva saperlo. Quella foto
le fece venire alla mente tanti ricordi e sensazioni. Alle loro spalle, inondate da luci di
mille colori e musicisti di ogni genere, si stava svolgendo il Soul Music Festival, un evento
musicale aperto a tutti i Solisti del mondo. Lì, Maggie aveva potuto ammirare i suonatori
più stravaganti e dotati che avesse mai visto. Lì si era sentita finalmente a casa. Per un
attimo, sentì l’odore dell’erba invaderle i sensi, ma questa volta chiuse le porte a quei
ricordi. Sospirò. Pensando a come sarebbe potuta essere la sua vita, se lei non fosse stata
una Solista.
Prese uno dei numerosi spartiti appoggiati sulla scrivania e lo cominciò a sfogliare
svogliatamente. Scorse velocemente le pagine, finché non si fermò. Proprio all’inizio di un
concerto in Si minore per flauto di Bach, nascosta tra le pagine ingiallite, c’era una
fotografia. Maggie la osservò attentamente. La foto, scattata proprio durante il festival,
ritraeva Nadine, poi lei, ed un uomo sulla cinquantina che teneva in mano un violino.
Maggie guardò quello scatto con un profondo senso di nostalgia. “Alder…”,
sussurrò, ripensando al suo vecchio maestro. Lui le aveva insegnato tutto quello che
sapeva. Lui le aveva detto che il suo potere era speciale, unico, ma, appena lasciato il Soul
Music Festival e l’Irlanda, si era subito resa conto del rovescio della medaglia. Essere una
Solista voleva dire sostanzialmente una cosa: essere un’emarginata. Non poteva correre il
rischio di mischiare le sue vite, che qualcun altro sapesse e quindi aveva quasi del tutto
rinunciato ad avere una vita sociale. Certo c’era Hellie, una cara amica che aveva
conosciuto al college, ma lei conosceva solo metà della sua vita e non avrebbe mai potuto
confessarle tutto. La musica e il suo violino, questi erano i suoi compagni più stretti. Era a
loro che confidava le sue paure e le sue emozioni.
“Ehi Maggie, che ci fai qui?”, la voce di sua madre la avvolse, rincuorandola.
“Mi stavo solo chiedendo…”, Maggie distolse lo sguardo dalla foto e ripensò al
ragazzo con la chitarra e ai suoi poteri, “hai mai incontrato altri Solisti, mentre davi la
caccia agli Incubi?”.
“No, non direi…”, Nadine si avvicinò, poggiandole la mano sulla spalla in segno di
affetto, “vedi i Solisti sono pochi al mondo e…”, poi si fermò, notando la foto che
stringeva la ragazza e capendo il suo stato d’animo. “Ma mai dire mai nella vita, giusto?”,
disse, cercando di essere più ottimista.
“Già, forse è così…”. Maggie annuì, forzando un sorriso, poi chiuse lo spartito,
ponendo fine alla sua melanconia.
“Dai vieni giù, sono sicura che la mia colazione riuscirà a tirarti un po’ su
quell’espressione crucciata”, Nadine le diede un affettuoso abbraccio e socchiuse la porta.
Maggie ritornò agli eventi della sera prima. Una sottile cicatrice all’altezza del
gomito, quasi invisibile e leggermente più scura del colore della sua pelle, sembrava essere
l’unico segno permanente di quello che era successo, ma lei sentiva che c’era molto di più.
Un sasso dalle enormi dimensioni era stato appena lanciato nella quotidianità della sua vita
e l’acqua non ci avrebbe messo molto ad agitarsi, trasformandosi in minacciose onde.
“Scusa, ma non è oggi quell’importante incontro con quel terribile professore?”, la
voce dei Nadine, proveniente dal piano di sotto e soffocata dal concerto per teiere e
caffettiere che si stava svolgendo nell’anfiteatro della cucina, arrivò disturbata, ma fu
ugualmente efficace.
Quelle poche e semplici parole ebbero infatti l’effetto di riportare Maggie alla realtà,
“Oh, merda…”, riuscì a sussurrare in maniera confusa, se ne era completamente scordata.
