La "questione" giustizia

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La “questione” giustizia Riforma o disarticolazione del sistema? a cura di Massimiliano Annetta Silvia Della Monica Roberta Rossi Stefano Pagliai Quaderno monografico della Rivista “Scelte Pubbliche” edita dall’Associazione Romano Viviani

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Riforma o disarticolazione del sistema? - I quaderni di Scelte Pubbliche

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La “questione” giustizia Riforma o disarticolazione del sistema?

a cura di

Massimiliano AnnettaSilvia Della Monica

Roberta RossiStefano Pagliai

Quaderno monografico della Rivista “Scelte Pubbliche” edita dall’Associazione Romano Viviani

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Disegni originali di Sergio Staino

Primo supplemento al n. 1 / febbraio 2011 del quadrimestrale Scelte pubblicheOrgano dell’Associazione Romano Viviani

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5671 del 13 agosto 2008Direttore editoriale: Riccardo ContiDirettore responsabile: Pier Francesco Listri

Stampa: Industria Grafica Valdarnese

Grafica, editing e impaginazione: SICREA srlvia Maragliano 31a, 50144 FirenzeTel. 055 321841 - Fax 055 3215216www.sicrea.eu

Si ringraziano per i preziosi contributi che hanno voluto prestare all’iniziativa: il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Firenze, dott. Beniamino Deidda; il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, dott. Antonietta Fiorillo; e il dott. Alessandro Nencini, Giudice presso la Corte di Appello di Firenze.

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IntroduzioneLa “questione giustizia”: superare gli sbarramenti ideologici alla ricerca di un’alternativa riformista di Stefano Pagliai Pag. 5

La riforma “epocale” della giustiziaLa giustizia va riformata, ma prima occorre ripartire da un’etica pubblica condivisa e dal rispetto delle istituzioni. Le ragioni a cui ancoriamo il nostro no alla “riforma epocale” della giustiziadi Massimiliano Annetta 11

Processo breve o prescrizione abbreviata? di Stefano Pagliai 15

La responsabilità civile dei magistrati di Antonietta Fiorillo 18

L’epocale pasticcio della riforma costituzionale della giustizia di Beniamino Deidda 21

La “semi-obbligatorietà dell’azione penale”: ovvero come disarticolare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge di Massimiliano Annetta 26

Indice

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Sicurezza del lavoro e Costituzione di Beniamino Deidda Pag. 28

L’emergenza carcere. Quando le disfunzioni del sistema violano i diritti dell’uomo di Roberta Rossi e Antonietta Fiorillo 34

Spunti di riflessione per un processo civile… breve di Alessandro Nencini 48

L’istituto della media-conciliazione. Verso una privatizzazione dei diritti? di Stefano Raddi 56

Riforma della giustizia o riforma della magistratura? di Silvia Della Monica 58

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L’auspicio del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano espres-so solo poche settimane fa si inserisce in una fase storica segnata dal drammatico acuirsi dei rapporti tra politica e magistratura e da uno scontro tra istituzioni senza precedenti nella storia repubblicana. Parlare, dunque, di riforma del processo penale, di riforma del pro-cesso civile, di introduzione di un nuovo codice penale, e di interventi tesi a favorire una maggiore efficienza della macchina giudiziaria attraverso un più attento investimento delle risorse economiche ed umane potrebbe sembrare, nell’attuale contesto storico, una mera utopia. Da ormai vent’anni, infatti, la vita pubblica italiana è segnata dallo strisciante conflitto tra potere politico e potere giudiziario che, così come interpretato dall’attuale maggioranza di governo, si risolve

La “questione giustizia”: superare gli sbarramenti ideologici alla ricerca di un’alternativa riformista

Dott. Stefano Pagliai Coordinatore Forum Regionale Giustizia PD Toscana

“Nella Costituzione e nella legge possono trovarsi i riferimenti di principio e i canali normativi e procedurali per far valere insieme le ragioni della legalità

nel loro necessario rigore e le garanzie del giusto processo. Fuori di questo qua-dro, ci sono solo le tentazioni di conflitti istituzionali e di strappi mediatici che

non possono condurre, per nessuno, a conclusioni di verità e di giustizia”.Giorgio Napolitano, 11 febbraio 2011

Introduzione

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nella perenne delegittimazione della magistratura e nello stravolgi-mento dei principi basilari vigenti in materia penale e processuale penale con l’approvazione di norme le quali – tese a favorire soltanto “i soliti noti” – provocano ricadute drammatiche sull’efficienza del sistema giustizia.Ciò avviene, d’altra parte, nel totale disinteresse per le tematiche dell’efficienza della giustizia civile, che rappresenta, sicuramente, l’emergenza più grave in rapporto alla competitività del nostro sistema economico ed ai reali e concreti problemi vissuti da gran parte dei cittadini (basti, a tal riguardo, riflettere sul fatto che un imprendito-re per ottenere l’esecuzione di un debito certo ed immediatamente esigibile debba attendere, in media, un periodo di tre anni). A seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della legge sul c.d. “legittimo impedimento”, inoltre, stiamo assistendo ad un’of-fensiva, sia legislativa che mediatica, tutta tesa a perseguire, sotto le mentite spoglie di una “riforma organica della giustizia”, la demo-lizione del sistema della giustizia penale necessaria per garantire la caducazione di alcuni processi che vedono imputato il Presidente del Consiglio. Primo passo di questa strategia, come chiaro, è consistito nella presentazione del DDL costituzionale in materia di “riforma della giustizia” il quale propone, nonostante l’annunciata portata “epocale” del provvedimento, nientemeno che una riforma della magistratura, con evidenti intenti punitivi dell’ordine giudiziario, ricadute nefaste sul sistema dell’equilibrio dei poteri e influenze pressoché nulle sul reale interesse dei cittadini rispetto ad una giustizia più rapida e realmente giusta. Nel frattempo, mentre il dibattito politico e l’attenzione dei media si sono comprensibilmente concentrate su queste tematiche, seguendo uno schema ormai tristemente noto, forte dei numeri di cui tuttora dispone, la maggioranza parlamentare ha predisposto la presenta-zione e la rapida approvazione di una serie di provvedimenti che se per un verso mirano ad intimidire e ricattare la magistratura sia giudicante che requirente (vedi, fra gli altri, l’oramai noto “emen-damento Pini” in materia di estensione della responsabilità civile dei magistrati introdotto, con un blitz dell’ultimo minuto, nel testo della legge comunitaria) dall’altro puntano a ridurre ulteriormente i tempi di prescrizione dei reati per gli incensurati ed a allungare a dismisura i tempi del processo prevedendo la facoltà per il difensore

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dell’imputato di presentare liste testimoniali potenzialmente infinite (basti, a tal riguardo, ricordare la recente approvazione alla Camera dei Deputati del DDL sul cosiddetto “processo breve” e l’approva-zione in commissione Giustizia del Senato dell’emendamento a firma del senatore Mugnai che modifica il codice di procedura penale con riferimento al diritto alla prova). Tali prospettive di intervento vengono ad inserirsi, inoltre, nell’ambito di un clima di progressiva e martellante delegittimazione della magi-stratura che ha finito per coinvolgere la stessa Corte Costituzionale, rappresentata quale ente che casserebbe leggi non gradite in quanto approvate dall’attuale maggioranza di governo. D’altro lato – anche se non meno rilevanti sotto il profilo della lesione delle garanzie del cittadino e dell’efficienza del sistema – occorre rammentare tutte quelle iniziative legislative, oramai innumerevoli, le quali concepi-scono lo strumento della legislazione in materia penale come una sorta di “spot” teso a sollecitare le istanze populiste e demagogiche provenienti dai settori più estremi dell’elettorato di alcune forze di maggioranza. Basti, a tal riguardo, ricordare le più recenti misure introdotte nei cosiddetti “pacchetti sicurezza” nelle quali sono state inserite fattispecie penali volte – attraverso un preoccupante ritorno al “diritto penale d’autore” – a sanzionare lo status stesso di cittadino extracomunitario clandestino (introduzione della circostanza aggra-vante dello stato di clandestinità, successivamente dichiarata inco-stituzionale dalla Consulta) o a punire (con il conseguente “ingorgo” delle aule di Giustizia rispetto a sentenze che mai potranno trovare effettiva applicazione) l’ingresso illegale nel territorio dello Stato. L’introduzione di sempre nuove figure di reato e di nuove fattispecie penali – non più considerate come estrema ratio rispetto agli altri strumenti di regolamentazione della vita sociale di un Paese – co-stituiscono ormai la prima e l’unica risposta che il Governo e la maggioranza che lo sostiene ritengono di dover dare alle continue emergenze che perennemente occupano le cronache dei media (emergenza immigrazione, emergenza criminalità). Tali interventi, tuttavia, operando in maniera frettolosa e frammentaria finiscono per scontrarsi, inevitabilmente, non solo con i principi basilari del sistema (basti pensare, ad esempio, alla dichiarazione di incostituzionalità dell’aggravante di costituzionalità), ma con l’impossibilità pratica che le nuove fattispecie penali trovino effettiva attuazione e rappresentino

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una risposta efficace al problema che pretendevano di risolvere (si pensi, sempre restando nell’ambito della repressione del fenomeno dell’immigrazione clandestina, alla recente introduzione del reato di clandestinità – art. 10 bis del Testo Unico in materia di immigra-zione – il quale sanziona chi fa ingresso o si trattiene illegalmente nel territorio dello Stato con l’ammenda da 5.000 a 10.000 euro). Immediata conseguenza – si potrebbe dire di matrice politico-culturale – dell’offensiva legislativa posta in essere dal Governo e dalla maggioranza che lo sostiene consiste nell’identificare l’esigenza di ostacolare e bloccare in ogni modo i processi che coinvolgono il Presidente del Consiglio con la invocata “riforma della giustizia”. Il dibattito in materia di riforma della giustizia pare, infatti, ormai squalificato alla discussione sulla legittimità dell’intervento della magistratura ad indagare sulla figura del Presidente del Consiglio e sulla pretesa supremazia di una invocata volontà e legittimazione popolare rispetto agli altri poteri dello Stato. In nome dell’investitu-ra rappresentata dal voto dei cittadini si giustificherebbero, in altri termini, tutti quegli interventi tesi ad ostacolare – a qualsiasi costo! – la possibilità di intervento della magistratura, considerata come una sorta di potere eversivo che si frappone tra il leader e la volontà popolare che a tale leader ha conferito il diritto-dovere di governare. Da tale corto circuito, ormai consolidatosi nel dibattito pubblico ita-liano, è discesa, per converso, la tendenza da parte di alcune forze politiche alla difesa strenua ed acritica dello status quo, quasi che l’unica riforma della giustizia concepibile fosse quella annunciata dal Presidente del Consiglio, al solo fine di garantirsi l’impunità in nome del cosiddetto “diritto a governare”.Dinanzi ad una tale concezione della giustizia, verso la quale ci si approccia in chiave unilateralmente personale al fine di perseguire gli interessi personali o elettorali del Presidente del Consiglio, esiste una prospettiva per un’ipotesi e per un’alternativa realmente rifor-mista? L’idea che muove gli amici del Forum Giustizia del Partito Democratico della Toscana e dell’Associazione Romano Viviani – i quali per primi hanno recepito l’importanza di ricercare un nuovo e diverso approccio al tema della Giustizia sia per far emergere i problemi che per ricercarne le soluzioni – è che un’alternativa pos-sa e debba esistere e che vada costruita a partire dalle istanze che provengono dal territorio e dalle effettive esigenze dei cittadini che

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si confrontano e si rivolgono al sistema giudiziario per ottenere il riconoscimento dei propri diritti nel rispetto delle garanzie previste dalla Carta Costituzionale. Insieme riteniamo che compito di forze responsabili che aspirano a tornare forze di governo sia – proprio per uscire dall’attuale impasse nella quale i riformisti italiani si trovano, costretti tra leggi ad per-sonam e la difesa a prescindere dell’attuale situazione – quello di elaborare ed esporre al Paese un disegno di riforma organica della Giustizia che si ponga nell’ottica di risolverne, anzitutto, i difetti di efficienza, sempre nel solco dei principi del Giusto Processo fissati dalla Costituzione. Solo attraverso un tale sforzo di elaborazione programmatica sarà possibile denunciare, in tutta la loro limitatezza, i disegni perseguiti dal Governo e combatterne – alla luce e forti di una proposta alternativa credibile – i tentativi di scardinare il sistema della giustizia nel nostro Paese.Il Quaderno monotematico dedicato alla Giustizia edito dall’Asso-ciazione Viviani – che auspichiamo e speriamo sia il primo di una lunga serie considerata l’importanza e il carattere strategico che il tema occupa nell’attuale contesto storico – si è prefisso l’ambizioso obiettivo di denunciare il tentativo in atto da parte della maggioranza parlamentare di scardinare i più basilari principi del nostro sistema giuridico attraverso e proprio tramite la proposizione di un disegno alternativo che affronti e prenda le mosse dalle reali emergenze che affliggono, nell’attuale congerie storica, il nostro sistema giudiziario. Per questa ragione, accanto ad una prima parte inevitabilmente dedicata ad affrontare le tematiche delle recenti iniziative legislative perseguite dalla maggioranza e dal governo, con particolare riguardo al DDL costituzionale di riforma della magistratura con le implicazioni sistematiche che essa comporterebbe ove venisse approvato, abbiamo ritenuto necessario affrontare, anche con un angolo prospettico che consapevolmente abbiamo voluto rivolto al dato locale toscano, gli argomenti della situazione carceraria, della giustizia civile e della sicurezza sul lavoro. Approccio “toscano” che si qualifica sulla base di una notazione ulteriore. All’elaborazione di questo progetto hanno contribuito – si direbbe in piena sinergia ove il termine non fosse abusato – diversi operatori del mondo giudiziario quali avvocati e magistrati uniti dalla consapevolezza che occorra, prima ancora dell’elaborazione di progetti di riforma, partire dalla ricerca di una

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cultura uniforme e condivisa della giurisdizione e della Giustizia nel nostro Paese, da concepire, prima di tutto, come servizio e come strumento per garantire e preservare i diritti dei cittadini. Specificità questa del dato toscano che ci permettiamo, di nuovo ambiziosamente, di proporre come modello da esportare anche oltre i confini della nostra regione e da individuare come l’unico approccio in grado di consentire – oltrepassando le inutili divisioni che, troppo spesso, non hanno fatto altro che facilitare il compito di chi punta allo sfascio del sistema – l’effettiva elaborazione di una riforma del sistema della quale vi è estremo quanto urgente bisogno.

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La giustizia va riformata, ma prima occorre ripartire da un’etica pubblica condivisa e dal rispetto delle istituzioni. Le ragioni a cui ancoriamo il nostro no alla “riforma epocale” della giustizia

Avv. Massimiliano Annetta Responsabile Forum Giustizia PD Metropolitano di Firenze

L’idea che l’opposizione si renda “complice” di qualcosa, e nella specie dell’odioso delitto di “intelligenza col nemico”, semplice-mente accettando il dialogo con la maggioranza, è la prova evidente che il male che sta divorando la nostra democrazia, lo svuotamento e la decadenza del Parlamento sovrano, non è solo figlio della nota allergia del Presidente del Consiglio per le Camere (a dirla tutta, come d’incanto attenuata da quando a tenerlo a galla è una rac-cogliticcia pattuglia formata da arruolati dell’ultima ora). Il virus ha attecchito bene, purtroppo, in tutti i campi, e le trombe del primitivismo, del massimalismo un tanto al chilo, suonano a tutte le ore riuscendo sovente a coprire, quando non a zittire, la voce della Politica. Ciò scrivo, perché sia chiaro sin da subito che lo spirito e l’intento mio, e degli amici dell’Associazione Romano Viviani che edita questo quaderno, sono quelli di tornare a porre al centro della scena l’elaborazione ideale, che riteniamo l’essenza della politica; insomma se il lettore andasse in cerca di bieca contrapposizione che riproduca l’antico vizio italiano della divisività (che sin dai tempi dei guelfi e dei ghibellini connota la nostra vita pubblica) mi sentirei

La riforma “epocale” della giustizia

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di consigliargli di interrompere la lettura di questo volume, e certo di questo mio contributo: non ne sarebbe soddisfatto.Posta questa premessa – invero doverosa attesa l’attuale temperie, prima ancora che politica, culturale – occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che a fronte della riforma “epocale” della giustizia strombazzata dall’attuale maggioranza non esistono le condizioni e politiche e di merito per un dialogo. Ciò non perché il proponente è Berlusconi; certo risulta scarsamente credibile un Presidente del Consiglio che accompagna il pacchet-to della riforma con i soliti sguaiati attacchi alla magistratura, e l’avviatissimo iter di modifica dell’art. 161 del codice penale (che presumibilmente quando questo contributo sarà dato alle stampe sarà consacrato in legge) con il taglio da un quarto ad un sesto dei tempi di prescrizione per gli incensurati – insomma, in soldoni, la prescrizione breve – mostra che ancora e sempre l’unica cosa che a Berlusconi riesce bene è farsi legislatore di se stesso.Tutto questo dimostra che il centro destra è capace di proporre, e spesso persino di approvare, delle “leggi vergogna” e anche, se non soprattutto, che Berlusconi è il vero grande ostacolo ad una sempre più indifferibile reale stagione di riforme, ma non è questo il punto centrale della questione, che deve ricondursi tutta al campo della politica e ad una diversa concezione circa la divisione dei poteri e il ruolo delle istituzioni di garanzia.In altri e più semplici termini, la questione centrale è etica e politica ed il dialogo è reso impossibile dalla circostanza, la quale non pare francamente revocabile in dubbio, che non è individuabile un’etica condivisa, elemento costitutivo di ogni stagione di riforme che non voglia risolversi in semplice espediente elettorale.Nell’ambito di questa pubblicazione autorevoli interventori argo-mentano il loro dissenso nel merito di molte proposte, ed invero pare difficile non accodarsi a giudizi tanto negativi a fronte di innovazioni come quella di rendere “semi-obbligatoria” l’azione penale che si pretenderebbe di disciplinare per legge ordinaria (valgano quale memento le parole di Giuliano Vassalli, padre del garantismo, il quale scriveva che il principio di obbligatorietà previsto dai costi-tuenti nel ‘48 non avrebbe mai dovuto essere modificato poiché riguarda l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge) oppure la proposta di ricondurre, come ai tempi di Piazza Fontana, la Polizia

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Giudiziaria alla dipendenza dell’Esecutivo. Così come preoccupano pure le “omissioni” del progetto di riforma, dal silenzio circa la revisione della geografia giudiziaria (in Italia ci sono 165 Tribunali e in 80 di questi il numero dei magistrati è inferiore alla soglia minima per funzionare) alla mancanza di qualsivoglia ipotesi di riforma del codice penale che resta ancora, e sempre, quello Rocco di epoca fascista, e quindi al fragoroso silenzio in materia di depe-nalizzazione, rimodulazione delle pene e ridefinizione delle cornici edittali, fino al ridimensionamento di tutte le politiche repressive (da qualche parte nei cassetti del Ministro Alfano si trova l’ottimo testo di riforma preparato nella scorsa legislatura dalla commissione parlamentare presieduta da Giuliano Pisapia).Non di meno, in queste righe preferiamo appuntare la nostra atten-zione sulle ragioni legate al contesto politico che, almeno ad avviso di chi scrive, fondano l’impossibilità ad intraprendere qualsivoglia dialogo. E invero, prima ancora di parlare di riforme, si dovrebbe ripartire dall’etica pubblica e dal rispetto delle istituzioni, e ciò per la semplice ragione che senza un rinnovato costume politico nessuna regola può stare in piedi. Di contro, questa riforma si innesta in un sistema politico che si orienta a tappe forzate verso una “presi-denzializzazione” in via di fatto fondata sul principio maggioritario (là dove non semplicemente sulla figura carismatica del leader), sull’indebolimento del Parlamento, sull’assenza di limiti alla volontà della maggioranza “eletta dal popolo”.In altri termini, la sventolata “riforma epocale” appare figlia legit-tima dell’idea radicata nell’attuale maggioranza di un’assolutezza del principio della sovranità popolare che fa considerare come una “illegittima” interferenza ogni decisione che provenga da autorità estranee al principio di maggioranza. Ecco allora che il punto centrale di questa ipotesi di riforma sta nello spostamento di significativi poteri dalle autorità di controllo alla classe politica; argomento questo in sé non insuscettibile di con-fronto, ma non negoziabile con chi non condivida l’intangibilità dei limiti al principio di maggioranza, oggi costituiti dalla separazione dei poteri, da un nucleo di diritti fondamentali collocati fuori delle contese politiche, da una magistratura indipendente, dal sindacato sulla conformità delle leggi alla Carta fondamentale operato dalla Corte Costituzionale.

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In conclusione, è evidente come il progetto di riforma costituisca la colonna su cui edificare un nuovo sistema politico tutto incen-trato sul principio maggioritario e sulla sua esclusività attraverso la delegittimazione preventiva delle istituzioni di controllo che sono estranee al voto. Questo è inaccettabile ed impedisce un dibatti-to pubblico, libero da pregiudizi sul nostro sistema giudiziario, e questa, non certo la declinante figura del premier, è la vera ragione che fonda l’indisponibilità al dialogo, con buona pace di chi accusa il campo progressista – anche dal proprio interno, e ciò con oscillando tra milazzismo e tafazzismo – di mancanza di propositività e di idee forti.

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Processo breve o prescrizione abbreviata?

Dott. Stefano Pagliai Coordinatore Forum Regionale Giustizia PD Toscana

In data 13.04.2011 la Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge in materia di “processo breve” che si trova ora all’esame del Senato in vista dell’approvazione definitiva. Il provvedimento, nella versione iniziale, prevedeva l’introduzione di “termini di fase” nell’ambito del processo penale il cui supera-mento avrebbe comportato l’estinzione del procedimento: più nello specifico si prevedeva un termine complessivo di 6 anni e 6 mesi (3 anni per il primo grado, 2 anni per l’appello e 1 anno e 6 mesi per l’eventuale ricorso in Cassazione) entro il quale il processo doveva giungere a conclusione, pena l’estinzione del processo con conseguente improcedibilità nei confronti dell’imputato.Dinanzi alle vibranti reazioni dell’opposizione parlamentare, della magistratura e di settori considerevoli dell’avvocatura, volte a sottolineare i molti aspetti critici e le ricadute potenzialmente de-vastanti sul sistema della giustizia penale che l’approvazione di un simile progetto di riforma avrebbe comportato, il provvedimento sembrava caduto sul cosiddetto “binario morto”. La previsione di termini inderogabili entro i quali concludere il processo nelle varie fasi in cui quest’ultimo si ripartisce costituiva, infatti, in assenza di una riforma più generale del comparto giustizia teso a razionalizzarne e migliorarne l’efficienza, nient’altro che l’enne-sima norma volta ad estinguere alcuni processi senza valutare le conseguenze e gli effetti che ciò avrebbe provocato sul sistema. Il testo approvato a tambur battente e con tempi contingentati dalla Camera in aprile è stato totalmente stravolto senza, tutta-via, dimenticare le ben note esigenze che già avevano spinto il legislatore alla presentazione del testo originario. Ed invero, nel testo all’esame del Senato si conferma l’operatività dei “termini di fase” per ciascun grado del giudizio, diversamente articolati in funzione della gravità del reato. Tali termini possono essere prolungati con decreto del giudice procedente qualora necessario in ragione del numero degli imputati, dalla complessità dell’im-

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putazione e degli accertamenti istruttori. All’inutile decorso di tali termini, tuttavia, il testo della Camera ricollega non l’estin-zione del processo, bensì una comunicazione da parte del capo dell’ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che procede al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. Come evidente, pertanto, rispetto agli interessi del cittadino che si trovi danneggiato da una durata eccessiva del procedimento che lo interessa non si dispone alcunché: nessun intervento viene apprestato per consentire un più proficuo utilizzo delle, peraltro scarse, risorse umane ed economiche a disposizione del comparto giustizia. L’unica conseguenza correlata al superamento dei ter-mini di fase consiste, con un intento evidentemente persecutorio ed intimidatorio nei confronti del Giudice, nella mera nota rivolta al CSM e al Ministro della giustizia.Nel corpo del testo del progetto di legge, tuttavia, con un vero e proprio blitz parlamentare compiuto nottetempo, è stato approva-to un articolo aggiuntivo del relatore che modifica l’articolo 161 c.p. in materia di effetti dell’interruzione della prescrizione del reato. Conseguenza immediata della modifica consiste nel ridurre ulteriormente – da un quarto ad un sesto del tempo necessario a prescrivere – il termine massimo affinché il reato possa venir dichiarato estinto per intervenuta prescrizione nei confronti dei sog-getti incensurati. Tale modifica – che peraltro interviene a ridurre ulteriormente i termini prescrizionali già ampiamente abbassati ad opera della c.d. legge ex Cirielli del 2005 – avrà come effetto im-mediato il raggiungimento della prescrizione per un considerevole numero di procedimenti tra i quali, non casualmente, compare il processo Mills che vede imputato il Presidente del Consiglio così da permettergli di evitare una condanna, anche solo in primo grado, in tale procedimento. Trova pertanto ulteriore conferma la circostanza che l’unico interesse in grado di muovere l’attuale maggioranza di governo in materia di Giustizia consista nel preservare gli interessi personali del Presidente del Consiglio consentendogli, con norme disegnate ad hoc, di sfuggire al giudizio dei Tribunali. Con l’ap-provazione del DDL sul processo breve – che tuttavia, rispetto ai contenuti licenziati dalla Camera in aprile, parrebbe più opportuno denominare legge sulla prescrizione breve – infatti i termini di prescrizione per il reato di corruzione in atti giudiziari nei quali

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risulta imputato il premier vengono a ridursi da 7 anni e mezzo a 7 anni: una riduzione di soli 6 mesi necessaria, ma sufficiente, per impedire al Tribunale di Milano di pronunciarsi sulle condotte contestate a Silvio Berlusconi. Il nobile e condivisibile intento di ridurre i tempi – spesso intolle-rabili – dei processi in adesione al disposto dell’articolo 111 della Costituzione cui il disegno di legge del tutto immeritatamente di-chiara di richiamarsi risulta, pertanto, assolutamente tradito: sotto le mentite spoglie di una riduzione dei tempi dei processi penali si è introdotta una ulteriore riduzione dei termini prescrizionali a tutto vantaggio dei soliti noti e nel totale disinteresse dei reali interessi dei cittadini a una giustizia rapida ed efficiente.

