LA POLEMICA di Chellah in Marocco; Touba Islam · opo Inchiesta su Gesù arriva in libreria...

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AGORÀ IDEE AGORÀ IDEE 5 DOMENICA 31 AGOSTO 2008 DOMENICA 31 AGOSTO 2008 4 opo Inchiesta su Gesù arriva in libreria Inchiesta sul Cristianesimo (Mondadori, pp. 276, euro 18,50), il secondo libro che il giornalista Corrado Augias dedica all’aurora del cristianesimo, dal I al IV secolo, il fèrvido arco di secoli durante il quale la nuova religione elaborò la propria teologia, il linguaggio, l’organizzazione e l’assetto istituzionale. Il modello è sempre quello dell’intervista a un autorevole studioso, il taglio è divulgativo e volutamente spoglio di apparati critici e note bibliografiche. Nella stentorea introduzione intitolata «Che cosa Gesù non ha detto», la posizione di Augias – che si professa non credente – è ribadita chiara come un cristallo di rocca: l’autore ci presenta Gesù come un predicatore antisistema alla Jesus Christ Superstar ed espone una visione su Chiesa e papato non lontana da quella di Giuseppe Garibaldi. Vi si legge che il cristianesimo è un indebito fraintendimento del giudaismo prodotto da personalità estrose come Paolo di Tarso; che Gesù non aveva nessuna intenzione di fondare una religione, che la resurrezione è un mito, e via toccando i classici punti degli intellettuali illuminé. Anche nei cappelli introduttivi ai singoli capitoli la verve anticristiana di Augias, incline a considerare la storia cristiana come un fatto essenzialmente politico, riprende fiato non temendo di riproporre immagini teologicamente errate come quella di Maria «collocata al vertice della divinità» o dei santi che formerebbero un «pantheon» assimilabile ai semidei pagani, e insiste nel paragone – francamente incomprensibile – fra i terroristi suicidi e i martiri confessori. Con queste premesse si poteva temere una replica della prima Inchiesta meritatamente criticata come un cedimento allo stile à la Elaine Pagels. Ma non è proprio così, anche perché il professor Remo Cacitti, docente di Letteratura cristiana antica e di Storia del cristianesimo antico presso l’Università degli Studi di Milano, che firma a quattro mani con Augias, riesce a replicare ai molti luoghi comuni che Augias gli porge per correggerli, rimodularli e contestarli, spiegando con semplicità dove lo spazio lo consente oppure aprendo al complesso gioco di «scatole cinesi» della storia religiosa. Da storico, formatosi in particolare alla scuola tedesca, egli difende l’autonomia della storia scientificamente fondata rispetto alla lettura credente dell’esegesi canonica, e ciò consente ad Augias di ottenere sponda alle sue incalzanti domande. Sempre da storico, Cacitti ammette che la tomba vuota di Gesù e la predicazione che ne risulta resta un mistero («Il Cristo non è morto, è presente… Da qui a ipotizzare qualsiasi altro fenomeno c’è un passaggio che, storicamente, non è possibile ricostruire»). Perché, se non può esistere problema che sia comprensibile al di fuori della situazione storica, è anche vero che nessun problema è riconducibile totalmente ad essa. E dunque, se la comunità dei discepoli condivise una fede messianica, ciò che accadde attorno alla tomba vuota (e prima, nell’intero operato di Gesù) non si fa cogliere dalle categorie della storia scientifica; la potente dinamica che s’innescò dall’evento della resurrezione quale compimento delle profezie, creduto in modo incontestabile e inesplicabile secondo le normali categorie umane (e storiche), implicano una rottura della norma, anche per le modalità originalissime con cui si sviluppò. Il dialogo fra i due finisce per smussare le semplificazioni tanto spesso diffuse sulla figura di Gesù, il cristianesimo e la sua origine, la formazione del canone, le prime comunità. Cacitti formula le sue risposte estraendo dalla memoria letture di prima mano. Cito, ad esempio, la rievocazione del luogo in cui avvenne il Concilio di Nicea: una sala adorna di mosaici d’oro, con una fila di triclini al centro, che fece pensare ad uno dei padri conciliari, il semicieco Pafnuzio, di essere arrivato in paradiso. O i vivaci ritratti di personalità come san Paolo, sant’Ambrogio e Origene. Le risposte inoltre rivelano gli strati nascosti di questioni apparentemente semplici, aprendo alle prospettive multiple che sono una fase obbligata della ricerca della verità. Perché ciò che non è storicamente dimostrabile non sempre è «storicamente non accaduto». Lo studioso, inoltre, deplora le semplificazioni tendenziose riguardo alla formazione del canone: «Attenzione a non interpretare come correzioni o, peggio, manipolazioni quelle che in realtà rappresentano le differenti inquadrature teologiche entro cui i diversi libri del Nuovo Testamento presentano Gesù». Le divergenze fra i libri del canone «non sono facili da comunicare a un più vasto pubblico, uso a lasciarsi incantare da favole strabilianti di manoscritti celati, testi epurati, congiure del silenzio, esoterismi». Che l’Inchiesta, poi, intenda contribuire a fare argine alla grande operazione messa in atto da Benedetto XVI con la pubblicazione di un’opera di cui è apparsa la prima sezione (Gesù di Nazareth) è evidente sia nelle parole di Cacitti che in quelle di Augias. Rivendicando il suo ruolo di storico, e non di teologo, lo studioso ripropone, nei principi, e pur con cautele, la divaricazione fra il Gesù della storia e il Cristo della fede, proprio la divaricazione che il Papa ha inteso colmare. Lo studioso, del resto, giudica quella del