La Pasta Madre Del Fiabesco Definitiva

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7/24/2019 La Pasta Madre Del Fiabesco Definitiva http://slidepdf.com/reader/full/la-pasta-madre-del-fiabesco-definitiva 1/105 0  ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA’ DI BOLOGNA FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE Corso di laurea Educatore di Nido e Comunità Infantile LA “PASTA MADRE” DEL FIABESCO  Il mutamento e l’identità nella letteratura per l’infanzia Tesi di laurea in: Letteratura per l’infanzia Relatore Presentata da Prof.ssa Emma Beseghi Margherita Cennamo  Correlatore Dr.ssa Marcella Terrusi Sessione III  Anno accademico 2011/2012

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 ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA’ DI BOLOGNA

FACOLTA’ DI SCIENZE DELLA FORMAZIONE

Corso di laurea Educatore di Nido e Comunità Infantile

LA “PASTA MADRE” DEL FIABESCO Il mutamento e l’identità nella letteratura per l’infanzia

Tesi di laurea in:

Letteratura per l’infanzia

Relatore  Presentata da 

Prof.ssa Emma Beseghi Margherita Cennamo Correlatore

Dr.ssa Marcella Terrusi

Sessione III

 Anno accademico 2011/2012

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LA “PASTA MADRE” DEL FIABESCO

 Il mutamento e l’identità nella letteratura per l’infanzia

Introduzione

La pasta madre del fiabesco p. 2

1. SELVATICHEZZA

1.1.  Selvatichezza come antisocialità 16

1.2.  Selvatichezza in una società antisociale 31

1.3. 

Selvatichezza e natura 40

2. SMARRIRSI

1.1 Scarpette rosse 46

1.2 L’incubo dello sdoppiamento: schizofrenie zoologiche 54

1.3 Il mondo capovolto: tra familiarità ed estraneità 60

2. RITROVARSI (o smarrirsi definitivamente)

1.1 Alla ricerca dell’ Heimat   68

1.2 Dall’essere cresciuti al far crescere 80

1.3 Il (non) ritorno 89

Conclusione

Smarrirsi, ritrovarsi... ancora smarrirsi e ritrovarsi 96

Bibliografia 98 

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INTRODUZIONE

Come tutte le cose del mondo, le fiabe si possono contare: non sono infinite.

Quando però non si contano, ma si raccontano, perdono i confini, passano dalla voce

all'ascolto, al ricordo, all'immaginazione, ad altre storie, altre voci.

Quando le fiabe si raccontano, diventano infinite1.

Un mondo apparentemente chiuso,

si moltiplica in un numero incalcolabile di mondi possibili2.

La pasta madre del fiabesco

La pasta madre è un lievito naturale che si ottiene mescolando farina ed

acqua. Questo impasto, lasciato fermentare, sviluppa in sé una

microflora di lieviti e batteri. La pasta madre, perché si conservi, deve

essere “rinfrescata” periodicamente con altra acqua e farina, in modo che

i microrganismi che la compongono siano nutriti e possano così

riprodursi3. Giorgia Grilli durante il suo discorso introduttivo al

convegno “Radici profonde: le foreste dei fratelli Grimm e l’appennino

di Emma Perodi”4, per descrivere il ruolo delle fiabe nella storia, ha

utilizzato una metafora culinaria, paragonando le fiabe alla “pasta

madre”. La pasta madre è un impasto “vivo”, la cui vita dipende da un

ciclico rimpasto e che, se ben curata, può essere tramandata di

generazione in generazione. Le fiabe, come la “pasta madre”, sono

giunte a noi, tramandate di generazione in generazione, di secolo in

secolo. Metaforicamente, se le fiabe stanno alla “pasta madre”, allora

 potremmo dire che la letteratura per l’infanzia sta al pane, alimento che,

1 Piumini R., Le fiabe infinite, San Dorligo della Valle, Emme Edizioni, 20112 Lavagetto M., Dovuto a Calvino,Torino, Bollati Boringhieri, 20013

  Scialdone A.,  La pasta madre:64 ricette illustrate di pane, dolci e stuzzichini salati, Milano,Edagricole, 20104  Conferenza che ha avuto luogo giovedì 6 dicembre 2012 presso il Dipartimento di Scienzedell’Educazione a Bologna, e di cui Antonio Faeti e Jack Zipes erano ospiti e protagonisti. 