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La responsabilità civile dei magistrati

Dott.ssa Antonietta Fiorillo Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

Emendamento C 4059 all’art. 2 L. 13.4.1988:1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamen-to, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a re-sponsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.3. Costituiscono colpa grave:

a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescu-sabile;b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della perso-na fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.

Art. 2 L. 13.4.1988: risarcimento dei danni nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati.All’articolo 2, della legge 13 aprile 1988, n. 117, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) Al comma 1 le parole: “con dolo o colpa grave” sono sostituite dalle seguenti: “in violazione manifesta del diritto”;b) Il comma 2 è soppresso.

La previsione di modifica della legge sulla responsabilità civile dei magistrati non appare condivisibile per molte buone ragioni.

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Innanzitutto è necessario chiarire che non corrisponde al vero l’af-fermazione secondo cui i magistrati “non pagano di tasca propria” per i danni causati colpevolmente.Attualmente, infatti, esistono ben cinque forme di responsabilità per i magistrati: penale, civile, disciplinare, contabile, professionale.Tra queste la responsabilità civile è prevista in forma indiretta nel senso che, in caso di dolo o colpa grave del magistrato, è lo Stato che indennizza il cittadino e che, poi, ha diritto a rivalersi sul magistrato.Per quanto riguarda la responsabilità professionale, le norme dell’or-dinamento giudiziario (legge che disciplina la carriera dei magistrati) prevedono che, ove la valutazione di professionalità operata dal Consiglio giudiziario del distretto in prima battuta, organo distrettuale chiamato a dare pareri al C.S.M. composto oltreché da magistrati da un rappresentante dell’Avvocatura ed un rappresentante del mondo accademico, e poi dal C.S.M., organo di autogoverno che si occupa di ogni aspetto della carriera dei magistrati, abbia esito non favorevole al magistrato, vi sia il blocco della progressione in carriera anche con riferimento all’aspetto economico; non solo: in caso di seconda valutazione non favorevole dopo un anno, è prevista la dispensa dal servizio.Con riferimento alla responsabilità disciplinare si deve evidenziare che, anche secondo i dati raccolti dalla Commissione europea sull’ef-ficienza della giustizia, l’Italia risulta tra i Paesi con un più efficace sistema disciplinare sia per numero che per tipo di sanzioni inflitte.Con riferimento specifico al nostro Paese la categoria dei magistrati è quella più soggetta al controllo disciplinare sia rispetto al pubblico impiego che a tutte le altre categorie professionali.Occorre poi evidenziare come la limitazione esistente rispetto alla responsabilità civile, in particolare, è connaturata alla peculiarità della funzione giudiziaria che in ogni caso ed in ogni momento richiede valutazioni di tutti gli elementi di fatto che si riferiscono al caso.Ogni atto a carattere giurisdizionale, infatti, finisce per incidere inevitabilmente sui diritti soggettivi ed è intrinsecamente idoneo a produrre un danno; si pensi a cosa può significare concedere o no un sequestro, ammettere o no una prova, concedere o meno una provvisoria esecuzione, emettere un provvedimento di custodia cautelare. Non esiste, praticamente, alcun atto del giudice o del Pubblico Ministero che non comporti per una delle parti, nel pro-

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cedimento civile come in quello penale, conseguenze importanti, a volte anche dolorose. La riforma prospettata, quindi, renderebbe i giudici e i Pubblici Ministeri meno liberi; ciascuno potrebbe essere indotto, anche inconsciamente, ad impegnarsi più che nel rendere un provvedimento giusto, nel rendere un provvedimento “innocuo”, che non gli comporti conseguenze dannose quanto a responsabilità.E non solo: proprio per evitare danni il giudice potrebbe essere spinto ad adottare decisioni sempre conformi alla interpretazione delle norme secondo la giurisprudenza prevalente guardandosi bene dall’impegnarsi in interpretazioni delle norme nuove e diverse che in questi anni hanno consentito la tutela dei diritti delle persone non espressamente tutelati dalle norme.Con quale serenità continuerebbe a lavorare un giudice sapendo che la parte che si senta ingiustamente colpita dalla sua decisione lo potrà citare per danni?E come non pensare ad esposti pretestuosi da parte di coloro che hanno più mezzi per “sbarazzarsi” di un giudice ritenuto scomodo costringendolo ad astenersi?Ma gli effetti più devastanti si avrebbero nel processo penale e con riferimento, in particolare, alla tutela di quegli interessi c.d. diffusi colpiti dai reati quali quelli in materia di urbanistica, edilizia, inqui-namento.In sintesi: la riforma proposta non responsabilizzerà di più i magi-strati e non servirà ad ottenere una giustizia più efficiente e di qualità perché essa “punisce” l’azione e “premia” l’inerzia professionale.Essa non risolverebbe, ma aggraverebbe i mali del sistema giustizia incidendo non tanto e non solo sui magistrati, ma soprattutto sui citta-dini andando a colpire il principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Un giudice meno libero e quindi sereno finirà fatalmente per essere certamente un giudice meno “giusto”.

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L’epocale pasticcio della riforma costituzionale della giustizia

Dott. Beniamino Deidda Procuratore Generale della Repubblica di Firenze

Da molti anni ormai in questo paese si è posta la questione del rapporto tra il potere e le istituzioni e, in particolare, dell’uso che di questo potere viene fatto. Si è cominciato circa 15 anni fa a va-rare leggi ad personam, quanto di più distorto si possa immaginare rispetto allo stato di diritto. E poi, progressivamente, abbiamo assistito alla torsione e all’erosione del tessuto istituzionale, all’ap-provazione di leggi più o meno contrarie ai principi della Costitu-zione, all’aggressione alla magistratura da parte del Governo e della maggioranza parlamentare.Tutto questo pone non solo il tema della legalità ma anche quello della democrazia e del rispetto della Costituzione. Oggi nel nostro paese la questione della legalità coincide con la questione della democrazia.E infatti l’illegalità non assume solo le forme della violazione di questa o quella legge, ma anche quella della violazione dei prin-cipi di fondo su cui si regge la democrazia. Il fatto è che spesso l’attentato ai principi democratici o alla Costituzione da noi spesso prende il nome di “riforma”.Sul tema della giustizia noi assistiamo a una crisi di valori e più propriamente dei principi assunti come contenuti fondamentali della democrazia.Tutti possono intendere che i valori posti a fondamento della vita di una comunità e della Costituzione non possono dipendere dagli schieramenti politici che ottengono la maggioranza in un certo momento. I valori costituzionali servono a dare vita a un ordine nel quale tutti possano riconoscersi e vivere sicuri. Quindi il discorso sui temi delle riforme costituzionali prescinde dalle vicende politiche ed elettorali; occorre anzi garantirsi contro i pericoli che vengono dal prevalere delle posizioni di parte, quali che siano le forze politiche che prevalgono nel paese in un certo momento storico.I valori costituzionali da preservare sono i principi che hanno grande

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valenza politica, ma sono essi stessi sottratti alla lotta politica, poiché in essi ogni parte politica dovrebbe riconoscersi.Quali sono oggi questi principi in cui l’intera comunità può rico-noscersi?È necessario stabilirlo, perché su questi principi occorre misurare la validità della riforma costituzionale della giustizia.Va notato, di passaggio che: la riforma viene presentata nel momen-to peggiore, quello in cui Berlusconi deve presentarsi ai giudici in ben quattro processi contemporanei, accusato di gravissimi reati.Ora, per capire se davvero questa riforma costituzionale possa cambiare la giustizia in Italia, è bene precisare in quale ambito costituzionale si deve muovere chi amministra la giustizia. La Co-stituzione ci indica i due binari entro i quali si devono muovere i giudici:l la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo

e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art.2 Cost.);

l tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge (art. 3 Cost.).

Per garantire questi due valori fondamentali la carta costituzio-nale ha previsto una rigida separazione dei poteri, garantendo esplicitamente l’indipendenza di tutta la magistratura (giudici e PM), senza la quale l’uguaglianza di tutti i cittadini è destinata a restare un’affermazione vuota; anzi, i costituenti non hanno ritenu-to sufficiente la mera separazione dei poteri e hanno istituito due organi di garanzia e di controllo che devono vigilare sull’effettiva realizzazione del disegno costituzionale. Questi due organi sono: il Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale. Le funzioni di questi due organi sono il momento più alto della difesa dei diritti di tutti e dei principi fondamentali della Costituzione. Attaccare quasi quotidianamente questi organi, come avviene in Italia, è una gravissima minaccia per le istituzioni democratiche, incompatibile con il senso dello Stato, che ha l’intollerabile effetto di minare la funzione di garanzia che questi organi sono chiamati a svolgere. Quando si insinua che la Corte Cost. agisce in base a logiche po-litiche o faziose, ci si avventura su un terreno nel quale non esiste più un patrimonio di principi condivisi da tutti e si scardina il senso più profondo della convivenza civile.

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Queste sono le condizioni minime che caratterizzano il rapporto tra i poteri dello Stato, senza le quali il patto costituzionale si dis-solve e perde la sua efficacia Queste condizioni non possono essere cambiate neppure con riforme costituzionali perché la loro modifica darebbe vita a una diversa Costituzione, fondata su principi diversi.Sono rispettati i principi sopra richiamati nella riforma costituzionale che viene proposta dal Governo? Vediamo.Il titolo della Costituzione che viene cambiato è il titolo IV. Non si chiamerà più “La Magistratura”, ma “La Giustizia”. E perché mai? Il sospetto è che si voglia dire che la Magistratura non sarà più un organo di rilievo costituzionale.Gli articoli che subiscono una decisiva modifica sono gli artt. 101 e 104 Cost. Nel testo vigente si dice che la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. Per il nuovo art. 101 solo i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti solo alla legge. Dunque i PM no. Non esiste più la garanzia costituzionale che essi sono autonomi e indipendenti da ogni potere. Se la legge li ponesse alle dipendenze del potere esecutivo non sarebbe violata nessuna norma della Costituzione. L’art. 102 oggi vigente stabilisce che la funzione giurisdizionale è esercitata da “magistrati ordinari”. La riforma stabilisce che la giurisdizione è esercitata dai “giudici ordinari”. Dunque i PM non faranno più parte della giurisdizione, sono scorporati dall’ordine giudiziario autonomo e indipendente che sarà fatto di soli giudici.Completa questo gravissimo strappo la riscrittura dell’art. 104: i magistrati saranno nettamente distinti in giudici e P.M., le cui car-riere devono essere separate con leggi ordinarie. Ma soprattutto è rilevante che nella riforma i P.M. non appartengono più all’ordine giudiziario, ma costituiscono un “ufficio”, la cui organizzazione è disciplinata con legge ordinaria. La medesima legge ordinaria dovrà assicurare l’autonomia e l’indipendenza dei P.M. E se non lo farà? E se lo farà solo in parte? Insomma, c’è una bella differenza tra garantire l’indipendenza per Costituzione o per legge ordinaria.Se queste sono, dunque, letteralmente le proposte di modifica della nostra Costituzione, per quanto riguarda la collocazione del Pubblico Ministero è necessario dire con chiarezza quali saranno gli effetti di questa riforma.

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Intanto è da notare che la riforma rinuncia a regolare il funziona-mento e lo status della magistratura con legge costituzionale e si limita a rimandare la disciplina relativa alla legge ordinaria, anzi a ben 11 leggi ordinarie elencate dal governo nella sua proposta. Ciò significa che il funzionamento della giustizia, i cui punti fondamentali prima erano regolati con norme di rango costituzionale, viene ora disciplinato con legge ordinaria, che può essere varata da qualsiasi maggioranza raccogliticcia, come quella che ora ci governa. Ma soprattutto significa che il funzionamento della giustizia, cioè la ga-ranzia dei diritti di ogni cittadino, non è più materia costituzionale, ma può essere soggetto a qualsiasi colpo di mano delle maggioranze contingenti. Per questa strada la Costituzione si avvia a diventare un guscio vuoto in materia di giustizia. Il guscio lo riempiranno le leggi ordinarie. Se sarà questa maggioranza a farlo, sappiamo già come lo farà; lo abbiamo imparato dalle sentenze della Corte Costituzionale che hanno ripetutamente dichiarato illegittime tutte le recenti riforme in materia di giustizia. Si aggiunga che le bozze delle leggi ordinarie che dovrebbero attuare la riforma costituzio-nale non vengono fatte conoscere dal governo, come un minimo di trasparenza avrebbe dovuto consigliare. Una di queste leggi è destinata a regolare i rapporti tra P.M. e polizia giudiziaria ed è destinata ad incidere significativamente sull’eserci-zio obbligatorio dell’azione penale. Sono significative le modifiche al testo costituzionale oggi vigente. All’art. 109 C (“l’autorità giu-diziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria”) l’avverbio “direttamente” non figura più. E nell’art. 112 l’efficace formula (“Il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) registra l’aggiunta “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Da un lato dunque il P.M. non potrà più disporre direttamente della P.G.; dall’altro dovrà esercitare l’azione penale secondo i criteri fissati dal Parlamento.Dunque per alcuni tipi di reato, quelli scelti dal Parlamento, l’azione penale sarà obbligatoria; per gli altri reati un po’ meno.Si aggiunga che in una delle proposte di legge preparate dal Ministro Alfano si prevede che l’azione penale sia esercitata solo su impulso della polizia giudiziaria. Il P.M., cioè, perderà la facoltà di cercare per conto proprio la notizia di reato e di esercitare autonomamente l’azione penale. È per questa via che può avvenire la mutazione genetica delle funzioni del P.M. (questa sì epocale): da tutore della

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legge, anche eventualmente a vantaggio dell’imputato, ad avvocato della polizia. È evidente il rischio di una torsione delle funzioni del P.M. in senso repressivo.Ma, quali che saranno le leggi ordinarie destinate a separare le carriere, a regolare i rapporti tra PM e PG, a stabilire i reati da perseguire con priorità ecc., si può dire fin d’ora che questa pro-posta di riforma costituzionale incide in profondità: ma non sulla giustizia (perché i processi non saranno più rapidi, né le sentenze più giuste o le procedure più snelle ecc). Essa invece inciderà in profondità sulla democrazia o, meglio, sul modello di democrazia disegnato dai costituenti che era imperniato su una insuperabile divisione dei poteri.L’esigenza di limitare i poteri dei magistrati suggerisce a Berlusconi di aggredire tutti i meccanismi che tutelano l’indipendenza della magistratura e, indirettamente, la legalità. Lo strappo più vistoso – come si è visto – riguarda i PM. C’era una ragione se la Costituzione aveva legato inscindibilmente il destino dei PM a quello dei giudici: era la necessità di evitare che la funzione inquirente fosse attratta nell’orbita del potere politico. Ebbene, la riforma taglia questo legame attraverso due meccanismi micidiali: ridimensiona il potere del PM di disporre direttamente della PG e travolge nella sostanza la regola dell’obbligatorietà dell’azione penale.Il senso vero di questo progetto di riforma costituzionale, al di là delle dichiarazioni pubblicitarie, è quello di limitare il controllo di legalità che la Costituzione ha assegnato alla Magistratura. Se è così, l’obiettivo non è la garanzia di ogni diritto per il cittadino, ma la tutela di quelli che vedono nel controllo di legalità il vero ostacolo al mantenimento dei loro privilegi e alla possibilità di agire con le mani libere.

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La “semi-obbligatorietà dell’azione penale”: ovvero come disarticolare l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge

Avv. Massimiliano Annetta Responsabile Forum Giustizia PD Metropolitano di Firenze

Tra gli aspetti maggiormente critici e di maggiore impatto sistema-tico del Disegno di legge costituzionale in materia di riforma della Giustizia si presenta la modifica dell’art. 112 della Costituzione il quale, nella versione attualmente in vigore, prevede, sic et simpli-citer, che “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Tale principio, non casualmente, è stato inserito nel testo costituzionale in quanto costituisce una chiaro postulato del principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge: stabilire, infatti, che il pubblico ministero debba esercitare obbligatoriamente l’azione penale significa che, indipendentemente dalle condizioni, dallo status, dal potere e dalle condizioni economiche del soggetto che si ritenga aver commesso un reato, l’organo dell’accusa è tenuto, per specifica disposizione costituzionale, ad esperire l’azione penale. D’altro lato, qualunque soggetto si ritenga danneggiato o colpito da condotte riconducibili sotto fattispecie di reato, risulta tutelato e garantito dalla circostanza che il pubblico ministero dovrà, obbliga-toriamente, accertare l’eventuale sussistenza di un’ipotesi di reato dopo aver compiuto le necessarie indagini preliminari. Ebbene, nel progetto di riforma proposto dal Governo, si prevede che il p.m. debba esercitare l’azione penale “secondo i criteri stabiliti dalla legge”. Tale, apparentemente innocua e limitata mo-difica, comporterebbe una sottoposizione dell’esercizio dell’azione penale all’elenco di priorità che verrebbero stabilite dalla legge – ergo dal Parlamento e dalle maggioranze che vi si alternano -, con una sostanziale lesione del principio supremo di uguaglianza di tutti i cittadini. Stabilire, ad esempio, che gli uffici del p.m. debbano perseguire in via prioritaria determinate fattispecie di reato rispetto ad altre rappresenterebbe – soprattutto nell’attuale scenario di malfunzionamento e di carenza ormai cronica di risorse

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della macchina giudiziaria – nient’altro che la rinuncia dello Stato a punire determinate condotte delittuose ritenute meno gravi e di minore interesse. Potremmo, pertanto, assistere a maggioranze parlamentari che, alla continua ricerca del consenso, introducano scale di priorità che obblighino i pubblici ministeri a perseguire, in primis, ad esempio, i reati di delinquenza comune o i reati, re-centemente introdotti nel nostro ordinamento, connessi al contrasto all’immigrazione clandestina, con ciò tralasciando i reati contro la pubblica amministrazione o tutti quei reati dei “colletti bianchi” i quali, anche in tempi piuttosto recenti, hanno dimostrato tutta la loro pericolosità ed insidiosità per l’interesse generale. Non vi è dubbio, infatti, che esistono fattispecie di reato le quali, pur non producendo un allarme sociale immediato e diretto (vedasi, ad esempio, i fatti di corruzione diffusa o i reati finanziari), finiscono per influire sul benessere della collettività sociale in maniera assai più consistente di altre ipotesi di reato. Non solo: la spirale mediatico-propagandistica che agisce nella comunità comporterebbe che il Parlamento, sull’onda emotiva dell’ultima emergenza artatamente esacerbata dai media (emergen-za immigrazione, emergenza incidenti stradali ecc.), finirebbe – per rispondere alle pulsioni populiste e demagogiche – per mutare continuamente l’ordine delle priorità introducendo nuove figure di reato che diverrebbero, al contempo, la priorità da perseguire da parte delle Procure della Repubblica.Il disegno perseguito dal Governo, del resto, pare facilmente sve-labile: non si interviene, infatti, in alcun modo, a razionalizzare il nostro sistema penale, continuando a perseguire come reati con-dotte che potrebbero facilmente – e più efficacemente – essere represse attraverso sanzioni amministrative (basti pensare al fatto che costituisce reato – con la conseguente necessità di instaurare un processo penale con il correlato dispendio di energie e risorse – l’imbrattamento dei muri o il mancato versamento di ritenute previdenziali) con ciò impedendo alla magistratura di riuscire a perseguire in maniera più efficace ed effettiva tutte le notizie di reato, ma si introduce la possibilità per il legislatore di inserire delle scale di priorità nel perseguimento dei reati così aggirando il principio della separazione dei poteri e introducendo un pericoloso vulnus al principio di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.

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Sicurezza del lavoro e CostituzioneDott. Beniamino Deidda Procuratore Generale della Repubblica di Firenze

Gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali costituiscono anco-ra per il nostro paese un gravissimo problema sociale ed umano. Il fenomeno non è costituito solo dal numero dei morti che ogni anno producono una strage, silenziosa e presto dimenticata, di lavoratori. È dato anche dal numero rilevante di feriti, dalla gravità dei postumi permanenti che irrimediabilmente rovinano l’esistenza degli infor-tunati, dalla rassegnazione spesso diffusa tra i lavoratori a forme di lavoro in cui la scarsa sicurezza è la regola.Si dirà che mai come negli ultimi tempi si è posto l’accento sulla gravità del fenomeno infortunistico. Lo ha fatto spesso con grande energia il Capo dello Stato, sollecitando interventi ed impegno; lo hanno fatto alcune istituzioni, l’hanno fatto la stampa e le televisioni. Ed è di questi giorni il clamore e l’emozione sollevati dalla sentenza di condanna per la strage alla Thyssen, che per la prima volta ha punito per dolo l’omissione delle misure di sicurezza da cui è derivata la morte dei lavoratori. Eppure ancora oggi dei tanti morti e degli infortuni gravissimi si parla pochissimo e per il breve lasso di tempo in cui dura la reazione emotiva dei lavoratori dell’azienda in cui l’infortunio si è verificato. Poi più nulla fino al successivo infortunio mortale. Ma bisogna anche sottolineare il silenzio che circonda le malattie da lavoro. Le malattie professionali non fanno notizia, le statistiche non le contemplano, si muore anche molti anni dopo avere abbandonato il lavoro ed è troppo complicato stabilire il nesso causale con l’esposizione ad agenti nocivi sul lavoro. È un tema questo su cui è difficile fare propaganda o demagogia e allora viene accantonato.A questa sordità, che è insieme culturale e sociale, si accompagna la scarsa attenzione che caratterizza i processi penali per gli infortuni

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e le malattie professionali e la scarsa specializzazione dei magistrati chiamati ad occuparsi di questi processi. Si tratta dunque di un fenomeno complesso che ha come filo conduttore la necessità di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da una realtà tragica che vede ancora i luoghi di lavoro come quelli in cui, più o meno impunemente, si può attentare alla salute, all’incolumità e alla dignità dei lavoratori. Salute, sicurezza e dignità dei lavoratori fanno parte di quel pacchetto di diritti forti della personalità che la Costituzione tutela con particolare attenzione.Secondo l’art. 1 l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Tra i molteplici significati che si possono dare all’articolo ce n’è uno che non ha bisogno di retorica per apparire in tutta la sua evidenza. Se la Repubblica è fondata sul lavoro, tale lavoro deve essere commisurato alla dignità degli uomini. Non può essere né il lavoro incerto né il lavoro insicuro né il lavoro pericoloso. Sicuramente non può essere il lavoro che mette a repentaglio altri fondamentali beni costituzionali: non può essere il lavoro nel quale si rischia la vita, oppure di perdere la salute, oppure di mettere in pericolo la propria incolumità.Ricordo che nei discorsi di inaugurazione dell’anno giudiziario i vecchi Procuratori Generali degli anni ’60 dicevano che, certo, gli infortuni sul lavoro erano tanti ma questo era l’inevitabile prezzo da pagare al progresso tecnologico e scientifico. Dietro questa ideologia della fatalità non c’era solo lo scarso rispetto dei principi della Costitu-zione, c’era anche un equivoco risalente ad un luogo comune difficile a morire. Quello, cioè, che non esiste attività umana dalla quale il pericolo possa essere del tutto eliminato. Bisogna cioè convivere col rischio, perchè non ci sarà mai un’attività lavorativa a rischio zero.Il luogo comune contiene una piccola porzione di verità: è vero che il rischio accompagna l’attività lavorativa. Ma le attività lavorative, più o meno rischiose, non possono divenire pericolose per il lavoratore, perché a questo mirano le norme di prevenzione, a governare il rischio e non farlo mai degenerare nel pericolo. Ma non osservare le norme di prevenzione significa non rispettare alcuni principi contenuti nella nostra Costituzione. Il primo è contenuto nell’art. 2 laddove si legge: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo…”. Non vi è dubbio che il diritto alla vita, alla salute, all’incolumità siano diritti