Papa una «restaurazione» che minaccerebbe l’autonomia della ricerca storica, invadendola di teologia. Qui si tocca un nodo dolente. Eppure, il Papa sostiene che «il metodo storico – proprio per l’intrinseca natura della teologia e della fede – è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico». Critica storica e ortodossia teologica devono riverberare la stessa umiltà considerando che l’oggetto dello studio – Gesù, il cristianesimo come sviluppo nel tempo della Pasqua di Gesù – non sono argomenti che si fanno esaurire dalla "scienza". A tale proposito, nel commentare la prima Inchiesta di Augias, su questo giornale, padre Raniero Cantalamessa invitava ad «abbandonare l’illusione che, nello scrivere su Gesù, i credenti abbiano una precomprensione e i non credenti siano invece esenti da ogni pregiudizio». Agli occhi dei "laici" tale precomprensione condizionerebbe il giudizio, ottundendo le facoltà di discriminazione e l’accesso pieno del credente agli strumenti della ricerca storica. Cantalamessa aggiungeva che staccando Gesù dagli effetti che ha prodotto – Chiesa e comunità credente – si viola il principio ermeneutico della storia degli effetti, dal momento che «attraverso la Chiesa… Gesù ha cambiato il mondo. Senza quello "sbaglio chiamato cristianesimo", come lo definisce qualcuno, non saremmo qui a parlare di lui», e Gesù sarebbe rimasto un oscuro rabbi di Galilea. A libro chiuso, resta l’impressione che le origini cristiane siano una polifonia che comprende non «tanti cristianesimi» in lotta scomposta – come insinua a più riprese il giornalista Augias –, ma un’unità nascosta in fuga verso l’unità provvidenziale della Chiesa, comunità di fede che precede, in ogni senso, gli stessi Vangeli. Forse non era questa l’intenzione di Corrado Augias, e non tutti saranno d’accordo ma – si perdoni la battuta – il diavolo fa bene le pentole, non i coperchi. D In Iraq Kerbala e Najaf, capitali degli sciiti; il piccolo santuario di Chellah in Marocco; Touba in Senegal, centro del muridismo... A Shiraz le moschee hanno cupole rivestite all’interno da specchi; si esce senza voltarsi dicendo, in persiano: «Re della luce!» imam che si fanno interpreti del Corano. Kerbala è il luogo santo per eccellenza dello sciismo, luogo che ogni anno è meta di un lungo pellegrinaggio, e riferimento costante dei riti che si celebrano in tutto il mondo sciita, da Beirut a Isfahan, riti in cui la comunità tende a una specie di trasfigurazione rivivendo quell’esperienza. Esperienza che rappresentò una «fitna» ma che contribuì a definire una nuova dimensione dell’islam, quella dimensione della sacralità dello spazio e della terra, talmente intensa che ogni musulmano sciita quando prega appoggia la fronte su una piastra d’argilla rossa che proviene dalla pianura di Kerbala, dove si compì il dramma della passione di Hussein: quel dramma viene rappresentato nel teatro sacro chiamato «tayzé». E come non ricordare la sacralità dello spazio dell’islam sciita nelle città di Isfahan, di Qom o di Shiraz, dove in ogni moschea che ricorda un imam la volta interna viene completamente ricoperta da piccoli specchi che riflettono la luce dorata e dove nel silenzio sacrale di quei luoghi i fedeli, nel prendere congedo dal santo, escono senza voltargli le spalle e recitando a voce alta, in persiano, «Re della luce!». Questa sacralità si ripete in molti altri itinerari, talvolta famosi, altre volte noti a pochi. A me piace ricordare una piccola città santa vicino a Rabat, in Marocco: Chellah, luogo molto intimo, come ripiegato sul mondo, luogo silenzioso ma importante perché la leggenda narra che il pellegrinaggio a Chellah equivale al pellegrinaggio alla Mecca. E non potrei non citare la mia città natale con la sua moschea: Tlemcen, patria di Sidi Boumediene, uno dei più grandi santi e mistici algerini, che stranamente ci conduce Gerusalemme. A Gerusalemme c’è una cosa che pochi conoscono: non lontano dalla cupola d’oro della moschea di Omar, esistono un muro e una porta che portano il nome di Sidi Boumediene, che all’epoca dell’intitolazione era considerato il santo dei santi. Guardando a est della porta, lo sguardo si estende fino alla moschea ottagonale che custodisce probabilmente il luogo del viaggio dei viaggi per i musulmani, il viaggio chiamato "viaggio celeste" – «mi’raj» – del profeta da Medina a Gerusalemme, considerata la terza città santa dell’islam. Ma esistono molti altri luoghi della sacralità dell’islam, nel sud-est asiatico come nei Balcani, in Turchia, da Istanbul a Konya, nel Maghreb, nell’Africa subsahariana, in Asia centrale; attraverso lo sviluppo e l’estensione delle confraternite mistiche («turuq») molti luoghi sono divenuti città sante, come Touba in Senegal, capitale del muridismo. Un po’ ovunque nel Dar-al-islam, dal Cairo ai confini dell’Afghanistan, l’esperienza del sacro si è espressa in luoghi in cui uomini e santi hanno segnato il loro rapporto con l’eternità. È arduo tracciare una geografia del sacro musulmano, perché essa risulta estesa dai confini del Sahara fino al Mar di Cina, passando per i molti Paesi in cui il credo di Maometto s’è espresso in mille forme, a volte attraverso fratture, battaglie, eventi trasformati in ricordo collettivo e che assumono valore religioso in quanto commemorano un’età inaugurale credenti. È difficile tracciare una geografia della sacralità nell’islam, perché essa è estesa quanto l’islam stesso, dai confini del Sahara fino alle rive del Mar della Cina, passando attraverso innumerevoli Paesi, in cui l’islam si è