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1 RICERCA CE.MI.S.S. PROT. NR. 180/917/CS/B2/Z DEL 26 MAGGIO 2006 LA POLITICA ESTERA E DI DIFESA DELLA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN NICOLA PEDDE

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RICERCA CE.MI.S.S.

PROT. NR. 180/917/CS/B2/Z DEL 26 MAGGIO 2006

LA POLITICA ESTERA E DI DIFESA DELLA

REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN

NICOLA PEDDE

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INDICE CAPTITOLO PRIMO Profilo Storico

1. Dalla monarchia alla monarchia assoluta, attraverso Mossadeq, p. 4 2. La rivoluzione del 1978/79: comunisti, marxisti e religiosi alla conquista del potere, p. 6 3. Il khomeinismo, la guerra con l’Iraq e la nascita dello Stato islamico, p. 6 4. La crisi della Repubblica Islamica e la parabola del riformismo, p. 7 5. Il fallimento del riformismo di Khatami, p. 8 6. L’11 settembre e l’Asse del Male, p. 9 7. L’ascesa di Ahmadinejad, p. 10

CAPITOLO SECONDO Profilo socio-economico e sviluppo del programma nucleare

1. Evoluzione politica ed economica dal 1998, p. 18 2. La società iraniana, tra religione e Stato, p. 20

2.1 Gruppi etnici e distribuzione sul territorio, p. 20 2.2 Religione e società, p. 21 2.3 Popolazione urbana e rurale nel moderno Iran, p. 21

3. Il programma nucleare: quarant’anni di incertezza, tra politica energetica e strategica, p. 24 3.1 Lo sviluppo del nucleare in Iran dallo Scià alla rivoluzione, p. 25 3.2 Dalla rivoluzione alla presidenza Khatami, p. 27 3.3 La politica nucleare dell’Iran e la valutazione da parte degli Stati Uniti e degli attori

regionali, p. 29 3.4 Il contesto del problema nucleare e della retorica anti-israeliana, p. 30

4. L’evoluzione della politica di sviluppo nucleare in Iran, p. 33 4.1 La posizione degli Stati Uniti e gestione della “non agenda”, p. 32 4.2 L’acquisizione delle informazioni sul progetto nucleare dell’Iran, p. 34 4.3 Conclusioni, p. 36

5. La £crisi” iraniana dell’ottobre del 2005: antisionismo od antisemitismo?, p. 37 5.1 Le reazioni internazionali ed il tentativo di rettifica da parte dell’Iran, p. 37 5.2 La conferenza sull’Olocausto e la dinamica delle affermazioni di Ahmadinejad, p. 38

CAPITOLO TERZO La struttura del potere nella Repubblica Islamica dell’Iran

1. L’imamato ed il velayat, p. 40 2. L’Ayatollah Ruhollah Musavi Khomeini e la qualifica di imam, p. 42 3. Velayat e velayat-e faqih, p. 43 4. Tra Stato e religione nell’odierno Iran, p. 43 5. La Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, p. 44

5.1 Preambolo alla Costituzione, p. 45 5.2 L’epopea della rivoluzione nella Costituzione del 1979, p. 46 5.3 L’essenza del potere ed il ruolo della politica, p. 46

6. Architettura istituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran, p. 48 6.1 L’Assemblea Consultiva Islamica, p. 48

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6.2 Il Consiglio dei Guardiani, p. 50 6.3 La Guida, p. 50 6.4 Il Presidente della Repubblica, p. 52 6.5 L’Assemblea degli Esperti, p. 54 6.6 Il Consiglio del Discernimento, p. 54 6.7 Il potere Giudiziario, p. 54 6.8 Il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, p. 56

7. La “destra” e la “sinistra” nel sistema politico iraniana, p. 56 7.1 Le origini del sistema partitico iraniano: il Partito Repubblicano Islamico (IRP), p. 57 7.2 La destra tradizionalista: rast-e sonnati, p. 57 7.3 La destra modernista: rast-e modern, p. 58 7.4 La sinistra islamica: chap-e Islami, p. 59 7.5 La sinistra modernista: chap-e modern, p. 59

8. Evoluzione del sistema di “fazione” all’interno del contesto politico iraniano, p. 60 9. Chi comanda in Iran?, p. 61 10. Fazionalismo e politica in Iran, p. 62 11. La definizione della politica estera iraniana ed il Consiglio Strategico per la Politica Estera,

p. 65 12. Libano: ha vinto la guerra Hizbollah? O è l’Iran il vincitore?, p. 67 13. Il programma nucleare: vero o falso obiettivo? Un rischio per l’Europa e per gli Stati Uniti,

p. 68

CAPITOLO QUARTO Le opzioni per Ahmadinejad

1. Un incerto futuro, p. 70 2. Europa e Stati Uniti, p. 71 3. La confrontazione ed i limiti della strategia per il cambiamento del regime, p. 72 4. Dalla confrontazione dialettica a quella bellica: effetti e prospettive, p. 74

ALLEGATI

1. Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran (tradotta in italiano), p. 76 2. L’incerto futuro del MEK (Mojjahidin-e Khalq) in Iraq e nel mondo, p. 107 3. La struttura gerarchica del clero in Iran, p. 117 4. Bonyads, le fondazioni islamiche, p. 119

BIBLIOGRAFIA, p. 121

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CAPITOLO PRIMO PROFILO STORICO 1. Dalla monarchia alla monarchia assoluta, attraverso Mossadeq La prima grande fase della storia contemporanea dell’Iran prese avvio con la “rivoluzione costituzionale” del 1906. Fu l’inesperienza e la debolezza di Mozaffar ad-Din, Scià della dinastia Qajar, a provocare infatti nel 1906 un’ondata di proteste e sollevazioni di intensità tale da imporre al sovrano la necessità di promulgare una carta costituzionale per la prima volta nella storia del paese. In base a questa, la monarchia perse gran parte delle sue prerogative storiche, trasferendo al Parlamento (Majlis) l’effettiva gestione del potere garantendo ai cittadini istituzioni di stampo moderno e democratico. Lo Scià morì soli cinque giorni dopo la firma del decreto costituzionale, lasciando il trono al figlio Mohahammad Ali, manifestamente contrario alla costituzione ed intenzionato con ogni mezzo a revocarla ed a restaurare le prerogative monarchiche. Nel 1908 lo Scià ordinò ai suoi cosacchi di aprire il fuoco con i cannoni sul Parlamento, arrestando numerosi deputati e cercando di ristabilire il ruolo assoluto della monarchia. Ma la reazione delle forze costituzionaliste fu imprevista ed intensa, costringendo lo Scià all’esilio nel 1909 ed innescando un lungo periodo di instabilità politica ed istituzionale. La prima guerra mondiale trasformò l’Iran involontariamente in un teatro di battaglia tra le forze russe, turche ed inglesi, di fatto dividendo il paese in zone di influenza ed impedendo il sorgere di un sistema istituzionale locale autonomo e capace di gestire la difficile transizione. L’ultimo Scià qajaro, Ahmad Scià, nominò nel 1923 Reza Khan suo Primo Ministro, partendo subito dopo per l’Europa, dove morirà. Reza Khan, comandante degli ussari iraniani ed astro emergente della politica iraniana, era animato da una profonda ammirazione per Mostafa Kemal, detto Ataturk, e soprattutto dal suo modello laico di riorganizzazione dello Stato adottato in Turchia. Con metodi sbrigativi ed autoritari, Reza Khan iniziò a sfidare e sconfiggere il complesso sistema dei poteri politici e del latifondo religioso, dominando la scena politica nazionale e di fatto divenendo nel 1925 l’unico ed assoluto detentore del potere. Nell’ottobre dello stesso anno depose la monarchia qajara, ed in dicembre il Parlamento lo proclamò nuovo Scià con il nome di Reza Pahlavi. L’avvio della nuova dinastia fu caratterizzato da una profonda spinta innovatrice e modernista, apertamente impostata al laicismo di Stato e da subito orientata all’abbattimento delle prerogative storiche del potere del clero e del latifondo. Reza Scià avviò intense relazioni diplomatiche con il mondo occidentale, avviando anche un radicale programma di modernizzazione delle infrastrutture e della società iraniana. Bandì il velo per le donne, così come impose l’utilizzo del copricapo per gli uomini, nel tentativo di portare a tappe forzate la società iraniana al pari di quella europea. Si trattò, in realtà, di una meschina reinterpretazione locale del programma di modernizzazione adottato da Kemal in Turchia, sebbene con notevoli spunti positivi sotto il profilo dell’innovazione tecnologica e dello sradicamento del sistema tradizionale del potere. A Reza Scià deve senza dubbio essere riconosciuto il merito di aver riorganizzato le forze armate in modo eccellente ed unitario, trasformandole nel bastione di difesa dello Stato e soprattutto nella spina dorsale della nuova architettura istituzionale del paese.

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Le forze armate soprattutto, poi, divennero il principale antagonista del sistema religioso e del suo clero, minando progressivamente le basi del latifondo e combattendo sistematicamente ogni forma di privilegio storicamente loro concesso. Spesso anche con l’uso brutale della forza. La spinta innovatrice iniziale, ed il largo consenso conseguente al tentativo di rivoluzione nel consolidato sistema sociale iraniano, vennero gradualmente meno con il fallimento delle politiche di redistribuzione del reddito e, soprattutto, con l’inasprirsi del sistema di repressione delle libertà adottato dal sovrano. Ciononostante, l’ingombrante presenza della Russia e della Gran Bretagna nella regione spinsero lo Scià in direzione della Germania nazista e, sebbene senza aver mai dichiarato alleanze ed anzi dichiarandosi neutrale allo scoppio della seconda guerra mondiale, questa fu la principale causa della sua caduta nel 1941. Gli successe, per esplicita volontà delle potenze alleate, il giovane figlio Mohammad Reza, sebbene in una condizione di particolare precarietà dovuta all’occupazione del territorio da parte delle forze inglesi e sovietiche. Reza Khan morì in esilio in Sud Africa nel 1944 ed il giovane erede si trovò a gestire la difficilissima fase di transizione del potere nel periodo post bellico senza la necessaria preparazione ed in costanza di un mutato contesto sociale ed istituzionale nel paese. La monarchia, nuovamente debole e priva del carattere assoluto imposto dall’austero padre, si trovò a fungere da garante costituzionale di un nuovo Iran fortemente pervaso da sentimenti repubblicani alimentati dai nazionalisti e dai comunisti. A nulla valse il tentativo di Mohammad Reza Pahlevi di costringere il Parlamento a legiferare in direzione di una transizione che garantisse alla monarchia il suo ruolo e le sue prerogative, sebbene di stampo costituzionale. Soprattutto l’ascesa di un uomo politico particolarmente capace ed ambizioso, Mohammad Mossadeq, si presentavano come un impedimento per il dominio dello Scià. Mossadeq, infatti, era un vecchio nazionalista deciso a portare l’Iran sulla linea dello scontro con le grandi potenze occidentali per impedire lo sfruttamento delle risorse petrolifere iraniane alle condizioni dettate dalle grandi compagnie europee ed americane. Nel 1951 Mossadeq riuscì a far passare in Parlamento la legge per la nazionalizzazione del petrolio, di fatto aprendo una gravissima crisi con l’occidente a cui seguì l’embargo inglese nel Golfo persico ed il congelamento dei beni iraniani all’estero. La popolarità di Mossadeq crebbe a dismisura nel paese, determinando una gravissima crisi politica a livello nazionale che si concluse con la rocambolesca fuga dello Scià nel 1953 ed il brevissimo interregnum del trionfo del primo ministro. Solo quattro giorno dopo, tuttavia, forze leali allo Scià ed apertamente finanziate ed organizzate dagli Stati Uniti, riuscirono a rovesciare le deboli difese di Mossadeq reimponendo il sistema monarchico e favorendo il ritorno dello Scià in Iran. Fu questa la fine della parentesi nazionalistica e della monarchia costituzionale in Iran. E fu anche l’inizio del processo di sostituzione della Gran Bretagna nel sistema di controllo ed influenza sul paese che, da allora, passò sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti. Il ritorno dello Scià in Iran si caratterizzò per una profonda modificazione del ruolo del sovrano. Vennero accentrati nelle mani dello Scià i poteri esecutivi, e limitate le attività politiche soprattutto attraverso lo scioglimento dei principali partiti comunisti, nazionalisti e marxisti. Lo Scià inasprì il sistema di controllo e repressione delle libertà politiche e creò una polizia segreta, la SAVAK (Sazman-e Ettelaat va Amniyat-e Keshvar), che ben presto si fece conoscere per spietatezza e brutalità. Lanciò tuttavia lo Scià un poderoso programma di riforme e di generale ammodernamento delle infrastrutture grazie ai proventi di un’industria petrolifera nuovamente aperta al dialogo con le potenze occidentali.

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Lo Scià cerò di riprendere il percorso di modernizzazione avviato dal padre, attraverso tuttavia un programma di modernizzazione della società decisamente forzato ed inadeguato. Inadeguato soprattutto per carenze infrastrutturali e per inadeguatezza culturale di un paese ancora fortemente caratterizzato da una impostazione tradizionale e fortemente religiosa. Questo non arrestò però i disegni del sovrano che, anzi, non esitò ad aumentare l’intensità di tali sforzi nel tentativo di trasferire al figlio primogenito il regno successivamente alla propria morte. Decisione presa dallo Scià nel 1974 all’indomani della diagnosi di una forma tumorale particolarmente grave e che lo condurrà alla morte nel giugno del 1980. È attraverso quindi un cammino a tappe forzate verso lo sviluppo, nell’incapacità di osservare un paese incapace di avanzare, che matura e prende corpo la rivoluzione che lo deporrà nel 1979, lasciando spazio ad una inaspettata formula politica impostata sulla teocrazia. 2. La rivoluzione del 1978/79: comunisti, marxisti e religiosi alla conquista del potere Per quanto largamente trattata, la rivoluzione iraniana è ancor oggi ampiamente legata al clichè impostole dalla componente vincitrice, quella religiosa. Presentandosi in tal modo i fatti del 1978/79 come una convinta ed appassionata lotta di religione contro un monarca inviso e ormai incapace di reggere il peso della protesta. Al contrario, invece, la rivoluzione si maturò inizialmente più negli ambienti della sinistra comunista e marxista che non in quelli religiosi, che tuttavia la dominarono nelle ultime concitate fasi. Il prodotto di un’immagine di tipo essenzialmente religioso è il frutto di una duplice matrice. In primo luogo la componente principale nel processo di ideazione ed attuazione della rivoluzione fu in seno alle forze islamico-marxiste, soprattutto quelle del Mojaheddin e-Khalq, che adottarono uno schema tattico sulla strada – principalmente per aggirare i limiti del coprifuoco – di ispirazione religiosa. Molte delle manifestazioni di piazza infatti, soprattutto nella prima fase della rivoluzione, servirono a “creare” martiri da commemorare, innescando il meccanismo delle processioni religiose non represse dalle forze armate. L’altro aspetto della caratterizzazione religiosa fu la progressiva appropriazione del messaggio rivoluzionario da parte dell’Ayatollah Khomeini, allora in esilio dapprima in Iraq e poi nell’ultima fase alla periferia di Parigi. Senza impedimenti di sorta nell’esprimere la propria avversione al sovrano, conseguentemente alla condizione di esiliato, l’Ayatollah Khomeini divenne l’immagine stessa della rivoluzione, dapprima favorendo e poi oscurando le stesse forze della sinistra islamica alla base del movimento. Ed è quindi grazie a questa fortuita combinazione, largamente favorita anche da un tessuto sociale realmente intenzionato a creare i presupposti per una reale alternativa democratica al dispotico regno di Mohammad Reza Pahlavi, che si maturò la rivoluzione iraniana. 3. Il khomeinismo, la guerra con l’Iraq e la nascita dello Stato islamico La sinergia delle forze che determinò il successo della rivoluzione non ebbe vita duratura. Dopo meno di un anno dal trionfo delle forze rivoluzionarie iniziarono infatti a manifestarsi apertamente i primi dissidi tra le forze della sinistra storica iraniana, della sinistra marxista-islamica e di quelle religiose. In modo particolare, le forze comuniste e marxiste pagarono lo scotto di non aver creato una vera e propria milizia popolare a loro sostegno, così come di essere state in definitiva delle espressioni di lotta elitaria e non collegata realmente alla base sociale del paese.

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La componente religiosa, al contrario, poteva contare sul tessuto religioso popolare ampiamente diffuso, sulla rete delle moschee e, soprattutto, della milizia popolare costituitasi con la rivoluzione e trasformatasi in una vera e propria struttura permanente nell’immediato post-rivoluzione. Tali gruppi, organizzati localmente sotto forma di comitati, iniziarono da subito ad esigere il disarmo delle forze politiche non religiose, manifestando apertamente il rifiuto di concedere spazi a tutti coloro i quali non si fossero apertamente e totalmente sottomessi al dominio della componente religiosa delle forze rivoluzionarie. Si avviò quindi un confronto che in breve tempo si trasformò in scontro aperto, con la messa al bando delle forze comuniste, marxiste e nazionaliste e la definitiva uscita di scena della componente laica dalle forze di governo della neonata Repubblica Islamica. Tale processo, conosciuto come l’avvio del periodo “khomeinista” si materializzò anche grazie all’abile strategia della nuova componente di comando dell’establishment religioso, che attraverso l’isolamento internazionale dell’Iran potè produrre ogni sorta di trasformazione politica all’interno del paese, apertamente frustrando le aspettative genuinamente democratiche delle masse rivoluzionarie. A produrre un risultato così netto a favore della componente più radicale delle forze conservatrici contribuirono principalmente due eventi, l’uno generato, l’altro subito. Il primo fu l’occupazione dell’Ambasciata americana a Tehran, il secondo la guerra con l’Iraq. L’occupazione dell’ambasciata isolò politicamente l’Iran dal mondo occidentale, di fatto impedendo ogni azione da parte dell’ala moderata del sistema post-rivoluzionario, che ben presto lasciò la scena della politica interna iraniana. Il conflitto con l’Iraq isolò invece l’Iran dal contesto regionale, e costituì l’occasione per formare nelle trincee la nuova generazione dell’establishment rivoluzionario, e soprattutto la sua nuova componente militare, quella dei Pasdaran. 4. La crisi della Repubblica Islamica e la parabola del riformismo Lo stallo artificiale della guerra con l’Iraq ed il consolidamento della Repubblica Islamica furono “garantiti” da due presidenti della repubblica estremamente diversi tra loro ma accomunati dal medesimo obiettivo: il mantenimento e la continuità dello status quo. Il primo, Khamenei, che successivamente diverrà Guida (o Rahbar), fu espressione diretta del volere e del disegno complessivo di Khomeini. Il secondo, Rafsanjani, ottenne nell’ambito del suo doppio mandato l’appellativo di “pragmatico”, intendendo in tal modo che non si trattasse di un sostenitore accanito della linea dura e pura ma che, al contrario, cercasse la mediazione tra le molteplici anime del sistema nazionale. Furono in realtà entrambi orientati esclusivamente al mantenimento della Repubblica Islamica nel suo alveo Khomeinista prima e post-Khomeinista poi, proteggendo il primo il proprio ruolo e la propria dignità all’interno del sistema, ed il secondo la complessa rete di interessi ed affari sviluppata e maturata nel corso dei primi quindici anni di Repubblica Islamica. L’intero sistema venne poi protetto e fedelmente servito dalla generazione emergente del potere iraniano, il cosiddetto “universo” dei Pasdaran. Dopo la fina della guerra con l’Iraq, infatti, ai Pasdaran venne riconosciuta una dignità autonoma e di certo superiore a quella delle forze armate regolari (Artesh), creando di fatto un sistema – “universo”, appunto – totalmente indipendente e via via sempre più potente. Ed è proprio in seno a tale compagine che, già nei primi anni Novanta, prende corpo l’idea di ciò che poi diverrà il riformismo di Khatami. Sono infatti uomini dei Pasdaran e dell’intelligence a comprendere la necessità di creare un corto circuito con l’ormai sempre più isolata cerchia superiore del potere, per dare una prospettiva di futuro e di sviluppo al paese e, soprattutto, per candidarsi quale generazione emergente del potere.

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5. Il fallimento del riformismo di Khatami Nel 2004, giunto oramai quasi al termine del secondo mandato, il presidente Khatami non potè che trarre un bilancio fallimentare del proprio ruolo: in quasi otto anni non erano state prodotte le riforme grazie alle quali era stato per due volte eletto a grande maggioranza dagli iraniani, ed il paese stava soprattutto per tornare inequivocabilmente nelle mani della compagine più conservatrice. Il sogno riformista di Khatami fu stato gestito e percepito tuttavia con grande ambiguità a tutti i livelli. Sia in Iran che all’estero. È opportuno innanzitutto ricordare come il concetto di “riformismo” di Khatami sia stato percepito erroneamente all’estero, soprattutto in Occidente. Laddove il presidente ventilava una graduale e lenta riforma del sistema istituzionale iraniano, senza in alcun modo mettere in discussione l’essenza ed il ruolo della Repubblica Islamica, in Occidente il tentativo riformista veniva largamente percepito quale movimento “rivoluzionario” destinato a porre fine all’esperimento religioso di una teocrazia e teso a stabilire in Iran la supremazia di un non meglio definito modello costituzionale democratico. La politica di Khatami, al contrario, mirava al ridimensionamento del ruolo della Guida e del Consiglio dei Guardiani all’interno del sistema istituzionale della Repubblica Islamica, a tutto vantaggio del presidente e dell’esecutivo, che in tal modo avrebbero potuto disporre delle effettive prerogative del potere e dei relativi strumenti. Il non aver colto questo elemento – ben più grande di una semplice sfumatura – generò la crescente e sempre più diffusa impressione di un presidente debole ed incapace di imporre il proprio ruolo e peso politico all’interno del sistema iraniano. A ciò si deve aggiungere l’equivoco generato dalla valutazione delle aspettative della massa elettorale di Khatami che, votando per il presidente riformista, riteneva di poter forzare il corso degli eventi e spingere in direzione di un progetto di riforme istituzionali ben più ampio di quello presentato dal presidente stesso ai propri elettori. Forzatura che, in larga parte, fu stata intesa dai media e dai commentatori occidentali quale parte integrante del progetto politico stesso di Khatami, e sulla base della quale si valutò in più occasioni la “scadente” performance del presidente. Questa duplice matrice d’errore condizionò fortemente non solo la concezione del programma politico riformista di Khatami, ma ne limitò pesantemente l’operato in non poche occasioni. Laddove gli europei – ma anche gi Stati Uniti – avrebbero potuto e dovuto supportare l’azione del presidente, il sostegno esterno invece largamente mancò, impedendo la formazione di quel sistema di coesione internazionale che avrebbe realmente potuto generare trasformazioni uniche ed epocali. In Iran al tempo stesso, la durissima confrontazione tra potere “reale” e potere “virtuale”, con ciò indicando rispettivamente quello della Guida e del Consiglio dei Guardiani da un lato e quello del presidente e dell’esecutivo dall’altro, determinò l’impossibilità di operare alcuna riforma e, anzi, radicalizzò la relazione tra le due entità spingendole in più occasioni al limite dello scontro. Le elezioni del 20 febbraio del 2004 palesemente dimostrarono questo dato. Mentre da un lato gli organi del potere “reale” rendevano ardua la possibilità di vittoria per la compagine riformista attraverso la delegittimazione di un numero enorme di candidati – molti dei quali membri del Parlamento allora in carica – dall’altra parte i riformisti non riuscirono nell’ennesimo tentativo di giustificare la propria posizione di debolezza attraverso il ricorso alla ben nota formula retorica dell’impossibilità di operare nell’ambito di un sistema di tal fatta. Con ciò ottenendo una duplice sconfitta. Non solo uscendo perdenti dal confronto sul processo di selezione elettorale innescato con il Consiglio dei Guardiani, ma anche e soprattutto perdendo definitivamente il sostegno dell’enorme consenso popolare che per quasi otto anni aveva pazientemente e stoicamente tollerato una politica di riforme pressoché orientata all’immobilismo. Il 20 febbraio del 2004, dunque, non furono affluenze oceaniche alle urne così come citate dagli organi di stampa e dalle agenzie di informazione giornalistica locali. Non fu procrastinata per quattro volte la chiusura dei seggi per permettere alle folle di elettori di poter esprimere il proprio

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voto. Si trattò di una tornata elettorale anzi particolarmente modesta che dimostrò essenzialmente due dati fondamentali. Il primo fu quello relativo alla tenuta dei conservatori in termini di voti. Senza particolari elaborazioni dal punto di vista dell’analisi del voto, è lecito ritenere che la base di consenso dei movimenti conservatori mantenne la propria dimensione (composta anche da voti in un certo qual modo “obbligati”, quali quelli del personale governativo, o “veicolati”, come nel caso di quelli espressi in alcuni seggi da non-residenti, così come concesso dalla legge elettorale iraniana) con un margine di modesto incremento motivato essenzialmente dalla disfatta dei partiti riformisti e dalla volontà di cambiamento comunque espressa ad ogni livello, sia attraverso il voto che con l’astensione, da moltissimi iraniani. Il secondo dato fu la reale e definitiva sconfitta dei movimenti politici vicini al presidente Khatami. La sensazione comune, infatti, fu quella di un astensionismo massiccio dal voto non quale osservanza dell’invito a tale comportamento da parte dei vertici dei partiti riformisti, bensì quale definitivo abbandono dei movimenti stessi da parte degli elettori. Abbandono motivato dall’impossibilità di concedere fiducia e credito ulteriori ad una compagine che per ben due mandati presidenziali non solo non seppe produrre risultati concreti in termini di riforme ma che, soprattutto, contribuì al generale deterioramento del quadro politico-istituzionale ed economico del paese. Un voto, quindi, che configurò una mappa elettorale alquanto instabile, delusa e potenzialmente atta a concedere un margine di fiducia – seppur minimo – ai conservatori in quanto allora “reali” ed “unici” detentori del potere e, soprattutto, obbligati a dover produrre riforme sostanziali per poter sopravvivere politicamente. 6. L’11 settembre e l’Asse del Male All’indomani dei tragici fatti di New York e Washington dell’11 Settembre 2001, l’Iran dimostrò una chiara e decisa apertura nei confronti della lotta al terrorismo e, più in generale, nell’identificazione di una linea di dialogo con l’occidente e gli Stati Uniti in particolare. La circostanza degli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti fornirono al Presidente iraniano Mohammad Khatami l’occasione per dimostrare al Presidente americano George Bush la disponibilità iraniana nell’instaurare un processo di distensione nel dialogo tra i due paesi, bruscamente interrotto da 23 anni con la Rivoluzione Islamica che portò alla destituzione dello Shah Mohammed Reza Pahlavi ed al successivo sequestro per 444 giorni del personale in servizio presso l’ambasciata americana a Tehran. All’indomani del viaggio del Ministro degli Esteri britannico in Iran dell’ottobre del 2001, però, la posizione dell’Iran tornò bruscamente sui suoi passi, ristabilendo il consueto codice di dialogo basato sulla difesa dei valori e dei principi della Rivoluzione e sulla intangibilità degli interessi dell’Iran, in patria e nella regione. Non fu mai chiarito quale sia stato l’oggetto di discussione tra gli inglesi e gli iraniani, ma apparve alquanto probabile che il tema del dibattito avesse toccato in particolare due punti: la nomina dell’ambasciatore inglese a Tehran, e la possibilità per le forze statunitensi di potersi servire, a vario titolo, del territorio iraniano nell’imminenza dell’attacco all’Afghanistan. Entrambi i punti sarebbero stati per l’Iran inaccettabili. David Reddaway, ambasciatore designato per la Gran Bretagna in Iran, è infatti sposato con una donna iraniana figlia di un ex alto dignitario di corte del deposto Shah. L’utilizzo dello spazio aereo o, ancor peggio, del territorio dell’Iran da parte delle forze armate degli Stati Uniti durante l’attacco in Afghanistan avrebbe invece potuto provocare uno scontro all’interno del sistema politico iraniano dall’esito non facilmente prevedibile, con ripercussioni evidenti sul lento tentativo di liberalizzazione e riforma del Presidente Khatami. Gli Stati Uniti sollevarono a più riprese, poi, dal novembre del 2001 al gennaio del 2002, l’ipotesi secondo cui l’Iran avrebbe protetto e coperto la fuga di numerosi membri dell’organizzazione Al-

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Qaeda, interferendo inoltre pesantemente nel processo di pacificazione e ricostruzione dell’Afghanistan “sobillando” i gruppi etnicamente e religiosamente affini. Nel discorso sullo Stato dell’Unione del Febbraio 2002, infine, il Presidente Bush parlò di un “asse del male” tra Iran, Iraq e Nord Corea, paesi che, secondo il Presidente, perseguivano lo sviluppo e la proliferazione di armi di distruzione di massa e che rappresentavano, di conseguenza, una minaccia per la stabilità e la sicurezza internazionale. In particolar modo gli americani accusarono l’Iran di voler trasformare la centrale nucleare di Bushehr (in fase di realizzazione con l’aiuto tecnologico della Russia) in una struttura per la produzione di ordigni nucleari suscettibili di essere installati sulle classi missilistiche Shahab 3 e 3D con una gittata variabile tra i 1300 e i 2200 chilometri. Le affermazioni del Presidente degli Stati Uniti trovarono tuttavia una tiepida risposta in seno alla compagine degli alleati europei che, anzi, espressero a più riprese le proprie perplessità per l’inserimento dell’Iran nel cosiddetto “asse del male”. Il discorso sullo Stato dell’Unione, infine, costrinse il Presidente della Repubblica iraniana Khatami ad allinearsi con la posizione della Guida, l’Ayatollah Seyed Ali Khamenei, di fatto formando un unico blocco agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Ciò che in questa particolare crisi tra gli Stati Uniti e l’Iran si manifestò pericolosamente fu una cospicua serie di pericolose concause, in grado di scatenare in assenza di moderazione e considerazione dei fatti una non prevedibile escalation politica. Il Presidente Khatami, al suo secondo mandato, godeva ancora di un ampio consenso interno per la sua politica riformista e moderata, orientata allo sviluppo di un sistema politico moderno e liberale e ad un alleggerimento nell’applicazione del rigido codice islamico. Più volte la sua politica entrò in diretto contrasto con il sistema ed il modello dell’ala religiosa, ed in più di una occasione il Presidente dovette moderare lo slancio degli elementi a lui fedeli per non scatenare uno scontro diretto con le autorità religiose. In particolar modo i giovani rappresentavano per Khatami al tempo stesso la forza del suo ruolo ed un pericolo per la stabilità del sistema, in quanto attendevano riforme in tempi rapidi e di grande portata. La gran parte dell’elettorato favorevole al Presidente, infatti, era di giovane età e spesso non comprendeva la moderazione e la tecnica lenta, tipicamente orientale, di sostituire con gradualità la particolare e complessa struttura politica del paese, al fine soprattutto di evitare una reazione violenta da parte del potere esecutivo. In più occasioni i giovani universitari innescarono, da semplici e non cruenti moti studenteschi, delle vere e proprie battaglie con le forze di polizia e con le temute forze paramilitari religiose, sotto il diretto controllo della Guida. Ben consapevoli della minaccia rappresentata da Mohammad Khatami, gli esponenti del potere religioso scatenarono un violento scontro politico ed istituzionale atto a screditare la politica del Presidente, minando alla base il suo programma e la sua struttura organizzativa. Un numero elevatissimo di collaboratori di Khatami venne stato arrestato o allontanato dagli incarichi, creando vuoti difficilmente colmabili nello staff presidenziale e governativo e, soprattutto, cercando di impedire la crescita intellettuale e politica di un possibile successore a Khatami. In particolar modo sono stati oggetto di una vera e propria persecuzione i direttori ed i giornalisti delle testate riformiste e liberali, culminate con la chiusura forzata di numerosi quotidiani e periodici politici e d’opinione. L’inserimento dell’Iran nell’Asse del Male non fece quindi che indebolire Khatami ed il vacillante riformismo, accelerandone la fine politicamente e socialmente. 7. L’ascesa di Ahmadinejad Di Mahmoud Ahmadinejad non si era mai parlato granché in Europa e negli Stati Uniti prima del giugno del 2005. L’interesse sulle elezioni presidenziali iraniane era stato riservato quasi

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esclusivamente alla largamente pronosticata vittoria di Hashemi Rafsanjani o, in alternativa, al ballottaggio tra quest’ultimo e il grande favorito della sinistra modernista, Mostafa Moin. Il 10 giugno, invece, le urne sancirono una pesante sconfitta per Rafsanjani, condannato ad un ballottaggio con un quinto delle preferenze elettorali, ed un trionfale risultato con le stesse percentuali per Mahmoud Ahmadinejad, il meno favorito dei candidati secondo le valutazioni occidentali. Anche il ballottaggio riservava infine un sorprendente risultato: Ahmadinejad trionfò umiliando il “grande vecchio” della politica iraniana, sancendo la vittoria dei conservatori e lasciando perplessi quanti da tempo avevano individuato in Rafsanjani il candidato certamente emergente. Nello stupore – e nel timore – derivante dalla vittoria di un candidato considerato ultra-conservatore, si susseguirono quindi i commenti degli analisti e degli specialisti d’area, in massima parte evidenziando il rischio connesso alla vittoria di Ahmadinejad e dimenticando – almeno per un istante – la reale portata dei poteri del presidente nella Repubblica Islamica dell’Iran. La genesi del consolidamento dell’odierna struttura di potere iraniana risale al 1997, con la transizione dalla presidenza Rafsanjani a quella Khatami. In quell’occasione la molteplicità di interessi per la successione ad Hashemi Rafsanjani in seno alla compagine definita come dei “conservatori”, portò alla frammentazione di questi in una pluralità di gruppi, indebolendone la complessiva forza politica e favorendo l’emergere di una nuova alleanza in seno alle forze tradizionalmente conosciute come “riformatrici”. Non solo, anche nella Iranian Revolutionary Guard Corp – più genericamente conosciuta come “Pasdaran” – si verificò un disallineamento dei tradizionali equilibri, con la scomposizione delle forze tra le varie fazioni conservatrici e con l’emergere anche di posizioni quantomeno di non ostilità nei confronti del dilagante movimento riformista. La leadership stessa della Guida, Ali Khamenei, venne – sebbene non apertamente ed in modo ufficiale – messa in discussione, stante l’incapacità nel coagulare le forze conservatrici impedendo al contempo la coesione di quelle riformiste. Risultò quindi evidente come, in seno alla forze conservatrici, per ristabilire il tradizionale assetto dei poteri fosse necessario ridurre al minimo il livello della conflittualità, restaurando i legami e gli assetti che, per quasi vent’anni, avevano permesso la nascita ed il consolidamento della Repubblica Islamica. Tutto ciò sarebbe stato vano, tuttavia, in assenza di una strategia ulteriore sotto il profilo istituzionale, attraverso la quale delegittimare progressivamente il presidente favorendo lo sviluppo di un fisiologico crollo di popolarità. Ed è in questa direzione che, nel corso degli ultimi otto anni, si sono mosse pressoché di concerto la gran parte delle forze conservatrici iraniane, forti del controllo delle due istituzioni strategiche del paese, il Consiglio dei Guardiani ed il Consiglio del Discernimento, oltre al supporto della Guida. Favorendo da un lato la coesione e la compattezza istituzionale, ed apparendo quindi come una forza integra e sana nei principi e nella capacità d’azione, ma soprattutto operando a livello centrale per l’emarginazione del Presidente e del parlamento. Non già attraverso uno scontro diretto tramite il rischioso ricorso a strumenti anticostituzionali o violenti – se non in sporadiche occasioni – bensì attraverso una costante delegittimazione perpetrata nel pieno rispetto della legge. Gli otto anni della presidenza Khatami, infatti, sono stati caratterizzati non tanto dalla privazione delle prerogative presidenziali e parlamentari, quanto dalla pubblica e plateale dimostrazione della loro limitatezza sotto il profilo istituzionale. Il blando e timoroso tentativo di Khatami di ridurre progressivamente il ruolo della Guida ad una funzione rappresentativa, attraverso una attribuzione crescente di prerogative al Presidente ed al parlamento, quindi, si è scontrato con la mera e pressoché banale applicazione della legge e delle facoltà attribuite agli organi di governo – quelli reali – da parte dei conservatori.

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Otto anni nei quali ogni tentativo di riforma è stato costantemente soffocato da pressoché legittime, quanto giuridicamente valide repliche, o più incisive negazioni da parte del Consiglio dei Guardiani e del Consiglio del Discernimento. Appare quindi chiaro come, già prima del termine del secondo mandato, la presidenza Khatami fosse stata dichiarata definitivamente terminata e destinata ad essere ricordata più come un fallimento che non come un tentativo di rinnovamento istituzionale. Nel marzo del 2003 i riformisti incassarono la prima grande sconfitta alle elezioni parlamentari. Una doppia umiliazione, prima e dopo le elezioni. Prima, per non aver potuto impedire la squalificazione – e quindi l’eliminazione – di un elevato numero di candidati, sostanzialmente dimostrando di non avere possibilità di replica nei confronti dei reali organi del potere iraniano. Dopo, per i disastrosi risultati elettorali, dove i candidati riformisti ottennero uno scarso consenso e dimostrarono di non rappresentare oramai più la disillusa società iraniana. Anche la società civile, ed i giovani in particolare, persero nel corso del secondo mandato della presidenza Khatami vigore ed entusiasmo. La grande protesta studentesca dell’estate del 1999 non venne supportata in alcun modo dal presidente e dal parlamento, di fatto lasciando mano libera alle forze paramilitari collegate all’establishment e determinando l’eliminazione pressoché totale dei vertici e dei quadri del movimento studentesco. Le proteste degli anni successivi saranno di modesta entità ed assolutamente innocue sotto il profilo della sicurezza. Anche di questo, Khatami ha dovuto rispondere nella tornata elettorale del marzo del 2003. Ed anche per questo, con ogni probabilità, quello che sembrava poter rappresentare il vero protagonista nella tornata presidenziale del 2005, Mostafa Moin, ne è uscito con una sconfitta parimenti cocente al primo turno. Il fulcro di potere dei conservatori, peraltro, non è solo articolato sul controllo del sistema politico-istituzionale e della sicurezza. L’economia ed il commercio, attraverso la rete delle fondazioni, il baazar e le società offshore, è rigidamente dominato da esponenti strettamente legati all’establishment, attraverso un articolato ed estremamente efficiente sistema che, peraltro, impedisce di fatto sovrapposizioni limitando enormemente le possibilità di attrito tra le varie cerchie. Sono poi palesemente schierati con il fronte dei conservatori anche i nuovi oligarchi, ai quali deve essere riconosciuta una importante quota di controllo sulle attività economiche del paese. Ulteriore elemento di non trascurabile importanza è dato dai legami, di varia natura, tra i gruppi di potere nelle più alte cerchie del sistema. Ai tradizionali legami di tipo familiare o derivanti dalla provenienza da comuni aree geografiche del paese, nel corso degli anni si sono imposte due nuove importanti tipologie relazionali. La prima è quella relativa alla “oligarchia religiosa”, dove emergono e si impongono i legami tra i componenti delle più prestigiose famiglie del clero sciita, e la seconda, probabilmente quella con le caratteristiche oggi più interessanti e promettenti, è quella dei Pasdaran. Questi ultimi, nel corso degli ultimi quindici anni, sono stati progressivamente inseriti – anche successivamente al congedo ufficiale dalle unità militari – nel sistema di potere andando a ricoprire incarichi di media ed alta responsabilità pressoché in ogni ambito del sistema amministrativo, politico ed economico. Emergendo oggi come una delle più radicate, consolidate e potenti strutture all’interno del paese. La rete dei Pasdaran, comprendente quindi sia gli effettivi delle unità militari, sia i paramilitari che i civili congedati, controlla oggi fondazioni, società all’interno ed all’esterno del paese e centri vitali nel sistema governativo, disponendo di fatto di una possibilità di esercizio del potere pressoché unica. Pochi conoscevano Mahmoud Ahmadinejad al di fuori dell’Iran prima della vittoria elettorale alle presidenziali del 2005, ed ancor meno credeva in una sua vittoria. È stato quindi quello di giugno 2005 un risultato assolutamente straordinario ed inaspettato, anche se in larga parte comprensibile. Ahmadinejad, nato nel 1956 a Garmsar, è un personaggio certamente popolare in Iran. Dopo l’esperienza rivoluzionaria ed una lunga militanza nelle formazioni di base dei Pasdaran, combatté al fronte contro l’Iraq servendo nelle forze speciali. In guerra si distinse per coraggio ed eroismo, partecipando a numerose azioni in territorio iracheno e meritando promozioni ed onorificenze. La

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scalata ai vertici della Iranian Revolutionary Guard Corp fu relativamente veloce e senza ostacoli, offrendo al contempo la possibilità di una promozione anche in ambito politico ricoprendo incarichi di grande prestigio a livello locale. Nel 2003, in una tornata elettorale caratterizzata dal più elevato astensionismo, venne eletto sindaco di Tehran, andando ad inserirsi nel tessuto politico iraniano come primo vero e proprio antagonista diretto, sul campo, del presidente Khatami. Al populismo ed alla retorica pre-elettorale, Ahmadinejad fece tuttavia seguire il rispetto di un ambizioso programma sociale impostato sul rigore e sulla necessità di realizzare programmi concreti. Essendo i problemi maggiormente avvertiti dall’opinione pubblica non già quelli della centrale nucleare di Bushehr o del vicino Iraq ma, molto più concretamente, quelli occupazionali e delle libertà individuali, Ahmadinejad puntò concretamente e decisamente sui primi. Concentrò la sua azione nelle aree realmente bisognose di intervento della città, soprattutto nella fascia meridionale ed esterna ad est ed ovest della capitale dove, per quanto possibile, portò almeno la parvenza di qualche servizio facendo per la prima volta sentire il peso di un ruolo sociale ed economico dello Stato oltre a quello meramente religioso. Si distinse per essere presente tra la gente, almeno rispetto ai suoi predecessori, e riuscì a guadagnare ulteriore popolarità attraverso manovre economiche rivoluzionarie. Concesse benefici alle famiglie con prole, erogò fondi per i servizi sociali e, con un lampo di genio, vendette l'abitazione concessagli in virtù del grado e della posizione nella gerarchia locale per distribuirne il ricavato attraverso la rete di gestione dei progetti sociali. È Ahmadinejad, quindi, soprattutto un uomo d’azione e di principio. Un politico che si presenta protestando contro la corruzione, contro il malcostume e contro la nuova oligarchia del potere che ha tradito lo spirito rivoluzionario e l'indirizzo dato da Khomeini, per cedere al lusso ed al potere. Un uomo che indica, facendo nome e cognome, i responsabili dell'insuccesso politico della Repubblica Islamica, non esitando a scagliarsi contro gli Stati Uniti e le altre potenze egemoni nella regione e nel mondo. In sintesi, un abile politico che, al contrario di molti colleghi locali e stranieri, fa seguire al populismo dei proclami una concreta azione sul campo. Premiando la fiducia degli elettori e guadagnando quella dei detrattori. Diviene quindi, nell’Iran della crisi del Khatamismo, una alternativa credibile e possibile, sebbene in larga misura ignorata dagli analisti stranieri. Si presenta alle elezioni con un programma chiaro e preciso, senza tuttavia investire tempo e denaro nella campagna elettorale. Ed è quindi questa, almeno parzialmente, la ragione del perché Mahmoud Ahmadinejad emerge a protagonista delle cronache internazionali nella settimana tra il 10 ed il 17 giugno del 2005. Il principale errore in cui incorre il tradizionale metro di valutazione occidentale, quindi, è quello di considerare la volontà dell’elettorato iraniano decisamente schierata a favore di una scelta in funzione del un male minore. Di un presidente conosciuto, sebbene avversato, che tuttavia possa traghettare l’Iran verso una non meglio specificata forma di evoluzione istituzionale. Tale candidato, Rafsanjani, viene invece pesantemente sconfitto ed umiliato in entrambe le tornate elettorali. Ahmadinejad non vince con una schiacciante vittoria. Al primo turno emerge come concorrente al ballottaggio con un quinto delle preferenze, totalizzando il 19,25% dei voti, e la settimana successiva viene proclamato vincitore con il 62% dei voti. 62%, tuttavia, di una percentuale dei votanti scesa nel frattempo al secondo turno al 55%, ovvero pari a poco più della metà degli aventi diritto e con un decremento del 10% rispetto al primo turno. Ahmadinejad è stato peraltro eletto con la massiccia partecipazione al voto di almeno due grandi segmenti della società iraniana, i sostenitori del sistema e delle istituzioni della Repubblica Islamica (tra cui in larga misura i Basiji ed i Pasdaran) e le forze dell'Abadgaran (gli "sviluppatori"), formazione di seconda generazione rivoluzionaria particolarmente influente nell'attuale parlamento.

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È presumibile ritenere, quindi, che Ahmadinejad abbia ottenuto un largo consenso in seno alle forze della sinistra islamica, corroborate dalla presenza di numerosi “voti di protesta” e di alcuni voti essenzialmente dedicati al cambiamento. Un ruolo non secondario, infine, ha quindi svolto l'astensionismo e l'annullamento della scheda (almeno il 5%), mentre appare poco credibile la manipolazione del risultato con brogli su larga scala. La vittoria di Mahmoud Ahmadinejad è pertanto non solo legittima, ma anche pianamente comprensibile in una logica squisitamente nazionale. Ahmadinejad non ha fatto mistero delle sue idee durante la campagna elettorale: cambiamento e rinnovamento - "rastakhiz", come l'ultimo partito di governo dei tempi dello Scià, ma secondo i principi islamici. "Non abbiamo fatto la rivoluzione per avere la democrazia", ha affermato più volte. La sua linea politica è impostata al khomeinismo, sebbene con un poco di pragmatismo, ed alla restaurazione dei valori rivoluzionari. E molta parte di quanto Ahmadinejad ha detto in campagna elettorale è direttamente tratto dal pensiero di Khomeini. In politica economica la precedenza è data alla creazione di nuovi posti di lavoro ma, soprattutto, il neoeletto presidente affermò di volersi concentrare nel voler tagliare "le mani al potere mafioso e alle fazioni che tengono in pugno il nostro petrolio, [...] La gente deve avere la parte che le spetta dalla vendita di petrolio nella vita quotidiana". Questo, in sostanza, se fosse vero vorrebbe dire scagliarsi contro i vertici stessi dell'establishment politico della Repubblica Islamica, decapitandone il centro decisionale. In tema di politica economica Ahmadinejad sostiene poi di essere contrario al ruolo delle banche private e di tutto ciò che è stato impostato come modello di crescita durante il riformismo. Dalle privatizzazioni all'ingresso dei capitali stranieri nel sistema locale. Fondamentale l'affermazione relativa al WTO, secondo cui "L'Iran ha bisogno di almeno tre anni prima di entrare nell'Organizzazione Mondiale del Commercio, abbiamo bisogno di tempo e dobbiamo difendere la nostra industria". Questo, sebbene largamente trascurato è un tassello molto importante della sua campagna presidenziale. Allontanare temporalmente lo spettro del WTO vuol dire dare fiato ad un sistema economico controllato quasi esclusivamente dallo Stato e dalle Fondazioni, che dello Stato sono in realtà emanazione e sono in larga parte controllate dai Pasdaran. Ancor più interessanti le posizioni di politica estera, dove il presidente sostiene che "l'unilaterale decisione dell'America di troncare i rapporti con la Repubblica Islamica dell'Iran mirava a distruggere la rivoluzione islamica" e che "l'America è libera di interrompere i rapporti con l'Iran. Tuttavia permane la decisione dell'Iran di ristabilire i rapporti con l'America". Una forma di pragmatismo superiore a quella di Rafsanjani dunque, con un'America rea di aver cessato le relazioni diplomatiche, ma pur sempre riconosciuta come un partner fondamentale ed al quale, piaccia no, è necessario trovare il modo di aprire. Apertura a tutti, dunque, tranne ad Israele, secondo il consolidato modello della Repubblica Islamica. Ed anche sul programma nucleare Ahmadinejad non si sbilancia inizialmente in affermazioni eccessivamente rischiose: "resta un programma necessario, ma collaboreremo con gli europei per chiarire la posizione". Si va avanti col programma dunque, sebbene con una porta di sicurezza sempre pronta per essere aperta e, magari, rispolverare il primo pensiero khomeinista all’occorrenza, secondo il quale il nucleare è da considerarsi immorale. L’acquisizione del know-how nucleare, in Iran, è una lunga storia. Nato verso la metà degli anni Cinquanta su impulso dell’allora sovrano Mohammad Reza Pahlavi, il programma di sviluppo nazionale per l’energia nucleare è sempre stato articolato su un duplice livello. Il primo, visibile e pubblico, relativo alla realizzazione di un cospicuo numero di centrali nucleari da destinarsi alla produzione di energia soprattutto per i centri urbani ed industriali e per alleggerire il peso del consumo interno di petrolio e derivati. Il secondo, non pubblicamente riconosciuto ma nemmeno smentito con troppa convinzione, relativo allo sviluppo di armi nucleari.

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Per comprendere appieno la complessa dinamica relativa allo sviluppo del programma nucleare, è tuttavia necessario soffermarsi brevemente su due fondamentali elementi correlati: il concetto di sicurezza nazionale iraniano ed il sentimento di superiorità dei persiani. Nel primo caso è opportuno sottolineare come le minacce reali e concrete per l’Iran, a dispetto della retorica di regime, siano essenzialmente limitate – almeno nella cerchia delle priorità – al mero contesto regionale. Iraq, Arabia Saudita, Kuwait ed Afghanistan in primo luogo, Israele, Pakistan ed India in subordine, sono da sempre avvertite come le principali fonti di instabilità regionale ed i più diretti ed imminenti pericoli per il paese. Questo confermato peraltro dalla lunga e sanguinosa guerra contro l’Iraq, e dal supporto fornito da quasi tutti i paesi arabi della regione al regime di Saddam Hussein durante il conflitto. La guerra del 1980-88 è stata, senza ombra di dubbio, una delle peggiori di questo secolo in termini di vittime e per le modalità attraverso le quali è stata combattuta. Gli iraniani hanno subito attacchi con armamenti chimici e con ogni probabilità anche alcuni con armamenti batteriologici. Le città iraniane, e Tehran in particolare, sono state pesantemente colpite non solo dall’aeronautica irachena ma anche, e soprattutto, da ondate di missili Scud. Provocando un grande numero di vittime civili e trasformando il conflitto in un potente strumento di propaganda contro l’Iraq ed i suoi sostenitori. È comprensibile, quindi, come lo sviluppo di un programma per l’acquisizione di armi nucleari risponda pienamente ad una logica di deterrenza per gli iraniani destinata ad impedire ulteriori attacchi e, in particolare, a smorzare gli effetti delle pressioni internazionali sul paese aumentando la capacità negoziale dell’Iran. Al programma nucleare iraniano, peraltro, deve essere abbinato lo sviluppo dei sistemi missilistici locali, già oggi in grado di rappresentare uno strumento di deterrenza con le classi Shahb 3 in grado di raggiungere obiettivi in larga parte del contesto regionale del Golfo Persico e del Medio Oriente. La struttura di comando e controllo dei sistemi missilistici, peraltro, ricade sotto il diretto controllo dei Pasdaran, attribuendo a questi competenze e priorità di ordine strategico uniche ed assolute. L’eventuale sviluppo di armamenti nucleari, vedrebbe senz’altro coinvolti i Pasdaran per la gestione delle testate, favorendo l’ulteriore crescita di questi a danno delle forze armate regolari. È quindi chiaro come anche nell’ambito di tali forze, lo sviluppo del programma sia largamente auspicato e caldeggiato. Paradossalmente, quindi, la concezione strategica dell’Iran sulla sicurezza regionale è decisamente vicina a quella dei principali paesi occidentali ed a quella degli USA in particolare. La collocazione dell’Iran quale “gendarme del Golfo”, così come concepita alla fine degli anni Cinquanta dagli Stati Uniti e dall’ex Scià Reza Pahlavi, è ancor oggi decisamente attuale e potenzialmente valida. Impedita nel manifestarsi oggi forse anche a causa di quella relazione tra Iran e Stati Uniti che Marvin Zonis, noto esperto sull’Iran, non esita a definire una vera e propria “psicosi”. Esiste poi un fattore – certamente non trascurabile – prettamente locale connesso alla percezione del problema nucleare in seno all’opinione pubblica iraniana. L’ambizione per lo sviluppo di una propria industria di settore e, sebbene non sempre ammesso, il possesso di ordigni nucleari, costituisce un desiderio che accomuna larga parte della società iraniana. Decenni di campagne mediatiche dirette a sostenere il diritto dell’Iran a sviluppare tale tecnologia, oltre alla necessità di impedire ingerenze esterne in tale direzione, hanno certamente raggiunto l’obiettivo grazie anche alla evidente e diffusa percezione di superiorità degli iraniani sui vicini arabi. Il possesso di uno strumento di deterrenza nucleare incontra il favore di una opinione pubblica non solo apertamente nazionalista ed orgogliosamente fiera di ogni e qualsivoglia primato nazionale, ma anche memore del recente e doloroso conflitto con l’Iraq e costantemente sottoposta alla retorica di regime relativa alle ingerenze occidentali ed americane in particolare. Laddove, quindi, la stragrande maggioranza degli iraniani – almeno quelli residenti nelle aree urbane – vede con favore una normalizzazione delle relazioni internazionali dell’Iran con l’occidente e gli USA in modo specifico, largamente condividendo molte delle visioni occidentali in

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merito alla sicurezza ed alla stabilità regionale, in materia di nucleare la posizione è in massima parte diametralmente opposta. Doveroso segnalare, poi, un interrogativo posto ripetutamente da numerosi analisti in Europa e negli stessi Stati Uniti. È davvero la peggiore delle ipotesi quella di avere un Iran dotato di armi nucleari? Equamente divisi, e distinti, i giudizi e le riflessioni in merito. In generale, la posizione di molti studiosi europei e di alcuni americani è parzialmente ottimista. Stante l’impossibilità dell’utilizzo di un ordigno nucleare, così come ampiamente dimostrato durante la Guerra Fredda, secondo molti il disporre di tale strumento di mera deterrenza da parte dell’establishment della Repubblica Islamica potrebbe determinare l’avvio di una più moderata e meno impulsiva politica di relazioni del paese nei confronti del contesto esterno, sia regionale che globale. Appagata dal possesso dell’arma atomica, e sicura al riparo della stessa, in sintesi secondo i più ottimisti l’Iran potrebbe sviluppare quelle capacità relazionali e negoziali che sino ad oggi sono spesso mancate nel rapporto con la gran parte dei paesi occidentali. Tale opzione garantirebbe anche una sorta di equilibrio interno nel complesso sistema istituzionale ed in quello della sicurezza nazionale, con l’agognata supremazia strategica da parte delle forze della Iranian Revolutionary Guard Corp sulle forze armate regolari e la capacità di un dialogo connotato da una evidente supremazia militare con i vicini della regione. Diametralmente opposto il giudizio di coloro che sostengono la necessità di impedire con ogni mezzo il raggiungimento di tale obiettivo da parte della Repubblica Islamica dell’Iran. Soprattutto i paesi confinanti con l’Iran, ed Israele in modo particolare, sarebbero esposti alla costante minaccia di un olocausto nucleare anche in funzione di una mera ritorsione nei confronto di un attacco o della concreta minaccia di una sostituzione istituzionale spalleggiata da forze straniere. Per gli scettici ed i pessimisti, dunque, l’odierno Iran non dispone di una struttura politica e militare adeguata alla gestione di ordigni di tale natura, imponendosi la necessità di impedirne la produzione con ogni mezzo. Nessuno escluso. Quello che in realtà sembra possibile determinare, in una più generale considerazione dei fatti, è la scarsa disponibilità a considerare come opportuno e logico lo sviluppo di una Repubblica Islamica dell’Iran dotata di armi nucleari. Una Repubblica non teocratica, al contrario, incontrerebbe quasi certamente il sostegno della gran parte dei paesi occidentali, alla ricerca da tempo di un baluardo per la sicurezza regionale, dove l’Iran potrebbe senza alcun dubbio rappresentare l’interlocutore privilegiato. I dubbi ed i timori, quindi, sono largamente concentrati non tanto sullo sviluppo e sul possesso di armi nucleari da parte dell’Iran, chiaramente considerandone l’effettivo utilizzo altamente improbabile, quanto sulla catena di comando della loro gestione. L’aspetto più critico, infatti, concerne proprio le possibilità di proliferazione, anche non autorizzata o sostenuta dalle autorità, in direzione di unità autonome ed esterne all’Iran, con il conseguente trasferimento di responsabilità sull’utilizzo di tali tecnologie o derivati a entità terze ed in alcun modo direttamente riconducibili all’Iran. Ben più complesso, infine, formulare ipotesi circa il futuro del programma nucleare iraniano nell’ambito della presidenza Ahmadinejad. In primo luogo è doveroso correggere una valutazione errata largamente diffusa dalla stampa nel corso degli ultimi mesi. La capacità decisionale del presidente circa lo sviluppo del progetto nucleare è limitata e quantomeno subordinata alla complessiva decisione della Guida e del Consiglio dei Guardiani. Attribuire quindi al presidente la facoltà unica ed assoluta di stabilire quale potrà essere l’esito dello sviluppo del programma stesso è un grossolano errore. Il presidente potrà quindi appoggiare ed avallare, come plausibile, le decisioni di tali organi senza tuttavia avere capacità alcuna circa una generale valutazione sulle stesse.