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inviolabili. Ebbene, essi non sono un regalo del legislatore, dal mo-mento che i due verbi “riconosce” e “garantisce” ci attestano che questi diritti esistevano prima del riconoscimento costituzionale. Il legislatore che non tutelasse il diritto alla salute o all’incolumità dei lavoratori si porrebbe fuori dalla Costituzione. E violerebbe anche un altro principio presente nell’art. 2 che è espresso nel periodo: “La Repubblica richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Questo dovere di solidarietà implica necessariamente che coloro che dispongono e utilizzano il lavoro altrui devono garantire la salute e l’incolumità dei lavoratori. Tale garanzia è appunto implicita nel dovere di solidarietà sociale che impone di apprestare le opportune misure di tutela dell’incolumità e della vita dei lavoratori. Vi è per-tanto nel nostro Ordinamento un vero e proprio diritto soggettivo alla sicurezza sul lavoro, indisponibile, incomprimibile e da annoverare tra i diritti forti e inalienabili della persona.Eppure per molto tempo la libertà di impresa, garantita dalla Costituzione, è stata interpretata come il divieto per il legislatore ordinario di dettare norme cogenti per i datori di lavoro in materia di organizzazione del lavoro. Per circa cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione il legislatore ha imposto norme di pre-venzione anche severe in materia di rischi specifici per i lavoratori, ma si è guardato dal dettare norme relative all’organizzazione della sicurezza e dell’attività lavorativa in generale.I primi timidi tentativi di intervenire su questo delicatissimo piano sono stati fatti dal legislatore italiano con il decreto legislativo 277 del ’91 in materia di prevenzione dei rischi da piombo, amianto e rumore. In seguito più decisamente il decreto legislativo 626/94 ha stabilito che ogni luogo di lavoro dovesse adottare determinate procedure organizzative e gestionali. Ed infine oggi il nuovo Testo Unico 81/08 impone ai datori di lavoro di adottare rigide forme di organizzazione della sicurezza e addirittura moduli di gestione validati dagli organismi competenti.Dalle statistiche, anche recenti, apprendiamo che la Toscana è una delle regioni più esposte agli infortuni sul lavoro. Com’è possibile che la civilissima Toscana registri un numero di infortuni tra i più alti delle regioni italiane? Eppure i servizi di prevenzione delle ASL sono a regime, né si può dire che la Toscana non possa permettersi

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interventi di prevenzione sui luoghi di lavoro, né che manchino le leggi necessarie a governare il rischio nelle aziende.Attualmente non solo le leggi non mancano. Anzi, sono l’unica cosa che ci rende eguali agli altri paesi europei, nei quali il fenomeno infortunistico ha dimensioni più ridotte rispetto al nostro. Nel 2008 negli ultimi mesi del Governo Prodi ha visto finalmente la luce il TU sulla sicurezza che era atteso da trent’anni. Purtroppo il decreto correttivo 106 del 2009 ha in parte indebolito l’impianto del TU, introducendo norme meno severe per i datori di lavoro. Ma non ci vuol molto a capire che anche il miglior testo unico del mondo non farebbe diminuire nel breve o medio termine neppure di una unità il numero dei morti sul lavoro. Un conto è darsi buone leggi un conto è riuscire ad applicarle nei luoghi di lavoro. Le leggi dunque sono sufficienti, specie dopo il recepimento delle più importanti direttive della CEE. Ciò che rende diverso il nostro paese dal resto dell’Europa è il modo in cui ci accostiamo alle leggi, anche a quelle fatte meglio.Sul nuovo Testo Unico della sicurezza si gioca una scommessa e non è detto che sarà una scommessa vinta, almeno finché le aziende non faranno un salto di qualità nella loro cultura della sicurezza.Comunque non possiamo limitarci a prendere atto dell’esistente. Occorre chiederci perché nonostante le buone leggi si continui a morire di lavoro. Temo che le responsabilità siano di molti e che quasi nessuno faccia fino in fondo la parte che la legge gli assegna.Cominciamo col dire che c’è una responsabilità della magistratura. In un sistema fondato su norme la cui violazione è quasi sempre san-zionata penalmente, se i reati non vengono perseguiti con efficacia e i responsabili non sono puniti tempestivamente, l’intero sistema perde credibilità. Ma la lentezza dei processi, l’esiguità delle pene, i patteg-giamenti e i proscioglimenti per prescrizione delle contravvenzioni ci dicono con quale svogliatezza la magistratura si accosti a questo tipo di reati. Del resto quanti sono i magistrati che davvero sono specia-lizzati in questa materia? Pochissimi, nonostante il numero altissimo di procedimenti per infortunio che toccano a ciascun magistrato. C’è una ragione se la gran parte dei colleghi non desidera specializzarsi. Ed è che la considerazione di questi fenomeni criminosi è ancora marginale, anche se qualcosa lentamente va cambiando. Ma c’è una seconda responsabilità, assai più grave. Ed è quella dei datori di lavoro. So benissimo che rispetto a qualche decennio fa

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esiste una maggiore e più diffusa sensibilità per i temi della salute sul lavoro. È stato uno degli effetti positivi della legge 626/94, che ha prodotto una notevole circolazione di formazione e di informazioni. Ma la legge non poteva fare il miracolo di trasformare da sola i luoghi di lavoro inadeguati. Il risultato, dopo tredici anni di vigore della 626, è che ancora troppe aziende considerano la sicurezza e la prevenzione come variabili indipendenti e non come necessarie strategie della produzione. In Toscana, dove la piccola e piccolissima impresa domina incontrastata, gli investimenti sulla prevenzione non vengono ritenuti redditizi e l’atteggiamento psicologico del datore di lavoro è piuttosto quello di considerare gli adempimenti procedurali ora previsti dal d. 81/08 come fastidiosi adempimenti burocratici che fanno perdere tempo e denaro e nulla hanno a che vedere con l’effettiva prevenzione dai rischi, dinanzi ai quali l’atteggiamento medio del datore di lavoro si può riassumere col motto “speriamo che non succeda niente”.Ancora in tutta Italia si fanno processi in cui l’infortunio è giustifi-cato come una tragica fatalità e non come prodotto della pessima organizzazione del lavoro. Bisognerà pure trovare qualcuno che spieghi ai datori di lavoro che investire in prevenzione conviene, anche solo se si guarda all’elementare calcolo di quanto costino in termini economici la morte o le lesioni conseguenti all’infortu-nio, se non altro per l’esercizio dell’azione di regresso dell’Inail. Se poi si calcolano i risarcimenti e le rendite, le cifre diventano astronomiche. Ma i datori di lavoro non sono i soli responsabili ella mancata prevenzione.Alla creazione di un luogo di lavoro sicuro concorrono (o meglio dovrebbero concorrere) a vario titolo una serie si soggetti che, neppure loro, fanno interamente la loro parte. Penso ai medici competenti, talvolta indifferenti al ruolo fondamentale ed autonomo che la legge gli assegna. Penso ai responsabili del servizio di pre-venzione e protezione, talora più realisti del loro datore di lavoro e inclini ad usare le loro conoscenze tecniche per eludere le norme piuttosto che per applicarle meglio. Penso infine ai rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza ed al senso che la loro presenza po-trebbe avere all’interno dei luoghi di lavoro. E mi chiedo qualche volta se non siamo di fronte ad una formidabile occasione persa o, almeno, persa finora.

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Ci sono ancora troppe aziende in cui non sono stati designati i RLS e ci sono troppe aziende in cui i RLS designati non svolgono quell’o-pera di controllo, di stimolo e di denuncia che la legge gli riserva.E infine ci sono gli organi di vigilanza, cioè quei soggetti pubblici ai quali la legge affida il controllo della conformità delle situazioni aziendali alle norme di legge. Ebbene credo che si possa dire che oggi l’attività di vigilanza, intesa come articolata opera di prevenzio-ne, attraversa una fase di stanchezza. Ci sono molte spiegazioni, ma una prevale su tutte: la mancanza di adeguate risorse e la sempre crescente indifferenza dello Stato per questa che è una delle sue funzioni essenziali. Da tempo il mondo degli imprenditori guarda con fastidio alla vigilanza nei luoghi di lavoro. La vigilanza viene vista come sinonimo di repressione perché espone il datore di lavoro alle conseguenze penali che derivano dalla violazione delle norme di prevenzione. È possibile che a questi umori sia sensibile il Governo, e in particolare il ministro Sacconi, e che il prossimo passo sia quello di togliere le competenze di vigilanza alle ASL, ritenute troppo severe rispetto alla maggiore comprensione degli organi ministeriali che in passato erano incaricati di fare vigilanza. Se quel giorno arriverà si tornerà indietro di almeno trent’anni.

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L’emergenza carcere. Quando le disfunzioni del sistema violano i diritti dell’uomoDott.ssa Antonietta Fiorillo Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze

Avv. Roberta Rossi Responsabile Carceri e Diritti dei Detenuti Forum regionale PD Toscana

Non so se siano giuste le leggi o se siano sbagliate;quanto sappiamo in prigione è che il muro è robusto;

e che ogni giorno è come un anno,e di lunghe giornate.

Oscar Wilde

L’art. 27 terzo comma della Costituzione recita: “le pene non pos-sono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.Questa è la norma costituzionale che dispone che la pena deve es-sere “rieducativa”. La dobbiamo considerare solo come espressione dei nobili ideali dei nostri Padri costituenti in quanto non realistica e, in definitiva, pericolosa per la società nella difesa dal crimine? O viceversa, essa è espressione di un ideale concreto, realizzabile almeno in un certo numero di casi e quindi, da perseguire con impegno, al di là degli inevitabili fallimenti, delle speranze deluse, dei rischi che comporta?Questo è l’interrogativo di fondo cui ogni cittadino è chiamato a rispondere. Si tratta, in ultima analisi, di scegliere fra il carcere della “speranza” ed il carcere della “vendetta”. Certo, non è un interrogativo cui è facile rispondere e in modo definitivo perché per

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l’una e per l’altra delle soluzioni vi sono argomenti a favore e contro. In questa ottica, questo scritto vuole fornire elementi di conoscenza che possono aiutare ad inquadrare la problematica della pena e del carcere nella giusta prospettiva. Il principio costituzionale di cui all’art. 27 ha trovato attuazione attraverso la legge 26.7.1975 n. 354 (ordinamento penitenziario) che il Legislatore ha emanato su precisa indicazione e richiesta della Corte Costituzionale che in una sentenza del 1974, la n. 204, riaffermò il diritto di ogni soggetto condannato a che “verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della pretesa punitiva venga riesami-nato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo e tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdi-zionale”. La sentenza 204/74 chiarì inoltre, l’obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle”; alla luce di questa sentenza e di molte altre della Corte Costituzionale che sono intervenute nel corso degli anni, l’esecuzione della pena detentiva si presenta come un sistema di cui le misure alternative (modi “altri” di eseguire la pena detentiva) fanno parte a pieno titolo. La Corte Costituzionale sia in questa prima storica sentenza sia in molte altre successive, afferma, quindi, il principio di flessibilità della pena: la pena non è rigida, perché nel corso della sua durata, le modalità esecutive possono cambiare proprio in seguito alla concessione di misure alternative quali la semilibertà, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova al servizio sociale. l La semilibertà (art. 50 OP) consiste nella concessione al soggetto

condannato in via definitiva, che abbia espiato almeno metà della pena, di trascorrere parte della giornata fuori dall’istituto per lavorare; la competenza a disporre questa misura, come tutte le altre misure alternative, è del Tribunale di Sorveglianza, organo giudiziario specializzato, che ha sede nel capoluogo del distretto della Corte di Appello (Firenze).

l L’affidamento in prova al servizio sociale (art. 47 O.P.) consente al soggetto di espiare la pena non superiore a tre anni (o sei anni nel caso di soggetti tossicodipendenti o alcool dipendenti) fuori dall’istituto di pena in affidamento al servizio sociale (penitenzia-

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rio) e può essere concesso in presenza di un’attività di lavoro o di attività comunque utili a favorire il percorso di risocializzazione del soggetto; per coloro che sono portatori di problematiche di dipendenza consente di seguire un programma presso il Sert o in comunità terapeutica.

l La detenzione domiciliare (art. 47 ter O.P.) consente, invece, al soggetto di espiare la pena, non superiore a tre anni, presso il domicilio o in altro luogo di privata dimora o in luogo pubblico di cura o assistenza; attraverso di essa l’ordinamento, essen-zialmente, tutela situazioni soggettive riconducibili ai principi costituzionali posti a protezione della maternità, dell’infanzia, delle giovani età e della salute.

Esiste poi un’altra possibilità di essere ammessi ad espiare la pena fuori dal carcere ed è la liberazione condizionale regolata, non dalla legge di riforma penitenziaria, ma dall’art. 176 c.p., la quale prevede, in presenza di “sicuro ravvedimento” del soggetto e dell’espiazione di trenta mesi o almeno metà della pena inflitta e purchè il residuo pena non superi i cinque anni, la sottoposizione alla libertà vigilata. In caso di soggetto condannato all’ergastolo occorre che abbia espiato almeno ventisei anni di pena.È poi prevista per tutti i condannati definitivi la possibilità di ottenere la liberazione anticipata che consiste nella riduzione di 45 giorni di pena ogni semestre espiato e può essere concessa al soggetto che, nel corso dell’espiazione, abbia dato prova di partecipare all’opera di rieducazione. Tutte queste misure, per poter essere concesse, richiedono non solo che il soggetto abbia espiato i limiti di pena prevista dalle norme per ciascuna di esse, ma anche che sia stato sottoposto all’osservazione in carcere dal c.d. gruppo di osservazio-ne e trattamento composto dal direttore dell’istituto penitenziario, dall’educatore, dall’assistente sociale e da un appartenente alla po-lizia penitenziaria. Inoltre, i dati di osservazione forniti dagli istituti di pena saranno completati attraverso l’acquisizione, da parte del Tribunale di sorveglianza per l’udienza di ammissione, di vari altri elementi e dati di conoscenza presso le forze dell’ordine e non solo.Per completezza, bisogna altresì ricordare che alle misure alterna-tive non possono accedere i soggetti condannati per reati di crimi-nalità organizzata a meno che non abbiano prestato collaborazione. Proprio intorno al sistema delle misure alternative in questi anni si

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è svolto un dibattito molto acceso; si è sostenuto da parte di alcuni che l’esecuzione di una pena diversa e modificata rispetto a quella inflitta, ha inciso sul principio di certezza; non è così. Lo dicono i dati: una ricerca del Dipartimento centrale degli istituti di preven-zione e pena (D.A.P.) evidenzia come la recidiva (commissione di nuovi reati) dei soggetti ammessi alle misure alternative sia assai inferiore rispetto a quella di coloro che hanno concluso l’esecuzione in carcere: 19% contro il 68,5% valutati con riferimento ad un arco temporale di 7 anni.E ancora: le revoche delle misure alternative sono attestate co-stantemente intorno al 4%; di questa percentuale solo lo 0,2% è avvenuto per commissione di un nuovo reato; tutte le altre per violazione delle prescrizioni imposte in sede di concessione. Tutto ciò dimostra molto chiaramente come sia più facile recidivare nel reato quando vi sia stata la totale espiazione della pena in istituto.L’esperienza ci induce, pertanto, a dire che la “pura e semplice” privazione della libertà quasi mai riesce ad adempiere alla funzione rieducativa (risocializzante) che la Costituzione richiede; come pure la minaccia di pene sempre più severe ha quasi mai impedito il diffondersi ed il ripetersi di fenomeni criminali anche di rilevante gravità. Piuttosto la certezza della pena va ricollegata ad altre diverse variabili quali la difficoltà di accertamento dei reati e di individuazione degli autori degli stessi, la capacità del sistema di portarli al processo e di emettere una sentenza di condanna in tempi accettabili. Viceversa le misure alternative hanno come destinatari coloro che la sentenza di condanna l’hanno già avuta, e, pertanto, le interferenze sul versante della certezza sono assai marginali; da sempre, infatti, coloro che si sottraggono all’esecuzione della pena durante la fruizione di una misura alternativa rappresentano un fenomeno non particolarmente rilevante. Ma il problema vero è che dall’approvazione della riforma peni-tenziaria del ‘75 e dalle successive modifiche introdotte con la legge Gozzini del 1986, non sono mai stati approntati gli strumenti necessari per farla funzionare. Anche qui riferire i numeri non ap-pare superfluo in quanto la fredda oggettività delle cifre è molto più idonea di tanti discorsi a rappresentare le criticità della situazione. Al 31.12.2010 erano presenti sul territorio nazionale 1087 assi-stenti sociali e 994 funzionari dell’area pedagogica a fronte di una

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presenza di circa 67.000 detenuti di cui il 56% condannati in via definitiva; come si può intuire la mancanza di queste figure è talmen-te grave che parlare di carenze di organico è un eufemismo. Circa le ragioni di questa miope politica del risparmio non possiamo fare che ipotesi: essendo, infatti, indubbio che un condannato ammesso a misura alternativa costa enormemente meno di un condannato detenuto in carcere dobbiamo ritenere che ciò sia dovuto al ricor-rente “peccato” del Legislatore italiano di considerare completata una riforma con la semplice approvazione della medesima. Tutto ciò premesso, come si suol dire, è necessario capovolgere la prospettiva con cui, solitamente, la pena rieducativa e, quindi, le misure alter-native attraverso cui essa viene eseguita vengono considerate: non è l’interesse del soggetto-detenuto / utente, ma è soprattutto l’interesse della collettività che la pena sia “utilmente” espiata e cioè volta a suscitare la modifica delle condizioni personali, familiari, sociali.Quindi possiamo affermare che le misure alternative non solo non incidono sulla certezza della pena, ma neppure contraddicono il carattere di effettività della stessa in quanto comportano, sempre e comunque, la sottoposizione del soggetto condannato a limitazioni della libertà personale che accompagnate dalle dovute prescrizioni (finalizzate a seguire – controllare – sostenere il reinserimento) finiscono per realizzare gli obiettivi che il legislatore costituzionale pone alla pena dall’atto della sua irrogazione al momento della esecuzione: garantire la difesa della società e tendere al reinseri-mento dei soggetti condannati. Infine tutti gli operatori del settore sanno che senza la presenza di forme alternative di detenzione, probabilmente il sistema penitenziario non avrebbe retto l’urto dell’ingresso di altre migliaia di soggetti in esecuzione. La riforma ha avuto il grande merito di avere teso all’affermazione, all’interno delle carceri, dei principi di dignità della persona e di avere con-sentito il superamento di quelle logiche di sopraffazione e violenza, tipiche delle istituzioni esclusivamente repressive, che tante rivolte hanno scatenato fino quasi agli anni Ottanta.L’esecuzione della pena in carcere ha un costo economico elevatissi-mo: forse è il caso che non sia sprecato. Purtroppo si è assistito, negli ultimi anni, ad una vera e propria “deriva legislativa” in materia di esecuzione pena e trattamenti sanzionatori più in generale, volta a soddisfare istanze repressive promananti dall’opinione pubblica,

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iniziata con l’introduzione dell’art. 4 bis nel 1991 fino ai più recenti provvedimenti legislativi che di fatto abrogano la legge Gozzini. A ciò si aggiunga il contegno schizofrenico del legislatore laddove, in mancanza di predisposizione di adeguati mezzi ed organici per far fronte alle istanze repressive sopra richiamate, appresta misure straordinarie di carattere indulgenziale al solo scopo di procedere ad un indiscriminato svuotamento degli istituti di pena. Fallimentare, su tale fronte, è stato l’indulto del 2006: i dati raccolti all’indomani dell’applicazione del beneficio ci dicono che nell’arco di soli due anni (agosto 2006-luglio 2008) aveva già fatto reingresso in carcere un terzo delle persone uscite per effetto del provvedi-mento di indulto. I detenuti sono passati da 60.710 (luglio 2006) a 39.005 (dicembre 2006) per poi risalire progressivamente fino a 58.127 all’inizio del gennaio 2009 e superare quota 63 mila alla fine di luglio dello stesso anno. Altrettanto fallimentare appare, già nelle prime previsioni, la Legge 26 novembre 2010, n. 199, subito ribattezzata, senza tanti preamboli, “svuota carceri”, che consente l’applicazione della misura alternativa degli arresti domiciliari ai condannati a meno di un anno di carcere o che devono scontare meno di un anno di pena residua.Secondo stime del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, aggiornate all’estate 2010, 11.444 detenuti si trovavano reclusi per sentenze di condanna passate in giudicato a pene inferiori a un anno di reclusione; la stima dei futuri beneficiari della novella è stata indicata in 7.000 unità dal relatore, Senatore Balboni, a fronte delle attuali presenze, superiori a 69.000. In realtà, una prima analisi del provvedimento induce fortemente a dubitare di tali dati. Analisi non ufficiali parlano di dati assolutamente inferiori, poco più di 2.000 unità sul territorio nazionale, previsione che quindi inciderà in maniera irrisoria e marginale sul cronico e crescente sovraffollamento carcerario. Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia, al 28 febbraio 2011 il numero dei detenuti usciti dagli isti-tuti di pena era pari a 1.368 unità, di cui, in Toscana vi erano 113 unità. Come detto, è evidente che tali provvedimenti manifestino un mero tentativo di tamponare, in assenza di un disegno organico ed omogeneo, situazioni emergenziali di sovraffollamento carcera-rio. Come è stato acutamente osservato dai magistrati operanti nel settore, per l’ennesima volta è stato scaricato sulla giurisdizione un

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problema strutturale, cioè quello del sovraffollamento delle carceri. Sarebbe come – dice qualcuno degli inquirenti – se si decidesse di risolvere le difficoltà degli ospedali mandando via i malati. È evidente che la deriva delinquenziale non può essere fronteggiata con provvedimenti di clemenza generale che, lasciando inalterati i fattori strutturali, fanno lievitare la penalità carceraria oltre i limiti della ragionevole governabilità, funzionale a prospettive di effettiva risocializzazione. Ed anzi, le progressive restrizioni dell’accesso alle misure alternative alla detenzione registrate negli ultimi anni non fanno che aggravare il problema. Il carcere è, ormai in molti contesti europei e internazionali, la rispo-sta ultima a forme di disagio che i sistemi di protezione sociale non riescono ad intercettare o prevenire. L’aumento della popolazione detenuta, la sovrarappresentazione in essa di figure che soffrono di povertà e svantaggi, sono il segno evidente della difficoltà dei tradizionali processi integrativi di fronteggiare le nuove forme del disagio sociale e dell’esclusione. Il carcere rischia così di diventare, piuttosto che un luogo di risocializzazione, lo spazio di contenimento di figure e di situazioni dalle quali società impaurite ed incattivite chiedono di essere protette: immigrati, tossicodipendenti, poveri, esclusi. I numeri della popolazione oggi detenuta sono tali da non poter procrastinare oltre un intervento immediato del Governo in questa materia. Si pensi che nel luglio 2006, prima dell’indulto, la popolazione detenuta (60.710) era inferiore a quella attuale eppure, all’epoca, venne ritenuta all’unanimità dall’allora maggio-ranza politica e da una parte dell’opposizione improcrastinabile l’emanazione di un provvedimento di clemenza per evitare che la situazione all’interno degli istituti penitenziari diventasse pericolo-samente ingestibile. Per discutere concretamente, numeri alla mano, dobbiamo rilevare che ad oggi la popolazione detenuta – secondo le statistiche pubbli-cate dal Ministero della Giustizia aggiornate al 28 febbraio 2011 – è pari a 67.615 unità (di cui 28.478 ancora imputati) rispetto ad una capienza di 45.284 posti – dati che oggi debbono purtroppo essere ritoccati verso l’alto, sol che si consideri che la media di ingresso in carcere è di circa mille detenuti al mese. Gli istituti di pena in Italia hanno raggiunto punte di sovraffollamento tali da non garantire, non solo il principio costituzionale del fine rieducativo della pena,