espresso in mille forme, talvolta attraverso conflitti e fratture («fitna»), eventi storici che si sono trasformati in memoria collettiva, e che assumono un valore sacrale in quanto anch’essi commemorano un momento, un’età inaugurale. Come non ricordare per gli sciiti – grande famiglia dell’islam accanto a quella dei sunniti – il luogo santo che si trova in Irak, Paese che lentamente sembra uscire dal martirio: la pianura di Kerbala, dove in una battaglia sanguinosa morì Hussein, figlio di Alì, cugino del profeta; e, ancora in Irak, non lontano da Kerbala, la città santa di Najaf, che custodisce gran parte della spiritualità sciita, della sua filosofia, delle sue dottrine, e dove per secoli si sono formate generazioni di «mujtahid», gli Il giornalista ripropone la consueta visione su Gesù e sulla Chiesa, però lo storico Cacitti riesce a replicare ai molti luoghi comuni, smussando le semplificazioni e chiarendo come non sempre è «storicamente non accaduto» ciò che non è storicamente dimostrabile. Una nota dolente sul libro del Papa di Mario Iannaccone Augias ci riprova, ma stavolta l’«Inchiesta» gli scoppia in mano LA POLEMICA Il luogo per eccellenza della sacralità, il percorso quasi obbligato perché sigillato nei pilastri del Corano è il pellegrinaggio alla Mecca, che porta a una sorta di trasfigurazione. Nell’istante in cui compie un rito a Medina, il fedele rivive la memoria dei luoghi e un’altra dimensione investe il suo corpo per trasformarlo in una specie di santo: egli accede a un nuovo status, diventa "hajj" di Khaled Fouad Allam l viaggio, il pellegrinaggio nei luoghi e negli spazi sacri accomuna molte religioni, definendo in modo diretto o indiretto la fragilità intrinseca all’essere umano, lo smarrimento di fronte all’eternità e il timore della perdita, dell’oblio. È ciò che avviene nei momenti difficili dell’umanità; ma anche nell’esperienza individuale quando, interrogandosi su se stesso, ogni uomo si misura con la paura della perdita. È allora che si avverte la necessità del viaggio: non come attraversamento della geografia fisica del mondo, non come ricerca della bellezza del divino; ma come misura di sé, quel sé che sente il bisogno dell’ascolto. Anche se abbiamo bisogno della bellezza per entrare in quei luoghi, luoghi in cui storia ed eternità si coniugano, riducendo la minaccia dell’oblio a una parentesi della nostra dimensione individuale e collettiva. Ma esistono mille forme di itinerario che ci permettono di staccarci dall’oblio, dall’erranza dell’anima, e che possono cambiare radicalmente la nostra esistenza; anche se quel viaggio non si misura con lo spazio, esso ci porta dove l’eternità si è fatta parola, dove si è rivelata sotto una delle sue infinite forme. Quel viaggio i musulmani lo compiono una volta all’anno, nel ventisettesimo giorno del mese sacro di ramadan; in quella notte – che nella novantasettesima sura del Corano è chiamata «laylat al-qadr» (la notte del destino), notte che vale mille notti, secondo la narrazione dell’islam – si commemora la discesa del Libro, il Corano. È la notte più intensa di quel mese, perché in essa il fedele chiudendo gli occhi nell’angolo di qualunque moschea o luogo sacro, si appresta a compiere quel viaggio, a trasmigrare attraverso la sonorità delle parole del Corano, scardinando spazio e tempo, al momento inaugurale, verso quella luce che si è aperta per i musulmani; perciò essa è chiamata la notte del destino, la notte che vale mille notti, quella che non è misurabile, non è perimetrabile in un tempo né in uno spazio definito. Si tratta del viaggio in un non-luogo, perché è il luogo dei luoghi che abbraccia l’intero mondo esistente, come quella notte che estese la sua eternità per la nuova religione, non lontano dalla Mecca, nella grotta di Hira. Questa dimensione spaziale e meta-temporale ha avuto una traduzione nell’arte islamica, nonostante le riserve aniconiche della dottrina giuridica I dell’islam. Sono numerose le miniature musulmane, di matrice ottomana o persiana, che rappresentano l’angelo Gabriele che dona su un vassoio la città santa di Medina al profeta Mohammed. La dimensione spaziale nell’islam tende a risolvere la tensione, insita nell’uomo, fra storia ed eternità. Ma esiste il luogo per eccellenza della sacralità, il percorso quasi obbligato perché sigillato nei pilastri dell’islam: il pellegrinaggio alla Mecca, e dunque anche a Medina. Pellegrinaggio che è sì obbligatorio, ma suscettibile di deroga, perché non tutti – per malattia, difficoltà economiche e molti altri motivi – possono compierlo. Perciò il diritto musulmano concede che un pellegrino possa compiere il pellegrinaggio alla Mecca per un’altra persona. Nell’islam, la Mecca con Medina è il luogo della rivelazione e della formazione della fede, il luogo del compimento della profezia di Mohammed; perciò il pellegrinaggio porta a una sorta di trasfigurazione del fedele che nell’istante in cui compie un rito a Mecca o a Medina rivive la storia e la memoria dei luoghi. La dimensione della sacralità investe totalmente il suo corpo e la sua mente per trasformarlo in una specie di santo: una volta compiuto il pellegrinaggio egli accede a un nuovo status, diventa «hajj». Per la Umma, la comunità dei credenti dell’islam, il pellegrinaggio realizza la tensione fra logica dell’eternità e logica della storia. Giungendo alla Mecca il fedele si toglie tutte le vesti per indossare il lenzuolo bianco (il sudario) come tutti gli altri: quest’atto sembra voler restituire all’uomo l’identità primordiale, la sua