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Le scelte dell’Iran in merito al programma nucleare saranno fortemente condizionate nel prossimo futuro da alcuni fattori in particolare. Uno degli aspetti certamente fondamentali sarà quello squisitamente interno. Dopo anni di propaganda circa la necessità ed il diritto dell’Iran a disporre del nucleare, alimentata soprattutto durante la presidenza Khatami per indebolirne le capacità sotto il profilo del dialogo con l’estero, è oggi estremamente difficile che l’establishment arresti il programma dando addirittura l’impressione di cedere alle pressioni internazionali. Il nucleare, in sintesi, è stato largamente utilizzato anche come strumento politico all’interno del paese, in principal modo per dimostrare come, nonostante la presenza di un moderato alla presidenza – con Khatami – le decisioni strategiche vengano prese dalla Guida e dalla cerchia alta ed interna del potere. La retorica ed i conflitti di politica interna in Iran, assai frequenti ed evidenti soprattutto nel corso degli ultimi due anni, sono scarsamente seguiti e considerati all’esterno del paese. Con il risultato di non apprezzarne la valenza sotto il profilo politico ed attribuendo anzi spesso erroneamente a tali fattori anche una rilevanza esterna. In tal modo, quindi, logiche e dinamiche squisitamente locali e domestiche vengono impropriamente ricondotte a considerazioni di ordine generale ed internazionale, determinando la costante incapacità di comprendere la politica iraniana che di norma accomuna il giudizio della gran parte degli spettatori esterni. In sintesi, quindi, per l’abbandono del programma nucleare da parte dell’Iran – sempre che questa sia tra le ipotesi da prendere in considerazione – è necessario offrire la possibilità di una via d’uscita che consenta di presentare tale decisione all’opinione pubblica come una innegabile vittoria. Resta poi da chiarire quale sia, e soprattutto quale sarà, la rilevanza del contesto esterno. L’evidente fragilità della strategia europea, concentratasi da un lato al fianco della posizione espressa dal gruppo Francia-Germania-Gran Bretagna e dall’altro trincerandosi dietro una inquietante posizione di basso profilo e perdurante silenzio, ha palesemente dimostrato i suoi limiti nel corso dell’estate del 2005. L’Iran ha potuto sapientemente azzardare una politica estremamente aggressiva puntando ad aumentare la pressione internazionale nel momento presumibilmente più opportuno per elevare il livello delle condizioni poste sul tavolo negoziale. In tal modo cercherà di spingere gli Stati Uniti, certamente considerati come un interlocutore ben più concreto e risoluto, anche se non diretto, ad accettare de facto le reali richieste iraniane: la cessazione delle ostilità politiche e diplomatiche con l’Iran, l’abbandono dei tentativi di rovesciamento del regime – diretti od indiretti - lo sdoganamento internazionale e la rimozione dell’embargo. Ma, soprattutto, il riconoscimento di un ruolo autonomo di potenza regionale. Decisamente troppo, almeno al momento, per l’amministrazione americana. Anche se impegnati in una fase particolarmente complessa della crisi irachena, ed anche in concomitanza con una reale ed evidente crescita della rilevanza iraniana nell’Iraq meridionale, gli Stati Uniti non sono nella posizione di accettare richieste di tale portata. L’impasse è quindi un rischio certamente presente ed incombente, e l’ambiziosa quanto spregiudicata politica dell’Iran deve in questo momento – almeno secondo logica – cercare al più presto di puntare al compromesso. Pena, il rischio di una ben più complessa e pericolosa crisi, dalla quale l’interlocutore europeo sarebbe quasi certamente estromesso. In tutto questo il presidente Ahmadinejad avrà un ruolo non marginale ma nemmeno decisivo. In accordo ai poteri conferitigli dalla costituzione.

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CAPITOLO SECONDO PROFILO SOCIO-ECONOMICO E SVILUPPO DEL PROGRAMMA NUCLEARE 1. Evoluzione politica ed economica dal 1998 Profondi e significativi sono stati i cambiamenti nel sistema politico iraniano e nella sfera delle relazioni internazionali dopo il 2001. La seconda fase del mandato presidenziale di Mohammad Khatami è stata caratterizzata da una crescente e progressiva sfiducia popolare circa le reali capacità e possibilità del Presidente di operare le agognate trasformazioni istituzionali in seno alla Repubblica Islamica. Il governo ha cercato di consolidare la politica di apertura e progressiva distensione con l’Occidente anche nel secondo mandato presidenziale, sebbene entro i limiti imposti dal sistema di controllo politico del paese, sempre imperniati sul ruolo egemone della Guida, del Consiglio dei Guardiani e del Consiglio del Discernimento. Tra il 1998 ed il 2001 i ricavi derivanti dalla vendita di prodotti petroliferi sono diminuiti sensibilmente in funzione della generale tendenza al ribasso del mercato petrolifero e, non ultimo, di un decremento nell’interesse delle compagnie petrolifere straniere, in larga parte in conseguenza dell’immobilismo iraniano nel rivedere le formule contrattuali per le attività dell’upstream e del downstream. A tale fenomeno, l’Iran ha cercato di fornire adeguata risposta con la promulgazione nel 2002 della nuova legge per la protezione degli investimenti stranieri che, sebbene non di diretto interesse per la contrattualistica, ha comunque rappresentato un passo avanti nella politica di apertura del paese andando a sostituire la precedente normativa promulgata alla metà degli anni Cinquanta. In termini economici ed industriali, infine, anche il mandato di Khatami non riesce ad intervenire al cuore del problema con le adeguate misure di diversificazione industriale ed infrastrutturale largamente necessarie per assorbire una domanda di lavoro crescente. Secondo le stime fornite dallo stesso governo, l’Iran deve fronteggiare ogni anno una domanda – di trend crescente – pari a circa 7/800.000 nuovi posti di lavoro, a fronte di una capacità reale di poco inferiore alle 200.000 unità. Tutto ciò in un sistema caratterizzato da una popolazione in larghissima parte composta da giovani e con un sistema industriale, quello del petrolio, sempre meno capace di produrre nuova occupazione e, soprattutto, interessato a profili e specializzazione sempre più elitari. I fatti dell’11 settembre del 2001 colpiscono poi in modo particolarmente pesante gli interessi e l’immagine dell’Iran a livello internazionale. Sebbene storicamente antagonista rispetto ai Talebani d’Afghanistan ed al movimento noto col nome di Al-Qaeda, e nonostante l’aperta condanna per i fatti dell’11 settembre espressa dal Presidente Khatami all’indomani degli eventi, l’Iran viene citato dal presidente degli USA Gorge W. Bush Jr durante il discorso sullo Stato dell’Unione del febbraio 2002 – per certi versi inaspettatamente – come parte di un “asse del male”, insieme ad Iraq e Corea del Nord. L’isolamento internazionale di cui l’Iran è sempre stato oggetto dal 1979, si inasprisce considerevolmente quando il paese viene apertamente accusato dagli Stati Uniti di perseguire fini militari nell’ambito del progetto per la realizzazione di impianti per la produzione di energia nucleare nel paese. Dal 2002 in avanti la pressione degli USA sull’Iran aumenta costantemente, unitamente alla ricerca di consensi in ambito internazionale destinati a favorire la condanna del paese e l’ulteriore isolamento della Repubblica Islamica.

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Con l’attacco statunitense all’Iraq di Saddam Hussein nel marzo del 2003, l’Iran assume una posizione di moderata e cauta chiusura, accusando gli Stati Uniti di ingerenze eccessive nelle dinamiche politiche regionali e condannando apertamente l’intervento contro lo storico nemico. È questo l’inizio della parabola conclusiva del secondo mandato del Presidente Khatami. Già fortemente indebolito dalla costante azione delle forze conservatrici, ed ormai largamente inviso alla popolazione per la scarsa determinazione dimostrata nel perseguire il programma di riforme, il movimento riformista del Presidente Khatami viene pesantemente sconfitto alle elezioni parlamentari del marzo 2004, perdendo la maggioranza dei seggi e soprattutto la fiducia degli elettori. Le elezioni parlamentari, peraltro, dimostrano il rinnovato ed assoluto potere delle istituzioni direttamente sottoposte al controllo della Guida e degli organi a questa subordinati che, esercitando in modo alquanto arbitrario le norme per l’accettazione dei candidati alle elezioni, squalificano e delegittimano un gran numero di candidati riformisti. Alla sconfitta elettorale del marzo 2004 segue quella per le elezioni presidenziali del giugno 2005. In tale occasione, lo storico e favorito candidato ex Presidente Rafsanjani – abile uomo politico e pragmatico elemento del clero sciita – viene sconfitto al ballottaggio da un candidato largamente sconosciuto al di fuori dell’Iran sino ad allora, l’ex sindaco di Tehran Mahmood Ahmadinejad. Il nuovo Presidente conferma immediatamente la propria fama di radicale ed intransigente integralista, attuando una politica di profonde trasformazioni all’interno delle istituzioni, esasperando i toni della retorica di regime e, soprattutto, inasprendo il già critico rapporto con l’Occidente. Particolarmente gravi si dimostrano gli attacchi verbali contro lo Stato di Israele in occasione di una manifestazione pubblica, provocando le reazioni e le rimostranze di gran parte dei paesi del mondo ed innescando nuovamente una parabola critica nelle relazioni con gli Stati Uniti e l’Occidente in genere. Il programma nucleare iraniano diviene da allora il principale motivo di tensione e contrasto con gli Stati Uniti che, attraverso la mediazione di tre paesi europei – Gran Bretagna, Francia e Germania – cercano di disinnescare gli elementi critici di quella che ancor oggi sembra una imminente crisi potenzialmente destinata a sviluppare un nuovo focolaio nella regione del Golfo Persico. Nonostante il critico andamento della politica interna dal 2001 ad oggi, ed il crescente isolamento internazionale, l’Iran ha potuto largamente beneficiare nel corso degli ultimi cinque anni dell’incremento dei prezzi petroliferi su scala globale. I cospicui guadagni sono stati largamente utilizzati per compensare il decremento dei volumi delle casse pubbliche generato nel corso dell’ultimo decennio e, in misura minore, per incrementare il tradizionale sistema di compensazione per l’occupazione attraverso il sostegno a favore dell’offerta nel settore pubblico. Non sono peraltro venuti meno, nel corso degli ultimi cinque anni, gli investimenti effettuati da parte dei principali paesi europei che, anzi, in alcuni casi hanno addirittura incrementato il proprio volume d’affari e l’interscambio con l’Iran. Sotto la nuova presidenza di Ahmadinejad, infine, l’Iran si è detto pronto e favorevole allo sviluppo di nuovi e più proficui assi di collaborazione in direzione dell’Asia orientale, dell’America Latina e del subcontinente indiano. Aree sempre più interessate dalla crescita nei valori della domanda di idrocarburi e, di conseguenza, particolarmente interessate allo sviluppo di nuove relazioni commerciali atte a garantire la sicurezza e la continuità degli approvvigionamenti. Cina ed India soprattutto, quindi, si affacciano potenzialmente quali interlocutori privilegiati del futuro con l’Iran, parallelamente agli storici partner europei ed alla Russia, impegnata quest’ultima anche nel concreto sviluppo del programma nucleare locale.

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2. La società iraniana, tra religione e Stato 2.1 Gruppi etnici e distribuzione sul territorio La moderna società iraniana è composta da un eterogeneo sistema di gruppi etnici e religiosi suddivisi in modo sempre più sproporzionato tra popolazione urbana e rurale. La tradizionale composizione a maggioranza rurale è venuta meno con le grandi riforme – ampiamente fallite – attuate dall’ultimo Scià Mohammad Reza Pahlavi, il cui reale risultato è stato quello di provocare forti squilibri economici e territoriali nelle aree agricole con il conseguente massiccio spostamento della popolazione in direzione delle sempre più grandi città. I gruppi etnici non persiani, in totale rappresentano circa il 45-49% dell’intera popolazione iraniana, e sono ubicati disomogeneamente sul territorio. Ciò nonostante, a parte sporadici episodi, l’Iran non ha mai dovuto affrontare nel corso del Novecento movimenti separatisti interni, nemmeno in situazioni gravi come la prima guerra del Golfo contro l’Iraq. Al contrario, la frammentazione etnica ha giocato un ruolo di secondo piano di fronte alla relativa omogeneità religiosa (lo sciismo raccoglie il 90% della popolazione iraniana). Inoltre, il richiamo all’elemento nazionalista ha esercitato un impatto decisivo nella storia iraniana agendo da collante tra le diverse componenti etniche. Geograficamente situato all’incrocio tra diverse civiltà, nel corso della storia l’Iran si è trovato interessato da consistenti movimenti migratori ed invasioni che lo rendono oggi una terra composita ed etnicamente frammentata. Oltre ai gruppi nomadi, i due principali filoni etnici derivano dai ceppi indoeuropeo e turco-altaico. La lingua ufficiale è il Persiano (Farsi), anch’esso di origine indoeuropea, mentre il paese è diviso in 30 province ad ognuna delle quali corrisponde una specifica caratterizzazione etnica. La maggioranza della popolazione oggi discende dal ceppo indoeuropeo degli iranici o ariani, il cui principale gruppo etnico è quello dei persiani (51%). Questi occupano le regioni centrali del paese: in particolare, le province di Teheran, di Isfahan, il Fars (dove sorge l’antica capitale della Persia, Shiraz), il Khorasan, e le province di Kerman e di Yadz. Altri gruppi di origine indoeuropea sono: gli Armeni, i Beluci, i Curdi, i Lur, e i Bakhtiari. La minoranza armena, notevolmente ridotta dopo la rivoluzione del 1979, è oggi formata da circa 200.000 unità residenti prevalentemente nelle aree urbane di Teheran e Isfahan. I Beluci corrispondono al 2% della popolazione e si trovano prevalentemente nella provincia del Sistan e Baluchestan al confine orientale con il Pakistan, il quale ospita anch’esso una consistente minoranza beluca. Per quanto riguarda i Curdi, questi sono circa 5 milioni (circa il 7%) e risiedono nelle province occidentali al confine con l’Iraq e la Turchia (Azerbaijan-e-Gharbi, Khordestan, Kermanshah). I Lur e i Bakhtiari appartengono invece a gruppi tribali. I primi corrispondono circa al 3% della popolazione iraniana e risiedono principalmente nella provincia occidentale del Luristan. I Bakhtiari sono da parte loro un gruppo semi-nomade; stimato intorno al milione di unità, risiedono non uniformemente nelle regioni sud-occidentali del paese. Inoltre, degni di nota sono le minoranze etniche di ceppo indoeuropeo dei Gilaki e Mazandarani che corrispondono circa all’8% della popolazione. Sono stanziati nelle regioni settentrionali che affacciano sul Mar Caspio (Gilan e Mazandaran). In secondo luogo, i gruppi di lingua turca (di origine turco-altaica) comprendono principalmente tre etnie: quella degli Azeri, i Turcomanni, e i gruppi nomadi Kashkai. Gli Azeri corrispondono circa al 24% della popolazione e rappresentano la minoranza etnica più consistente. Nelle province nord-occidentali (Azerbaijan occidentale e orientale, Ardabil, Zanjan, e Qazvin) l’etnia azera è maggioranza; inoltre, ampie comunità sono presenti anche a Teheran e nella provincia del Fars. I Turcomanni sono, invece, il 2% circa della popolazione e sono composti da numerose tribù semi-nomadi. Sono concentrati ad est del Mar Caspio nelle province del Golestan e Khorasan settentrionale, entrambe ai confini con il Turkmenistan.

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Infine, vi è una consistente minoranza etnica di Arabi (3%). Questi risiedono principalmente nel Golfo Persico, specialmente nella provincia del Khuzestan al confine con l’Iraq, e in quella del Hormozgan (che si affaccia sullo stretto di Hormuz). 2.2 Religione e società Secondo la Costituzione iraniana del 1979, le uniche religioni ammesse dallo Stato sono l’Islam, il Cristianesimo, l’Ebraismo, e lo Zoroastrismo. La confessione sciita della religione islamica è inoltre la religione ufficiale dello Stato. Questa abbraccia oltre il 90% della popolazione iraniana nonostante nell’intero mondo musulmano gli sciiti siano meno del 10%. Lo sciismo fu imposto come religione di Stato in Persia nel 1501 da Ismail, primo Scià della dinastia Safavide. Lo scisma tra sunniti e sciiti si verificò pochi anni dopo la morte di Maometto, nel 661 quando il genero del Profeta, Alì, venne assassinato. Da questo momento vi fu una spaccatura relativa all’attribuzione dell’autorità politica e religiosa: gli sciiti ritengono che la discendenza di sangue di Maometto sia l’unica legittima e atta a governare la comunità dei fedeli (umma), mentre i sunniti la riservano ai compagni del Profeta. L’orientamento sciita afferma inoltre la continuità dei discendenti nella funzione d’intermediazione tra Dio e l’uomo, che invece i sunniti ritengono esaurita con la morte del Profeta. Gli sciiti conieranno il termine di Imam (“colui che primeggia nella fede”) per designare i discendenti di Maometto. Lo sciismo col tempo assegnerà all’Imam il ruolo di leadership indiscussa nell’interpretazione della Parola di Maometto e nell’esercitazione dell’autorità politica: è da questa disposizione che deriva il particolare legame tra politica e religione affermato dagli sciiti. In particolare, lo sciismo duodecimano (praticato in Iran) afferma l’esistenza di 12 Imam. Il dodicesimo di questi, il Mahdi, è latitante dall’878 ed è atteso nel giorno del trionfo definitivo dello sciismo. La confessione sunnita abbraccia, invece, il 9% della popolazione. In particolare, il sunnismo è predominante tra le popolazioni arabe situate nelle zone sud-occidentali che si affacciano sul Golfo Persico, ma è diffuso anche tra i Beluci e i Turcomanni. Le altre religioni monoteiste, ebraismo e cristianesimo, pur riconosciute dalla costituzione Islamica del 1979 hanno visto progressivamente diminuire i propri aderenti a causa di forti emigrazioni avvenute proprio dopo l’avvento della Repubblica Islamica. I due gruppi etnici cristiani più rappresentativi sono gli Armeni e gli Assiri (anche se insieme non superano le 300.000 unità), concentrati soprattutto nelle città di Teheran e Isfahan. Per quanto riguarda la minoranza ebraica, essa conta tra i 20.000 e i 30.000 aderenti concentrati anch’essi a Teheran, Isfahan e Hamedan. La costituzione, inoltre, riserva loro un seggio al Majlis. Le altre minoranze etno-religiose che godono di tale diritto sono: gli Armeni (2 seggi), gli Assiri e i Zoroastriani (un seggio ciascuno). Quest’ultimo vanta una storia millenaria in Iran essendo stata religione ufficiale fino alla conquista araba. Oggi, la minoranza zoroastriana ha tra i 22.000 e i 30.000 membri, mentre il suo centro spirituale si trova presso la città di Yazd, con sparuti gruppi a Shiraz e Kerman. In conclusione, aldilà del riconoscimento dei pieni diritti di culto da parte della costituzione e nonostante i diritti politici acquisiti, le minoranze religiose sono vittime di discriminazioni in termini di occupazione. A nessun cittadino iraniano non-sciita, infatti, è concesso di accedere ad incarichi rilevanti e di prestigio all’interno delle strutture pubbliche. 2.3 Popolazione urbana e rurale nel moderno Iran Accanto alle due dimensioni etnica e religiosa, le quali soprattutto nel caso di quella etnica presentano una realtà tutt’altro che omogenea, si pone il fenomeno della divisione netta tra realtà urbana e realtà rurale. Secondo le stime del 2005, in Iran la popolazione rurale ammonta ad un terzo del totale (68 milioni). Rispetto al 1976, quando solo il 47% della popolazione risiedeva in complessi urbani, il fenomeno dell’inurbamento è cresciuto a livelli costanti. Il 30% della forza-lavoro (stimata in oltre

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23 milioni) è occupato nel settore agricolo, il cui peso all’interno del PIL è pari solo al 11,8%. All’interno di questo le tre attività più rilevanti sono la pastorizia, l’agricoltura, e l’artigianato. Ciò che qui preme sottolineare è il fatto che una così forte polarizzazione tra attività urbane e rurali accompagnato da una estrema frammentazione etnica indurrebbe a pensare che fenomeni di separatismo siano frequenti o che per lo meno nelle realtà extra-urbane sia radicata una profonda componente anti-sociale ed anti-statale. In realtà, la partecipazione politica da parte dei ceti rurali è sempre stata limitata. Esistono evidenti differenze e forti squilibri tra la popolazione urbana e quella rurale. Quest’ultima ha partecipato sempre marginalmente alla vita politica ed economica del paese, continuando a mantenere saldamente la propria identità ed un connotato essenzialmente agricolo e provinciale. Solo sparuti gruppi tra le minoranze etniche hanno manifestato nel corso degli anni una volontà ed una capacità autonoma di confronto con le autorità politiche dello Stato, sporadicamente ricorrendo anche all’uso della violenza soprattutto attraverso attentati o atti dimostrativi di limitata portata. La gran parte di questi eventi ha tuttavia avuto sempre un effetto marginale sulla vita del paese, ed il più delle volte sono stati i media stranieri ad attribuire importanza a tali occorrenze, con l’intento di dimostrare la sussistenza di una capacità e volontà antagonista alla Repubblica Islamica. Si è sempre trattato perlopiù di limitati ed isolati atti contro le forze di polizia od i rappresentanti del governo centrale, ed è senza dubbio opportuno segnalare la presenza di tali fenomeni anche in epoca pre-rivoluzionaria. Certamente differente e più complessa la condizione della società nelle aree urbane. Tehran è stata trasformata suo malgrado nel corso di mezzo secolo da pittoresca cittadina in grande megalopoli, con evidenti mancanze sotto i profilo della programmazione e dell’urbanistica. Soprattutto le aree meridionali della città (sino all’epoca della rivoluzione in larga misura composte di baracche e prefabbricati) sono divenute il collettore della nuova povertà urbana e del sostegno alla classe dirigente rivoluzionaria, che di tale contesto era in larga parte espressione. La Repubblica Islamica ha senza dubbio saputo offrire alle grandi masse riversatesi nelle città quantomeno la dignità di un alloggio e di un sistema di assistenza, entrambi obiettivi in larga misura mancati dalle politiche modernizzatici dello Scià. Lo Stato si è lentamente trasformato nei ventisei anni di Repubblica Islamica in unico reale punto di riferimento per la società iraniana. La nazionalizzazione delle imprese e delle proprietà reali comportò l’attribuzione pressoché di ogni prerogativa economica alle nuove autorità rivoluzionarie, e da queste alle istituzioni della Repubblica Islamica. Nonostante la creazione di un sistema di controllo oligarchico strutturato su una complessa matrice fatta di fondazioni, ministeri, enti ed organizzazioni, religiose e non, e la presenza di una forma di controllo del potere da parte di una ristretta elite, la struttura politica e sociale dell’Iran ha saputo cementificare il rapporto tra Stato e cittadino attraverso la creazione di un insostituibile rapporto di subordinazione tra i due. Lo Stato, quindi, risulta essere non solo il motore ed il finanziatore dell’economia nazionale ma anche, e soprattutto, il referente diretto ed indiretto di qualsiasi posizione professionale. Sia imprenditoriale che nell’ambito del lavoro subordinato. È questa la ragione che, in larga misura, ha sempre altamente frenato qualsiasi impeto neorivoluzionario nel paese. Lo Stato, nonostante una evidente concezione negativa ed antagonista, è tuttavia l’unica reale sorgente del sostentamento per la società, detenendo saldamente le redini del sistema politico, ma soprattutto economico. L’esperienza del collasso iracheno non ha che avvalorato la posizione di coloro che sostengono la necessità di un cambiamento graduale ed incruento, suggerendo l’impraticabilità – ed anzi spesso il rischio – di una politica di scontro frontale con le istituzioni. La società urbana, poi, è fatta anche e soprattutto di grandi disparità sociali. Le ristrette elite dei quartieri residenziali, un tempo borghi periferici oggi inglobati nelle città, vivono quasi

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esclusivamente isolate nell’ambito delle aree di loro pertinenza e gradimento, conducendo spesso un tenore ed una qualità di vita simile a quella dei principali paesi occidentali, e per questo influenzando largamente gli sparuti visitatori stranieri che con tali ceti hanno le maggiori occasioni di incontro e relazione. Simile, ma su presupposti diametralmente opposti, l’attitudine delle nuove giovani generazioni del ceto medio. Decisamente insoddisfatti di quanto offerto e concesso nel rigore della Repubblica Islamica, i giovani dei ceti medi cercano ed auspicano il cambiamento attraverso il confronto culturale e caratteriale. Vestono abiti spesso ritenuti immorali dai circoli più conservatori (si tratta in realtà di normali capi di abbigliamento di foggia e moda giovanile), adottano un comportamento ed un lessico moderno ed assolutamente estraneo e distante dalla retorica islamica e rivoluzionaria, consci del dover condurre tale battaglia con la costanza e non con l’impeto di una nuova rivoluzione. Sono fatalisti, in larga misura contrari alla Repubblica islamica, ma consapevoli di non disporre di reali alternative se non quelle di una trasformazione progressiva ed incruenta del sistema. Hanno visto fallire sotto i loro occhi il tentativo della protesta studentesca e sanno di non poter contare sull’appoggio di nessuno, né sulla generazione dei loro genitori, né sulle forze accidentalmente definite riformiste, né su forze esterne al paese (iraniane e non). Decisamente disillusa e politicamente ormai apatica la gran parte di quella porzione di società che ha personalmente partecipato alla rivoluzione, e che considera oggi la stessa un esperimento fallito in quanto degenerato nella dittatura. Molti di loro sono stati membri o simpatizzanti delle disciolte forze della sinistra storica iraniana, principalmente l’ex partito comunista Tudeh, i marxisti del Fedayan-e Khalg e gli islamico-marxisti del Mojahedin-e Khalg. Ma alcuni di loro provengono anche dalle fila dei movimenti religiosi e nazionalisti. Molti hanno creduto nel riformismo di Khatami, si sono impegnati direttamente od indirettamente per sostenerlo e ne hanno più volte determinato il successo partecipando massicciamente in ogni tornata elettorale. Anche tra le fila dei Pasdaran sono numerosi quelli di questa generazione e coloro che hanno sostenuto il riformismo, come appurarono le stesse autorità all’atto dello spoglio delle schede. Ma il riformismo è stata anche l’ulteriore, e forse ancor più cocente sconfitta di questa generazione, dimostrando l’inutilità di ogni sforzo democratico e relegando nuovamente la gran parte di questo segmento di popolazione nell’oblio e nel disinteresse per la politica. Sia attiva che passiva, come ampiamente dimostrato dall’elevato astensionismo che ha caratterizzato gli ultimi due più importanti appuntamenti elettorali del paese, le elezioni parlamentari del 2004 e le presidenziali del 2005. A questi, nella medesima fascia generazionale, si contrappongono poi gli esponenti, sinceri e non, della necessità del pieno sostegno alle autorità ed al programma della Repubblica Islamica. La gran parte di questa fascia è direttamente e strettamente connessa per ragioni professionali o personali alle istituzioni ed allo Stato in genere. Non rade la barba, veste in modo trascurato, come il sistema richiede nel rispetto dei principi islamici, rispetta rigorosamente il divieto non scritto ad indossare la cravatta, utilizza spesso camicie con i colletti alla coreana (vero simbolo dell’abbigliamento islamico maschile in Iran), è osservante soprattutto nelle occasioni programmate – come la funzione del venerdì all’Università – ed apertamente manifesta platealmente il proprio convincimento circa la necessità di sostenere ogni possibile sforzo delle istituzioni. Parte di questo segmento e sinceramente leale al sistema ed allo Stato, otreché convinto della bontà del programma della Repubblica Islamica. Per il resto si tratta invece in larga misura di opportunismo, e della necessità di dimostrare lealtà ed impegno alle istituzioni anche attraverso l’apparenza, il costume e la parola. È tuttavia in questa porzione di società che si possono individuare gli esponenti più radicali, e soprattutto quelli maggiormente legati ai centri direzionali dell’elite e dell’oligarchia. Si tratta della base di un sistema clientelare – in tutto e per tutto simile a quello di qualsiasi omologo contesto occidentale – ampiamente radicato, fedele e collaudato. È il segmento che, a latere del burocrate e del funzionario di sistema, ingloba anche la milizia vera e propria ed il sistema di vertice per la

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gestione della sicurezza e dell’informazione. Un sistema, quindi, fortemente permeato anche da ambiti decisamente trasversali, come quelli delle forze militari dei Guardiani della Rivoluzione, delle milizie paramilitari irregolari di vigilanza di Ansar-e Hezbollah, dell’intelligence tradizionale, di quella del Ministero di Giustizia e di ogni altro centro del potere della Repubblica Islamica. In conclusione, l’affermazione ricorrente secondo la quale la società iraniana è spiccatamente pro-occidentale ed emancipata, quindi, è in larga misura errata e frutto di una parziale ed approssimativa valutazione. Spesso frutto delle cronache giornalistiche da sempre alla ricerca di un punto di contatto con una società non araba e manifestamente differente dalla gran parte delle altre società del Medio oriente. Appare probabilmente più opportuno presentare e sottolineare come la società iraniana sia invece complessa ed estremamente sofisticata, con atteggiamenti, comportamenti e gusti a volte simili a quelli occidentali, ma decisamente e squisitamente persiana come tradizioni, carattere e concezione della società, dello Stato e della religione. Fortemente tradizionaliste, infatti, sono ancor oggi la gran parte delle famiglie iraniane di ogni censo ed istruzione, così come decisamente religiose e parzialmente osservanti – sebbene in modi e forme decisamente differenti da quelli forzatamente ostentati dalle autorità e ripresi dalla stampa straniera. Il principale elemento caratterizzante della società iraniana, infine, è da sempre riconoscibile nello spiccato nazionalismo e nella manifesta e plateale comunicazione di tale sentimento. Soprattutto in presenza di stranieri o laddove questo possa sostenere la causa della nazione iraniana a difesa dell’onore e della dignità del paese. Nell’ambito di una sentita e diffusa esigenza di cambiamento, tuttavia, la società iraniana non appare né interessata né illusa dalla possibilità di una mutazione repentina e radicale. Il potenziale collasso delle istituzioni, e di tutto ciò che a queste è direttamente connesso in termini di impiego, stabilità, assistenza e sicurezza, viene percepito dalla gran parte delle popolazione come un rischio ben maggiore e di più grave entità rispetto alla continuità, ed all’impegno per una graduale trasformazione della Repubblica Islamica in direzione di una differente e meno rigida forma di democrazia locale. Parimenti viene apertamente condannata e rifiutata ogni ipotesi di cambiamento attraverso il ricorso all’uso della forza da parte di attori non iraniani, con esplicito riferimento al fatto che un’azione militare statunitense provocherebbe probabilmente più umiliazione e malcontento che non una sollevazione popolare contro i vertici della Repubblica Islamica. Il modello culturale ed i valori – almeno quelli localmente percepiti – del modello americano, trovano senz’altro spazio e gradimento nella enorme gioventù iraniana. Questo, tuttavia, entro i limiti dell’ingerenza e del rispetto della particolare e ben radicata tradizione locale. 3. Il programma nucleare: quarant’anni di incertezza, tra politica energetica e politica strategica Il programma nucleare iraniano venne ufficialmente avviato nel 1967 durante il regno dello Scià Mohammad Reza Pahlavi. Concepito e sviluppato inizialmente come progetto per usi civili nel periodo in cui il sovrano era all’apice del potere, verso la fine degli anni Settanta la concezione d’uso dell’energia nucleare venne gradualmente ad assumere una valenza di tipo strategico, quale strumento di deterrenza della politica regionale dello Scià. Interrotto nel 1979 successivamente alla rivoluzione, il programma nucleare conobbe un periodo relativamente prolungato di stasi sino alla metà degli anni ’80, quando la Repubblica Islamica iniziò nuovamente ad individuare sul mercato internazionale conctractor disponibili per la ripresa dei lavori.

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Il progressivo interesse degli Stati Uniti in direzione dello sviluppo di capacità nucleari da parte dell’Iran si inserisce oggi in un più articolato contesto di politica regionale ed internazionale dove sono coinvolti attori terzi, come la Russia ed Israele, ed altri ambiti assai sensibili. Non ultimo quello dell’avvenuta sperimentazione in Iran di vettori balistici a medio raggio inseriti in un programma di ben più ampia portata. 3.1 Lo sviluppo del nucleare in Iran dallo Scià alla rivoluzione Il primo passo ufficiale dell’Iran nel settore dell’energia atomica è costituito dal trattato di cooperazione per lo sviluppo civile di settore, siglato con gli Stati Uniti nel 1957. Tale atto, inserito nel più generale contesto dello US Atoms for Peace Program, prevedeva l’elaborazione di un piano di assistenza tecnica e di cooperazione con l’Iran ed il trasferimento di alcuni chilogrammi di uranio arricchito per l’attivazione di un centro di studi universitario. Lo stesso anno l’Istituto di Scienze Nucleari del CENTO (Central Treaty Organization) veniva spostato da Baghdad a Tehran, dietro forti pressioni dello Scià. Verso la metà del 1959 vennero avviati i lavori per la realizzazione di un complesso di ricerca universitario presso la struttura dell’Amiramabad Technical College dell’Univesità di Tehran, e l’anno successivo viene formalizzato un ordine negli Stati Uniti per l’acquisto di un reattore sperimentale da 5 megawatt. Gli Stati Uniti ritengono che l’Iran possa progressivamente trasformarsi in un importante baluardo filo-americano della regione cui, unitamente ad Israele, affidare il compito del mantenimento dei difficili equilibri della regione e al tempo stesso costituire un perno di sicurezza per il contenimento delle mire sovietica nell’area del Golfo Persico. Nel dicembre del 1960 i vertici della difesa USA ventilano addirittura l’ipotesi di poter trasferire, seppur sotto comando americano, armi nucleari in Iran e stormi di bombardieri in stazionamento permanente. Già nel febbraio del 1961, però, la Segreteria di Stato si oppone decisamente a tale proposta sottolineando la natura dei molteplici rischi di un eccessivo e frazionato dislocamento di tali ordigni, soprattutto in aree dove ufficialmente venivano avviati progetti di proliferazione. L’avvio ufficiale del programma nucleare iraniano risale al 1967 quando, nel mese di novembre, viene consegnato il reattore sperimentale da 5 megawatt per il complesso universitario di Tehran, presso il Nuclear Research Center dell’Amirabad Technical College. Già nel precedente mese di settembre gli Stati Uniti avevano provveduto a trasferire in Iran 5.545 chilogrammi di uranio arricchito per uil funzionamento del reattore, oltre a 112 chilogrammi di plutonio. L’impianto, di tipo a vasca e idromoderato, presentò problemi di funzionamento e di gestione sin dapprincipio, richiedendo il continuo intervento della società fornitrice GA Technologies. Il grado di insoddisfazione iraniano per l’impianto raggiunse un livello tale da costringere i vertici universitari a siglare un accordo con il francese Commissariat a l’Energie Atomique nel marzio del 1969 per le necessarie riparazioni e modifiche. L’installazione di un impianto sperimentale, tuttavia, permise l’avvio di un poderoso programma di ricerche che, nella sostanza, sarebbe entrato nella sua fase operativa quasi dieci anni più tardi. I pochi ingegneri e fisici iraniani addetti alla sperimentazione presso il complesso di Amirabad, infatti, erano l’avanguardia di quel folto gruppo di studenti che, nel corso di tutti gli anni Settanta, avrebbero studiato negli Stati Uniti ed in Europa con la prospettiva di sviluppare un importante polo iraniano di scienziati di settore. Il ritorno dei primi ingegneri nucleari in Iran fornì ad un sovrano all’apice del suo potere la dimensione energetica e strategica di una risorsa che nei primi anni Settanta veniva universalmente considerata come la nuova frontiera del progresso e dello sviluppo economico del pianeta. L’amministrazione USA, sotto la presidenza Nixon, aveva espressamente previsto il divieto di forniture nucleari belliche al paese, in funzione invece di una disponibilità senza limiti nel settore degli armamenti tradizionali. Ciononostante la politica americana di supporto al programma di

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sviluppo atomico iraniano non fu in alcun modo ostacolata sotto il profilo industriale, di fatto aprendo la strada per l’acquisizione in tempi brevi del necessario know-how anche in ambito militare. Assai complessa e particolare l’analisi della valutazione strategica ed economica dello Scià negli anni Settanta. Il sovrano, infatti, nonostante la dichiarata e palese alleanza con gli Stati Uniti, adoperava il proprio status di paese non-allineato e la circostanza di una estesa esposizione territoriale di confine con l’Unione Sovietica, come motivazione per la necessità di perseguire non solo un proprio indipendente programma strategico regionale ma, al contempo, un contesto di relazioni con la stessa URSS anche in campo militare. La latente conflittualità con Israele, con i paesi arabi della regione (soprattutto Iraq, Arabia Saudita ed Egitto) e con altri Stati del subcontinente indiano, costituiva di fatto il risultato di una politica indipendente da parte di uno Stato che, per espressa ammissione del suo sovrano, si considerava quale elemento estraneo in un contesto ostile. Tale politica permetteva peraltro allo Scià di esercitare pressioni sull’amministrazione USA in funzione della protezione di un baluardo destinato alla tutela degli interessi occidentali in Medio Oriente e destinato a fungere da perno meridionale del sistema di contenimento sovietico. In tale quadro, quindi, appare chiaro come la politica di sviluppo nucleare dello Scià fosse stata concepita per il mantenimento di uno status strategico che già allora appariva incerto quale conseguenza dei segreti, ma al tempo stesso ben noti, programmi di sviluppo israeliani, irakeni, pakistani e indiani. Altrettanto evidente il fatto che gli Stati Uniti, nonostante l’impossibilità soprattutto sul piano politico di fornire direttamente armi nucleari all’Iran, ben conoscessero il programma dello Scià e nulla fecero per ostacolarlo, nella piena consapevolezza del suo rapporto tra rischi e benefici secondo il metro di calcolo tipico del periodo della Guerra Fredda. A riprova di ciò basti ricordare la proroga decennale degli accordi del 1957 concessa all’Iran nel marzo del 1969, nell’ambito di un programma che non ha mai conosciuto interruzioni sino al febbraio del 1979, e l’esposizione ufficiale della Segreteria di Stato USA per lo sviluppo di un programma di collaborazione in una nota ufficiale dell’11 aprile del 1974. Il primo luglio del 1968 l’Iran siglò ufficialmente il Nuclear Non-Proliferation Treaty (NPT), ratificandolo poi il 2 febbraio del 1970. Nei primi anni Settanta, quindi, l’Iran avviò operativamente il programma di sviluppo delle centrali, determinando un sistema di relazioni con i paesi tecnologicamente più avanzati nel settore ed aderendo al contempo al sistema internazionale della ricerca e della prevenzione. Nel 1972 lo Scià incaricò il Ministro dell’Acqua e dell’Energia di definire il piano dello sviluppo nucleare del paese, annunciando al tempo stesso la volontà di dotare il paese di centrali nucleari entro un lasso di tempo considerevolmente breve. In questo periodo il sovrano inizia a sviluppare una fitta rete parallela di contatti non ufficiali con paesi non allineati per lo sviluppo dell’energia nucleare. Tale politica, peraltro ben nota agli Stati Uniti, mirava a diversificare il rapporto di trasferimento del know-how per non creare in futuro una eccessiva dipendenza dagli USA o dall’Europa, gestendo al tempo stesso il rapporto di forza nella compagine dei paesi non-allineati. A tal proposito può essere ricordato il comunicato ufficiale del 1974 con il quale l’Iran annunciava un piano di collaborazione regionale nel settore dell’energia nucleare con l’India di Indira Ghandi, o gli scambi di lettere con il governo argentino per la stesura di un accordo quadro di collaborazione. Nel 1974 venne costituita la Atomic Energy Organization of Iran, presieduta dal fisico nucleare Akbar Etemad, alla quale venne affidato il compito della programmazione, della ricerca e dello sviluppo nucleare locale secondo un piano destinato a realizzare venti centrali (con ulteriori tre in opzione) entro il termine di venti anni.

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Lo stesso anno, grazie anche un budget preliminare di esercizio di oltre 30 milioni di dollari, vennero siglati i primi quattro contratti per la realizzazione di altrettante centrali a Bushir, Karun, Isfahan e Shiraz. Il primo di questi contratti venne siglato a Parigi durante la visita ufficiale dello Scià in Francia nel giugno del 1974, con la previsione di realizzare una centrale da 1.000 megawatt a Karun, un rapporto di fornitura costante di uranio ed una struttura di ricerca in Iran. L’Iran acquistò anche per 1 miliardo di dollari il 10% azionario della Eurodif, consorzio europeo per l’arricchimento dell’uranio gestito dal Commissariat a l’Energie Atomique, con il chiaro intento di poter disporre di sufficiente autonomia in futuro per il perseguimento dei propri progetti. Lo stesso mese di giugno l’Iran siglò anche l’accordo preliminare con gli Stati Uniti per la realizzazione di due impianti nucleari e per la somministrazione di uranio arricchito, oltre ad un programma quadro per la fornitura di tecnologie e propellenti. Nel mese di novembre, infine, vennero siglati altri due importanti contratti. Uno con la tedesca Kraft Werk per la realizzazione della centrale di Bushir con due reattori ad acqua pressurizzata da 1.200 megawatt, ed un altro con la francese Framatome per la realizzazione della centrale a due reattori da 900 megawatt (su licenza Westinghouse) di Bandar Abbas. I contratti prevedevano entrambi la fornitura del materiale fissile per l’attivazione, la creazione di un centro di supporto e la disponibilità per ulteriori dieci anni nella fornitura dell’uranio. Nel 1975 vennero avviati i lavori per la costruzione centrale di Bushir (una centrale a due unità di notevoli dimensioni da realizzarsi ad opera di una società tedesca) e per quella di Karun (anche in questo caso si trattava di una centrale a due unità da realizzarsi ad opera di una società francese). Nello stesso anno venne impostata la realizzazione di un centro sperimentale di supporto industriale nucleare ad Isfahan, allo scopo di poter gradualmente provvedere in loco alle future necessità del programma. Già dal 1973, in seguito alle crescenti preoccupazioni del governo israeliano ed all’imbarazzo dell’amministrazione USA circa il problema dell’articolato programma di sviluppo dell’industria nucleare iraniana, lo Scià si premurò di comunicare ufficialmente come l’Iran intendesse perseguire solo ed esclusivamente programmi ad uso civile per svincolare quote di petrolio dal consumo nazionale in direzione dell’export. In tale quadro, inoltre, il progetto era orientato ad incrementare il livello di indipendenza e diversificazione industriale del paese ed in accordo con il generale ed ambizioso, quanto difficilmente realizzabile, piano generale di sviluppo del paese. Il repentino crollo del sistema monarchico ed il successivo esilio dello Scià nel febbraio del 1979 arrestarono inesorabilmente il programma nucleare iraniano, con una sola centrale (quella di Bushir) ad uno stadio di completamento di poco inferiore all’80% ed una moltitudine di centri di medio/piccole dimensioni ufficialmente gestiti dalla ricerca scientifica universitaria. 3.2 Dalla rivoluzione alla presidenza Khatami I vertici politici ed istituzionali della neonata Repubblica Islamica dell’Iran non poterono inizialmente assegnare alcuna priorità al programma nucleare per due ragioni. In primo luogo era drasticamente venuta meno la sfera di cooperazione internazionale con i paesi occidentali, in costanza di un quadro locale in alcun modo pronto per una gestione autonoma del piano di sviluppo nucleare. Era poi decisamente mutata la capacità finanziaria del nuovo Iran, colpita non solo dagli effetti della prolungata situazione di crisi connessa alla rivoluzione ma anche dal risultato della politica energetica globale successivamente alla crisi del 1973. La crescente produzione locale nord americana ed europea, unitamente ad una diffusa ostilità dei paesi consumatori nei confronti dei paesi OPEC, aveva generato un sistema di controtendenza nel settore petrolifero con un decremento dei volumi di export soprattutto dall’area del Golfo Persico e con una contestuale drastica riduzione dei profitti da questi derivanti.

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Il bilancio nazionale della Repubblica Islamica, quindi, dovette fronteggiare con immediatezza problemi di ordine pratico ben più rilevanti dell’ambizioso piano nucleare, con il contestuale arresto dello stesso. Non ultimo influì sul bilancio dello Stato lo scoppio delle ostilità con l’Iraq nel 1980, per il quale l’Iran dovette impegnare gran parte delle proprie disponibilità finanziarie in valuta pregiata per il reperimento di armi ed armamenti sul mercato parallelo. Diversi analisti e studiosi del sistema iraniano hanno dato risalto in più occasioni verso la metà degli anni Novanta alla presunta volontà dell’Ayatollah Khomeini di non voler dare seguito al progetto nucleare (unitamente a quello delle armi batteriologiche e chimiche) in quanto ritenuto immorale e contrario ai principi islamici. In realtà è lecito ritenere che l’arresto del programma fu condizionato essenzialmente da problemi di ordine economico e tecnologico, con scarso rilievo per questioni di ordine morale ed ideologico. Già tra il 1983 ed il 1984, infatti, il governo iraniano cercò in più occasioni di ristabilire relazioni industriali con paesi in grado di poter fornire un utile apporto alla ripresa delle attività di settore, orientandosi principalmente in direzione di collaborazioni con l’India, l’Argentina, la Cina e la Repubblica Federale di Germania. L’Iran post rivoluzionario era inoltre fortemente preoccupato per gli sviluppi del programma nucleare iracheno che, grazie alla collaborazione con i francesi, stava realizzando un impianto bi-turbina ad Osirek. Un fatto poco noto a tal proposito è quello relativo ad una prima incursione iraniana sul sito di Osirek nel settembre del 1980. Con una capacità della propria aeronautica ridotta virtualmente a zero all’inizio del conflitto, gli iraniani riuscirono comunque a far penetrare uno stormo di F-4 Phantom e di RF-4F in territorio iracheno colpendo, seppur in modo lieve, l’impianto. Solo l’anno successivo nel mese di giugno l’impianto fu definitivamente distrutto grazie ad una incursione israeliana. Quando alla fine del 1983 l’Iran annunciò pubblicamente di aver siglato un accordo con l’India per la ripresa parziale, ad uso civile, del programma nucleare nazionale ed un’altro con la Cina per una centrale a due unità da 300 megawatt (peraltro smentito ufficialmente dai cinesi nel gennaio del 1986), anche l’Iraq intervenne in territorio iraniano per colpire il cantiere della centrale di Bushir. Gli attacchi aerei, ripetutisi in numerose missioni, ridussero il grado di efficienza del sito di Bushir al di sotto del dieci percento, arrestando nuovamente le fasi realizzative del progetto e determinando la necessità di orientare lo stesso secondo un piano meno ambizioso e geograficamente più variegato. Nel 1986 una missione scientifica iraniana visitò alcuni centri di ricerca argentini nell’intento di sviluppare una partnership, da estendersi anche alla Spagna, per il completamento della centrale di Bushir. Il draft dell’accordo prevedeva il coinvolgimento dell’Argentina e della Repubblica Federale Tedesca per l’addestramento del personale tecnico iraniano. La Germania tuttavia rifiutò di provvedere al rilascio della licenza della Kraftwerk Union per le tecnologie necessarie al completamento dell’impianto e l’accordo non venne portato a termine anche a causa delle forti perplessità del governo argentino circa ‘effettiva capacità finanziaria dell’Iran. Un grave imbarazzo per le autorità di Buenos Aires fu poi provocato dalla scoperta, probabilmente favorita dall’intelligence USA, di accordi non ufficiali tra aziende argentine e l’Iran. Nello stesso periodo gli Stati Uniti denunciarono di aver scoperto un traffico di uranio tra l’Argentina e l’Iran, via Algeria, per un totale di 1,5 o 3 mt (a seconda delle fonti) di materiale, costringendo il governo sudamericano ad imporre un veto alle proprie aziende nei confronti degli accordi con l’Iran e smentendo ufficialmente ogni coinvolgimento diretto nel traffico di uranio. Nonostante la forte pressione politica degli Stati Uniti sul paese, le aziende argentine riuscirono ancora per lungo tempo nell’intento di sviluppare accordi commerciali con l’Iran per la fornitura di materiale nucleare. Secondo fonti statunitensi, infatti, già nel gennaio del 1986 la Investigaciones Aplicadas of Argentina (INVAP) negoziò i termini preliminari con l’Iran per la fornitura della nuova struttura di fusione della centrale sperimentale di Amirabad, avviando celermente una trattativa che sarebbe stata poi ratificata nel maggio del 1987 e successivamente sospesa.