Ritornò velocemente in camera sua. Frugò nell’armadio, alla ricerca di qualche vestito
decente e, mentre si truccava più velocemente di quanto avesse mai fatto nella sua vita,
pensò a come diavolo fosse riuscita a dimenticarsi di quell’appuntamento. Tra poche ore, il
professor Frink – probabilmente l’insegnate più dispotico e irascibile dell’intero Stato –
avrebbe valutato il progetto che aveva ideato con Hellen e che le era costato sei mesi di
vita, decidendo se fossero pronte o no per continuare gli studi e prendere la laurea in
giugno.
“Ciao mamma! Ci vediamo dopo!”, riuscì a malapena a pronunciare, mentre usciva
frettolosamente di casa, con una grossa brioche alla marmellata di fragole che le riempiva
la bocca. Diede un’occhiata all’orologio, era ancora in tempo per arrivare in orario e
accelerò il passo. Non si fermò nemmeno per dare uno sguardo alla stazione di Holmes
Street. Solo una volta salita in treno, si girò, ripensando a quello che era successo in quello
stesso posto solo poche ore prima. La fermata, sotto il sole mattutino, aveva perso tutta la
sua terrificante atmosfera. L’Incubo e il misterioso ragazzo con la chitarra sembravano solo
ombre sbiadite di sogni ormai lontani.
La voce del macchinista annunciò la partenza, riportandola alle sue preoccupazioni
più urgenti. Si sedette e provò a rilassarsi. La giornata era appena iniziata e già aveva un
sacco di problemi a cui pensare.
Nei minuti che seguirono, le diverse stazioni della metro si avvicendarono
velocemente: Lorimer Street, Hewes Street, Marcy Avenue, finché le fermate sopraelevate
non finirono ed il treno non venne inghiottito dallo scuro ventre della metropoli.
Finalmente stavano passando sotto l’East River, percorrendo la lunga galleria che
collegava Brooklyn a Manhattan.
Maggie continuò a guardare impazientemente l’orologio, facendo e disfacendo
calcoli sull’orario di arrivo. Stremata da quella snervante attesa, cercò di ingannare il
tempo, spostando la sua attenzione fuori dal finestrino. Il paesaggio, però, non offriva
motivi per cui distrarsi. Stavano, infatti, ancora percorrendo la galleria e un’oscurità
monotona e inquietante avvolgeva tutto il treno. Ogni tanto compariva qualche piccola
luce, ma erano solamente le segnalazioni di uscita di emergenza, niente di interessante.
Maggie si mise a contarle: una, due, tre, quattro, poi all’improvviso si fermò. Vicino
all’ultima luce, aveva visto degli strani segnali luminosi, simili a degli occhi rossi, intensi e
scuri, che non sembravano avere niente di umano e che per un attimo le ricordarono quelli
dell’Incubo che l’aveva assalita. In un’istante, la sua anima si ritrovò di nuovo a cadere in
un pozzo senza fondo di paura ed angoscia. Poi, d’un tratto, proprio come due grandi ed
accecanti lacrime di sangue, ricomparvero di nuovo ma, contrariamente a quanto pensava,
non erano all’esterno. Ciò che vedeva non era altro che un riflesso del vetro del finestrino.
Qualsiasi cosa la stesse osservando era nel vagone, insieme a lei.
Il terrore che l’aveva colta la sera prima ritornò, ma questa volta seppe controllarlo.
Lentamente si voltò, ma alle sue spalle non vide altro che gente comune, impegnata nelle
proprie quotidiane attività. Respirò e pensò a quello che era successo. Forse erano solo dei
bagliori che l’alta velocità del treno aveva trasformato in una strana illusione. Doveva
smettere di agitarsi per ogni minima sciocchezza.
Trascorse ancora qualche minuto prima che si calmasse definitivamente. Per cercare
di non pensare a quello che aveva visto – o che aveva creduto di vedere – frugò nella
borsa, alla ricerca del suo immancabile libro di Harry Potter. Sapeva che era rimasto lì dal
giorno precedente e non ci mise molto a trovarlo, ma non riuscì a leggere che poche
pagine, prima che un calo di tensione facesse sobbalzare il treno, provocandole la caduta
del libro dalle mani e oscurando le luci del vagone.