fondamentale uguaglianza con gli altri uomini, con i fedeli dell’islam, ma sembra anche riportare l’uomo a se stesso. Il pellegrinaggio alla Mecca e a Medina prevede una complessa serie di riti, di cui molti studiosi hanno descritto le caratteristiche; ad esempio M. Mahmoudi, un antropologo marocchino che insegna a Princeton, ha pubblicato il resoconto di un suo viaggio-studio alla Mecca, tradotto anche in Italia. Nel pellegrinaggio alla Mecca c’è un rito particolare che ha sempre attirato la mia attenzione, la purificazione attraverso l’acqua del pozzo di Zemzem. Il fedele, prima di partire dai luoghi santi, usa riempire una bottiglia dell’acqua sacra di quella sorgente, perché la tradizione funeraria islamica vuole che l’ultimo lavaggio del defunto si compia se possibile con essa; è uso regalarne una piccola quantità ad amici o parenti che non hanno potuto recarsi in pellegrinaggio: ne basta poca per aiutare il defunto a purificarsi. Per capire la tensione che anima i fedeli in quei luoghi basta osservare che molti pellegrini cercano di recarvisi in età molto avanzata, anche da malati, semplicemente perché è loro desiderio rendere l’ultimo respiro laddove è nata la comunità dei i conclude oggi il mio anno di collaborazione con «Avvenire», un’ esperienza stimolante per via della libertà di pensiero costantemente concessa e per l’opportunità di dialogare con una parte fra le più vive del Belpaese, quella cattolica. Rimangono forse alcuni piccoli semi destinati a vita ulteriore in quel campo talvolta bizzarro dell’estetica, del gusto e della militanza sottile che l’arte comporta. Mala tempora currunt. Non c’è dubbio. Il ministro attuale dei Beni Culturali s’interroga onestamente circa la crisi apparente o evidente dell’arte contemporanea, si chiede se il bello possa ancora esistere e svolgere una funzione di formazione. Del bello sappiamo ormai poco e siamo confusi. È certa invece l’esistenza del brutto, dalle periferie delle nostre città al paesaggio duramente ferito durante il secolo dal quale siamo appena scappati. Del brutto abbiamo avuto una certezza con la squallida storiella pubblicitaria inventata per lanciare il Museion di Bolzano. La rana crocefissa è innegabilmente blasfema e offende una parte del Paese per tradizione legata alla cultura cristiana e a quella forse più intimamente ancorata alla sua radice alpina, quella germanizzante del Tirolo. Ma permette la rana di capire il gelido cinismo d’un mondo commerciale che ha come unica volontà la promozione a scopo di crescita dei prezzi per carpire la buona fede dei gonzi convinti d’essere così meno di provincia. E va quindi bene che l’artista morto dieci anni fa abbia vissuto una breve esistenza etilica tentando una tarda parodia dell’impegno civile di Joseph Beuys. Va quindi bene la reazione vivace della popolazione locale, anche se inconsapevolmente ha finito per fare aumentare il prezzo del manufatto, la rana appunto, che potrete trovare in colore diverso e con un paio d’uova in più sul sito della galleria newyorchese Luhring Augustine, pronta ad un’altra vendita. Il tutto orchestrato da alcuni commercianti milanesi concessionari periferici delle botteghe della Grande Mela e gestito da una direttrice ginevrina dismessa da un museo catalano, la quale parla poco l’italiano e per niente il tedesco obbligatorio da quelle parti ma s’intende sicuramente del circo internazionale della contemporaneità, dei prezzi e degli interessi legati ad ogni opera esposta a tal punto da non consentire di fotografarla. Suggerirei ai cittadini offesi una denuncia alla Corte dei Conti per uso del danaro del contribuente a scopo di lucro privato. Ben diverso il caso dell’artista ladino Lois Anvidalfarei, credente profondo e legato a quelle montagne assieme a sua moglie Roberta Dapunt che ha appena pubblicato da Einaudi una delle più commoventi raccolte di poesia che mi sia trovato a leggere, con versi come «credo nelle anime sante, nella loro indipendenza conquistata sui sensi di una preghiera, credo nel lamento d’un uomo in agonia, inaccessibile silenzio degli ultimi istanti in una vita, credo nel lavaggio del suo corpo fermo, nel suo vestito a festa e nell’incrocio delle mani, testimoni di un battesimo confidato». Sono andato a trovarli quest’estate, una famiglia normale e per questo esemplare. Ho visto le sculture in una baita, nudi straziati plasmati dal marito come la poesia della moglie. Forse ingenui loro ad avere pensato che quel pathos forte potesse apparire nelle strade d’una cittadina senza generare reazioni. Ma non c’entra con la rana. Grande è la confusione sotto i cieli… A tal punto che il mio amico Jean Blanchaert è quasi stato arrestato nel book-shop del Meeting di Rimini dove era andato a tenere una conferenza sul prozio musicista Nino Rota perché la signora Adriana Borghi lo aveva trovato in possesso d’un libro senza scontrino. Cosa finita in nulla perché il libro sullo scultore Franz Stähler già suo era e nel bookshop non era mai stato in vendita. I libri si possono comperare ma non portare a spasso. L’arte si può comperare ma non portare a spasso. Continueremo a riflettere. S IL BRUTTO ESISTE. E PURTROPPO SI VENDE BENISSIMO LA «MOSCHEA BLU» DI ISTANBUL (TURCHIA) GERUSALEMME, MUSULMANI IN PREGHIERA DAVANTI ALLA MOSCHEA DI AL AQSA La mappa dei luoghi della fede Islam «CENA IN EMMAUS» DEL MANIERISTA PONTORMO, CONSERVATA NELLA GALLERIA DEGLI UFFIZI A FIRENZE. UN’IMPRESSIONANTE FOLLA DI FEDELI GREMISCE LA SPIANATA DELLA KAABA ALLA MECCA (ARABIA SAUDITA) L’ARTISTA TEDESCO JOSEPH BEUYS

