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Giovanni GiuseppePintore

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L'urlo disperato di Kunja sovrastò il lesto in-cedere degli assalitori: Alpaux si era letteral-mente smaterializzato sotto il suo inermesguardo; al suo posto, la cenere ne disegnava lasagoma al pari di un'ombra, quasi il suo trapas-so fosse stato troppo rapido da ingannare laluce stessa. Kukura si mise subito sull'attenti,ringhiando in ogni direzione; anche i suoi sensierano stati elusi.

Erano circondati.JK fece qualche giro su se stesso, solo per

comprendere che i loro nemici li superavanosia di numero che di stazza, ma erano sorpren-dentemente leggeri, seppur avvolti in delle sor-te di cappotti metallici gialli, quasi un tutt'unocon la loro pelle ed i volti scavati, che parevanomaschere. Gli occhi scintillavano come carboniardenti. Alcuni si sorreggevano a dei bastonimetallici dalle punte incandescenti, ora lumino-se, mentre altri imbracciavano delle balestre

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con spessi dardi seghettati.Kunja fece per scattare in avanti, a machete

sfoderato, ma JK la trattenne a sé in un guizzofelino.

«Bastardi musi gialli!» sbraitò, fendendo l'a-ria con l'arma. Si dimenò con tutte le proprieforze, ma una parte di lei fu grata all'uomo; unsolo passo falso, e avrebbe seguito la sorte delPegaso; sarebbe trapassata ancor prima di avereil tempo di rendersene conto. «Era innocente!»

Uno dei balestrieri le fece comprendere cheavessero ben poca intenzione di concedere se-conde possibilità, mandando a vuoto un qua-drello. Quello stesso proiettile provocò un'e-splosione a contatto con uno degli alberi, con-tenuta, ma sufficiente a disintegrare un corpoumano. Marcò un profondo solco nella cortec-cia, provocando una pioggia di foglie.

Un violento batter d'ali scosse la foresta, cheparve animata dal forte pigolare di molti stor-mi; diede loro l'impressione che la natura stessasoffrisse del danno arrecatole.

Poi, uno fra quelli che JK identificò come iYellowraith, emise dei versi incomprensibili,monosillabici ed assai simili tra loro, se non per

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la quasi impercettibile variazione dei toni.Kukura si gettò subito sotto le gambe di JK

in preda al terrore. Il pelo gli si era rizzato, frat-tanto che tremava e uggiolava. Arrivò a coprirsigli occhi con le zampe.

Se solo l'uomo fosse stato del luogo, sarebbestato condizionato da tutte le leggende che gra-vitavano attorno a quelle figure. Alcuni soste-nevano che fossero antichi spettri, altri cheRātō Dēvatā li avesse vomitati fuori come pu-nizione per i suoi figli. Nei secoli, le verità sierano alternate al pari del cambio delle stagio-ni, ed ora nessuno conosceva più la realtà deifatti.

Quello che diede l'impressione di essere illeader fece un passo in avanti e scandì un ordi-ne, sollevando lo scettro metallico verso la po-stazione dei tre. Quello stesso comando persesenso, subito dopo che le medesime parole sca-turirono fuori dalla bocca dell'uomo dalla pellerossiccia, ma in tono interrogativo. Aveva ilsuono di un'aspra minaccia.

Kunja impietrì. Fissò il compagno di sventu-re negli occhi, ed il suo caratteristico colorghiaccio le fece gelare il sangue nelle vene. Era

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come se lui fosse in grado di capirli. Poi, JKruppe di nuovo il silenzio. Diede ancora fiato aisuoi pensieri in quella lingua incomprensibile,districandosi in una vera e propria conversazio-ne.

«Tu... li capisci?» mormorò la guida. «Seiuno di loro?».

«Il loro idioma mi è comprensibile» rivelòl'uomo. Subito dopo parve tradurre ciò che illeader gli stava comunicando: «Ci preleveran-no, e staranno a sentire ciò che abbiamo dadire. Dobbiamo collaborare, poiché non ci restaaltra scelta. Qualsiasi azione riterranno dannosanei loro confronti, la pagheremo con la morte».