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Lo stesso anno l’Iran e la Francia cercarono di porre fine al contenzioso aperto dall’Iran per il ripagamento della quota di finanziamento iraniana al consorzio Eurodif a suo tempo siglato dallo Shah. Diversi media occidentali, all’atto della firma da parte del ministro delle finanze francese della prima bozza di accordo per il ripagamento di una tranche da 330 milioni di dollari all’Iran, non persero occasione per porre in relazione l’evento con una presunta disponibilità francese nel progetto per la ripresa dei lavori sulla centrale di Bushir. Secondo fonti statunitensi, infine, negli ultimi mesi del 1986 si fece più intensa l’azione iraniana nei confronti della KWU tedesca. Per sbloccare la situazione di stallo derivante dal diniego per la fornitura del materiale necessario al completamento della prima unità da 1293 megawatt (almeno, come condizione, sino al termine delle ostilità con l’Iraq), secondo gli Stati Uniti gli iraniani avviarono un processo di triangolazione tramite l’intervento dell’Argentina sul Brasile, e di quest’ultimo sulla filiale locale della KWU. Il risultato di questa azione avrebbe permesso lo svolgimento di una riunione a Tehran nel dicembre del 1986 tra un gruppo di delegati della joint venture tedesco argentina ENACE, Empresa Nuclear Argentina del Centrales Electricas. Nel gennaio del 1995, sotto la presidenza Rafsanjani, l’Iran siglò un accordo pluriennale con la Russia per la ristrutturazione del sito di Bushir ed il completamento dei due reattori. Tale accordo prevedeva il completamento dell’impianto entro il termine del 2002 e lasciava ampiamente in sospeso il tema relativo al riprocessamento del materiale fissile. I lavori sul sito hanno accumulato nel corso degli anni un notevole ritardo per il susseguirsi delle interruzioni nella realizzazione e solo di recente è stata completata una prima fase operativa del progetto, con i lavori per il secondo reattore in avanzato stato di completamento ma ancora non operativo. 3.3 La politica nucleare dell’Iran e la valutazione da parte degli Stati Uniti e degli attori regionali La Repubblica Islamica dell’Iran ha sempre smentito ogni finalità di tipo bellico delle proprie attività in campo nucleare. L’Iran ha peraltro mantenuto una condotta delle relazioni internazionali connesse alle attività ispettive decisamente collaborativa e trasparente, dimostrando in ogni occasione – almeno sino a pochi mesi fa – di aver sempre adempiuto agli obblighi previsti dai trattati internazionali. Le accuse circa le presunte finalità a scopo bellico del programma atomico locale sono state mosse nel corso degli anni principalmente da parte di Israele e degli Stati Uniti. I primi hanno periodicamente – e pubblicamente – paventato la possibilità di agire in modo preventivo contro gli impianti iraniani a garanzia della propria sicurezza, così come nel1981 fecero contro l’impianto iracheno di Osirek. Gli Stati Uniti hanno sempre indicato l’Iran come paese attivo nel perseguimento di programmi militari in ambito nucleare ma, sino all’11 settembre 2001, non hanno mai agito politicamente in modo incisivo sull’argomento. Un articolo pubblicato a firma sulla rivista egiziana Al-Siyasah al-Dawliyah nell’Ottobre del 2000 offre un’ottima descrizione della politica americana nei confronti del programma nucleare iraniano prima del 2001: “Gli Stati Uniti osservano gli sviluppi del programma nucleare iraniano [...] ma sono tuttavia interessati anche a non peggiorare le relazioni tra i due paesi [...] cercando di raggiungere un duplice scopo: continuare ad osservare il programma e consolidare i progressi (nel dialogo) ottenuti nelle relazioni bilaterali”. Al contrario, tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002, il programma per il completamento della centrale di Bushir è divenuto una delle priorità politiche regionali degli USA nella regione, con ripetute pressioni nei confronti della Russia onde sostanzialmente imporre un arresto dei lavori prima delle ultime fasi del completamento. Da parte russa, invece, data soprattutto la rilevanza economica del progetto nel più generale contesto dei problemi economici del paese, l’Iran rappresenta una fondamentale iniziativa industriale cui non è possibile fornire una priorità di tipo meramente politico. Il presidente Putin, a più riprese, ha condotto il dialogo con gli Stati Uniti escludendo ogni finalità di tipo militare per il

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complesso ed impegnandosi per la più trasparente e lecita gestione del riprocessamento, a tutt’oggi ad onor del vero argomento ancora tutt’altro che risolto. Da parte iraniana, infine, non è mai stata fornita una esplicita garanzia circa la procedura di gestione della centrale di Bushehr, con affermazioni al tempo stesso rassicuranti circa il futuro uso civile del complesso ed altre velatamente orientate ad indicare la necessità di dover disporre di un potere deterrente nei confronti dell’atomica israeliana. A più riprese, infatti, sono state espresse da politici e militari iraniani nel corso degli ultimi anni precise affermazioni circa la necessità di poter rispondere ad attacchi provenienti dall’esterno contro l’Iran, unitamente ad una sempre più palese politica mirante a sviluppare capacità militari che possano scoraggiare l’intervento militare convenzionale o non convenzionale degli Stati Uniti. Il risultato di questa ambigua posizione a livello internazionale, in costanza o meno di un reale progetto di riarmo mirante anche all’acquisizione di armi nucleari, ha permesso a numerosi paesi occidentali di poter affermare con certezza il proprio convincimento circa la sussistenza di uno specifico progetto, avvalorato anche dalla continua e sempre maggiore crescita delle tecnologie per i vettori missilistici sviluppata dall’Iran nel corso dell’ultimo decennio. Ciò che maggiormente rende inquieto il quadro iraniano per gli Stati Uniti è il duplice problema rappresentato da un lato dall’attività per il completamento del reattore di Bushehr (unitamente ad altri impianti di minore portata e con diversa funzione in altre aree del paese), dall’altro il rapido progresso nell’evoluzione dei missili Shahab. Il recente ulteriore test di un esemplare della serie 3, pressoché pronto per l’immissione in linea, lascia presagire che lo sviluppo delle serie multistadio 4 e 5 siano in avanzata fase di realizzazione, con la possibilità di un incremento di gittata per l’Iran nel prossimo futuro da 1.500 a 5.000 chilometri circa. Risulta evidente che una capacità chiaramente offensiva di questo tipo rappresenta per gli Stati Uniti una inaccettabile posizione di forza per l’Iran. Posizione di forze che, in quadro politico dominato dalle teorie sull’intervento preventivo, lascia presagire scenari operativi tutt’altro che ipotetici. 3.4 Il contesto del problema nucleare e della retorica anti-israeliana Esistono due differenti piani per l’interpretazione e la lettura dei messaggi provenienti dall’Iran. Uno interno, di gran lunga il più importante, costruito per soddisfare le esigenze scaturenti dalle molteplici sfaccettature di un sistema politico e sociale estremamente complesso ed articolato. L’altro esterno, più semplice e lineare e, solitamente, costruito scientificamente per comunicare esigenze e posizioni già maturate sul piano interno. Il primo è fatto di una retorica assolutamente particolare ed unica, profondamente intrisa di religione e tradizione, pregna di simboli e squisitamente persiana nei modi e nelle forme. Il secondo dovrebbe soddisfare le esigenze di comunicazione con l’esterno, e con l’Occidente in particolare; utilizzare un differente linguaggio ed ottenere un risultato sul piano internazionale. Quasi mai, l’esperienza ci suggerisce, questo viene conseguito, con l’adozione anche sul piano esterno di una strategia ed una retorica esclusivamente orientata verso l’interno, o fortemente caratterizzata dalla componente interna. Col risultato di rendere l’Iran e le sue dinamiche politiche spesso apparentemente indecifrabili, sibilline o, peggio, fanaticamente squilibrate. Al contrario, invece, la lettura di quanto offerto all’interno e verso l’esterno in ambito politico, religioso e sociale, offre un quadro abbastanza chiaro delle complesse dinamiche dell’Iran post riformista. Certamente una visione ed un quadro meno monolitico ed la fotografia di un fazionalismo sempre più acceso e strutturato. Un quadro, soprattutto, spesso destinato a sovvertire drasticamente la tradizionale visione del sistema di potere iraniano e dei suoi principali attori. Quello che appare oggi, quindi, come uno scontro sulla possibilità o meno di dotarsi di una tecnologia potenzialmente adattabile per scopi militari, in realtà è solo uno degli aspetti critici

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dell’odierno rapporto tra l’Iran ed il mondo esterno, e soprattutto dell’evoluzione nella politica e nella società del paese. Il cuore del problema, in realtà, è essenzialmente locale e legato all’evoluzione ed alle trasformazioni del sistema politico, religioso e della società. È un problema generato dalla necessità di una inevitabile transizione generazionale, trasversale ad ogni segmento della eterogenea società iraniana. Innescare oggi un meccanismo critico nella gestione delle relazioni con l’Iran, quindi, potrebbe essere altamente rischioso. Sia per la possibilità di turbare od interferire con dinamiche interne in cui un elemento esogeno si rivelerebbe altamente controproducente; sia perché elevato è il rischio di avviare un processo di crisi multi-dimensionale dagli incerti confini ed ancor più incerti esiti. Dall’intensificarsi delle politiche sanzionatorie al conflitto armato, numerose sono le variabili possibili in questo momento nella crisi che in misura sempre maggiore tende a contrapporre l’Iran all’Europa ed agli Stati Uniti. Forte di una struttura istituzionale, economica e sociale estremamente particolare – nonché largamente sconosciuta – l’Iran sembra voler sfidare gli eventi puntando su temporanei fattori di potenza e su necessità politiche particolari quanto azzardate. Questo nel momento in cui più elevata sembra apparire l’imprevedibilità della politica di sicurezza degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo e contro quelle minacce emergenti come la proliferazione nucleare. Secondo quanto specificato nel testo della Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, così come emendata alla fine degli anni Ottanta, il Presidente ha specifici e delimitati poteri in merito all’esercizio della propria funzione per la gestione degli affari dello Stato. Tra questi è opportuno segnalare la gestione dell’interesse e della sicurezza nazionale, anche attraverso il controllo del Supreme Council for National Security, sebbene sempre nell’ambito delle linee programmatiche delineate dalla Guida Suprema della Rivoluzione Islamica. Nella questione del nucleare iraniano, come segnalato a più riprese da numerosi analisti occidentali ed alcuni parlamentari iraniani in seno allo stesso Majlis, il Presidente è andato ripetutamente e deliberatamente oltre i confini delle proprie mansioni, in tal modo peraltro esponendo a rischi il paese e minando alla base le logiche per la sicurezza nazionale. In realtà, tuttavia, la questione del nucleare iraniano è sempre stata abilmente ricondotta dal Presidente alla necessità ed al diritto di sviluppare una propria capacità nazionale in ambito civile, nel rispetto di quanto stabilito dal Trattato di Non Proliferazione (NPT), e soprattutto in costanza di una altalenante apertura alle ispezioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica destinata a provocare più tensioni che chiarezza sul progetto. Il nucleare iraniano è un progetto di lunga data, potenzialmente utile in termini di politica energetica nazionale e certamente realizzabile in modo alternativo – soprattutto sotto il profilo politico. Il “fattore nucleare” ha tuttavia anche un’altra precisa e specifica funzione nei programmi dell’attuale establishment iraniano. Il Presidente ha infatti fatto esplicitamente leva sull’esasperato nazionalismo che caratterizza in larga misura la società iraniana, trasformando il programma in una questione di dignità nazionale. Il nucleare, in sintesi, è divenuta la priorità nazionale numero uno, ed è un diritto del paese poterla acquisire pacificamente attraverso le strategie e le modalità ritenute necessarie ed opportune, senza interferenze da parte di alcuno. Tale posizione è largamente condivisa dalla stragrande maggioranza dei cittadini della Repubblica Islamica, anche nelle fasce di dissenso e tra gli esponenti delle comunità all’estero. È quindi chiaro come il Presidente abbia potuto giocare una sottile partita in merito alle procedure di sviluppo del progetto, adottando comportamenti ed azioni non in violazione dell’NPT – di cui l’Iran è firmatario dal 1968 – ma decisamente contrarie alle logiche di cooperazione e trasparenza imposte dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica.

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In questo modo sul nucleare si è avviata ed aperta una delle più drammatiche confrontazioni della storia del paese, con un grado di maturazione della crisi via via crescente e toni sempre più esasperati su ambo i fronti, all’interno ed all’esterno del paese. Non solo il nucleare, però, è stato oggetto di interesse in relazione all’Iran. Il Presidente, infatti, ha ripetutamente attaccato lo stato di Israele sin dal giorno del suo insediamento, oltrepassando abbondantemente il tradizionale limite sull’argomento ed anzi minacciando apertamente la sicurezza dello stato ebraico. Tutto ciò in aggiunta alle odiose frasi relative all’Olocausto ed alla costante minaccia di voler vedere Israele “cancellato” dalle carte geografiche. L’inserimento dell’elemento antisemita nell’ambito di un più generale contesto antisionista caratteristico della Repubblica Islamica dell’Iran, si scontra frontalmente tuttavia con l’evidenza degli assetti regionali e con le dinamiche storiche delle relazioni tra i due paesi, andando semplicemente a rappresentare un fattore ulteriore – ed artificiale – di innalzamento della crisi generale dei rapporti tra Iran ed occidente in genere. 4. L’evoluzione della politica di sviluppo nucleare in Iran Restano oggi aperte in sostanza soltanto due generali alternative alla questione sul nucleare in Iran. Il “braccio di ferro” innescato tra le autorità e l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (e di riflesso l’intera compagine delle nazioni occidentali), viene gestito dall’Iran secondo una strategia di scarso profilo politico e diplomatico volta a reiterare la consueta versione dei fatti, secondo la quale il paese e’ impegnato in un progetto pacifico, e con finalità civili, per la produzione di energia elettrica attraverso il ricorso alla produzione nucleare. Attività lecita e consentita dal NPT. Meno convincente appare la disponibilità a favorire ispezioni nei siti di sperimentazione e, soprattutto, a fornire dettagli circa gli strumenti illegalmente acquisiti sul mercato internazionale (in Pakistan principalmente) per l’arricchimento dell’uranio. In tal modo, quindi, sfruttando peraltro le tradizionali e consolidate debolezze derivanti dalla scarsa coesione del sistema politico europeo, l’Iran e’ riuscito a guadagnare oltre un anno di tempo nella sua politica di sperimentazione ed implementazione del progetto, trovandosi solo oggi – a seguito di una più incisiva politica da parte degli Stati Uniti – a dover individuare nei tempi brevi una soluzione che consenta una dignitosa via d’uscita dal problema. Gli Stati Uniti premono con insistenza per ottenere possibilmente entro il mese di Novembre una esplicita condanna da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Condizione non necessaria per l’attuazione di politiche coercitive, ma senz’altro strumento utile per poter dimostrare agli europei come gli USA considerino la gestione del problema iraniano come un fatto collegiale e non esclusivo. Ciononostante, anche in costanza di una esplicita pronuncia da parte delle Nazioni Unite, il problema non troverebbe immediata soluzione ma, anzi, permetterebbe di guadagnare altro tempo in attesa di poter definire una strategia ed un piano politico-diplomatico per superare la crisi. Questo, in sintesi, fornirebbe all’Iran un lasso di tempo ancora relativamente esteso per poter gestire autonomamente la propria politica di sviluppo sul nucleare, cercando al tempo stesso di innescare quanto più possibile un “dialogo critico” tra europei e USA sull’argomento. Se l’Iran sia in realtà prossimo alla capacità di realizzazione di un ordigno nucleare non e’ ancora chiaro. Mancano specifici riferimenti e conoscenze sul lavoro nei laboratori del programma e, soprattutto, si e’ ristretta sempre più la possibilità di individuare ed accedere a fonti umane in grado di fornire notizie concrete sul progetto. Ciò che, al contrario, risulta oggi nitidamente lampante e’ il duplice ambito di possibilità per l’Iran. Se, infatti, il processo di sviluppo e’ in uno stadio avanzato, e soprattutto prossimo alla capacità di realizzazione di un ordigno, sarà nell’interesse dell’Iran cercare di forzare quanto più possibile la mano nel critico rapporto tra Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, Stati Uniti ed Europa.

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Azione destinata quindi a presentare l’evidenza dei fatti all’attenzione della comunità internazionale e proclamare quindi il paese come una “potenza nucleare” con la quale, bene o male, sarà necessario dialogare. Tale strategia sarà caratterizzata da due principali fattori: tempi ristretti ed incremento del livello di scontro con il contesto internazionale. Se, al contrario, all’Iran sono necessari almeno altri due anni per ottenere il know-how, l’unica politica possibile per il paese per superare l’impasse degli ultimi mesi e’ quella di aprire gradualmente – e spettacolarmente – all’Agenzia Internazionale dopo aver occultato ogni possibile elemento di prova circa una reale attività destinata alla produzione di ordigni (cosa peraltro relativamente semplice in questo stadio). In questo modo il paese potrebbe dimostrare la propria buona fede, l’accanimento di alcune nazioni straniere contro i progetti di sviluppo civile del paese ed il generale pacifico e positivo orientamento della politica iraniana a livello internazionale. Che l’Iran sia intenzionato a dotarsi di armi nucleari, quindi, sembrerebbe fuori di dubbio. Che sia prossimo a tale obiettivo, invece, e’ ancor oggi un’incognita di difficile valutazione, da cui ne consegue una altrettanto complessa capacità di definire politiche regionali da parte degli Stati Uniti a causa dell’andamento della crisi irachena e, non ultimo, dal costante critico clima di relazioni con alcuni paesi europei. L’Iran, ben conscio di tali ed evidenti difficoltà, agisce secondo la tradizionale formula retorica destinata ad alimentare le fratture, ad eludere le domande fondamentali e, quindi, incrementare il fattore tempo sino al massimo ottenibile. Una politica tuttavia oggi estremamente pericolosa soprattutto in ragione dell’instabile, e per certi versi potenzialmente schizofrenico, andamento delle dinamiche nell’intera regione del Medio Oriente. 4.1 La posizione degli Stati Uniti e gestione della “non agenda” L’Iran e’ stato oggetto di un interesse e di una politica non lineare e scostante da parte degli Stati Uniti sin dai tempi dell’occupazione dell’ambasciata a Tehran successivamente alla rivoluzione. Tradizionalmente considerata ed apertamente presentata come una nazione sponsor del terrorismo, una fonte di instabilità e, più in generale, uno dei tre paesi facenti parte dell’asse del male, in realtà la linea di comunicazione tra l’Iran e gli USA e’ sempre stata aperta, seppur non ufficialmente e direttamente, producendo risultati discutibili nell’interesse di ambo le parti. Negli Stati Uniti l’Iran rappresenta una minaccia di grandi proporzioni per larga parte dell’opinione pubblica, uno stato controverso e retrogrado piombato in una sorta di nuovo medioevo dopo la rivoluzione del 1978/79 culminata con la proclamazione della Repubblica Islamica. Una reale conoscenza del paese, tuttavia, e’ limitata solo a ristretti circoli accademici e nei think tank, con una scarsa capacità di diffusione dell’informazione in direzione del pubblico, fortemente condizionato e per il quale il rapporto tra Iran e fondamentalismo (e probabilmente anche terrorismo) costituisce un dogma. Risulta quindi estremamente difficile poter affrontare con obiettività e lucidità ogni problema relativo all’Iran, data la necessità per l’amministrazione di non poter assumere platealmente posizioni in totale o parziale disaccordo con la concezione e la classificazione tradizionale ed ufficiale sul paese. Ciononostante e’ largamente presente nell’ambito della comunità accademica e scientifica dei think tank un generale sentimento di avversione per l’ulteriore perseguimento della politica di chiusura nei confronti dell’Iran, ritenuto da più parti come decisamente fallimentare e, soprattutto, potenzialmente pericoloso in condizioni generali di instabilità regionale come quelle attuali. La Brookings Institutions, la Rand, il Council for Foreign Affairs ed altre strutture ancora, nel corso degli ultimi diciotto mesi hanno pubblicato studi e commenti sul paese raccomandando all’amministrazione di voltare pagina con il modello relazionale sino ad oggi adoperato e, anzi, transitare in direzione di una politica di contatto “selettivo” destinata a favorire una progressiva normalizzazione dei rapporti. Solo pochi centri di ricerca, tra cui l’American Entreprise Institute,

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hanno commentato negativamente tali posizioni, affermando come una politica distensiva nei confronti dell’Iran sia destinata al più totale insuccesso esponendo l’America ad ulteriori rischi. In realtà, l’attuale politica di condanna da parte dell’amministrazione USA, e la contestuale minaccia di intervento, sono il frutto di una complessa alchimia relazionale tra i vertici della Casa Bianca, il Pentagono, il Dipartimento di Stato e le “comunità di influenza”. Maturata e palesata allorquando era in essere e dispiegava i suoi effetti un’alleanza tra più gruppi della compagine dei neoconservatori, la politica aggressiva nei confronti dell’Iran soffre oggi della pesante eredità lasciata dalle polemiche seguite all’andamento della guerra in Iraq e, soprattutto, dallo sfaldamento delle grandi alleanze tra “neocons”. E’ in sintesi, quella contro l’Iran, una politica senza particolare sostegno interno, caratterizzata dai toni forti dell’amministrazione ma, a monte, priva di alcuna strategia concreta o di una generale politica di indirizzo. Come ha avuto modo di confermare il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Condoleezza Rice, in relazione all’Iran non esiste alcuna agenda. Non solo, non esiste alcuna coesione nemmeno in merito alle posizioni di condanna nei confronti dell’Iran da parte dei vari organi ed organismi della pubblica amministrazione USA. Esemplare, ad esempio, il caso relativo all’inserimento dell’Iran tra i paesi direttamente collegati alla rete di Al Qaeda, così come emerso dal documento finale presentato dalla Commissione sui fatti dell’11 Settembre 2001. Non appena pubblicato il rapporto, e prima ancora che il Presidente esprimesse un giudizio sul fatto, il direttore pro-tempore della CIA appariva in televisione negando ogni evidenza dei fatti per quanto a conoscenza dell’Agenzia, di fatto prendendo immediatamente le distanze da ogni possibile ulteriore coinvolgimento. Posizione incerta e tutt’altro che definita ma, al tempo stesso, potenzialmente atta ad assumere posizioni concrete di condanna ed intervento qualora elementi particolari maturassero nel gia’ critico andamento dei rapporti. 4.2 L’acquisizione delle informazioni sul progetto nucleare dell’Iran La consolidata carenza di informazioni dirette o di una rete di contatto efficace ed efficiente all’interno del paese (l’ultima fu scoperta e smantellata tra il 1996 ed il 1998), ha storicamente costretto gli Stati Uniti ad acquisire parte delle informazioni necessarie per la definizione della politica con l’Iran all’estero. L’umiliante esperienza con Chalabi in Iraq, peraltro, ha ulteriormente sottolineato la necessità di non sottovalutare le potenzialità dell’intelligence iraniano e delle sue reti di contatto all’interno ed all’esterno del paese, orientando l’interesse invece in direzione di ogni ulteriore nuova sorgente affidabile di informazioni. Le principali fonti di informazione esterne agli USA sull’Iran sono storicamente sempre state Israele e la comunità degli iraniani all’estero, soprattutto quelli presenti in gran numero sul territorio americano e di estrazione altamente eterogenea. Nessuno dei due, tuttavia, può definirsi un attore imparziale ed affidabile, gestendo entrambi agende ed interessi autonomi e spesso noi coincidenti con l’interesse (o la “best choice”) degli Stati Uniti. La percezione della minaccia da parte degli israeliani, sebbene altamente comprensibile in un contesto prettamente locale, e’ tale da generare nella gran parte delle occasioni condizioni di allarmismo e conseguenti impellenti necessità d’azione. Per la comunità iraniana all’estero, invece, la generale e comune agenda delle varie entità coincide solo ed esclusivamente in relazione alla necessità di rovesciare il regime teocratico ed avviare una trasformazione istituzionale, in direzione di un modello tuttavia non univocamente individuato e, soprattutto, condizionato dai forti interessi che permeano alcune sfere della comunità stessa. In particolar modo risulta oggi particolarmente delicata la gestione del rapporto con le unità politiche e militari del Mojjahedden e-Khalq (MEK), struttura assai particolare e complessa operante in Europa, negli Stati Uniti ed in Iraq.

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Struttura islamico-marxista sorta in Iran nel secondo dopoguerra e parte significativa del processo di destabilizzazione che provocò la caduta dello Scià, la struttura e la politica del MEK e’ oggi tuttavia decisamente differente rispetto a quella popolare degli anni Settanta. Entrata in diretto contrasto con le autorità religiose della Repubblica Islamica, messa al bando e duramente repressa, la struttura del MEK riuscì a mantenere la propria popolarità sino ai primi anni Ottanta compiendo peraltro clamorosi attentati contro le autorità religiose ed assassinando numerosi esponenti di spicco del nuovo establishment. Successivamente alla fuga dall’Iran si riorganizzò in due principali gruppi. Uno all’estero, essenzialmente in Europa e negli Stati Uniti, costituito sotto forma di organizzazione politica patriottica per la liberazione dell’Iran; ed uno in Iraq, organizzato militarmente ed attivo al seguito delle truppe irachene in larga parte del conflitto tra Iran ed Iraq. Mentre, tuttavia, la componente politica all’estero manteneva la propria compattezza nel rispetto dei principi islamico-marxisti (sebbene un gran numero di esponenti storici venissero progressivamente meno per anzianità), dimostrando in ogni occasione una dedizione ed una fedeltà alla causa esemplari, la componente militare in Iraq veniva lentamente ma inesorabilmente “scalata” dai coniugi Rajavi, ambigui e discussi personaggi. Questi hanno progressivamente trasformato la componente militare del MEK in una sorta di unità-setta, regolata da rigide ed altamente discusse regole morali e religiose, e favorendo una sempre più stretta forma di collaborazione con le strutture militari dell’Iraq di Saddam Hussein. Hanno peraltro largamente contribuito a colpire – o fornire le coordinate per colpire – obiettivi civili in larga parte dell’Iran settentrionale, con ciò inimicandosi gran parte della popolazione civile che sino ad allora li considerava nel novero delle tante organizzazioni potenzialmente atte a rovesciare il regime teocratico. Il MEK e’ quindi oggi una struttura ambigua, fortemente condizionata dall’operato della sua ala militare guidata da Masud Rajavi in Iraq e con una componente politica in Europa (al cui vertice siede la consorte Myriam Rajavi) sempre meno rappresentativa degli interessi dell’opposizione iraniana. E’ peraltro oggetto di inchieste e di una aperta politica di condanna da parte delle autorita’ francesi che, dopo anni di ospitalità, hanno concretamente operato in funzione dello smantellamento delle rete residente sul suolo francese. Sono, peraltro, ancor oggi nella lista delle organizzazioni terroriste stilata dal Dipartimento di Stato USA in conseguenza dell’omicidio di alcuni americani in Iran in epoca pre-rivoluzionaria. Anni nei quali il sentimento anti-americano del MEK era particolarmente evidente e concretamente tradotto in azioni contro uomini ed interessi degli Stati Uniti. Il MEK, quindi, ha radicalmente trasformato la concezione ideologica del movimento, progressivamente abbandonando il marxismo-islamico e trasformandosi in una sorta di setta guidata in modo autoritario ed assoluto da un uomo di dubbie doti morali. Ha cercato di sviluppare, per sopravvivere, alleanza con ogni possibile interlocutore antagonista del regime teocratico, dagli iracheni di Saddam Hussein agli americani, restando tuttavia quasi sempre ai margini di qualsiasi reale progetto politico alternativo per l’Iran. Il braccio politico dell’organizzazione, il Consiglio Nazionale della Resistenza in Iran, unitamente ad altre sigle minori, e’ riuscito in alcune occasioni ad occultare o sminuire la sua affiliazione con il MEK e, soprattutto, la struttura militare in Iraq, riuscendo ad entrare in contatto con alcuni esponenti dei neoconservatori americani ed a questi offrendo servigi in funzione del sostegno alla causa. Gran parte delle rivelazioni sul programma nucleare, così come quelle relative al tradimento di Chalabi, sono di matrice MEK. Informazioni precise e dettagliate ma parziali e dettate da interessi e programmi in alcun modo riconducibili agli obiettivi degli Stati Uniti o di un ipotetico Iran democratico. In tal modo, quindi, il MEK e’ riuscito ad acquisire in alcuni ambienti della difesa americana una notevole credibilità, indicando dettagliatamente l’ubicazione di oltre venti siti per la

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sperimentazione e la produzione in ambito nucleare nel paese, compromettendo in larga parte il negoziato tra europei ed iraniani ed alimentando la recente drammatica escalation. Il MEK, il cui unico interesse in tale quadro e’ quello di caldeggiare quanto più possibile un’azione di forza contro l’Iran, chiede peraltro oggi a gran voce la rimozione del proprio nome dalla lista delle organizzazioni terroriste internazionali, riuscendo persino a convincere alcuni deputati americani ad esprimere pubblicamente il loro supporto in favore del gruppo descrivendolo come “movimento democratico ed anti-regime”. Il quadro complessivo della politica USA nei confronti dell’Iran, quindi, e’ caratterizzato da una latente incertezza derivante dall’assenza di una specifica strategia per la gestione del rapporto e di una eventuale crisi. Gli iraniani, ben consci di tale situazione ed erroneamente certi che l’operazione in Iraq non permetta alcuna opzione concreta nell’immediato, stanno valutando i limiti del processo negoziale spingendosi pericolosamente oltre i margini della tradizionale linea di dialogo con gli Stati Uniti e, cosa più preoccupante, con i paesi europei. L’establishment iraniano, oggi sempre più fortemente dominato dalla destra tradizionalista, e’ convinto di poter acquisire una posizione di vantaggio sia in conseguenza della questione nucleare, sia in termini di influenza in Iraq. In quest’ultimo caso, tuttavia, a fronte di un poderoso investimento in termini di impegno politico e finanziario, si registra uno scarso risultato in termini pratici, all’interno anche della stessa comunità sciita. 4.3 Conclusioni L’Iran e’ con ogni probabilità impegnato a sviluppare anche una componente militare del suo programma relativo all’energia nucleare. La crescente indisponibilità in termini di apertura e cooperazione per le ispezioni su tali attività non ha che alimentato tale convinzione in ogni ambito della politica internazionale, portando il livello del dibattito al limite delle possibilità diplomatiche. Si inseriscono in questo contesto alcuni fattori critici la cui gestione deve non solo essere immediata ma, soprattutto calibrata. Gli Stati Uniti non hanno definito nel recente passato alcuna strategia per la gestione del rapporto con l’Iran, e sono oggi vittima di una profonda e continua metamorfosi nell’ambito dei circoli del pensiero strategico e politico nazionale. Ad una linea dominante dettata dalla coesione di più entità dell’universo dei neoconservativi, si sostituisce oggi una più frammentata compagine unitamente all’emergere di gruppi più moderati e meno inclini all’uso della forza per la soluzione delle controversie internazionali. Gruppi che oggi invitano ad una radicale trasformazione del rapporto con l’Iran, aprendo tavoli selettivi di negoziato orientati ad una normalizzazione dei rapporti nel breve periodo. E’ poi necessario comprendere quali siano invece gli interessi esterni agli Stati Uniti e quali tra questi, soprattutto, siano orientati in direzione di una soluzione forte per la gestione del problema del nucleare iraniano. E’ nel pieno e più totale interesse degli Stati Uniti, infatti, non solo dominare i localismi ed i regionalismi ma, soprattutto, forzare le opzioni politiche in direzione di una stabilità duratura. E’ necessario, infine, comprendere quale potrà essere la reale attitudine europea nella gestione del problema, soprattutto in seguito alla debacle dell’operazione condotta congiuntamente da Gran Bretagna, Francia e Germania. Non e’ affatto certo che l’Unione Europea, soprattutto a causa della dipendenza dalle sue relazioni bilaterali con il paese, ed esposta in termini industriali ed economici in modo ingente in Iran, abbia la capacità di manifestare una politica decisa, concreta e soprattutto unitaria. Con ciò favorendo da un lato la politica del “dialogo ambiguo” dell’Iran, e potenzialmente provocando dall’altro l’adozione di misure coercitive di ben più grave natura da parte degli Stati Uniti.

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E’ appena il caso di accennare, infine, alla progressiva diffusione nei circoli della ricerca e dell’analisi delle valutazioni relative al potere stabilizzante o destabilizzante di un Iran eventualmente dotato di armi nucleari. Non pochi esperti, infatti, sostengono che tale opzione potrebbe addirittura progressivamente stabilizzare la regione, permettendo all’Iran di alleviare il proprio sentimento di oppressione derivante da una minaccia tanto confusa quanto globale, e permettendo al tempo stesso di forgiare sul paese un nuovo perno di stabilità per il contenimento del radicalismo emergente. 5. La “crisi” iraniana dell’ottobre 2005: antisionismo od antisemitismo? Il 26 ottobre del 2005, il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran Mahmood Ahmadinejad partecipò per la prima volta nella sua nuova veste politica all’annuale conferenza “Il mondo senza sionismo”. Tale manifestazione fu ideata come momento di approfondimento e di dibattito in occasione dell’approssimarsi della “Giornata di Qods” (Giornata per Gerusalemme), ultimo venerdì del Ramadan, festività ideata in passato dallo stesso Ayatollah Khomeini come strumento di propaganda anti-israeliana e, soprattutto, come appuntamento periodico per il consolidamento del regime attraverso il consueto ricorso alla violenza verbale. Nel corso degli anni hanno sempre partecipato alle celebrazioni e poi alla conferenza un gran numero di esponenti di spicco del regime, tra cui anche il Presidente della Repubblica, senza tuttavia aver mai oltrepassato – da parte dei quadri di comando dell’establishment – il limite del tollerabile nei confronti di Israele e degli Stati Uniti. È opportuno segnalare peraltro come in Iran, manifestazione del genere, siano se non consuete quantomeno ricorrenti, ed in tal modo scarsamente considerate dalla popolazione e dagli stessi giornalisti occidentali. Attacchi ed ingiurie contro Israele e gli Stati Uniti sono presenti in gran numero anche sotto forma di murales, pubblicazioni, sculture, od altro, in alcuni casi istigando apertamente all’odio ed alla violenza. Raramente si era dato in passato seguito ad alcuna delle consuete manifestazioni della retorica di regime, se non attraverso blande prese di posizione come nel caso della parata militare del 2005 tenutasi a Tehran, quando alcuni addetti militari europei lasciarono il palco al passaggio di un missile sul quale erano state scritte minacce nei confronti di Israele. Il 26 ottobre del 2005, invece, il Presidente Ahmadinejad non solo presenzià alla conferenza di cui sopra ma, contrariamente ai suoi predecessori, ritenne opportuno prendere la parola sostenendo come Israele “dovrebbe essere cancellato dalle carte geografiche”. Il discorso rimarcò più volte il senso ed il contenuto di tale affermazione, con ulteriori deliranti affermazioni circa la sussistenza anche di un principio di natura religiosa a sostegno di tale posizione. 5.1 Le reazioni internazionali ed il tentativo di rettifica da parte dell’Iran Le affermazioni di Ahmadinejad vennero immediatamente rilanciate da tutte le agenzie internazionali, provocando nello spazio di poche ore un interminabile elenco di note di protesta e manifestazioni di sdegno. Non solo i governi occidentali criticarono aspramente le minacce di Ahmadinejad ad Israele, ma anche la gran parte dei paesi di religione islamica replicò duramente alle esternazioni del presidente Iraniano. Il Vaticano definì gravi ed inaccettabili le parole del presidente, mentre il Ministro degli Esteri israeliano formalmente chiese l’espulsione dell’Iran dalle Nazioni Unite, in costanza di una aperta violazione di quanto stabilito nella Carta dell’ONU. E proprio questa richiesta provocò la prima replica ufficiale del Ministero degli Affari Esteri iraniano nella quale, oltre al consueto richiamo per la mancanza di interesse da parte dell’ONU in occasione delle ripetute minacce di attacco all’Iran da parte di Israele e degli USA, si sottolineava

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come l’Iran avesse “preso degli impegni internazionali in virtù della Carta delle Nazioni Unite e non ha mai fatto ricorso o minacciato di fare ricorso alla forza contro alcun Paese”. Secondo quanto affermò il Ministero degli Esteri, quindi, “la posizione di principio della Repubblica Islamica sulla questione palestinese non è quella di distruggere Israele, ma di porre fine all'occupazione della terra palestinese, di far ritornare tutti i rifugiati palestinesi, di organizzare un referendum e instaurare uno stato palestinese democratico con capitale Gerusalemme”. Un blando tentativo di recupero, peraltro ampiamente e prontamente vanificato dallo stesso presidente Ahmadinejad che, nella “Giornata di Qods” del successivo 28 ottobre volle ribadire la validità di quanto espresso in occasione della conferenza del giorno 26, sostenendo come quanto affermato corrispondesse “a quello che pensano gli iraniani”. Il giorno prima, invece, il Ministro degli Esteri israeliano Sylvan Shalom, durante una visita a Parigi aveva sostenuto che l’Iran sarebbe in procinto di dotarsi dell’arma nucleare per bombardare e distruggere Israele, chiedendo un impegno globale per contenere questa minaccia. Mentre a Tehran, sempre il 27 ottobre, il portavoce dei Pasdaran Seyyed Massoud Jazayeri, ancora una volta tornava sull’argomento affermando che “se questo tumore (Israele) non sarà estirpato dal corpo del mondo islamico, i danni che subiranno i musulmani saranno immensi”. Il 31 ottobre, infine, il presidente Ahmadinejad volle nuovamente rincarare la dose delle accuse contro Israele, aggiungendo in occasione di un incontro con le giovani leve delle milizie paramilitari come “qualsiasi Paese islamico che riconosce Israele, commette un crimine imperdonabile e dovrà affrontare l'intera comunità islamica”. Curiosamente, nell’ambito della stessa occasione, Ahmadinejad sottolineò come tale posizione ricalchi in modo assoluto e totale quella espressa dall’Ayatollah Khomeini oltre un quarto di secolo fa. 5.2 La conferenza sull’Olocausto e la dinamica delle affermazioni di Ahmadinejad Quando ancora non erano sopite le proteste per le affermazioni del Presidente sulla legittimità dello Stato di Israele e sulla sua prossima “cancellazione” dalle carte geografiche, il Ministro degli Affari Esteri annunciò l’organizzazione, per espressa volontà del Presidente, di una conferenza revisionista sull’Olocausto per l’anno successivo. Tale evento, tenutosi nel mese di dicembre del 2006 presso la sede dell’IPIS – Institute for Politics International Studies, direttamente dipendente dal Ministero degli Affari Esteri – raccolse indecorosamente un cospicuo gruppo tra i peggiori sostenitori del negazionismo dell’Olocausto, gettando il più totale discredito su quella che un tempo fu una stimata istituzione di ricerca in politica internazionale. Cui prodest, tuttavia, tale incresciosa politica? Che il neo-presidente iraniano sia un politico inesperto è un fatto evidente. Temuto dai suoi stessi collaboratori per la sua imprevedibilità, Ahmadinejad è espressione del gruppo di potere legato all’universo dei Pasdaran, oggi sempre meno militari e, al contrario, sempre più politici ed imprenditori. Caratterialmente irruento, Ahmadinejad viene dalle forze di base delle unità rivoluzionarie, avendo costruito il suo credo ed il suo cammino sulla puntuale e letterale interpretazione del khomeinismo. È un personaggio totalmente differente dalla gran parte dell’oligarchia di comando. Ciecamente devoto alla causa, non ha mai ceduto al lusso ed alle opportunità economiche offerte dal sistema – almeno non sino ad oggi – acquisendo popolarità tra le classi meno abbienti e risultando come il miglior candidato possibile alle elezioni proprio perché considerato l’unico capace di un cambiamento. Le pesanti esternazioni contro Israele, tuttavia, sono il frutto di una duplice serie di condizioni. In primo luogo Ahmadinejad ha ampiamente sottovalutato il rischio e la gravità dell’azione, ritenendo ingenuamente ancor oggi, nella veste di presidente, di poter esprimere liberamente il proprio pensiero come in passato. Le prime battute dopo la dura e cospicua reazione da parte dei paesi

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occidentali sono state dettate dallo stupore. Una forma ingenua di stupore che sempre più intimorisce sia all’esterno che all’interno della repubblica islamica. Il secondo fattore, invece, è quello retorico nei confronti dell’Occidente, allo scopo di determinare le condizioni per una chiusura per certi versi paragonabile a quella cercata nel 1979 con l’occupazione dell’ex Ambasciata USA. Ahmadinejad, infatti, comprende oggi in modo particolarmente chiaro come la retorica anti-israeliana sia un efficace strumento per provocare l’isolamento del paese – a fini come vedremo essenzialmente politici – potenzialmente innescando anche la miccia per un confronto critico, potenzialmente anche armato, con gli Stati Uniti ed Israele. Scontro tutt’altro che temuto e, anzi largamente agognato. Sebbene la dimensione dello stesso sia con ogni probabilità giudicata a Tehran con grande approssimazione e leggerezza, non comprendendo ancora una volta le reali dinamiche del contesto esterno al paese.

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CAPITOLO TERZO LA STRUTTURA DEL POTERE NELLA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN La struttura del potere nell’odierna Repubblica Islamica dell’Iran rappresenta un ibrido politico e legislativo senza precedenti. L’epopea della rivoluzione del 1978/79, con una sostanziale trasformazione della stessa nell’arco di un breve periodo di tempo da movimento laico e di forte ispirazione marxista a “rivoluzione islamica”, ha imposto l’adozione di criteri e modelli eccezionali sin dalla sua concezione. L’elemento determinante per la riuscita di un progetto di siffatta natura fu determinato dalla presenza e dalla guida del movimento da parte di un esponente religioso autorevole e carismatico, l’Ayatollah Khomeini. Seppur estremamente popolare come esponente religioso, il pensiero ed il programma politico khomeinista fu per lungo tempo largamente sconosciuto, o semplicemente ignorato, dalla gran parte dell’opinione pubblica iraniana, che nell’anziano esponente del clero sciita vide più uno simbolo della lotta al potere imperiale che non un effettivo capo di governo con poteri esecutivi. Particolarmente significativa fu la superficialità e l’approssimazione con cui, in Iran ed all’estero, si valutarono gli scritti di Khomeini risalenti al periodo dell’esilio in Iraq. Scritti da cui, al contrario, si evinceva chiaramente il progetto politico della Repubblica Islamica e, soprattutto, l’architettura istituzionale imperniata sul concetto del velayat-e faqih, attraverso il quale la concentrazione del potere veniva strutturata nell’ambito di una ristretta, rigida ed ermeticamente inaccessibile sfera mistico-religiosa di un segmento del clero sciita iraniano. L’errore di valutazione circa i reali progetti politici ed istituzionali dell’Ayatollah Khomeni non fu una circostanza legata prettamente all’interpretazione degli analisti stranieri. Un cospicuo numero di strettissimi collaboratori dello stesso Khomeini – tra cui anche esponenti del clero – era intimamente convinta della natura pluralista e democratica del movimento rivoluzionario e non tardò a manifestare il proprio dissenso quando tali principi vennero apertamente negati. L’epurazione, la progressiva delegittimazione ed in ultimo la criminalizzazione pressoché totale di ogni altro movimento rivoluzionario all’infuori di quelli di ispirazione islamica, unitamente ad una revisione della bozza della carta costituzionale dove con l’introduzione del ruolo della Guida ne snaturava completamente l’originale impostazione pluralista e democratica, rappresentarono l’ultimo momento in cui il dissenso al progetto khomeinista si poté manifestare. Con la nascita della Repubblica Islamica, in un referendum ideologicamente indirizzato, e l’avvento dell’architettura istituzionale voluta da Khomeini attraverso il ruolo della Guida, il sistema di potere assunse un ruolo ed una concezione di natura dogmatica sulla quale non fu più possibile dibattere. È quindi necessario comprendere in profondità come tale concezione istituzionale, basata esclusivamente sulla religione e sulla trasmissione verticale del potere dalla sfera divina ad un ben individuato esponente terreno capace di comprenderne ed interpretarne il volere, costituisca una matrice ideologico-sociale ben più complessa ed articolata della mera e semplice valutazione di sostanza che in gran parte dei sistemi politici occidentali si suole manifestare con riguardo all’Iran. Una struttura, quindi, dove la componente mistica e quella della tradizione (Ummah) forzano in direzione dell’adozione di un modello e di una concezione ideologica del potere alla quale gli interessi terreni non possono, e non hanno alcun diritto, di opporsi. Perché non qualificati per l’interpretazione e perché, soprattutto, tale concezione è un dogma. 1. Premessa: l’imamato e il velayat Uno dei principali concetti per la comprensione del complesso sistema istituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran è rappresentato dall’imamato e dal velayat.

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L’imamato costituisce il più importante concetto della religione sciita dopo il ruolo del Profeta e quello della Resurrezione. È al tempo stesso il primo visibile punto di distinzione dalla confessione sunnita, rappresentando un elemento particolarmente controverso anche all’interno della stessa comunità sciita. L’imamato rappresenta in ruolo ed il potere dell’imam. Il termine, derivante dal verbo arabo amma (andare, condurre), può essere approssimativamente tradotto come “colui che conduce” o “colui che indica la strada”, da cui la prima e più generale e diffusa interpretazione stante ad indicare i religiosi di alto rango cui spetta il compito di “condurre ed indirizzare” le preghiere dei fedeli. Sia i sunniti che gli sciiti riconoscono questo ruolo di guida spirituale per l’imam, e l’imamato conseguentemente rappresenta il ruolo di “conduzione popolare” sotto il profilo religioso dei musulmani. Ciò che, tuttavia, distingue la confessione sciita da quella sunnita in relazione all’imamato è l’estensione di questo ruolo, e del conseguente potere, dalla sfera spirituale a quella temporale. Per gli sciiti – non senza eccezioni – la “luce di Maometto” che possiede ed ispira l’imam pone costui in una pozione particolare ed unica nel contesto terreno, elevandolo ad unico qualificato esperto per l’interpretazione delle sacre scritture e per l’applicazione terrena delle tradizioni (sonnat) da queste derivanti. La confessione sciita ritiene che, dopo la morte del Profeta, dodici imam ne siano succeduti perpetuando la conoscenza e l’interpretazione delle sacre scritture. Di questi imam, undici svolsero il loro compito tramandando al successore il ruolo, il potere, la conoscenza e le facoltà di interpretazione. Il dodicesimo dovette invece nascondersi in attesa di poter portare la definitiva conoscenza ai musulmani. Il primo imam fu Ali Ibni Abitalib, detto Amir al-mo’menim (Guida dei Credenti), cui seguì al-Hasan, detto al-Mujtaba. Il terzo fu al-Hosein, detto Sayyidussuhada (Signore dei Martiri), seguito da Ali ibn al-Hosein, detto al-Sajjad. Poi venne Mohammad ibn Ali, detto al-Baghir, seguito da Ja’far ibn Mohammad, detto Assadig, e Musa ibn Ja’far, detto al-Khadim. L’ottavo imam fu Ali ibn Musa al-Reza, detto Arridà, il nono Mohammad ibn Ali, detto Attaghi, il decimo Ali ibn Mohammad, detto Annaghì, e l’undicesimo al-Hasan ibn ali, detto al-Haskarì. A causa del dispotico governo del Califfo, che cercava in ogni modo di eliminare ogni possibilità di successione per l’imam ed impedire conseguentemente l’imamato, al-Hasan ibn ali nascose la nascita del successore, ordinando l’occultamento per sottrarlo alla morte per mano del Califfo (Occultamento Minore). Terminato il periodo di occultamento il dodicesimo imam riapparve assumendo apertamente il suo ruolo che, tuttavia, a causa del feroce ruolo del Califfo fu anche in questo caso relativamente breve ed impose per volere di Dio un nuovo occultamento (Occultamento Maggiore). Da quattordici secoli, dunque, gli sciiti attendono che il dodicesimo imam appaia loro nuovamente per colmare la terra di giustizia ed equità, sebbene dopo un prolungato periodo di violenza ed oppressione. Il suo nome è Mohammad ibn al-Hasan, hojjat di Allah (prova di Dio), Saheb al-zaman (Signore del Tempo) e Khalifat al-Rahman (vicereggente del Beneficente). Il dodicesimo imam è detto anche al-Mahdi, ovvero imam della resurrezione. L’imam e l’imamato quindi, sono riconosciuti dagli sciiti non solo quale mero e semplice ruolo di guida dei fedeli ma, al contrario, quale espressione tangibile degli attributi di guida della giurisprudenza, della sovranità, dell’infallibilità e di ogni altra funzione terrena per l’esercizio di un potere che non si arresta alla sola interpretazione delle sacre scritture e più in generale della fede. Gli sciiti, in sintesi, sostengono che il ruolo dell’imam non solo sia chiaramente individuabile nelle sacre scritture e nella tradizione dell’interpretazione delle scritture e del pensiero del Profeta, ma che lo stesso sia anche il naturale risultato di una logica interpretazione intellettuale. Interpretazione attraverso la quale si evince chiaramente la necessità per i musulmani di avere una guida sociale e politica dotata delle più elevate facoltà di interpretazione religiosa. Una guida dunque capace di

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andare oltre la semplice e mera lettura delle sacre scritture e, al contrario, profondamente conscia della necessità di dover comprendere le distorsioni concettuali e la dimensione esoterica del Corano stesso. Secondo gli sciiti, infatti, il Profeta non sarebbe riuscito a manifestare ogni aspetto delle sacre scritture ai credenti. Questo a causa delle tante e gravi minacce che incombevano sull’Islam durante tutto il corso della sua vita. Sarebbero stati quindi gli imam gli unici veri depositari del sapere in grado di poter fornire e perpetuare la conoscenza grazie al loro diretto apprendimento dal Profeta. Le sacre scritture, in estrema sintesi, possono essere comprese ed interpretate a vantaggio dei fedeli solo da quegli uomini che posseggano capacità straordinarie, come gli imam, per averle ereditate direttamente dal Profeta e per essere posseduti da quella “luce” che solo a pochi e dato di vedere. Da qui le principali divergenze con la confessione sunnita, secondo la quale le sacre scritture avrebbero già rivelato ogni aspetto della fede in modo esaustivo, senza quindi richiedere necessariamente la presenza – e soprattutto il ruolo – di una entità religiosa cui demandare anche un ruolo squisitamente politico e sociale. Al contrario, invece, gran parte degli sciiti – soprattutto in Iran – individuano con precisione tre aree specifiche di intervento per l’imam. La prima concerne la guida sociale (o popolare) dei musulmani, la riyasaton ammah. In questa veste l’imam agisce come guida della società, e ciò in accordo a quanto stabilito dal Profeta con la nomina di Ali a suo successore secondo gli sciiti. Le seconda concerne l’autorità religiosa, o marja’iyyat, della comunità musulmana. La terza è la “sovranità” e la “guardia” della comunità musulmana in ogni suo aspetto, il velayat. Anche l’imam, tuttavia, deve possedere delle qualità inequivocabilmente riconoscibili atte a distinguerlo e qualificarlo come tale. Tra queste le principali sono rappresentate dall’infallibilità (ma’sum), dalla nomina divina (nel caso del Profeta questa deriva direttamente da Dio mentre per gli imam deriva dal Profeta), e dall’appartenenza alla “famiglia del Profeta” (ahl-e bait). 2. L’Ayatollah Ruhollah Musavi Khomeini e la qualifica di imam La rivoluzione iraniana ed il critico rapporto dell’Iran con l’occidente sin dagli albori della Repubblica Islamica generarono non pochi errori, o fraintendimenti, nella qualifica religiosa e politica di Khomeini come imam. Gran parte di questi dubbi, tuttavia, nacque e proliferò in un contesto occidentale avulso all’Islam e dove quest’ultimo era entrato violentemente e prepotentemente quale oggetto di studio solo all’indomani della rivoluzione. Numerosi fonti occidentali riferiscono di un “dubbio”, od “imbarazzo”, per gli iraniani nel qualificare Khomeini quale imam, termine largamente diffuso nel contesto sunnita ma non in quello sciita iraniano pre-rivoluzionario. Con ciò sostanzialmente indicando la possibilità di voler riconoscere Khomeini quale “tredicesimo imam”. La risposta iraniana verte essenzialmente su tre punti. Il primo concerne l’utilizzo del titolo imam, secondo gli iraniani già largamente utilizzato anche in epoca pre-rivoluzionaria quale titolo per esponenti di rilievo della comunità religiosa. Il secondo sulla sorgente di tale titolo per Khomeini. Secondo i religiosi iraniani il titolo venne attribuito all’Ayatollah dalla stampa araba durante l’esilio francese, ed adottato e riconosciuto come tale dagli iraniani solo in epoca rivoluzionaria e post-rivoluzionaria. Il terzo, e più importante, concerne la possibilità di individuare in Khomeini il Mahdi (dodicesimo imam) od addirittura un tredicesimo imam. Secondo gli iraniani questo è escluso categoricamente, con ciò ribadendo solo ed esclusivamente come il titolo di imam corrisponda ad una qualifica onorifica attribuita per la sua straordinaria competenza religiosa e l’altrettanto unica moralità. E questo concetto può essere in un certo qual modo supportato dall’evidenza di un gran numero di personalità religiose di spicco cui è attribuito il medesimo titolo.