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ma anche lo stesso diritto alla salute, in quanto non sono assicurate le più elementari norme igieniche e sanitarie. La lettura degli articoli dell’Ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) e del Regolamento (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) sul “trattamento” all’interno degli Istituti, se confrontati con la realtà, è sconcertante. Mai violazione di legge è stata così eclatante, così certa e da tutti conosciuta per tantissimi anni, senza un intervento concreto di chi avrebbe il dovere di intervenire.Gli spazi pro-capite dovrebbero essere pari a 9 metri quadrati, ma i detenuti vivono, quasi sempre, ristretti in spazi che non cor-rispondono a quelli minimi vitali, senza alcuna possibilità di poter effettuare movimenti significativi, in celle sovraffollate, con un’ora d’aria la mattina ed una il pomeriggio. Va da sé che – a fronte dei numeri sopra indicati – i detenuti finiscano per essere reclusi in tre in celle da un posto, o in sei in celle da tre posti. In alcuni istituti si dorme su letti a castello a tre ed anche a quattro piani e spesso manca lo spazio materiale per scendere dal letto; a volte i detenuti dormono a terra, perché non vi sono più letti. In alcune celle non è possibile accendere le luci dall’interno, in quanto gli interruttori sono situati solo all’esterno. La luce naturale, a volte, non è sufficiente in quanto vi sono schermature alle finestre. A ciò si aggiunga che circa il 37% dei reclusi (24.865) è composto da stranieri, nella maggior parte dei casi privi di qualsivoglia risorsa economica, e più del 30% da soggetti tossicodipendenti. I dati più recenti indicano in tremila i detenuti affetti da HIV e ben il 15% in fase di AIDS conclamata. Il 38% della popolazione detenuta risulterebbe colpita dall’epatite virale HCV e il 25% è risultata positiva al test per l’infezione da tubercolosi, ma il dato è inficiato dal fatto che il solo test obbligatorio è quello sulla sifilide. Certo tali numeri, di per sé spaventosi, non possono ritenersi estranei ad un contesto di sovraffollamento nel quale le infezioni e le malattie stesse, stante la forzata promiscuità, proliferano. I medici che operano negli istituti penitenziari con una percentuale maggiore di detenuti stranieri, segnalano che, sia che portino una patologia dal paese d’origine (la tbc, per esempio, dall’Est europeo) sia che la con traggano in Italia, i detenuti stranieri sono di norma i primi pazienti colpiti da malattie infettive. Secondo uno studio di Vin-cenzo De Donatis, Responsabile del Presidio Sani tario della Casa

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Circondariale di Modena, un detenuto ha una probabilità 30 volte superiore alla media di contrarre la TBC, nonostante i frequenti controlli negli ambu latori degli istituti di pena. Fra i problemi che portano alla diffusione di virus e batteri c’è soprattutto quello della scarsa igiene. L’igiene, infatti, non è con-siderata un bene primario. Nelle celle il water è vicino al lavandino dove si lavano frutta, verdura e stoviglie. Circa il 90% dei detenuti non ha doccia nella propria cella. Sono effettuati dei turni, che in alcuni istituti sono settimanali. Circa il 70% non ha acqua calda in cella. Per altri versi, il 16% dei detenuti soffre di disturbo dell’u-more o di altri disturbi psichiatrici.I rapporti con la famiglia sono soggetti a limitazioni che rendono disagevoli le relazioni tra gli internati e coloro che vengono a tro-varli, alimentando un allontanamento fisico ed a volte affettivo. In più della metà degli istituti non sono consentiti colloqui in spazi all’aria aperta. La maggior parte dei colloqui (uno a settimana) av-viene in enormi stanzoni, dove i detenuti parlano, o meglio urlano, ai familiari – posti dall’altro lato di un tavolo – i loro affetti e le loro esigenze, per un tempo che è di circa un’ora. La riservatezza è garantita dall’enorme frastuono. Come conseguenza del sovraf-follamento cresce anche il numero dei suicidi, segnale drammatico delle condizioni di disagio fisico e psichico in cui vivono i detenuti Si stima che i suicidi, dall’inizio dell’anno 2009, sono stati più di 50, con una media di un suicidio ogni 6 giorni. Gli atti di autole-sionismo registrati nel 2009 sono stati circa 4.000.Nel 2010 le cifre sono ancor più impressionanti: 170 morti, di cui ben 65 per suicidio. Di questi suicidi, 5 si registrano in Toscana: due a Sollicciano e uno rispettivamente a Pistoia, a Livorno e a Massa Carrara. La Toscana, inoltre, detiene il primato dei tentati suicidi nelle carceri che, nel 2010, sono stati 141. Al primo posto Livorno con 40, seguita da Pisa con 21, e Firenze Sollicciano con 20. Dagli inizi del 2011 si contano già 18 suicidi e circa 230 tentati suicidi. Per quanto attiene al dato toscano, a Prato il 20 gennaio scorso un giovane detenuto di appena 22 anni si è tolto la vita, ed un internato si è suicidato lo scorso 8 marzo nell’O.p.g. di Montelupo Fiorentino; il numero dei tentati suicidi registrato al 30 marzo 2011 negli istituti penitenziari della regione ammontava già a ventisette in soli tre mesi. Una vera e propria strage che ci deve far interro-

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gare su un carcere non più solo luogo di limitazione della libertà personale, ma istituzione dove si rischia la vita e spesso la si perde. Il rapporto tra i suicidi delle persone ristrette in carcere e quelle libere è di 19 ad 1: una percentuale talmente sproporzionata da non essere spiegabile unicamente con la difficile situazione psicologica derivante dalla limitazione della libertà personale. Carcere significa sovraffollamento, strutture vetuste, mancanza delle minime condizioni di igiene e spesso di cure sanitarie, ma anche isolamento prolungato e luogo dove vengono meno i principi fondamentali del diritto e dell’umanità. Alcune ricerche indipendenti hanno dimostrato come via sia una correlazione fra sovraffollamento e suicidi. Nelle 9 carceri dove sono accaduti almeno 2 suicidi nell’anno, il tasso medio di so-vraffollamento è del 176% contro un dato nazionale del 154%, e la frequenza dei suicidi è di 1 caso ogni 415 detenuti, mentre la media nazionale è di 1 su 1090. Questo dimostra che là dove l’affollamento è del 22% oltre la media nazionale, la frequenza dei suicidi è più che doppia. Pare evidente che quando alla limitazione della libertà personale si sommano altre condizioni di disagio, la situazione dei detenuti diventa drammatica e spesso porta ad un tale livello di disperazione da indurre al suicidio. Un’altra ricerca ha evidenziato, a conferma dell’assunto di cui sopra, come i regimi speciali di detenzione (che riguardano il 10% della popolazione carceraria) nel 2010 siano stati interessati dal 60% dei suicidi. Una cifra impressionante che dà ragione a chi definisce il regime del 41 bis una “tortura bianca”, dove molte limitazioni, più che ai giusti criteri di sicurezza, si ispirano a criteri di applicazione disumana della pena. Se è vero che la civiltà di un popolo si misura dalle sue carceri, le cifre di coloro che muoiono nelle carceri italia-ne dimostrano che, lungi dall’essere luoghi di rieducazione, come vuole la Costituzione, esse finiscano per diventare vere e proprie discariche sociali. Queste la parole del Segretario Generale della UIL PA Penitenziari, Eugenio Sarno, sui tentati suicidi in cella ve-rificatisi dal 1 gennaio al 30 settembre 2010: “Occorre premettere e precisare che statisticamente circa il 50% degli eventi rubricati come tentati suicidi possono essere considerati gesti dimostrativi. Ciò non toglie che siano circa 500 le tentate autosoppressioni con la dichia-rata volontà del suicidio. È un dato terrificante che non può non far

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riflettere. È da tempo che sosteniamo come la polizia penitenziaria sia precipuamente impegnata nell’impedire le evasioni dalla vita da parte dei detenuti. È un impegno encomiabile di cui non parla quasi mai nessuno. Eppure sino ad oggi abbiamo monitorato per via diretta il salvataggio di circa 175 detenuti da parte dei poliziotti penitenziari, non è escluso, perciò, che siano molti di più”.“Purtroppo la grave deficienza organica (meno 6500 unità) del Corpo – prosegue il Segretario Generale della UIL PA Penitenziari – non trova soluzione in atti parlamentari, al netto delle favolette che ad intermittenza ci vengono propinate. Questo significa che i livelli di sicurezza travalicano ogni previsto limite minimo. Non solo, quindi, la polizia penitenziaria non può adempiere al compito costituzionale della rieducazione e del reinserimento, quant’anche ha difficoltà persino garantire la mera sorveglianza. E la smettano di raccontare anche la storiella dei nuovi posti. Avranno pure edificato qualche padiglione e aperto qualche nuovo carcere, ma non hanno pensato ad assumere il personale per attivare queste strutture che infatti sono chiuse o operano a scartamento ridotto. Per questo auspichiamo che il Governo analizzi con responsabilità l’eventualità di ricorrere ad un decreto legge per consentire la copertura, seppur minima e par-ziale, degli organici di polizia penitenziaria. Oltremodo è necessario implementare gli organici degli educatori e degli assistenti sociali perché possano, concretamente, adempiere agli insostituibili compiti di osservazione. Senza tali figure nessuna prevenzione può essere messa in atto ed i fenomeni delle autosoppressioni sono destinati ad aumentare”.

Di fatto, sia quando si affronta il tema carceri in generale, sia il caso singolo di questo o quell’altro istituto, il rimbalzo di competenze diventa un flipper, che mette in evidenza la mancanza di un quadro unitario nella gestione delle carceri. Un po’ è competenza del gover-no, un po’ della Regione, un po’ del Comune, un po’ del “DAP”, il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, che è a Roma, e da cui i dipendono i vari provveditorati regionali. Parlare col DAP, per le autorità locali, pare sia un’impresa impossibile. A questa intollerabile situazione non fa eccezione la realtà locale. La Toscana è una delle regioni italiane con la più alta concentrazione di istituti di pena. Ci sono 12 case circondariali (di cui una interamente femminile), 5 case

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di reclusione ed 1 ospedale psichiatrico giudiziario1. In tre delle Case circondariali vi sono sezioni detentive per donne. La capienza regolamentare degli istituti toscani al 28 febbraio 2011 è di 3.186 posti (di cui 142 per le donne), quella tollerabile di 4.230 (di cui 221 per le donne). Attualmente, secondo i dati forniti dal Ministero, nei 18 istituti di pena toscani ci sono 4.463 detenuti a fronte di una capacità regolamentare di 3.186 unità, con un tasso di sovraffollamento che è del 40%, a fronte di una mancanza di circa 800 agenti della polizia penitenziaria. Su 18 istituti sette sono privi di direttore. Nel carcere di Sollicciano lo scorso 25 agosto (in occasione della protesta dei detenuti per le inumane condizione in cui si trovano costretti a vivere lo stato di privazione della loro libertà personale) si è registrata la presenza di 955 detenuti più 7 minori a fronte di una capienza massima di 500 ristretti. Tra l’altro la questione del sovraf-follamento appare anche il frutto di una gestione quantomeno poco avveduta delle strutture carcerarie presenti sul territorio regionale. A pochi metri dal carcere di Sollicciano, si trova, infatti, l’Istituto Gozzini, il cosiddetto Solliccianino, centro destinato alla cosiddetta custodia attenuata, attualmente semivuoto. Spazi vuoti risultano pure nei carceri di Empoli e di Massa Marittima, nella casa di reclusione della Gorgona e nel penitenziario Forte San Giacomo a Porto Azzurro. Ci sono così strutture sovraffollate, ovvero invivibili, e ve ne sono altre, sia pur poche, sotto utilizzate, se non addirittura vuote. Si pensi ancora al carcere di Pianosa, ristrutturato ed inutilizzato, tanto che la struttura sta diventando di nuovo fatiscente. O che ad esempio, a Empoli vi sia una struttura vuota, oggetto di un’interrogazione parla-mentare dei senatori radicali eletti nelle liste del PD Donatella Poretti e Marco Perduca. Un decreto ministeriale del 20 ottobre 2008 l’ha ufficialmente trasformato in “Istituto a custodia attenuata” per le tran-sessuali. Non se n’è fatto niente. Il 27 gennaio 2010 è stato firmato un protocollo tra Regione e Ministero, per trasferire le transessuali e fornire al personale di Empoli un’adeguata formazione. Da più parti si insinua che sia stato lo stesso ministro Angelino Alfano a bloccare

1 I 18 istituti di detenzione attualmente presenti in Toscana sono: 1. le 12 case circondariali (Arezzo, Empoli, Firenze Mario Gozzini, Firenze Sollicciano, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Marittima, Pisa, Pistoia, Prato, Siena; tra queste Empoli, Firenze Mario Gozzini e Massa Marittima sono a custodia attenuata);2. le 5 case di reclusione (Gorgona, Massa, Porto Azzurro, San Gimignano, Volterra);3. l’ospedale psichiatrico giudiziario (Montelupo Fiorentino).

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il trasferimento. Una voce alimentata dal fatto che, come dichiara il provveditore regionale Maria Pia Giuffrida, “il progetto è bloccato, aspettiamo un via libera dal ministero”. Se il ministero non sblocca, di fatto blocca, ed è questa impasse ad alimentare le insinuazioni contro Alfano. Ma allora c’è da chiedersi perché il Ministero abbia stipulato quel protocollo. Oggi a Sollicciano si conta la presenza di 28 detenuti transessuali, provvisoriamente allocati in una sezione fatiscente del carcere femmi-nile. Secondo quanto riferito dal personale, i transessuali si trovano a vivere una situazione di sovraffollamento inimmaginabile, aggravata dalla totale esclusione dalle attività risocializzanti. Alla mancanza di attività risocializzanti, di sostegno e di supporto psicoterapeutico che affligge l’intera struttura e che aggrava in particolar modo le condizioni di coloro – quali appunto i transessuali, spesso affetti da patologie di carattere psicologico e, in pari misura, le ristrette nella casa di cura e custodia – mancanza che viene colmata con l’uso massiccio di terapie farmacologiche, si affianca oggi l’impossibilità, di fatto, per i transes-suali, di accedere agli istituti scolastici. Si è appreso infatti che nel carcere di Sollicciano mancano le scorte per prelevare i transessuali dalla loro sezione – situata, come detto, all’interno della struttura fem-minile – per condurli a scuola all’interno della sezione maschile. Per contro, si ritiene che i transessuali non possano accedere alle lezioni tenute all’interno della sezione femminile. Non si può nascondere che dietro a tali motivazioni di carattere logistico e regolamentare si nasconda una vera e propria discriminazione di genere. Di fatto, i transessuali, all’interno del carcere di Sollicciano – privati anche, senza motivazione alcuna, di un’area verde – trascorrono l’intera giornata all’interno delle loro celle, in condizioni di sovraffollamento e di promiscuità estreme.La UIL PA Penitenziari, attraverso il Segretario Generale Eugenio Sarno, non lesina critiche al Governo e al Guardasigilli per la gestio-ne dell’universo carceri in Toscana: “Livorno, Porto Azzurro, Pisa e Sollicciano restano senza dubbio le situazioni di maggior rischio che hanno bisogno di interventi urgenti e concreti sia dal punto di vista degli organici che dell’organizzazione interna. Lucca può essere indi-cato come l’emblema del degrado in cui versa il sistema penitenziario. Gorgona il simbolo dell’isolamento”.L’allarme è confermato anche dall’analisi degli eventi critici di mag-

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gior rilievo monitorati dalla UIL Penitenziari attraverso la pagina web Diario di Bordo pubblicata sul sito www.polpenuil.it. “Un bilancio grave, che se non è ancora più pesante lo si deve alla disponibilità e all’umanità dei nostri operatori che sono determinanti per tenere, nei limiti del possibile, sotto controllo la situazione. Il sovraffollamento determina l’impossibilità di una gestione oculata delle allocazioni. La promiscuità tra etnie è un ulteriore elemento di tensione. Non è certo un caso l’aumento esponenziale delle risse e a pagarne il prezzo e le conseguenze maggiori è proprio il personale che ogni giorno profonde energie e impegno per garantire legalità e sicurezza, ma soprattutto per impedire evasioni dalla vita. In ogni caso non si potrà fare affidamento in eterno sulle indubbie capacità degli operatori. Servono mezzi e risor-se, ovvero dotazioni organiche e disponibilità economiche. Il carcere è tornato a essere l’università del crimine, con regole, gerarchie e violenze. Alla ripresa dei lavori non può non dipanarsi la matassa che avvolge l’istituto di Empoli, così come vanno affrontate senza indugi le criticità delle Sughere di Livorno e della Casa di Reclusione di Porto Azzurro. Sul fronte del sovraffollamento è necessario prevedere un percorso de-flattivo che restituisca alla detenzione connotati di civiltà e legalità. E questo vale per quasi tutti gli istituti penitenziari della Toscana”. È stato affermato che le teorie della giustizia sembrano costruite per mondi ideali ed ipotetici, se non del tutto fittizi. Le norme in materia di detenzione sono uno dei tanti esempi di tale affermazione, in quanto, scritte da decenni, trovano rara applicazione. Coloro che dovrebbero beneficiare di quanto in esse stabilito, i detenuti, sono considerati evidentemente soggetti che non meritano alcuna attenzione, nemmeno che venga, per loro, applicata la legge. I detenuti, siano essi in attesa di giudizio, siano essi stati condannati a pena definitiva, non sembrano considerati degni di tutela. Si scrivono regole con riferimento ai principi costituzionali, ben sapendo che esse non saranno rispettate, perché alcun finanziamento viene disposto. La pena deve essere certa ed è importante che tale principio sia rispettato, affinché si nutra fiducia nella giustizia. Ma divenuta “certa” essa deve essere anche “giusta”, cioè scontata con il rispetto delle norme in materia. La dignità, la psiche, gli affetti, la salute, la speranza, devono continuare a vivere nell’essere umano, che non deve essere trasformato in un oggetto, ma deve continuare a meritare rispetto, a vedere tutelata la sua dignità, condizione necessaria affinché egli possa “vivere” e, forse, migliorare.

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Spunti di riflessione per un processo civile… breveDott. Alessandro Nencini Giudice della Corte di Appello di Firenze

La questione della giustizia civile nel Paese è questione centrale per la sua modernizzazione; più ancora della questione del processo penale. Se infatti il processo penale è strumento di intervento sulla “ patologia “dei rapporti sociali, il processo civile è strumento fun-zionale alla “fisiologia” dei rapporti fra i cittadini; ed è elemento centrale per lo sviluppo delle attività economiche, che costituiscono la fonte della ricchezza di ogni comunità. Non vi è dubbio quindi che qualunque classe politica che si proponga di governare il Paese ha il dovere di immaginare un “servizio giustizia” per i cittadini e per le imprese che non sia vessatorio, inefficace e fonte, in ultimo, di costi, tanto più insopportabili se letti in correlazione alla ineffi-cienza del sistema.Queste riflessioni altro non vogliono essere che il modesto contri-buto offerto ai lettori da un magistrato che per circa trenta anni ha sperimentato nella attività quotidiana la desolante inefficienza del sistema nel suo complesso, con la consapevolezza che molto potrebbe essere fatto – e in alcuni casi, a costi economici minimi – per rendere la giurisdizione nel suo complesso, e quella civile nella specie, più vicina ai cittadini e più funzionale allo sviluppo del Paese. Con una premessa doverosa. Qualsivoglia intento rifor-matore non può prescindere da precise scelte di carattere “poli-tico” (nel senso di rimesse alla Politica), e che sono la necessaria premessa di qualunque sistema processuale, nella consapevolezza che il processo non è mai un fine, ma sempre uno strumento per la attuazione di diritti, la cui effettività è in massima parte legata alla efficienza dello strumento.La prima questione di carattere generale che deve essere affrontata è quella dell’accesso alla giurisdizione civile.

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Il sistema attuale prevede il sostanziale accesso senza filtri di alcun genere alla giurisdizione per qualsiasi diritto (o presunto tale), garantendo al cittadino tre gradi di giurisdizione, due di merito, e uno di legittimità; ma, in concreto, garantendo niente di più che la generalizzata e mancata risposta di giustizia. In pratica, allo stato, possiamo riconoscere una certa effettività esclusivamente ai provvedimenti urgenti e cautelari, e ai provvedimenti in materia di famiglia e di minori, ove i tempi, anche per un ordinario processo di cognizione, sono contenuti, e rientrano nella fisiologia di un qualsiasi sistema processuale (le Sezioni Minori e Famiglia della Corte di Appello di Firenze consentono l’adozione dei provvedimenti in un lasso di tempo intercorrente tra il deposito dell’istanza e la decisione, salvo eccezioni dovute alla specificità della controversia, di circa quattro mesi). Per il resto i processi si trascinano per lunghi anni, spesso riproducendosi in una miriade di micro-conflittualità tra le parti, che ulteriormente allunga il tempo del processo; fino a giungere ad un provvedimento decisorio quando oramai le parti, nella migliore delle ipotesi, hanno già praticato in concreto una soluzione transattiva, ovvero allorquando il valore del decisum sta esclusivamente nella chiusura di un percorso travagliato e fonte di pregiudizio economico per le parti stesse. Non vi è dubbio che l’accesso indiscriminato alla giurisdizione costituisce una causa non irrilevante della lentezza della giurisdi-zione civile; così come è indubbio che il meccanismo processuale ha un costo economico elevato per la collettività, e deve essere riservato a situazioni di oggettivo rilievo; così come è impensabile aumentare a dismisura l’apparato giudiziario, per far fronte ad una domanda di giustizia parcellizzata spesso in un rivolo di piccole dispute bagatellari. Attualmente una percentuale significativa di cause civili ha per oggetto controversie tra le parti il cui valore calcolato ammonta a poche migliaia di euro (tanto che non di rado le spese di lite, al pagamento delle quali viene condannata la parte soccombente, superano il valore dell’oggetto della controversia). Non si vuole sostenere ovviamente che il grado di tutela dei diritti dei cittadini debba essere correlato al valore economico della con-tesa, ovvero riservare l’accesso alla giurisdizione alle questioni di maggiore rilievo economico; ma certamente un equilibrio tra costo economico della macchina giudiziaria e funzione sociale del servizio

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reso deve essere ricercato, non potendo destinare uno strumento complesso e costoso come il processo civile a qualunque contro-versia, prescindendo dai reali valori in discussione. Quando tutto è tutelato con il processo, di fatto niente è tutelato dal processo. Occorre quindi ripensare a una progressiva deflazione del carico complessivo della giurisdizione civile, prevedendo percorsi di tutela di alcune tipologie di diritti (si pensi ai crediti di minor valore, alle controversie su determinati servizi, ed altro) differenziate rispetto al processo, e che prescindano totalmente dall’intervento del Giudice. Una sorta di ridefinizione del valore economico o sociale dei diritti da far valere con il processo, destinando quelli di minore rilievo a forme differenziate di tutela. La seconda questione di carattere generale che deve essere affron-tata è quella della riforma della professione forense.La realtà attuale è quella di una professione forense che sta avviandosi verso una generale proletarizzazione, che poi si riversa inevitabilmente sul sistema processuale. Affermare che nel solo distretto di Corte di Appello toscano vi sono più avvocati iscritti agli Ordini professionali di quelli che complessivamente operano nell’intera Inghilterra potrebbe non essere un dato significativo, se non altro per la profonda diversità dei sistemi processuali dei due Paesi, ma certamente la presenza di migliaia di professionisti iscritti negli albi produce inevitabilmente una proliferazione della conflittualità nella giurisdizione, conflittualità che spesso pare più funzionale a garantire la sopravvivenza del ceto professionale, che a garantire effettivi interessi delle parti. Ogni anno centinaia di giovani accedono, attraverso gli esami di Stato, alla libera professione, senza che tale accesso sia in alcun modo gestito e rego-lamentato in relazione ai bisogni di una collettività. Questo produce da un lato quella proletarizzazione della professione forense prima accennata, e dall’altro lato ha un inevitabile effetto sulla proliferazione delle controversie civili demandate alla giurisdizione.Dalle scelte che la classe politica opererà in relazione alle due precedenti questioni generali discende anche la soluzione da dare alla terza questione che deve essere affrontata nell’ambito di una riforma della giurisdizione: quella della magistratura onoraria. La magistratura onoraria ha progressivamente assunto negli ultimi anni un ruolo determinante nella gestione degli affari civili ordi-nari. Ad essa è stata demandata progressivamente la cognizione

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di interi settori della giurisdizione, senza che si sia fatta chiarezza fino in fondo sulle effettive competenze di una magistratura onora-ria (quindi non tecnica per stessa definizione), e senza che sia stato creato per essa un percorso processuale più adatto ad un Giudice non togato. Il risultato è un processo civile affidato a Giudici onorari non adeguatamente attrezzati sul piano tecnico, con un fiorire di decisioni spesso contrastanti ed alcune volte estrose. Quella insom-ma che molti operatori del diritto (avvocati e magistrati) definiscono una giustizia casuale. Orbene, affidare ad un soggetto processuale a-tecnico un meccanismo processuale come il nostro, estremamente tecnico e complesso, è stato un errore di cui la giurisdizione deve emendarsi. Occorre individuare con esattezza competenze e materie da affidare alla magistratura onoraria, costruendo un percorso pro-cessuale differenziato da quello ordinario, che valorizzi il momento decisionale in tutte le sue possibili forme rispetto al tecnicismo. E ciò deve avvenire non certamente con l’obiettivo di svilire una funzione sociale di indubbio rilievo, come quella svolta dai Giudici Onorari, bensì nell’ottica di utilizzare al meglio le risorse che la collettività in tale forma pone a disposizione della giurisdizione.Le questioni appena accennate meritano ciascuna un attento ap-profondimento, ed un percorso di riflessione comune alla migliore dottrina processualistica, per individuare i passaggi concreti di una seria riforma, ma credo che sia importante che intanto si inizi a discutere laicamente di questi problemi, senza prudenze e titu-banze, nella personale convinzione che senza una soluzione alle questioni poste, qualsiasi riforma del processo civile si manifesti come velleitaria e inconcludente.Accanto alle tematiche sopra evidenziate non vi è dubbio che esisto-no anche interventi che non necessitano di scelte di fondo da parte della Politica, che fino da subito potrebbero drasticamente ridurre i tempi processuali; e che in alcuni casi avrebbero un costo economi-co insignificante. Principalmente la informatizzazione del processo con la introduzione della firma digitale per il Giudice. L’intervento peraltro non comporterebbe un impegno finanziario “ epocale “, poiché molti Uffici giudiziari sono già attrezzati per la gestione del processo informatico, gli studi professionali oramai lavorano tutti con l’informatica, e gli stessi Giudici hanno acquisito nel tempo familiarità con lo strumento informatico. La informatizzazione del