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AGORÀIDEE AGORÀIDEE 5DOMENICA31 AGOSTO 2008

DOMENICA31 AGOSTO 20084

opo Inchiesta su Gesù arriva in libreriaInchiesta sul Cristianesimo (Mondadori, pp.276, euro 18,50), il secondo libro che ilgiornalista Corrado Augias dedica all’aurora

del cristianesimo, dal I al IV secolo, il fèrvido arco disecoli durante il quale la nuova religione elaborò lapropria teologia, il linguaggio, l’organizzazione el’assetto istituzionale. Il modello è sempre quellodell’intervista a un autorevole studioso, il taglio èdivulgativo e volutamente spoglio di apparati criticie note bibliografiche. Nella stentorea introduzioneintitolata «Che cosa Gesù non ha detto», la posizionedi Augias – che si professa non credente – è ribaditachiara come un cristallo di rocca: l’autore ci presentaGesù come un predicatore antisistema alla JesusChrist Superstar ed espone una visione su Chiesa epapato non lontana da quella di Giuseppe Garibaldi.Vi si legge che il cristianesimo è un indebitofraintendimento del giudaismo prodotto dapersonalità estrose come Paolo di Tarso; che Gesùnon aveva nessuna intenzione di fondare unareligione, che la resurrezione è un mito, e viatoccando i classici punti degli intellettuali illuminé.Anche nei cappelli introduttivi ai singoli capitoli laverve anticristiana di Augias, incline a considerare lastoria cristiana come un fatto essenzialmentepolitico, riprende fiato non temendo di riproporreimmagini teologicamente errate come quella di Maria«collocata al vertice delladivinità» o dei santi cheformerebbero un«pantheon» assimilabileai semidei pagani, einsiste nel paragone –francamenteincomprensibile – fra iterroristi suicidi e imartiri confessori. Conqueste premesse sipoteva temere una replicadella prima Inchiestameritatamente criticatacome un cedimento allostile à la Elaine Pagels.Ma non è proprio così, anche perché il professorRemo Cacitti, docente di Letteratura cristiana anticae di Storia del cristianesimo antico pressol’Università degli Studi di Milano, che firma a quattromani con Augias, riesce a replicare ai molti luoghicomuni che Augias gli porge per correggerli,rimodularli e contestarli, spiegando con semplicitàdove lo spazio lo consente oppure aprendo alcomplesso gioco di «scatole cinesi» della storiareligiosa.Da storico, formatosi in particolare alla scuolatedesca, egli difende l’autonomia della storiascientificamente fondata rispetto alla letturacredente dell’esegesi canonica, e ciò consente adAugias di ottenere sponda alle sue incalzantidomande. Sempre da storico, Cacitti ammette che latomba vuota di Gesù e la predicazione che ne risultaresta un mistero («Il Cristo non è morto, èpresente… Da qui a ipotizzare qualsiasi altrofenomeno c’è un passaggio che, storicamente, non èpossibile ricostruire»). Perché, se non può esistereproblema che sia comprensibile al di fuori dellasituazione storica, è anche vero che nessun problemaè riconducibile totalmente ad essa. E dunque, se lacomunità dei discepoli condivise una fedemessianica, ciò che accadde attorno alla tomba vuota(e prima, nell’intero operato di Gesù) non si facogliere dalle categorie della storia scientifica; lapotente dinamica che s’innescò dall’evento dellaresurrezione quale compimento delle profezie,creduto in modo incontestabile e inesplicabilesecondo le normali categorie umane (e storiche),implicano una rottura della norma, anche per lemodalità originalissime con cui si sviluppò. Il dialogo fra i due finisce per smussare lesemplificazioni tanto spesso diffuse sulla figura diGesù, il cristianesimo e la sua origine, la formazione

del canone, le prime comunità. Cacitti formula le suerisposte estraendo dalla memoria letture di primamano. Cito, ad esempio, la rievocazione del luogo incui avvenne il Concilio di Nicea: una sala adorna dimosaici d’oro, con una fila di triclini al centro, chefece pensare ad uno dei padri conciliari, il semiciecoPafnuzio, di essere arrivato in paradiso. O i vivaciritratti di personalità come san Paolo, sant’Ambrogioe Origene. Le risposte inoltre rivelano gli stratinascosti di questioni apparentemente semplici,aprendo alle prospettive multiple che sono una faseobbligata della ricerca della verità. Perché ciò chenon è storicamente dimostrabile non sempre è«storicamente non accaduto». Lo studioso, inoltre,deplora le semplificazioni tendenziose riguardo allaformazione del canone: «Attenzione a noninterpretare come correzioni o, peggio, manipolazioniquelle che in realtà rappresentano le differentiinquadrature teologiche entro cui i diversi libri delNuovo Testamento presentano Gesù». Le divergenzefra i libri del canone «non sono facili da comunicarea un più vasto pubblico, uso a lasciarsi incantare dafavole strabilianti di manoscritti celati, testi epurati,congiure del silenzio, esoterismi». Che l’Inchiesta, poi, intenda contribuire a fare arginealla grande operazione messa in atto da BenedettoXVI con la pubblicazione di un’opera di cui è apparsala prima sezione (Gesù di Nazareth) è evidente sia

nelle parole di Cacittiche in quelle di Augias.Rivendicando il suoruolo di storico, e nondi teologo, lo studiosoripropone, nei principi,e pur con cautele, ladivaricazione fra il Gesùdella storia e il Cristodella fede, proprio ladivaricazione che il Papaha inteso colmare. Lostudioso, del resto,giudica quella del Papauna «restaurazione» cheminaccerebbe