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Durante la rivoluzione del 1978/79 l’Ayatollah Khomeini in più occasioni dichiarò di ispirarsi – e con lui la rivoluzione – al percorso segnato degli imam, senza peraltro mai lasciar intendere di aver alcuna delle tre qualità fondamentali per l’essere riconosciuto quale successore dei dodici imam. È quindi necessario distinguere per l’imamato e la concezione stessa di imam due ambiti separati e differenti. Uno direttamente riferibile alle sacre scritture ed al Profeta, ed un altro più attuale e “gerarchicamente” differente in termini religiosi. 3. Velayat e velayat-e faqih Il termine velayat indica genericamente la vicinanza dello spirito al piano fisico. Il termine vali, da cui velayat, è largamente presente nel Corano e non è possibile attribuirne un univoco e certo significato. Khomeini lo descrisse nel 1983 come “governo”, o “ruolo di governo”, ed il suo successore Ali Khamenei come “allineamento intellettuale e fisico della comunità musulmana nel dissociarsi dal paganesimo”. Sul significato di vali, e di velayat, illustri studiosi sciiti e sunniti divergono ampiamente, con margini di interpretazione spesso enormemente differenti. Nella visione istituzionale e costituzionale dell’Iran post-rivoluzionario di Khomeini, tuttavia, il termine doveva acquisire una valenza specifica ben delineata ed identificata. Una valenza capace di attribuire alla sfera del potere religioso quelle prerogative di guida ed esercizio del potere politico e sociali attribuibili in astratto ai dodici imam della tradizione religiosa dell’Islam ma non, ovviamente, ad un leader spirituale dei nostri giorni. È quindi attraverso un poderoso sforzo di interpretazione teologica che il concetto di velayat viene ad assumere il significato di “sovranità” e “guardia” del potere temporale nelle mani di esponenti sì illustri della religione, ma non paragonabili ai dodici imam. Velayat, dunque, come strumento per la guida politica, sociale e religiosa della comunità musulmana al fine di assicurare la “migliore forma di governo possibile”. Tutto ciò attraverso una sorta di delega del potere (foqaha) che dalla base – del mondo musulmano – viene accordata alla più esperta e più capace guida nell’ambito della gerarchia religiosa islamica. Una “guida della comunità musulmana” i cui poteri si espandono dalla sfera prettamente religiosa a quella sociale e politica in quanto espressione di un unicum inscindibile. Questa, in sostanza, la natura del velayat-e faqih, ovvero la trasposizione terrena ed attuale della supremazia della religione per la supervisione e la gestione del “miglior governo”. Una supremazia garantita dalla competenza religiosa, e quindi giuridica, nell’interpretazione delle sacre scritture e della tradizione, secondo la linea impartita dal Profeta. 4. Tra Stato e religione nell’odierno Iran Il rapporto tra Stato e religione nell’odierno Iran può essere valutato attraverso un duplice angolo visuale. Quello del rapporto tra istituzioni e religione e, al contrario, tra individuo e religione. Nel primo caso la completa unione dei due elementi è ravvisabile pressoché ovunque, con una marcata e significativa applicazione del concetto dal velayat-e faqih ad ogni singolo aspetto della gestione del potere. Nemmeno i vertici politici e religiosi fanno mistero del fatto che, in assenza di tale concetto, il fondamento stesso dello stato islamico verrebbe e crollare e perderebbe di ogni significato, con l’effetto di sgretolare integralmente l’architettura istituzionale del potere nella Repubblica Islamica. L’elemento religioso, attraverso il ruolo della Guida e degli organi destinati a controllare e supervisionare l’applicazione dei principi islamici, pervade ogni singolo aspetto della sfera politica e sociale del paese, generando di fatto un modello atipico difficilmente riconducibile per gli occidentali ad esperienze o strutture similari.

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Cosa ben diversa è il rapporto tra individuo e religione. L’Islam e la “rivoluzione islamica” hanno rappresentato uno strumento per l’abbattimento di un regime assoluto e dittatoriale, e già nelle immediate fasi post-rivoluzionarie il rapporto tra Stato e religione divenne un argomento particolarmente complesso e controverso in seno all’opinione pubblica. Non poche manifestazioni marcatamente laiche tesero ad imporre agli occhi dell’opinione pubblica il fatto che la rivoluzione fosse null’altro che un movimento anti-monarchico ed anti-dittatoriale. Movimento dove l’aspetto religioso veniva esaltato in funzione di protesta contro la laicizzazione e modernizzazione forzata dello Stato da parte della monarchia secolarista dello Scià. Laddove, ad esempio, migliaia di donne avevano protestato contro lo Scià sfilando velate in segno di protesta contro il sovrano per l’imposizione dell’abbandono del chador, nelle settimane successive all’insediamento al potere dell’Ayatollah Khomeini un numero altrettanto consistente di giovani donne manifestò – e venne duramente represso – per ribadire come il chador fosse non già un simbolo religioso bensì un simbolo della protesta anti-monarchica. La forza dei leader religiosi durante la rivoluzione era costituita essenzialmente da due principali elementi, tutt’oggi ampiamente visibili e presenti. Il primo, e più significativo, era costituito dal fatto di aprire per la prima volta ad un’ampia massa precedentemente emarginata dal potere – o più semplicemente esclusa per ragioni di rango o credo politico – le porte di una crescita sociale ed economica in un sistema che, grazie al collasso del precedente, offriva illimitate possibilità di inserimento e crescita. La seconda era rappresentata dal fatto che la religione, come in ogni contesto dominato da una società economicamente e culturalmente tradizionalista, costituiva un dogma estremamente difficile e pericoloso da confutare. Il potere dei religiosi nel combattere lo Scià prima ed i movimenti progressisti e democratici poi (oltre a quelli di stampo marxista e comunista), si fondò sul largo consenso che una nuova gerarchia del potere, ancora una volta pressoché assoluto, riuscì a creare garantendo una nuova e massiccia – ancorché virtuale – forma di partecipazione alla creazione ed alla gestione del nuovo Stato. Uno Stato questa volta islamico cui, in contropartita, era chiesto di obbedire attraverso la più stretta ed assoluta forma di dedizione sotto il profilo dell’osservanza dei principi religiosi. Con ciò, peraltro, rendendo ancor maggiore la portata e la gravità di una qualsiasi forma di opposizione al dogma religioso. Seppur particolare ed unica nel suo genere, la nascita e l’evoluzione della Repubblica Islamica dell’Iran presenta numerosi elementi comuni a molte altre trasformazioni politiche in Europa, in Africa, in Sud America ed in Asia. La concezione della religione quale elemento unico e portante del sistema sociale locale costituisce presumibilmente il maggior errore interpretativo da parte dell’occidente. Il non aver distinto questo elemento dall’architettura istituzionale del nuovo Stato ha comportato l’adozione delle politiche di contenimento e “dialogo critico” che hanno permesso esclusivamente il consolidamento della gerarchia di potere, rallentando – se non impedendo – ogni ulteriore possibile trasformazione dalla base. Ne costituisce certamente una conferma il dato sociale “reale” dell’Iran odierno e la dimensione quantitativa della “diaspora iraniana”. 5. La Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran La prima carta costituzionale dell’Iran moderno risale al 1906, approvata nel periodo conosciuto come Mashrootiat, quando il pensiero democratico e pluralista di stampo occidentale della corrente costituzionalista determinò una sorta di rivoluzione istituzionale destinata ad avviare un poderoso periodo di riforme ad ogni livello della vita politica, economica e sociale del paese.

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L’attuale carta costituzionale dell’Iran è stata promulgata nel 1979, successivamente alla Rivoluzione, ed emendata parzialmente nel 1989. La vigente Costituzione iraniana si compone di 14 capitoli e 177 articoli e costituisce un preciso punto di riferimento per identificare ed inquadrare il ruolo della religione nell’ordinamento dello Stato. È chiaramente ravvisabile come preminente il ruolo dell’Islam in ogni aspetto della struttura costituzionale, e dell’architettura istituzionale. Ai principi dell’Islam si ispirano infatti tutte le norme nonché l’esercizio dei poteri, in larga parte dominati dal clero e strutturati secondo una rigida ed estremamente articolata matrice. Il vertice del potere politico iraniano è rappresentato da una particolare figura istituzionale il cui titolo è traducibile in italiano approssimativamente come “la Guida”. La figura della Guida è inscindibilmente connessa all’Ayatollah Khomeini, principale ispiratore e figura carismatica della Rivoluzione del 1978-79, sostanzialmente acclamato “Leader” (o “Guida”, appunto) del paese e della Rivoluzione nei tormentati mesi che videro la repentina caduta della monarchia e la costituzione della Repubblica Islamica. 5.1 Preambolo alla Costituzione Il preambolo alla Costituzione individua con chiarezza e precisione nei principi dell’Islam e nelle aspirazioni del popolo islamico il basilare elemento della carta costituzionale. La religione islamica rappresenta quindi il fondamento per l’attuazione di un processo di emancipazione ideologica, sociale e culturale che non trova un limite spaziale nell’Iran ma, virtualmente, viene esteso all’intero mondo musulmano. L’Iran, con la sua rivoluzione, rappresenta quindi una sorta di avanguardia – o di modello – da cui i popoli islamici possono trarre ispirazione per l’avvio di un generico, quanto concettualmente ampio, processo di indipendenza politica, religiosa ed economica necessario per la realizzazione dello Stato islamico su scala globale. Ciò che sorprende maggiormente nella lettura del preambolo alla Costituzione, invece, è la negazione – se non addirittura la cancellazione – di ogni altra matrice ideologica e religiosa, al di fuori di quella islamica, quale fondamento della carta costituzionale stessa. Alla rivoluzione viene riconosciuta un’unica ed unitaria caratteristica: essere di tipo religioso e di matrice islamica. Mentre il riferimento ai precedenti costituzionalisti e nazionalisti trova spazio, seppur per specificarne l’insuccesso nelle pregresse esperienze di riforma istituzionale dello Stato, l’apporto dei movimenti politici progressisti e dell’estrema sinistra, e quello delle minoranze religiose, non è oggetto di alcuna menzione. Il preambolo alla Costituzione, quindi, individua quale causa del fallimento di ogni pregressa attività di riforma la mancanza di un principio ispiratore islamico. Principio in assenza del quale, in sintesi, non è stato in alcun modo possibile maturare quel legame tra Stato ed individuo che, al contrario, ha costituito il presupposto della rivoluzione del 1978-79. È quindi il governo islamico, nelle conclusioni del preambolo, il frutto del processo di emancipazione del mondo musulmano al quale l’Iran ha offerto il suo più prezioso contributo attraverso il lungo e drammatico iter della rivoluzione. Una sorta di sorveglianza e tutela religiosa e giuridica dunque, la velayat faqih, ispira nel progetto istituzionale voluto dall’Ayatollah Khomeini – universalmente riconosciuto come padre della rivoluzione – l’essenza stessa dello Stato islamico. Uno Stato, quindi, il cui compito primario è quello di realizzare attraverso l’essenza dei più puri principi dell’Islam un percorso atto alla soddisfazione delle aspirazioni dei fedeli e destinato alla creazione di un sistema politico, economico e sociale radicalmente diverso dal modello autocratico e culturalmente esogeno del precedente regime dello Scià. Tre quindi, in estrema sintesi, i principi della Costituzione iraniana del 1979. La velayat-e faqih, e quindi la preminenza della religione islamica attraverso il ruolo di una guida religiosa, giuridica,

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morale, politica e sociale; l’abbandono del concetto di Stato laico di stampo occidentale; e l’universalità del principio ispiratore anche al di fuori della dimensione spaziale rappresentata dalla sola Repubblica Islamica dell’Iran. 5.2 L’epopea della rivoluzione nella Costituzione del 1979 La legittimazione della Repubblica Islamica, quale forma istituzionale alternativa al tradizionale modello considerato come prodotto dell’imposizione politica e culturale occidentale, avvenne anche mediante l’elaborazione della sua epopea. I vertici della Repubblica Islamica, infatti, definirono con rapidità una revisione cronologica dell’iter rivoluzionario inquadrandolo quale periodo storico nazionale, e non già come episodio estemporaneo, risalendo al 1963 – anno in cui per la prima volta, dopo la breve parentesi del governo Mossadeq terminata nel 1953, disordini di ingenti proporzioni interessarono il paese – per l’individuazione dell’elemento scaturente. L’epopea della rivoluzione, tuttavia, venne elaborata nel più rigido rispetto dei canoni tradizionali islamici, con una trasfigurazione prettamente religiosa degli episodi storici e la creazione di una vera e propria iconografia. Il martirio dell’Imam Hussein a Kerbala nell’anno 680 diviene quindi il simbolo della lotta tra il bene ed il male di cui la rivoluzione è diretta espressione. I caduti per la rivoluzione assumono la qualifica di martiri ed il riferimento, o l’accostamento, ad episodi delle sacre scritture diviene un elemento ricorrente della retorica locale. L’epopea della rivoluzione si articola essenzialmente attraverso il racconto della lunga e sanguinosa lotta contro il regime dello Scià e dei suoi alleati stranieri, dove gli Stati Uniti rappresentano l’essenza del male o del “Grande Satana”. I crimini della polizia segreta dello Scià, la Savak, e gli eccessi del sovrano e della sua famiglia diventano il simbolo della lotta nella quale il popolo iraniano trova la forza di unirsi, nel nome dell’Islam, per la libertà e per la democrazia. Lo Scià, tuttavia, assume un ruolo negativo non assoluto. Non rappresenta l’Iran ed il suo popolo, bensì se stesso come uomo spietato ed al soldo delle potenze straniere. È quindi attraverso questa interpretazione dell’oppressione che scaturisce il sentimento di rivalsa religiosa e morale del credente attraverso la sua lotta, al tempo impari, contro forze soverchianti e contro poteri esterni dei quali lo Scià era solo il fragile e grottesco strumento. 5.3 L’essenza del potere ed il ruolo della politica È necessario in primo luogo considerare come la riforma costituzionale del 1979 sia stata concepita e promulgata in un momento estremamente particolare della storia dell’Iran. Il collasso del sistema monarchico, caratterizzato dal più assoluto verticismo istituzionale, aveva comportato virtualmente l’annullamento di ogni forma di organizzazione statale locale, con il trasferimento dei poteri verso forme di amministrazione provvisoria espressione delle diverse forze rivoluzionarie. Ai comitati religiosi e politici che su base regionale e provinciale amministravano il potere dietro esplicita, o meno, autorizzazione dell’Ayatollah Khomeini, si affiancavano gruppi d’azione in larga parte spontanei che di propria iniziativa esercitavano ogni ordine di mansione nell’esercizio del potere e dell’amministrazione pubblica. Lo sgretolamento del sistema politico ed amministrativo, quale effetto ricorrente di ogni processo rivoluzionario, aveva determinato in Iran un quadro complessivo dominato da gruppi di potere di cui solo una parte poteva dirsi espressione del movimento di rivolta di ispirazione religiosa. Al contrario, invece, non mancavano su base locale unità d’azione di matrice politica – in larga parte dominate dai gruppi di sinistra o di estrema sinistra – che, nell’immediato vacuum post rivoluzionario, compresero come e quanto rapidamente fosse necessario assumere un ruolo

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istituzionalmente riconosciuto per permettere alla rivoluzione di non trasformarsi unicamente in una vittoria del clero e della religione. Ai gruppi d’azione politica laica, tuttavia, mancò quasi completamente il supporto della popolazione. Questo, invero, era il risultato di una lotta antimonarchica ed operaia che nel corso degli anni aveva ripetutamente trascurato il rapporto con le masse a favore, invece, di una improduttiva e iconoclasta azione destinata a produrre essenzialmente solo disquisizioni ideologiche. Al contrario, invece, il clero aveva saputo sfruttare le sue potenzialità attraverso il rapporto diretto con i fedeli, e la popolazione in generale, mediante una continua ed perlopiù incruenta azione retorica di condanna ed opposizione all’oppressione del regime monarchico. Il clero, inoltre, ha avuto il merito di saper adottare una strategia connotata da un programma propositivo imperniato su valori fortemente condivisi dalla popolazione ed universalmente riconosciuti come validi ed indiscutibili, quelli delle sacre scritture. Nello scontro post rivoluzionario tra i gruppi laici e quelli religiosi, quindi, i secondi hanno potuto esercitare un ruolo ed hanno potuto contare su un supporto popolare decisamente consistente e di certo maggiore rispetto ai primi. Questo ha permesso la graduale – ma totale – vittoria del clero sugli antagonisti, terminando nella definitiva messa al bando di ogni altra forma di potere e l’uscita dalla scena politica di tutti gli esponenti non religiosi. L’aggressione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein all’Iran nel 1980, e la conseguente dichiarazione dello stato di guerra, hanno poi favorito ulteriormente il consolidamento del potere religioso e la definitiva consacrazione della concezione islamica dello Stato. Nell’ambito di un quadro politico ed istituzionale così unico e particolare, la figura dell’Ayatollah Khomeini ed il suo programma politico e religioso vengono dunque ad assumere la valenza di un dogma. Accertata pubblicamente la scelta popolare per una Repubblica Islamica con il referendum del 1° aprile 1979, il ruolo e la concezione del potere così come disegnati da Khomeini assumono una connotazione religiosa di ispirazione divina che, gradualmente, sottrae al popolo ogni possibilità di dissenso in merito alla concezione stessa della struttura istituzionale, limitando alla sfera dell’esercizio del potere la sola possibilità di partecipazione. È quindi Dio, e non già l’uomo, l’ispiratore e l’organizzatore del sistema politico islamico, e solo in direzione del volere di Dio l’uomo può agire per la gestione del potere terreno. Le classi sociali ed i gruppi politici vengono quindi a rappresentare l’antitesi del volere divino, con una esplicita condanna per ogni forma di esercizio del potere che prescinda dall’esercizio del sistema così come il volere divino lo ha configurato. Questo, in sostanza, attribuisce alla sfera del potere religioso la più ampia discrezionalità per l’interpretazione e per la gestione del sistema politico, andando a delineare un quadro istituzionale apparentemente di espressione popolare ma in realtà fortemente condizionato da un controllo autoritario la cui stessa natura non può essere oggetto di revisione alcuna. Se non per volere di Dio. Il fondamento giuridico della Costituzione e delle leggi divengono il Corano e le tradizioni islamiche, offrendo di fatto ai teologi ed ai giuristi la possibilità di emanare atti con valore di legge sulla base della tradizione locale e degli usi e costumi ritenuti in linea con l’Islam dalle scuole religiose di maggior prestigio del paese. Una Guida, dunque, universalmente riconosciuta come “esempio” e “fonte di ispirazione” in termini di religiosità e moralità, ha il ruolo di sorvegliare e giudicare la valenza ed il rispetto dei principi islamici di ogni atto o provvedimento di interesse collettivo. Questa particolare figura, espressamente concepita e disegnata da Khomeini per la configurazione del proprio ruolo, rappresenta il più alto livello del potere in Iran. Alla Guida competono infatti i più rilevanti e concreti poteri per l’amministrazione e la gestione del sistema politico ed istituzionale, virtualmente senza possibilità di interferenza.

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6. Architettura istituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran 6.1 L’Assemblea Consultiva Islamica L’Assemblea Consultiva Islamica, o Majlis-e Shora-ye Eslami, corrisponde alla Camera Bassa del Parlamento iraniano. È un organo istituzionale composto da 290 membri eletti direttamente dal popolo con voto segreto in pubbliche elezioni. Il mandato del Majlis è di quattro anni e dei 290 membri le minoranze religiose hanno diritto ad eleggerne 5. Di questi, 2 sono eletti dalla minoranza Armena nel nord e nel sud del paese, 1 dalla comunità zoroastriana, 1 da quella ebraica ed 1 congiuntamente da quella assira e caldeo-cristiana. I seggi parlamentari sono assegnati in accordo ad un criterio di distribuzione provinciale che, in base al numero della popolazione, prevede la seguente ripartizione:

• Tehran, 38 seggi • Khorassan, 26 seggi • Azerbaijan orientale, 19 seggi • Isfahan, 19 seggi • Khuzestan, 18 seggi • Fars, 18 seggi • Mazandaran, 12 seggi • Gilan, 13 seggi • Azerbaijan occidentale, 12 seggi • Kerman, 10 seggi • Hamedan, 9 seggi • Zanjan, 5 seggi • Kermanshahan, 8 seggi • Lorestan, 9 seggi • Area centrale, 7 seggi • Seestan-Baluchestan, 8 seggi • Kurdestan, 6 seggi • Hormuzgan, 5 seggi • Semnan, 4 seggi • Bushehr, 4 seggi • Yazd, 4 seggi • Chaharmahal e Bakhtiyari, 4 seggi • Kohkiluyeh e Buyer Ahmad, 3 seggi • Ilam, 3 seggi • Ardebil, 7 seggi • Qazvin, 4 seggi • Qom, 3 seggi

Non ci sono in apparenza particolari limitazioni per l’accesso alla carica di deputato, aperta sia agli uomini che alle donne, purché di fede islamica per i seggi non riservati alle minoranze. In realtà, tuttavia, i candidati alle elezioni parlamentari sono soggetti ad una sorta di approvazione preventiva da parte del Consiglio dei Guardiani che, sulla scorta di una valutazione di moralità, religiosità e condotta del candidato approva o meno la possibilità per lo stesso di candidarsi alle elezioni. Tale condizione non è peraltro perpetua e può essere riconsiderata nel corso del tempo. Il compito del Majlis è quello di promulgare leggi ordinarie su ogni aspetto della vita del paese, entro i limiti imposti dalla Costituzione ed in accordo con i principi della religione islamica. A tal fine le leggi promulgate dal Majlis devono essere ratificate dal Consiglio dei Guardiani, che le approva in via definitiva una volta accertata la liceità sotto il profilo costituzionale e religioso.

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Il Majlis esprime anche il voto di fiducia al Consiglio dei Ministri all’atto dell’insediamento dello stesso o su proposta del Presidente per specifici e rilevanti argomenti. Le sessioni di lavoro del Majlis debbono svolgersi pubblicamente ed ampi stralci delle stesse sono obbligatoriamente trasmesse dalla radio e dalla televisione. Solo in casi eccezionali e di emergenza le sedute possono svolgersi a porte chiuse, dietro richiesta del Presidente, uno dei ministri ed almeno 15 deputati. In questa circostanza, tuttavia, le decisioni del Majlis per essere valide debbono essere approvate da almeno i tre quarti dei deputati alla presenza del Consiglio dei Guardiani. In ogni caso, al venir meno dello stato di emergenza che ha determinato la circostanza eccezionale della sessione a porte chiuse, le trascrizioni dei dibattiti deve essere resa pubblica . Le proposte di legge sono trasmesse al Majlis dal Consiglio dei Ministri, che le approva in via preliminare, o presentate direttamente da almeno 15 deputati. L’Assemblea approva anche i trattati internazionali, i protocolli, gli accordi ed i contratti con l’estero, nonché la gestione del patrimonio immobiliare, storico ed artistico dello Stato. La Costituzione vieta espressamente (all’art. 79) la promulgazione della Legge Marziale da parte del Consiglio dei Ministri, ed il Majlis è responsabile per l’osservanza di tale disposizione. In casi eccezionali e straordinari, quali l’imminenza di un conflitto o lo stato di guerra con un paese estero, il Consiglio dei Ministri può decretare misure restrittive eccezionali per un massimo di trenta giorni e sottoporre tali misure all’approvazione del Majlis. I deputati del Majlis non godono dell’immunità parlamentare. Tuttavia l’art. 86 della Costituzione riconosce la facoltà per il deputato di esprimere liberamente le proprie opinioni ed il proprio voto nell’ambito del proprio mandato, garantendo l’immunità del deputato stesso nell’esercizio di tali funzioni. Tra le competenze del Majlis è prevista anche la supervisione dei comitati parlamentari. Sono presenti 22 comitati parlamentari permanenti ed è prevista la possibilità di nominarne di nuovi in occasione di particolari esigenze espresse in seno al Majlis. I comitati permanenti sono:

1. Educazione 2. Cultura e Formazione Superiore (Università) 3. Orientamento, cultura e media islamici 4. Economia e Finanze 5. Pianificazione e Contabilità Nazionale 6. Petrolio 7. Industrie e Miniere 8. Lavoro, Affari Sociali, Affari Amministrativi e Occupazione 9. Casa, Sviluppo Urbano, Strade e Trasporti 10. Giudiziario ed Affari Giuridici 11. Difesa e Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica 12. Politica Estera 13. Interni ed Affari Consiliari 14. Salute, Welfare, Sicurezza Sociale e Mezzaluna Rossa 15. Poste, Telegrafi e Telefoni, Energia 16. Commercio e Distribuzione 17. Agricoltura e Sviluppo Rurale 18. Organizzazioni Governative 19. Corte dei Conti e Revisione del Bilancio 20. Istituzioni Rivoluzionarie 21. Comitato per le Petizioni Pubbliche 22. Comitato per le Petizioni Parlamentari

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Alle Commissioni è affidato il compito di istruire il dibattito parlamentare ed avviare al Majlis la documentazione per la discussione e l’approvazione delle leggi e dei decreti. 6.2 Il Consiglio dei Guardiani Il Consiglio dei Guardiani (Shora-ye Negahban-e Qanun-e Assassi) è l’organo istituzionale cui è affidato il compito di verificare la puntuale coerenza degli atti del Majlis con i contenuti della carta costituzionale e con i principi della religione islamica. Il Consiglio deve, in sintesi, verificare che gli atti del Majlis siano compatibili con le norme generali di carattere religioso e non violino alcuno dei principi espressi dalla Costituzione, riservandosi la possibilità di bloccare o annullare qualsiasi atto non ritenuto conforme. Corrisponde in pratica, non senza eccezioni, ad una camera alta del Parlamento. Il Consiglio dei Guardiani è composto da dodici membri. Sei di questi, gli adil fuqaha, sono religiosi e vengono nominati direttamente dalla Guida. Gli altri sei sono giuristi islamici nominati dal Majlis e da scegliersi nell’ambito di una rosa di candidati scelta e decisa dal vertice del potere giudiziario. Essendo tuttavia il vertice del potere giudiziario scelto e nominato dalla Guida, tale procedura rende la composizione del Consiglio dei Guardiani fortemente soggetta alla figura della Guida stessa che, in sostanza, ne seleziona l’intera composizione. I membri del Consiglio dei Guardiani sono eletti con un mandato di sei anni. Ogni atto promulgato dal Majlis deve essere sottoposto al Consiglio dei Guardiani e da questo ratificato per assumere effettiva validità. Il Consiglio deve pronunciarsi in merito alla validità degli atti sottoposti entro il termine di dieci giorni dalla data di presentazione. Il criterio di valutazione riguarda la conformità ai principi dell’Islam e della Costituzione. Nel caso il Consiglio ritenga un atto non conforme a tali principi lo rimanda al Majlis per gli emendamenti del caso. Solo in casi eccezionali il Consiglio può richiedere al Majlis un’estensione per ulteriori dieci giorni nella valutazione di atti ritenuti di particolare natura e difficile giudizio. Nella valutazione di merito il giudizio sulla conformità di un atto ai principi islamici spetta solo ai sei membri religiosi (adil fuqaha), mentre la conformità ai principi costituzionali è valutata da tutti e dodici i membri del Consiglio, che deliberano con una maggioranza di tre quarti sul totale di dodici. I membri del Consiglio dei Guardiani possono partecipare alle sedute del Majlis ed esporre il proprio parere anche durante tali sessioni, ciò al fine soprattutto di consentire la promulgazione di atti più consoni ai criteri di valutazione del Consiglio stesso. Ai membri del Consiglio dei Guardiani è infine affidata la responsabilità di supervisione sulle elezioni dei membri del Majlis, del Presidente della Repubblica, dell’Assemblea degli Esperti e dei referendum popolari. Tale generica responsabilità di supervisione costituisce in realtà un potere estremamente vasto e particolare, che solitamente si sostanzia nella facoltà di manifestare un gradimento nei confronti dei candidati o dei temi da sottoporre al voto mediante referendum. 6.3 La Guida La Guida, o Guida Suprema, rappresenta la più importante e potente carica nel complesso sistema istituzionale iraniano. Voluta espressamente dall’Ayatollah Khomeini quale figura preminente di controllo e valutazione religiosa delle attività dello Stato, la Guida è eletta dall’Assemblea degli Esperti (Majlis-e Khobregan).

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Costituzionalmente la figura della Guida è prevista al capitolo VIII, attraverso una breve e scarna descrizione ed elencazione dei poteri certamente non esaustiva sotto il profilo giuridico per apprezzarne appieno il peso e l’effettivo ruolo. Il fondamento teologico della figura istituzionale della guida è costituito dal velayat-e faqih, che al tempo stesso rappresenta anche il presupposto giuridico per l’incardinamento nel sistema istituzionale della repubblica Islamica dell’Iran della figura stessa. Storicamente la figura della Guida non era contemplata nella bozza originale di Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, dove il Presidente della Repubblica veniva ad assumere il ruolo centrale e preminente del potere esecutivo dello Stato. In sede di definizione della carta costituzionale, tuttavia, l’elemento della Guida fu delineato e successivamente previsto per espresso volere dell’Ayatollah Khomeini, sulla base del già citato principio del velayat-e faqih quale presupposto per una reale ed effettiva connotazione islamica dello Stato. Non pochi giuristi e teologi hanno a più riprese contestato la validità e l’opportunità della figura della Guida che, effettivamente, ha completamente scardinato l’intera struttura della carta costituzionale delineandone sotto il profilo giuridico un ibrido senza precedenti. Alla Guida spettano in sostanza poteri tra i più rilevanti nella definizione di indirizzo e di gestione dello Stato. In particolare:

1. Delineare le politiche generali della Repubblica Islamica dell’Iran di concerto con il Consiglio del Discernimento;

2. Supervisione sulla effettiva e rispondente applicazione ed esecuzione delle linee generali di politica dello Stato;

3. Indire referendum attraverso l’emanazione di specifici decreti; 4. Assumere il comando supremo delle Forze Armate (con la specifica inclusione della

Islamic Revolutionary Guard Corps e delle forze di polizia); 5. Dichiarare lo stato di guerra, i trattati di pace e la mobilitazione delle Forze Armate; 6. Nominare, dimettere ed accettare le dimissioni dei:

a. membri religiosi del Consiglio dei Guardiani; b. membri delle più alte autorità del potere giudiziario; c. vertici del sistema radio-televisivo; d. il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate; e. il Capo di Stato Maggiore della Islamic Revolutionary Guard Corps; f. i Capi di Stato Maggiore delle singole Forze Armate e della Polizia;

7. Risolvere le dispute e coordinare le relazioni delle tre Forze Armate; 8. Risolvere dispute altrimenti senza soluzione attraverso strumenti giuridici ed istituzionali

tradizionali, mediante l’intervento del Consiglio del Discernimento; 9. Firmare il decreto per la formalizzazione dell’incarico al Presidente della Repubblica,

successivamente all’accertamento dei risultati del voto popolare; 10. Sollevare dall’incarico il Presidente della Repubblica quando circostanze eccezionali, e

nell’interesse del paese, ciò sia stato ritenuto opportuno e necessario in seguito all’accertamento da parte della Corte Suprema di una violazione della carta costituzionale, o successivamente al voto di maggioranza dell’Assemblea Consultiva Islamica testimoniante l’incompetenza del Presidente così come sancita dall’art 89 della Costituzione;

11. Concedere la grazia o la riduzione della pena, nei limiti di quanto previsto dai criteri della religione, su proposta del vertice giudiziario.

La Costituzione, delineando un netto e preciso parallelo – seppur di diversa concezione – con la tradizione dell’imamato, prescrive delle qualità essenziali per l’individuazione della Guida. Queste sono:

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a. la competenza dottrinaria per poter soddisfare le esigenze interpretative della religione a sostegno dell’indirizzo dello Stato;

b. essere riconosciuto quale uomo “giusto” e “caritatevole”, come richiesto per la conduzione della comunità islamica;

c. possedere una giusta perspicacia politica e sociale, prudenza, coraggio ed “attitudine al comando”.

Appare chiaramente impossibile delineare un quadro oggettivo di valutazione per i membri dell’Assemblea degli Esperti chiamati ad individuare ed eleggere la Guida. Le tre caratteristiche fondamentali costituiscono peraltro implicitamente un ostacolo per l’elezione di una Guida che non sia espressione della più alta (e stretta) cerchia del clero islamico, cui in ultima analisi spetterebbe quantomeno l’avallo sul riconoscimento delle tre qualità essenziali. La Guida quindi, non solo diviene espressione del vertice del potere religioso, ma assume in nome e per conto di questo i più elevati poteri decisionali e gestionali dello Stato, virtualmente entro un sistema di protezione pressoché assoluto. Ciononostante l’ultimo capoverso dell’art. 107 riconosce che la Guida rispetto alla legge è soggetta agli stessi diritti e doveri di qualsiasi individuo. Nonostante l’art. 111 preveda espressamente la possibilità per l’Assemblea degli Esperti di stabilire l’incapacità della Guida nel perseguimento degli obiettivi e dei compiti istituzionali (conseguentemente al venir meno anche di una soltanto delle tre qualità essenziali), non è chiaro come questo possa avvenire senza provocare una grave violazione sotto il profilo religioso ed una crisi istituzionale pressoché senza soluzione. Se, infatti, la Guida dovesse agire in violazione della Costituzione ma nel rispetto di un principio ritenuto valido e corretto sotto il profilo religioso, difficilmente qualsiasi organo dello Stato potrebbe condannare la violazione della carta costituzionale ponendo in discussione il ruolo e la capacità della guida. Sono stati, anzi, numerosi i casi di plateali violazioni dei limiti costituzionali imposti al ruolo ed all’operato della Guida, soprattutto nel rapporto tra questa ed il Parlamento, senza che alcuno potesse in alcun modo sollevare la questione in termini giuridici. Un singolare problema si pose durante gli ultimi anni di vita di Khomeini. L’originale dispositivo normativo per l’elezione della Guida, oltre a quanto tutt’oggi previsto, richiedeva quale condizione essenziale l’essere ufficialmente riconosciuti come supreme autorità teologiche (marja’ taqlid). Tale qualifica, tuttavia, non era riscontrabile per il candidato prescelto alla successione, Ali Khamenei. Dietro intervento diretto dell’Ayatollah Khomeini, quindi, venne emendato l’originale dispositivo costituzionale, prevedendo quale condizione essenziale la sola “riconosciuta e comprovata conoscenza per emettere editti sulla base dei canoni islamici”. 6.4 Il Presidente della Repubblica Il Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran è eletto – sotto la supervisione del Consiglio dei Guardiani – a suffragio universale da tutti i cittadini aventi diritto di voto e dura in carica quattro anni. Il mandato presidenziale, così come previsto dall’art. 114, è rinnovabile solo per un ulteriore termine di quattro anni. Il Presidente ha il compito, così come la Guida, di operare nel rispetto e secondo l’indirizzo della Costituzione. Nonostante sia riconosciuta ufficialmente come al più alta carica dello Stato insieme alla Guida, il Presidente deve in realtà operare nel rispetto di quanto costituzionalmente – e non solo – stabilito di sua diretta competenza, con ciò chiaramente indicando l’impossibilità di estendere l’ambito del suo ruolo e del relativo potere alla sfera di interessi e di competenza della Guida. Anche per il Presidente la Costituzione prescrive alcuni requisiti essenziali, sebbene di diversa natura rispetto a quelli della Guida. Per il Presidente è necessaria, oltre alla cittadinanza iraniana, una non meglio specificata “origine” iraniana, una riconosciuta capacità amministrativa in funzione della gestione dello Stato, una credibilità politica e morale cui sia abbinata una riconosciuta dote di

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misericordia e, non ultima, una profonda fede islamica oltre al riconoscimento dell’Islam quale religione dello Stato. Il Presidente deve ufficialmente prestare giuramento all’atto della nomina dinanzi al Parlamento ed alla presenza dei vertici del Consiglio dei Guardiani e del potere giudiziario. Tra i principali compiti, doveri e poteri del Presidente si possono evidenziare:

1. il compito di formare il Consiglio dei Ministri e nominarne i vertici; 2. il dovere di coordinare e rispondere per l’operato del Consiglio dei Ministri; 3. il dovere di firmare i provvedimenti legislativi approvati dal Parlamento o risultanti da un

referendum, successivamente all’espletamento delle procedure prescritte; 4. il dovere di procedere all’applicazione ed al rispetto delle leggi dello Stato; 5. il potere di firmare trattati, protocolli, accordi e contratti del Governo iraniano con altri

governi, così come con organismi ed istituzioni internazionali. Questo potere è tuttavia soggetto alla preventiva approvazione da parte del Parlamento;

6. il Presidente è responsabile per la programmazione economica dello Stato; 7. il potere di nominare, dietro proposta del Ministro degli Esteri, gli ambasciatori iraniani e

ricevere le credenziali di quelli stranieri; 8. il potere di concedere onorificenze e riconoscimenti.

Se ne evince un ruolo ed un potere relativamente contenuto, subordinato a quello della Guida (così come stabilito all’art. 113) ed essenzialmente orientato alla “gestione ordinaria” dello Stato e della Pubblica Amministrazione. Nonostante il riconoscimento del Presidente quale vertice del potere esecutivo, l’esercizio di poteri realmente esecutivi è decisamente limitato e subordinato al potere della Guida ed al controllo di numerosi altri organi istituzionali. Il disegno originale della carta costituzionale iraniana prevedeva un ruolo di coordinamento dei tre principali poteri dello Stato da parte del Presidente. La stesura definitiva della riforma costituzionale tuttavia, come già detto, apportando l’innovazione del ruolo della Guida sconvolse completamente la Costituzione, relegando il Presidente nell’ambito di un angusto ed ambiguo ruolo. Tra i poteri del Presidente, quello della gestione del Consiglio dei Ministri è senza dubbio il più rilevante e significativo in termini formali. Il Consiglio dei Ministri è composto da un Gabinetto cui sono assegnati le seguenti aree di intervento a livello ministeriale:

a. Agricoltura; b. Commercio; c. Cooperazione; d. Scienza, Ricerca e Tecnologia; e. Difesa; f. Economia e Finanze; g. Educazione; h. Energia; i. Affari Esteri; j. Salute ed Educazione Sanitaria; k. Alloggi e Sviluppo Urbano; l. Industrie e Miniere; m. Informazione (o intelligence); n. Interni; o. Guida Islamica e Cultura; p. Giustizia; q. Lavoro ed Affari Sociali; r. Petrolio; s. Poste, Telefoni e Telegrafi;

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t. Strade e Trasporti. Il Presidente può essere sollevato dall’incarico dalla Guida ed a questa deve sottoporre la spontanea richiesta di dimissioni. Le dimissioni del Presidente devono essere accettate dalla Guida e in nessun caso il Presidente può venir meno ai suoi compiti prima della formale accettazione e del trasferimento dei poteri, in via provvisoria, al successore temporaneo (il Vice Presidente, o “Primo Deputato”, delegato in sede ordinaria alla gestione dei lavori del Consiglio dei Ministri, così come previsto all’art.124). 6.5 L’Assemblea degli Esperti All’Assemblea degli Esperti (Majlis-e Khobregan) è riconosciuto costituzionalmente un duplice compito primario. Quello di individuare e nominare la Guida e, successivamente, di valutarne l’operato in base alla costante verifica del rispetto dei principi religiosi e della Costituzione. L’Assemblea degli Esperti è composta da 96 membri, tutti rigorosamente religiosi, e viene eletta ogni otto anni con votazioni pubbliche aperte a tutti gli aventi diritto al voto. La terza, ipotetica, funzione dell’Assemblea è quella eventualmente di revocare il mandato dalla Guida qualora l’operato della stessa venga giudicato improprio o contrario ai principi religiosi e costituzionali. L’Assemblea si riunisce due volte l’anno, sebbene sussista la possibilità anche di una sola riunione, per discutere sulla valutazione dell’operato della Guida ed i membri dell’Assemblea non sono vincolati ad alcuna forma di incompatibilità in costanza del loro incarico istituzionale. Possono, quindi, essere nominati quali membri dell’Assemblea anche i parlamentari o coloro i quali ricoprano incarichi governativi e privati. La segreteria dell’Assemblea è basata nella città di Qom, dove l’Assemblea stessa dovrebbe riunirsi per legge, sebbene in realtà tutte le riunioni si tengano ormai a Tehran. 6.6 Il Consiglio del Discernimento Il Consiglio del Discernimento (Majma-e Tashkhis-e Malashat-e Nezam) è un organo istituzionale destinato alla composizione delle controversie ed alla gestione del dibattito tra il Majlis e il Consiglio dei Guardiani. Il principale compito è quindi rappresentato dalla facoltà di emanare pareri interpretativi atti a risolvere conflitti di natura legislativa, sebbene funga anche da consiglio consultivo per la Guida. Il Consiglio è dotato di una propria, autonoma, capacità legislativa ed è composto da esponenti di spicco provenienti dal contesto religioso, sociale e politico. Il Consiglio, seppur permanentemente composto, si riunisce per deliberare ogni qualvolta la Guida lo reputi necessario per comporre una divergenza interpretativa negli atti promanati dal Majlis e ritenuti dal Consiglio dei Guardiani contrari ai principi religiosi, operando in funzione dell’individuazione di quelle modifiche che possano permettere al Consiglio dei Guardiani di ratificare gli atti del Parlamento. 6.7 Il potere giudiziario Il potere giudiziario, almeno in apparenza in accordo con quanto stabilito nella carta costituzionale, rappresenta un potere indipendente ed autonomo cui sono demandati i compiti dell’amministrazione e dell’implementazione del sistema giudiziario nazionale, oltre che della supervisione sull’applicazione delle leggi, della promozione delle libertà e della protezione dei diritti individuali e collettivi. Il potere giudiziario è vincolato al rispetto, tuttavia, di una duplice struttura normativa. La prima è quella ufficiale di matrice islamica propria dello Stato e la seconda quella derivante dalle pronunce

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di autorevoli giuristi e teologi. In tal modo, quindi, è assai ampio lo spettro delle possibilità per l’applicazione delle leggi, ed al tempo stesso potenzialmente incerto il margine generale delle stesse. Al potere giudiziario, poi, compete un non meglio specificato dovere di provvedere all’adozione di adeguate misure per la prevenzione del crimine e per la riabilitazione dei criminali, in base al quale mentre da un lato è facilmente individuabile un ruolo giudiziario per il perseguimento dei crimini, dall’altro è ben più difficile comprendere quale, in termini preventivi, possa essere il potere del sistema giudiziario per la prevenzione dei crimini stessi. Il potere giudiziario è regolato dalle norme del Capitolo XI della Costituzione, negli articoli dal 156 al 174. Nonostante le enunciazioni sull’indipendenza sancite all’art. 156, nel successivo art. 157 viene specificato come il vertice del potere giudiziario viene nominato dalla Guida attraverso l’individuazione di un uomo, il Mujtahid, “prudente” e “ben preparato sotto il profilo giuridico”, per un periodo di cinque anni. Questa nomina, peraltro, non è importante solo sotto il profilo del controllo del potere giudiziario. Il responsabile del potere giudiziario ha, tra le altre prerogative, il compito di nominare una rosa di candidati per l’elezione di tre dei sei membri del Consiglio dei Guardiani da parte del Majlis. In questo modo, chiaramente, si evince come il potere di selezione da parte del Parlamento sia assai limitato e come, conseguentemente, tutti e sei i membri del Consiglio dei Guardiani risultino quindi individui fedeli – o comunque vicini – alla figura della Guida. I poteri costituzionalmente previsti dalla carta costituzionale iraniana per il vertice del potere giudiziario comprendono:

a. la responsabilità per la definizione e la gestione della struttura amministrativa del sistema di giustizia;

b. il compito di emanare provvedimenti normativi appropriati per il rispetto dei principi religiosi, della Costituzione e delle leggi della Repubblica Islamica dell’Iran;

c. il compito di selezionare, impiegare ed eventualmente revocare per gli specifici compiti, giudici “giusti e saggi”.

Il potere giudiziario assolve ai suoi compiti attraverso la sua struttura gerarchica ed amministrativa, composta essenzialmente dalla Corte Suprema, dalle Corti di Giustizia provinciali e dagli organi periferici da queste direttamente dipendenti. I tribunali civili sono strutturati su quattro categorie di corti: primo e secondo livello, corti civili indipendenti e corti civili speciali. Le corti penali, al contrario, sono organizzate solo su e due livelli. Sono tuttavia presenti ed attive un gran numero di “Corti Religiose” e “Corti Rivoluzionarie”. Le prime avrebbero il compito di individuare e perseguire gli illeciti o le immoralità commesse da uomini del clero, sebbene in realtà estendano spesso il loro potere anche ai non religiosi. Le seconde, invece, sono responsabili per tutto quanto connesso ai reati di terrorismo contro la sicurezza nazionale. La particolarità di queste corti è data dal fatto di come sia estremamente facile, in un sistema come quello iraniano, poter essere accusati di reati contro lo Stato o la sicurezza nazionale, con l’evidente risultato di costituire queste corti uno strumento di propaganda atto alla strumentalizzazione virtualmente di qualsiasi tipo di reato. Nel rapporto tra il vertice del potere giudiziario ed il Ministro della Giustizia, a quest’ultimo è riconosciuto il compito di regolare e gestire i rapporti tra il potere giudiziario e quello esecutivo e legislativo. Spetta tuttavia al vertice del potere giudiziario l’effettiva gestione ed organizzazione del sistema di giustizia, e del rapporto con le Corti ed i singoli giudici. Per l’esercizio della funzione di giustizia, la Costituzione prescrive come i processi debbano essere pubblici, sebbene con qualche eccezione a protezione della privacy o della moralità nel pubblico interesse.

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Il giudizio espresso dai magistrati deve essere documentato e basarsi sul corpo normativo scritto dello Stato, sebbene in assenza di uno specifico riferimento sia possibile il riferimento a pareri espressi da giuristi islamici dotati di autorevolezza o a fatwa (pronunce giurisprudenziali basate su principi islamici emanate da religiosi autorevoli) ritenute autentiche e documentate. Al giudice viene riconosciuta una espressa protezione contro l’erronea applicazione o valutazione della legge nell’emanazione di una sentenza successivamente riconosciuta e dimostrata errata e, quindi, atta a cagionare un danno all’imputato. Questa protezione, tuttavia, è esclusa in caso di dolo. 6.8 Il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale Un solo articolo della Costituzione, al Capitolo XIII all’uopo specificamente individuato, prevede la composizione del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale. Questo organo, finalizzato alla salvaguardia dell’interesse nazionale, della rivoluzione islamica, dell’integrità e della sovranità nazionale è presieduto dal Presidente della Repubblica e si compone di:

1. i vertici del potere giudiziario, esecutivo e legislativo; 2. Capo di Stato Maggiore del Consiglio di Difesa; 3. ufficiali e funzionari addetti alla programmazione ed al budget; 4. due rappresentanti nominati dalla Guida; 5. Ministro per gli Affari Esteri; 6. Ministro degli Interni; 7. Ministro dell’Informazione (intelligence); 8. Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate e del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie

Islamiche. I compiti del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale vengono così schematicamente riassunti nella carta costituzionale:

a. determinare le politiche di difesa e sicurezza nazionale nel più generale contesto delle politiche impartite dalla Guida;

b. coordinare le attività di intelligence, politica, socio-culturali ed economiche nei settori di interesse della sicurezza nazionale;

c. individuare ed adottare ogni risorsa intellettuale e materiale del paese per la protezione da minacce interne ed esterne.

Il Consiglio è strutturato su sotto-commissioni cui sono attribuite specifiche competenze, presiedute da delegati nominati dal Presidente della Repubblica. L’autonomia del Consiglio è limitata essenzialmente da due specifici fattori. Il primo, e più importante, è quello di dover operare nell’ambito delle politiche generali impartite dalla Guida ed il secondo è quello di essere in sostanza sotto un costante controllo da parte dei due membri delegati dalla Guida, cui spetta il compito di verificare ed indirizzare i lavori del Consiglio entro i limiti poc’anzi espressi. 7. La “destra” e la “sinistra” nel sistema politico iraniana All’interno del sistema di potere iraniano, dominato in ogni ambito da esponenti del clero, esistono due principali fazioni ideologiche, a loro volta composte ognuna da due sotto-fazioni. Le principali sono genericamente definite come “destra” e “sinistra”, ma sarebbe erroneo ricondurre tale distinzione ad un modello di tipo occidentale. Destra e sinistra, al contrario, sono espressione di una visione squisitamente e specificamente islamica dell’economia e del sociale, con scarsi se non nulli riferimenti alla tradizionale concezione di “destra” e “sinistra” dei moderni sistemi politici occidentali.

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La coesistenza di tali differenti approcci ideologici è, peraltro, diretta espressione della tipicamente pluralista ed eterogenea struttura del clero sciita. Una struttura formata in scuole di pensiero teologico differenti tra loro, nelle quali – soprattutto negli ultimi anni – si è assistito ad un progressivo aumento della produzione di testi e “pareri” di natura giuridica, economica e sociale da parte di esponenti di prestigio e di chiara fama del clero e riconosciuti, come nei moderni sistemi economici occidentali, fautori di “modelli applicabili”. La particolarità delle scuole, e della loro produzione scientifica, è peraltro data dalla combinazione di elementi giuridici, economici e di comportamento. Concetti, quindi, capaci di produrre effetti concreti e tangibili – almeno in termini di applicazione – proprio perché completi in ogni aspetto funzionale. Anche la tradizionale distinzione tra “moderati” e “radicali” è alquanto imprecisa e di dubbia valenza interpretativa, anche in questo caso frutto più di un tentativo di collocazione ideologica occidentale che non di una reale ed efficace chiave di lettura del sistema politico ed istituzionale iraniano. 7.1 Le origini del sistema partitico iraniano: il Partito Repubblicano Islamico (IRP) Fondato nel febbraio del 1979 da membri del clero vicini all’Ayatollah Khomeini, tra cui l’Hojjatoleslam Rafsanjani e Khamenei (al tempo ancora un Hojjatoleslam). Ha costituito inizialmente lo strumento politico per la concentrazione del potere nelle mani dei religiosi, soprattutto dopo la rimozione dall’incarico del presidente Bani Sadr, con cui termina la breve epoca della gestione congiunta laico-religiosa del sistema di potere iraniano. Già dai primi anni Ottanta iniziano tuttavia ad emergere tensioni all’interno del partito, soprattutto in materia di politica estera e politica economica, così dando avvio al quel processo di frammentazione delle correnti, o ideologie, conosciute come “destra” e “sinistra”. Sebbene acceso e spesso connotato da toni aspri, il dibattito all’interno del partito viene abilmente gestito e pubblicizzato all’esterno dall’Ayatollah Khomeini quale espressione della democrazia dell’Islam militante. Quest’ultimo, riconosciuto da ogni fazione o schieramento come figura superiore e preminente, super partes e, soprattutto, non confutabile religiosamente ed ideologicamente, gestisce alimentandolo il dibattito – e la frattura – consolidando enormemente il proprio potere personale ed istituzionale ed apparendo al sistema politico ed all’opinione pubblica come l’unico arbitro, e dominus, del nuovo complesso ed articolato sistema. Khomeini gestisce quindi la vita del partito ed il confronto all’interno dello stesso e del paese alimentandone la crescita e fungendo da moderatore assoluto, in tal modo impedendo l’emergere di posizioni di scontro superiori a quelle della retorica e, di fatto, trasformando l’IRP ed il sistema istituzionale e sociale nel suo personale ed assoluto dominio. Ciononostante, nel 1987, la paralisi derivante dal continuo confronto tra forze opposte porta allo scioglimento del partito, con il beneplacito di Khomeini, ed alla nascita di due nuove entità: il Majma e-Ruhaniyn e-Mobarez, ovvero la “Società dei Religiosi Combattenti” (sinistra islamica) ed il Jame-e Ruhaniyat-e Mobarez, ovvero la “Associazione dei Religiosi Militanti” (destra islamica). 7.2 La destra tradizionalista: rast-e sonnati Dallo scioglimento dell’IRP, sorse come più forte gruppo di influenza della destra la “Associazione dei Religiosi Militanti”, Jame-e Ruhaniyat-e Mobarez JRM. Ancor oggi particolarmente influente, della MCA fanno parte personaggi di spicco dell’establishment iraniano, quali ad esempio la Guida Khamenei o il Portavoce del Parlamento Ali Akbar Nateq-Nuri.

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Il JRM detiene, inoltre, un numero significativo di posizioni chiave nell’ambito delle strutture reali del potere iraniano, come ad esempio il Consiglio dei Guardiani o l’Assemblea degli Esperti, oltre a controllare alcune influenti organizzazioni di categoria (come la hay’atha mo’talafe-ye eslami, Coalizione delle Associazioni islamiche, in cui confluiscono numerosi esponenti del bazar, il cuore del commercio nell’economia dell’Iran). In linea di principio, il programma della destra tradizionalista è impostato secondo un rigido schema conservativo dei principi islamici applicati alla politica ed all’economia. Il privato, nell’impresa come nell’industria, è considerato come il cuore ed il motore dell’economia e del progresso sociale, sulla base tuttavia di un modello non capitalista ma squisitamente locale conosciuto come “capitalismo del bazar” o “capitalismo pre-industriale”. Il ruolo del commercio e dell’imprenditoria privata acquista per la destra tradizionalista una funzione primaria e fondamentale per lo sviluppo, e soprattutto l’autonomia, del paese e per la sua emancipazione. La destra tradizionalista può contare su un bacino elettorale non particolarmente ampio, ma assai influente in termini economici, religiosi e politici. In larga parte il substrato elettorale è costituito dai “baza’ari” – ovvero i commercianti del bazar – dai quadri direttivi dell’establishment e dal loro indotto diretto. Un tempo fortemente appoggiato dalle milizie e dagli organi dell’intelligence nazionale, oggi i voti della gran parte dei “duri e puri” della rivoluzione si è spostata in direzione della sinistra islamica e riformista o, in misura minore, della destra modernista. La destra tradizionalista è, chiaramente, orientata al più marcato sostegno del velayat-e faqih e della Guida, opponendosi strenuamente al pluralismo politico ed alla liberta di espressione. È oggi l’unica forza politica ed ideologica ancora largamente avversa ad un processo di riconciliazione con gli Stati Uniti, sebbene anche al suo interno non manchino pareri altamente discordi. 7.3 La destra modernista: rast-e modern Nel gennaio del 1996, a due mesi dalle elezioni parlamentari ed in seguito ad una profonda crisi all’interno del JRM, sedici esponenti di spicco della destra tradizionalista guidati dall’ex presidente Rafsanjani e da Gholam Hosein Karabaschi, dettero vita ad un gruppo indipendente denominato Kargozaran-e Sazandegi – KS, letteralmente i “Servitori della Ricostruzione”. Questo gruppo, definito come la “destra modernista” o dei “tecnocrati”, è promotore di un programma di crescita economica e sociale largamente orientato alla modernizzazione del sistema industriale del paese attraverso l’accesso alle funzioni chiave del sistema politico ed istituzionale di tecnici ed esperti di settore. Senza in alcun modo negare la valenza e la radice islamica della rivoluzione, il gruppo della destra modernista propone apertamente un programma di sviluppo largamente influenzato dai principi del liberismo islamico. Con ciò supportando il pluralismo politico, l’apertura della società e – moderatamente – dei costumi, l’accesso e l’interscambio con il sistema esterno e conseguentemente la riconciliazione con gli Stati Uniti. Il programma del KS, seppur con una linea di basso profilo, è orientato ad una radicale trasformazione del sistema di potere della Repubblica Islamica che, gradualmente, permetta una subordinazione del velayat-e faqih al ruolo della Costituzione, un forte ridimensionamento del potere e del ruolo della Guida e, soprattutto, un poderoso ricambio ai vertici con uomini di spessore dell’economia, della cultura e della gestione politica. IL KS ha ottenuto un largo consenso parlamentare nel mandato 1996-2000, divenendo in breve tempo la seconda maggiore forza politica del paese dopo la destra tradizionalista. L’opinione pubblica è tuttavia scettica nei confronti del KS in quanto alcuni dei suoi membri – primo tra tutti Rafsanjani – sono tra i più noti e discussi oligarchi dell’economia iraniana, con interessi personali enormi e ramificati all’interno del paese.