«Morire adesso o dopo... cambia qualcosa? IYellowraith hanno sterminato il mio popolo»ringhiò Kunja.

«La tua stessa gente ha appena cercato di uc-ciderti. A conti fatti, loro paiono meno ostili, epiù comprensivi. Ci stanno offrendo una possi-bilità, ritengo che valga la pena sentire quantohanno da dire» puntualizzò.

Il cerchio di soldati si strinse attorno ai tre.Quindi il leader indicò con un cenno dellamano uno dei suoi, prima di volgere le spalle e

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riprendere a camminare nella direzione dallaquale erano giunti.

L'uomo accettò le condizioni e, riuscendo astrappare il machete dalle mani di Kunja, simostrò inoffensivo. Raccolse il cane fra le suebraccia per cercare di tranquillizzarlo. Tremavacome una foglia. «Finché sarò al tuo fianco, sa-rai al sicuro. Non permetterò che vi faccianodel male» aggiunse, ma senza sapere che a di-stanza di un chilometro da quell'affermazionenon sarebbe più stato in grado di mantenere laparola data. Rovinò in avanti come un sacco dipatate, senza neanche avere il tempo di rendersiconto dello svenimento.

Sprofondò nelle tenebre.

La brezza gelida che sferzava sul viso, scom-pigliando i capelli, asciugando gli occhi e pri-vandolo dell'ossigeno, era una sensazione uni-ca, capace di togliergli ogni parola di bocca.Per lui era la prima volta, e gli sarebbe rimastaimpressa per sempre nella mente. Niente gliaveva mai trasmesso quella vibrante sensazionedi libertà, quasi potesse d'un tratto spiccare ilvolo e librarsi nel cielo come un uccello. In

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quel mondo rosso, oltre ai droni, per quanto neemulassero l'aspetto, non ve ne era alcuno. Pergli animali sarebbe occorso ancora del tempo.La pelle s'irrigidì ed i peli gli si rizzarono sututto il corpo per l'emozione e l'inebriante sen-sazione di fresco.

Ponendosi controvento, respirò a pieni pol-moni, osservando la terra scorrere rapida sottoil profilo dello scafo. Poi, quando l'hovercraftabbandonò la superficie polverosa, uno spruzzorinfrescante gli investì il viso. L'acqua era sala-ta.

«Il sogno della Alastor. Era anche il tuo,mamma. Marte è terraformato» sussurrò Ed,sollevando le braccia al cielo. Si sentiva legge-ro, tanto da poter prendere il volo a cavallo del-la prossima onda. «Vorrei potessi essere qui pervederlo.»

«Rientra nella capsula. I livelli di anidridecarbonica sono ancora troppo elevati. Non ave-re fretta: quando saremo tornati dalla missione,qui sarà tutto come sulla Terra.» affermò il pi-lota, Asair.

L'enorme campo base, con rampa di lanciomissilistico annessa, si ergeva all'orizzonte

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come un antico castello medievale. Tiranneg-giava sul paesaggio, nascondendo nella suaombra centinaia di moduli a cupola bianchi,collegati da stretti corridoi argentati.

La voce di Kunja era un distante sussurro; illatrato di Kukura una feroce chiamata al dove-re. JK spalancò gli occhi.

L'ambiente che lo circondava era immersonella penombra, rischiarata dal tenue baglioredi una lanterna a schermo. Il suo corpo era le-gato ad un lettino metallico per mezzo di fascedi cuoio ai polsi e alle caviglie, al contrario diKunja e Kukura, tenuti prigionieri con delle ca-tene. Una coppia di Yellowraith le stavano ad-dosso, pungolandola con dei bastoni roventi,intimandole con tono sommesso di risponderealle loro domande. Il loro modo di fare e le loroazioni avevano qualcosa di totalmente sconnes-so, facendoli apparire strani.