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 per lievitare, necessita sempre di una porzione di “pasta madre”. Da qui

il titolo,  La “pasta madre” del fiabesco con cui, citando le parole di

Giorgia Grilli, viene suggerita la stretta parentela fra letteratura per

l’infanzia e fiabe.  Questo elaborato si concentrerà su tre “categorie

interpretative”5, “selvatichezza”, “smarrimento”, “ritrovamento”, temi

che caratterizzano lo svolgimento dell’intreccio narrativo fiabesco e che

si trovano oggi disseminati nella letteratura per l’infanzia. Tre tappe,

all’interno della trama, attraverso le quali il protagonista intraprenderà

un viaggio all’insegna del mutamento e della costruzione della propria

identità. Fulcro della tesi è stato ricercare alcuni dei significati

ravvisabili all’interno di queste categorie interpretative, intese da Milena

Bernardi come “possibili lenti d’ingrandimento necessarie a scoprire e

svelare indizi, tracce, sintomi di parentele (...)”6. Ad esempio,

Cappuccetto Rosso7  è una bambina che, mentre si sta recando a casa

della nonna, ignora il divieto della madre e si addentra nel bosco in cerca

di fiori. Bastiano8, invece che andare a scuola, si chiude in una soffitta

 per leggere un libro. Potremmo quindi definire entrambi questi

 personaggi “selvatici”, poiché trasgrediscono le regole, ed ambedue

seguono un iter che, per quanto diverso, attraversa le medesime fasi:

dalla selvatichezza allo smarrimento, dallo smarrimento al ritrovamento

o al definitivo smarrimento. I protagonisti delle opere analizzate,

seguono tutti uno stesso cammino trifasico: ognuno di loro con

motivazioni e sviluppi differenti. Si cercherà di analizzare alcuni dei possibili legami fra Cappuccetto Rosso, archetipo della bambina che si

 perde, e i bambini che, dopo di lei, si sono persi nei boschi ed hanno

incontrato Lupi, o loro stessi si sono trasformati in Lupi, che hanno fatto

5  Bernardi M., Infanzia e metafore letterarie:orfanezza e diversità nella circolarità dell'immaginario,Bologna, Bononia University Press, 20096

Ibidem7“Cappuccetto Rosso” da Jacob e Wilhel Grimm, Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 19808 Michael Ende, La storia infinita, Bergamo, TEA, 2008

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ritorno, o che non sono tornati affatto. La ricerca di significati all’interno

di queste lenti d’ingrandimento, spazierà dalle teorie psicologiche di

Bruno Bettleheim, Carl Gustav Jung, Sigmund Freud, Alice Miller,

Melanie Klein, alle teorie pedagogiche di Maria Montessori, alla scuola

 bolognese di Milena Bernardi, Emma Beseghi, Antonio Faeti, Giorgia

Grilli e Marcella Terrusi, per poi arrivare all’interpretazione politico

sociale di Jack Zipes, per il quale la fiaba è contestualizzata all’hic et

nunc storico e sociale sia della trama, sia di chi legge, e all’“elogio delle

azioni spregevoli” di Pontremoli, secondo cui l’atto di leggere travalica

lo scopo stesso della lettura, e che leggere al di là di una qualche morale,

didattica, pedagogia, aiuta a vivere meglio e specialmente a comprendere

meglio il mondo.

Questo lavoro sarà dunque così strutturato: all’inizio di ogni capitolo, a

 partire da una fiaba che potremmo definire “capostipite”, la “pasta

madre” appunto, verranno scelti, sulla base delle “categorie

interpretative” già citate, alcuni opere della letteratura per l’infanzia, e si

seguiranno quindi alcuni dei possibili percorsi di significato alll’interno

di esse.