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La base elettorale della destra modernista è in larga parte costituita dagli elementi tecnici del sistema istituzionale, dalla nuova borghesia imprenditoriale e dal sistema della grande industria. 7.4 La sinistra islamica: chap-e Islami La parabola della sinistra islamica si sviluppa entro un intervallo temporale di sette anni, dal 1980 al 1987. In seno all’IRP, i religiosi di ispirazione modernista ed intellettuale cercarono di sviluppare ed imporre un radicale e sostanzioso pacchetto di misure d’emergenza per il controllo dell’economia negli anni della guerra contro l’Iraq. La sinistra islamica, in sostanza, date le circostanze eccezionali in cui versava la vita politica ed economica del paese, proponeva un diretto controllo dello Stato su ogni aspetto dell’economia e della politica sociale, al tempo stesso largamente auspicando una chiara e decisa posizione comune circa “l’esportazione della rivoluzione” al di fuori dei confini nazionali. Quest’ultimo punto, in particolare, rispondeva a due precisi fattori e obiettivi. Il primo era quello di permettere un alleggerimento della pressione internazionale sull’Iran post rivoluzionario attraverso l’ampliamento del sistema di governo islamico ad altri paesi della regione, in particolar modo l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo. Il secondo, invece, rispondeva al tradizionale orientamento del socialismo nel supportare ed esportare le rivoluzioni, sebbene in chiave islamica, all’esterno dei contesti ove le stesse si venivano a maturare e generare. Con la fine dell’IRP e la costituzione del Majma e-Ruhaniyn e-Mobarez - MRM, ovvero la “Società dei Religiosi Combattenti”, la sinistra islamica cercò di imporsi nelle elezioni parlamentari del 1992, venendo tuttavia fortemente penalizzata nella selezione dei candidati da parte del Consiglio dei Guardiani. La sinistra islamica ha potuto contare tradizionalmente – traslandolo poi in direzione delle sue più recenti trasformazioni – su un largo consenso in seno alla classe operaia, la medio-bassa borghesia, alcuni centri del sistema culturale e studentesco, numerosi elementi del Corpo delle Guardie della Rivoluzione – IRGC) e la Fondazione dei Martiri (Bonyad-e Shahid). La sinistra islamica è un universo assai complesso ed eterogeneo. Storicamente legata alle organizzazioni più radicali ed osservanti del periodo rivoluzionario, ha tuttavia modellato un programma politico largamente orientato, come nel caso della destra modernista, ad un ridimensionamento del potere e del ruolo della Guida attraverso un processo di subordinazione del principio del velayat-e faqih alla Costituzione. L’ispirazione e le matrici socialiste e marxiste sono ancor oggi largamente presenti e visibili, sebbene moderate da una apertamente diffusa concezione islamica del programma socio-rivoluzionario per la società, impostato oggi – ma così non era in principio – al pluralismo politico, alla libertà di espressione e ad un ruolo forte e centralizzato dello Stato nella gestione di un ibrido economico derivante dal cosiddetto socialismo islamico. All’interno della sinistra islamica convivono espressioni ideologiche diametralmente opposte, come nel caso dell’Hojjatoleslam Ali Akbar Montashemi-Pur o dell’Hojjatoleslam Sayyid Mohammad Khatami, laddove il primo è uno strenuo sostenitore della politica isolazionista e di totale chiusura con gli Stati Uniti, mentre il secondo è un progressista liberale decisamente propenso alla revisione del “dialogo critico” sebbene nel rispetto dell’indipendenza culturale e religiosa dell’Iran. All’interno del complesso sistema della sinistra islamica esistono altre formazioni accanto all’MRM. Le principali sono costituite dalla SMEE, Organizzazione dei Mojahedin della Rivoluzione Islamica presieduta da Behzad Nabavi, e l’Hezb-e Mosharakat-e Iran-e Esalmi- HMIE, ovvero il noto Partito Islamico Iraniano della Partecipazione, presieduto da Abbas Abdi e Said Hajariyan e costituente la forza di base di presidente Khatami. 7.5 La sinistra modernista: chap-e modern

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Nel periodo precedente le elezioni presidenziali del 1997, un coalizione di religiosi e laici di ispirazione liberista e modernista dette vita all’Hezb-e Mosharakat-e Iran-e Esalmi- HMIE, Partito Islamico Iraniano della Partecipazione, per offrire supporto alla candidatura di Khatami. La grande vittoria elettorale che portò alla nomina di Khatami quale presidente fu possibile essenzialmente grazie all’evoluzione dell’alleanza tra la sinistra islamica e la destra modernista, iniziata già dal 1992. La sinistra modernista, inoltre, costituì la diretta risposta al processo di crisi e frammentazione della sinistra islamica, generando un polo moderato ed ideologicamente compatto all’interno di un gruppo di potere, al contrario, fortemente eterogeneo e caratterizzato dalla presenza di elementi estremisti in larga parte più vicini alle posizioni della destra tradizionalista che non a quelle della sinistra islamica. Come nel caso, ad esempio, dell’organizzazione costituita nel 1996 dall’ex ministro dell’intelligence l’Hojjatoleslam Mohammad Mohammadi Rayshahri, la Jame-e Defa-e Az Arzashha-ye Enqelab-e Islami, ovvero l’Unione per la Difesa dei Valori della Rivoluzione Islamica. 8. Evoluzione del sistema di “fazione” all’interno del contesto politico iraniano Tra il 1979 ed il 1989 la vita politica all’interno dell’Iran, sebbene accesa e dominata da scontri verbali spesso anche violenti, fu dominata dalla carismatica e dogmatica figura dell’Ayatollah Khomeini. Questo si tradusse in una diatriba senza reali e concrete possibilità di evoluzione sotto il profilo sostanziale nella vita istituzionale del paese, a causa dell’intangibilità del ruolo e della figura stessa di Khomeini nell’ambito della neonata architettura del potere locale. Poco prima della morte di Khomeini, tuttavia, la spaccatura dell’IRP e la costituzione de facto di un pluralsimo partitico connotato da divergenti posizioni ideologiche, aprì le porte per una radicale trasformazione del complesso politico iraniano, andando lentamente a definire le basi dell’odierna matrice politica nazionale. Con l’ascesa alla presidenza della Repubblica dell’Hojjatoleslam Rafsanjani, dal 1989 si è assistito allo sviluppo di una solida alleanza tra le due ali della destra iraniana, con la progressiva ma radicale emarginazione della sinistra islamica ed il consolidamento del potere sulla base del disegno costituzionale khomeinista. Tale alleanza, tuttavia, non riuscì a concretizzarsi in una reale e solida forma di potere centralizzato, imponendo già dal 1992 una trasformazione epocale nel sistema degli schieramenti. In quell’anno, infatti, avviene l’evento straordinario definito come “l’epica alleanza della destra con la sinistra. L’astuta politica di Rafsanjani, infatti, seppe consolidare una nuova sfera del potere attraverso la definizione di un programma di alleanze o, comunque, di “comunione di visioni” tra la destra modernista e la sinistra islamica, avviando un processo di ricostruzione e re-definizione della politica e dell’economia nazionale a danno della destra tradizionalista e della cosiddetta “nuova sinistra”, ovvero la fazione radicale all’interno della sinistra islamica. Nonostante una così abile mossa e la più volte manifestata intenzione – per voce di alcuni esponenti del partito – di ricandidarsi per un terzo turno presidenziale per il quale sarebbe tuttavia stata necessaria una riforma costituzionale, Rafsanjani dovette cedere spazio alla dirompente forza della nuova coalizione dell’Hezb-e Mosharakat-e Iran-e Esalmi- HMIE, riconoscendo la vittoria di Khatami ed adottando da allora una posizione pragmatica a metà strada tra la destra tradizionalista ed il principio di alleanza con la sinistra islamica. Le elezioni parlamentari del 2004 hanno sancito una nuova vittoria della destra tradizionalista, sebbene in realtà più in funzione di un consolidamento che non di una reale crescita. Questo comporta oggi la necessità di definire nuovamente un quadro di alleanze che veda la destra tradizionalista al centro del sistema di fazione del sistema politico iraniano, con ciò intendendo affermare la sussistenza della necessità di una nuova politica di coalizione che potrebbe portare ad

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una nuova crescita della “nuova sinistra”, o allo sviluppo di un’evoluzione nel rapporto – peraltro critico – con la destra modernista. 9. Chi comanda in Iran? L’assetto politico ed istituzionale del potere odierno in Iran è stato profondamente influenzato dall’esito delle elezioni presidenziali del 2005. La vittoria di Ahmadinejad ha portato ai vertici del sistema del potere politico ed istituzionale una nuova generazione di esponenti del clero, ma anche – e soprattutto – dell’ala laica e degli ex Pasdaran. Questa nuova componente è caratterizzata peraltro dalla presenza e dal supporto di alcuni esponenti un tempo legati alla Società degli Hojjatieh, e da un forte legame con il bazar, tradizionale centro del potere economico e politico iraniano. Il vertice dell’establishment di riferimento, quindi, è oggi decisamente di orientamento conservatore e religioso, sebbene con posizioni moderatamente critiche – almeno in alcune delle sue componenti – sia sotto il profilo costituzionale che politico rispetto alla tradizionale leadership dei religiosi della prima generazione. È quindi presente, sebbene in modo latente il più delle volte, una componente politicamente ed ideologicamente antagonista rispetto alla tradizionale compagine del potere composta dai religiosi della prima generazione, il cosiddetto clero combattente, riconducibile genericamente all’Ayatollah Khamenei da una parte, ed al polo antagonista di riferimento di Rafsanjani dall’altra. Tale nuova componente ha costruito su Ahmadinejad una figura forte e carismatica, sconvolgendo le tradizionali logiche di potere sino ad oggi correlate alla figura ed alla carica del Presidente e determinando la convinzione della sussistenza di una rinnovata e più influente capacità politica della carica in oggetto. In realtà, in assenza di alcun provvedimento normativo atto ad emendare la costituzione iraniana, i poteri di Ahmadinejad non hanno subito alcuna modificazione rispetto a quelli dei suoi predecessori post-riforma costituzionale del 1989. In tal senso, quindi, non è riscontrabile una maggiore autonomia o capacità del Presidente rispetto al passato, ma solo un più ampio margine di tolleranza nell’ambito del tessuto essenziale del potere iraniano, soprattutto nell’ambito del rapporto con la Guida Suprema, con il Consiglio del Discernimento e con il Consiglio dei Guardiani. Un equilibro instabile tuttavia, soprattutto per l’aperta ostilità di alcuni elementi della nuova compagine al modello istituzionale stesso della Repubblica Islamica, e per la presenza di conflitti di interessi emergenti nella gestione e nel controllo del cuore del sistema economico iraniano, rappresentato oltre che dal bazar dalle potentissime fondazioni. Un quadro, quindi, caratterizzato oggi dall’emergere di una dicotomia crescente nell’alveo della compagine detta dei “conservatori” che, unita e compatta per otto anni durante la presidenza riformista di Khatami, oggi porta alla luce le sue fratture ed i suoi limiti politici. Una compagine, infine, dove il Presidente è solo un tassello del complesso mosaico nel sistema di potere iraniano, e non già un centro autonomo ed indipendente come spesso percepito in occidente. Ahmadinejad risponde quindi a logiche di schieramento che lo pongono oggi allineato con un eterogeneo gruppo di interessi politici e – soprattutto – economici desiderosi di un cambiamento di indirizzo all’interno del sistema politico iraniano, sebbene non così radicale da pregiudicare l’esistenza stessa della Repubblica Islamica. Una trasformazione, quindi, più orientata in direzione di una vocazione “presidenzialista” che “riformista”, con il mantenimento delle prerogative di potere di larghe fasce dell’odierno establishment. I particolar modo, poi, sono evidenti i timori derivanti dall’impatto che, nel breve periodo, potrebbe generare il malcontento della popolazione. Ahmadinejad ha vinto le elezioni non solo grazie al sostegno di un compatto gruppo di fedelissimi e di ampie frange dei Pasdaran. Ha vinto le elezioni anche – e soprattutto – perché un cospicuo numero di elettori insoddisfatti del precedente Presidente

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riformista e delle sue mancate riforme ha deciso di dare credito alle promesse ed alle intenzioni di Ahmadinejad. Questo molto spesso anche in contesti tradizionalmente ostili al Governo ed alle istituzioni in genere, dove Ahmadinejad è stato visto alternativamente come “l’uomo che provocherà cambiamenti”, e quindi non rappresentando la variabile di continuità che invece è stata in larga misura abbinata a Rafsanjani, o come “l’uomo che spazzerà via la corruzione ed il malgoverno”, caratteristiche negative particolarmente evidenti del doppio mandato riformista. Una base elettorale relativamente contenuta – di poco superiore al 50% degli elettori – conquistata tuttavia in larga misura con grandi promesse in campo infrastrutturale, occupazionale e sociale. Promesse che, nella migliore delle ipotesi, si potranno mantenere in Iran solo parzialmente e temporaneamente grazie agli attuali ingenti proventi derivanti dall’industria dell’energia, ed in larga misura destinati a provvedimenti tampone attraverso i quali – come sempre – utilizzare lo Stato come “calmieratore” delle crescenti difficoltà interne. Un contesto politico ed economico, quindi, altamente instabile, dove larga, larghissima parte delle sostanze economiche del paese sono controllate da una sparuta minoranza e dove i patrimoni personali di alcuni esponenti politici o dell’oligarchia di comando contrastano in modo stridente con il reddito medio pro capito degli iraniani. Un contesto dominato quindi da una ristretta aristocrazia di comando largamente imperniata sul potere economico e terriero. Un sistema quindi profondamente conservatore per sua natura e tradizionalmente ostile ad ogni ipotesi di cambiamento o revisione delle tradizioni e delle regole generali del commercio e di convivenza della società. A questo connotato di base deve tuttavia essere abbinata la variabile demografica del paese, profondamente cambiata dal 1979 – anno della Rivoluzione – ad oggi. Dei quasi 70 milioni di abitanti, infatti, circa il 70% è al di sotto dei 35 anni di età, e tale dato determina una richiesta in termini di forza-lavoro di oltre 1.5 milioni di unità l’anno, a fronte di una capacità effettiva pari a circa 400.000 unità. Questo si traduce in una forte e sempre maggiore spinta innovatrice dal basso che, nel corso degli anni, ha provocato una profonda mutazione negli assetti e nelle dinamiche del potere, dell’economia ed anche della società iraniana. Il Presidente si è impegnato con questa porzione – enorme – della popolazione. Ha promesso benessere, occupazione, abitazioni, infrastrutture e futuro. In un sistema tuttavia ancora imperniato su una struttura mono-industriale – quella dell’energia – e con scarsissima capacità di diversificazione in altri ambiti e, soprattutto, vincolato dalla chiusura del paese verso l’esterno. Ha promesso un Iran diverso e destinato a soddisfare le esigenze delle nuove generazioni, e soprattutto un paese nel quale la corruzione, la malversazione e le disparità saranno eliminate. Un programma ambizioso e decisamente irrealizzabile. 10. Fazionalismo e politica in Iran Mahmood Ahmadinejad ha assunto nel corso degli ultimi mesi un ruolo ed una popolarità inaspettata in larga parte del Medio Oriente, progressivamente trasformandosi un un’icona del sentimento anti-occidentale nell’intera regione, ed ironicamente più nel contesto arabo che non in quello del suo paese. Il programma nucleare iraniano è stato artificialmente trasformato nel punto più importante dell’agenda degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite, mentre il Libano ha dimostrato l’abilità di Tehran nel saper sfruttare una crisi al di fuori dei suoi confini, e nello sviluppare sempre più forti legami con le comunità sciite nel mondo. L’attenzione dei principali attori internazionali, oggi, è tuttavia attratta in larga misura da quello che con ogni probabilità può essere giudicato come un falso obiettivo, o quantomeno un elemento secondario; il programma nucleare iraniano. Al contrario, invece, la reale ragione del sempre più intenso attivismo iraniano è dovuto in misura maggiore al crescente e sempre più evidente fazionalismo ai vertici dell’elite della Repubblica

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Islamica, e non già in un’improbabile riproporsi dell’originale – ed anzi accentuato – concetto ispiratore della rivoluzione islamica. Comprendere le reali radici di questo processo di trasformazione interno, e gli obiettivi delle varie fazioni, rappresenta l’unico modo per tracciare un effettivo piano d’azione per diminuire l’influenza negativa del cosiddetto “fattore iraniano”. È lecito ritenere che, attraverso una più mirata indagine sulle dinamiche del problema, invece di eccessive attenzioni e coinvolgimenti sulla questione nucleare, possa essere favorita la soluzione della crisi. Agevolando al tempo stesso la naturale evoluzione di quella che sembra essere la vigilia di una importante trasformazione nel sistema politico della Repubblica Islamica dell’Iran. Con la vittoria delle cosiddette forze conservatrici tra il 2004 ed il 2005, l’Iran è ritenuto oggi da una pluralità di esperti come dominato da un’apparentemente forte e coeso gruppo di esponenti dell’ala radicale e conservatrice, conducendo l’Iran in direzione di una oscura forma di neo-khomeinismo. Questa semplice – ma anche parzialmente erronea – interpretazione rischia di non cogliere la più importante variabile per la comprensione della politica iraniana odierna: il fazionalismo. È infatti palesemente presente una intensa e crescente conflittualità tra i due principali gruppi di forza del sistema politico iraniano, con l’aggiunta di un ruolo non marginale anche da parte di forze minori ma non per questo ininfluenti. Da un lato possiamo individuare il gruppo di potere “tradizionale”, essenzialmente costituito da una larga porzione di quelli che all’epoca della rivoluzione vennero definiti come i “religiosi combattenti”. Oggi non più dominati dalla sola figura della Guida come all’epoca di Khomeini ma, al contrario, in sostanza auto-regolamentati da una struttura collegiale del potere che comprende elementi formali ed informali del complesso sistema istituzionale iraniano. Al vertice di questi individuiamo ancora la Guida (il Rahbar), l’Ayatollah Khamenei, ed un ristretto numero di anziani – e largamente screditati agli occhi dell’opinione pubblica – esponenti del clero asceso al potere all’epoca della rivoluzione. Dall’altro lato, invece, emerge la nuova generazione del potere. Non si tratta della gioventù che appoggiò il movimento riformista del presidente Khatami, bensì della generazione del potere politico e militare – essenzialmente composto da laici – proveniente e fortemente radicato all’interno delle istituzioni della Repubblica Islamica. Questo gruppo è retto essenzialmente attraverso un compromesso di potere adottato da un consorzio di forze sostenuto da un esiguo numero di importanti ed influenti esponenti del clero, come l’Ayatollah Mesbah Yazdi, unitamente ad alcuni tra i principali – ed esperti – rappresentanti di quello che è possibile definire come “l’universo dei Pasdaran”. Queste forze sono impegnate in una costante azione politica, premendo dal basso con il vigore di una nuova forza generazionale, e su numerose questioni fondamentali sono in totale disaccordo con la tradizionale concezione del potere così come espressa dal velayat-e faqih. Ci sono, quindi, due distinti e conflittuali programmi alle spalle di queste due principali forze del panorama politico iraniano. Il gruppo di potere tradizionale composto dal circolo dei “religiosi combattenti” è essenzialmente interessato alla continuità del sistema, e persegue questo obiettivo attraverso un parziale isolamento senza alcuna volontà di provocare mutamenti radicali all’interno del paese e delle istituzioni e beneficiando – quando possibile – dagli errori di politica estera nella regione commessi dagli Stati Uniti e più in generale dai paesi occidentali. Per questo gruppo il programma nucleare potrebbe costituire una risorsa da spendere in termini di influenza regionale. Il programma – come in passato – secondo queste forze andrebbe sviluppato silenziosamente e senza destare clamori di alcun genere, palesando i risultati nelle conoscenze o, ipoteticamente, nel possesso di ordigni, solo nel momento in cui questi siano effettivamente disponibili. Tutto ciò mantenendo il paese nel suo stato di isolamento parziale e proteggendo la vera ricchezza delle èlite iraniane: il sistema di controllo sul sistema amministrativo ed economico del paese. In sintesi, la conservazione delle prerogative di un quadro politico dominato da non più di 35/40 influenti

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esponenti dell’establishment, ognuno dei quali con il suo sistema di potere individuale e di re-distribuzione della ricchezza. Sul fronte avverso, invece, individuiamo una nuova amalgama di laici, militari e religiosi “puristi”, ampiamente supportati da una giovane generazione di tecnocrati e personale militare in larga misura composto da effettivi della Iranian Revolutionary Guard Corp, meglio noto come corpo dei Pasdaran. La raison d'être di queste forze è principalmente legata a due precisi obiettivi: il primo, quello di accedere al potere favorendo una progressiva sostituzione della vecchia generazione di religiosi, ormai non più stimati dall’opinione pubblica e considerati incapaci di fornire risposte alle reali esigenze del paese (questo significa una sostituzione generazionale dell’intero establishment, provocata dal basso ed apertamente orientata in funzione del cambiamento dei tradizionali centri del potere); il secondo, sebbene mai esplicitamente dichiarato, favorire l’eliminazione di quello che può essere senza mezzi termini considerato il vero ostacolo per il raggiungimento del primo obiettivo: la graduale trasformazione ed il successivo emendamento della struttura di potere delineata dal velayat-e faqih, favorendo la transizione dalla teocrazia in direzione di un tradizionale presidenzialismo islamico. Quello che abbiamo potuto osservare durante il primo anno della presidenza di Ahmadinejad, è una costante crescita nella conflittualità tra i due principali blocchi di potere, dopo un breve matrimonio di interesse durante l’ultima fase del mandato presidenziale di Khatami. La strategia politica di Ahmadinejad è in larga misura impostata sul populismo, attraverso l’estremizzazione dei concetti ispiratori della Repubblica Islamica, e con un incremento sostanziale nell’adozione di una retorica aggressiva nei confronti di quella che può essere percepita – soprattutto al di fuori dei confini dell’Iran – come la “madre di tutti i problemi”: Israele, o “l’entità sionista” nel gergo ufficiale della politica iraniana. In sintesi, si tratta più di una rivitalizzazione dei concetti espressi a suo tempo da Fardid (famoso filosofo politico tra gli ispiratori delle logiche rivoluzionarie, secondo il quale la violenza costituisce uno strumento fondamentale e necessario del processo di cambiamento) che non di una nuova frontiera politica. Con l’aggiunta di una forte impronta nella visione Mahdista, essenzialmente orientata in funzione della pressante necessità di una diffusa e qualificata ostilità al ruolo ed alla figura della Guida. Tra le più importanti espressioni del suo populismo, Ahmadinejad ha revitalizzato il dibattito sul programma nucleare, trasformandolo definitivamente in una icona dell’orgoglio nazionale e della dignità iraniana. Dalle scarse e frammentarie informazioni in merito allo sviluppo del programma nucleare iraniano disponibili nel corso degli anni Novanta, siamo transitati al contrario oggi alla completa e dettagliata disponibilità di informazioni sullo sviluppo dello stesso e sulle infrastrutture interessate. E questo non già per un incremento delle attività di SIGINT (Signal Intelligence) o quale conseguenza delle attività clandestine del MEK (Mujahedin-e Kalq), ma grazie invece al ruolo delle stesse forze emergenti dell’ala conservatrice che hanno largamente favorito la diffusione di tutto ciò che un tempo era considerato sensibile e segreto per gli interessi della nazione. Per queste forze emergenti della compagine conservatrice, lottare contro la struttura tradizionale del potere significa attaccare il sistema spingendone la politica e la retorica al massimo livello possibile. Così facendo, l’essenza dogmatica della retorica rivoluzionaria e quella islamica vengono non solo protette, ma anche trasformate in uno strumento ostile agli interessi delle forze conservatrici tradizionali. Il cambiamento è quindi perseguito attraverso l’esasperazione della stessa retorica dei “religiosi combattenti”. Questo scontro può dunque essere osservato anche come un tentativo concreto di introdurre i concetti di base necessari per un radicale ripensamento della struttura istituzionale del potere iraniano, decisamente puntando in direzione di un emendamento nella natura e nella portata delle funzioni sancite dal velayat-e faqih, al tempo stesso promuovendo una sostituzione generazionale nella rigida struttura teocratica. Come nel 1980, dunque, l’unica soluzione valida per favorire il cambiamento sembra essere quella dell’isolamento. L’establishment iraniano emergente, quindi, non teme più di tanto per questa

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ragione un confronto diretto, od anche uno scontro, con l’occidente e con gli Stati Uniti in particolare, cercando addirittura di provocarlo. Valutando erroneamente, tuttavia, due importanti fattori: l’imprevedibilità della politica estera statunitense e la sua capacità potenziale di sferrare una nuova operazione militare nella regione. 11. La definizione della politica estera iraniana ed il Consiglio Strategico per la Politica Estera Il crescente ruolo del fazionalismo, ed il confronto che ne deriva tra i differenti centri del potere, è particolarmente visibile nell’ambito di tutto ciò che contribuisce a formare ed attuare la politica estera iraniana. Questa è storicamente il frutto di una mediazione politica ed istituzionale che, ad ogni livello, tende a coinvolgere un gran numero di organi ed apparati all’interno della complessa matrice del potere della Repubblica Islamica dell’Iran. Non esiste in realtà, né è mai esistito in passato, un processo chiaro e definito per la definizione e la gestione della politica estera. La stessa Costituzione non fornisce elementi chiarificatori in merito, sottolineando anzi il carattere collegiale per la valutazione e la gestione dell’indirizzo della stessa in funzione dell’interesse della nazione. Storicamente si è sempre cercato di definire le strategie complessive per il perseguimento degli obiettivi di politica estera attraverso il raggiungimento di una sfera di consenso informale tra i principali esponenti del potere politico nazionale. Non già, quindi, attraverso l’emanazione di decreti o la promulgazione di atti ufficiali, quanto invece attraverso la tacita o palese approvazione di una linea generale di indirizzo definita e sostenuta collegialmente. Sono certamente coinvolti nel processo decisionale, ed in subordine in quello gestionale, almeno quattro tra i principali attori istituzionali del paese: la Guida, il Presidente, il Governo ed il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale. Ed è quest’ultimo, in realtà, quello a cui sembrerebbe essere stata storicamente demandata la funzione di indirizzo e programmazione della politica estera, apparendo il Consiglio una sorta di organo collegiale rappresentativo delle principali prerogative di potere all’interno della matrice istituzionale iraniana. Tale procedura è entrata tuttavia in crisi nel corso del doppio mandato presidenziale di Khatami, delineando la formazione di gruppi contrapposti e, più in generale di una doppia e concomitante linea di politica estera. L’una espressa nell’ambito del Governo e del potere riconosciuto al Presidente; l’altra nell’ambito più generico – ma certamente maggiormente dotato sotto il profilo esecutivo – del sistema di controllo della Guida, del Consiglio del Discernimento e del Consiglio dei Guardiani. Si è assistito costantemente, dalla fine degli anni Novanta in poi, ad una gestione della politica estera basata sul forte ed evidente scontro tra centri istituzionali del paese, con la non infrequente presenza di giudizi e decisioni in netto contrasto tra loro. Non di rado, infatti, decisioni prese e manifestate pubblicamente dal Governo sono state apertamente smentite, e di fatto vanificate, da una successiva pronuncia degli organi istituzionali funzionalmente subordinati alla Guida. Con l’evidente incapacità per gli stranieri di poter comprendere in modo chiaro, e soprattutto univoco, il generale orientamento della politica estera iraniana. Sebbene apparentemente diversa dopo l’elezione del Presidente Ahmadinejad, la definizione e la gestione odierna della politica estera iraniana continua a rappresentare un’incognita stante la contrapposizione – più o meno palese – tra l’ufficio del Presidente e quello della Guida. La politica estera del nuovo Presidente si è subito caratterizzata per decisione di indirizzo, asprezza dei toni e chiarezza degli obiettivi. La tradizionale ambiguità politica iraniana ha quindi lasciato spazio ad una decisa e veemente azione di politica estera destinata a chiarire in modo immediato la prevalenza delle scelte presidenziali e di governo rispetto a quelle di ogni altro organo istituzionale

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del paese, delineando i contorni di una crisi sempre più evidente con la Guida e gli organi a questa funzionali. L’elemento di novità rispetto al passato, tuttavia, è stato quello dell’adozione di linee generali decisamente conservatrici ed anzi ancor più rigide rispetto a quelle tradizionalmente adottate in passato in seno all’ala cosiddetta dei conservatori. In tal modo il Presidente Ahmadinejad ha potuto dettare le linee programmatiche di indirizzo del Governo, senza concedere spazio si manovra alla Guida ed ai gruppi di potere a questa direttamente od indirettamente connessi. Definendo una linea politica “dura e pura”, di chiara matrice neo-khomeinista, il Presidente ha reso vana ogni azione ostile o contraria alla propria linea politica, esponendo anzi al rischio di biasimo coloro i quali non fossero intenzionati a supportarla. Un espediente straordinariamente efficace e totalmente inaspettato, che ha colto di sorpresa non tanto – e non già – gli osservatori stranieri, quanto lo stesso tessuto politico iraniano. La politica estera del paese dal giugno del 2005 ad oggi, quindi, è stata completamente ridefinita sia in termini di indirizzo che di mera gestione, con l’adozione di quella che apparentemente è sembrata essere l’imposizione di una insensata politica di scontro, attraverso anche una dialettica particolarmente aggressiva ed ostile a tutto campo verso l’esterno. La politica estera di Ahmadinejad, in realtà, riflette appieno le esigenze di politica interna del paese ed il complesso e critico andamento delle relazioni tra i principali centri del potere all’interno della Repubblica Islamica. Da una parte, quindi, si è cercato di conseguire il risultato dell’isolamento internazionale soprattutto attraverso una rinnovata retorica di scontro con gli Stati Uniti ed Israele, coadiuvata egregiamente dalle esternazioni circa le modalità generali di gestione del programma nucleare iraniano; dall’altra si è sempre più delineato il margine di una profonda lacerazione all’interno del paese, laddove la porzione dell’establishment tradizionalmente legata alla Guida ed al gruppo di comando della prima generazione del clero si è vista erodere progressivamente ed abilmente larghi spazi nella definizione delle strategie complessive di indirizzo. Ed è in questo contesto che, il 25 giugno del 2006, è stato costituito il Consiglio Strategico per la Politica Estera, un nuovo organo destinato a definire e valutare le strategie generali della politica estera iraniana, sottoposto gerarchicamente direttamente all’ufficio della Guida. Il nuovo organo istituzionale (il cui nome in persiano è Shora-yi Rahbordi-yi Ravabet-i Khareji) è stato costituito mediante un decreto emanato per ordine diretto dell’Ayatollah Ali Khamenei, in funzione delle prioritarie necessità di indirizzo della politica estera della Repubblica Islamica dell’Iran. Il ruolo del Consiglio, infatti, dovrebbe essere di ampia portata e destinato a fissare non solo le linee generali della politica estera nazionale ma, soprattutto, favorire un nuovo approccio generale nelle dinamiche di relazione con l’estero ed un più proficuo e strategico utilizzo degli esperti in materia nelle università e nei ministeri iraniani. Non pochi, tuttavia, hanno letto nella creazione di questo nuovo organo una volontà della Guida di limitare sempre più il ruolo ed il potere del Presidente, sulla cui inesperienza in materia di politica estera si è ampiamente dibattuto in seno al Parlamento ed ai maggiori organi istituzionali del paese. Sembrerebbe potersi così delineare, quindi, una strategia per esautorare gradualmente il Presidente ed il governo dalla definizione e dalla gestione delle relazioni internazionali, avocando alla Guida il compito di coordinare attraverso il suo apparato la gestione della politica estera. Ha colpito soprattutto, con l’istituzione del nuovo organo, l’elencazione degli esperti da nominare alla guida dello stesso. Da Kamal Kharrazi, ex Ministro degli Esteri con il Presidente Khatami, ad Ali Akbar Velayati, predecessore di Kharrazi con il Presidente Rafsanjani, ed oggi stretto collaboratore di Ali Larijani, già a capo del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale. Non ultimo, figura tra gli esponenti nominati anche l’ammiraglio Ali Shamkhani, ex alto ufficiale della marina dei Guardiani della Rivoluzione e Ministro della Difesa con il Presidente Khatami. Tutti uomini certamente non legati al gruppo di potere di Ahmadinejad e, anzi, potenzialmente assai ostili all’indirizzo di politica estera del Presidente.

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Solo uno dei membri del nuovo organo sembrerebbe potere essere vicino alle posizioni del Presidente. Si tratta di Mohammad Taremi-Rad, l’unico religioso nominato, che è stato in passato il direttore del Centro Iraniano per gli Studi Storici, Ambasciatore in Cina ed Arabia Saudita ma, soprattutto, ex appartenente al Seminario Haqqani, tradizionale centro del potere degli Hojjati. Assai complessa la valutazione circa l’effettiva funzione di tale nuovo consiglio. In apparenza non sarebbe necessario un nuovo organo cui delegare i compiti di fatto già assolti dalla mediazione tra i gruppi di potere ed attraverso il ruolo del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale, andando anzi in tal modo a complicare di fatto i già farraginosi e complessi meccanismi di determinazione della politica estera iraniana. In realtà tale nuovo organo potrebbe essere destinato a controbilanciare il ruolo del Presidente, a rappresentare un canale parallelo di dialogo con l’esterno o, alternativamente, fungere da ennesimo organo istituzionale atto a complicare e rendere meno visibile dall’esterno il quadro dei rapporti e della capacità decisionale in termini di politica estera. Funzione quest’ultima non certo nuova né originale nel complesso panorama istituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran. 12. Libano: ha vinto la guerra Hizbollah? O è l’Iran il vincitore? Ed anche, quindi, la recente crisi libanese può essere letta come un effetto del fazionalismo iraniano, oltre che come pratica espressione della rinnovata strategia di sicurezza regionale di Tehran. Il risultato della guerra tra Israele e l’Hizbollah è ancora altamente incerto. Come alcuni analisti hanno correttamente segnalato, la vittoria dell’Hizbollah è oggi più il frutto di una interpretazione occidentale dei fatti, piuttosto che una concreta e reale vittoria sul piano strategico e militare. L’Hizbollah ha storicamente acquisito un ruolo rilevante in Libano più attraverso l’offerta di infrastrutture e servizi che non per la sua attività militare e politica. Avendo provocato – perché la gran parte dell’opinione pubblica locale è convinta del fatto che il conflitto sia stato chiaramente ed apertamente provocato dall’Hizbollah – la distruzione di una ampia porzione di quanto laboriosamente e faticosamente ricostruito dopo anni di guerra civile, l’evento non è certo stato acclamato come una vittoria da molti libanesi. L’immagine della gente festosa inneggiante alla vittoria contro l’odiata “entità sionista” è stata in molti casi una piece teatrale organizzata e servita ad uso e consumo dei media occidentali, e di quelli europei in particolare. Molti, in Libano ed al di fuori, si domandano chi pagherà il conto della ricostruzione di quanto distrutto durante la breve ma intensa guerra. E la gran parte di questi concordano nel sostenere che sarà l’Iran il principale attore di questo piano di ricostruzione. Tutto ciò non significa necessariamente che solo l’Iran sia interessato alla ricostruzione del Libano. L’Arabia Saudita e molte fondazioni o gruppi islamici sono certamente pronti ed interessati a partecipare in questo progetto, ma l’Iran cercherà di monopolizzare il programma di ricostruzione capitalizzando la sua influenza su Hizbollah e cercando di agire il più possibile come interlocutore unico. Diminuendo il ruolo e la portata dello sforzo e dell’influenza saudita e della grande rete composta dai finanziatori e dei donatori islamici - in larga misura entità decisamente sconosciute. Questo provocherà una crescita irreversibile dell’influenza dell’Iran sull’Hizbollah, ma anche un crescente timore ad ogni livello della vita politica e sociale libanese per il rischio di una eccessiva sudditanza in politica interna nei confronti del partito Sciita. In altre parole, al momento sembra chiaro come lo scontro tra Israele e l’Hizbollah abbia generato – sebbene momentaneamente – un solo vincitore: la repubblica Islamica dell’Iran. Con l’acuirsi della crisi, l’Iran è stato in grado di promuovere la sua fiera retorica sulla questione nucleare, senza concedere alcuna possibilità all’occidente e perfino umiliando la missione del Segretario delle Nazioni Unite a Tehran Kofi Annan, al tempo stesso allontanando lo spettro di una escalation nella regione del Golfo. Nessuno, peraltro, in occidente sembra quindi in grado di

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interpretare e comprendere l’intricata matassa delle logiche di confrontazione del sistema politico iraniano, in tal modo concedendo all’Iran di perseguire il i suoi oscuri obiettivi: isolare il paese in modo da favorire la determinazione di un nuovo ordine interno ed una nuova strategia di sicurezza regionale. E l’esito di questa complessa crisi libanese ha dimostrato che la strategia di sicurezza iraniana è efficace e di successo. Mobilitando un flusso sotterraneo di supporto attraverso le varie comunità Sciite nel Medio Oriente è possibile minacciare concretamente l’intera regione. 13. Il programma nucleare: vero o falso obiettivo? Un rischio per l’Europa e per gli Stati Uniti Senza entrare nel merito circa la natura ed il potenziale del programma nucleare iraniano, sia sotto l’aspetto degli sviluppi civili e pacifici che militari, ma esclusivamente considerando come sia stato – ed è – gestito dall’establishment iraniano, risulta opportuno valutare con attenzione alcuni fatti. La questione del nucleare è stata, ed ancora lo è oggi, il collante della società e la bandiera della politica estera iraniana ad ogni livello ed in ogni contesto. Gradualmente trasformata nella sola questione oggetto di dibattito con l’Iran, massimizzando l’effetto del suo potenziale e la sua reale struttura, è divenuta la più pubblicizzata e pubblicamente trattata faccenda tra tutte le questioni iraniane. E questo non solo a causa delle investigazioni straniere o per le rivelazioni delle forze di opposizione al governo di Tehran, bensì per la gran mole di dati ed informazioni apertamente trasmesse da fonti locali ad una assetata stampa ed opinione pubblica internazionale. Il modo in cui l’Iran ha condotto il dialogo sulla questione nucleare a livello internazionale, sia con entità singole che con le Nazioni Unite, ha chiaramente dimostrato solo un fattore: non ci sono aperture su questa faccenda da parte dell’Iran. Od almeno non ci sono nella misura in cui oggi possono interessare a Tehran. È stato quindi quello del nucleare, senza mezzi termini, un abile e riuscito sistema per incardinare l’intera dimensione delle relazioni internazionali nell’ambito di un meccanismo ad imbuto che ha concesso molto poco spazio ad ogni altro argomento di discussione. Un sistema, in sintesi, nel quale ci si è serviti del nucleare più come pretesto che non in ragione di un reale ed effettivo obiettivo nazionale. Il “fattore nucleare” ha quindi svolto – e tuttora svolge – il suo ruolo sia all’interno che all’esterno del paese. All’interno ha assunto proporzioni gigantesche il grado di supporto per il programma nucleare da parte dell’opinione pubblica locale, laddove il consenso in funzione dell’accesso del paese alle specifiche tecnologie è diventato una questione di orgoglio nazionale al quale nessuno – nemmeno i più accaniti oppositori del governo e della Repubblica Islamica – sembrano oggi essere disposti a rinunciare. Sul versante delle relazioni internazionali, al contrario, lo sviluppo del progetto atomico ha rappresentato il migliore e più efficace sistema per avviare un meccanismo di relazioni a singhiozzo e, soprattutto, per innescare un processo volutamente ambiguo e contraddittorio con l’Europa. Consci dell’indisponibilità europea, russa e cinese nell’affrontare con gli Stati Uniti lo spinoso tema dell’inasprimento delle sanzioni, i vertici iraniani hanno abilmente gestito una logorante trattativa apparentemente senza uscita e caratterizzata da continue contraddizioni. Così facendo l’Iran ha ottenuto un vantaggio in termini di tempo e, soprattutto, ha favorito le condizioni per la determinazione di quell’isolamento internazionale così agognato in alcuni circoli dell’establishment iraniano. È quindi assai complessa ed articolata, oggi, la posizione di tutte le nazioni impegnate nel processo di negoziazione con l’Iran. Attribuire eccessivo peso al fattore nucleare, rischia di innescare un meccanismo non solo improduttivo ma, anzi, di rafforzamento per la politica iraniana. Con il rischio, non certo minimo, di provocare una dèbacle politica per la capacità negoziale europea e, peggio ancora, alimentando sul

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fronte statunitense il dibattito circa l’opportunità di una ipotetica – quanto sciaguratamente nefasta, nel caso – soluzione militare per la soluzione del problema. Aprire un tavolo negoziale meno costretto e di più ampio respiro, con l’evidente diminuzione della rilevanza del fattore nucleare, sembra tuttavia non essere un’opzione facilmente perseguibile. Spostare i termini della negoziazione con l’Iran su un piano differente da quello attuale, infatti, sembra essere percepito sia in Europa che negli Stati Uniti al pari di una sconfitta sul piano diplomatico. Quasi si trattasse di una implicita autorizzazione all’Iran nel perseguire il proprio programma in modo autonomo e senza condizioni e, di fatto, ammettendo l’incapacità negoziale dimostrata nel corso degli ultimi due anni. Un problema assai complesso, quindi, nel quale si innesca una sempre maggiore difficoltà nel dialogo tra l’Europa e gli Stati Uniti, e dove la marginalizzazione di questi ultimi nella definizione delle politiche regionali potrebbe provocare una ulteriore rischiosa deriva nei confronti della strategia da adottare per la soluzione dei problemi con l’Iran. È quindi necessario che la politica europea, per il tramite dei suoi delegati ufficiali e non in ordine sparso come di consueto, cerchi non solo di definire una strategia comune ma, soprattutto, coinvolga gli Stati Uniti in direzione di una soluzione bilateralmente ritenuta idonea e congiuntamente supportata.

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CAPITOLO QUARTO LE OPZIONI PER AHMADINEJAD 1. Un incerto futuro Mantenere lo status quo in Iran, senza provocare sconvolgimenti epocali, significa oggi cercare di replicare le condizioni che nel 1980 consentirono di consolidare – e salvare – la neonata Repubblica Islamica. Queste, in termini di opzioni, sono essenzialmente limitate alla chiusura ed all’isolamento del paese. Mentre nel 1980, tuttavia, le condizioni vennero “facilitate” dall’occupazione dell’Ambasciata USA e dal conflitto con l’Iraq, oggi il contesto si presenta di gran lunga differente. Ed è anche per questo che, almeno in apparenza, sembra di poter intravedere in Ahmadinejad una volontà costante di provocare lo scontro. In assenza di condizioni oggettive atte a determinare una chiusura ed un isolamento del paese, l’innalzamento del livello di conflittualità con l’esterno – meramente verbale al momento – consente di provocare quelle aritmie diplomatiche utili e propedeutiche per la determinazione di una più decisiva e duratura crisi regionale. E, leggendo tra le righe, la retorica di Ahmadinejad è sempre più simile ed in linea col pensiero del filosofo Fardid, teoreta iraniano della violenza politica come strumento per la realizzazione del cambiamento salito agli onori della cronaca in epoca rivoluzionaria e poi lentamente caduto nell’oblio. Anche il costante ricorso alla simbologia del Mahdi – tema peraltro particolarmente caro agli anti-Baha’i ed all’Hojjatieh – è frutto di tale ispirazione. È l’avvento del Mahdi, infatti a simboleggiare l’epoca della lotta finale, dello scontro universale tra il bene ed il male. È il fine, quindi, a giustificare machiavellicamente i mezzi. La necessità impellente per l’Iran è quella di consentire il processo di transizione post-riformista nel modo meno traumatico possibile. Senza interferenze esterne e, soprattutto, senza lo spettro rappresentato dalla necessità di una spinta innovatrice necessaria ed irreversibile nel sociale, nell’economia e nella politica. All’Iran serve tempo per attuare un processo di riforma essenzialmente destinato a favorire una sostituzione generazionale. Serve tempo soprattutto perché non c’è accordo né convergenza di interessi e vedute all’interno del complesso sistema del potere all’interno della Repubblica Islamica. È, in buona sostanza, una questione delicata da risolvere all’interno del sistema che, necessariamente, non può essere condizionata da elementi esogeni al sistema stesso. Il rischio, tuttavia, è quello di cedere a soluzioni affrettate per generare il necessario terreno di lavoro, mal valutando gli effetti collaterali o, addirittura, non prevedendo le possibili variabili. Non sussistono dubbi circa la volontà del Presidente iraniano di voler innalzare il livello del “dialogo critico” con l’occidente. Il nucleare, ragion di Stato al di sopra di ogni sospetto ed al contempo elemento ormai inscindibile ed irrinunciabile del sentimento nazionale iraniano, si presta in tal modo egregiamente come filo conduttore di una crisi apparentemente senza uscita. L’apparente sprovvedutezza diplomatica e la ben pubblicizzata – soprattutto dagli iraniani – inesperienza del Presidente in termini di opportunità politica, nasconde in realtà un disegno ben più articolato ed omogeneo. Ahmadinejad è, ed è stato, abilissimo nell’individuare un selezionato ma robusto set di argomenti su cui costruire il processo di innalzamento delle barriere politiche con l’Iran. Il nucleare, e soprattutto la possibilità di una proliferazione nella regione, è stato il baluardo di partenza di questa strategia. Seguita poi dal fattore ebraico, attraverso i più delicati e strategici – in un’ottica iraniana – sotto-insiemi della sicurezza dello Stato di Israele e dell’Olocausto. Questi ultimi due aspetti in particolare sono particolarmente sensibili nella definizione dei rapporti con gli Stati Uniti e con l’Europa, come il Presidente iraniano ben comprende. Ed è proprio per questa ragione che su tali aspetti si è impostata l’impalcatura delle relazioni con l’Occidente in generale. Il fattore marcatamente anti-semita si inserisce quindi come elemento di novità nel contesto della dialettica politica della Repubblica Islamica, da sempre anti-sionista ma in modo alquanto

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particolare e pragmatico. È infatti ben noto quale, e quanto intenso, sia stato lo sforzo politico di Israele nel 1980 nel proteggere la Repubblica Islamica dell’Iran dall’Iraq e dai finanziatori arabi del conflitto che ha coinvolto i due paesi per otto anni. La politica – meglio sarebbe definirla realpolitik – di Tel Aviv, infatti, ha permesso non solo il contenimento delle ambizioni irachene, ma soprattutto ha favorito l’appoggio americano per il sostegno indiretto dei due contendenti nell’ambito della dottrina del dual containment. Nel proprio diretto e specifico interesse, certamente, ma questo ben poco contò per gli iraniani nel momento in cui dovettero affrontare i rischi di un conflitto combattuto nel più assoluto e totale isolamento internazionale. Sono oggi peraltro più alcuni stati arabi, piuttosto che Israele, a spingere in direzione di un attacco all’Iran, ed anche questo è un fatto noto agli iraniani. Oggi, come allora, isolamento e gestione autonoma del processo di evoluzione politica significano per l’Iran continuità. Continuità della Repubblica Islamica, in primis, e continuità del complesso sistema politico ed economico in subordine. Sebbene siano largamente presenti divergenze di visione ed indirizzo all’interno dell’establishment iraniano, sulla necessità di gestire la continuità del sistema sussista da tempo una convergenza di interessi multipla ad ogni livello della politica e dell’economia. È una necessità in larga misura condivisa anche dall’opinione pubblica. Lo Repubblica Islamica, intesa come Stato, è la spina dorsale economica e sociale dell’Iran. Forzare un cambiamento potenzialmente dannoso o, come spesso viene ritenuto possibile da alcuni analisti occidentali, ipotizzare una nuova rivoluzione, è assolutamente contrario all’interesse ed alla prospettiva di sicurezza e stabilità della gran parte degli iraniani. Sono senz’altro presenti e palesi numerose forme di critica al sistema politico ed alla classe dirigente, ma le priorità generali a livello popolare sono senz’altro più orientate alla stabilità economica, all’occupazione ed alla continuità che non al cambiamento, alla libertà in generale od al concetto di democrazia rappresentato dal modello occidentale. L’esempio di quanto accaduto in Iraq successivamente al collasso dello Stato e delle Istituzioni ha profondamente turbato l’opinione pubblica iraniana. La caotica situazione post-intervento nell’Iraq ancora impegnato in un difficile processo di ricostruzione, costituisce per la gran parte degli iraniani un modello negativo da cui rifuggire ad ogni costo. Anche rinunciando ad alcune libertà o prerogative imposte dalla rigida impostazione della Repubblica Islamica. La corruzione, presente e palese in Iran al pari di ogni altro paese, costituisce un aspetto della vita pubblica. Non è, a dispetto di quanto propagandato dal Presidente, un nemico da abbattere ad ogni costo. È un tassello che ha da sempre caratterizzato le attività umane e, sino a quando inserito in un tessuto sociale capace di creare comunque prosperità e risorse, viene tollerato e giustificato. Non è quindi il sistema così come strutturato in Iran a rappresentare il problema – con una oligarchia di comando in grado di controllare in modo quasi totalizzante l’economia del paese. È la garanzia di continuità ad un livello accettabile ad essere largamente perseguito in ogni ambito della società. Ed è questo il principale problema nel medio periodo per il Presidente Ahmadinejad: disporre di risorse sufficienti per garantire la continuità. 2. Europa e Stati Uniti Se la confrontazione con l’esterno si presenta nell’ottica iraniana come una strategia percorribile per provocare un isolamento parziale del paese, meno chiara appare la valutazione delle variabili di rischio da parte dell’Iran. Lo stallo negoziale sul nucleare, e le costanti percezione di minaccia nei confronti di Israele sembrano aver innescato un pericoloso meccanismo a livello internazionale. L’Unione Europea tenta ancor oggi la carta negoziale con la Repubblica Islamica, attraverso l’operato di una terna di lavoro composta dai delegati di Gran Bretagna, Francia e Germania che, a tutt’oggi, è riuscita ad ottenere ben poco dall’Iran risultando sempre meno credibile a livello internazionale. La Gran

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Bretagna sembra da tempo essere ai margini di ogni possibilità di influenza sulla sfera della politica e del potere in generale all’interno della Repubblica Islamica, mentre la Francia ha sempre storicamente manifestato una politica tendenzialmente anti-iraniana. La grande sorpresa è stata invece la Germania, capace di creare in breve tempo un articolato e ben riuscito programma di contatto con le diverse “anime” del potere iraniano, e sviluppando un network ed una capacità di dialogo mai sperimentata prima a livello europeo. Col sospetto di rappresentare interessi più ampi rispetto a quelli della terna negoziale. Grandi assenti la Spagna e l’Italia. La prima giustificata da un modesto interesse economico in loco e da una scarsa storia di relazioni bilaterali, la seconda ingiustificabile soprattutto in funzione della dimensione dell’interscambio economico. A parziale giustificazione per l’Italia è da segnalarsi la netta, sebbene non pubblicamente ostentata, ostilità alla partecipazione da parte di quasi tutti i membri della cosiddetta UE3 (Gran Bretagna, Francia e Germania) per ragioni essenzialmente connesse all’affidabilità di un partner non in grado di fornire in questo momento condizioni di stabilità politica e certezze di indirizzo nei processi negoziali internazionali. Sul fronte statunitense, al contrario, l’esperienza irachena ha imposto un basso profilo nella gestione – soprattutto mediatica – del problema con l’Iran. Nonostante ciò, tuttavia, e nonostante la più volte ostentata volontà di perseguire per quanto possibile una soluzione diplomatica, l’opzione di un intervento anche militare in caso di stallo nelle relazioni con l’Iran prende sempre più corpo. A discapito di tutta la pletora di commenti negativi ed ipotesi apocalittiche circa gli esiti di un intervento. La programmazione militare di un confronto con l’Iran, in atto per stessa ammissione dei vertici delle Forze Armate (sebbene a puro titolo precauzionale), prevede una intensità variabile d’azione compresa nell’ambito di uno spettro assai ampio. Dallo strike attack sulle infrastrutture connesse con lo sviluppo del progetto nucleare, ad una ben più articolata e massiccia azione per la sistematica eliminazione dei centri nevralgici del potere politico e militare della Repubblica Islamica. Opzioni e mera programmazione a scopo cautelativo, certamente, ma nell’ambito di una crisi che in modo sempre maggiore tende ad aggravarsi e, potenzialmente, ad innescare il meccanismo di “non-ritorno”. 3. La confrontazione ed i limiti della strategia per il cambiamento del regime Sebbene ancora siano contenute le probabilità di un intervento militare straniero contro l’Iran, configurandosi invece ancora attivo il processo di definizione diplomatica della crisi, non poche sono le valutazioni circa i potenziali effetti di una escalation. È considerata verosimilmente improbabile, sia all’interno che all’esterno del paese, la possibilità di provocare un radicale cambiamento politico attraverso l’uso della forza. L’elemento del nazionalismo e la solida capacità di compattare forze anche eterogenee per la difesa dello Stato, in Iran hanno sempre dimostrato di essere fattori reali e concreti. Un’azione militare, in Iran, ha maggiori probabilità di essere percepita dalla popolazione più come un attacco ed una umiliazione per l’orgoglio nazionale che non una manovra orientata alla “liberazione”. Provocando chiaramente reazioni diametralmente opposto a quelle ipoteticamente auspicate per un radicale rovesciamento delle istituzioni attraverso la partecipazione delle forze popolari. In ogni occasione gli iraniani hanno dimostrato di saper essere coesi per la difesa del Paese, laddove quest’ultimo concetto è nettamente distinto da quello meramente istituzionale di Repubblica Islamica per la gran parte degli iraniani. Ed è anche per questa ragione che un’ipotesi di tipo bellico non spaventa in modo particolare l’establishment iraniano. Una escalation militare costituisce, anzi, con quasi matematica certezza la possibilità di compattare in modo sistematico tutte le anime del complesso mosaico di interessi all’interno dell’Iran. È, inoltre, altamente improbabile che l’Iran possa essere invaso militarmente da truppe di terra, riducendosi in tal modo ancor di più le variabili negative nel metro di valutazione del governo

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iraniano. Così come l’utilizzo dell’armamento nucleare tattico per la distruzione dei siti militari o scientifici iraniani si rivelerebbe un insidioso rischio per gli stessi americani, che in tal modo legittimerebbero nuovamente ed a qualsiasi livello l’uso dell’arma atomica dopo sessant’anni di tacito ed universale rifiuto. Deve necessariamente poi essere segnalata l’estrema difficoltà nell’individuare reali e coese forze di opposizione al governo. All’interno del paese l’unica sfera palese del dissenso, quella delle generazioni più giovani e degli studenti universitari, è stata ridotta al silenzio in occasione dei moti della fine degli anni Novanta, mentre non appare migliore la situazione con gli iraniani della diaspora. Non costituiscono una vera forza di opposizione i monarchici, ridotti per numero ed incapaci di trovare nell’erede al trono un leader carismatico. Non lo sono nemmeno le forze storiche della sinistra, come il Tudeh od i Fedayn-e Kalq, ormai quasi estinti e frazionati i minuscoli gruppi. Così come è fuori discussione il gruppo dei Mujhaedin-e Kalq, considerati in patria alla stregua dei peggiori terroristi dalla gran parte della popolazione. E nemmeno le forze laiche tradizionaliste od indipendenti, ritiratesi da lungo tempo dalla scena politica attiva, hanno molte chance di successo. Tutto ciò a dispetto dell’ingente somma destinata dal governo degli Stati Uniti a favore dei progetti per il rafforzamento dell’opposizione al governo iraniano, e nella maggior parte dei casi concentratasi nel finanziamento di operazioni medianiche sulla cui efficacia è possibile sollevare leciti dubbi. Questa serie di elementi ha da sempre provocato incertezza ed ambiguità nell’ambito delle politiche di programmazione dei paesi occidentali, e soprattutto degli Stati Uniti, mentre è ben noto all’establishment iraniano come questi fattori costituiscano il reale punto di forza e stabilità del sistema, spingendo anzi spesso in direzione della palese provocazione. Ed è esattamente questo il maggiore rischio allo stato attuale nelle relazioni tra Iran e Stati Uniti. L’eventualità che l’Iran possa considerare un confronto – anche militare – con gli Stati Uniti un meccanismo affatto pericoloso e, anzi, potenzialmente atto a favorire il consolidamento interno attraverso la cristallizzazione dei rapporti sul piano della politica internazionale. Ciò che risulta difficilmente valutabile, tuttavia, è l’esatta percezione iraniana dei margini e delle modalità di un ipotetico intervento da parte degli Stati Uniti o di una più ampia coalizione. Uno strike attack di intensità e durata contenuta, possibilmente limitato alla sola distruzione – o tentativo di distruzione – delle infrastrutture connesse allo sviluppo del progetto nucleare, potrebbe risultare la migliore delle opzioni possibili per l’Iran. Da un lato l’impasse in merito allo sviluppo di questo settore industriale sarebbe superata con una forzata interruzione, sarebbe possibile individuare negli Stati Uniti le responsabilità per tale evento e, soprattutto, l’effetto a catena dell’imprescindibile isolamento internazionale giustificherebbe qualsiasi rovescio sul fronte economico e su quello delle politiche sociali all’interno del paese. Le più giovani generazioni dell’establishment, in tal modo, potrebbero rimuovere uno dei più pesanti fardelli ereditati dai politici rivoluzionari, superando in tal modo uno dei più insidiosi ed indesiderati ostacoli nella gestione del potere. La possibilità che un ipotetico intervento militare si limiti alla sola rimozione chirurgica delle infrastrutture del programma nucleare è, tuttavia, altamente improbabile. A questo deve essere aggiunta una capacità di previsione della politica americana che, notoriamente, è sempre mancata all’Iran, così come agli europei. Oggi più che mai la politica strategica statunitense appare caratterizzata da un elevato grado di imprevedibilità, rendendo estremamente difficile poter formulare ipotesi – così come fu nel caso del conflitto in Iraq – basate su considerazione meramente algebriche come gli europei sembrano ostinatamente continuare a fare. Questa dimensione di incertezza, quindi, lascia trasparire la possibilità di una volontà e capacità di intervento da parte USA di gran lunga superiore a quella meramente necessaria per la determinazione di un atto dimostrativo, con le evidenti ricadute in termini di effetti sul territorio. E soprattutto in costanza di una incapacità europea a comprendere gli eventi ed il proprio ruolo sul piano della diplomazia internazionale.