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processo comporterebbe, fino da subito, la eliminazione dei tempi e dei costi della notificazione degli atti endo-processuali del Giudice; la drastica riduzione dell’accesso degli Avvocati presso le cancellerie – con conseguente disimpegno di molto personale amministrativo che potrebbe essere così adibito a compiti di effettiva gestione dei ruoli dei Giudici e delle udienze, e con diminuzione degli enormi disagi che oggi deve subire la classe forense impegnata spesso in attese snervanti per il compimento di un singolo adempimento -; la eliminazione pressoché totale delle nullità processuali legate alle notifiche, e dei tempi di rinnovazione degli atti nulli; la progressiva eliminazione del fascicolo cartaceo – ovvero la sua drastica riduzione agli atti essenziali, depositati in cancelleria a garanzia delle parti –, con conseguente disimpegno, anche fisico, delle cancellerie (e spesso dei corridoi dei Tribunali), e con possibilità per il Giudice di “lavorare sul fascicolo processuale” semplicemente collegandosi alla cancelleria con un semplice personal computer. Un secondo passaggio importante è quello della razionalizzazione del presidio della giurisdizione sul territorio nazionale, provve-dendo a una nuova e diversa ridistribuzione degli Uffici giudiziari, ridistribuzione che sia improntata a garantire migliore efficienza, e non a blandire il bacino elettorale del politico di turno. Ovviamente una più razionale distribuzione sul territorio non significa neces-sariamente il taglio indiscriminato degli uffici giudiziari minori, e l’accorpamento in quelli di maggiori dimensioni. Se infatti non vi è dubbio che l’accorpamento degli uffici giudiziari garantisce una migliore e più razionale utilizzazione delle risorse (soprattutto quelle umane), nondimeno una nuova e più razionale ridistribuzione degli uffici giudiziari sul territorio deve tenere in considerazione le spe-cificità del territorio di riferimento (distanze chilometriche tra gli uffici giudiziari e mezzi di collegamento a disposizione dei cittadini).In ultimo una nuova normativa processuale che disegni in maniera profondamente diversa i tempi ed i modi del processo civile. In primo luogo la riduzione ad unità della pluralità dei riti proces-suali, fonte di complicazioni inutili e di una faticosissima gestione dei fascicoli e dei ruoli; senza che peraltro la proliferazione dei riti processuali risponda in concreto ad alcuna esigenza di giustizia. Se infatti i diritti sono differenziati, il modo di garantirli dovrebbe essere tendenzialmente unitario. Unica distinzione di rito processuale che

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si apprezza come utile, appare quella tra processo di primo grado e rito di impugnazione. In riferimento specifico alla fase della impugnazione è sicuramente auspicabile la riduzione effettiva delle udienze in grado di appello, che attualmente costituiscono una inutile perdita di tempo per Giudi-ci ed Avvocati, e sicura causa di allungamento dei tempi processuali. Attualmente le udienze civili, almeno in grado di appello, altro non sono che una illustrazione orale di ciò che i professionisti hanno già abbondantemente scritto nelle memorie e nelle comparse; e che il Giudice ha già attentamente letto (o almeno dovrebbe aver fatto). Il processo di secondo grado è un processo sostanzialmente scritto, a carattere devolutivo, che non ha necessità alcuna di momenti di contraddittorio de visu fra le parti; qualora peraltro ve ne fosse la ne-cessità, come nel caso di rinnovazione eccezionale della istruttoria, sarebbe il Giudice a disporlo, ovvero ciascuna parte a richiederlo motivatamente. Il meccanismo processuale dovrebbe quindi essere improntato a massima celerità. Una volta costituitesi in giudizio le parti, o il Presidente fissa la udienza della discussione della causa, nella quale verrà letto il dispositivo in udienza (privilegiandosi il rito del processo del lavoro), ovvero il Presidente assegna la causa ad un consigliere (privilegiando, in questo caso, il rito ordinario), fissando la camera di consiglio nella quale il consigliere assegnatario relazionerà sulla causa e verrà decisa la controversia, e dandone comunicazione alle parti. Parti processuali che quindi avranno tutta la possibilità di “monitorare” i tempi del giudizio, sia sotto il profilo del tempo intercorrente tra il deposito delle memorie di costituzione e la camera di consiglio; sia sotto il profilo del tempo intercorrente tra la data della decisione della causa e la data del deposito della sentenza. Tempi di durata complessiva del giudizio di impugnazione che, a questo punto, dipenderanno esclusivamente dal numero delle cause che vengono assegnate a ciascuna Sezione in grado di Appello.Anche il primo grado di giudizio di merito dovrebbe essere interes-sato da una riforma profonda che ne riduca drasticamente i tempi. Per quanto attiene al primo grado del giudizio la preferenza do-vrebbe essere accordata al rito attualmente disegnato per le cause di lavoro, con alcune opportune modifiche che rendano ancora più rapido l’iter processuale. In particolare dovrebbe introdursi

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una modifica del disposto del comma primo dell’art. 420 cpc, nel senso che la parte che non comparendo si sottragga all’esame del Giudice sui fatti di causa, incorre nella sanzione processuale di decadenza dal diritto alla prova, residuando esclusivamente in suo favore il diritto alla controprova in ordine alle prove ammesse su istanza di controparte; in sostanza garantendo il solo diritto di difesa ma non il diritto di difendersi provando. Ed infatti la com-parizione personale delle parti alla prima udienza avanti al Giudice non soltanto è fondamentale per consentire al Giudice il loro esame libero – all’esito del quale è possibile “asciugare” il thema deci-dendum del giudizio con conseguenze importanti anche in punto di ammissione delle prove e di durata complessiva del giudizio stesso –, ma risulta fondamentale per consentire, in limine litis, il tentativo di una soluzione transattiva della controversia che può ottenersi esclusivamente dall’intervento di un Giudice consapevole degli atti di causa, in un rapporto diretto con le parti della causa stessa; e non con la previsione di percorsi conciliativi esterni al processo, che costituiscono esclusivamente un costo aggiuntivo per le parti, e la creazione di una ulteriore categoria professionale di cui non si sentiva la necessità.Dovrebbe inoltre prevedersi che i testimoni ammessi dal Giudice vengano citati dalla cancelleria del Giudice e non dalle parti (la citazione del teste ad opera della parte spesso è fonte di equivoci nei testi citati, i quali non apprezzano che la loro testimonianza è resa nell’interesse pubblico, ancorché citati da una parte del pro-cesso), con specifica previsione di pesanti sanzioni pecuniarie per coloro che non si presentino alla prima udienza di fissazione della prova, e con obbligo per il Giudice di ordinarne l’accompagna-mento coattivo fino dalla seconda udienza alla quale non si siano presentati, qualora il Giudice non reputi di revocare l’ordinanza di ammissione del teste. La abnorme durata delle cause in primo grado è troppo spesso collegata infatti alla diluizione in numerose udienze degli esami testimoniali, i cui tempi vengono dettati non dal Giudice ma dagli interessi particolari dei testi o delle parti. Dovrebbe infine prevedersi una adeguata sanzione per i consulenti tecnici che, senza giustificato motivo, non rispettino i termini del deposito della consulenza tecnica, prevedendo che oltre un certo limite (per esempio il doppio del termine concesso) essi decadano

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dal compenso, e la condotta venga segnalata al Consiglio dell’Ordine professionale. Dovrebbe a tal fine predisporsi un Albo nazionale del consulenti tecnici e dei periti, ove annotare la sanzione irroga-ta; in caso di recidiva, il professionista dovrebbe essere cancellato dall’albo dei periti di ufficio.Le scarne riflessioni esposte, lungi dal pretendere di avere una qualche esaustività, costituiscono null’altro che un contributo alla discussione su ciò che potrebbe essere fatto in concreto al servi-zio degli italiani perché possano godere finalmente di un servizio giustizia degno di una moderna democrazia. Ovviamente si tratta di nulla più che una base di approfondimento rivolta a tutti coloro che credono che la giurisdizione costituisce un bene prezioso di qualsiasi democrazia, e non un terreno di incursioni corsare da parte di personaggi equivoci prestati alla politica.

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L’istituto della media-conciliazione. Verso una privatizzazione dei diritti?Avv. Stefano Raddi Avvocato del foro fiorentino

Dal 21 marzo 2011 è entrato in vigore nel nostro ordinamento l’i-stituto della media conciliazione che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe la finalità di smaltire il carico di lavoro dei tribunali civili e di consentire una maggiore rapidità delle decisioni. La media conciliazione consiste nella richiesta ad un organo pre-posto ed autorizzato dal Ministero di Giustizia di dirimere una controversia grazie all’ausilio della figura di un mediatore profes-sionale, che può rivestire tale incarico dopo avere frequentato un breve corso di formazione. La legge prevede l’obbligatorio espe-rimento del tentativo di conciliazione come pregiudiziale rispetto alla possibilità di proseguire l’azione in sede giudiziaria. In altre parole, per poter rivolgere la propria pretesa al Giudice, il cittadino che vanti una richiesta o pretenda il riconoscimento di un diritto, dovrà necessariamente e previamente rivolgersi ad un “mediatore” il quale, convocate le parti in causa, dovrà sottoporre loro, udite le varie richieste e le eccezioni sollevate da entrambe, un possibile soluzione di accordo. Solo in caso di mancata accettazione della soluzione prospettata dal mediatore l’azione potrà proseguire la via ordinaria e consentire che a giudicare sulla pretesa sia il Giudice. Il provvedimento è entrato in vigore, giova ricordarlo, nonostante maggioranza ed opposizione avessero concordato, visti i molti aspetti critici sottolineati da diversi operatori del settore, in sede parlamentare, un suo differimento: il Governo ha invece imposto la sua immediata applicazione, salvo escluderne alcune materie. L’Avvocatura tutta ha fin da subito osteggiato la creazione di questo quarto grado di giudizio, non per ragioni biecamente corporative,

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quanto per la presa d’atto del sostanziale fallimento dell’analogo meccanismo già esistente rispetto alle cause di lavoro nelle quali, prima di esperire la causa dinanzi al Giudice, occorreva procede-re al tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro, oggi divenuto facoltativo proprio in ragione della constatata inefficienza del medesimo. Ma le ragioni del dissen-so sono anche altre: ad esempio, la necessità, per il cittadino che lamenti la lesione di un proprio diritto, di doversi rivolgere in via pregiudiziale al mediatore al fine di poter attivare la propria pretesa dinanzi al Tribunale rappresenta un costo ulteriore che graverà tutto sulle tasche di quest’ultimo. Gli effetti distorti di tale perverso meccanismo non tarderanno ad emergere: tale procedura, come evidente, consentirà alle grandi aziende o ai grandi gruppi finan-ziari e bancari, rispetto ai quali un comune cittadino-consumatore si trovi contrapposto, di poter costringere il soggetto che lamenti la lesione di un proprio diritto – al quale peraltro non è garantita l’assistenza di un difensore – a scegliere tra l’alternativa di dover sopportare gli ulteriori costi che la prosecuzione dell’azione gli comporterà o ridimensionare le proprie pretese secondo l’accordo predisposto dal mediatore. Un ulteriore elemento che porta a criticare il meccanismo introdotto dal legislatore consiste nella pericolosa deriva rappresentata dalla sostanziale privatizzazione della Giustizia: è, infatti, importante sot-tolineare che il procedimento di conciliazione potrà essere gestito sia da enti pubblici che da enti privati. Tale circostanza, come evidente, comporta chiari rischi per quanto attiene la serenità e la terzietà di giudizio del mediatore rispetto alle parti in causa, nonché, giova ribadire anche questo, seri pericoli di infiltrazione del meccanismo da parte delle associazioni criminali in vaste aree del Paese. Può affermarsi, in definitiva, che l’introduzione del meccanismo della mediaconciliazione rappresenta una lesione del diritto costituzio-nalmente garantito dell’accesso alla Giustizia previsto dall’art. 24 della Costituzione, rispetto al quale si frappone un ulteriore ostacolo che finisce, inevitabilmente, per danneggiare il comune cittadino. Il 12 aprile scorso, il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, finalmente recependo le critiche mosse dall’Avvocatura al decreto legislativo sulla media conciliazione ha rimesso alla Corte Costitu-zionale il compito di accertare se vi fossero elementi di illegittimità

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costituzionale. In particolare, l’accento sul quale il T.A.R. del Lazio si è concentrato con riferimento a potenziali profili di illegittimità è stato posto sulla obbligatorietà dello strumento, sulla condizione di procedibilità ed i rapporti con il processo, e sulla facoltà di Enti privati di costituire organismi di conciliazione. A questo punto, considerata l’intransigente presa di posizione in materia, non ci resta che attendere l’intervento del Giudice delle Leggi che auspicabilmente demolirà l’impianto legislativo, consen-tendone un adeguamento alla normativa costituzionale.

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Riforma della giustizia o riforma della magistratura?Sen. Silvia Della Monica Capogruppo PD Commissione Giustizia del Senato e Responsabile Forum Regionale Giustizia PD Toscana

I rapporti tra potere politico e il potere giudiziarioIl tema dei rapporti fra politica e magistratura è presente in tutti gli ordinamenti fondati sulla separazione dei poteri; e il conflitto può essere prevedibile: la politica segue il principio di opportunità e la magistratura quello di legalità. La differenza fra ciò che avviene in Italia e ciò che avviene negli altri Paesi è epocale e consiste nel diverso livello cui il conflitto sviluppa: negli altri paesi prevalgono il reciproco rispetto e la consapevolezza delle responsabilità e dei limiti di ciascuno dei due poteri. mentre in Italia i rapporti sono inquinati da polemiche e campagne diffamatorie, anziché essere occasione di riflessione e di proposte normative concrete; con il ricorrente alibi di una alternatività della costituzione materiale ri-spetto a quella formale e con conseguenti interventi estemporanei e settoriali, che ulteriormente danneggiano la giustizia e alterano i rapporti tra i poteri dello Stato, piegando la legge a interessi per-sonali o a intenti puntivi. Si parla di riforma della giustizia facendo confusione tra il piano dell’efficienza, dei tempi della qualità della giustizia e quello del «riequilibrio» tra i poteri per ridimensionare la giurisdizione. E l’ambiguità su cui si gioca è di sovrapporre i due piani, che hanno ben pochi punti di contatto.Realizzare una giustizia efficiente non è certo una missione impossi-bile e nell’attuale fase storica, mentre non vi sono le condizioni per una riforma costituzionale, nulla vieta di mettere in campo interventi tesi a recuperare efficienza al servizio giustizia, nell’interesse di tutti, e non di pochi, interventi senza i quali la durata ragionevole

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del processo è destinata a restare un mito, un modello irraggiungi-bile. Si sa bene quello che c’è da fare nell’interesse dei cittadini e continuare a non farlo non giova al Paese. L’amministrazione della giustizia è una funzione essenziale, insostituibile e irrinunciabile in uno Stato di diritto e deve essere uno dei temi chiave dell’agen-da politica: non può esservi democrazia senza regole condivise e fatte rispettare. Se manca un sistema efficiente di giustizia, viene meno la fiducia dei cittadini nello Stato, si compromette la capacità competitiva del Paese sul piano economico, si abbassa il tasso di legalità, si incentivano corruzione e mafie. Poteri forti e poteri criminali non hanno interesse a una giustizia che funzioni. Si assiste, così, al tentativo di spostare l’attenzione su altri temi, di orientare l’opinione pubblica con suggestioni, se-condo cui legalità ed etica della responsabilità non sono più valori irrinunciabili e la magistratura non è più garante dell’osservanza della legge, ma un contropotere autoreferenziale, un avversario politico da abbattere. Si assiste a uno stato di profondo disagio nel delicato compito di amministrare la giustizia e non solo per le difficili condizioni di lavoro, ma soprattutto per il tenore e la provenienza di attacchi, frequenti,violenti e insidiosi, che vanno al di là della critica legittima dei provvedimenti giudiziari. È purtroppo invalso un (mal)costume politico che ha reso pratica quotidiana l’insulto e l’attacco alla magistratura e che ha dato vita ad una sistematica campagna di denigrazione tesa a minare la credibilità agli occhi dei cittadini di un’istituzione che, per previsione costituzionale, è autonoma e indipendente da ogni altro potere e che, invece, si cer-ca di fare apparire faziosa e complottista, e,quindi, non più terza, autonoma e indipendente. Gioco rese all’evidenza facile, perché i cittadini non ricevono risposte alle istanze di giustizia, se non in tempi lunghissimi, a causa di un servizio che non funziona e che non si vuole fare funzionare. E in questo modo si cerca di legitti-mare una “normalizzazione” del ruolo dei magistrati e convincere il paese della necessità di leggi punitive o ad personam, entrambe elusive dei valori costituzionali. Nessuno vuol negare che i magistrati commettono errori, ma non si può accettare che alla magistratura sia considerata responsabile assoluta di un sistema in crisi, che attende risposte urgenti da altri poteri, e che essa sia presentata, in modo distorto e infamante,

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come una corporazione impegnata a ostacolare l’azione di Governo e a perseguitare il Presidente del Consiglio e a usurpare un ruolo politico. Non solo è ingiusto verso i magistrati, quelli che hanno pagato con la vita il loro impegno professionale e quelli che quo-tidianamente svolgono il loro ruolo in silenzio, con grande senso di responsabilità (e a detta di tutta la classe politica sono la mag-gioranza), ma soprattutto nei confronti dei cittadini. Su di loro si riflettono interventi legislativi inidonei ad assicurare una giustizia ordinaria efficiente e rapida, essendo per lo più dettati dall’esigenza (politica) di risolvere enfatizzate urgenze securitarie ovvero situa-zioni legate a singoli processi e spesso mirati a limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e, quindi, la eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.In questi ultimi tempo la situazione sta assumendo toni non più tolle-rabili, al punto che dopo tre giorni di attacchi inusitati del Presidente del Consiglio, quando il suo slogan sui “magistrati come le brigate rosse” è stato stampato su manifesti a sfondo rosso sangue (Via le BR dalle Procure), il Presidente della Repubblica è intervenuto con un messaggio al vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, il primo a denunciare la violenza del confronti sulla giustizia. Difatti quei manifesti, indirizzati ai magistrati di Milano, non sono uno scherzo, una goliardata, ma rappresentano un punto di rottura di equilibri, in grado di innescare una spirale violenza ed hanno un mandante morale.Questo il messaggio del Presidente “Il prossimo 9 maggio si celebrerà al Quirinale il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice. Quest’anno, il nostro omaggio sarà reso in particolare ai servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro lealtà alle istituzioni repubblicane. Tra loro, si collocano in primo luogo i dieci magistrati che, per difendere la legalità democra-tica, sono caduti per mano delle Brigate Rosse e di altre formazioni terroristiche. Le sarò perciò grato se – a mio nome – vorrà invitare alla cerimonia i famigliari dei magistrati uccisi e, assieme, i presidenti e i procuratori generali delle Corti di Appello di Genova, Milano, Salerno e Roma, vertici distrettuali degli uffici presso i quali prestavano la loro opera Emilio Alessandrini, Mario Amato, Fedele Calvosa, Francesco Coco, Guido Galli, Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini, Vittorio Occorsio, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione. La scelta che oggi

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annunciamo per il prossimo Giorno della Memoria costituisce anche una risposta all’ignobile provocazione del manifesto affisso nei giorni scorsi a Milano con la sigla di una cosiddetta “Associazione dalla parte della democrazia”, per dichiarata iniziativa di un candidato alle imminenti elezioni comunali nel capoluogo lombardo. Quel manifesto rappresenta, infatti, innanzitutto una intollerabile offesa alla memoria di tutte le vittime delle BR, magistrati e non. Essa indica, inoltre, come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali, e in particolare nelle polemiche sull’amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni. Di qui il mio costante richiamo al senso della misura e della responsabilità da parte di tutti”.

L’urgenza della riforma Il buon funzionamento della giustizia costituisce condizione per lo sviluppo economico del Paese, perché ne favorisce la competitività e l’attitudine ad attrarre investimenti internazionali Il sistema giustizia e le disfunzionalità che lo caratterizzano conti-nuano a rappresentare per l’Italia un pesante costo per le imprese e un ostacolo allo sviluppo (rapporto Censis 2010). La giustizia in Italia è al collasso: il cattivo funzionamento del servizio e, quindi, il mancato rispetto della ragionevole durata del processo assumono carattere oggettivamente prioritario, cui va posto, con urgenza, rimedio. Il rapporto Doing Business 2011 della Banca Mondiale, che annualmente indica i Paesi in cui è vantaggioso investire col-loca ancora l’Italia all’80esimo posto (su 183): Zambia, Mongolia, Ghana, Ruanda continuano a precederci. E l’Italia, figura tra le bad practices quanto a durata delle procedure: 1210 giorni necessari per recuperare un credito e una stima di Confartigianato calcola che i ritardi costano alle imprese 2,3 miliardi di euro: una “tassa occulta” di circa 371 euro per azienda che ricade su imprenditori, fornitori, clienti, consumatori. Inoltre la durata dei processi non è omogenea sul territorio nazionale.Una giustizia ritardata equivale a giustizia denegata ed è anche un pesante costo per lo Stato. Basti considerare che risultano destinati circa 250 milioni di euro per le richieste di indennizzo per violazione del termine di ragionevole durata del processo, avanzate in base alla c.d. legge Pinto (legge 81/2001). E sul punto si è registrata

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una crescita media annua del 40%, con conseguente passaggio del contenzioso dai circa 5mila ricorsi del 2003 agli oltre 34mila del 2009 e con effetto moltiplicatore. Il rimedio interno offerto dalla legge Pinto ha tradito le aspettative e anziché ridimensionare il contenzioso esistente ha dato vita a un circolo vizioso che ne ha generato uno nuovo, che pesa per il 20% sul carico di lavoro delle 26 corti di appello italiane. Tuttavia pensare di “ingabbiare” la decisione del giudice in tempi rigidi e predeterminati, il cui decorso è causa di automatica estinzione del processo (anche se il reato non è estinto per prescrizione), costituisce un’aberrazione che non trova riscontro in nessun paese europeo e tanto meno nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo.La legge Pinto e le condanne che l’Italia subisce dalla Corte di Strasburgo, danno occasione per sfatare un altro stereotipo: singoli casi di negligenza dei magistrati vanno stigmatizzati nelle debite sedi disciplinari, ma la colpa dei ritardi non è dei giudici italiani, che; anzi, secondo il rapporto 2010 del Cepej1, contrariamente a quanto si pensa o si vuole far credere, sono considerati laboriosi e produttivi, ma bloccati da un numero elevatissimo di casi da trattare e dai tempi estremamente lunghi dell’attuale struttura del processo. Dai dati CEPEJ si ricava che in Italia il numero delle sopravvenienze civili annue contenziose di primo grado per ogni giudice è pari a 438, rispetto alle 224 della Francia e alle 55 della Germania, così come le sopravvenienze penali annue per ogni giudice italiano sono di 190 contro le 81 in Francia e le 42 in Germania. E ancora: i procedimenti civili di primo grado definiti in Italia per ogni giudice sono 411 contro i 215 della Francia e i 79 della Germania. Gli stessi rapporti si riscontrano per i procedimenti penali di primo grado definiti per ogni giudice: 181 in Italia, 87 in Francia, 43 in Germania. Inoltre il numero dei giudici e dei pubblici ministeri italiani, se riferito al numero degli abitanti, è nella fascia bassa della graduatoria, in quanto molti Paesi europei hanno un maggior numero di magistrati onorari. E lo stesso discorso vale per cancellieri e amministrativi addetti al servizio giustizia. In conclusione la crisi di complessiva efficienza è il vero problema del nostro sistema giudiziario e la soluzione di tale problema costitu-

1 L’organo istituito per il monitoraggio del funzionamento della giustizia nei diversi Stati dell’Unione europea.

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isce un’assoluta priorità. Proporsi e proporre al Paese altri obiettivi di riforma prima di aver risolto questo gravissimo problema non risponde ad alcuna logica e fa fondatamente sospettare che vi sia un interesse a non volere restituire efficienza e rapidità alla giustizia.