Maggie si chinò, andando alla cieca ricerca del suo prezioso volume. Per sbaglio,
urtò la gamba di un passeggero di fronte a lei. “Oh mi scusi…”, disse prontamente, ma non
appena alzò lo sguardo, notò con terrore che due occhi crudeli, dello stesso colore di un
rubino scarlatto, la stavano fissando. Per qualche secondo, il suo respiro si fermò, poi il
treno vibrò di nuovo e la luce, come per magia, tornò a illuminare l’ambiente.
A Maggie fu data una mano, lei la prese e si tirò su, “dovrebbe stare più attenta
signorina… si poteva fare male”.
Lei guardò chi le aveva offerto aiuto: un signore anziano, con un paio di occhiali
enormi e risalenti probabilmente al secolo scorso, con un grosso naso butterato e dalla non
attraente forma a patata, la stava guardando, decisamente perplesso dalla sua espressione
spaventata.
Lei si sforzò di sorridere, stringendogli la mano per rialzarsi. No, decisamente quel
vecchietto non era un pericoloso e sanguinario Incubo. Forse, pensò Maggie, era stato il
riflesso delle luci del tunnel sulle sue lenti, spesse come fondi di bottiglia, a creare
quell’effetto che l’aveva terrorizzata. Eppure la sensazione di disagio provata prima non se
ne era andata.
“Grazie…”, mormorò titubante, riprendendo il libro da terra. Non riusciva più a
capirci niente, sembrava sull’orlo di una crisi psicotica. L’Incubo aveva evidentemente
lasciato dei segni più profondi sulla sua anima di quanto lei credesse, anche se non lo
voleva ammettere.
Le vennero in mente le parole del ragazzo incontrato alla stazione: “sono tempi
pericolosi questi”, aveva detto o qualcosa del genere. D’istinto strinse la collana a forma di
quadrifoglio che aveva al collo, le era stata donata al momento della sua iniziazione,
dicendole che al suo interno era custodita una strana storia, una storia che l’avrebbe
protetta.
Il suo sguardo si posò nuovamente sul finestrino e, questa volta, l’unica cosa che
vide fu un cielo azzurro e limpido. Il treno era finalmente uscito dalla galleria ed i grandi
grattacieli del centro si stagliavano imponenti, come silenziosi giganti di cemento. Tirò un
sospiro di sollievo e tornò a guardare l’orologio.
Dopo una decina di minuti, l’auto-parlante pronunciò: “57esima strada prossima
fermata!”, la sua. Si avvicinò alle porte e scattò più veloce della luce verso il suo college,
proprio mentre il rintocco di un orologio segnava le dieci.
Il treno sbuffò e si avviò verso la prossima stazione, mentre lei continuò la sua corsa.
Pochi minuti più tardi, si fermò alla 50esima. Il vecchietto che aveva aiutato Maggie a
rialzarsi, scese lentamente dal treno e si indirizzò verso l’uscita. La luce del sole lo colpì in
pieno, accecandolo. Per difendersi dai raggi solari, si frugò in tasca e prese un paio di
occhiali scuri. Buttò via quelli da vista e li indossò. Poi si tirò su il collo del soprabito e si
guardò intorno. Avanzò di gran passo verso un vicolo buio che costeggiava la strada e,
dopo essersi girato più volte per confermare che nessuno lo stesse osservando, si levò la
barba finta con un veloce strappo. Si massaggiò la mascella e si tolse anche la parrucca ed
il naso posticcio. Con soddisfazione, buttò il tutto in un cestino; finalmente poteva
riprendere il suo vero aspetto.
Si guardò la mano con cui aveva aiutato la ragazza ad alzarsi da terra. Sorrise, una
piccola bruciatura era comparsa sul suo palmo, procurandogli un leggero fastidio. “Certo
che ne nasconde di sorprese quella lì…” e si ributtò in mezzo alla strada tra la folla. Il suo
piano era troppo importante perché qualcuno potesse mettergli i bastoni tra le ruote, presto
anche lei se ne sarebbe accorta.