l’autonomia della ricerca storica, invadendola diteologia. Qui si tocca un nodo dolente. Eppure, ilPapa sostiene che «il metodo storico – proprio perl’intrinseca natura della teologia e della fede – è erimane una dimensione irrinunciabile del lavoroesegetico». Critica storica e ortodossia teologicadevono riverberare la stessa umiltà considerando chel’oggetto dello studio – Gesù, il cristianesimo comesviluppo nel tempo della Pasqua di Gesù – non sonoargomenti che si fanno esaurire dalla "scienza". Atale proposito, nel commentare la prima Inchiesta diAugias, su questo giornale, padre RanieroCantalamessa invitava ad «abbandonare l’illusioneche, nello scrivere su Gesù, i credenti abbiano unaprecomprensione e i non credenti siano invece esentida ogni pregiudizio». Agli occhi dei "laici" taleprecomprensione condizionerebbe il giudizio,ottundendo le facoltà di discriminazione e l’accessopieno del credente agli strumenti della ricercastorica. Cantalamessa aggiungeva che staccando Gesùdagli effetti che ha prodotto – Chiesa e comunitàcredente – si viola il principio ermeneutico dellastoria degli effetti, dal momento che «attraverso laChiesa… Gesù ha cambiato il mondo. Senza quello"sbaglio chiamato cristianesimo", come lo definiscequalcuno, non saremmo qui a parlare di lui», e Gesùsarebbe rimasto un oscuro rabbi di Galilea.A libro chiuso, resta l’impressione che le originicristiane siano una polifonia che comprende non«tanti cristianesimi» in lotta scomposta – comeinsinua a più riprese il giornalista Augias –, maun’unità nascosta in fuga verso l’unità provvidenzialedella Chiesa, comunità di fede che precede, in ognisenso, gli stessi Vangeli. Forse non era questal’intenzione di Corrado Augias, e non tutti sarannod’accordo ma – si perdoni la battuta – il diavolo fabene le pentole, non i coperchi.

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In Iraq Kerbala e Najaf, capitalidegli sciiti; il piccolo santuariodi Chellah in Marocco; Toubain Senegal, centro del muridismo...

A Shiraz le moschee hanno cupolerivestite all’interno da specchi;si esce senza voltarsi dicendo, in persiano: «Re della luce!»

imam che si fanno interpreti del Corano. Kerbalaè il luogo santo per eccellenza dello sciismo,luogo che ogni anno è meta di un lungopellegrinaggio, e riferimento costante dei ritiche si celebrano in tutto il mondo sciita, daBeirut a Isfahan, riti in cui la comunità tende auna specie di trasfigurazione rivivendoquell’esperienza. Esperienza che rappresentòuna «fitna» ma che contribuì a definire unanuova dimensione dell’islam, quella dimensionedella sacralità dello spazio e della terra,talmente intensa che ogni musulmano sciitaquando prega appoggia la fronte su una piastrad’argilla rossa che proviene dalla pianura diKerbala, dove si compì il dramma della passionedi Hussein: quel dramma viene rappresentatonel teatro sacro chiamato «tayzé». E come nonricordare la sacralità dello spazio dell’islam

sciita nelle città di Isfahan, di Qomo di Shiraz, dove in ogni moscheache ricorda un imam la volta internaviene completamente ricoperta dapiccoli specchi che riflettono la lucedorata e dove nel silenzio sacrale diquei luoghi i fedeli, nel prenderecongedo dal santo, escono senzavoltargli le spalle e recitando a vocealta, in persiano, «Re della luce!».Questa sacralità si ripete in moltialtri itinerari, talvolta famosi, altrevolte noti a pochi. A me piacericordare una piccola città santavicino a Rabat, in Marocco: Chellah,luogo molto intimo, come ripiegatosul mondo, luogo silenzioso maimportante perché la leggenda narrache il pellegrinaggio a Chellahequivale al pellegrinaggio alla Mecca.E non potrei non citare la mia cittànatale con la sua moschea: Tlemcen,patria di Sidi Boumediene, uno deipiù grandi santi e mistici algerini,che stranamente ci conduceGerusalemme. A Gerusalemme c’èuna cosa che pochi conoscono: nonlontano dalla cupola d’oro dellamoschea di Omar, esistono un muroe una porta che portano il nome diSidi Boumediene, che all’epocadell’intitolazione era considerato ilsanto dei santi. Guardando a est della

porta, lo sguardo si estende fino alla moscheaottagonale che custodisce probabilmente illuogo del viaggio dei viaggi per i musulmani, ilviaggio chiamato "viaggio celeste" – «mi’raj» –del profeta da Medina a Gerusalemme,considerata la terza città santa dell’islam. Maesistono molti altri luoghi della sacralitàdell’islam, nel sud-est asiatico come neiBalcani, in Turchia, da Istanbul a Konya, nelMaghreb, nell’Africa subsahariana, in Asiacentrale; attraverso lo sviluppo e l’estensionedelle confraternite mistiche («turuq») moltiluoghi sono divenuti città sante, come Toubain Senegal, capitale del muridismo. Un po’ovunque nel Dar-al-islam, dal Cairo ai confinidell’Afghanistan, l’esperienza del sacro si èespressa in luoghi in cui uomini e santi hannosegnato il loro rapporto con l’eternità.

È arduo tracciare una geografiadel sacro musulmano, perchéessa risulta estesa dai confinidel Sahara fino al Mar di Cina,

passando per i molti Paesiin cui il credo di Maometto s’èespresso in mille forme, a volteattraverso fratture, battaglie,

eventi trasformati in ricordocollettivo e che assumono valorereligioso in quantocommemorano un’età inaugurale

credenti. È difficile tracciare una geografia dellasacralità nell’islam, perché essa è estesa quantol’islam stesso, dai confini del Sahara fino allerive del Mar della Cina, passando attraversoinnumerevoli Paesi, in cui l’islam si è espressoin mille forme, talvolta attraverso conflitti efratture («fitna»), eventi storici che si sonotrasformati in memoria collettiva, e cheassumono un valore sacrale in quanto anch’essicommemorano un momento, un’età inaugurale.Come non ricordare per gli sciiti – grandefamiglia dell’islam accanto a quella dei sunniti –il luogo santo che si trova in Irak, Paese chelentamente sembra uscire dal martirio: lapianura di Kerbala, dove in una battagliasanguinosa morì Hussein, figlio di Alì, cuginodel profeta; e, ancora in Irak, non lontano daKerbala, la città santa di Najaf, che custodiscegran parte della spiritualità sciita, della suafilosofia, delle sue dottrine, e dove per secoli sisono formate generazioni di «mujtahid», gli