 Nel primo capitolo, sulle tracce della “selvatichezza”, si partirà dalla

fiaba “Cappuccetto Rosso”9, nella quale una bambina trasgredisce un

ordine della madre ed esce dal sentiero per cercare nel bosco dei fiori da

 portare alla nonna, e si arriverà quindi ai suoi fratelli selvaggi: Holden

Caufield, Pinocchio, Peter Pan, Giannino Stoppani, il Club dei Perdentidi  It 

10  e la Ghenga di Gigino il Pestifero, ecc... Sono personaggi

“selvatici” poiché in conflitto con il mondo esterno, ma ognuno di loro lo

è per motivi diversi; ed in maniera differente si diramerà anche il loro

cammino. Ma “selvatichezza” non è solo desiderio di rottura delle

9 “Cappuccetto Rosso” da Jacob e Wilhel Grimm, Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 198010 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992

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norme: è anche desiderio di esplorazione, è la necessità di avere un

contatto vivo con la Natura e riuscire così a ri-appropriarsi della propria

identità naturale. Si troveranno tracce di questa “selvatichezza” in

Gigino il Pestifero, in Buck e in Cosimo. La “selvatichezza” li porta ad

intraprendere un viaggio e crea un’interruzione della quotidianità. Si

genera una scissione fra il prima e il dopo.

 Nel secondo capitolo si seguiranno le tracce dello “smarrimento”: a

 partire dalla fiaba “Vassilissa la bella”11, verranno seguiti i viaggi di

alcuni personaggi selvatici, viaggi in cui, lontani da casa, persi in un

mondo sconosciuto e spesso ostile, dovranno trovare il modo di

destreggiarsi per non essere sopraffatti dalla realtà circostante. In questa

fase vi è “un’alterazione del corso ordinario degli eventi: accade

qualcosa di importante, che modifica uno stato o una condizione

 preesistente e da cui scaturiscono avvenimenti legati da rapporti di

causalità e consecutività diversi da quelli ordinari”12. I personaggi

saranno spesso aiutati da “doni fatati”, doni che, nel caso della fiaba

“Scarpette rosse”13 o “Il diavolo che si fece frate”14  possono smettere di

essere benefici e diventare mortiferi.

 Nel corso del viaggio sarà determinante l’incontro/scontro fra il

 protagonista e gli animali: a volte, come nel caso de Il Principe Tigre15 ,

un bambino diventa grande ed impara ad essere un principe, solo dopo

aver fatto apprendistato nella foresta, presso una madre tigre; altre volte i

 protagonisti, per conoscersi, dovranno letteralmente mettersi nei panni diun animale in cui hanno celato le proprie sembianze: è il caso di “Pelle

11“Vassilissa la bella” da Afanasjev A.N.,  Antiche fiabe russe, Farigliano (CN), Giulio EinaudiEditore, 199012 Cardarello R., Storie facili e storie difficili:valutare i libri per bambini, Azzano San Paolo, Junior,200413 Pinkola Estés C.,  Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,

200214  Perodi E., introduzione di A.Faeti,  Fiabe fantastiche – Le novelle della nonna , Torino, Einaudi,197415 Hong C.J., Il principe tigre, Padova, Babalibri, 2007

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d’asino”16   e  La Maschera17 

.  Altre volte, durante il proprio percorso,

l’eroe incontrerà una parte di se stesso, di cui ignorava l’esistenza, oltre

uno specchio, celata nella propria ombra o al di là di una porticina

nascosta in un angolo della propria casa. L’incontro con quella parte, al

contempo familiare ed estranea, spalancherà scenari inaspettati. E’ il

caso di Coraline18, Alice19 e del protagonista del racconto “L’ombra”20. 