«Non conoscono la vostra lingua!» urlò JKnel loro idioma. «Risponderò io... vi dirò tuttociò che vorrete.» affermò subito dopo, senzasmettere di agitarsi. Tutto quel movimento gliprovocò un intenso dolore alla cervicale e al-

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l'osso sacro. Realizzò di avere qualcosa colle-gato lungo la spina dorsale, e percepì una di-stinta spinta ad intervalli regolari.

La sua voce venne del tutto ignorata.«Parlo con voi!» esclamò più volte, sempre

senza ricevere la loro attenzione. Sicché il suocorpo prese ad avvertire un'angosciante sensa-zione di pericolo, non tanto per sé, ma per isuoi compagni. Percepì la temperatura corporeainnalzarsi e perle di sudore freddo affollargli lafronte.

I muscoli s'irrigidirono e il respiro si fece ac-celerato; a seguito di una prepotente vampata dicalore, come se la sua pelle stesse bruciandodall'interno, cadde preda di tremende convul-sioni, di tale violenza da far saltare le cinghie.Si tirò su animato da una ferocia animale, av-ventandosi subito sugli aguzzini. Le sue manifiltrarono attraverso le loro sagome e, cosìcome quelle di Kunja e Kukura, si sgretolaronoin migliaia di quadretti luminosi, svanendo persempre.

La lanterna a schermo lanciò poi un lampobianco, accecante, ed i confini di una piccolastanza dalle pareti metalliche vennero definiti.

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Il letto sul quale era sdraiato sino a poc'anzi eral'unico oggetto presente, oltre alla lanterna. Ri-mase perplesso, confuso, almeno sinché avvertìun liquido caldo colargli lungo la schiena ed iglutei.

Si soffermò sui due tubicini che spuntavanoproprio in corrispondenza delle spinte avverti-te, e dei fori metallici presenti sulla sua spinadorsale; una sostanza biancastra stava conti-nuando a fuoriuscire ad intervalli regolari.

«Una semplice illusione. O anche dette pro-iezioni calcolate della realtà» esordì lo stessofiguro col quale aveva pattuito la resa, varcan-do una breccia apertasi nel muro, che si richiu-se subito alle sue spalle. Il suo corpo era barda-to di metallo, mentre il suo volto celato daquella che solo ora definì una maschera mo-struosa, gialla. Gli conferiva dei lineamentiscavati, inquietanti. I suoi occhi scintillavanocome tizzoni ardenti. «Stanno bene. Almenoper ora».

«Erano ologrammi?» suppose JK, trovandoper la prima volta qualcosa davvero familiare aisuoi ricordi più recenti, conosciuto. Concreto.La parola stessa evocò nella sua mente centina-

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ia di informazioni e scene simili, che credettedi aver esperito personalmente. Ciò che sapeva,però, era che tale tecnologia rappresentasse unaccadimento vero, ripreso da telecamere o si-mili. In alternativa, richiedeva un lungo proces-so di elaborazione delle immagini, per avereuna tale precisione.

«Reazione inaspettata» confessò il suo inter-locutore. La voce aveva un suono metallico.«Esattamente. Anche se alcuni le tributano l'e-piteto “magia”, con la M maiuscola. Che altroricordi? Chi sei? Da dove vieni? Il motivo peril quale sei qui?».

«JK» affermò spaesato. Non era di certo larisposta che avrebbe voluto fornire. «Io... Pen-savo di star tornando a casa. Non credo di es-serne sicuro. Tutto è confuso. Dove ci trovia-mo? Chi sei?».

«Siamo a Chinggaxien, un antico avampostocinese, sito a nord dell'Himalaya, ora territoriodi coloro che definite Yellowraith... o Pellegial-la. Sul pianeta Terra» rivelò apertamente. Il suotono lasciava intendere che sapesse sul suoconto molto più di quanto stesse già dando avedere.

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«Cosa siete allora?» .«Esseri umani» disse con una certa esaspera-

zione, quasi marcando una certa delusione.«Perché ero legato? Mi sono arreso» cercò di

cambiare discorso. Anche dal suo punto di vi-sta, quelle sorte di creature potevano definirsidegli umani, ma avevano indubbiamente unaspetto mostruoso.