Il giornalista ripropone la consueta visione su Gesù e sulla Chiesa, però lo storico Cacitti riesce a replicare ai molti luoghi comuni, smussandole semplificazioni e chiarendo come non sempre è «storicamente non accaduto» ciò chenon è storicamente dimostrabile. Una nota dolente sul libro del Papa

di Mario Iannaccone

Augias ci riprova,ma stavolta l’«Inchiesta»gli scoppia in mano

LA POLEMICA

Il luogo per eccellenza della sacralità, il percorso quasiobbligato perché sigillatonei pilastri del Coranoè il pellegrinaggio alla Mecca,che porta a una sorta ditrasfigurazione. Nell’istante in cuicompie un rito a Medina, il fedelerivive la memoria dei luoghie un’altra dimensione investeil suo corpo per trasformarlo in una specie di santo: egli accede a un nuovo status, diventa "hajj"

di Khaled Fouad Allam

l viaggio, il pellegrinaggio nei luoghi enegli spazi sacri accomuna moltereligioni, definendo in modo diretto oindiretto la fragilità intrinseca all’essereumano, lo smarrimento di fronteall’eternità e il timore della perdita,dell’oblio. È ciò che avviene nei momentidifficili dell’umanità; ma anchenell’esperienza individuale quando,

interrogandosi su se stesso, ogni uomo simisura con la paura della perdita. È allorache si avverte la necessità del viaggio: noncome attraversamento della geografia fisicadel mondo, non come ricerca della bellezzadel divino; ma come misura di sé, quel séche sente il bisogno dell’ascolto. Anche seabbiamo bisogno della bellezza per entrarein quei luoghi, luoghi in cui storia edeternità si coniugano, riducendo laminaccia dell’oblio a una parentesi dellanostra dimensione individuale e collettiva.Ma esistono mille forme di itinerario che cipermettono di staccarci dall’oblio,dall’erranza dell’anima, e che possono

cambiare radicalmente la nostra esistenza;anche se quel viaggio non si misura con lospazio, esso ci porta dove l’eternità si èfatta parola, dove si è rivelata sotto unadelle sue infinite forme. Quel viaggio imusulmani lo compiono una volta all’anno,nel ventisettesimo giorno del mese sacro diramadan; in quella notte – che nellanovantasettesima sura del Corano èchiamata «laylat al-qadr» (la notte deldestino), notte che vale mille notti,secondo la narrazione dell’islam – sicommemora la discesa del Libro, il Corano.È la notte più intensa di quel mese, perchéin essa il fedele chiudendo gli occhinell’angolo di qualunque moschea o luogosacro, si appresta a compiere quel viaggio,a trasmigrare attraverso la sonorità delleparole del Corano, scardinando spazio etempo, al momento inaugurale, verso quellaluce che si è aperta per i musulmani; perciòessa è chiamata la notte del destino, lanotte che vale mille notti, quella che non èmisurabile, non è perimetrabile in untempo né in uno spazio definito. Si trattadel viaggio in un non-luogo, perché è illuogo dei luoghi che abbraccia l’interomondo esistente, come quella notte cheestese la sua eternità per la nuovareligione, non lontano dalla Mecca, nellagrotta di Hira. Questa dimensione spazialee meta-temporale ha avuto una traduzionenell’arte islamica, nonostante le riserveaniconiche della dottrina giuridica

Idell’islam. Sono numerose le miniaturemusulmane, di matrice ottomana opersiana, che rappresentano l’angeloGabriele che dona su un vassoio la cittàsanta di Medina al profeta Mohammed. Ladimensione spaziale nell’islam tende arisolvere la tensione, insita nell’uomo, frastoria ed eternità. Ma esiste il luogo pereccellenza della sacralità, il percorso quasiobbligato perché sigillato nei pilastridell’islam: il pellegrinaggio alla Mecca, edunque anche a Medina. Pellegrinaggio cheè sì obbligatorio, ma suscettibile di deroga,perché non tutti – per malattia, difficoltàeconomiche e molti altri motivi – possonocompierlo. Perciò il diritto musulmanoconcede che un pellegrino possa compiereil pellegrinaggio alla Mecca per un’altrapersona. Nell’islam, la Mecca con Medina èil luogo della rivelazione e della formazionedella fede, il luogo del compimento dellaprofezia di Mohammed; perciò ilpellegrinaggio porta a una sorta ditrasfigurazione del fedele che nell’istante incui compie un rito a Mecca o a Medina