Le criticità esistentiL’aspetto critico è costituito dalla crescente giacenza di processi sia nel civile (5,5 milioni di procedimenti pendenti) sia nel penale (1,5 milioni di procedimenti pendenti). Le cause che hanno de-terminato e che, tuttora, purtroppo determinano questa situazione sono molteplici: dall’eccessiva litigiosità a procedure farraginose, a inutili formalismi, all’enorme debito di procedimenti sia nel penale sia nel civile, alla carenza di organici di magistrati e personale amministrativo, da una cattiva dislocazione e organizzazione degli uffici giudiziari ad una collaborazione tra magistratura e avvocatura, che stenta a decollare, essendo tra l’altro eccessivo il numero di avvocati in Italia (rispetto tra l’altro al numero di giudici, cancellieri e personale amministrativo, sottodimensionato) e, non ultimo, a una non sempre adeguata organizzazione di taluni uffici giudiziari.Secondo le ricerche Cepej del 2008 e del 2010 l’Italia ha il maggior numero di controversie per abitante e i magistrati italiani devono dare risposta a un contenzioso civile che è il terzo in Europa ed è quasi il doppio rispetto agli altri grandi Paesi UE.; la produttività pro-capite dei giudici italiani è ai primi posti in Europa per il civile (pari a circa il doppio di quella degli altri grandi Paesi) e ai pri-missimi posti anche nel settore penale (malgrado la diversità dei sistemi europei e la difficile comparabilità).

I magistrati in organico agli uffici giudiziariIl numero dei magistrati ordinari (reclutati per concorso, secondo quanto prescrive l’art. 106 della Costituzione) previsto per legge2 è di 10.151. I magistrati in servizio sono, peraltro, 8885 (4837 uomini e 3048 donne). Secondo i dati aggiornati, ricavabili dal sito del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), vi è, quindi, uno scoperto di organico negli uffici giudiziari di ben 1268 magistrati, di cui 938 giudicanti e 330 requirenti, con aumento, quindi, rispetto

2 Legge del 13 Novembre 2008 n. 181.

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ai dati forniti da Presidente della Cassazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 20113. E 414 pensionamenti del 2010 sono stati in buona parte anticipati e favoriti dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 78 del 2010 sulle misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria, che hanno fortemente penalizzato le modalità di erogazione dell’indennità di trattamento di fine rapporto. Gli effetti negativi del grave scoperto di organico si risentono soprattutto negli uffici disagiati e in quelli di piccole dimensioni, rendendo ancora più evidente l’insostenibilità dell’attuale geografia giudiziaria. La scelta di escludere in via di principio i magistrati di prima nomina dalle procure della Repub-blica e dagli uffici monocratici penali, sta scardinando la giustizia in zone molto esposte alla criminalità organizzata. E le proposte di modica legislativa presentate al riguardo dal Partito democratico attendono una risposta in Parlamento. La legge n. 24, del 22 febbraio 2010, (“Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario”) ha offerto soluzioni tampone, non sufficienti ad affrontare la gravità del problema, laddove una riorganizzazione sistematica e a regime delle risorse umane e strutturali Diversa-mente a situazione di scopertura complessiva degli organici rischia di divenire incontrollabile. Altro aspetto strettamente connesso a quelli appena affrontati è quel-lo dei magistrati collocati fuori ruolo che, secondo i dati pubblicati sul sito del CSM, ammontano a 170 unità. Le carenze di organico nelle varie sedi giudiziarie e l’esigenza diffusa di maggiore celerità nella definizione dei processi impongono che l’affidamento a magi-strati di incarichi extra-giurisdizionali sia limitato rigidamente ai soli casi per i quali le competenze tecniche di cui sono portatori siano oggettivamente indispensabili e che tali incarichi siano assegnati per un periodo di tempo circoscritto e funzionale a un tempestivo rientro in servizio effettivo presso gli uffici giudiziari.Il partito democratico, più volte e più sedi (disegni di legge, emen-damenti), ha sottolineato la necessità di restringere gli incarichi a quelli realmente irrinunciabili, senza peraltro, ricevere risposte dal Governo e dal Parlamento.

3 Le vacanze dei magistrati, alla data del 21 gennaio 2011, assommavano a 1237 (12.88 %), di cui 337 (13,86%) magistrati requirenti.

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In Toscana sono previsti 448 magistrati in organico, 329 giudicanti e 118 requirenti. I posti scoperti sono 57, di cui 45 giudicanti (13,68% di scopertura) e 12 requirenti (10,08% di scopertura).

La mancata riforma della magistratura onorariaL’art. 106 della Costituzione prescrive che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso, ma prevede (al secondo comma) che la legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli. Questa disposizione,tuttavia, non è stata attuata completamente essendo stata prevista solo una disciplina transito-ria, che prevedeva nella sua versione originaria che entro 5 anni si effettuasse la riforma della magistratura onoraria. Il termine è stato più volte prorogato e ancora il Governo non ha presentato la legge di riforma di tale categoria di magistrati. La magistratura onoraria prevede un organico di 9.255 unità, superiore a quella dei magistrati ordinari, se solo si considerano le figure del giudice di pace, del giudice onorario di tribunale e del vice procuratore onorario, i cui organici sono anch’essi in parte scoperti: Giudice di pace organico 4690, presenti 2482 Giudice onorario di tribunale (GOT) organico 2564, presenti 1802 Vice procuratore onorario (VPO) organico 1991, presenti 16514

Le crescenti competenze attribuite ai magistrati onorari esigono una riforma organica della disciplina a loro riservata: il Ministro della Giustizia aveva promesso un disegno di legge di riforma per rego-larne lo status, la posizione, le garanzie e i doveri, come stabilisce l’articolo 106 cpv della Costituzione.: è invece arrivata solo l’enne-sima proroga delle funzioni. Il Governo, infatti, con la conversione in legge del decreto “milleproroghe” (DL 29 dicembre 2010, n. 225) si è limitato a prolungare di una anno l’attuale assetto della magistratura onoraria operante presso tribunali e procure, malgrado

4 A questi si aggiungono i componenti privati delle Corti di appello per i minorenni (organico 346, presenti 322) i componenti privati presso il Tribunale per i minorenni (organico 745, presenti 738), gli esperti di sorveglianza (organico 483, presenti 468) e del Tribunale (presenti 24). Discorso a sé meritano i Giudici onorari aggregati (GOA) istituiti, nella misura di 1000 unità, con la Legge 22 luglio 1997 n. 276 per intervenire sull’arretrato in materia civile, con un’apposita sezione stralcio, allora calcolato in circa 500.000 cause pendenti (dati del Ministero della Giustizia) la loro funzione è cessata nel 2007 e ne rimangono 8 per le cause ancora pendenti.

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il preciso impegno assunto dal Ministro Alfano di procedere ad una riforma organica del settore. Questa impostazione tradisce una in-capacità riformatrice in un settore cruciale dell’organizzazione degli uffici giudiziari, la cui soluzione non può esaurirsi nel procrastinare a tempo indeterminato una riforma tanto importante ed attesa, per cui le opposizioni hanno, invece, presentato fin dall’inizio della legislatura un progetto organico di riforma. Ed è paradossale che in una materia così rilevante il Governo non sia in grado di esprimere una proposta e al momento siano calenderizzati in Commissione giustizia del Senato solo disegni di legge di iniziativa parlamentare.

La mancanza di personale amministrativo Gravissima è, la carenza di organico del personale amministrativo. Secondo dati di fonte ministeriale la percentuale di scopertura media è del 13% per il personale amministrativo e del 27% per i dirigenti. In realtà, c’è stata una progressiva riduzione della pianta organica di ben oltre 13.000 unità del personale amministrativo del comparto giustizia la cui professionalità è stata mortificata nel corso degli anni (precisamente le piante organiche sono state ridotte da 53.000 unità alle attuali 40.000). Su questa situazione ha inciso la formazione di piante organiche prive di coerenza e di funzionalità accompagnato dall’intervento di taglio orizzontale delle dotazioni organiche dei singoli uffici giudiziari che, con il d.m. di revisione del 2009 attuativo della c.d. “legge Brunetta” del 2008, hanno visto la pianta organica coincidere con il dato sostanzialmente casuale delle presenze e, dunque, cristallizzarsi situazioni di evidente irrazionali-tà. Numero, mansioni, professionalità, compensi del personale sono centrali per l’efficienza del servizio giustizia. Revisione delle piante organiche e riqualificazione del personale, compreso il personale tecnico,pertanto, devono costituire la soluzione prioritaria, che non può essere surrogata dall’apporto di professionalità esterne carat-terizzate da precarietà e assenza di adeguata formazione. Il blocco indiscriminato del turn over e l’inadeguatezza nella gestione dei processi di riqualificazione del personale stanno conducendo ad una situazione paradossale che vedrà gli uffici giudiziari in sempre più grave crisi per effetto dei prossimi pensionamenti degli attuali responsabili delle cancellerie e segreterie: i personale di grande valore che costituisce la memoria storica degli uffici e padroneggia

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l’andamento dei servizi, ma per il quali non è stata prevista una sostituzione e successione adeguata.

Il taglio delle risorse economiche Il nostro sistema giudiziario soffre, oggi, di un grave carico di lavoro e di serie carenze strutturali ma il comparto Giustizia non è stato dotato dal Governo delle risorse necessarie: ne sono prova la legge di stabilità che non prevede misure specifiche per l’amministrazione della giustizia e ancora il documento di economia e finanza 2011, sottoposto in questi giorni al Parlamento. La legge di bilancio ha operato un taglio alla missione giustizia, per il 2011, di oltre 231 milioni di euro, che si accentua per le previsioni concernenti il 2012 e il 2013 con l’ulteriore riduzione degli stanziamenti di più di 44 milioni di euro; suscettibile di de-terminare un ulteriore forte decremento dello standard qualitativo dell’amministrazione della giustizia, se solo si considera che a tale missione sono ricondotti quattro “programmi” cruciali quali quelli dell’amministrazione penitenziaria, della giustizia civile e penale, della giustizia minorile e dell’edilizia giudiziaria, penitenziaria e minorile.La drammatica sequenza di tagli imposti dal Governo alle risorse della Giustizia (-20% nel 2009; -30% nel 2010; -40% nel 2011), secondo gli impegni presi dal Ministero della Giustizia, avrebbe dovuto essere compensata dalla creazione del cosiddetto Fondo unico giustizia.. Il Ministro della Giustizia ed il Ministro dell’Interno avevano assicurato che i tagli dei rispettivi Ministeri sarebbero stati riassorbiti tramite questo Fondo (FUG), quantificato in oltre un miliardo di euro, in cui avrebbero dovuto confluire tutte le somme di danaro sequestrate ed i proventi derivanti dai beni confiscati nell’ambito di procedimenti penali o di misure di prevenzione. Il Governo sulla base delle entrate affluite nell’esercizio 2009, ha determinato in 158 milioni di euro (ovvero nel solo 25% dei circa 632 che aveva dichiarato come effettivamente disponibili per il 2009) la quota delle risorse del Fondo unico giustizia da ripartire tra i Ministeri interessati (Giustizia, Interno ed Economia) e solo perché il Ministero dell’economia, per il 2009, ha rinunciato alla sua quota, 79 milioni di euro sono stati assegnati al Ministero della giustizia, ma ancora non sono disponibili per l’Amministra-

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zione della Giustizia (che, producendo risorse, sarebbe in grado di autofinanzarsi, se non ne fosse stata spogliata) Resta, così, in piedi una vicenda che molto racconta della inefficienza dell’azione amministrativa e legislativa del Governo.

Gli interventi del Governo Lo stato di crisi della giustizia italiana permane senza che la “te-rapia” promessa nel 2010 dal Ministro della Giustizia abbia avuto alcun effetto: l’adozione di misure organizzative, le innovazioni legi-slative in materia sia ordinamentale che procedurale, la previsione di un programma di impegni, che dovevano costituire le linee guida essenziali dell’indirizzo politico del Governo in materia di giustizia si sono concretizzati, a causa anche e non solo del costante taglio di risorse, solo in pochi deludenti interventi dai risultati parziali ed in alcuni casi apertamente controproducenti. Nulla di concreto fino ad ora è stato fatto per migliorare la qualità e i tempi del servizio reso ai cittadini: nulla per la riorganizzazione degli ambiti di competenza territoriale degli uffici giudiziari ancorati all’Ottocento, nulla per prevedere la copertura o l’adeguamento degli organici dei magistrati ordinari e del personale giudiziario, nulla ancora per la realizzazione di un’informatizzazione, che non sia sperimentale, e secondo sistemi sinergici, operativi ed uniformi sul territorio nazionale.

Il settore penaleNel settore del penale l’attenzione del Governo e della maggioranza si è soffermata su ben altre priorità: inizialmente sulla legge c.d. blocca processi del 2008 al quale il partito democratico espresse forti critiche per l’impatto disastroso su un elevato numero di pro-cessi pendenti; fatto questo condiviso da avvocatura e magistratura oltre che da larga parte della società civile. Poi, improvvisamente, è entrata nel dibattito politico la tematica delle intercettazioni, che il partito democratico intendeva riformare sotto il profilo della tu-tela della privacy, ma non nei termini di un depotenziamento tout court dello strumento investigativo come proposto dal Governo, con conseguenti ricadute negative sull’efficacia dell’azione delle forze di polizia e della magistratura e, quindi, sulla sicurezza dei cittadini; oltretutto con la compressione della libertà di stampa, costituzionalmente garantita, e del correlativo diritto dei cittadini,

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in nome dei quali si esercita la giurisdizione, ad essere informati. È seguito, quindi, in un crescendo il disegno di legge sul processo penale, il ddl 1440, con l’intento di incidere sui rapporti tra pubbli-co ministero e polizia giudiziaria, per culminare nel processo breve e oggi nella prescrizione breve per gli incensurati, accompagnata dal contemporaneo e contraddittorio disegno della maggioranza di riconoscere all’imputato di un diritto a far dilatare i tempi del processo in materia di prove (il cd. processo lungo) e da interventi di legislazione ordinaria tesi a ridurre i poteri del CSM (aggirando la Costituzione e cercando di confinarlo n funzioni burocratiche) e,infine, la sconcertante proposta di porre a carico dei magistrati una responsabilità civile diretta (oggi indiretta e pota in prima battuta a carico dello Stato) non più limitata ai casi di dolo e colpa grave ed estesa perfino all’interpretazione del diritto e alla valutazione del fatto, e quindi, in grado di condizionare il magistrato, incidendo sulla sua indipendenza e quindi sull’effettività della tutela dei diritti dei cittadini. Se tutto questo non bastasse, dopo un annunzio di lunga durata è stata effettivamente presentata (ed è incardinata alla Came-ra dei deputati) anche la riforma costituzionale della magistratura.Quindi, nei momenti più critici della vita politica, il Governo diret-tamente o esponenti della sua maggioranza propongono interventi incentrati sui temi della separazione delle carriere, della rivisitazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, della modifica del Consiglio Superiore della Magistratura, dei rapporti tra Polizia giudiziaria e Pubblico Ministero, che certo non rendono il processo più rapido, più funzionale ed efficiente, che rispondano alla diversa logica di ridisegnare i rapporti tra politica e magistratura, alterando le attuali divisioni tra poteri dello Stato così come delineate dal Costituente nel 1948 senza alcun vantaggio per l’efficienza della giustizia ordinaria. In questa stessa linea vanno richiamate anche le due leggi sul cd. legittimo impedimento (la prima nota come Lodo Alfano) approvate a colpi di maggioranza e di fiducia5 tese a regolare i rapporti tra il Presidente del Consiglio e la giustizia in palese contrasto con principi costituzionali, in primis quello dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi

5 Oltre a un disegno di legge costituzionale in materia, al momento abbandonato in prima commis-sione affari costituzionali del Senato.

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alla legge (art. 3). Non a caso il disegno di legge che proponeva il cosiddetto «lodo Alfano» è stato dichiarato incostituzionale con sen-tenza della Corte Costituzionale n. 262 del 2009, laddove la succes-siva legge di iniziativa parlamentare (Gasparri e altri) sul “legittimo impedimento”, fortemente voluta dal Governo, è stato dichiarato parzialmente incostituzionale il 13 gennaio 2011, per il contrasto con gli articoli 3 e 138 della Costituzione. L’amara constatazione è che il dibattito su questi temi ha avuto solo l’effetto di distogliere l’attenzione dalla stringente necessità di interventi strutturali tesi a realizzare un processo uguale per tutti e in tempi ragionevoli e, quindi, dalla necessità di introduzione di elementi di accelerazione e di razionalizzazione dei vigenti istituti processuali, volti a eliminare inutili formalismi senza sacrificare le garanzie difensive e assicurando nel contempo l’obiettivo della certezza della pena.

Il disegno di legge sul c.d. processo breve (A.S. 1880-A), ora prescrizione breveIl cd. processo breve, proposto dal Governo, non assicurava al-cuna domanda di giustizia: il suo iter si è fortunatamente arenato, essendo evidente che la fissazione di un termine perentorio per il compimento dei singoli gradi di giudizio non serve, nella condizione attuale degli uffici giudiziari, a realizzare un giusto processo, ma solo ad accelerarne l’estinzione. Ma il disegno originario è stato sostituito da Governo e maggioranza da quello sulla prescrizione breve. La ragione è evidente: neutralizzare gli interventi della Corte Costituzio-nale sul cd. Lodo Alfano e sul legittimo impedimento, per consentire al Presidente del Consiglio di sottrarsi a un processo per corruzione giudiziaria pendente dinanzi al Tribunale di Milano (noto come il processo Mills dal nome del coimputato già condannato con sentenza definitiva) giovandosi di una prescrizione ulteriormente abbreviata per gli incensurati, in modo da evitare che il giudice, prossimo alla conclusione del processo, la pronunzia della sentenza di primo grado. E per questo è stato approvato alla Camera dei deputati un nuovo intervento sull’art. 161 del codice penale accorciando ulteriormente per gli incensurati il termine di prescrizione dei reati, già ridotto nel 2005 con la cd legge ex Cirielli, una legge che ovviamente andava riformata in senso esattamente opposto L’impatto di una modifica a normativa ad personam (e la previsione che la disciplina nuova

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disciplina si applica se non è stata emessa sentenza di primo grado lo disvela),su tutti gli altri processi in corso e su quelli futuri sarà di rilevanti dimensioni e ha spinto a definirla un’amnistia permanente per numerosi gravi reati, come la corruzione, l’evasione fiscale, la truffa, la truffa ai danni dello Stato, l’appropriazione indebita, l’omi-cidio colposo e le lesioni colpose, i reati in materia di ambiente e di infortuni sul lavoro. Ma soprattutto una cosa è certa:: sarà cancellata definitivamente la lotta contro la corruzione. Eppure il Governo, nel 2010, aveva presentato un disegno di legge definito “piano straor-dinario” per la trasparenza e contro la corruzione. Ma quel disegno di legge, malgrado le proteste del partito democratico, aspetta da tempo il parere del Governo e della Commissione bilancio sugli emendamenti presentati dell’opposizione, che aumentando le pene edittali per adeguarle alla gravità dell’offesa (allo Stato) potrebbero impedire la prescrizione breve che la Camera ha appena approvato. E dire che l’Italia è stata richiamata dall’Unione Europea per i termini troppo brevi di prescrizione che determinano frequentemente una ineluttabile estinzione di un così grave reato, la corruzione. E dire ancora che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e prima ancora la nostra Costituzione, impongono all’ordinamento italiano e, quindi, al Governo di dotare la giustizia di strumenti idonei ad accelerare lo svolgimento dei processi e facilitare l’accertamento giudiziario (l’esatto contrario, cioè di norme che favoriscono la morte dei reati prima della una sentenza di merito). Ma questi argomenti sono considerati alla stregua di chiacchiere, vane proteste di chi è “ammalato di onestà”. La cosa importante è che al Presidente del Consiglio sia garantito di restare incensurato a vita e, quindi, se qual-che processo lo insidia, sia azzerato. Non importa se saranno graziati anche delinquenti pericolosi. e che le vittime dei reati non potranno avere giustizia e ristoro. E sicurezza, eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge, riforma epocale della giustizia scompatono e a farne le spese sono i cittadini, le parti offese, lo Stato, insomma la democra-zia. E per completare l’opera in Senato con una manovra a tenaglia invece di approvare norme che accorciano i tempi del processo si propongono e approvano, a sorpresa, quelle che li allungano. Grazie ad un emendamento della maggioranza già approvato in Commissione giustizia il PM che rappresenta lo Stato sarà una parte meno uguale di fronte alla legge dell’imputato, che potrà imporre al giudice, a

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pena di nullità, l’assunzione di centinaia di testimoni, anche super-flui, e far ripetere prove già assunte, con una tecnica dilatoria che non solo il PM, ma neppure il giudice terzo potrà impedire. E nella stessa linea la maggioranza ha imposto il contemporaneo azzeramento della cd. norma Falcone: la sentenza passata in giudicata non potrà più costituire prova del fatto storico oggetto del processo se uno dei responsabili viene giudicato separatamente (si pensi ad un omicidio commesso da più persone), ma il giudice dovrà necessariamente riesaminare tutte le persone le cui dichiarazioni sono state utilizzate nella motivazione della sentenza. Anche in questo caso una norma a misura del Presidente del Consiglio e dei suoi processi (in primis il processo Mills).

Il settore civileQuanto alla giustizia civile, che costituisce una vera e propria ipoteca sulla competitività,la situazione è allarmante.I dati riferiti dal Ministro della Giustizia in Parlamento indicano una netta diminuzione dei procedimenti civili pendenti davanti agli uffici giudiziari: nel raffronto tra il 30 giugno del 2010 (5.600.616 cause) e il 31 dicembre del 2009 (5.826.440 cause) tale riduzione del contenzioso è quantificata in circa 224.000 processi (- 4,00%). Si tratta di è un dato sorprendente e forse a torto enfatizzato, perché il risultato è, ben più limitato se la pendenza al giugno 2010 la si rapporta ai 5.625.000 processi civili pendenti rilevati al 30 giugno dell’anno precedente: la diminuzione in questo caso diventa dello 0,45%). Il recupero realizzato nell’ultimo semestre viene attribuito dal Ministro a una maggiore reattività del sistema giudiziario, frutto – si legge nella relazione presentata – delle nuove norme processuali introdotte dal Governo, della crescente informatizzazione degli uffici e di un minor numero di procedimenti sopravvenuti (peraltro non quantificato), specie tra le opposizioni a sanzione amministrativa (dallo scorso anno gravate di contributo unificato). Ovviamente noi ci auguriamo che il cambio di passo ci sia, ma non possiamo fare a meno di dubitare della effettiva incidenza delle di-sposizioni recentemente approvate sul calo del contenzioso e soprat-tutto di sottolineare che tuttora manca una completa ed omogenea informatizzazione negli uffici giudiziari su tutto il territorio.Le «Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la

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competitività nonché in materia di processo civile», contenute nella legge n. 69 del 2009, comprendono una vasta congerie di dispo-sizioni nonché le modifiche al codice di procedura civile. Rispetto all’originaria formulazione, alcune modifiche hanno raccolto varie indicazioni provenienti dall’opposizione e dagli operatori giudiziari (avvocatura e magistratura associata). Peraltro, sebbene non man-chino alcuni interventi da tempo auspicati e largamente condivisi (si pensi, in particolare, all’abolizione dell’odiato rito societario e all’abrogazione dell’improvvido art. 3 della legge n. 102/2006, che aveva assoggettato al rito del lavoro le cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, conseguenti ad incidenti stradali, nonché all’ampliamente della competenza del giudice di pace), nulla autorizza a ritenere che il Governo abbia messo in atto una riforma organica ed effettiva del processo civile; anzi, in assenza di più ampi e incisivi interventi normativi pur richiesti per rendere efficiente il servizio giustizia nell’interesse dei cittadini, e a causa dell’operata riduzione di risorse destinate al settore giustizia, la riforma rischia di non corrispondere alle aspettative.Resta difatti, senza risposta da parte del Governo la necessità dell’u-nificazione e semplificazione dei riti processuali (ben 27) e che il governo porti presto alla discussione delle Camere i relativi decreti legislativi, di cui nulla al momento è dato sapere. La recente proposta del Governo alla manovra economica dell’estate 2010, opportunamente ritirata a seguito delle proteste dell’opposizio-ne e degli operatori della giurisdizione, di introduzione della figura del c.d. ausiliario, non solo finiva con essere in contrasto con i principi costituzionali a presidio dei principi fondanti della giurisdizione e dei diritti di difesa nel processo, ma non avrebbe consentito in alcun modo di pervenire a una effettiva e reale deflazione del contenzio-so. Diversamente l’istituzione di un ufficio del giudice (o ufficio del processo), quale stabile struttura di supporto al magistrato, cui resta affidato il compito istituzionale della decisione della causa, rappre-senta uno strumento strategico al fine della riduzione dell’arretrato e della funzionalità del sistema giudiziario.