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4. Dalla confrontazione dialettica a quella bellica: effetti e prospettive Esiste una possibilità concreta, quindi, di confronto militare tra gli Stati Uniti e l’Iran. Non è invece altrettanto evidente quale possa essere la dimensione e l’estensione temporale di tale ipotetico evento. Le variabili di queste dinamiche sono essenzialmente limitate a tre ipotesi possibili. La prima è quella di un elevamento della conflittualità verbale ed un progressivo isolamento dell’Iran sotto il profilo diplomatico, senza ricorso all’uso della forza. Il secondo è una escalation di tipo militare, e con un confronto diretto contro l’Iran – quindi – sebbene su scala ridotta e con intensità minima. Il terzo, qui preso in esame, è invece l’ipotesi (da ritenersi più probabile in caso di conflitto) di una operazione su larga scala contro l’Iran destinata a colpire in modo sistematico e capillare la struttura del potere politico e militare iraniano. Mentre le prime due variabili potrebbero non avere conseguenze sugli assetti regionali e globali, limitandosi ad una mera conflittualità sporadica e senza ritorsioni, la terza potrebbe sfociare nel tentativo di allargamento del conflitto e di generare una crisi di tipo internazionale da parte dell’Iran. Gli effetti e le conseguenze sono ovviamente solo ipotizzabili in termini generali, senza in alcun modo poter quantificare il bilancio di tali operazioni . Senza entrare nel merito della componente prettamente militare di uno scontro, è opportuno poter individuare quali siano i margini e le prospettive di una possibile crisi sotto il profilo nazionale, regionale e globale. Un’azione militare prolungata, sistematica e di particolare intensità contro le istituzioni e le forze armate iraniane potrebbe indebolire – soprattutto colpendo i Guardiani della Rivoluzione – le capacità del governo centrale di Tehran di controllare le province a maggioranza etnica non persiana, in tal modo aprendo la strada ad una contrapposizione tra gruppi all’interno del paese certamente propedeutica per il collasso delle istituzioni ma anche dello Stato quale entità centrale ed unitaria. Le autorità di governo iraniane, prima del collasso, potrebbero tentare la carta della rappresaglia indiscriminata, colpendo obiettivi sensibili in tutta la regione nel tentativo di allargamento del conflitto e, soprattutto, nella vana speranza di poter coinvolgere qualche paese arabo a supporto della causa persiana. È incoraggiante segnalare come l’Iran, anche quando fu oggetto di attacchi chimici e batteriologici da parte delle truppe irachene, non abbia mai optato per la rappresaglia indiscriminata, rispettando il limite del convenzionale per tutta la durata del conflitto che lo contrappose all’Iraq. È auspicabile e possibile, ma senza alcuna certezza, che tale concezione della guerra comporti ancora una capacità ed una volontà di reazione dell’Iran limitata e vincolata all’utilizzo di armamenti convenzionali. Non è tuttavia da escludere che uno scontro di proporzioni maggiori, e soprattutto lo spettro della disfatta, possano indurre all’adozione di ben altro tipo di tattiche e tecniche. Soprattutto agendo laddove l’Iran ha qualche possibilità di confronto alla pari coni suoi avversari. In tale, drammatico, scenario, è quindi solo possibile ipotizzare alcuni dei principali ambiti di risposta cui la Repubblica Islamica dell’Iran potrebbe indurre, senza tuttavia potersi spingere nella quantificazione degli effetti. Una prima forma di risposta potrebbe essere quella di colpire con aerei o, con maggiore probabilità, con missili Shahab le raffinerie saudite e kuwaitiane e le installazioni militari USA in Qatar. L’effetto di un allargamento all’Arabia Saudita ed al Kuwait dello scontro, anche in assenza di danni irreparabili al sistema della produzione e della raffinazione degli idrocarburi, potrebbe determinare la crescita incontrollata dei prezzi del petrolio sui mercati internazionali, ponendo le basi per una significativa e duratura crisi negli approvvigionamenti.

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In termini generali di flussi energetici, ai circa 4 milioni di barili al giorno iraniani (sebbene oggi solo il 50% di questi volumi sia effettivamente disponibile), dovrebbero sommarsi quelli potenzialmente interessati pro quota per i sauditi e per i kuwaitiani, con effetti sugli approvvigionamenti di petrolio presumibilmente disastrosi. Non è da escludersi, poi, la possibilità di un tentativo di blocco dello stretto di Hormuz, soprattutto cercando di affondare naviglio nelle basse acque dell’area e lungo le principali direttrici del trasporto marittimo. O comunque di rendere altamente rischiosa la navigazione, e quindi particolarmente dispendiosa in termini di assicurazioni, attraverso la costante minaccia di mine, barchini esplosivi e attacchi di varia natura ai convogli. Le stesse opzioni possono interessare, sebbene con effetti di minore entità, i confini settentrionali attraverso il ricorso ad azioni ostili contro le installazioni petrolifere azere. L’Iran potrebbe cercare si massimizzare, poi, l’effetto della sua influenza nell’Iraq meridionale attraverso l’incremento degli atti ostili e degli attentati alle forze americane, ma anche ai sunniti. La variabile di Hizbollah e di Hamas contro Israele, sebbene potenzialmente prevedibile, sarebbe soggetta ad una valutazione di tipo meramente utilitaristico da entrambi i gruppi, probabilmente più interessati a partecipare “dimostrativamente” piuttosto che rischiare lo scontro aperto e globale con Israele. Nessuna di queste ipotesi risulterebbe con ogni probabilità essere decisiva o capace di provocare sconvolgimenti radicali negli assetti internazionali e locali, sia nel breve che nel lungo periodo. La maggior parte degli effetti si produrrebbe tuttavia sul piano economico, con una velocità di propagazione ed una intensità d’effetto certamente capace di generare conseguenze altamente critiche in larga parte del pianeta. Sotto questo profilo, l’Europa, la Cina, la Russia ed il Giappone risulterebbero le nazioni maggiormente colpite dagli effetti di un conflitto. Sia sotto il profilo economico per la perdita – presumibile – degli investimenti, sia – e soprattutto – sul piano politico, per aver dimostrato la più assoluta incapacità di gestione nel processo di crisi.

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ALLEGATI

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COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN Adottata il 24 Ottobre 1979 Efficace dal 3 Dicembre 1979 Emendata il 28 Luglio 1989 Nota: La versione qui allegata del testo ultimo emendato della Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran è una traduzione non ufficiale in italiano, redatta nel tentativo di renderla il più possibile aderente all’originale testo persiano. Per comodità, verifica ed interpretazione, viene allegata in diretta successione anche la traduzione ufficiale in inglese della Costituzione così come predisposta dalle autorità della Repubblica Islamica dell’Iran. La vigente carta costituzionale è stata promulgata il 24 ottobre del 1979. E’ entrata in vigore il 3 dicembre dello stesso anno ed ha subito una revisione il 28 luglio del 1989, successivamente alla morte dell’Ayatollah Khomeini. In nome di Dio, il compassionevole, il misericordioso

Invero inviammo i Nostri messaggeri con prove inequivocabili, e facemmo scendere con loro la Scrittura e la Bilancia, affinché gli uomini osservassero l'equità ... (57:25) Preambolo La costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran promuove le istituzioni culturali, sociali, politiche ed economiche della società iraniana basate sui principi e sulle norme islamiche, che rappresentano un'aspirazione onesta dell’Ummah islamico (popolo islamico). Questa aspirazione è stata rappresentata dalla natura della grande rivoluzione islamica dell'Iran, ed attraverso la lotta del popolo musulmano, dall’inizio sino alla vittoria, come dimostrato dalle decise e potenti richieste avanzate da ogni segmento della popolazione. Ora, dopo questa grande vittoria, la nostra nazione con tutto il suo popolo domanda la sua realizzazione. La caratteristica fondamentale di questa rivoluzione, che la distingue dagli altri movimenti sviluppatisi in Iran durante gli ultimi cento anni, è la sua natura ideologica ed islamica. Dopo avere vissuto il periodo del movimento costituzionale contro il dispotismo, il periodo del movimento anti-colonialista mirante alla nazionalizzazione dell’industria del petrolio, il popolo musulmano dell'Iran ha appreso da queste dolorose esperienze come la ovvia e fondamentale ragione del fallimento di questi movimenti fu rappresentata dalla mancanza di una base ideologica. Sebbene la linea del pensiero islamico e la guida dei religiosi militanti abbiano svolto un ruolo essenziale anche in questi movimenti, le lotte intraprese nel corso degli stessi sono rapidamente piombate nella stagnazione a causa della perdita di una genuina posizione islamica. Fu in questo modo che la rinnovata coscienza nazionale, sotto la guida dell’Imam Khomeini, percepì la necessità di perseguire una genuina linea islamica ed ideologica in questa lotta. E questa volta, gli “ulema” militanti (religiosi militanti) del paese, da sempre l'avanguardia dei movimenti popolari, insieme agli scrittori impegnati ed agli intellettuali, hanno trovato un nuovo impeto nel seguire la sua guida. L’alba del movimento La poderosa protesta dell’Imam Khomeini contro la cospirazione americana conosciuta come la “Rivoluzione Bianca", che rappresentò un tentativo per stabilire le fondamenta del dispotismo e per rafforzare la dipendenza politica, culturale ed economica dell’Iran dall’imperialismo mondiale, favorì la nascita di un movimento popolare unitario e, subito dopo, di una importante rivoluzione della nazione musulmana nel giugno del 1963. Sebbene repressa nel sangue, questa rivoluzione in

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realtà preannunciò l’inizio ed il fiorire di una gloriosa e massiccia sollevazione che confermò il ruolo centrale dell’Imam Khomeini quale guida islamica. Nonostante fosse stato esiliato dall’Iran dopo la sua protesta contro le umilianti leggi di capitolazione (nelle quali si prevedeva l’immunità per i consiglieri americani), il solido legame tra l’Imam ed il popolo continuò, e la nazione musulmana, intellettuali particolarmente impegnati e ulema militanti, continuarono la loro lotta nonostante il divieto e la prigionia, la tortura e l’esecuzione. In questo periodo, la parte cosciente e responsabile della società portava un messaggio di chiarimento al popolo dalle roccaforti delle moschee, dai centri di insegnamento religioso e dalle università. Ispirandosi dai fertili e rivoluzionari insegnamenti dell’Islam, cominciarono l’inesorabile ma proficua lotta per sviluppare il livello di consapevolezza ideologica e di coscienza rivoluzionaria del popolo musulmano. Il dispotico regime che aveva iniziato l’oppressione del movimento islamico con i barbari attacchi alla Faydiyyah Madrasah, all'università di Tehran ed a tutti i altri centri attivi della rivoluzione, nel tentativo di bloccare l’impeto rivoluzionario del popolo, ricorse alle più selvagge e brutali misure. Ed in queste circostanze gli omicidi ad opera dei plotoni di esecuzione, il ricorso a torture medioevali e le prolungate incarcerazioni furono il prezzo che la nostra nazione musulmana dovette pagare per dimostrare la propria ferma determinazione nel continuare la lotta. La rivoluzione islamica dell'Iran è stata consolidata dal sangue di centinaia di giovani uomini e donne, animati dalla fede, che scandirono le loro grida di "Allah-u Akbar" (Dio è grande) durante le esecuzioni, o mentre venivano uccisi dal nemico nelle strade e nei mercati. Nel frattempo, le continue dichiarazioni ed i messaggi dell’Imam promulgati in varie occasioni, estesero e rafforzarono al massimo la consapevolezza e la determinazione della nazione musulmana. Il governo islamico Il programma del governo islamico come proposto dall’ Imam Khomeini all'apice del periodo di repressione e soffocamento esercitato dal regime dispotico, produsse un nuovo e specifico percorso per il popolo musulmano, palesando il vero indirizzo della lotta per l’ideologia islamica, ed offrendo una maggiore intensità alla lotta dei musulmani impegnati e militanti sia all’interno che all’esterno del paese. Il movimento continuò su questa strada sino a che l’insoddisfazione generale e la grande rabbia generata dalla sempre maggiore oppressione, e la dimostrazione a livello internazionale della lotta dopo la denuncia del regime da parte degli ulema e degli studenti militanti, permise di scuotere le fondamenta del regime violentemente. Il regime ed i suoi sostenitori furono costretti a diminuire l’intensità della repressione ed a “liberalizzare” il contesto politico nel paese. Ritennero che questa mossa potesse costituire una valvola di sfogo atta a prevenire la loro capitolazione. Ma il popolo, sollevandosi con coscienza e risoluto sotto la decisa e sicura guida dell’Imam, intraprese una sollevazione trionfante, unitaria, totale e nazionale. La collera del popolo La pubblicazione di un articolo oltraggioso atto a screditare autorevoli e rispettati ulema ed in particolare l’Imam Khomeini il 7 gennaio del 1978 ad opera del regime al potere, diede impulso al movimento rivoluzionario e generò l’insorgere dell’indignazione popolare in tutto il paese. Il regime tentò di sedare la rabbia del popolo con una reazione che provocò spargimento di sangue, ma la carneficina ebbe come effetto solo quello di alimentare ulteriormente l’impeto della rivoluzione. Le commemorazioni per i martiri della rivoluzione del settimo e del quarantesimo giorno, come una serie di ferme pulsazioni, diedero ancor maggiore vitalità, intensità, vigore e solidarietà a questo movimento in tutto il paese. Nel corso di questo movimento popolare, gli impiegati di tutti gli uffici governativi presero attivamente parte nello sforzo di destituire il tirannico regime indicendo uno sciopero generale e partecipando alle dimostrazioni di piazza. La diffusa solidarietà tra uomini e donne di ogni segmento della società e di tutti i gruppi politici e religiosi ebbero un ruolo determinante nella lotta. Specialmente le donne furono attivamente e

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massicciamente presenti in modo cospicuo in ogni fase di questa grande lotta. La diffusa presenza di madri con in braccio i loro giovani figli attraverso le scene di battaglia e dinanzi alle mitragliatrici indicarono l’essenziale e decisivo ruolo di questo grande segmento della società nella lotta. Il prezzo pagato dalla nazione Dopo poco più di un anno di continua ed inarrestabile lotta, il germoglio della rivoluzione, irrorato con il sangue di oltre 60.000 martiri e 100.000 tra feriti ed invalidi, oltre i danni alle proprietà, maturò i suo frutti al grido di “Indipendenza! Libertà! Governo islamico!”. Questo grande movimento, che conseguì la vittoria attraverso la fede, l’unità e la capacità di decisione della sua guida in ogni momento critico ed importante, così come grazie allo spirito di sacrificio del popolo, riuscì a far crollare ogni calcolo dell’imperialismo e distruggendo tutte le sue connessioni e istituzioni, aprendo quindi un nuovo capitolo nella storia delle rivoluzioni popolari del mondo. Il 12 ed 13 febbraio del 1979 il mondo assistette al collasso del regime monarchico. La tirannia nazionale e la dominazione straniera, che ne costituivano il presupposto, furono frantumate. Questo grande successo dimostrò di essere l’avanguardia del governo islamico – un antico desiderio del popolo musulmano – e portò sé la lieta notizia della vittoria finale. All’unanimità, il popolo iraniano dichiarò la sua definitiva e ferma decisione, in un referendum sulla Repubblica Islamica, di dotarsi di questo nuovo sistema di governo. La maggioranza della popolazione, il 98,2%, votò per questo sistema. La Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, stabilendo quali debbano essere le istituzioni politiche, sociali, culturali ed economiche del paese e le loro relazioni con la società, deve ora provvedere al consolidamento della fondazione del governo islamico, e proporre il piano per un nuovo sistema di governo da erigersi sulle rovine del precedente ordine. La forma di governo nell’Islam Secondo l’Islam, il governo non deriva dagli interessi di una classe, né serve la dominazione di un individuo od un gruppo. Rappresenta, piuttosto, il raggiungimento dell’ideale politico di un popolo che condivide una comune fede ed una comune prospettiva, assumendo una forma organizzata in modo da iniziare un processo di evoluzione intellettuale ed ideologica in direzione di un obiettivo finale, quale l’orientarsi verso Dio. La nostra nazione, nel corso del suo sviluppo rivoluzionario, ha rimosso la polvere e le impurità accumulate nel passato ed ha purificato sé stessa dalle influenze ideologiche straniere, tornando ad una posizione intellettuale autentica e globale dell’Islam. Intende adesso stabilire un ideale e modellare una società sulla base delle norme islamiche. La missione della Costituzione è di realizzare gli obiettivi ideologici del movimento e di creare le condizioni che conducano allo sviluppo dell’uomo in accordo con il nobile ed universale valore dell’Islam. Rispettando il contenuti islamico della rivoluzione iraniana, la Costituzione stabilisce le basi necessarie per assicurare la continuazione della rivoluzione in patria ed all’estero. In particolare, nello sviluppo delle relazioni internazionali, la Costituzione si impegnerà con altri movimenti popolari ed islamici ad aprire la strada per la realizzazione di una singola comunità mondiale (in accordo con il versetto del Corano “Questa vostra comunità è un’unica comunità, e io sono il vostro Signore, adorateMi” [21:92]), e per assicurare la continuazione della lotta per la liberazione di tutti quelli che hanno subito delle privazioni e degli oppressi del mondo. Rispettando l’essenziale carattere di questo grande movimento, la Costituzione garantisce il rifiuto di ogni forma di tirannia intellettuale e sociale e di ogni monopolio economico, tendendo ad affidare i destini del popolo al popolo stesso in modo da interrompere definitivamente il sistema dell’oppressione. (Questo in accordo con il versetto del Corano “Egli li alleggerisce dei loro pesi e dei ceppi che li bloccavano” [7:157]). Nel creare, sulla base di una prospettiva ideologica, le infrastrutture e le istituzioni politiche che sono il fondamento della società, il virtuoso assumerà la responsabilità di governare ed amministrare il paese (in accordo con il versetto Coranico “In verità la terrà sarà ereditata dai Miei

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servi devoti” [21:105]). La legislazione stabilente le regole per l’amministrazione della società si rivolgerà al Corano e alla Sunnah (tradizione). In base a ciò, l’esercizio e la fervente supervisione di un giusto, un pio ed impegnato discepolo dell’Islam rappresenta una assoluta necessità. In aggiunta, lo scopo del governo è di provvedere alla crescita dell’uomo in modo che egli progredisca per lo sviluppo di un ordine divino (in accordo con la frase del Corano “Il divenire è verso Allah” [3:28]); e per creare condizioni favorevoli per l’emergere ed il fiorire delle innate capacità dell’uomo, in modo che la dimensione teomorfica dell’essere umano possa manifestarsi (in accordo con l’ordine del Profeta “Plasma te stesso secondo la moralità Divina”); questo obiettivo non può essere raggiunto senza l’attiva e vasta partecipazione di tutti i segmenti della società nel processo di sviluppo sociale. Tenendo presente questo obiettivo, la Costituzione fornisce le basi di questa partecipazione da parte di tutti i membri della società ad ogni livello del processo di decisione politica sulla base dei quali dipendono i destini del paese. In questo modo durante il corso dello sviluppo umano verso la perfezione, ogni individua sarà coinvolto, e reso responsabile della crescita, dell’avanzamento e della guida della società. Esattamente in questo risiede la realizzazione del sacro governo sulla terra (in accordo con quanto stabilito dal versetto del Corano “Noi volevamo colmare di favore quelli che erano stati oppressi sulla terra, e farne delle guide e degli eredi” [28:5]). Il Velayat-e Faqih (Il governo del Giusto ed esperto di giurisprudenza islamica) Mantenendo fede ai principi di governo ed alla perpetua necessità di una guida, la Costituzione provvede all’istituzione di una guida da assumersi da parte di una persona sacra che possegga le necessarie qualifiche e sia riconosciuta pertanto come guida dal popolo (questo è in accordo con il principio “La direzione degli affari è nelle mani di quelli che sono istruiti circa il volere di Dio e sono degni di fiducia in merito a quanto Egli permetta o vieti”). Questa guida impedirà ogni deviazione da parte dei vari organi dello Stato con riferimento ai loro impegni islamici essenziali. L’economia è un mezzo, non un fine Nel rafforzare le fondamenta dell’economia, la considerazione fondamentale sarà il perseguimento delle necessità materiali dell’uomo nel corso della sua crescita e del suo sviluppo complessivo. Questo principio contrasta con altri sistemi economici, dove lo scopo è la concentrazione e l’accumulazione della ricchezza e la massimizzazione del profitto. Secondo la scuola materialista del pensiero, l’economia rappresenta un fine a sé stante, trasformandosi in un fattore sovversivo e corrotto nel corso dello sviluppo umano. Nell’Islam l’economia è un mezzo, e tutto ciò è richiesto ad un mezzo è che esso sia un efficiente fattore per il conseguimento del fine ultimo. Da questo punto di vista, il programma economico dell’Islam consiste nel provvedere ai mezzi necessari a far emergere le varie capacità creative dell’essere umano. È dovere del governo islamico, perciò, fornire a tutti i cittadini le stesse ed appropriate opportunità, offrire loro lavoro, e soddisfare le loro esigenze essenziali, in modo che il corso del loro progresso possa essere assicurato. Le donne nella costituzione Attraverso la creazione dell’infrastruttura sociale islamica, tutti gli elementi dell’umanità che servirono il multiforme sfruttamento straniero, riacquisiranno la loro vera identità e umanità. Come parte di questo processo, è solo naturale che le donne possano beneficiare di un particolarmente grande aumento dei loro diritti, a causa delle maggiori oppressioni che soffrirono sotto il vecchio regime. La famiglia è il nucleo fondamentale della società ed il principale centro per la crescita e l’edificazione dell’essere umano. La compatibilità con il credo e gli ideali, che costituiscono le basi primarie per lo sviluppo e la crescita dell’uomo, è la principale considerazione nella creazione della famiglia. È dovere del governo islamico assicurare le necessarie strutture per il perseguimento di questo scopo. Questa visione del nucleo familiare permette alla donna di essere guardata non più come un oggetto o uno strumento al servizio del consumismo e dello sfruttamento. Non solo la

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donna recupera adesso la sua importanza e la preziosa funzione della maternità, allevando esseri umani ideologicamente impegnati; essa assume anche un pionieristico ruolo sociale e diviene la compagna di lotta dell’uomo in ogni momento importante della vita. Data la pesante responsabilità che la donna viene così ad assumere, l’Islam le accorda un grande valore e nobiltà. Un esercito ideologico Nel costituire ed equipaggiare le forze di difesa del paese, particolare attenzione sarà concessa alla fede ed all’ideologia quali criteri di base. Le forze armate della Repubblica Islamica dell’Iran ed il Corpo delle Guardie della Rivoluzione devono essere organizzate in conformità con questo obiettivo, e saranno responsabili non solo per la vigilanza e la protezione delle frontiere del paese, ma anche per compiere la missione ideologica della jihad voluta da Dio (sforzo, impegno per il perseguimento del volere divino); questo sarà, estendendo la sovranità della legge di Dio attraverso il mondo in accordo con il versetto Coranico “Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete raccogliere e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Dio e il vostro nemico, ed altri dietro di loro” [8:60]). Il potere giudiziario nella Costituzione Il poter giudiziario è di vitale importanza nel contesto della salvaguardia dei diritti del popolo in accordo con la linea seguita dal movimento islamico, e la prevenzione delle deviazioni all’interno della nazione islamica. Sono state quindi formulate delle norme per la creazione di un sistema giudiziario basato sulla giustizia islamica ed operato da giudici gusti con una meticolosa conoscenza delle leggi islamiche. Questo sistema, per la sua sensibile natura essenziale e per la necessità di una piena conformità ideologica, deve essere libero da ogni tipo di insana connessione e relazione (in accordo con il versetto Coranico “Quando tu giudichi la gente, giudica con giustizia” [4:58]). Il potere esecutivo Considerando la particolare importanza del potere esecutivo nell’adempimento delle leggi e dei comandamenti dell’Islam al fine di stabilire il ruolo delle giuste relazioni sulla società, e considerando anche la sua vitale importanza nell’aprire la strada per il conseguimento degli obiettivi fondamentali della vita, il potere esecutivo deve lavorare nell’obiettivo di realizzare la società islamica. Conseguentemente, il confinamento del potere esecutivo entro qualsiasi tipo di complesso o sistema inibitorio che ritardi od impedisca il raggiungimento di questo scopo è rifiutato dall’Islam. Quindi il sistema della burocrazia, risultato e prodotto delle vecchie forme di governo, sarà spazzato via in modo che un sistema esecutivo che funzioni efficientemente e rapidamente per il raggiungimento dei suoi impegni amministrativi possa entrare in funzione. Comunicazione di massa e media I mezzi di comunicazione di massa, la radio e la televisione devono servire la diffusione della cultura islamica perseguendo il corso e l’evoluzione della rivoluzione islamica. A questo fine, i media saranno utilizzati come un forum per il salutare incontro di opinioni diverse, ma dovranno astenersi obbligatoriamente dalla diffusione e per la propagazione di pratiche distruttive ed anti-islamiche. È dovere di tutti di aderire ai principi di questa Costituzione, in quanto intesa al perseguimento dei più elevati valori della libertà e della dignità della razza umana e perché orientata allo sviluppo ed alla crescita dell’essere umano. É anche necessario che il popolo musulmano partecipi attivamente alla costruzione della società islamica, selezionando competenti ed autorevoli rappresentanti ed operando una stretta e costante vigilanza sul loro operato. Il popolo potrà quindi sperare per il successo nel costruire una società islamica ideale che rappresenti un modello per tutti i popoli del

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mondo è un modello per la sua perfezione (in accordo con il versetto Coranico “e così facemmo di Voi una comunità equilibrata, affinché siate testimoni di fronte agli uomini”[2:143]). Rappresentanti L’Assemblea degli Esperti, composta da rappresentanti del popolo, ha completato il suo incarico di redigere la Costituzione nel 1979, sulla base di una bozza proposta dal Governo e da tutti i gruppi (politici e sociali), con 175 articoli divisi in dodici capitoli, ed in accordo con gli obiettivi e le aspirazioni sopra descritte, con la speranza che questo secolo sia testimone della fondazione di un sacro governo universale ed il crollo di tutti gli altri. CAPITOLO I Principi Generali Articolo 1: La forma di governo dell’Iran è quella di una Repubblica Islamica, approvata dal popolo dell’Iran sulla base del suo radicato convincimento nella sovranità della verità e della giustizia Coranica, nel referendum del 9 e 10 Farwardin dell’anno 1358 del calendario solare islamico, corrispondente al Jamadi al-‘Awwal 1 e 2 dell’anno 1399 del calendario lunare islamico (29 e 30 Marzo, 1979), attraverso il voto affermativo di una maggioranza del 98,2% dei votanti effettivi, tenutosi dopo che la vittoriosa rivoluzione islamica portò al trionfo dell’eminente marji' al-taqlid, Ayatullah al-Uzma Imam Khomeini. Articolo 2: La Repubblica Islamica è un sistema basato sul credo di:

1. un solo Dio (come stabilito dalla frase “Non c’è Dio al di fuori di Allah”), la Sua esclusiva sovranità e diritto di legiferare, e la necessità della sottomissione al Suo comando;

2. Divina rivelazione e suo fondamentale ruolo nel definire le leggi; 3. ritorno di Dio nell’al di là, e il costruttivo ruolo di questo credo nel corso dell’ascesa

dell’uomo verso Dio; 4. giustizia di Dio nella creazione e nella legislazione; 5. continua conduzione (imamato) e perpetua guida, e suo fondamentale ruolo nell’assicurare

l’ininterrotto processo della rivoluzione dell’Islam; 6. esaltata dignità e valore dell’uomo, e sua libertà unitamente alla responsabilità dinanzi a

Dio; dove equità, giustizia, indipendenza politica, economica, sociale e culturale, e solidarietà nazionale siano assicurate attraverso il ricorso a:

a. continua jihad dei fuqaha’ in possesso delle necessarie qualifiche, esercitate sulla base del Corano e della Sunnah dei Ma’sumun, sopra i quali sia la pace;

b. scienza ed arti ed i più avanzati risultati dell’esperienza umana, insieme agli sforzi per i loro costante progresso;

c. negazione di tutte le forme di oppressione, sia l’infliggerle che il subirle, e di dominanza, sia imposta che accettata.

Articolo 3: Per conseguire gli obiettivi specificati nell’Articolo 2, il Governo della Repubblica Islamica dell’Iran ha il compito di orientare tutte le sue risorse in direzione dei seguenti obiettivi:

1. la creazione di un ambiente favorevole per la crescita delle virtù morali basate sulla fede, sulla pietà e sulla lotta contro ogni forma di vizio e corruzione;

2. elevare il livello della coscienza pubblica in ogni area, attraverso il proprio uso della stampa, dei mass media e di altri mezzi;

3. libera educazione ed addestramento fisico per ogni individuo ad ogni livello, e facilitazione ed espansione per (l’accesso) alla formazione superiore;

4. rafforzare lo spirito di inchiesta, investigazione e innovazione in ogni area della scienza, della tecnologia, della cultura così come degli studi Islamici, fondando centri di ricerca ed incoraggiando i ricercatori;

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5. completa eliminazione dell’imperialismo e prevenzione dell’influenza straniera; 6. eliminazione di ogni forma di dispotismo e autocrazia e di tutti i tentativi per monopolizzare

il potere; 7. assicurare libertà politiche e sociali nel rispetto della legge; 8. partecipazione dell’intera popolazione nel determinare i suoi destini politici, economici,

sociali e culturali; 9. abolizione di tutte le forme di discriminazione indesiderate e provvedere allo sviluppo di

eque opportunità per tutti, sia sul piano materiale che intellettuale; 10. creazione di un corretto sistema amministrativo ed eliminazione delle superflue

organizzazioni; 11. rafforzamento complessivo di tutte le fondamenta della difesa nazionale al massimo livello

attraverso l’addestramento militare completo finalizzato alla salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità territoriale, e dell’ordine islamico del paese;

12. pianificazione di un giusto e corretto sistema economico, in accordo con i criteri islamici ed atto a creare benessere, eliminare la povertà e abolire tutte le forme di depravazione sui cibi, sugli alloggi, sul lavoro, sulla salute e lo sviluppo di una sicurezza sociale per tutti;

13. conseguimento dell’autosufficienza in campo scientifico, tecnologico, industriale, agricolo, militare ed in altri ambiti connessi;

14. assicurare i molteplici diritti di tutti i cittadini, sia uomini che donne, e provvedere ad una tutela legale per tutti, unitamente al principio di eguaglianza dinanzi alla legge;

15. espansione e rafforzamento della fratellanza islamica e della pubblica cooperazione tra i popoli;

16. inquadramento della politica estera del paese sulla base di criteri islamici, impegno fraterno con tutti i musulmani e supporto totale a tutti i mustad’afiin del mondo.

Articolo 4: Tutte le leggi e regolamenti civili, penali, finanziarie, economiche, amministrative, culturali, militari, politiche od altro devono essere basate su criteri islamici. Questo principio si applica obbligatoriamente e generalmente a tutti gli articoli della Costituzione così come ad ogni altra legge o regolamento, ed i fuqaha’ del Consiglio dei Guardiani devono giudicare in questa materia. Articolo 5: Durante l’Occultamento del Wali al-Asr (possa Dio affrettare la sua riapparizione), il velayat e la guida della Ummah sono devolute al giusto (‘adil) e pio (muttaqi) faqih, che è pienamente conscio delle circostanze della sua epoca; coraggioso, con capacità ed in possesso di abilità amministrativa, assumerà la responsabilità di questo ufficio in accordo con quanto prescritto dall’Articolo 107. Articolo 6: Nella Repubblica Islamica dell’Iran, gli affari del paese devono essere amministrati sulla base delle opinioni espresse del popolo attraverso le elezioni, inclusa l’elezione del Presidente, i rappresentanti dell’Assemblea Consultiva Islamica e i membri dei consigli, o per mezzo dei referendum in ambiti specificati in altri articoli di questa Costituzione. Articolo 7: In accordo con il comando espresso nel Corano nel versetto “Si consultano vicendevolmente su ciò che li concerne” [42:38] e “Consultati con loro” [3:159], gli organi consultivi – come l’Assemblea Consultiva Islamica, i Consigli Provinciali e i Consigli Cittadini, Regionali, Distrettuali o di Villaggio o simili – costituiscono gli organi decisionali e amministrativi del paese. La natura di ognuno di questi consigli, insieme alle procedure per la loro composizione, giurisdizione ed il fine delle loro funzioni e mansioni, è determinato dalla Costituzione e dalle leggi da queste derivanti.

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Articolo 8: Nella Repubblica Islamica dell’Iran, al-‘amr bilma’ruf wa al-nahy ‘an al-munkars è un compito universale e reciproco il quale deve necessariamente essere perseguito dal popolo nel rispetto del prossimo, dal governo nel rispetto del popolo, e dal popolo nel rispetto del governo. Le condizioni, i limiti e la natura di questo impegno saranno specificati per legge. (Questo in accordo con il versetto Coranico “I credenti, uomini e donne, sono guardiani gli uni degli altri; ordinano la buone consuetudini e proibiscono ciò che è riprovevole” [9:71]). Articolo 9: Nella Repubblica Islamica dell’Iran, la libertà, l’indipendenza, l’unità e l’integrità territoriale del paese sono inscindibili l’una dall’altra, e la loro tutela costituisce un obbligo del governo e di ogni singolo cittadino. Nessun individuo, gruppo o autorità, ha il diritto di contravvenire anche minimamente circa l’indipendenza politica, culturale, economica e militare o sull’integrità territoriale dell’Iran attraverso il pretesto di esercitare una libertà. Al tempo stesso, nessuna autorità ha il diritto di abrogare libertà legittime, neanche attraverso il ricorso alla promulgazione di leggi in tal senso, con il pretesto di preservare l’indipendenza e l’integrità territoriale del paese. Articolo 10: Essendo la famiglia in fondamentale elemento della società islamica, tutte le leggi, regolamenti e programmi pertinenti, devono tendere a facilitare la formazione di una famiglia, oltre che a salvaguardarne la sua santità e la stabilità delle relazioni familiari sulla base della legge e dell’etica dell’Islam. Articolo 11: In accordo con il sacro verso del Corano “Questa tua comunità è una sola comunità, ed Io sono il tuo Signore, adorateMi“ [21:92], tutti i musulmani formano una singola nazione e il governo della Repubblica Islamica dell’Iran ha il compito di formulare le sue linee generali di politica in funzione del perseguimento dell’amicizia e dell’unità di tutti i popoli musulmani, e deve costantemente lottare per la protezione dell’unità politica, economica e culturale del mondo islamico. Articolo 12: La religione ufficiale dell’Iran è l’Islam e la scuola duodecimana Ja’fari (secondo l’usuale al-Din e fiqh), e questo principio rimarrà eternamente immutabili. Alle altre scuole islamiche, incluse la Hanafi, Shafi’i, maliki, Hanbali e Zaydi, sarà accordato pieno rispetto, e i loro fedeli saranno liberi di agire in accordo con la loro giurisprudenza per lo svolgimento dei loro riti religiosi. Queste scuole godono di un riconoscimento ufficiale in relazione all’educazione religiosa, alle faccende dello stato personale (matrimoni, divorzi, eredità e voleri) e relativi contenziosi dinanzi ai tribunali. Nelle regioni del paese dove i musulmani di queste confessioni o fiqh rappresentano la maggioranza, le legislazioni locali, entro i limiti della giurisdizione dei consigli locali, dovranno essere redatte in accordo alle rispettive scuole o fiqh, senza infrangere le libertà ed i diritti dei fedeli delle altre scuole. Articolo 13: Gli Zoroastriani, gli Ebrei e i Cristiani iraniani sono le sole minoranze riconosciute che, entro i limiti della legge, sono libere di professare i loro riti e le loro cerimonie religiose, e di agire in accordo ai loro canoni in materia di stato personale ed educazione religiosa. Articolo 14: In accordo con il sacro verso “Dio non vi proibisce di essere buoni e giusti nei confronti di coloro che non vi hanno combatturo per la vostra religione e che non vi hanno scacciato dalle vostre case” [60:8], il governo della Repubblica Islamica dell’Iran e tutti i musulmani devono obbligatoriamente trattare i non musulmani in conformità con le norme etiche ed i principi della giustizia e dell’equità islamica, e nel rispetto dei diritti umani. Questi principi si applicano a tutti quelli che si astengono dall’intraprendere attività cospirative o contrarie all’Islam ed alla Repubblica Islamica dell’Iran.

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Capitolo II La Lingua Ufficiale, la Scrittura, il Calendario e la Bandiera del paese Articolo 15: la lingua ufficiale e la scrittura dell’Iran, la lingua franca del suo popolo, è il Persiano. I documenti ufficiali, la corrispondenza, i testi, così come i libri, devono essere scritti in questa lingua. L’utilizzo di lingue regionali o tribali nella stampa e nei media, così come nell’insegnamento della propria letteratura nelle scuole, è comunque consentito in aggiunta al Persiano. Articolo 16: Essendo la lingua del Corano, dei testi islamici e degli insegnamenti l’arabo, ed essendo la letteratura persiana profondamente permeata da questa lingua, la stessa dovrà essere insegnata dopo le scuole elementari in tutte le classi della scuola secondaria ed in tutti i programmi di studio. Articolo 17: Il calendario ufficiale del paese considera come suo punto di partenza la migrazione del Profeta dell’Islam – la pace e la benedizione di Dio sia accordata a lui ed alla sua famiglia. Sia il calendario solare che lunare islamico sono riconosciuti, ma l’apparato governativo sarà regolato secondo il calendario solare. La festività ufficiale della settimana è il venerdì. Articolo 18: La bandiera ufficiale dell’Iran è composta dal colore verde, dal bianco e dal rosso con lo speciale emblema della Repubblica Islamica, unitamente al motto “Allah-o Akbar”. Capitolo III I Diritti del Popolo Articolo 19: Tutto il popolo iraniani, a qualsiasi gruppo etnico o tribale appartenga, gode degli stessi diritti; e il colore, la razza, la lingua e l’aspetto non concedono alcun privilegio. Articolo 20: Tutti i cittadini del paese, sia uomini che donne, godono egualmente della protezione della legge e godono di tutti i diritti umani, politici, economici, sociali e culturali in conformità ai criteri islamici. Articolo 21: Il governo deve assicurare i diritti delle donne in ogni aspetto, in conformità con i criteri islamici e perseguendo i seguenti obiettivi:

1. creare un ambiente favorevole per la crescita della personalità femminile e la re-instaurazione dei suoi diritti, sia materiali che intellettuali;

2. la protezione delle madri, soprattutto durante la gravidanza od il puerperio, e la protezione dei minori senza tutela parentale;

3. creare corti competenti per proteggere e preservare la famiglia; 4. prevedere speciali assicurazioni per le vedove, le donne anziane e quelle prive di sostegno; 5. l’assegnazione della tutela dei minori a madri capaci, in modo da proteggere gli interessi dei

minori in assenza di una tutela giuridica. Articolo 22: La dignità, la vita, la proprietà, i diritti, la residenza e l’occupazione dell’individuo sono inviolabili, eccezion fatta per i casi stabiliti dalla legge. Articolo 23: Le indagini sulle opinioni dell’individuo sono proibite, e nessuno può subire molestie o sollevato dall’incarico semplicemente a causa delle sue opinioni.

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Articolo 24: La pubblicazione e la stampa sono garantite per la libertà di espressione ad eccezione del caso in cui questa sia a detrimento dei principi fondamentali dell’Islam o dei diritti pubblici. I dettagli di questa eccezione saranno specificati per legge. Articolo 25: L’ispezione della corrispondenza o la mancanza della consegna, la registrazione e la diffusione di conversazioni telefoniche, la diffusione di comunicazioni telegrafiche od a mezzo telex, la censura, o la volontaria non trasmissione delle stesse, l’ascolto non autorizzato, e tutte le forme di investigazione segreta sono proibite, eccezion fatta se prescritte per legge. Articolo 26: La costituzione di partiti, società, associazioni politiche o professionali, così come società religiose, sia islamiche che di altre minoranze religiose riconosciute , è permessa quando queste non violino i principi di indipendenza, libertà, unità nazionale, i criteri dell’Islam o le basi della Repubblica Islamica. A nessuno può essere impedito di partecipare nei summenzionati gruppi, od essere obbligato a parteciparvi. Articolo 27: Le riunioni pubbliche e le marce possono tenersi liberamente, purchè i partecipanti non siano armati e quando le stesse non costituiscano una minaccia per i fondamentali principi dell’Islam. Articolo 28: Ognuno ha il diritto di scegliere la propria occupazione, se questo non è contraria all’Islam ed al pubblico interesse, e non viola i diritti degli altri. Il Governo ha il dovere , in considerazione delle necessità della società di diverse tipologie di impiego, di garantire ad ogni cittadino l’opportunità di lavorare e di creare condizioni paritarie per l’accesso all’impiego. Articolo 29: Beneficiare della previdenza sociale con riferimento alla pensione, alla disoccupazione, alla vecchiaia, ai disabili, all’assenza di tutela parentale, o per lo stato di indigenza, gli infortuni, i servizi sanitari, le cure mediche, garantite dalle Assicurazioni o da altre forme di previdenza, è considerato un diritto universale. Il Governo deve provvedere alla soddisfazione delle predette prestazioni e sostegni finanziari per ogni cittadino attraverso l’accesso, nel rispetto delle leggi, alle risorse economiche nazionali derivanti dalla contribuzione pubblica. Articolo 30: Il Governo deve garantire a tutti i cittadini l’educazione gratuita sino alla scuola secondaria, e deve espandere l’educazione superiore gratuita ai fini richiesti dalla nazione per l’autosufficienza. Articolo 31: E’ un diritto di ogni singolo o famiglia iraniana di possedere una abitazione commisurata con i suoi bisogni. Il Governo deve rendere disponibili le terre per lo sviluppo di questo articolo, accordando priorità per coloro le cui necessità sono maggiori, in particolare le popolazioni rurali e i lavoratori. Articolo 32: Nessuno può essere arrestato ad eccezione che per ordine e nel rispetto delle procedure stabilite dalla legge. In caso di arresto, le imputazioni devono, senza ritardo, essere comunicate e rese comprensibili all’accusato per iscritto ed un fascicolo provvisorio deve essere trasmesso alle competenti autorità giudiziarie entro un massimo di ventiquattro ore in modo che i preliminari per le attività del processo possano essere compiute nel modo più rapido possibile. La violazione di questo articolo è passibile di condanna ai sensi della legge. Articolo 33: Nessuno può essere bandito dalla sua residenza, impedito nel risiedere nel luogo di sua scelta od obbligato a risiedere in una data località, eccezion fatta per i casi previsti dalla legge.

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Articolo 34: E’ un indisputabile diritto di ogni cittadino quello di chiedere ed ottenere prontamente giustizia da parte delle competenti corti. Tutti i cittadini hanno diritto di accesso a tali corti, e a nessuno può essere impedito di accedere alle corti cui l’individuo ha legittimo diritto di accedere. Articolo 35: Entrambe le parti di un contenzioso hanno il diritto presso ogni corte di scegliere un avvocato, e qualora non siano nella possibilità di fare ciò, si deve disporre in modo da garantire l’assistenza legale. Articolo 36: L’emanazione e l’esecuzione di una sentenza compete solo alle corti competenti e nel rispetto della legge. Articolo 37: Vige la presunzione di innocenza, è nessuno può essere condannato per un fatto sino a quando un’accusa non sia stata provata da una corte competente per materia. Articolo 38: Tutte le forme di tortura al proposito di ottenere confessioni o per acquisire informazioni sono proibite. L’obbligo per gli individui di testimoniare, confessare o prestare giuramento non è permissibile; ed ogni testimonianza, confessione o giuramento ottenuto con la costrizione non è ritenuto valido ed efficace. La violazione di questo articolo è passibile di condanna ai sensi della legge. Articolo 39: Ogni affronto alla dignità ed alla reputazione delle persone arrestate, detenute, imprigionate o bandite in accordo alla legge, in qualsiasi forma, è vietato e passibile di condanna. Articolo 40: Nessuno è autorizzato ad esercitare i propri diritti in modo tale da ciò possa risultare ingiurioso per altri o a detrimento del pubblico interesse. Articolo 41: La cittadinanza iraniana costituisce l’indisputabile diritto di ogni iraniano, è il Governo non può revocarla ad alcun iraniano sino a che questo non ne faccia richiesta o quando acquisti la cittadinanza di un altro paese. Articolo 42: I cittadini stranieri possono acquisire la cittadinanza iraniana entro i limiti delle leggi. La cittadinanza può essere revocata a questi individui se un altro Stato li accetta come cittadini o se questi lo richiedono. Capitolo IV Affari Economici e Finanziari Articolo 43: L’economia della Repubblica Islamica dell’Iran, con il suo obiettivo di raggiungere l’indipendenza economica della società, estirpando la povertà e le privazioni, è soddisfacendo le necessità umane nel processo di sviluppo sebbene preservando le libertà umane, è basato sui seguenti criteri:

1. provvedere alle necessità basiche di tutti i cittadini: alloggio, cibo, vestiario, igiene, assistenza sanitaria, educazione e strutture necessarie per lo sviluppo della famiglia;

2. assicurare condizioni e opportunità di impiego per ognuno, con la prospettiva della piena occupazione; mettere a disposizione di chiunque sia abile al lavoro, ma ne sia sprovvisto, i mezzi per il lavoro, attraverso cooperative, mutui agevolati od attraverso il ricorso ad ogni altro legittimo mezzo che non si trasformi nella concentrazione o nella circolazione della ricchezza nelle mani di pochi individui o gruppi, nè renda il Governo un datore di lavoro assoluto. Queste azioni devono essere intraprese nel rispetto dei piani economici generali del paese ad ogni stadio della sua crescita.

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3. il piano per l’economia nazionale deve essere strutturato in modo che la forma, il contenuto e le ore di lavoro di ciascuno consentano sufficiente agio ed energia per intraprendere, al di fuori del suo contesto professionale, anche attività di natura intellettuale, politica e sociale per lo sviluppo complessivo della persona, e per prendere parte alla gestione degli affari del paese, aumentarne le capacità ed utilizzare al massimo la sua creatività;

4. rispetto del diritto di scelta per la propria occupazione; astenersi dall’obbligare chiunque ad intraprendere una specifica professione; e prevenire lo sfruttamento del lavoro altrui;

5. proibire la determinazione di ostacoli o perdite per terzi, monopoli, barriere, usura ed altre pratiche illegittime o melevole;

6. proibire la stravaganza o l’inutilità in ogni ambito connesso all’economia, incluso il consumo, l’investimento, la produzione, la distribuzione ed i servizi;

7. l’utilizzazione della scienza e della tecnologia, e la formazione del personale specializzato, in accordo con le necessità di sviluppo dell’economia nazionale;

8. prevenire la dominazione economica straniera sull’economia nazionale; 9. enfasi nello sviluppo dell’agricoltura, dell’allevamento e della produzione industriale in

modo da soddisfare le pubbliche necessità e rendere il paese autosufficiente e libero dalla dipendenza.

Articolo 44: L’economia della Repubblica Islamica dell’Iran consiste in tre settori: Stato, cooperative e settore privato, e deve essere basata su una sistematica e ragionata programmazione. Il settore statale include tutte le attività su larga scala e le industrie di interesse nazionale, il commercio con l’estero, lo sfruttamento dei minerali, il settore bancario, le assicurazioni, la generazione di energia, le dighe ed i grandi sistemi di irrigazione, la radio e la televisione, le poste, i telegrafi ed i servizi telefonici, l’aviazione, il trasporto marittimo, le strade, le ferrovie e quanto a questi connesso; tutte queste attività saranno possedute ed amministrate dallo Stato. Il settore delle cooperative include le società e le compagnie cooperative connesse alla produzione ed alla distribuzione, nei centri urbani e nelle aree rurali, in accordo ai criteri islamici. Il settore privato consiste in quelle attività relative all’agricoltura, alla pastorizia, all’industria, al commercio ed ai servizi che implementano le attività economiche dello Stato e del settore cooperativo. Le proprietà in ognuno dei tre settori è garantita dalla legge della Repubblica Islamica, quando la stessa sia conforme con gli altri articoli di questo capitolo, non ecceda i limiti della legge islamica, contribuisca allo sviluppo economico ed al progresso del paese, e non costituisca un pregiudizio per la società. Il (preciso) scopo di ognuno di questi settori, così come dei regolamenti e delle condizioni atti a regolarne l’esercizio, sarà specificato dalla legge. Articolo 45: La ricchezza e la proprietà pubbliche, come le terre non coltivate od abbandonate, i depositi di minerali, i mari, i laghi, i fiumi e gli altri corsi d’acqua, le montagne, le valli, le foreste, le zone umide, le foreste naturali, terre da pascolo non incluse, eredità senza eredi, proprietà ove non sia individuabile il proprietario, e proprietà recuperate dall’usurpazione, devono essere a disposizione del Governo islamico per essere utilizzate nel pubblico interesse. La legge specificherà dettagliate procedure per l’utilizzazione delle summenzionate voci. Articolo 46: Ognuno è padrone dei frutti del proprio lavoro legittimo od attività economica, e nessuno può essere privato e nessuno può essere privato dell’opportunità di commercio o lavoro con il pretesto di un diritto di proprietà. Articolo 47: La proprietà privata, legittimamente acquisita, deve essere rispettata. I criteri rilevanti saranno stabiliti per legge.