«Un banalissimo test. Superato brillantemen-te, se ci tieni a saperlo. La seguace di Ishvara tiha definito un Deamhan, e posso garantirti chesotto la loro custodia avresti fatto una bruttafine»

«Ho potuto appurarlo di persona. Sotto lavostra siamo al sicuro, invece?» mormorò JKpoco convinto. «So che siete in guerra».

«Lo siamo da secoli. Tutto è scoppiato pro-prio per l'omicidio di uno dei figli dell'ArcaRossa. Uno come te».

Avrebbe voluto anche solo provare a farefinta di niente, ma era certo che un simile truc-chetto avrebbe solo innervosito un potenzialealleato.

«Ed è per questo che avete sterminato il loropopolo? Non avete mostrato clemenza per

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quella sorta di Pegaso. Era anche lui un nemi-co?»

«Noi non uccidiamo gratuitamente. Ciò mal-grado, siamo in guerra. Quell'essere era un'a-berrazione singolare, ma non potevamo conce-derci il lusso di lasciarvi volare via. Abbiamoraggiunto questo stallo pagando un caro prezzo.La pace può essere mantenuta solo con la for-za».

«Il semplice fatto che ancora non abbiatetentato di uccidermi mi mette dalla vostra par-te, nonostante il brusco risveglio. Ma anche congli altri c'è voluto del tempo prima di capire.Qual è il vostro scopo? Dove sono il cane e laragazza?».

«Per te posso fare qualcosa. Loro, invece, in-contreranno il giudizio del consiglio. La loroesistenza è un pericolo» disse con insolita ama-rezza. «Verranno giustiziati».

«Erano in fuga dal loro stesso popolo. Sonoscappati per aiutarmi. Non è con un genocidioche risolverete la guerra!»

«No, infatti» disse l'uomo di metallo, avvici-nandosi e toccandosi la maschera con unamano.

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Parve intenzionato a proseguire il discorso,ma JK lo privò del tempo: gli afferrò il braccioe, in perfetto stile Jujutzu, lo proiettò a terracon estrema rapidità. La maschera gli volò viacon la rovinosa caduta. Il tentativo di bloccargliil braccio però andò a vuoto.

L'avversario intuì straordinariamente la suamossa e si affrettò a chiudersi sul proprio arto,per sfuggire alla terribile morsa. Poi, gli sferròuna poderosa gomitata sul naso. L'uomo fu cosìcostretto a lasciarlo andare. Entrambi si rialza-rono con incredibile agilità, disponendosi unodi fronte all'altro, in guardia. Si studiaronocome due vecchi amici.

Sotto la maschera si nascondeva un volto tu-mefatto da numerose e piccole ulcere e molte-plici protuberanze ossee; la carnagione era scu-ra, eppure l'avrebbe definita smunta. Una cica-trice bianca lo segnava dalla guancia sino almento.

JK rimase paralizzato.Per quante possibilità potessero esserci, quei

movimenti, quella reazione, e la cicatrice for-mavano un mosaico di dettagli difficili da di-menticare. L'aspetto del suo avversario era sì

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diverso, come i suoi occhi accesi come unafiamma viva, ma doveva essere lui.

Non aveva più alcun dubbio.«Asair?» esclamò abbassando la guardia, in

italiano. «Sei proprio tu?».Il viso dell'individuo rimase impassibile alle

sue parole, non una smorfia o qualsiasi cennod'incomprensione. Il suo sguardo gravò su JKcome un macigno.

«Ci hai messo parecchio tempo per renderte-ne conto, Edo» sottolineò, marcando il timbrosul nome, nella sua stessa lingua.

Esibì poi sorriso che, forse, nei suoi intentiavrebbe voluto palesare divertito, ma che inve-ce risultò più simile ad un tetro ghigno.

Continua...

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Ringrazio Marta Simula e Simone Muzzoni per lacorrezione delle bozze.

Grazie per aver dedicato il tuo tempo a questa lettura.

Sùilad!

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