Lo smaltimento dell’arretrato proposto dal GovernoTuttavia il Governo ha recentemente riprodotto lo schema dell’e-mendamento del luglio 2010, sia pure con sostanziali modifiche,

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con il disegno di legge AS 2512 (interventi in materia di efficienza del sistema civile), sia pure con alcune modifiche la normativa, con la previsione del ricorso a 600 giudici ausiliari (reclutati nella magi-stratura a riposo), senza introdurre l’istituto dell’ufficio del processo o affrontare la questione dell’abbattimento dell’arretrato con una pronta della magistratura onoraria. L’avvocatura osserva che con questo intervento estemporaneo non si risolveranno i problemi e si va verso una decisa rottamazione dei processi civili in danno delle aspettative dei cittadini in attesa di giustizia. Vari sono i dubbi di incostituzionalità in relazione agli articoli 3 (eguaglianza e ragione-volezza) e 24 (diritto di difesa): la previsione poi dell’onere della parte interessata all’impugnazione di dover richiedere, a proprie spese, la motivazione estesa per proporre impugnazione comporta una ingiustificata limitazione del diritto di difesa, come pure una sorta di obbligo di prelievo, pena l’estinzione del processo.

La media-conciliazioneTra le uniche disposizioni di legge promulgate dal Governo in adem-pimento della delega in materia civile vi sono quelle del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28 sulla conciliazione obbligatoria per controversie civili e commerciali del, che a partire dal marzo 2011. ha iniziato ad investire negli ambiti civilistici anche settori economicamente e socialmente cruciali, essendo stata rinviata l’ef-ficacia della legge per soli due materie. Si tratta di un intervento che presenta numerosi elementi di preoccupazione, che non nasce da una contrarietà allo strumento conciliativo in quanto tale, es-sendo positiva la diffusione di procedure extragiudiziali che diano al cittadino la possibilità di risolvere le controversie attraverso una metodologia consensuale. Non può, peraltro, non tenersi conto della distanza esistente tra la disciplina della media-conciliazione delineata dal D.lgs. 28/2010da quella concepita dalla legge 69 e dalle direttive europee., cosa che evidenzia approssimazione e di-stanza del Governo (autore della legislazione delegata) dai problemi concreti della Giustizia, che può compromettere le stesse finalità che il testo normativo si era proposto e far giustificatamene temere un ancor più difficoltoso accesso dei cittadini alla Giustizia.Si introduce, per un rilevante numero di materie, il tentativo conciliazione obbligatorio quale condizione di procedibilità della

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domanda giudiziale che, oltre ad aver superato la delega in materia conferita al Governo con la legge 69/2009, è facile previsione che sarà causa di un ulteriore aggravio di costi per il cittadino, con un inutile quanto dannoso rallentamento (agevolmente strumentaliz-zabile in sede processuale) del percorso di definizione delle con-troversie. La mancata previsione dell’obbligatorietà dell’assistenza tecnica di un avvocato è un tema complesso che non può essere ridotto a una mera questione d’interesse di categoria, poiché che nel tentativo di conciliazione sono in gioco diritti e interessi delle parti e l’accettazione di un accordo conciliativo comporta in genere rinunce o, comunque, l’alterazione delle situazioni giuridiche su cui si è fondata la controversia. Tali considerazioni sono speculari i con riferimento al mediatore, per il quale il regolamento ministeriale recentemente entrato in vigore ha fissato requisiti di qualificazione professionale assolutamente inadeguati. Tutto questo rende l’intero impianto normativo inidoneo sia a divenire valida alternativa al si-stema giudiziale pur lento e dissestato,anzi idoneo ad ulteriormente rallentarlo, sia a tutelare efficacemente le posizioni giuridiche sulle quali gli organismi di conciliazione saranno chiamati a operare “ob-bligatoriamente” dal marzo 2011. Ripetutamente l’opposizione ha posto il problema, di cui l’intera Commissione giustizia si è poi fatta carico nel parere espresso al Governo, che, peraltro, non ha inteso dare ascolto e neppure rinviare l’entrata in vigore della normativa. Comprendiamo che Il Ministro intende dimostrare nella prossima relazione al Parlamento di aver trovato il rimedio per ridurre dra-sticamente il contenzioso giudiziario civile in ingesso, anche se a danno dei cittadini e dell’efficienza della giustizia ordinaria.Peraltro il 12 aprile 2011 il TAR Lazio, in accoglimento del ri-corso presentato dall’avvocatura, ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale riavvisano aspetti di incostituzionalità del decreto legislativo sulla media-conciliazione, in relazione agli articoli 24 e 77 della Costituzione, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa (la conciliazione, prevista come obbligatoria, è condizione di procedibilità del successivo giudizio di impugnazione dinanzi al giudice ordinario e mancano garanzie di professionalità dei me-diatori) e della violazione della delega data con legge al Governo (per la previsione, non rispondente alla delega, di obbligatorietà dell’istituto). La normativa andrebbe prudentemente sospesa con

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decreto legge, per evitare un aggravio dei costi per i cittadini e la paralisi della giustizia civile e si dovrebbe approfittare del tempo della sospensione per apportare al decreto legislativo le opportune correzioni proposte al Senato dai parlamentari del partito demo-cratico e da un parlamentare di maggioranza (il disegno di legge è in discussione in commissione giustizia). Solo in questo modo si potrebbero evitare ulteriori effetti negativi sulla già grave situazione in cui versa l’amministrazione della giustizia civile e consentire che la media-conciliazione rappresenti non un mezzo di “liquidazione” dei conflitti, ma un tramite per il loro superamento.

Le controversie di lavoro Il rito del lavoro è gravato soprattutto nel Meridione da un conten-zioso, spesso anche seriale. In tal senso è particolarmente gravoso il numero delle cause previdenziali, che si riverbera negativamente sui complessivi tempi di definizione di tutte le controversie di lavoro. Al riguardo nulla è stato messo in campo dal Governo, mentre è pressante la esigenza di riforme che assicurino l’obiettivo di rendere ragionevole in tutto il territorio nazionale la durata del processo anche con interventi mirati, che consentano una definizione acce-lerata delle controversie socialmente più sensibili.Questa esigenza di celerità non può, peraltro, consentire che una riforma, coerente e compatibile con le trasformazioni del mercato del lavoro, sacrifichi con la semplificazione delle procedure per una deflazione del contenzioso, le istanze di tutela dei diritti dei lavoratori, così come è avvenuto con le misure, volute dal Governo e di recente approvate dalla maggioranza in Parlamento (il cd. Col-legato al lavoro) che prevede che le parti del contratto individuale di lavoro, datore e prestatore di lavoro, possano pattuire apposite clausole compromissorie, appena concluso il periodo di prova (o comunque decorsi trenta giorni dalla stipula del contratto mede-simo), per devolvere le controversie eventualmente insorgenti tra loro ad arbitri, aprendo la strada ad un arbitrato di equità, in tutto e per tutto alternativo al rimedio giurisdizionale, che non offre al lavoratore le stesse garanzie della sentenza pronunciata secondo diritto. Solo grazie all’intervento del Presidente della Repubblica di rinvio alle Camere del testo già approvato dal Parlamento sono state eliminate le distorsioni più vistose di questo meccanismo, ma

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la normativa si propone tuttora come un indebolimento delle tutele del lavoro.

L’informatizzazioneLa generalizzata riduzione delle risorse per la missione Giustizia ri-schia di rallentare l’informatizzazione dei procedimenti civili, penali, amministrativi e di prevenzione, necessaria per assicurare la qualità complessiva del “servizio giustizia”, come è imposto, peraltro, dalle crescenti esigenze di cooperazione internazionale. Assistiamo oggi, ad un anno dagli eclatanti annunci e dalle solenni affermazioni del Ministro sulla digitalizzazione del sistema giudiziario ad situazione decisamente preoccupante: il panorama nazionale è quello della dotazione di strumenti obsoleti, di assenza di programmazione e di scelte di spesa oculate e a lungo termine, dell’utilizzo di programmi e sistemi che spesso non colloquiano tra di loro, mentre è carente una politica di potenziamento, formazione e valorizzazione della professionalità del personale degli uffici giudiziari.Abbiamo denunciato in Parlamento la sconcertante sospensione del servizio di assistenza applicativa ai computer degli uffici giudiziari, che avrebbe potuto causare una paralisi degli uffici giudiziari e del sistema con conseguente chiusura dei tribunali e, dunque, il blocco dell’attività processuale. Il Governo ha ammesso che: «la paventata interruzione del servizio di assistenza applicativa agli uffici giudiziari non è una decisione dell’amministrazione, ma un effetto della man-cata copertura nell’anno 2011 dei contratti pluriennali, sottoscritti negli anni 2009 e 2010 per garantire l’assistenza applicativa agli uffici giudiziari» e ha provveduto a stanziare le risorse necessarie per risolvere il problema. Ovviamente il Ministro non ci ha spiegato da dove fossero stati prelevati i fondi necessari.La situazione determinatasi dovrebbe diventare l’occasione per un cambio di indirizzo, da parte del Ministro della Giustizia, almeno nel campo cruciale dell’applicazione delle nuove tecnologie alla giustizia: si faccia finalmente chiarezza sui fondi disponibili da parte del Ministero e sulle priorità adottate; ci si dia un obiettivo realistico e ambizioso come quello di attuare su tutto il territorio nazionale le notifiche telematiche obbligatorie nel settore civile; si abbandonino infine i proclami e gli annunci di grandi realizzazioni che non fanno altro che alimentare la confusione e di impedire una seria politica

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investimenti. In verità nel marzo 2011 il Ministro della Giustizia e il Ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione hanno presentato un piano straordinario per digitalizzazione, che dovreb-be consentire agli uffici giudiziari di compiere un salto di qualità omogeneo, superare disarmonie e differenti ripartizioni di risorse tecnologiche, consentire la digitalizzazione degli atti civili e penali, le notifiche ed i pagamenti telematici. Occorre subito osservare che l’importo stanziato, pari a cinquanta milioni, appare insufficiente a raggiungere tali obiettivi in 466 Uffici giudiziari penali e civili così articolati: 29 Corti di Appello (comprese le sezioni di Bolzano, Sassari e Taranto), 29 Procure Generali (comprese le sezioni di Bolzano, Sassari e Taranto), 165 Tribunali, 165 Procure presso i Tribunali, 26 Tribunali di Sorveglianza, 26 Tribunali per i Mino-renni e 26 Procure presso i Tribunali dei Minorenni.Ed occorre, inoltre, ricordare che il processo civile telematico non è ancora stato realizzato nella maggior parte degli uffici giudiziari e che, il gestore centrale del Processo Civile Telematico ha registrato numerosi episodi di malfunzionamento, con il rischio che si ripetano episodi analoghi alla chiusura del centro elettronico di documentazione presso la Cassazione con sospensione del servizio di ricerca dei precedenti giudiziari (Italgiureweb).Infine è opportuno sottolineare che continua a mancare una effet-tiva assistenza sistemistica ed applicativa negli uffici nel momento del passaggio da una giustizia cartacea ad una digitalizzata e che il materiale informatico (hardware) è insufficiente e non è adeguata per potenza ai nuovi “applicativi”.Il nuovo piano straordinario è stato preceduto dal “Protocollo di intesa per la realizzazione di programmi di innovazione digitale tra Ministero della Giustizia e Ministero per la Pubblica Ammini-strazione e per l’Innovazione stipulato il 26 novembre 2008 che prevedeva 5 linee di sviluppo: a) notifiche telematiche, da realizzarsi entro il giugno 2010; b) rilascio telematico di certificati giudiziari entro il 2010; c) trasmissione telematica notizie di reato, entro la fine del 2010; d) registrazione telematica atti giudiziari civili, entro giugno 2010; e) accesso pubblico via rete alle sentenze e ai dati dei procedimenti, entro primo semestre 2010. Ebbene la gran parte di questi obiettivi ritarda ad essere realizzato. Finalmente, a oltre un anno dalla convesione in legge del D.L. 193/2009, è stato emesso

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il decreto ministeriale 21 febbraio n. 44 (pubblicato nella Gazzetta ufficiale del 18 aprile 2001, che definisce le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, Il D.L. 193/2009 (conv. dalla L. 24/2010), che recepiva proposte dell’opposizione, con la finalità di rafforzare il processo di informatizzazione e di digitaliz-zazione, destinato ad investire gradualmente l’intero settore della giustizia, sia civile che penale. Una delle previsioni del decreto legge (e ora disciplinata dal regolamento attuativo) concerneva proprio l’estensione dal settore civile a quello penale dell’obbligo di utilizzo della Posta Elettronica Certificata (PEC) per tutte le comunicazioni e notificazioni. Inoltre altre finalità del citato decreto legge che hanno trovato attuazione nel regolamento pubblicato il 19 aprile 2011 erano: a) l’avvio del processo di notificazioni telematiche da parte degli uffi-ciali giudiziari anche degli atti resi in forma cartacea; b) la spinta verso l’impiego delle nuove tecnologie per il rilascio di copie di atti; c) la previsione dell’impiego di moderni strumenti di pagamento (es. carte di credito, bancomat, bonifico bancario) per assolvere telematicamente a tutte le spese del processo, alle pene pecuniarie e alle sanzioni amministrative.

Il carcereNel gennaio 2010 il Ministro della Giustizia aveva comunicato in Senato che per affrontare la drammatica situazione del nostro sistema carcerario il Consiglio dei Ministri aveva disposto la dichia-razione dello stato di emergenza per tutto il 2010 – a parere del Ministro – “strumento fondamentale” per provvedere ad interventi che avrebbero consentito di rispettare il precetto dell’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Ebbene non è bastata la dichiara-zione dello Stato di emergenza per impedire che lo stanziamento complessivo per il programma “Amministrazione penitenziaria” diminuisse nell’ultima manovra di bilancio di ben 77,4 milioni di euro. E sono state tagliate peraltro di circa 14 milioni di euro proprio le spese riguardanti il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti: attività che invece sarebbe necessario rafforzare e

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promuovere, non solo perché indispensabili a un’effettiva attuazione dell’articolo 27 della Costituzione, ma anche in quanto particolar-mente rilevanti ai fini della efficacia special-preventiva della pena e quindi della riduzione delle probabilità di recidiva.Non è bastata la dichiarazione dello stato di emergenza per colmare alcune gravi lacune normative che contribuiscono ad alimentare a livello internazionale il discredito e la diffidenza verso il nostro sistema carcerario e che dovrebbero rappresentare delle priorità se si volesse davvero rispettare il dettato dell’art. 27 Cost.: non è stata ancora data attuazione della sentenza n. 26 del 1999 della Corte Costituzionale sulla necessaria tutela giurisdizionale nei con-fronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale; non è stato ancora introdotto nel nostro ordinamento del crimine di tortura secondo quanto previsto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, né sono stati istituiti organismi indipendenti di controllo e monitoraggio di tutti i luoghi di privazione della libertà come imposto dal Protocollo opzionale alla stessa Convenzione Onu.Intanto nel 2010 la condizione di vita delle persone detenute e costrette a subire gli effetti di un sovraffollamento (per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per viola-zione dell’art. 3 CEDU) mai visto nella storia del nostro paese non è migliorata ed è sempre più intollerabile. Anche nell’ultimo anno si è registrato un numero significativo di morti in carcere. Ne sono certamente causa le condizioni di estremo degrado delle strutture e la assoluta carenza di percorsi rieducativi e di reinserimento so-ciale. E il problema del sovraffollamento e delle condizioni delle carceri non può certo trovare una risposta adeguata nelle politiche criminogene portate avanti finora da questo Governo con l’intro-duzione di norme punitive dello status di immigrato irregolare ed in materia di uso di sostanze stupefacenti, i cui risultati sono stati proprio – contrariamente a quanto dichiarato – il sovraffollamento delle carceri e l’assenza di ogni politica di prevenzione.Inoltre non si sono ancora viste le duemila assunzioni di nuovi agenti di polizia penitenziaria che avrebbero dovuto costituire il terzo pila-stro del piano annunciato nel gennaio scorso: l’articolo 4 della legge 26 novembre 2010, n. 199, che avrebbe dovuto permetterle, non ha ancora una copertura finanziaria e l’amministrazione non può

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ancora procedere alle assunzioni. È di questi giorni la clamorosa e drammatica protesta del personale femminile di polizia penitenziaria di Roma, con uno sciopero della fame e del sonno (pur garantendo i turni) teso a denunziare il sovraffollato del carcere e i carichi di lavoro insostenibili.Ancora, nessuna risposta è stata data dal Governo alla mancanza di figure essenziali come gli educatori e gli assistenti. Infine, riguardo agli interventi normativi posti in campo – il secondo pilastro del piano del Ministro – la legge sull’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori un anno come previsto, sta avendo effetti trascurabili sulla popolazione penitenziaria, mentre ancora non è stato varato dal Governo alcun provvedimento sulla messa alla prova delle persone imputabili per reati fino a tre anni e giacciono in Parlamento le proposte dell’opposizione.Analogamente nessuna seria risposta è stata data con la legge ap-provata nel marzo 2011 al terribile problema dei bambini reclusi incolpevolmente in carcere, figli di madri detenute per reati minori.

La possibile riforma della giustiziaUna riforma della giustizia nell’interesse dei cittadiniIl Paese ha bisogno di una giustizia diversa da quella attuale e da quella che il Governo va promuovendo: una giustizia con tempi e qualità migliore, che presti una tutela efficace ai diritti dei cittadini e sia capace di rispondere concretamente alle loro aspettative.Il tema della giustizia (e quindi della relativa riforma) può essere considerato sotto due aspetti: la giustizia come servizio (per i cit-tadini e non) e la giustizia come potere. Ovviamente, i due profili hanno reciproche implicazioni, ma non è indifferente l’ordine di priorità con cui si decide di affrontarne le relative questioni. Ebbe-ne, su questo punto è evidente la contrapposizione tra la linea del centrodestra e quella del centrosinistra: Governo e maggioranza si occupano (con riforme costituzionali e disegni di legge ordinaria) esclusivamente della giustizia come potere (per neutralizzarlo, di-sciplinarlo, assoggettarlo alla politica), agendo sul profilo relativo al “servizio giustizia” solo con norme ad personam, per sottrarre il Presidente del Consiglio ai suoi processi, con norme che, tuttavia, hanno effetti devastanti sull’intero sistema penale (si pensi alla prescrizione breve; al c.d. processo lungo e quindi al divieto per il

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giudice di ridurre le liste testi e all’irrilevanza di sentenze definitive per provare fatti in altri processi; al disegno di legge intercettazioni)Di contro, il centrosinistra (e non da oggi) incentra le sue proposte sull’esigenza di migliorare la giustizia come servizio per i cittadini, attraverso interventi strutturali e organici, relativi tanto alla “macchi-na giudiziaria” (si pensi alla legge Mastella, n. 111/2007, di riforma dell’ordinamento giudiziario, volta a migliorare la professionalità, la meritocrazia, la responsabilizzazione dei magistrati) quanto alle norme di carattere processuale e sostanziale (si pensi ai vari ddl presentati in questa legislatura: dal ddl sull’ufficio del processo alla proposta di riforma del processo civile; dal ddl sull’accelerazione del processo penale al testo unico delle norme antimafia, per migliorare l’efficienza di questo settore della giustizia penale).Data questa radicale diversità di prospettive tra centrodestra e centrosinistra, è opportuno chiarire quali siano le esigenze primarie che una riforma della giustizia dovrebbe oggi soddisfare.È innanzitutto importante premettere che il problema principale della giustizia attiene all’efficienza. È quindi evidente che la strada maestra per una riforma della giustizia che voglia davvero essere se non risolutiva quantomeno utile ai cittadini non può prescinde-re dall’attribuzione di maggiori risorse (materiali e umane) a un settore così cruciale per il Paese, cui dall’inizio della legislatura è stato destinato soltanto l’1,6% circa delle risorse complessive del bilancio dello Stato e che, dal d.l. 112/2008 in avanti sono state ulteriormente, progressivamente ridotte. Ferma dunque la necessità di maggiori stanziamenti per il settore della giustizia, va chiarito che nel dibattito attuale sulla riforma della giustizia si stanno sovrapponendo e quindi confondendo due questioni molto diverse: quella che. riguarda e la magistratura come “ordine” (più che potere) dello Stato e attiene quindi alla struttura ordinamentale (e in particolare costituzionale) dell’ordine giudizia-rio, alla sua sfera di attribuzione, alle sue garanzie di indipendenza e autonomia, nonché ai rapporti con gli altri poteri dello Stato e l’altra che attiene alla operatività del sistema giudiziario e riguarda il servizio quotidianamente offerto dai tribunali ai cittadini, in termini di tutela giurisdizionale dei diritti. Con il quaderno vogliamo parlare di questa riforma, quella che riguarda l’efficienza della giustizia e i cittadini, rifiutandoci ferma-

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mente di alimentare confusione tra i piani dell’efficienza, dei tempi e della qualità del servizio e il piano del cosiddetto “riequilibrio” tra i poteri, che, come oggi è proposto dal Governo, ha il solo scopo di ridimensionare la giurisdizione, senza restituire rapidità ed efficacia alla giustizia. Vogliamo evitare di farci trascinare nell’ambiguità dell’attuale dibattito politico, che sovrappone ad arte due piani che hanno scarsa attinenza, quello della riforma della giustizia e quello della riforma dei giudici. E per questo indichiamo da un serio piano di riforme, prendendo come riferimento l’interesse di tutti i cittadini e non di pochi privilegiatiDesideriamo offrire al dibattito la nostra esperienza di giuristi (par-lamentari, avvocati e magistrati) abituati a interrogarsi e confrontasi sulle ragioni del disservizio e sulle prospettive di miglioramento della giustizia, partendo dal presupposto ineludibile che solo un disegno complessivo, espressione di un progetto organico di interventi sul piano normativo e dell’organizzazione, è in grado di favorire quel cambiamento di cui si avverte la necessità.Se si vuole davvero modernizzare la giustizia è possibile: riorga-nizzazione degli uffici giudiziari anche sul territorio, passaggio al processo telematico, semplificazione dei riti e adeguamento del processo alle nuove modalità informatizzate, deflazione della do-manda di giustizia (diritto penale minimo e procedure conciliative), un piano di investimenti finalizzato alla realizzazione di progetti nazionali e locali, assunzioni, qualificazione e riqualificazione di personale specializzato, un ruolo chiaro della magistratura onoraria. Un piano di reale innovazione, in larga parte già scritto, che punta sulla trasparenza, sui tempi, sulla qualità, su politiche di accesso dei cittadini Seguendo questa strada i risultati sono sicuri con benefici in trasparenza, tempi e qualità. Partiamo, quindi, dalla realtà delle giustizia italiana, che è in larga parte diversa da come viene descritta e fatta percepire.La fotografia del reale i basa sui seguenti punti:

l la giustizia italiana soffre di una espansione del contenzioso civile e di un eccesso di intervento penale, che passa attraverso una mancata depenalizzazione, l’aumento ingiustificato di reati privi di quella offensività, che impone come unica risposta la sanzio-ne penale ed esige il conseguente costo del processo. Inoltre caratteristica deteriore di un nuovo diritto penale in espansione

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è che talvolta non sono sanzionate le condotte, ma le condizioni personali dell’autore del fatto. Tutto questo è sconosciuto agli altri Paesi europei e rende difficili i rapporti tra gli ordinamenti;

l attualmente la produttività di magistrati italiani è molto elevata (rapporto CEPEJ) e consente al sistema giustizia di affrontare e definire una quota di procedimenti pari o di poco inferiore a quelli sopravvenuti (dai dati forniti dal Presidente ella Cassazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2011), con l’handicap, peraltro, di un consistente arretrato, soprattutto nel settore civile;

l la cd. revisione delle circoscrizioni giudiziarie, ossia la distribu-zione territoriale e le dimensioni dei singoli uffici giudiziari sono ispirate a logiche risalenti nel tempo, estranee alle prospettive di razionalità ed efficienza della giustizia e alla ottimizzazione delle (attualmente inadeguate) risorse umane, strumentali ed economi-che e la riorganizzazione degli uffici, rafforzata dall’innovazione tecnologica, consente ampi margini di miglioramento gestionale e lavorativo, secondo progetti già sperimentati con successo e con buoni risultati diversi uffici giudiziari.

l la semplificazione del processo civile e di quello penale richiedo-no la eliminazione di appesantimenti, di tempi morti, di garanzie formali e di mezzi che consentano il ricorso a tecniche dilatorie; parallelamente vanno saldamente mantenute e difese le garanzie effettive per le parti del processo;

l il continuo taglio delle risorse di regola orizzontali e senza che trasparenti scelte di priorità, la mancanza di finanziamento di progetti innovativi rappresenta, insieme a mancati interventi mirati sul piano dell’organizzazione, causa di continue difficoltà e criticità.