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Articolo 48: Non ci possono essere discriminazioni tra le varie province rispetto allo sfruttamento delle risorse naturali, l’utilizzazione delle risorse pubbliche e la distribuzione delle attività economiche tra le varie province e regioni del paese, in tal mondo assicurando che ogni regione abbia accesso al necessario capitale ed alle strutture utili per le proprie capacità di crescita. Articolo 49: Il Governo ha la responsabilità di confiscare tutte le ricchezze accumulate attraverso l’usura, l’usurpazione, il furto, l’appropriazione indebita, l’uso improprio dei contratti o delle transazioni governative, la vendita di terre incolte ed altre risorse soggette alla pubblica proprietà, le operazioni dei centri di corruzione, ed altri mezzi o risorse illecite, restituendole al legittimo proprietario; e se nessun legittimo proprietario può essere identificato, i beni dovranno essere acquisiti dal tesoro pubblico. La legge deve essere eseguita dal Governo con la dovuta attenzione, dopo che l’attività investigativa abbia fornito la necessaria evidenza dei fatti in accordo con la legge dell’Islam. Articolo 50: La conservazione dell’ambiente, nel quale l’attuale così come le future generazioni hanno il diritto di sviluppare la propria esistenza sociale, è tutelata come un dovere pubblico dalla Repubblica Islamica. Attività economiche e non che inevitabilmente comportino la produzione di inquinamento dell’ambiente o causino irreparabili danni allo stesso sono da considerarsi proibite. Articolo 51: Nessuna forma di tassazione può essere imposta eccetto quelle in accordo con la legge. Disposizioni per l’esenzione fiscale e la riduzione saranno determinate dalla legge. Articolo 52: Il budget annuale del paese sarà assorbito dal governo, nei modi specificati dalla legge, e sottoposto all’Assemblea Consultiva Islamica per discussione ed approvazione. Ogni elemento del budget sarà redatto in accordo alle procedure stabilite dalla legge. Articolo 53: Tutte le somme raccolte dal Governo saranno depositate presso i depositi governativi alla tesoreria centrale, e tutte le spese, entro i limiti di allocazione approvati, saranno effettuate nel rispetto di quanto stabilito dalla legge. Articolo 54: L’Agenzia Nazionale della Contabilità deve operare sotto la diretta supervisione dell’Assemblea Consultiva Islamica. La sua organizzazione e le modalità operative a Tehran e nelle capitali provinciali devono essere stabilite per legge. Articolo 55: L’Agenzia Nazionale della Contabilità, ispezionerà e verificherà, nei modi prescritti dalla legge, tutti i conti dei singoli ministeri, delle organizzazioni governative e delle compagnie così come di tutte le entità che a qualsiasi titolo beneficiano del denaro pubblico, in modo da assicurare che nessuna spesa ecceda l’allocazione approvata e tutte le somme siano spese per lo specifico fine. Lo stesso organo raccoglierà tutti gli importi rilevanti, i documenti ed i giustificativi, in accordo con quanto prescritto dalla legge, e sottoporrà all’Assemblea Consultiva Islamica un rapporto per la definizione del budget annuale unitamente alle proprie osservazioni. Tale rapporto deve essere reso pubblico. Capitolo V Il Diritto della Sovranità Nazionale Articolo 56: L’assoluta sovranità sul mondo e sugli uomini appartiene a Dio, ed è Egli che ha fatto l’uomo artefice dei propri destini. Nessuno può privare l’uomo di questo diritto divino, né subordinarlo ad interessi acquisiti da individui particolari o gruppi. Il popolo deve esercitare questo diritto divino nel modo specificato nei seguenti articoli.

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Articolo 57: I poteri del Governo nella Repubblica Islamica sono quelli dei poteri legislativi, giudiziari ed esecutivi, da svolgersi sotto la supervisione dell’assoluta velayat al-‘amr e la guida della Ummah, in accordo con i principi della presente Costituzione. Questi poteri sono indipendenti gli uni dagli altri. Articolo 58: La funzione della legislatura è quelle di essere esercitata attraverso l’Assemblea Consultiva Islamica, costituita da rappresentanti eletti dal popolo. La legislazione approvata questo organo, dopo essere transitata attraverso gli stadi specificati negli articoli nel prosieguo, è trasmessa al potere esecutivo e giudiziario per l’applicazione. Articolo 59: Nelle questioni di rilevante importanza economica, politica, sociale e culturale, la funzione del legislatore può essere esercitata attraverso il ricorso diretto al voto popolare con referendum. Ogni richiesta in tale direzione deve essere approvata dai due terzi dei membri dell’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 60: Le funzioni del potere esecutivo, eccetto quanto concerne le materie direttamente sottoposte sotto la giurisdizione della Guida dalla Costituzione, devono essere esercitate dal Presidente e dai Ministri. Articolo 61: Le funzioni del potere giudiziario devono essere svolte dalle corti di giustizia, che devono essere formate in accordo con i criteri islamici e dotate dell’autorità di esaminare e giudicare, proteggere i diritti del popolo, dispensare e garantire la giustizia, ed applicare i limiti Divini stabiliti (al-hudud al-llahiyyah). CAPITOLO VI Il Potere Legislativo Articolo 62: L’Assemblea Consultiva Islamica è costituita dai rappresentanti del popolo eletti direttamente e con voto secreto. Le qualificazioni per gli aventi diritto ed i candidati saranno specificate per legge. Articolo 63: I termini del mandato quale membro dell’Assemblea Consultiva Islamica sono di quattro anni. Le elezioni per ogni mandato devono essere svolte prima del termine del precedente mandato, in modo che il paese non si trovi mai senza Assemblea. Articolo 64: Devono esserci duecentosettanta membri dell’Assemblea Consultiva Islamica che, tenendo presenti i fattori umani, politici, geografici e quant’altro connesso, possono essere incrementati da non più di ulteriori venti unità per ogni periodo decennale dalla data del referendum nazionale dell’anno 1368 del calendario solare islamico. Gli Zoroastriani e gli Ebrei eleggeranno ognuno un rappresentante; gli Assiri ed i Crsitiano-Caldei eleggeranno congiuntamente un rappresentante; ed i Cristiani Armeni del nord e quelli del sud del paese eleggeranno ognuno un rappresentante. I limiti delle elezioni circoscrizionali ed il numero dei rappresentanti saranno determinati per legge. Articolo 65: Dopo lo svolgimento delle elezioni, le sessioni dell’Assemblea Consultiva Islamica sono considerate legalmente valide quando due terzi del numero totale dei membri è presente. Disegni di legge e proposte saranno approvate in accordo con il codice di procedura approvato, eccezion fatta per i casi dove la Costituzione specifica un certo quorum. Il consenso dei due terzi di tutti i membri presenti è necessario per approvare il codice di procedura dell’Assemblea.

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Articolo 66: Le modalità per l’elezione dello Speaker e del Consiglio Direttivo dell’Assemblea, i numero dei comitati e la loro durata in carica, e le materie connesse alla conduzione delle discussioni ed al mantenimento della disciplina nell’Assemblea saranno determinate dal codice di procedura dell’Assemblea. Articolo 67: I membri dell’Assemblea devono prestare il seguente giuramento nella prima sessione dell’assemblea ed apporre la propria firma al testo: “Nel Nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso. Alla presenza del Glorioso Corano, io giuro davanti su Dio, l’Eccelso e Onnipotente, e sottoscrivo, giurando personalmente sul mio onore di essere umano, di proteggere la santità dell’Islam e di salvaguardare i risultati della Rivoluzione Islamica e del popolo iraniano e le fondamenta della Repubblica Islamica; di proteggere, quale giusto incaricato, l’onore accordatomi dal popolo, di osservare le regole della pietà nello svolgimento del mio mandato di rappresentante del popolo; di mantenere l’impegno per l’indipendenza e l’onore del paese; di ottemperare ai miei compiti verso la nazione ed al servizio della società; di difendere la Costituzione; e di ricordare sempre, sia nei discorsi che negli scritti e nelle espressioni della mia opinione, l’indipendenza del paese, la libertà del popolo, e la sicurezza dei suoi interessi.” I membri appartenenti alle minoranze religiose presteranno giuramento sui loro libri sacri nell’assumere tali impegni. I membri non presenti alla prima sessione presenteranno giuramento alla prima sessione alla quale parteciperanno. Articolo 68: In tempo di guerra e di occupazione militare del paese, le elezioni da tenersi nelle aree occupate o dell’interno possono essere differite per un periodo di tempo specificato dal Presidente della Repubblica, ed approvato dai tre quarti dei membri dell’Assemblea Consultiva Islamica, con l’approvazione del Consiglio dei Guardiani. Se una nuova Assemblea non viene formata, la precedente continua ad operare le sue funzioni. Articolo 69: Le delibere dell’Assemblea Consultiva Islamica devono essere pubbliche, e l’integrale minuta delle riunioni resa disponibile al pubblico attraverso la radio e la Gazzetta Ufficiale. Una sessione chiusa può essere indetta in condizioni di emergenza, se richiesta da ragioni di sicurezza nazionale, su richiesta del Presidente, uno dei ministri, o dieci membri dell’Assemblea. L’attività legislativa espletata in una sessione chiusa è valida solo se approvata dai tre quarti dei membri alla presenza del Consiglio dei Guardiani. Successivamente al venir meno delle condizioni di emergenza, le minute della sessione chiusa, unitamente con il testo di ogni legge approvata, devono essere rese pubbliche. Articolo 70: Il Presidente, i suoi Deputati ed i Ministri, hanno il diritto di partecipare alle sessioni aperte dell’Assemblea sia collettivamente che individualmente. Possono anche essere accompagnati dai propri consiglieri. Se i membri dell’assemblea lo ritengono necessario, i ministri sono obbligati a partecipare. (Al contrario), quando lo richiedano, le loro pronunce devono essere ascoltate. Articolo 71: L’Assemblea Consultiva Islamica può promulgare leggi in ogni materia, entro i limiti della sua competenza così come stabilito dalla Costituzione. Articolo 72: L’Assemblea Consultiva Islamica non può promulgare leggi contrarie agli usi ed all’ahkam della religione ufficiale del paese o della Costituzione. È dovere del Consiglio dei Guardiani di determinare se sia stata compiuta una violazione, così come stabilito all’Articolo 96.

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Articolo 73: L’interpretazione delle leggi ordinarie rientra nella competenza dell’Assemblea Consultiva Islamica. L’intento di questo articolo non previene l’interpretazione che i giudici possano formulare in sede di cassazione. Articolo 74: Gli atti governativi devono essere presentati all’Assemblea Consultiva Islamica dopo essere stati approvati dal Consiglio dei Ministri. Gli atti dei membri possono essere introdotti all’Assemblea Consultiva Islamica se appoggiati da almeno quindici membri. Articolo 75: Gli atti dei membri e le proposte e gli emendamenti agli atti governativi proposti dai membri che riguardino la riduzione dell’introito pubblico o l’incremento della spese pubblica possono essere introdotti all’Assemblea solo se i mezzi per compensare il decremento negli introiti od un mezzo per compensare tali spese sia specificato. Articolo 76: L’Assemblea Consultiva Islamica ha il diritto di investigare ed esaminare tutti gli affari del paese. Articolo 77: I trattati internazionali, i protocolli, i contratti e gli accordi devono essere approvati dall’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 78: Ogni modifica delle frontiere è proibita, ad eccezione di emendamenti di scarsa rilevanza atti a salvaguardare l’interesse del paese, a condizione che non sia unilaterali, non intacchino l’indipendenza e l’integrità nazionale del paese, e siano approvati con il voto favorevole dei quattro quinti del totale dei membri dell’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 79: La proclamazione della legge marziale è proibita. In caso di guerra od in condizioni di emergenza paragonabili a quelle belliche, il Governo ha il diritto di imporre temporaneamente alcune necessarie restrizioni, di concerto con l’Assemblea Consultiva Islamica. In nessun caso tali restrizioni possono essere superiori a trenta giorni; se la necessità per la stessa persistesse oltre questo limite, il Governo può ottenere una nuova autorizzazione da parte dell’Assemblea. Articolo 80: L’accedere od il concedere prestiti od aiuti finanziari, nazionali o stranieri, da parte del Governo, deve essere approvato dall’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 81: Il garantire od assegnare concessioni a stranieri per la formazione di compagnie od istituzioni connesse al commercio, all’industria, all’agricoltura, ai servizi od all’estrazione dei minerali, è tassativamente proibito. Articolo 82: L’impiego di esperti stranieri è proibito, eccezion fatta per i casi in cui una specifica necessità lo richieda e con l’approvazione dell’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 83: I palazzi e le proprietà del governo facenti parte della tradizione nazionale non possono essere alienati se non con l’approvazione dell’Assemblea Consultiva Islamica; questo vale anche per il caso di insostituibili tesori. Articolo 84: Ogni rappresentante è responsabile di fronte all’intera nazione ed ha il diritto di esprimere la sua opinione su tutte le questioni interne ed esterne del paese. Articolo 85: Lo status di membro è strettamente personale, e non è trasferibile a terzi. L’Assemblea non può delegare il potere legislativo a individui o comitati. Quando sia necessario, tuttavia, può delegare il potere di legiferare su materie specifiche ai propri comitati, in accordo a quanto prescritto all’Articolo 72. In questi casi le leggi devono essere eseguite in via provvisoria per un

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periodo specificato dall’Assemblea, e la loro approvazione finale è soggetta al voto dell’Assemblea stessa. Parimenti, l’Assemblea può, in accordo a quanto stabilito dall’Articolo 72, delegare a comitati formali la responsabilità per l’approvazione permanente di articoli relativi ad associazioni od organizzazioni, compagnie, istituzioni governative, od organizzazioni affiliate al Governo e/o investite di autorità nel Governo. In questo caso, l’approvazione del Governo non deve essere contraria a principi e disposizioni della religione ufficiale del paese e/o alla Costituzione, sulla cui questione deciderà il Consiglio dei Guardiani in accordo con quanto stabilito dall’Articolo 96. In aggiunta a ciò, l’approvazione del Governo non può essere accordata qualora si ravvisi la sussistenza di elementi contrari a quanto disposto dalle leggi ed altre regole generali dello Stato e, nella richiesta di applicazione, la materia stessa deve essere portata a conoscenza dello Speaker dell’Assemblea Consultiva Islamica per valutazioni ed indicazioni circa la conformità alle summenzionate regole. Articolo 86: I Membri dell’Assemblea sono totalmente liberi di esprimere le proprie opinioni ed il proprio voto nell’ambito dei propri doveri di rappresentanti, e non possono essere perseguiti od arrestati per le opinioni espresse in seno all’Assemblea o per i voti espressi nell’ambito del proprio ruolo di rappresentanti. Articolo 87: Il Presidente deve ottenere dal Consiglio dei Ministri, dopo che questo sia stato composto e prima di ogni altra ulteriore funzione, un voto di fiducia dall’Assemblea. Nell’ambito del suo mandato, il Presidente può chiedere un voto di fiducia per il Consiglio dei Ministri da parte dell’Assemblea su questioni importanti e controverse. Articolo 88: Quando almeno un quarto dei membri totali dell’Assemblea Consultiva Islamica rivolge un quesito al Presidente, o qualsiasi altro membro dell’Assemblea pone un quesito ad un Ministro su un argomento connesso alla propria funzione, il Presidente o il Ministro è obbligato a presenziare in Assemblea per rispondere al quesito stesso. La risposta non può essere ritardata oltre un mese nel caso del Presidente, e dieci giorni nel caso di un Ministro, ad eccezione dei casi in cui un serio e documentato motivo sia formulato ed accettato dall’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 89:

1. I membri dell’Assemblea Consultiva Islamica possono interpellare il Consiglio dei Ministri od un singolo Ministro su questioni ritenute necessarie. Le interpellanze possono essere rimandate qualora venga apposta la firma di almeno dieci membri.Il Consiglio dei Ministri od il Ministro interpellato devono presentarsi all’Assemblea entro dieci giorni dalla richiesta di procrastinazione per rispondere della stessa ed ottenere un voto di fiducia. Se il Consiglio dei Ministri o il Ministro non presiedono dinanzi all’Assemblea, i membri che hanno richiesto la procrastinazione ne dovranno chiarire le ragioni, e l’Assemblea voterà la sfiducia qualora lo ritenga necessario. Se l’assemblea non pronuncia un voto di fiducia, il Consiglio dei Ministri od il Ministro soggetto ad interpellanza sono da considerarsi dimessi. In entrambi i casi, i Ministri soggetti ad interpellanza non possono candidarsi nel successivo Consiglio dei Ministri da formarsi immediatamente dopo.

2. Qualora almeno un terzo dei membri dell’Assemblea Consultiva Islamica interpelli il Presidente in relazione alle sue responsabilità esecutive connesse all’esercizio del potere esecutivo stesso, il Presidente deve presentarsi al cospetto dell’Assemblea entro un mese dalla presentazione dell’interpellanza per rispondere adeguatamente alla domanda formulata. Qualora, dopo aver udito le motivazioni dei membri favorevoli e contrari e la risposta del Presidente, due terzi dei membri dell’Assemblea dichiari un voto di sfiducia, questo verrà comunicato alla Guida per informazione e per l’applicazione della Sezione 10 dell’Articolo 110 della Costituzione.

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Articolo 90: Chiunque abbia a manifestare una protesta per il lavoro dell’Assemblea o del potere esecutivo o del potere giudiziario, può inoltrarne il contenuto per iscritto all’Assemblea. L’Assemblea deve investigare sulla protesta e fornire una adeguata risposta. Nei casi in cui la protesta sia relativa al potere esecutivo o giudiziario, l’Assemblea deve chiedere una appropriata attività investigativa sulla questione ed una adeguata risposta ai diretti interessati, ed annunciare il risultato entro un termine congruo. Nel caso in cui l’oggetto della protesta sia di interesse pubblico, la risposta deve essere resa pubblica. Articolo 91: Nel rispetto della necessità di salvaguardare l’ordine islamico e la Costituzione, per esaminare la compatibilità della legislazione approvata dall’Assemblea Consultiva Islamica con l’Islam, un consiglio denominato Consiglio dei Guardiani sarà costituito e così composto:

1. sei ‘adil fuqaha’ consci delle necessità attuali e delle questioni del giorno, la cui selezione spetterà alla Guida, e

2. sei giuristi, specializzati in differenti ambiti della legge, da eleggersi da parte dell’Assemblea Consultiva Islamica nell’ambito di una rosa di giuristi islamici nominata dal vertice del potere giudiziario.

Articolo 92: I membri del Consiglio dei Guardiani sono eletti per un periodo si sei anni, ma durante il primo mandato, dopo che tre anni siano trascorsi, la metà dei membri di ogni gruppo sarà cambiata con sorteggio e nuovi membri saranno eletti per sostituirli. Articolo 93: L’Assemblea Consultiva Islamica non detiene alcuno status in assenza del Consiglio dei Guardiani, ad esclusione del caso in cui debba approvare le credenziali dei suoi membri e l’elezione dei sei giuristi del Consiglio dei Guardiani. Articolo 94: Ogni atto legislativo approvato dall’Assemblea Consultiva Islamica deve essere trasmesso al Consiglio dei Guardiani. Il Consiglio dei Guardiani deve verificare gli atti entro un termine massimo di dieci giorni dalla ricezione assicurando che gli stessi siano compatibili con i criteri dell’Islam e della Costituzione. Qualora ritenga gli atti legislativi incompatibili, li inoltra nuovamente all’Assemblea per gli opportuni emendamenti. In caso contrario gli atti legislativi sono da considerarsi approvati ed efficaci. Articolo 95: Nei casi in cui il Consiglio dei Guardiani ritenga dieci giorni un termine non adeguato per completare il processo di verifica e trasmissione di una opportuna motivazione, può richiedere all’Assemblea Consultiva Islamica di concedere una estensione fino ad un massimo di ulteriori dieci giorni. Articolo 96: La determinazione della compatibilità degli atti legislativi approvati dall’Assemblea Consultiva Islamica con le leggi dell’Islam è presa con voto a maggioranza dei fuqaha’ del Consiglio dei Guardiani; e la determinazione della sua compatibilità con la Costituzione è presa con voto a maggioranza di tutti i membri del Consiglio dei Guardiani. Articolo 97: Per accelerare lo svolgimento degli incarichi, i membri del Consiglio dei Guardiani possono presenziare alle sedute dell’Assemblea ed ascoltare i dibattiti quando un provvedimento governativo od una proposta individuale sono sottoposti a discussione. Quando un atto governativo urgente è all’ordine del giorno dell’Assemblea, i membri del Consiglio dei Guardiani devono partecipare ai lavori dell’Assemblea e formulare apertamente la propria valutazione. Articolo 98: L’autorità per l’interpretazione della Costituzione è attribuita al Consiglio dei Guardiani, e la materia stessa deve essere votata con il voto favorevole di tre quarti dei membri.

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Articolo 99: Il Consiglio dei Guardiani ha la responsabilità di supervisionare le elezioni dell’Assemblea degli Esperti per la Guida, del Presidente della Repubblica, dell’Assemblea Consultiva Islamica ed il ricorso diretto al voto popolare ed ai referendum. Capitolo VII I Consigli Articolo 100: Per promuovere i programmi sociali, economici, dello sviluppo, della sanità, culturali e didattici e per facilitare altre materie connesse con il pubblico benessere in cooperazione con il popolo ed in accordo con le locali necessità, l’amministrazione di ogni paese, divisione, città, comune e provincia sarà supervisionata da un consiglio denominato Consiglio del Paese, della Divisione, della Città, del Comune o Provinciale. I membri di ciascun consiglio saranno eletti dal popolo della località interessata. Le qualificazione per l’idoneità degli elettori e dei candidati a questi consigli, così come le loro funzioni e poteri, le modalità delle elezioni, la giurisdizione dei consigli, la gerarchia della loro autorità, saranno stabilite per legge, in modo da preservare l’unità nazionale, l’integrità territoriale, il sistema della Repubblica Islamica e la sovranità del Governo centrale. Articolo 101: Per prevenire discriminazioni nella preparazione dei programmi per lo sviluppo ed il benessere delle province, per assicurare la cooperazione del popolo, e per organizzare la supervisione dell’applicazione coordinata di tali programmi, sarà costituito un Consiglio Supremo delle Province, composto da rappresentanti dei Consigli Provinciali. La legge specificherà il modo in cui questi consigli saranno formati e le funzioni da svolgere. Articolo 102: Il Consiglio Supremo delle Province ha diritto nella sua giurisdizione di emanare provvedimenti e di sottoporre gli stessi all’Assemblea Consultiva Islamica, sia direttamente che attraverso il Governo. Questi provvedimenti devono essere esaminati dall’Assemblea. Articolo 103: I Governatori Provinciali, quelli della città, quelli divisionali e gli altri pubblici ufficiali nominati dal Governo devono attenersi ad ogni decisione stabilita dai consigli nelle rispettive giurisdizioni. Articolo 104: Per assicurare equità islamica e cooperazione nel tracciare i programmi ed apportare armonioso progresso in ogni elemento della produzione, sia industriale che agricola, i consigli saranno composti dai rappresentanti dei lavoratori, dei contadini, degli altri impiegati e dei dirigenti saranno formati nelle unità didattiche ed amministrative, unità di servizio industriale ed altre strutture simile natura, composte dai rappresentanti di tali strutture. Il criterio di nomina di questi consigli e gli scopi delle loro funzioni e poteri saranno stabiliti per legge. Articolo 105: Le decisioni prese dai consigli non devono essere contrarie ai principi dell’Islam ed alle altre leggi del paese. Articolo 106: I consigli non possono essere sciolti se non per devianza dai loro compiti. L’organismo incaricato di determinare tali devianze, così come la procedura per lo scioglimento dei consigli e la loro nuova composizione, sarà specificata per legge. Qualora un consiglio volesse formulare un’obiezione circa lo scioglimento, lo stesso ha il diritto di appellarsi ad una corte competente, la quale ha il dovere di esaminare l’obiezione con un giudizio al di sopra delle parti.

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Capitolo VIII La Guida ed il Consiglio della Guida Articolo 107: Dopo la scomparsa dell’eminente marji' al-taqlid e grande Guida della rivoluzione islamica universale, e fondatore della Repubblica Islamica dell’Iran, Ayatollah al-‘Uzma Imam Khomeini – quddisa sirruh al-sharif – che fu riconosciuto ed accettato come marji’ e Guida dalla maggioranza del popolo, l’incarico di nominare la Guida sarà affidato ad esperti selezionati dal popolo. Gli esperti valuteranno e si consulteranno tra loro in relazione ad ogni fuqaha’ in possesso delle qualifiche specificate all’Articolo 5 e 109. Nel caso in cui ne individuino uno maggiormente competente in tema di legislazione islamica, il soggetto della fiqh, od in questioni politiche e sociali, od in possesso di una generale popolarità o speciale preminenze in ognuna delle qualifiche menzionate all’Articolo 109, lo eleggeranno quale Guida. In caso contrario, in assenza di una tale superiorità, eleggeranno e dichiareranno uno tra loro quale Guida. La Guida così eletta dall’Assemblea degli esperti assumerà tutti i poteri del velayat al-amr e tutte le responsabilità da ciò derivante. La Guida è uguale a qualsiasi individuo del paese e di fronte alla legge. Articolo 108: Le legge che definisce il numero e le qualifiche degli esperti (menzionati al precedente articolo), le modalità della loro elezione, e il codice di procedura regolante le sessioni nell’ambito del primo mandato sarà redatto dal fuqaha’ del primo Consiglio dei Guardiani, approvato a maggioranza dei voti e successivamente definitivamente approvato dalla Guida della Rivoluzione. Il potere di apportare qualsiasi successiva modifica od un emendamento di questa legge, o l’approvazione di quanto prescritto circa i compiti degli esperti è affidato a loro stessi. Articolo 109: Di seguito le qualificazioni e condizioni essenziali per la Guida:

1. Erudizione, come richiesto per svolgere le funzioni di mufti in differenti ambiti della fiqh.

2. Giustizia e pietà, come richiesto per la Guida della Ummah islamica. 3. Giusta perspicacia politica e sociale, prudenza, coraggio, abilità amministrativa ed

adeguata capacità di conduzione. Nel caso in cui più individui risultino in possesso delle summenzionate qualità e condizioni, sarà accordata preferenza a quello con le più spiccate doti giurisprudenziali e spiccata perspicacia politica.

Articolo 110: Di seguito i compiti ed i poteri della Guida:

1. Delineare le linee generali di politica della Repubblica Islamica dell’Iran dietro consultazione con il Consiglio per il Discernimento.

2. Supervisione sulla propria esecuzione delle politiche generali del sistema. 3. Emanare decreti per i referendum nazionali. 4. Assumere il comando supremo delle Forze Armate. 5. Dichiarare lo stato di Guerra od i trattati di pace, e la mobilitazione delle Forze Armate. 6. Nominare, dimettere ed accettazione delle dimissioni di:

a. i fuqaha’ del Consiglio dei Guardiani. b. l’autorità suprema del potere giudiziario nazionale. c. il vertice del sistema radio televisivo della Repubblica Islamica dell’Iran. d. il Capo di Stato Maggiore della Difesa. e. il Comandante in Capo del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche. f. i Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate.

7. Risolvere controversie tra le tre ali delle Forze Armate e regolare i loro rapporti. 8. Risolvere problemi dei quali non è possibile una soluzione attraverso gli strumenti

convenzionali, attraverso il Consiglio per il Discernimento Nazionale.

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9. Firmare il decreto di formalizzazione per l’elezione del Presidente della Repubblica da parte del popolo. Il possesso delle qualità per i candidati alla Presidenza della Repubblica, con riferimento a quanto stabilito dalla Costituzione, deve essere confermato prima delle elezioni dal Consiglio dei Guardiani; e nel caso di un primo mandato (della Presidenza), dalla guida.

10. Revocare il mandato del Presidente della Repubblica, nel rispetto della tutela dell’interesse del paese, dopo che la Corte Suprema lo abbia incriminato per la violazione dei suoi incarichi costituzionali, o successivamente ad un voto dell’Assemblea Consultiva Islamica in cui viene sancita l’incompetenza ai sensi dell’Articolo 89 della Costituzione.

11. Concedere la grazia o la riduzione di pena dei detenuti, entro i limiti dei criteri islamici, e dietro raccomandazione (per questo effetto) da parte del Capo del potere giudiziario. La guida può delegare parte dei suoi compiti e poteri ad un’altra persona.

a. Articolo 111: Nel caso in cui la Guida divenga incapace di provvedere agli incarichi costituzionali, o perda una delle qualificazioni menzionate all’Articolo 5 e 109, o divenga chiaro che egli non possiede alcune delle qualifiche iniziali, viene dimesso dall’incarico. L’autorità per determinare queste materie è attribuita agli esperti specificati nell’Articolo 108. In caso di morte, o dimissioni o revoca del mandato della Guida, gli esperti devono nel minor tempo possibile intraprendere tutte quelle azioni necessarie per la nomina della nuova Guida. Sino all’atto della nomina della nuova Guida, un consiglio composto dal Presidente, dal vertice del potere giudiziario, e da un faqih del Consiglio dei Guardiani, su decisione del Consiglio per il Discernimento Nazionale, assumerà temporaneamente i compiti della Guida. Nel caso in cui, durante questo periodo, uno di questi non sia in grado di provvedere ai suoi compiti per qualsivoglia ragione, un’altra persona su decisione della maggioranza dei faqih del Consiglio per il Discernimento Nazionale sarà eletta al suo posto. Questo consiglio opererà nel rispetto dei capi 1, 3, 5 e 10 e della sezione d., e., ed f. del capo 6 dell’Articolo 110, su decisione dei tre quarti dei membri del Consiglio per il Discernimento Nazionale. Nel caso in cui la Guida divenga temporaneamente incapace di provvedere agli incarichi del suo mandato a causa di una malattia od altro impedimento, durante questo periodo il consiglio menzionato in questo Articolo assumerà i poteri. Articolo 112: Su ordine della Guida, il Consiglio per il Discernimento Nazionale deve incontrare in qualsiasi momento i giudici del Consiglio dei Guardiani per valutare un provvedimento dell’Assemblea Consultiva Islamica ritenuto contrario alla Shariah od alla Costituzione, quando l’Assemblea non sia in grado di soddisfare i requisiti richiesti dal Consiglio dei Guardiani. Inoltre, il Consiglio si riunirà per considerazioni su qualsiasi soggetto trasmessogli dalla Guida e assumerà ogni altra responsabilità così come stabilito dalla Costituzione. I membri permanenti e temporanei del Consiglio saranno nominati dalla Guida. Il regolamento per il Consiglio sarà formulato ed approvato dai membri del Consiglio e soggetto a conferma da parte della Guida. Capitolo IX Il Potere Esecutivo Articolo 113: Dopo la Guida, il Presidente rappresenta la più alta autorità ufficiale del paese. Sua è la responsabilità per l’applicazione della Costituzione agendo quale capo dell’esecutivo, ad eccezione dei compiti direttamente attribuiti alla Guida. Articolo 114: Il Presidente è eletto con un mandato di quattro anni attraverso un voto a suffragio universale. La sua rielezione per un mandato di ulteriori quattro anni è possibile una sola volta.

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Articolo 115: Il Presidente deve essere eletto nell’ambito di una rosa di personalità religiose e politiche in possesso delle seguenti qualifiche: origine iraniana; nazionalità iraniana, capacità ed abilità amministrativa; eccellente curriculum; fedeltà e pietà; convinzione circa i fondamentali principi della Repubblica Islamica dell’Iran e del mahhdab ufficiale del paese. Articolo 116: I candidati nominati per la posizione di Presidente devono dichiarare ufficialmente la propria candidatura. La legge specifica il modo in cui il Presidente è eletto. Articolo 117: Il Presidente è eletto con la maggioranza assoluta dei voti espressi dagli aventi diritto. Se nessun candidato, tuttavia, ottiene tale maggioranza al primo turno, si procederà con una seconda tornata elettorale il venerdì della settimana successiva alla prima tornata di voto. Nella seconda tornata parteciperanno solo i due candidati che hanno ricevuto il maggior numero di voti nella prima tornata. Se, tuttavia, alcuni dei candidati con il maggior numero di voti nella prima tornata dovesse ritirare la propria candidatura, la scelta finale sarà tra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti tra tutti i restanti candidati. Articolo 118: La responsabilità per la supervisione delle elezioni presidenziali è affidata al Consiglio dei Guardiani, come sancito all’Articolo 99. Prima della nomina del Consiglio dei Guardiani, tuttavia, tale potere è affidato ad un consiglio di supervisione stabilito per legge. Articolo 119: L’elezione di un nuovo Presidente deve tenersi non più tardi di un mese prima della scadenza del mandato del Presidente uscente. Nel periodo di interim prima dell’elezione del nuovo Presidente e la fine del mandato del Presidente uscente, quest’ultimo svolgerà le mansioni di residente. Articolo 120: nel caso in cui uno o più candidati dichiarati idonei in termini di qualifiche – così come precedentemente espresso – sia deceduto nei dieci giorni prima delle elezioni, le elezioni saranno posticipate di due settimane. Se uno dei candidati con il maggior numero di voti sia deceduto nel periodo tra la prima e la seconda tornata elettorale, il periodo di intervallo tra le due tornate viene prorogato per ulteriori due settimane. Articolo 121: Il Presidente deve prestare il seguente giuramento firmandone il testo durante una sessione dell’Assemblea Consultiva Islamica ed alla presenza del capo del potere giudiziario e dei membri del Consiglio dei Guardiani: “Nel Nome di Dio, il Compassionevole, il Misericordioso, io, come Presidente, giuro su Dio, l’Eccelso e Onnipotente, alla presenza del Nobile Corano e del popolo dell’Iran, di salvaguardare la religione ufficiale del paese, l’ordine della Repubblica Islamica e della Costituzione del paese; che impegnerò ogni mia capacità ed abilità per il perseguimento delle responsabilità che ho assunto; che dedicherò me stesso al servizio del popolo, dell’onore del paese, per la diffusione della religione e della moralità, e per il supporto della verità e della giustizia, rifuggendo da ogni tipo di comportamento arbitrario; che proteggerò la libertà e la dignità di tutti i cittadini e i diritti che la Costituzione riconosce al popolo; che operando per il controllo della salvaguardia delle frontiere e dell’indipendenza politica, economica e culturale del paese non mi sottrarrò al alcuna misura; che, invocando l’aiuto di Dio e seguendo il Profeta dell’Islam e gli infallibili Imam (la pace sia con loro), io veglierò, come incaricato pio e disinteressato, sull’autorità concessami dal popolo con sacra fiducia, e la stessa trasferirò a chiunque verrà eletto dal popolo dopo di me.” Articolo 122: Il Presidente, entro i limiti dei suoi poteri e delle sue mansioni, che gli sono affidate in virtù della Costituzione o di altre leggi, è responsabile dinanzi al popolo, alla Guida ed all’Assemblea Consultiva Islamica.

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Articolo 123: Il Presidente è obbligato a firmare gli atti legislativi approvati dall’Assemblea o risultanti da referendum, dopo che siano state espletate le relative procedure giuridiche e successivamente alla trasmissione dell’atto. Dopo la firma, il Presidente deve trasmettere l’atto alle autorità responsabili per l’applicazione. Articolo 124: Il Presidente può avvalersi di deputati per l’assolvimento degli incarichi istituzionali. Con l’approvazione del Presidente, il primo deputato del Presidente sarà investito della responsabilità di amministrare i compiti del Consiglio dei Ministri e di coordinare le funzioni degli altri deputati. Articolo 125: Il Presidente o il suo legale rappresentante hanno l’autorità di firmare trattati, protocolli, contratti ed accordi conclusi dal Governo iraniano con altri governi, così come accordi relativi alle organizzazioni internazionali, dopo aver ottenuto l’approvazione da parte dell’Assemblea Consultiva Islamica. Articolo 126: Il Presidente è responsabile per la pianificazione nazionale e quella economica, e per le materie di impiego nazionale, e può affidare l’amministrazione di queste ad altri. Articolo 127: In circostanze speciali, soggette all’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il Presidente può nominare uno o più rappresentanti speciali con specifici poteri. In questi casi, le decisioni prese dal/i rappresentante/i saranno considerate alla stregua di quelle prese dal Presidente e dal Consiglio dei Ministri. Articolo 128: Gli Ambasciatori saranno nominati su raccomandazione del Ministro degli Affari Esteri ed approvati dal Presidente. Il Presidente firma le credenziali degli Ambasciatori e riceve le credenziali presentate dagli Ambasciatori stranieri. Articolo 129: La concessione delle onorificenze dello Stato è una prerogativa del Presidente. Articolo 130: Il Presidente deve rassegnare le proprie dimissioni alla Guida e deve continuare a svolgere il proprio mandato sino all’accettazione delle stesse. Articolo 131: In caso di morte, dimissioni, assenza o malattia prolungata oltre i due mesi, o quando il suo mandato è terminato e non sia stato ancora nominato un nuovo Presidente a causa di qualsivoglia impedimento o circostanze similari, il primo deputato può assumere, con l’approvazione della Guida, i poteri e le funzioni del Presidente. Il Consiglio, costituito dallo Speaker dell’Assemblea Consultiva Islamica, il vertice del potere giudiziario e il primo deputato del Presidente, è obbligato ad organizzare la nomina di un nuovo Presidente da eleggersi entro il termine massimo di cinquanta giorni. In caso di morte del primo deputato del Presidente, od in qualsiasi altra circostanza che ne impedisca le funzioni, o quando il Presidente non ha un primo deputato, la Guida può nominarne uno. Articolo 132: Nel periodo in cui i poteri e le responsabilità del Presidente sono assunti dal primo deputato o da altra persona in accordo a quanto previsto dall’Articolo 131, né i ministri possono essere interpellati, né un voto di sfiducia può essere espresso nei loro confronti. Né può essere intrapresa qualsivoglia misura per una modifica della Costituzione o per indire un referendum. Articolo 133: I Ministri saranno nominati dal Presidente e saranno presentati all’Assemblea per il voto di fiducia. Con la sostituzione dell’Assemblea, un nuovo voto di fiducia non sarà necessario. Il numero dei Ministri e la giurisdizione di ognuno di questi sarà determinata per legge.

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Articolo 134: Il Presidente presiede il Consiglio dei Ministri. Supervisiona il lavoro dei Ministri ed intraprende ogni azioni necessaria per coordinare le decisioni del Governo. In accordo con i Ministri, determina il programma e le politiche del Governo, e provvede all’adempimento delle leggi. Nel caso di discrepanze, o interferenze, nei doveri costituzionali delle agenzie governative, la decisione del Consiglio dei Ministri su richiesta del Presidente sarà vincolante purché non implichi una interpretazione o modificazione delle leggi. Il Presidente è responsabile dinanzi all’Assemblea per l’operato del Consiglio dei Ministri. Articolo 135: I Ministri continueranno nel loro ufficio sino a che non vengano revocati, o sino a quando non sia formulato un voto di sfiducia dall’Assemblea risultante da una interpellanza, o una mozione per il voto di sfiducia nei loro confronti. Le dimissioni del Consiglio dei Ministri, o quelle di ognuno di loro, devono essere rassegnate al Presidente, e il Consiglio dei Ministri deve continuare nel proprio incarico sino alla nomina di un nuovo Governo. Il Presidente può nominare un curatore per un periodo massimo di tre mesi per i Ministeri sprovvisti di Ministro. Articolo 136: Il Presidente può dimettere i Ministri ed in questo caso deve ottenere un voto di fiducia per il nuovo Ministro nominato, da parte dell’Assemblea. Nel caso in cui la metà dei membri del Consiglio dei Ministri sia sostituita dopo che il Governo abbia ricevuto il voto di fiducia da parte dell’Assemblea, il Governo deve richiedere un nuovo voto di fiducia dall’Assemblea. Articolo 137: Ogni Ministro è responsabile per i suoi incarichi dinanzi al Presidente ed all’Assemblea, ma in misura approvata all’unanimità dal Consiglio dei Ministri, è responsabile anche per l’operato di altri. Articolo 138: Oltre ai casi di istanze nelle quali il Consiglio dei Ministri o singoli Ministri siano autorizzati a concepire procedure per l’adempimento delle leggi, il Consiglio dei Ministri ha il diritto di predisporre regole, regolamenti e procedure per svolgere i propri incarichi amministrativi, assicurando l’adempimento delle leggi e costituendo organi amministrativi. Ogni Ministro ha inoltre il diritto di definire regolamenti ed emettere circolari nelle materie di propria giurisdizione ed in conformità con le decisioni del Consiglio dei Ministri. I contenuti di tali regolamenti, tuttavia, non deve violare la lettera e lo spirito della legge. Il Governo può incaricare le commissioni composte da alcuni Ministri per ogni porzione dei propri incarichi. Le decisioni prese da queste commissioni, nell’ambito dei regolamenti, avranno valore dopo l’approvazione da parte del Presidente. La ratifica e i regolamenti del Governo e le decisioni delle commissioni sopra menzionate in questo Articolo devono essere inoltre portate a conoscenza attraverso lo Speaker all’Assemblea Consultiva Islamica e comunicate per l’applicazione in odo che, qualora vengano ritenute contrarie alla legge, possano essere rimandate con l’indicazione delle motivazioni per la riconsiderazione da parte del Consiglio dei Ministri. Articolo 139: La soluzione di richieste relative a proprietà pubbliche o statali od il riferimento ad arbitrato per le stesse, è in ogni caso dipendente dall’approvazione del Consiglio dei Ministri, e l’Assemblea può essere informata di queste materie. Nel caso in cui una delle parti della disputa sia straniera, così come per casi importanti di natura squisitamente nazionale, l’approvazione da parte dell’Assemblea deve essere ottenuta. La legge specificherà il novero di tali casi rilevanti. Articolo 140: L’incriminazione per crimini comuni del Presidente, dei suoi deputati e Ministri, sarà investigato dalle corti ordinarie di giustizia interessandone per conoscenza l’Assemblea Consultiva Islamica.

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Articolo 141: Il Presidente, i deputati del Presidente, i Ministri e gli impiegati governativi non possono detenere più di un incarico governativo, ed è proibito assumere ogni altro incarico in istituzioni il cui capitale, in tutto od in parte, sia detenuto dallo Stato o da organizzazioni pubbliche; di essere membri dell’Assemblea Consultiva Islamica; di praticare la professione di avvocato o di consulente legale, o di assumere la posizione di presidente, direttore generale o membro del consiglio direttivo in ogni tipo di società privata, ad eccezione delle società cooperative affiliate ai dipartimenti od alle istituzioni governative. Sono escluse da queste incompatibilità le posizioni universitarie e quelle di ricerca. Articolo 142: Le proprietà della Guida, del Presidente, dei deputati del Presidente e dei Ministri, così come quelle delle loro consorti e della prole, devono essere esaminate prima e dopo i termini dell’incarico dal responsabile del potere giudiziario, in modo da assicurare che non siano state accresciute in modo contrario alla legge. Articolo 143: Le Forze Armate della Repubblica Islamica dell’Iran sono responsabili per la salvaguardia dell’indipendenza e dell’integrità territoriale del paese, così come per l’ordine della Repubblica Islamica. Articolo 144: Le Forze Armate della Repubblica Islamica dell’Iran devono essere delle Forze Armate islamiche, impegnate in favore dell’ideologia islamica e del popolo, e devono reclutare in servizio individui che abbiano fede negli obiettivi della Repubblica Islamica dell’Iran e siano devoti alla causa per realizzarli. Articolo 145: Nessuno straniero può essere accettato nelle Forze Armate o nelle strutture di sicurezza del paese. Articolo 146: E’ proibita la realizzazione di qualsiasi base od infrastruttura militare straniera in Iran, anche se per scopi pacifici. Articolo 147: In tempo di pace, il Governo deve utilizzare il personale e le dotazioni tecniche delle Forze Armate per operazioni di pubblica utilità e per fini didattici e produttivi, nel perseguimento della Jihad osservando appieno i criteri della giustizia islamica ed assicurando che questi fini non compromettano la preparazione e le capacità delle Forze Armate. Articolo 148: Tutte le forme di uso personale dei veicoli militari, degli equipaggiamenti e di altri mezzi, così come il servirsi del personale delle Forze Armate come aiutanti personali o autisti o simili mansioni, è proibito. Articolo 149: Le promozioni del personale militare ne propri ranghi, e la loro rimozione, deve essere operata in accordo con la legge. Articolo 150: Il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, organizzato nei primi giorni del trionfo della Rivoluzione, deve essere mantenuto in modo che possa continuare nel suo ruolo di guardia della Rivoluzione e dei suoi risultati. Lo scopo e le mansioni di questo Corpo, e le sua aree di responsabilità in relazione ai compiti ed alle aree di responsabilità delle altre Forze Armate, deve essere determinato per legge, con enfasi sulla fraterna cooperazione ed armonia tra loro. Articolo 151: In accordo con i nobile versetto Coranico: “Prepara contro di loro quante più forze riesci a raccogliere, e cavalli pronti per la battaglia, portando la paura tra i nemici di Dio ed i tuoi nemici, ed altri dietro di loro a te sconosciuti ma non a Dio” [8:60], il Governo è obbligato a provvedere ad un programma di addestramento militare, con tutte le strutture richieste, per tutti i

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suoi cittadini, in accordo con i criteri islamici, in modo che tutti i cittadini sia sempre in grado di servire nelle Forze Armate per la difesa della Repubblica Islamica dell’Iran. Il possesso di armi, tuttavia, richiede l’ottenimento di un permesso da parte delle competenti autorità. Capitolo X Politica Estera Articolo 152: La politica estera della Repubblica Islamica dell’Iran è basata sul rifiuto di ogni forma di dominazione, sia nell’esercizio che nell’imposizione della stessa, nel preservare l’indipendenza del paese in ogni ambito e nella sua integrità territoriale, la difesa dei diritti di tutti i Musulmani, il non allineamento rispetto alle superpotenze egemoni, e sul mantenimento di mutue pacifiche relazioni con tutti gli stati non belligeranti. Articolo 153: Ogni forma di accordo risultante nel controllo straniero delle risorse naturali, economiche, delle Forze Armate o della cultura del paese, così come ogni altro aspetto della vita nazionale, è vietato. Articolo 154: La Repubblica Islamica dell’Iran ha come suo ideale la felicità umana attraverso la società umana, e considera il conseguimento dell’indipendenza, della libertà e del ruolo della giustizia e della verità come un diritto di tutti i popoli del mondo. In tal modo, astenendosi scrupolosamente da ogni forma di interferenza negli affari interni di altre nazioni, sostiene la giusta lotta del mustad’afun contro il mustakibirun in ogni angolo del pianeta. Articolo 155: Il Governo della Repubblica Islamica dell’Iran può concedere asilo politico a quelli che ne facciano richiesta, sino a quando non siano riconosciuti come traditori o sabotatori in accordo con le leggi dell’Iran. Capitolo XI Il Potere Giudiziario Articolo 156: Quello giudiziario è un potere indipendente, per proteggere i diritti degli individui e della società, responsabile per l’applicazione della giustizia, ed incaricato dei seguenti compiti:

1. investigare ed emettere giudizi su rivendicazioni, violazioni di diritti e proteste; risolvere contenziosi e dispute; adottare ogni necessaria decisione e misura nelle materie che la legge può determinare;

2. ristabilire diritti pubblici e promuovere la giustizia e le legittime libertà; 3. supervisionare il corretto esercizio per il rispetto delle leggi; 4. scoprire crimini, perseguirli, punirli e redimere i criminali; elevare le sanzioni e le

disposizioni del codice penale islamico; 5. adottare le opportune misure per la prevenzione del crimine e per redimere i criminali.

Articolo 157: Per ottemperare alle responsabilità del potere giudiziario in ogni materia di sua competenza, sia esse amministrativa che esecutiva, la Guida nominerà un giusto Mujtahid con specifica competenza giuridica ed in possesso della qualità della prudenza e della capacità amministrativa, quale vertice del potere giudiziario per un periodo di cinque anni e che rappresenterà la massima autorità giudiziaria. Articolo 158: Il vertice del potere giudiziario avrà le seguenti responsabilità:

1. organizzazione della struttura organizzativa necessaria per l’amministrazione della giustizia commisurata alle responsabilità di cui all’Articolo 156;

2. Redigere atti giudiziari appropriati per la Repubblica Islamica;

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3. Nomina di giudici giusti e meritevoli; loro revoca, assegnazione, trasferimento, assegnazione ad incarico particolare, promozione ed attività connesse, in accordo con quanto previsto dalla legge.

Articolo 159: Le Corti di Giustizia sono gli organi ufficiali cui è demandata la gestione del contenzioso. La formazione delle Corti e la loro giurisdizione sarà determinata per legge. Articolo 160: Il Ministro della Giustizia ha la responsabilità di ogni aspetto relativo al rapporto tra il potere giudiziario da un lato, ed il potere esecutivo e legislativo dall’altro. Sarà eletto tra gli individui proposti al Presidente dal vertici del potere giudiziario. Il vertice del potere giudiziario può delegare piena autorità al Ministro della Giustizia nelle aree finanziarie ed amministrative e per l’impiego del personale fuorché i giudici. In questi casi il Ministro della Giustizia avrà la stessa autorità e responsabilità degli altri Ministri nella loro funzione quale esecutivo del massimo grado del Governo. Articolo 161: La Corte Suprema deve essere composta al fine di supervisionare la corretta applicazione delle leggi da parte delle Corti, assicurando uniformità di procedura giudiziale e gestendo ogni altra responsabilità assegnata per legge, sulla base dei regolamenti che dovranno essere stabiliti dal vertice del potere giudiziario. Articolo 162: Il Capo della Corte Suprema ed il Procuratore Generale devono entrambi essere dei giusti mjtahids competenti in materie giuridiche. Saranno nominati dal vertice del potere giudiziario per un periodo di cinque anni, d’intesa con i giudici della Corte Suprema. Articolo 163: Le condizioni e le qualifiche per la l’incaricato di un giudice saranno stabilite per legge, in accordo con i criteri della figh. Articolo 164: Un giudice non può essere rimosso dalla carica, sia temporaneamente che permanentemente, eccezion fatta per il caso di imputazione in un processo e riconoscimento della colpa, o quale conseguenza di una violazione per la quale sia prevista la rimozione dall’incarico. Un giudice non può essere trasferito o re-designato senza il suo consenso, eccezion fatta per il caso in cui questo sia necessario nell’interesse della società e dietro decisione del vertice del potere giudiziario dopo un consulto con il Capo della Corte Suprema ed il Procuratore Generale. Il trasferimento periodico e la rotazione saranno in accordo con le regole generali da stabilirsi per legge. Articolo 165: I processi devono svolgersi in pubblico e l’accesso del pubblico non deve essere regolato da alcuna limitazione; se la Corte stabilisce che la sessione pubblica di un processo può essere pregiudizievole per la moralità pubblica o la disciplina, o nel caso di dispute private, entrambe le parti possono richiedere lo svolgimento delle sessioni a porte chiuse. Articolo 166: Il verdetto di una corte deve essere motivato e documentato nel rispetto degli articoli e dei principi della legge e deliberati in accordo con questa. Articolo 167: Il giudice è obbligato a compiere ogni sforzo per giudicare ogni caso sulla base delle leggi codificate. Nel caso in cui sia assente una specifica legge per la soluzione del caso, il giudice deve emettere la sua sentenza sulla base delle più autorevoli pronunce islamiche e sulle fatwa autentiche. In nessun caso, con il pretesto del silenzio o dell’assenza di una specifica legge, o la sua brevità o contraddittorietà, può astenersi dall’accettare e dall’esaminare un caso sottoposto al suo giudizio.