rivive la storia e la memoria deiluoghi. La dimensione della sacralitàinveste totalmente il suo corpo e lasua mente per trasformarlo in unaspecie di santo: una volta compiutoil pellegrinaggio egli accede a unnuovo status, diventa «hajj». Per laUmma, la comunità dei credentidell’islam, il pellegrinaggio realizzala tensione fra logica dell’eternità elogica della storia. Giungendo allaMecca il fedele si toglie tutte le vestiper indossare il lenzuolo bianco (ilsudario) come tutti gli altri:quest’atto sembra voler restituireall’uomo l’identità primordiale, la suafondamentale uguaglianza con glialtri uomini, con i fedeli dell’islam,ma sembra anche riportare l’uomo ase stesso. Il pellegrinaggio allaMecca e a Medina prevede unacomplessa serie di riti, di cui moltistudiosi hanno descritto lecaratteristiche; ad esempio M.Mahmoudi, un antropologomarocchino che insegna a Princeton,ha pubblicato il resoconto di un suoviaggio-studio alla Mecca, tradottoanche in Italia. Nel pellegrinaggioalla Mecca c’è un rito particolare cheha sempre attirato la mia attenzione,la purificazione attraverso l’acqua delpozzo di Zemzem. Il fedele, prima dipartire dai luoghi santi, usa riempireuna bottiglia dell’acqua sacra diquella sorgente, perché la tradizionefuneraria islamica vuole che l’ultimolavaggio del defunto si compia sepossibile con essa; è uso regalarneuna piccola quantità ad amici oparenti che non hanno potuto recarsiin pellegrinaggio: ne basta poca peraiutare il defunto a purificarsi. Percapire la tensione che anima i fedeliin quei luoghi basta osservare chemolti pellegrini cercano di recarvisiin età molto avanzata, anche damalati, semplicemente perché è lorodesiderio rendere l’ultimo respiroladdove è nata la comunità dei

i conclude oggi il mio anno dicollaborazione con «Avvenire», un’esperienza stimolante per via dellalibertà di pensiero costantemente

concessa e per l’opportunità di dialogare conuna parte fra le più vive del Belpaese, quellacattolica. Rimangono forse alcuni piccoli semidestinati a vita ulteriore in quel campo talvoltabizzarro dell’estetica, del gusto e dellamilitanza sottile che l’arte comporta. Malatempora currunt. Non c’è dubbio. Il ministroattuale dei Beni Culturali s’interrogaonestamente circa la crisi apparente o evidentedell’arte contemporanea, si chiede se il bellopossa ancora esistere e svolgere una funzionedi formazione. Del bello sappiamo ormai poco esiamo confusi. È certa invece l’esistenza delbrutto, dalle periferie delle nostre città alpaesaggio duramente ferito durante il secolodal quale siamo appena scappati. Del bruttoabbiamo avuto una certezza con la squallidastoriella pubblicitaria inventata per lanciare ilMuseion di Bolzano. La rana crocefissa èinnegabilmente blasfema e offende una partedel Paese per tradizione legata alla culturacristiana e a quella forse più intimamenteancorata alla sua radice alpina, quellagermanizzante del Tirolo. Ma permette la ranadi capire il gelido cinismo d’un mondocommerciale che ha come unica volontà lapromozione a scopo di crescita dei prezzi percarpire la buona fede dei gonzi convintid’essere così meno di provincia. E va quindibene che l’artista morto dieci anni fa abbiavissuto una breve esistenza etilica tentandouna tarda parodia dell’impegno civile di JosephBeuys. Va quindi bene la reazione vivace dellapopolazione locale, anche seinconsapevolmente ha finito per fareaumentare il prezzo del manufatto, la rana

appunto, che potrete trovare in colore diversoe con un paio d’uova in più sul sito dellagalleria newyorchese Luhring Augustine, prontaad un’altra vendita. Il tutto orchestrato daalcuni commercianti milanesi concessionariperiferici delle botteghe della Grande Mela egestito da una direttrice ginevrina dismessa daun museo catalano, la quale parla pocol’italiano e per niente il tedesco obbligatorioda quelle parti ma s’intende sicuramente delcirco internazionale della contemporaneità, deiprezzi e degli interessi legati ad ogni operaesposta a tal punto da non consentire difotografarla. Suggerirei ai cittadini offesi unadenuncia alla Corte dei Conti per uso deldanaro del contribuente a scopo di lucroprivato. Ben diverso il caso dell’artista ladinoLois Anvidalfarei, credente profondo e legato aquelle montagne assieme a sua moglie RobertaDapunt che ha appena pubblicato da Einaudiuna delle più commoventi raccolte di poesiache mi sia trovato a leggere, con versi come«credo nelle anime sante, nella loroindipendenza conquistata sui sensi di unapreghiera, credo nel lamento d’un uomo inagonia, inaccessibile silenzio degli ultimiistanti in una vita, credo nel lavaggio del suocorpo fermo, nel suo vestito a festa enell’incrocio delle mani, testimoni di unbattesimo confidato». Sono andato a trovarliquest’estate, una famiglia normale e per questoesemplare. Ho visto le sculture in una baita,nudi straziati plasmati dal marito come lapoesia della moglie. Forse ingenui loro adavere pensato che quel pathos forte potesseapparire nelle strade d’una cittadina senzagenerare reazioni. Ma non c’entra con la rana.Grande è la confusione sotto i cieli… A talpunto che il mio amico Jean Blanchaert èquasi stato arrestato nel book-shop delMeeting di Rimini dove era andato a tenereuna conferenza sul prozio musicista Nino Rotaperché la signora Adriana Borghi lo avevatrovato in possesso d’un libro senza scontrino.Cosa finita in nulla perché il libro sulloscultore Franz Stähler già suo era e nelbookshop non era mai stato in vendita. I librisi possono comperare ma non portare a spasso.L’arte si può comperare ma non portare aspasso. Continueremo a riflettere.

S

IL BRUTTOESISTE.E PURTROPPOSI VENDEBENISSIMO

LA «MOSCHEA BLU» DI ISTANBUL (TURCHIA)

GERUSALEMME, MUSULMANI IN PREGHIERA DAVANTI ALLA MOSCHEA DI AL AQSA

La mappa dei luoghi della fedeIslam«CENA IN EMMAUS» DEL MANIERISTA PONTORMO, CONSERVATA NELLA GALLERIA DEGLI UFFIZI A FIRENZE.

UN’IMPRESSIONANTE FOLLA DI FEDELI GREMISCE LA SPIANATA DELLA KAABA ALLA MECCA (ARABIA SAUDITA)

L’ARTISTA TEDESCO JOSEPH BEUYS