Gli interventi deflattivi possibili L’Italia registra una incidenza non paragonabile a nessun altro Paese di Europa per quanto concerne la criminalità organizzata. Sul punto l’indagine CEPEJ del 2008 mette in luce che nel 2006 in Italia sono sopravvenuti 1.230.085 casi a fronte dei 609.564 della Francia, gli 854.099 della Germania ed i 437.000 della Russia. E occorre ricordare che ciascun caso italiano è partico-larmente complesso se è espressione di una realtà associativa, da cui discende un elevato numero di indagati ed imputati e di reati

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fine o strumentali alla vita ed operatività dell’associazione. Inoltre secondo l’indagine CEPEJ 2008 l’Italia ha anche un contenzioso civile superiore a tutti i Paesi europei paragonabili per sistemi e dimensioni: 4809 cause civili ogni 100.000 abitanti contro le 1342 della Germania, le 2672 della Francia e le 2673 della Spagna. Pertanto una prima risposta razionale è la limitazione dell’intervento penale al minimo necessario e la riduzione del contenzioso con il ricorso ad una pluralità forme di tutela civile, ma senza alcuna limi-tazione dei diritti dei singoli, sia pure attraverso la selezione della domanda con l’aumento dei costi. Quindi, per quanto concerne il sistema penale, occorre depenalizzare i reati privi di offensività a terzi, introdurre l’istituto del non luogo a procedere per irrilevanza penale del fatto, prevedere sanzioni differenziate in ragione della gravità del reato, secondo i principi di sussidiarietà, offensività, colpevolezza, in modo da evitare quella ipertrofia del diritto penale, che produce impunità per i fatti più gravi, seguendo le proposte legislative dal partito democratico, di cui non v’è traccia alcuna nei provvedimenti presentati da Governo e dalla maggioranza che, da un lato lamentano la scarsa effettività della pena, e dall’altro criminalizzano fatti bagatellari o status soggettivi (es. immigrazione irregolare), legittimando la logica illiberale della colpa d’autore o per la condotta di vita. È necessario, soprattutto, ridurre l’ipertrofia delle norme penali procedendo ad una riforma del codice penale che limiti l’area di intervento penale in favore di forme alternative, più efficaci anche sotto l’aspetto sanzionatorio, abbandonando, quindi, la tendenza ad intervenire solo attraverso l’incremento dei fatti reato.Nel settore civile, inoltre, appaiono da evitare le prospettiva dell’ob-bligatorietà di tentativi di conciliazione pregiudiziali, contenuti anche nel recente Decreto Legislativo 4 marzo 2010 n. 28, ha già dimostrato la sua scarsa efficacia nel settore del lavoro, dove l’istituto è sostanzialmente fallito. Sembra, inoltre, più utile esplorare a possibilità di creare dei filtri a livello amministrativo adottando procedure specifiche per alcune tipologie di contenzioso di alta incidenza quantitativa, individuando soluzioni in sede amministrativa, o di stampo conciliativo, celeri e passibili di opposizione. Basti considerare che oggi i ricorsi contro le sanzioni amministrative rappresentano oltre il 40% del contenzioso

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del giudice di pace, i procedimenti per equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo più del 20% dei procedimenti pervenuti avanti alle Corti di Appello, i procedimenti in materia previdenziale demandati a consulenze tecniche di natura medica oltre il 25% del contenzioso civile di un Tribunale. Il Presidente della Cassazione, riferendosi specificamente al con-tenzioso per i giudizi di equa riparazione ha evidenziato che i una logica deflativa sarebbe auspicabile un maggior apporto collabo-rativo da parte dell’Amministrazione, sia in termini di spontaneo adempimento dell’obbligo d’indennizzo, che di ricerca di accordi transattivi, tenuto conto degli ormai consolidati indirizzi giurispru-denziali della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione formatisi in materia, che consentono di formulare ragio-nevoli previsioni sulla sorte dei giudizi di equa riparazione via via intrapresi. E ha aggiunto “si può pensare alla introduzione di una condizione di procedibilità, quale potrebbe essere una previa richie-sta di liquidazione dell’indennizzo a una pubblica amministrazione statale articolata sul territorio, assistita da un parere dell’avvocatura dello Stato; in via alternativa si potrebbe prevedere la possibilità di proporre la domanda d’indennizzo con ricorso per decreto ingiuntivo: l’emersione nella giurisprudenza della Cassazione di stabilizzati criteri di liquidazione dell’indennizzo, che essa applica pronunziando anche nel merito, consentirebbe analoga applicazione in sede di procedimento di ingiunzione”.Non è quindi dubitabile che l’abbattimento di questo un contenzioso seriale come i ricorsi contro le sanzioni amministrative, le cause previdenziali Inps, il contenzioso per l’equa riparazione, costituisca un obbiettivo facilmente a portata, capace di provocare un imme-diato sollievo sull’operatività del sistema.

L’arretrato e la costituzione dell’ufficio per il processoIl problema più grave degli uffici giudiziari, sia nel settore civile sia in quello penale, è costituito dal carico dell’arretrato, tenuto conto che la maggioranza degli uffici giudiziari è in grado di affrontare e definire le mere sopravvenienze in tempi ragionevoli, anche in ragione di programmi virtuosi di organizzazione Si impone, pertanto, una elaborazione di specifiche misure per lo smaltimento dell’ar-

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retrato che superi la non positiva esperienza delle sezioni stralcio, e che, quindi, a differenza del passato si pongano nell’ottica della complessiva riorganizzazione degli uffici giudiziari. È pertanto indispensabile e urgente la riforma che introduca nel sistema l’Uf-ficio per il processo, concepito come una unità operativa in grado di svolgere compiti necessari ad assicurare la piena assistenza al magistrato nell’attività giurisdizionale, seguendo obbiettivi di inno-vazione e di semplificazione. A questa unità, l’Ufficio per il processo, possono essere attribuite l’attività di ricerca dottrinale e giurisprudenziale, le relazioni con le parti ed il pubblico, il monitoraggio e l’organizzazione dei processi sopravvenuti, la formazione e la tenuta di un archivio informatiz-zato dei provvedimenti emessi: oltre ai magistrati e al personale giudiziario, potrebbero essere coinvolti giudici onorari, ricercatori universitari, giovani avvocati. Nella riforma della magistratura onoraria un impegno più esteso di quello ora previsto non deve, peraltro, prescindere da quello di rispettare i vincoli temporali assunti e della costante e successiva verifica dei risultati.

Revisione delle circoscrizioni giudiziarieL’efficienza del sistema giudiziario presuppone necessariamente un’efficace distribuzione sul territorio nazionale degli uffici giudiziari e l’adeguatezza della loro struttura dimensionale. Per questo la revi-sione della geografia giudiziaria da un lato e delle dimensioni degli uffici giudiziari dall’altro, rappresenta una priorità da perseguire prevedendo l’individuazione di una rete omogenea di tribunali ordi-nari secondo criteri obbiettivi di prossimità di tipo socioeconomico e territoriale, con particolare attenzione alle zone di forte criminalità organizzata, a quelle con intensa densità abitativa e ove vi sia una rilevante domanda di giustizia, nonché ulteriori criteri che devono essere individuati dopo un adeguato confronto con i territori; allo stesso tempo si dovrà procedere verso l’incremento delle risorse strumentali e umane, attualmente del tutto insufficienti e spropor-zionate rispetto ai carichi di lavoro degli uffici, e verso la completa ed effettiva informatizzazione (e telematizzazione) del procedimento. Anche dopo la semplificazione della geografia giudiziaria avutasi con la riforma del Giudice Unico in Italia operano 165 Tribunali e corrispondenti Procure della Repubblica (oltre a quello previsto

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dall’art. 2 D.Leg. 3 marzo 1999 n. 491, ma mai effettivamente istituito, in Giugliano), 26 Corti di Appello e Procure generali, 3 sezioni distaccate di Corte di Appello (Bolzano, Sassari e Taranto), 29 Tribunali dei minorenni e relative Procure e Uffici di sorve-glianza. A tanto si aggiungono 221 sezioni distaccate di Tribunale e 845 sedi dell’Ufficio dei giudici di pace. Ben 64 Tribunali (di cui 40 in località non capoluogo di provincia) hanno un organico inferiore ai 15 giudici.Un recente studio dell’Associazione nazionale magistrati, evidenzia che dall’Unità d’Italia ad oggi nessun tribunale è stato soppresso e anzi ne sono stati istituiti altri fino alla fine degli anni ’90. Da un punto di vista operativo, venti magistrati, tra Procura e Tribunale, sono generalmente considerati il minimo necessario per assicurare il buon funzionamento di un ufficio giudiziario; ma allo stato 59 tribunali hanno un organico inferiore a venti unità e 15 addirittura inferiore a dieci. L’attuale distribuzione degli uffici giudiziari e degli organici e’del tutto irrazionale i carichi di lavoro in molti casi non giustificano la presenza di un presidio giudiziario, e ciononostante comportano un costo amministrativo e di gestione ingiustificato, impedendo, tra l’altro, un’adeguata specializzazione degli addetti. Gli interventi per razionalizzare, anche con gradualità, il reticolo giudiziario sono ormai indilazionabili. Chiaramente si tratta di una scelta che, comportando anche costi sociali, va condotta con equilibrio: ma è una scelta ormai impro-crastinabile, specie in tempi di risorse scarse e in continuo calo come quelli che viviamo. I benefici ricavabili in termini di risparmi netti, di economie di scala, di diffusione della specializzazione, di migliore qualità e di riduzione dei tempi del processo sono di grande rilevanza. E un eventuale aggravio per i cittadini potrebbe essere affrontato e contenuto consentendo l’accesso on line relativamente al settore delle certificazioni e della volontaria giurisdizione, con la contemporanea diffusione in un fitto reticolo territoriale di spor-telli della giustizia, come ipotizzato nei disegni di legge prposti dal partito democratico. Il Consiglio superiore della magistratura, ricordando le ripetute prese di posizione assunte negli ultimi vent’anni sull’inadeguatezza dell’attuale geografia giudiziaria rispetto ai criteri di efficienza del

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sistema giudiziario, nella seduta del 13 gennaio 2010 ha adottato una risoluzione concernente la revisione delle circoscrizioni giu-diziarie, segnalando al Ministro della giustizia “nell’ottica di una leale collaborazione istituzionale, […] l’assoluta e imprescindibile necessità di attivare una proposta legislativa diretta a rivedere le circoscrizioni giudiziarie. La riorganizzazione delle circoscrizioni giudiziarie costituisce, infatti, a parere del C.S.M., lo strumento inde-fettibile per realizzare un sistema moderno ed efficiente di amministrazione della giu-risdizione, che sia in grado di fornire la dovuta risposta di merito alle istanze di giu-stizia, nel rispetto di tempi ragionevoli di durata del processo, nella consapevolezza che il ritardo nel giungere alla decisione si risolve in un diniego di giustizia”.Il Presidente della Corte di Cassazione ha indicato nella revisione delle circoscrizioni giudiziarie un punto qualificante di un piano strategico della giustizia, peraltro condiviso da avvocati, magistrati e personale amministrativo.

Le modifiche processualiGli interventi sul processo, utili e spesso assolutamente necessari, devono però rispondere a tre condizioni: avere carattere (spesso ignorato da recenti riforme) della organicità e della sistematicità; rispondere ad esigenze generali e non rappresentare la “soluzione” alle personali vicende di un imputato o di una parte processuale; rispondere ad un’attenta valutazione di impatto delle nuove norme sul sistema, per evitare possibili conseguenze negative, che, nel corso di questa legislatura, spesso non vengono calcolate e tenute in debito conto. Gli obbiettivi di semplificazione e razionalizzazione non devono ovviamente compromettere (ed è possibile) fondamentali irrinun-ciabili principi costituzionali quali il diritto di difesa, l’obbligatorietà dell’azione penale, la dipendenza della Polizia Giudiziaria dal P.M., la ragionevole durata del processo, tutti garanzia fondamentale dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Le modifiche vanno perseguite con interventi semplici, che possono apportare notevoli vantaggi, senza stravolgere il sistema, ma garantendo l’effettivo diritto alla difesa e l’assunzione e valutazione della prova, nell’ir-rinunciabile pienezza del contraddittorio e nella effettiva parità

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tra le parti, senza, peraltro, irragionevolmente e pericolosamente alterare i rapporti tra parte pubblica (lo Stato) e privata (l’imputato) in favore di quest’ultima.Nel processo penale, i punti prioritari di intervento per il processo penale dovrebbero essere: a) Il sistema di individuazione di criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penaleIl principio di obbligatorietà dell’azione penale costituisce il primo presidio per l’effettività dei valori di legalità e di uguaglianza, e dunque va mantenuto e difeso. Le modalità di concretizzazione di questo principio rendono poco leggibili le scelte, inevitabilmente discrezionali, degli uffici del pubblico ministero in ordine ai tempi di esercizio dell’azione. Questo impone, proprio per rafforzare e rendere reale il principio di obbligatorietà, di coniugarlo con i principi di trasparenza e partecipazione. b) Il sistema delle notifiche Si tratta di uno dei motivi più frequenti di rinvio dei processi, so-prattutto quelli a carico di più persone e nel contempo,all’attuale sistema di notifiche non assicura la reale conoscenza della citazione. La proposta, avanzata in Senato dal partito democratico di assicu-rare all’imputato una prima notifica “reale” a mani della persona interessata, con la possibilità di effettuare le successive presso il difensore, può essere collegata alla innovazione, sempre proposta dall’opposizione, e recepita nel recente decreto legge relativo alla digitalizzazione, per cui le notifiche successive possono ritenersi compiute con l’invio a indirizzi di posta elettronica certificata. Il recente decreto ministeriale di attuazione del citato decreto legge lascia sperare che questa innovazione possa trovare finalmente applicazione, con grandi benefici per i tempi dei processic) Processo a imputati contumaci e irreperibiliAlmeno una percentuale tra il 10 ed il 20 % dei processi si svolge a carico di persone irreperibili, di cui una parte neppure a cono-scenza dello svolgimento del processo, soprattutto se si tratta di cittadini stranieri, che hanno fornito più generalità. Considerando che l’Italia è stata più volte condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per i vizi del processo contumaciale e che molti di questi processi a carico di imputati “fantasmi”, dovranno essere ripetuti (per violazione del diritto di difesa) o comunque rimarranno

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sulla carta con un enorme (e inutile) dispendio di energie, l’ipotesi di sospendere il processo, una volta accertata l’irreperibilità di fatto del soggetto, corrisponderebbe non solo a razionalità ma assicurerebbe effetti deflativi e ridurrebbe i costi in termini di risorse umane ed economiche (il processo impegna magistrati, cancellieri, personale amministrativo, ufficiali giudiziari, forze di polizia e comporta spese ulteriori spese collegate alla difesa d’ufficio e al gratuito patrocinio). Per evitare danni all’acquisizione delle prove e alle parti offese, si potrebbe, peraltro, prevedere che il processo si svolga solo per consentire al Giudice di assumere le prove non rinviabili.d) Impugnazioni e prescrizioneL’attuale sistema di impugnazioni alimenta la durata del processo ed aiuta il decorso dei tempi di prescrizione. Si può fondatamen-te affermare che almeno il 25 % delle sentenze di primo grado viene impugnato e che viene proposto ricorso in Cassazione per la maggioranza delle sentenze penali di condanna confermate in appello. Questa situazione è anche la conseguenza di termini prescrizionali brevi, introdotti dalla legge Cirielli nel 2005, quali quelli fissati, soprattutto per determinate fasce di reati (a esempio corruzione, abuso d’ufficio, criminalità economica, frodi fiscali, omicidi colposi, reati contravvenzionali) che incentivano la scel-ta difensiva di presentare impugnazioni. E se verrà abbreviato ulteriormente il tempo di prescrizione per i reati commessi dagli incensurati, è prevedibile che le impugnazioni aumenteranno, la macchina della giustizia si ingolferà ulteriormente e i tempi dei processi saranno più lunghi.Occorre, quindi, compiere scelte non episodiche, ma sistemati-che, ossia di impianto generale. Occorre interrogarsi se il nostro processo non presenti difetti sistemici rispetto a quanto previsto dalle legislazioni di altri paesi: un appello con cognizione piena per i processi svoltisi in pubblico dibattimento, in cui la prova si è formata secondo i principi dell’oralità e del contraddittorio, una possibilità di ricorso in cassazione talmente ampia da aver c richiesto ai magistrati della Suprema Corte una produttività ab-norme anche a danno della funzione di nomofilachia. Per questo occorre rivedere e organicamente il sistema delle impugnazioni e quello della prescrizione. A esempio si può pensare alla riforma dell’appello secondo quanto oggi realizzato soltanto dal ricorso per

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cassazione che è articolato secondo un catalogo, predeterminato normativamente. Si potrebbe dar vita ad un sistema che produca un effetto di deflazione delle impugnazioni inutili o pretestuose, cercando al contempo di restituire la pienezza del ruolo di alla Corte di cassazione. Parallelamente andrebbe radicalmente modificata la materia della prescrizione del reato, per eliminare i a i vizi della legge Cirielli: la prescrizione, come giustamente osserva l’avvocatura, non trova più la sua corretta giustificazione nel trascorrere del tempo, ma lega sempre di più il giudizio e la pena al profilo del reo, dividen-do il mondo fra i buoni (gli incensurati) e i cattivi (i recidivi). E questo oggettivamente appare inaccettabile e poco aderante anche a principi di eguaglianza e ragionevolezza. Al riguardo sono state presentate specifiche proposte normative dal partito democratico, che attendono invano il vaglio parlamentare e che, anzi, sono state respinte come emendamenti al cd. processo breve.Inoltre si potrebbe ipotizzare la sospensione della prescrizione in caso di sentenza di condanna di primo grado eIn relazione alla giustizia civile, che versa nella oggettiva impossibilità di far fronte all’imponente numero di procedimenti che sopravvengono annual-mente con le attuali dotazioni di personale e di risorse materiali, va posto come punto fermo che, essendo elevata la produttività dei giudici non si può insistere ulteriormente su questo terreno se non a scapito della qualità della giurisdizione.Inoltre interventi legislativi frammentari e disorganici che operino esclusivamente sul piano delle modifiche processuali non servono a risolvere i problemi della giustizia civile in mancanza di interventi sul piano organizzativo, dei mezzi e delle strutture.Il problema delle procedure va, quindi, affrontato sotto il profilo della semplificazione, procedendo innanzitutto alla unificazione dei diversi riti vigenti (almeno 27). La frammentarietà ed episodicità degli interventi di riforma inter-venuti nei vari settori, secondo le diverse emergenze, ha deter-minato una situazione insostenibile che costringe il giudice e gli avvocati a continui “cambi di passo” a seconda della materia che il giudice è chiamato a trattare e che le parti devono introdurre. Il contrario cioè di un sistema moderno ed efficiente. Inoltre, come si è già accennato, occorre mettere la giustizia del lavoro

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in condizione di funzionare uniformante sull’intero territorio, con la celerità che la protezione degli interessi coinvolti, soprattutto in questi tempi di crisi economica, richiede, abbandonando la linea del Collegato al lavoro, che spingono a spostare la tutela del lavoro al di fuori della sede giurisdizionale.

Risorse e progettiLe quantità di risorse programmate e impiegate per la giustizia è insufficiente ed in costante diminuzione, in ragione dei continui tagli orizzontali, generalizzati ai vari capitoli di bilancio, abbando-nando irragionevolmente scelte di priorità e non occupandosi di porre rimedio ad una cattiva qualità della spesa. In questo conteso è particolarmente grave è il costante depauperamento di risorse dedicate all’innovazione, in particolare quelli di investimento ed assistenza per l’informatica giudiziaria. Quindi da una parte si potrebbero evitare sprechi con un complesso organico di interventi (la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, l’abolizione del compenso per i concessionari in materia di intercet-tazioni telefoniche ovvero la stipula di un contratto nazionale unico per il noleggio degli apparecchi per le intercettazioni telefoniche, le notifiche in via telematica, la non celebrazione di processi inutili a carico degli irreperibili, dall’altra occorrerebbe razionalizzare, migliorare e rendere trasparente il recupero delle spese processuali, della condanne a pena pecuniaria, dei beni confiscati. Il progetto di istituzione di un Fondo Unico Giustizia era del tutto condivisibile e anzi in Parlamento è stata proprio l’opposizione a caldeggiarlo per evitare che “la ricchezza” prodotta dalla giustizia finisse nel bilancio del Ministero dell’economia, ma, come si è detto, il modo con cui è stata condotta la sua realizzazione (il personale giudiziario lamenta di esserne stato escluso) e l’assenza di trasparen-za non hanno consentito perfino di conoscere l’entità delle risorse disponibili, che dovrebbero essere ingenti e tali da consentire tutti i progetti di innovazione necessari per l’efficienza della giustizia. Occorre anche ricordare che non è stato organizzato, reso noto e agevolato, attraverso la creazione di uffici specifici di ausilio e contributo alla gestione, la possibilità di accesso agli ingenti fondi comunitari che, nelle Regioni che partecipano al c.d. Obiettivo Convergenza, potrebbero finanziare progetti specifici.

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Organizzazione e nuove tecnologieIl terreno della riorganizzazione degli uffici si è rivelato sempre vin-cente. La migliore dimostrazione deriva dalle concrete realizzazioni portate a segno in alcuni uffici giudiziari e condivisi. Il progetto che dal 2007 ha lanciato il Ministero della Giustizia e il Ministero per la Pubblica Amministrazione e per l’Innovazione finanziato dal Fondo Sociale Europeo “Diffusione di best practi-ces negli uffici giudiziari italiani”, ormai in corso in oltre 80 uffici giudiziari, è l’unico tentativo nazionale sinora emerso. Occorre invece un costante programma di lavoro da parte del Mi-nistero della Giustizia, del Consiglio Superiore della Magistratura e degli Uffici giudiziari, per render possibile che le migliori espe-rienze cessino di essere eccellenze conosciute solo a pochi addetti ai lavori e concorrano ad un complessivo miglioramento gestionale.

Le innovazioni ordinamentaliL’efficienza del sistema deve essere inoltre garantita da innovazioni ordinamentali, che assicurino la massima professionalità della ma-gistratura e dell’avvocatura e delle altre componenti che operano nel sistema giustizia. Per quanto riguarda la magistratura la legge n. 111 del 2007 ha già garantito un ampio rinnovamento dell’istituzione giudiziaria, attraverso la responsabilizzazione, la progressiva e costante for-mazione dei magistrati, le periodiche valutazioni di professionalità, la temporaneità degli incarichi direttivi, la netta distinzione delle funzioni, la maggiore efficienza dei procedimenti disciplinari ed una migliore organizzazione delle Procure, così da migliorare professio-nalità e competenza dei magistrati preservandone l’indipendenza esterna e interna.Questi aspetti della riforma richiedono un monitoraggio della sua attuazione e una complessiva valutazione dei risultati, con conse-guenti interventi di rafforzamento che assicurino, inoltre, l’effettiva copertura degli organici dei magistrati, oggi assai a rischio, soprat-tutto nelle sedi disagiate. Altre parti della legge n. 111 del 2007 richiedono, peraltro, con urgenza, una piena attuazione. Tra queste in particolare va realizzata l’effettiva organizzazione ed operatività della Scuola superiore della magistratura, che nel sistema attua-le rappresenta un istituto fondamentale ai fini della formazione

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costante e dell’innalzamento dello standard professionale e della preparazione dei magistrati.Per quanto riguarda l’avvocatura occorre una riforma adeguata ai tempi, che ne valorizzi il ruolo di compartecipe della giurisdizione e ne esalti gli aspetti di professionalità e competenza. La riforma della professione forense è un tassello della più complessiva riforma della giustizia, da realizzare declinando la funzione costituzionale dell’av-vocato dentro il nuovo contesto comunitario. Proprio per questo la riforma dell’ordinamento forense, approvata dalla maggiorana al Senato, si è tradotta in un’occasione persa per migliorare e moder-nizzare una professione che ha tanta rilevanza per la giurisdizione e la vita pubblica italiana. Un’occasione persa perché la professione forense merita e necessita di misure finalizzate a una svolta innova-tiva, misure che permettano ai più meritevoli, soprattutto ai giovani – e non solo coloro che partano da situazioni di vantaggio economico e sociale – di farsi strada, misure che incentivino la capacità e la competitività, favorendo formazione continua dei professionisti per la salvaguardia della loro dignità e soprattutto della pienezza della giurisdizione e dell’interesse dei cittadini.

Cambiare la giustizia si puòCambiare la giustizia in Italia è possibile. Se si ha la volontà politica nel giro di qualche anno si può consentire al sistema giustizia di funzionare meglio,di rispondere alle aspettative delle imprese e ai bisogni di tutti i cittadini.Questo quaderno vuole essere un contributo di conoscenze per tutti e dimostrazione di una capacità progettuale utile al paese. E con questo spirito lo licenziamo.