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Articolo 168: I reati relativi a crimini politici od a mezzo stampa saranno giudicati pubblicamente ed alla presenza di una giuria, presso una Corte di Giustizia. Le modalità per la selezione della giuria, per la determinazione dei poteri della stessa e la classificazione dei reati politici, sarà determinata dalla legge in accordo a quanto prescritto dai criteri islamici. Articolo 169: Nessun atto od omissione può essere considerato come un reato con retroattività da una nuova legge emanata successivamente al fatto. Articolo 170: I giudici delle Corti sono obbligati ad astenersi dall’eseguire statuti e regolamenti del Governo che sono in conflitto con le leggi o le norme dell’Islam, o ricadano al di fuori della competenza del potere esecutivo. Ognuno ha il diritto di domandare l’annullamento di un regolamento di tale natura da parte di una Corte Amministrativa di Giustizia. Articolo 171: Quando un individuo abbia a patire un danno materiale o morale quale risultato di una mancanza o di un errore di un giudice in relazione al soggetto di un contenzioso o di una sentenza, od all’applicazione di una norma per un particolare caso, il giudice in causa deve offrire garanzia per la riparazione del danno in accordo con i criteri islamici. Altrimenti il danno sarà compensato dallo Stato. In ognuno di questi casi la reputazione ed il buon nome dell’accusato saranno ristabiliti. Articolo 172: Le Corti Militari saranno costituite er legge per investigare crimini connessi con l’operato o nell’ambito delle mansioni del personale delle Forze Armate, della Gendarmerie, della Polizia e del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. I reati ordinari saranno tuttavia perseguiti pubblicamente dalle Corti ordinarie, così come i reati commessi nell’esercizio della funzione esecutiva per conto del Dipartimento della Giustizia. L’ufficio del Procuratore Militare e delle corti Militari forma parte integrante del sistema giudiziario e ne è soggetto agli stessi principi per il funzionamento. Articolo 173: Per svolgere attività investigativa su querele, gravami e obiezioni da parte dei cittadini con riferimento all’azione di pubblici ufficiali, organi e statuti, sarà creata una Corte Amministrativa di Giustizia sotto la supervisione del vertice del potere giudiziario. La giurisdizione, i poteri e le modalità operative di questa corte saranno stabilite dalla legge. Articolo 174: In accordo con il diritto del potere giudiziario di supervisionare la propria conduzione delle attività e la corretta applicazione delle leggi da parte degli organi del Governo e delle organizzazioni, sarà costituito sotto la supervisione del vertice del potere giudiziario l’Ispettorato Generale Nazionale. I poteri ed i compiti di questa organizzazione saranno stabiliti per legge. Capitolo XII Radio e Televisione Articolo 175: La libertà di espressione e diffusione del pensiero attraverso la radio e la televisione della Repubblica Islamica dell’Iran deve essere garantita nel rispetto dei criteri islamici e dell’interesse del paese. La noma e la revoca dei vertici della radio e della televisione della Repubblica Islamica dell’Iran è di spettanza della Guida. Un consiglio composto da due rappresentanti ognuno da parte del Presidente, del vertice del potere giudiziario e dell’Assemblea Consultiva Islamica supervisionerà il funzionamento di questa organizzazione. Le politiche ed i modi di gestione e la loro supervisione saranno stabiliti per legge. Capitolo XIII Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale

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Articolo 176: Per salvaguardare l’interesse nazionale e della rivoluzione islamica, l’integrità territoriale e la sovranità nazionale, sarà costituito un Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale presieduto dal Presidente ed avente le seguenti responsabilità:

1. Determinare le politiche di difesa e di sicurezza nazionale nell’ambito delle linee generali di politica determinate dalla Guida.

2. Coordinare le attività nelle aree relative ai settori della politica, dell’intelligence, del sociale, del culturale e dell’economico con riferimento alle politiche generali di difesa e sicurezza.

3. Utilizzo di ogni risorsa materiale ed intellettuale del paese per fronteggiare minacce interne ed esterne.

Il Consiglio sarà composto da: 1. vertici del potere giudiziario, esecutivo e legislativo; 2. Capo del Comando Supremo del Consiglio delle Forze Armate; 3. ufficiali in carico della pianificazione e programmazione; 4. due rappresentanti nominati dalla Guida; 5. Ministro degli Affari Esteri 6. Ministro degli Interni 7. Ministro dell’Informazione 8. Ministri eventualmente interessati 9. Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate e del Corpo delle Guardie della Rivoluzione

Islamica Commisurato con i suoi compiti, il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale costituirà delle sub-commissioni quali quella per la Difesa e quella per la Sicurezza Nazionale. Ogni sub-commissione sarà presieduta dal Presidente o da un membro del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale nominato dal Presidente. Lo scopo dell’autorità e della responsabilità delle sub-commissioni sarà determinato dalla legge e la struttura organizzativa sarà approvata dal Consiglio Supremo per la Difesa Nazionale. Le decisioni del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale saranno efficaci dopo essere state approvate dalla Guida. Capitolo XIV Revisione della Costituzione Articolo 177: La revisione della Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran, quando ciò fosse necessario, sarà attuata nel seguente modo: La Guida emetterà un editto per il Presidente della Repubblica dopo essersi consultato con il Consiglio per il Discernimento Nazionale stipulando gli emendamenti o le implementazioni da apportarsi ad opera del Consiglio per la Revisione della Costituzione, così composto:

1. Membri del Consiglio dei Guardiani. 2. Vertici dei poteri giudiziario, esecutivo e legislativo. 3. Membri permanenti del Consiglio per il Discernimento Nazionale. 4. Cinque tra i membri dell’Assemblea degli Esperti. 5. Dieci rappresentanti selezionati dalla Guida. 6. Tre rappresentanti del Consiglio dei Ministri. 7. Tre rappresentanti del potere giudiziario. 8. Dieci rappresentanti tra i membri dell’Assemblea Consultiva Islamica. 9. Tre rappresentanti tra i professori universitari.

Le modalità di lavoro, quelle di selezione ed i termini e le condizioni del Consiglio saranno determinate per legge. Le decisioni del Consiglio, dopo la conferma e la firma da parte della Guida, saranno valide se approvate dalla maggioranza assoluta dei votanti ad un referendum nazionale.

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Quanto previsto all’Articolo 59 della Costituzione non si applicherà ai referendum per la revisione della Costituzione. I contenuti degli Articoli della Costituzione relativi al carattere islamico del sistema politico; le basi di tutte le norme ed i regolamenti riferiti ai criteri islamici; le posizioni religiose; gli obiettivi della Repubblica Islamica dell’Iran; il carattere democratico del Governo; il velayat al-‘amr e l’imamato della Ummah; e l’amministrazione degli affari del paese attraverso il ricorso a referendum, la religione ufficiale dell’Iran (l’Islam) e la sua scuola (Ja’fari Duodecimana), sono inalterabili.

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L’incerto futuro del MEK (Mojjahidin-e Khalq) in Iraq e nel mondo Introduzione Subito dopo il termine ufficiale delle ostilità in Iraq, le forze statunitensi hanno provveduto a “congelare” le attività e la struttura del MEK (Mojjahidin-e Khalq) in Iraq attraverso un complesso programma destinato a rendere inerte – sebbene solo in teoria – le unità del gruppo in attesa di decidere sul loro futuro. Forti in Iraq di alcune migliaia di uomini organizzati militarmente, e di diverse migliaia tra membri

e simpatizzanti in Europa, i Mojjahidin-e Khalq rappresentano un caso particolare e complesso nel

delicato equilibrio iracheno e, soprattutto, nel rapporto con la Repubblica Islamica dell’Iran, per i

quali costituiscono la più pericolosa ed odiata formazione terroristica.

Il MEK, inoltre, è una struttura complessa ed articolata. Alla componente militarizzata presente in Iraq si affiancano numerose altre sigle ed organizzazioni operative soprattutto in Europa e Nord America, in larga parte fortemente politicizzate ed attive nella raccolta di fondi o nelle attività di propaganda, con dubbie ramificazioni in numerosi ulteriori ambiti. Storia ed evoluzione del MEK dal 1960 al 2003 Il movimento dei Mojjahidin-e Khalq venne fondato nei primi anni Sessanta in Iran da alcuni giovani attivisti fuoriusciti dalla sinistra tradizionale locale (il Tudeh), sposando marxismo ed Islam in una particolare forma di aggregato ideologico-religioso connotato da pulsioni fortemente anti-imperialiste, anti-monarchiche ed anti-occidentali in conseguenza del supporto fornito dagli Stati Uniti e dall’Europa al governo dello Scià. La particolarità del MEK è data dal fatto che la gran parte dei suoi fondatori, a differenza degli altri partiti od organizzazioni della sinistra e dell’estrema sinistra iraniana, era di estrazione borghese medio-alta in larga parte connessa al sistema dei ba’azari, ovvero la potente cerchia dei commercianti. L’attività del MEK si tradusse in un programma politico e di lotta gestito da una organizzazione efficiente e fortemente motivata, operando una scelta d’azione violenta e plateale sin dall’inizio delle operazioni. La struttura embrionale del MEK sorge nel 1963, a seguito del fallimento dei tentativi politico-religiosi di rovesciare la monarchia, e da subito riconosce la lotta armata quale unica soluzione possibile per porre fine al regime dello Scià Mohammed Reza Pahlavi. In particolar modo risultò eclatante nie primi anni Settanta l’omicidio di alcuni tecnici americani a Tehran quale atto di sfida al sistema monarchico ed agli alleati statunitensi. Tali azioni, tuttavia, provocarono un’intensa ed altrettanto violenta attività da parte della Savak – la struttura di informazione e sicurezza del regime imperiale – la quale non risparmiò torture di ogni genere ai membri del MEK catturati ed imprigionati. Nonostante l’assenza di prove certe circa un diretto finanziamento da parte dei sovietici alle unità del MEK – così come per quelle del Tudeh e del FEK – numerose testimonianze dalla Russia e dallo stesso Iran hanno fortemente avvalorato questa tesi, confermando peraltro una linea generale d’azione in Iran da parte di Mosca ben nota e documentata sebbene in termini solamente generali.

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Il MEK ha attivamente partecipato alla rivoluzione del 1978/79 e, anzi, è oggi possibile affermare con un buon margine di certezza che l’organizzazione dei Mojjahidin-e Khalq sia stata uno dei principali motori, e responsabili, della rivoluzione stessa. La gran parte degli storici e degli analisti dedicati alla comprensione delle dinamiche iraniane, infatti, è oggi largamente concorde nel ritenere il MEK responsabile dell’incendio del cinema REX di Abadan che, nel 1978, scatenò la scintilla della rivoluzione attribuendo la responsabilità dell’accaduto – morirono oltre duecento persone – alla Savak. Il MEK, peraltro, in epoca successiva supportò fortemente l’occupazione dell’Ambasciata USA a Tehran favorendo anche la partecipazione di alcuni suoi aderenti nelle prime fasi dell’occupazione da parte degli studenti islamici. Tra le organizzazioni politiche e religiose impegnate nella lotta anti-monarchica, quella dei Mojjahidin-e Khalq fu certamente quella peggio giocò le sue carte per ottenere il consenso popolare, preoccupandosi solo marginalmente di sviluppare ed alimentare una linea di comunicazione con le masse in funzione della creazione di un bacino di supporto. Nonostante un iniziale largo consenso alle linee generali di politica e d’azione del MEK, grazie alle quali il movimento riuscì a portare in alcune occasioni diverse decine di migliaia di dimostranti nelle strade, il problema dell’organizzazione fu sempre quello di essere scarsamente rappresentativo del tessuto sociale iraniano e, soprattutto, quello di manifestarsi in modo troppo violento ed audace per riscuotere ampi consensi in seno alla popolazione. Questo errore decretò in larga parte il fallimento dell’azione del MEK, nonostante l’elevata capacità operativa e la consolidata esperienza sul terreno degli aderenti. Nelle fasi immediatamente successive alla rivoluzione, infatti, il MEK andò progressivamente ad allontanarsi dalla compagine religiosa, ritenuta erroneamente un avversario debole e facilmente eliminabile, sviluppando una posizione di scontro che ne determinò la messa al bando e la fuga – o l’occultamento – della gran parte degli aderenti. Nel caso specifico il MEK ritenne i tempi fossero maturi subito dopo la rivoluzione per sviluppare una controrivoluzione appoggiata dal debole presidente Bani Sadr. Nell’arco di una notte, invece, la dura repressione delle autorità religiose e la scarsa mobilitazione di piazza costrinsero alla fuga i vertici, tra cui Masoud Rajavi, e condannarono a morte la gran parte della base scesa nelle piazze. Riparati in gran numero in Europa, ed in Francia in modo particolare, i quadri del MEK avviarono un processo di trasformazione interno sostanzialmente destinato a creare gruppi di natura esclusivamente politica e propagandistica e, dall’altra parte, unità para-militari e di guerriglia subito spintisi oltre i limiti della legalità con una serie di sanguinosi attentati in Iran ed all’estero contro obiettivi della Repubblica Islamica dell’Iran. Dalla nuova centrale di Parigi, nel frattempo, il MEK iniziò ad intrattenere sempre più frequenti contatti con l’Iraq, movendo alcune delle sue cellule nel paese e fornendo all’intelligence dell’ex regime di Saddam Hussein informazioni di natura militare, strategica e cartografica già nelle prime fasi del conflitto con l’Iran. Nel 1986, infine, grazie ad una specifica offerta da parte di Saddam Hussein, la struttura militarizzata del MEK si trasferì in Iraq installandosi in tre basi principali nell’area centro orientale del paese, ricevendo mezzi ed infrastrutture in gran quantità. Le tre installazioni sono quelle di Campo Ashraf, a circa 100 Km a nord di Bagdad, di Camp Alavi, nei pressi della città di Miqdadiyah a circa 120 Km a nord est di Bagdad, e di Camp Anzali, a circa 200 Km a nord est di Bagdad nei pressi della città di Jalula ed a soli 50 Km dal confine iraniano. Oltre a queste, sarebbero stati attivati nel corso del tempo anche quattro campi nell’Iraq meridionale, abbandonati comunque prima ancora dell’attacco da parte delle forze della coalizione. La partecipazione delle unità del MEK al conflitto con l’Iran, ancorché continua soprattutto dal 1986 al 1988, si tradusse in realtà in operazioni “hit-and-run” oltre il confine. Operazioni spesso condotte contro obiettivi di piccole e medie dimensioni delle forze militari di presidio alle aree confinarie, o contro i villaggi senza alcuna valenza dal punto di vista militare e strategico.

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Questo comportò, grazie anche ad una massiccia propaganda da parte degli iraniani, il sistematico e definitivo alienamento del MEK dal tessuto sociale iraniano, venendo riconosciuto anche dai più accaniti oppositori dell’attuale regime come un’unità terroristica ed un gruppo di criminali. Senz’altro riconducibili al MEK sono gli attentati del 1981 a Tehran in cui persero la vita oltre 70 esponenti politici e religiosi del nuovo governo, tra cui l’Ayatollah Mohammad Beheshti, il Presidente della Repubblica Mohammad Ali Rajaei ed il Primo Ministro (carica abolita con una revisione costituzionale) Mohammad-Javad Bahonar. Tra le numerose sigle riconducibili in modo diretto od indiretto al MEK vi sono alcune organizzazioni apparentemente impegnate nelle sola attività di propaganda politica ed umanitaria o nella raccolta di fondi per il sostentamento delle strutture di opposizione al regime. A queste si aggiungono ulteriori sigle riferite a gruppi militanti solitamente organizzati su una struttura politica e “civile” in Europa ed una struttura para-militare più o meno clandestina all’estero. La National Liberation Army of Iran (NLA), la People’s Mujahedin of Iran (PMOI), il National Council of Resistance (NCR), il National Council of Resistance of Iran (NCRI), il Muslim Iranian Student's Society, quindi, rappresentano elementi di una più grande ma eterogenea struttura genericamente chiamata MEK. L’attività clandestina del MEK, tuttavia, ha perso slancio e vigore dai primi anni Ottanta ad oggi. Dalle spettacolari azioni del 1981 a Tehran e del 1992 con l’assalto simultaneo a 13 sedi diplomatiche iraniane nel mondo, si è passati ad azioni di più modesta portata, sebbene all’interno dei confini della Repubblica Islamica, destinate all’eliminazione fisica di alcuni uomini chiave del regime, con particolare predilezione per i quadri dirigenti dell’Islamic Revolutionary Corp Guard. Nel 1999 venne assassinato un importante generale delle Forze Armate regolari, e nell’aprile del 2000 sfuggì alla morte il responsabile dell’Unità di Nasr, gruppo responsabile per le operazioni – anche clandestine – in territorio iracheno. Dal 2001 ad oggi, invece, le attività sono diminuite in modo sensibile limitandosi a qualche colpo di mortaio contro le installazioni di frontiera lungo il confine con l’Iraq ed un tentativo di colpire, sempre con un mortaio, l’ufficio di Khamenei a Tehran. Il MEK, peraltro, è largamente inviso anche in Iraq dalle comunità sciite e curde, a causa della sua attiva partecipazione al fianco delle unità militari dell’ex regime in numerose delle operazioni contro dette comunità in più occasioni nel corso dell’ultimo decennio. Questo comporta peraltro oggi la possibilità che la concentrazione di uomini al campo Ashraf, sebbene in area sunnita, possa essere oggetto di vendette o ritorsioni da parte dei loro numerosissimi nemici. Dall’invasione dell’Iraq a oggi Quando nel marzo del 2003 le forze anglo-americane invadono l’Iraq rapidamente risalendo da sud a nord in direzione di Bagdad, le forze del MEK presenti nelle tre installazioni militari della regione centro orientale del paese comprendono come la vita e l’operatività della loro struttura militare stia volgendo al termine. Non è ancor oggi chiaro se abbiano partecipato attivamente o passivamente alle fasi del conflitto, sebbene sembri prevalere l’ipotesi di un “consolidamento difensivo” all’interno delle tre basi. Un dato di fatto, tuttavia, è quello rappresentato dalle incursioni aeree americane su almeno due delle tre basi del MEK tra il 14 ed il 15 di aprile del 2003. Queste incursioni hanno tuttavia avuto più un carattere simbolico e dimostrativo piuttosto che militare. In primo luogo si sono limitate a colpire senza infliggere danni, cosa di già di per sé assai particolare, non costituendo nulla di sostanziale sotto il profilo delle operazioni belliche in corso.

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E questo ha generato non poche perplessità circa la valenza dell’atto stesso. L’operazione, infatti, può aver avuto il duplice obiettivo di soddisfare da un lato gli iraniani dimostrando significativamente – anche se non in modo concreto – la disponibilità statunitense a trattare su una delle più spinose questioni di interesse per la Repubblica Islamica; e dall’altro certamente ha voluto rappresentare un monito diretto ed inequivocabile alle forze del MEK per indurli ad un atteggiamento cauto e non ostile nei confronti delle forze della coalizione. Negli Stati Uniti, invece, la notizia dell’incursione ha suscitato la protesta e l’ira di oltre 150 membri del Congresso che, ritenendo il MEK un valido strumento di pressione anti-iraniana, hanno fortemente criticato la decisione di intervenire militarmente contro l’unità. In modo particolare si è espressa contro l’intervento il deputato Yleem Poblete, della Sottocommissione per il Medio Oriente e l’Asia, nel Comitato per le Relazioni Internazionali della Camera. Chiaramente palesando la propria collocazione politica ed ideologica, la Poblete ha definito il MEK come una organizzazione “pro-democartica, anti-fondamentalista, anti-terrorismo ed utile agli USA per fornire informazioni circa le attività del regime iraniano”. L’affermazione del deputato Poblete rispecchia in pieno la particolare visione sul MEK all’interno dell’establishment USA, dove i neoconservative chiedono venga modificata la collocazione di “organizzazione del terrorismo internazionale” in funzione di un utilizzo del gruppo in funzione anti-iraniana, mentre i gruppi moderati e non conservatori vedono invece nel MEK ancora una struttura anti-occidentale, manifestamente attiva in ambito terroristico e potenzialmente antagonista rispetto agli interessi stessi degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito da Mohammed Mohaddessen, un esule iraniano a Parigi legato ai Mojjahidin-e Khalq, l’attacco – definito peraltro un atto inspiegabile – sarebbe stato seguito da un’azione delle forze armate iraniane in territorio iracheno che avrebbe provocato la morte di 28 uomini del MEK. Sempre secondo Mohaddessen, centinaia di soldati iraniani sarebbe stata attiva nei primi giorni delle ostilità contro l’Iraq, impegnati in operazione clandestine essenzialmente dirette contro le unità del MEK. Tali affermazioni, difficilmente credibili e fornite senza alcuna prova di supporto, costituiscono in realtà l’aspetto esteriore e palese della provocazione da parte dell’ala politica del MEK, oggi gravemente minacciata dall’evolvere degli avvenimenti e, soprattutto, dalla possibilità di essere in qualche modo consegnata alle autorità iraniane. Ciononostante, subito dopo l’incursione aerea americana, già l’8 maggio i vertici del MEK di Camp Ashraf proposero unilateralmente un cessate il fuoco accettando il contestuale disarmo – eccezion fatta per le armi leggere – ed il trasferimento dell’artiglieria pesante e dei corazzati in strutture sotto il controllo USA presso la località di Buqubah. Il cessate il fuoco e l’accordo di disarmo parziale, peraltro, hanno fortemente irritato i vertici della Repubblica Islamica che, per voce del Ministro degli Esteri Kamal Kharrazi, ha espresso la propria indignazione per l’accaduto definendo la circostanza una violazione del diritto internazionale. Particolarmente veemente anche l’intervento dell’ex presidente della Repubblica Islamica, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, secondo il quale gli Stati Uniti “da un lato dichiarano guerra al terrorismo e dall’altro negoziano accordi con i terroristi del MEK”. Decisamente singolare e senza precedenti, invece, la decisione francese il 17 giugno del 2003 di procedere con una imponente retata di attivisti del MEK – nel caso specifico quelli gravitanti intorno al Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran (NCRI) di stanza a Parigi – arrestando oltre 150 persone tra cui la stessa Maryam Rajavi, consorte di Masoud Rajavi con cui condivide la sfera di comando di gran parte delle organizzazioni facenti capo al MEK. Secondo le autorità francesi l’operazione di polizia è stata organizzata dopo una lunga attività di indagine e nell’imminenza di atti diretti od indiretti di terrorismo da parte di uomini dei Mojjahidin-e Khalq od a questi collegati.

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L’azione della polizia, concentrata nell’area metropolitana di Parigi e nelle due “roccaforti” della Val d’Oise e di Yvelines, ha portato al sequestro pressoché di tutti i documenti e delle strutture dell’organizzazione provocando aspre reazioni da parte dei membri di questa. In particolar modo appare effettivamente singolare che le autorità francesi abbiano proceduto con un’azione di tale natura contro la struttura dell’NCRI. L’organizzazione, infatti, è presente in Francia da oltre vent’anni, è ben conosciuta – e sorvegliata – dalle autorità e non ha mai esercitato platealmente attività tali da provocare l’intervento delle autorità o delle forze di polizia. Le attività terroristiche, o di resistenza secondo il metro del MEK, condotte all’estero sono state poi ben più intense e sanguinose nel corso della seconda metà degli anni Ottanta e nei Novanta, riducendosi enormemente dal 2000 ad oggi. Secondo alcuni esponenti dell’NCRI, la decisione francese arriverebbe all’indomani dell’accordo di cessate il fuoco tra le forze americane e le unità dei Mojjahidin-e Khalq e si inserirebbe nel critico e delicato rapporto tra Francia e USA derivante dalla questione dell’intervento in Iraq. Secondo il MEK, quindi, la retata organizzata in Francia altro non sarebbe se non un’azione di disturbo contro gli Stati Uniti ed una contestuale ulteriore apertura all’Iran, con il quale la Francia avrebbe concertato una “cospirazione”. Dopo meno di due settimane, infine, le autorità francesi hanno iniziato a rilasciare alcuni degli arrestati, ma non Maryam Rajavi, per la liberazione della quale è stato richiesto il pagamento di una cauzione. Di certo il colpo inferto dai francesi all’organizzazione del MEK è stato di grande impatto e significato. Non solo l’organizzazione ha perso la sua componente militare presente in Iraq ma, al tempo stesso, è venuta anche meno la possibilità di poter contare su un luogo sicuro e protetto per lo svolgimento dell’attività politica. La Francia, storico rifugio per una consistente parte degli espatriati iraniani successivamente alla rivoluzione – teatro peraltro di alcuni tra più efferati omicidi di esponenti dell’opposizione al regime della Repubblica Islamica, tra cui l’ultimo Primo Ministro dello Scià, Shapour Bakhtiar – e tradizionalmente abbastanza imparziale nel rapporto tra le varie forze, ha agito in controtendenza favorendo certamente le posizioni iraniane che già in Europa possono contare su un attivo centro di attività clandestine presso la sede diplomatica di Amburgo, in Germania. Un colpo particolarmente duro per il MEK viene sferrato poi ai primi del mese di dicembre del 2003, quando il consiglio di governo ad interim iracheno annuncia di voler espellere tutti gli uomini e le donne del MEK, estradandoli in Iran. Tale decisione, chiaramente un riflesso dell’odio provato dalle comunità sciite e curde nei confronti di Rajavi e del MEK per l’attività al fianco di Saddam Hussein, provoca la dura reazione degli “ospiti” di Camp Ashraf i quali, non a torto, ritengono di poter essere giustiziati in caso di rimpatrio in Iran. Le autorità americane intervengono tuttavia per congelare tale decisione e porre la struttura in una sorta di limbo in attesa di stabilire quale possa essere la soluzione ottimale nella gestione del MEK. L’ennesima evoluzione, invece, avviene nel mese di Gennaio del 2004. Gli Stati Uniti iniziano a ricevere informazioni contrastanti ed allarmanti sul conto di Chalabi, sino a poco tempo prima uomo di spicco nel sistema delle alleanze con gli USA e grande accusatore di Saddam Hussein. Già da diverso tempo sotto esame da parte della CIA a causa della mancata individuazione delle armi di distruzione di massa, Chalabi viene adesso sospettato di aver passato informazioni riservate agli iraniani e, in tal modo, aver messo a repentaglio la sicurezza delle forze americane in Iraq. In modo particolare, Chalabi viene sospettato di aver passato agli iraniani l’informazione segreta riguardante la scoperta dei codici di trasmissione di Tehran da parte dell’intelligence americana, conseguentemente consentendo all’Iran di provvedere ad una nuova codificazione dei propri sistemi.

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L’informazione circa il tradimento di Chalabi, invece, viene attribuita già dai primi mesi del 2004 alla struttura del MEK in Iraq, che in tal modo si sarebbe garantita la protezione da parte delle forze USA e, soprattutto, un congelamento nella decisione di estradizione in Iran. Non solo, il MEK avrebbe anche fornito una lista di nomi di funzionari dell’intelligence iraniano direttamente legati a Chalabi e per lungo tempo esposti alla possibilità di acquisire informazioni riservate. Chi sono Masoud e Maryam Rajavi I coniugi Masoud e Maryam Rajavi sono al vertice dell’organizzazione dei Mojjahidin-e Khalq pressoché ininterrottamente dall’inizio degli anni Ottanta. Il leader dell’organizzazione e del movimento politico è in realtà Maryam Rajavi, nata nel 1953 in una famiglia della media borghesia iraniana ed attivista del MEK sin dai primi anni Settanta, quando era studentessa universitaria a Tehran. Coinvolta ogni attività antimonarchica contro il regime dello Scià, e sospettata di aver preso parte – o comunque fiancheggiato – gruppi del MEK accusati dell’omicidio di cittadini americani in Iran negli anni Settanta, Maryam Rajavi è stata tra i sostenitori della necessità di occupare l’ambasciata USA a Tehran ed alleata di Khomeini nella prima fase post-rivoluzionaria dal 1979 al 1980. Fuggita a Parigi nel 1981 dopo la rottura con le forze clericali, Maryam e Masoud Rajavi iniziano una intensa attività di propaganda ed organizzativa per cercare di ridare forma e consistenza al MEK dopo la rocambolesca fuga dall’Iran. Iniziano ad aprire sedi in ogni capitale europea attivando una serie di attività di propaganda contro il regime della Repubblica Islamica, senza peraltro riscuotere grandi consensi e notorietà. Non riescono, inoltre, a gestire il dialogo e le fratture all’interno della componente politica del gruppo, a sua volta diviso in varie correnti. Riescono, invece, nel 1986, a creare una unità militare in Iraq, grazie al diretto ed aperto sostegno di Saddam Hussein che permette di formare un’unità forte di circa 5.000 uomini più volte impegnata al fronte durante gli ultimi due anni di conflitto con l’Iran. Al vertice della struttura militare si trova Masoud Rajavi, esponente storico e discusso dei Mojjahidin-e Khalq, da più parti descritto come un opportunista, un megalomane ed un mercenario asservito al dittatore di turno capace di offrirgli protezione e mezzi. Masoud Rajavi è riuscito a costituire l’embrione di una struttura militare facendo ricorso in larga parte a figli o parenti di uomini e donne legati al MEK ed uccisi dalla polizia dello Scià o della teocrazia, impostando un singolare ed assurdo culto della persona grazie al quale dirigere e governare il gruppo di individui coinvolto nell’unità militare Nonostante il MEK abbia più volte affermato di aver perso oltre 100.000 uomini nella sua lotta contro l’Iran, si stima che il numero totale dei membri e dei simpatizzanti in tutto il mondo non superi le 15.000 unità, di gran lunga al di sotto di quanto spesso pubblicizzato dall’organizzazione. Una delle particolarità del MEK, e soprattutto del suo corpo militare, è l’elevata presenza di donne nella struttura. A differenza della struttura politica di stanza in Europa, il grado di coesione e, per certi versi di fanatismo, della struttura militare è estremamente elevato e regolato da una particolare formula organizzativa verticistica gestita ed organizzata direttamente dai coniugi Rajavi. La struttura dell’unità militare, peraltro, è fortemente ideologizzata anche nell’addestramento e nel codice di condotta. I membri dell’unità si riferiscono ai loro colleghi come “fratello” o “sorella”, non possono – almeno in linea teorica – avere relazioni sentimentali o sposarsi ed operano nel culto della persona dei coniugi Rajavi, alimentato da costanti training – meglio sarebbe dire indottrinamenti – sulla storia e la vita dei fondatori del MEK. Il modello organizzativo all’interno della struttura militare ricorda per certi versi quello cinese, nord coreano o vietnamita, sebbene con forti influenze islamiche nel codice di comportamento e, soprattutto per le donne, di abbigliamento.

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Un modello verticista e solo apparentemente democratico, quindi, organizzato e strutturato secondo i dettami non già di una precisa ideologia quanto dal volere dei coniugi “leader”. È al tempo stesso corretto affermare che l’odierno MEK, e soprattutto la struttura militare presente in Iraq, nulla ha in comune con la struttura originaria iraniana degli anni pre-rivoluzionari, essendo deceduti gran parte degli ideologi e venuta meno in larga parte la matrice ideologica di stampo marxista. All’interno dell’unità vige oggi al tempo stesso un rigido codice di disciplina dove, secondo numerose testimonianze di fuoriusciti, non è tollerata alcuna forma di dissenso od opinione contraria al particolare modello ideologico coniato e plasmato dei Rajavi. Un modello dove l’indottrinamento e la disciplina tendono preferibilmente ad essere esercitati su giovani, o giovanissimi, plasmandone in modo autoritario e scriteriato il credo in base al già citato culto della persona dei coniugi Rajavi. Maryam Rajavi ha trascorso la gran parte del suo esilio in Francia, con sporadiche visite in Iraq e costanti spostamenti in Europa in funzione delle molte attività di propaganda e raccolta fondi della struttura politica. Con un referendum di discutibile valore, condotto all’interno della sola comunità dei Mojjahidin-e Khalq, Maryam Rajavi si è auto-proclamata Presidente della Repubblica dell’Iran in esilio, spesso proponendosi anche dinanzi ad interlocutori stranieri con tale titolo e generando peraltro imbarazzo nel rapporto con le altre comunità di esuli iraniani nel mondo, dai monarchici ai costituzionalisti. Un particolare poco noto – ma indicativo sulla natura della coppia – è quello relativo al matrimonio dei Rajavi. Mentre Masoud Rajavi continuava la sua ascesa, prima in Iran e poi in Francia all’interno della struttura del MEK, incontra e si invaghisce di Maryam. Questa, già sposata con un altro membro del MEK (Abrishamchi, da cui il primo cognome della moglie) e, peraltro, stretto collaboratore di Masoud, ricambia le attenzioni dell’uomo e ne asseconda i progetti. Masoud, infatti, costruisce artificialmente il ruolo, la posizione e la figura di Maryam, creandole un’agenda politica e sociale ed elevandola a proprio alter ego femminile nell’ambito di un ardito, quanto discutibile, excursus politico-religioso connotato da tratti evidenti di megalomania. Con l’elevazione del ruolo e della figura di Maryam, Masoud riesce ad imporne il divorzio dal marito ed a consacrarla quale secondo leader dell’organizzazione al suo fianco. Nel rispetto dei canoni islamici, tuttavia, dichiara di volerla sposare non potendo uomo e donna lavorare insieme a così stretto contatto se non in costanza di matrimonio. È in virtù dell’operato e del ruolo dei Rajavi che la struttura del MEK si trasforma nel periodo post-rivoluzionario più in direzione di una setta che non di una formazione politica od ideologica. Il livello di fanatismo nella formazione, il rigido codice di condotta morale e l’assenza di qualsiasi forma di dibattito all’interno di un sistema ermeticamente chiuso, rendono infatti il MEK molto simile ad una comunità mistico-religiosa, perdendo quasi completamente di significato l’originario slancio ideologico islamico-marxista che fu la base e la radice del movimento all’epoca della sua costituzione. Poco prima della caduta di Bagdad Masoud Rajavi ha fatto perdere le sue tracce e da allora non esistono notizie certe sulla sua sorte. Alcuni testimoni iracheni affermano di averlo visto salire su un elicottero iracheno in fuga durante le ultime ore del regime, ma questa informazione non è mai stata confermata. I Rajavi, così come più in generale i Mojjahidin-e Khalq, sono largamente odiati e temuti in Iran, ad ogni livello dell’opinione pubblica ed in qualsiasi ambito ideologico e politico.

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Sono ritenuti dei terroristi, dei sanguinari e dei traditori della patria, cui imputare un gran numero di vittime civili non solo in virtù degli attentati compiuti ma soprattutto per il supporto diretto e specifico fornito a Saddam Hussein nel colpire con precisione ed in modo devastante obiettivi civili iraniani. Uno storico iraniano in esilio in Europa, con grande acume, qualche anno fa affermò che se ai Rajavi fosse data la possibilità di governare, “diventerebbero i Pol Pot dell’Iran”. La situazione attuale a Camp Ashraf Dei circa 3800/4000 membri del MEK presenti oggi nell’accampamento Ashraf, circa 1000 uomini sarebbe alloggiata separatamente, non avrebbe accesso ad alcun tipo di armamento e non verrebbe impiegata in alcuna attività. Si tratterebbe di un gruppo – ma il numero è assai difficile da stabilire con precisione – intenzionato ad aderire alla proposta di rimpatrio ed amnistia promossa dalle autorità iraniane per tutti i membri del MEK che deporranno le armi e torneranno in patria con l’impegno di abbandonare definitivamente la lotta alle istituzioni della Repubblica Islamica. Tale proposta, largamente pubblicizzata dai media iraniani, è stata duramente attaccata dai vertici del MEK in Iraq ed all’estero, secondo i quali coloro che torneranno in patria potranno essere giustiziati o torturati. La minaccia maggiore che in questo momento incombe sul MEK, tuttavia, è data dall’incertezza circa il futuro di tutti i componenti delle unità residenti in Iraq, esposti al rischio di essere rimpatriati forzatamente in Iran dalle nuove autorità irachene con il beneplacito delle forze USA. Ai primi di luglio, infatti, alcuni esponenti del nuovo Governo iracheno (tra cui Abdul Aziz Hakim delo Sciri) avrebbero formalmente assicurato all’Iran di voler espellere le unità del MEK a seguito di una nuova riclassificazione della loro posizione, da prigionieri di guerra a rifugiati. Tale status, infatti, permetterebbe di accelerare enormemente le operazioni di sgombero e rimpatrio forzato, sebbene non appare chiaro se, e quanto, gli iracheni abbiano considerato la possibilità di una forte opposizione internazionale se non addirittura di una resistenza da parte delle unità stesse. Nonostante le affermazioni irachene, peraltro, la responsabilità sulle unità del MEK è interamente –anche se non ufficialmente – affidata agli Stati Uniti, avendo questi gestito le fasi della resa e determinato la particolare condizione del loro attuale status. Gli Stati Uniti, peraltro, collocano l’intera struttura del MEK tra le “organizzazioni terroriste straniere”, in base ad un’articolata e complessa valutazione del gruppo ancor oggi fortemente condizionata dall’operato in epoca pre-rivoluzionaria in Iran. L’Iran, al tempo stesso, è invece fortemente interessato all’estradizione almeno dei leader storici, per sottoporli a processo e, con ogni probabilità, per condannarli alla pena capitale in base alle numerosissime imputazioni per attentato e strage pendenti sul gruppo. Sabbah Zanganeh, inoltre, del Dipartimento per le Relazioni Giudiziarie Internazionali della Repubblica Islamica dell’Iran, ha confermato di essere impegnato in questo momento nella stesura di un documento che il governo iraniano intende sottoporre entro breve tempo alle nuove autorità irachene per richiedere l’inserimento, nel processo contro Saddam Hussein, di un capo di imputazione specificamente collegato al sostegno da questi fornito al MEK. Tale azione, in linea con la tradizionale retorica iraniana, rischia tuttavia di rendere più difficile – piuttosto che facilitare – l’estradizione del gruppo, e con ogni probabilità un’insistenza su questa linea alimenterà l’interesse della comunità internazionale certamente spingendo i gruppi per la difesa dei diritti umani a manifestare per la tutela e l’incolumità del gruppo.

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Gli uomini del MEK nel frattempo, dalla fine ufficiale delle ostilità ad oggi, sono stati concentrati, dai tre campi originari di stazionamento, all’unica struttura di Ashraf, a circa 100 Km a nord di Bagdad. Le forze americane, dopo i primi concitati momenti e la successiva resa delle unità del MEK, hanno riconosciuto a questi ultimi la possibilità –tuttora vigente – di mantenere attiva la propria struttura organizzativa ed organica, con ciò evidentemente e platealmente evidenziando una profonda differenza con i detenuti delle strutture carcerarie provvisorie locali o con quella di Guantanamo. La particolare posizione del MEK oggi, è dovuta in larga parte ad una altrettanto singolare e complessa valutazione circa il loro potenziale in seno all’amministrazione degli Stati Uniti. Da un lato, infatti, esponenti dell’area dei neoconservatori ritengono di poter utilizzare questi gruppi come unità potenzialmente impiegabili in funzione anti-iraniana, mentre dall’altra, più semplicemente, si è sempre ritenuto possibile adoperarli come moneta di scambio per forzare gli iraniani a consegnare alcuni dei presunti membri di Al Qaeda ancor oggi detenuti – od ospitati – nella Repubblica Islamica. L’unica certezza al momento è quindi quella di un diretto ed assoluto controllo di tali gruppi da parte delle forze americane. Controllo peraltro garantito da uno status particolare che tutela la libertà, ma anche l’onore e l’immagine del gruppo, garantendo autonomia gestionale, organizzativa e probabilmente anche militare. Secondo quanto riferito alla stampa iraniana da un giovane (Kamand Ali Azizi) recentemente fuggito dal campo di Ashraft e riparato in Iran, infatti, la sorveglianza e la sicurezza all’interno del campo sarebbe assicurata da uomini del MEK dotati di armi leggere. Mentre la sicurezza del perimetro esterno verrebbe assicurata da uomini delle forze armate statunitensi che, sempre secondo quanto riferito da Azizi, non proverrebbero dalle unità regolari ma dalle forze speciali. Quale futuro per il MEK Il futuro del MEK è in questo momento strettamente legato alle decisioni che potranno essere prese in seno all’establishment della sicurezza e dell’intelligence statunitense. I neoconservative insistono sul fatto che il MEK debba essere protetto ed, anzi, utilizzato in funzione anti-iraniana grazie alla loro capacità militare e di intelligence. Oltre 150 deputati e senatori è attualmente impegnata in una intensa attività di lobbying affinché questa scelta sia appoggiata ed approvata dal presidente Bush, onde impedire quindi che le nuove autorità irachene possano decidere indipendentemente di espatriare i membri del MEK in Iran. I neoconservative insistono inoltre sulla necessità di rivedere la classificazione attribuita dal Dipartimento di Stato al MEK (e cioè “organizzazione terroristica straniera”) onde poterli progressivamente reinserire nel novero delle organizzazioni vicine agli interessi degli Stati Uniti e della sua sicurezza. Al tempo stesso un gran numero di “pragmatici” e democratici insiste invece sulla necessità di essere cauti con i Mojjahidin-e Khalq ed, anzi, sottolinea la possibilità di utilizzarli come moneta di scambio con gli iraniani in cambio della consegna dei membri di Al Qaeda in stato di arresto (o di fermo) in Iran. Numerosi membri della CIA, infine, invitano alla cautela nella gestione delle informazioni fornite dal MEK in quanto, come già accaduto in passato, sono spesso frutto di un accurato calcolo politico destinato al solo vantaggio dell’organizzazione stessa. Da più fonti, inoltre, iniziano a trapelare indicazioni circa la possibilità che anche la gran parte delle informazioni relative al progetto nucleare iraniano siano in realtà state fornite dal MEK. Questo, peraltro, spiegherebbe l’attuale condizione di limbo dell’organizzazione e la cauta gestione della faccenda da parte degli Stati Uniti, certamente oggi impegnati nel verificare l’affidabilità e l’attualità delle informazioni fornite.

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La realtà dei fatti è tuttavia ben più complessa. Certamente la necessità di contrastare i programmi e le attività di supporto al terrorismo di Tehran costituisce, e deve costituire, una priorità per gli Stati Uniti. Con altrettanta certezza è necessario gestire e garantire quelle che possono costituire delle preziose fonti di informazione sui programmi nucleari e sulle attività iraniane in ogni ambito militare, tenendo tuttavia presente che il MEK non è il solo in grado di fornirle e che, soprattutto, non può godere di fiducia e credibilità assoluta. È necessario al tempo stesso, però, che gli Stati Uniti non assumano una posizione netta e definita sul MEK per non precludere ulteriori strade nella gestione del rapporto con l’Iran e, soprattutto, nella lotta al terrorismo. Il MEK non è, e non potrà mai essere, presentato come un’alternativa democratica al regime teocratico della Repubblica Islamica dell’Iran. Insistere su questa linea non solo esacerberebbe i rapporti con l’establishment iraniano ma, ben più grave, alienerebbe la simpatia della gran parte dei cittadini iraniani di qualsiasi credo ed opinione politica. La linea assunta dai neoconservative è quindi molto pericolosa e potenzialmente foriera di conseguenze estremamente negative. Gli americani potrebbero invece optare per una soluzione “pragmatica di basso profilo” ma di alto potenziale, con un buon margine di certezza di ottenere un considerevole successo. Potrebbero, in sintesi, consegnare ufficialmente alcuni esponenti della cerchia medio alta della gerarchia del MEK agli iraniani, in cambio dei membri di altro profilo di Al Qaeda presenti in Iran, trattenendo in “libertà vigilata” gli altri uomini chiave in paesi della regione “accessibili e controllabili” unitamente al grosso della struttura e dei gradi medio bassi. Questi potrebbero diventare col tempo una ulteriore moneta di scambio per la gestione della sicurezza in Libano – in modo particolare nei confronti di Hizbollah – nonché favorire la ripresa di una forma embrionale di dialogo tra Tehran e Washington. Il risultato, come evidente, sarebbe quello di favorire la distruzione del MEK. Lo stesso, con ogni probabilità, esporrebbe a rischio di morte numerosi membri dell’Organizzazione qualora consegnati alle autorità iraniane. Al contrario, invece, è difficile poter individuare una reale alternativa e funzione per il MEK sia nello scacchiere del Golfo Persico che in Europa, se non quella di effettuare l’espatrio e la sicurezza degli aderenti in direzione degli Stati Uniti e dei paesi europei disponibili ad accettarli. Cosa potrà accadere al MEK, quindi, è ancora estremamente difficile da stabilire. La certezza, tuttavia, in questo momento è quella di una difficilissima posizione per l’organizzazione sia in Iraq che in Europa e negli USA, dove ancora anche le organizzazioni politiche del gruppo sono classificate come strutture terroristiche. Un risultato senza dubbio alcuno dell’ambigua e sempre poco trasparente politica del gruppo e, soprattutto, del suo spregiudicato vertice politico ed organizzativo.

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La struttura gerarchica del clero in Iran L’odierna concezione della struttura religiosa sciita in Iran è la diretta discendente di quella delineata in epoca Safavide, tra il XVI ed il XVII secolo. La città santa di Najaf, in Iraq, che per lungo tempo ha rappresentato il più importante centro teologico dell’Islam sciita, ha visto gradualmente perdere la sua rilevanza, soprattutto dopo la rivoluzione del 1978/79, con lo spostamento a Qom in Iran delle più importanti e prestigiose scuole coraniche e centri di studi teologici. Seminari e centri di formazione religiosa di una certa importanza sono presenti anche a Mashad, un’altra città santa dell’Iran, e ad Isfahan, sebbene il ruolo ed il prestigio di Qom rimanga unico ed indiscutibile. A Qom hanno studiato, o sono residenti, i più stimati ed autorevoli religiosi. Ed a Qom hanno sede le più prestigiose e riconosciute scuole per la formazione dei giovani religiosi. Il prestigio e l’importanza degli esponenti del clero sciita è dato in larga parte dal tipo di formazione cui hanno potuto accedere, ed in questo modo l’importanza dei seminari e delle scuole di perfezionamento teologico assume un ruolo fondamentale. In molte famiglie con spiccata tradizione religiosa, o comunque di rigorosa osservanza, viene scelto di avviare i propri figli ancora giovanissimi ad una sorta di noviziato che, solitamente, inizia nei complessi teologici regionali o provinciali (howzeh elmieh, letteralmente la “sfera della scienza”). Qui i giovani studenti partecipano ad un ciclo iniziale di apprendimento basato sullo studio delle sacre scritture, sull’interpretazione e sulla partecipazione a lezioni comuni tenute da teologi esperti. Terminato il primo ciclo di studio i giovani vengono avviati ad una fase di specializzazione intermedia essenzialmente basata sul rapporto diretto tra lo studente ed il suo maestro (modarres). Maggiore il prestigio del maestro, maggiore di conseguenza il prestigio ed il potenziale dell’allievo. Terminati i primi due cicli di formazione religiosa, gli studenti ottengono il titolo di Saqatulislam, primo livello gerarchico nella struttura religiosa del clero sciita. Successivamente a tale percorso di formazione, gli studenti possono scegliere tra diverse formule di perfezionamento, solitamente spostandosi nella città di Qom per poter essere inseriti quali studenti dei più famosi ed autorevoli religiosi (marja’ taqlid). La formazione avanzata e la progressione accademica non sono organizzate secondo i canoni di studio occidentali. Non esistono programmi organizzati o strutturati, così come non è possibile individuare un elemento temporale certo per la conclusione di un periodo di perfezionamento. Si instaura pertanto un particolare ed unico rapporto tra studente e maestro, dove al primo spetta solitamente la scelta del secondo e dove l’allievo matura progressivamente la propria autonoma capacità di valutare quale grado di preparazione sia stato raggiunto in accordo con il parere del maestro. Il rapporto tra studente e maestro cresce progressivamente attraverso la richiesta di quest’ultimo di un sempre maggiore scambio interpretativo, per affrontare il quale lo studente deve studiare un gran numero di testi scritti da eminenti teologi, giuristi islamici ed esperti. Successivamente alla rivoluzione ed alla nascita della Repubblica Islamica è stata promulgata una riforma del sistema di formazione delle scuole teologiche, razionalizzando le risorse e creando un sistema atto ad armonizzare le discipline di insegnamento in funzione delle nuove necessità di ordine politico, sociale ed economico. Gli studi vertono oggi quindi massicciamente anche su materie quali la gestione e la programmazione economica, la scienza politica, la cultura e le scienze sociali, e quant’altro un tempo escluso dai programmi di formazione. Materie che, all’indomani della rivoluzione e con la necessità di riorganizzare la struttura politica ed amministrativa dello Stato, erano scarsamente padroneggiate dall’establishment religioso al potere. Nella progressione gerarchica del sistema religioso, dunque, dopo il conseguimento del titolo di Saqatulislam e con il progredire della formazione superiore, gli studenti divenuti canonisti islamici ottengono la qualifica di Hojjatoleslam.

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L’ulteriore perfezionamento, il contestuale insegnamento e la pratica nelle funzioni religiose, porta successivamente al conseguimento del titolo di Ayatollah, ovvero un religioso di alto rango riconosciuto per la sua preparazione e la sua competenza in numerose discipline ed ambiti degli studi teologici. La qualifica di Ayatollah, sebbene non esista un parametro temporale per il conseguimento del titolo, si ottiene solitamente dopo numerosi anni di studio e perfezionamento ed a questa, in limitati casi, può seguire quella di Ayatollah ul-Ozma, o Grande Ayatollah, riservata alle autorità teologiche di indiscussa fama. Un Ayatollah ul-Ozma deve vantare oltre ad un curriculum prestigioso, pubblicazioni ed esperienza didattica, la produzione di trattati basati sulla propria pratica (ressaleh amalieh). Un elemento di autorevolezza connesso a canoni del passato che tuttavia non è mai venuto meno, è quello del numero di discepoli e, più in generale, del credito presso l’opinione pubblica. Religiosi del medesimo grado, quindi, non sempre possono essere considerati sullo stesso piano in termini politici, sociali o di altra natura. Dal 1961, invece, è vacante la carica di Marja-e Taqlid-e Motlaq, ovvero “assoluta fonte di ispirazione”, la massima carica religiosa possibile e connotata da un potere ed una funzione mistica di enormi proporzioni. Nell’Iran odierno si stima siano presenti circa 180.000 Sagatulislam, 28.000 Hojjatoleslam, 5.000 Ayatollah e 20 Ayatollah ul-Ozma. È interessante notare come la gran parte di questi non sia attivamente coinvolta nel sistema politico ed istituzionale del paese e come, in modo ancor più sorprendete, quasi tutti gli Ayatollah ul-Ozma siano fortemente contrari ai principi del velayat-e faqih e, conseguentemente, del ruolo della Guida.

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BONYADS – LE FONDAZIONI ISLAMICHE Il sistema delle fondazioni, nell’odierno Iran, costituisce uno dei maggiori perni del potere politico, religioso ed economico dell’intera struttura nazionale. Già largamente presenti, in termini concettuali e culturali, nel periodo pre-rivoluzionario (soprattutto con la Fondazione Pahlavi gestita dalla famiglia reale), successivamente al 1979 le fondazioni islamiche assurgono ad una funzione centrale nel complesso sistema assistenziale ed economico su scala locale grazie ad un poderoso programma di acquisizioni ed espropriazioni. Esistono tre tipi di fondazioni in Iran: private, pubbliche e filantropico-religiose. Le bonyads rappresentano delle vere e proprie strutture para-statali direttamente connesse con il sistema istituzionale e, soprattutto, religioso. Quasi tutte sono in linea di principio costituite come società di assistenza e supporto non a scopo di lucro, in funzione delle classi meno abbienti della società e per garantire servizi essenziali alla popolazione, sebbene esistano grandi differenze nel sistema complessivo delle fondazioni. Alcune sono effettivamente espressione di finalità filantropiche, sociali o culturali, come ad esempio la Farabi Foundation, mentre la gran parte di queste, come la Imam’s Relief Committee, Martyr’s Foundation, Housing Foundation, Foundation for the Oppressed and The War Wounded, rappresentano strumenti e potentati economici rilevanti per diversi centri del sistema istituzionale ufficiale e quello del potere parallelo. Le fondazioni rispondono direttamente, in virtù del loro elevato valore sociale, all’ufficio della Guida e non conoscono virtualmente limiti nell’esercizio delle attività svolte, controllate od esercitate. Non sono soggette ad a verifica da parte del Majlis – sebbene questo possa in teoria esercitare la funzione di indagine in caso di illecito – e possono accedere ai fondi riservati stanziati dall’ufficio della Guida in misura discrezionale ed anche in valuta pregiata. Sono esenti dal sistema di riscossione fiscale, ed il potere esecutivo ha uno scarso – se non nullo – controllo sull’operato delle stesse. Il margine di autonomia delle fondazioni permette quindi di espandere l’ambito delle attività non solo ad ogni settore dell’economia (quali ad esempio la gestione dei grandi alberghi, delle imprese di costruzioni o cementifere, o delle industrie per la produzione delle bevande), ma anche a contesti esterni al territorio nazionale. Le bonyads sono in larga parte dirette ed amministrate da influenti religiosi connessi al sistema di potere della “prima cerchia”, i quali godono di un potere e di uno status non secondo a nessuno nel contesto economico, sociale e politico dell’Iran. Secondo alcuni analisti occidentali il potere delle bonyads si estenderebbe, anche se non in modo visibile e diretto, anche alla stessa industria petrolifera, gestendo enormi profitti derivanti dalla produzione e dalla commercializzazione del greggio. È curioso segnalare come le bonyads, nonostante il loro enorme potere economico e sociale (alcune sono attivamente coinvolte nelle politiche repressive anti-islamiche), non abbiano pressoché alcuna capacità di esercitare un controllo od un potere di indirizzo in tema di politica internazionale. Questa funzione ed il relativo potere, infatti, non è mai stata concessa sin dal 1979, configurando le fondazioni come uno strumento squisitamente economico ed interno all’Iran. Ciononostante, seppur in funzione di interessi commerciali e repressivi dell’opposizione, alcune bonyads hanno interessi ed uffici di rappresentanza all’estero, come nel caso del Libano, della Germania e degli stessi Stati Uniti. Nel corso degli ultimi cinque anni, a seguito anche di ben noti e provati episodi corruzione e della denuncia da parte di numerosi membri dello stesso Parlamento, la Guida ha dovuto pubblicamente

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prendere provvedimenti in alcuni dei casi più gravi, comminando in un caso anche la pena capitale per un amministratore. Ciononostante il potere ed il margine d’azione delle fondazioni non è stato in alcun modo intaccato, continuando queste ad operare nella più assoluta autonomia. Larga parte della popolazione considera le bonyads come uno strumento della corruzione e dell’ingiustizia da parte del potere teocratico, e sempre più scarse sono le donazioni personali fatte attraverso i milioni di raccoglitori d’offerte posizionati ad ogni angolo di strada dell’Iran.

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