Una volta terminata la sua avventura, il protagonista avrà addomesticato

la sua parte selvatica e trovato il suo posto nel mondo? Se questo non

dovesse accadere, un bambino che ascolta o che legge potrebbe

rimanerne deluso o addirittura turbato? E’ antipedagogico narrare storie

in cui non vi sia un lieto fine? A partire da  Il bambino nel sacco21 ,  si

cercheranno possibili percorsi di riflessione; in questo studio si porta

avanti la tesi secondo cui, più che un lieto fine, ciò che appaga

dell’esperienza narrativa è l’aver esplorato un mondo complesso che, al

di là degli esiti, permette di aprire una breccia nella nostra interiorità.

Tale quesito sarà oggetto di analisi nel terzo ed ultimo capitolo, nel quale

saremo sulle tracce del “ritrovamento”. Si vedrà che a volte, per tornare

a casa, è necessario proprio non far ritorno; o, forse, è necessario tornare 

non a quel luogo da cui eravamo partiti, ma a quello  a cui eravamo

 sempre intimamente appartenuti, anche prima che, coscientemente, lo

sapessimo. E’ il caso di Cosimo22, che si allontana dalla famiglia e dalle

convenzioni dell’epoca per vivere sugli alberi; ed è il destino di Buck 23,

16 Perrault C., traduzione di C.Collodi, introduzione di B. Bettelheim,  I racconti di Mamma Oca : le

 favole di Perrault seguite da favole di Madame d' Aulnoy e di Madame Leprince de Beaumont ,Milano, Feltrinelli, 197917 Solotareff G., La Maschera, Milano, Babalibri, 2003 18 Gaiman N., Coraline, Cles(TN), Arnoldo Mondadori Editore, 200319 Carrol L., Alice nel paese delle meraviglie- Dietro lo specchio, Milano, Garzanti, 197920 Andersen H.C., introduzione di G.Rodari, Fiabe, Cles (Trento), Einaudi, 200921  Calvino I., illustrazioni di Emanuele Luzzati,  L’uccel Belverde e altre fiabe italiane,

Moncalieri(Torino), Giulio Einaudi Editore, 199322 Calvino I., Il Barone Rampante, Bologna, Arnoldo Mondadori Editore, 200323London J., Il richiamo della foresta, Trieste, Edizioni E.Elle, 1991 

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il cane che abbandona gli uomini per unirsi ai lupi.

Il tema della “selvatichezza”, dello “smarrimento” e del “ritrovamento”

ricorre non solo nelle fiabe, ma anche nel cinema, nelle arti figurative,

nelle leggende, nei racconti e in tutte le opere letterarie che hanno

accompagnato, fin dai primordi, la storia del genere umano. Il loro eco

risuona nelle fiabe, nella letteratura per l’infanzia e nelle forme narrative

di tutte le arti di ogni tempo, creando una ripetizione continua ed una

sensazione di infinità. Ed “infinita” è anche la narrazione: non smette

mai, vola di bocca in bocca, rimbalza da un uomo all’altro; e così la fine

coincide con l’inizio, richiamando il simbolo dell’uroburo, simbolo

antico e rivelatore nella storia dell’umanità, lo stesso che campeggia,

sotto il nome di “Auryn”, sulla copertina di un romanzo fantastico:  La

 storia infinita24 di Michael Ende, autore che, evidentemente, ben sapeva

come il racconto possa essere tramandato al di là dei confini, delle

culture, delle religioni, delle epoche, fino ad arrivare ad insediarsi nel

fondo della coscienza collettiva. L’Uroburo/Auryn è dunque l’immagine

di un serpente che si morde la coda e la inghiotte. Tale figura simbolica

rappresenta, sotto forma animalesca, l’immagine del ciclo della vita, la

morte e la nascita, l’approprinquarsi di un nuovo inizio dopo ogni fine.

Le fiabe, come scrive Propp, sono loro per prime in stretta relazione

l’una con l’altra:

Lo studio dei racconti di fate25 dimostra la loro stretta parentela reciproca. Questa parentela è così intima che non si può separare con esattezza un soggetto dall’altro.

Questo ci conduce a due importantissime premesse: nessun soggetto di racconto di

fate26 può essere studiato a sé. Seconda: nessun motivo di racconto di fate può essere

studiato prescindendo dalle sue relazioni col tutto.27 

24 Ende M., La storia infinita, Bergamo, TEA, 200825 Nota alla traduzione: la parola inglese “fairytale”, tradotta letteralmente, significa “racconto di

fate”, ma in italiano si riconduce alla “fiaba”27  Propp V.J.,  Le radici storiche dei racconti di fate, Villanova Mondovì (Cn), Bollati BoringhieriEditore, 1998

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Il “tutto”28  di cui parla Propp è l’insieme delle fiabe stesse, ma noi

 possiamo intenderlo come un “tutto” costituito dall’immaginario

collettivo, dalla cultura mondiale da cui la fiaba, il racconto, il mito, il

cinema, l’arte figurativa, la letteratura, da sempre attingono,

contaminandosi l’un l’altra. In questa costante commistione, in cui ogni

elemento si collega all’altro, vediamo tornare il simbolo del cerchio e del

serpente che si morde la coda. La base di parentela fra arti potrebbe

dunque essere data da una fonte di nascita comune.  Nella sua opera,

 Morfologia della fiaba29 ,  Propp ha come obiettivo lo sviluppo di una

formula che rappresenti la struttura universale nella quale possano

rientrare tutte le fiabe. Vi riesce, infine, combinando tra loro quattro tipi

di funzioni: lotta e vittoria sul cattivo; compito difficile e suo

assolvimento. Nelle fiabe si ripete un canovaccio ricorrente:

La storia inizia con un divieto al protagonista, cui segue un’infrazione del divieto,

spesso sotto forma di allontanamento, preludio in genere a una serie di guai per il protagonista. Anche il protagonista è un’altra delle funzioni ricorrenti secondo

Propp, come il suo rivale, l’antagonista, come pure l’eventuale donatore, figura di

aiutante del protagonista, che lo provvede di un mezzo magico e così via30.

La scoperta di una “serie unica” per tutte le fiabe implica, secondo

Propp, “che le fiabe derivino da un'unica fonte, ma non tanto una

sorgente da ricercarsi dal punto di vista storico-geografico quanto dal

campo psicologico.”31 

 Nel suo saggio32, Daniele Ferrero afferma che la scoperta da parte di

Propp di una formula unica per tutte le fiabe, avvalora una delle tesi

28 Ibidem 29Propp V., Morfologia della fiaba, Perugia, New Compton Editori, 197730

Cardarello R., Storie facili e storie difficili: valutare i libri per bambini, Azzano San Paolo, Junior,200431Ferrero D., La struttura della Fiaba secondo la morfologia di Propp, da www.labirintoermetico.com32 Ibidem

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fondamentali della psicologia junghiana, ossia l’esistenza di una struttura

archetipica presente nell’inconscio collettivo dell’umanità e di cui le

fiabe potrebbero quindi essere una tipica espressione.

E’ ravvisabile un parallelismo tra la sequenza di Propp e il processo di

individuazione  di Jung33: la fiaba rappresenta infatti, nella sua universalità,

l'archetipo del cammino che ciascun individuo deve compiere per raggiungere

la totalità della propria personalità, il proprio Sé.34 

Durante questo percorso, l’uomo sviluppa quindi la propria personalità

individuale, la quale si evolverà secondo le disposizioni naturali proprie

del singolo, ma anche secondo le norme collettive della società nella

quale è inserito. Marie Louise Von Franz scrive:

(...)il vero processo di individuazione, la presa consapevole di contatto con il proprio

centro interiore (nucleo psichico) o sé, inizia generalmente con una lacerazione della

 personalità e con la sofferenza che ne consegue (...). Molti miti e racconti di fate

35

 descrivono simbolicamente questo grado iniziale del processo di individuazione (...).

Sembra così che il primo contatto con il sé proietti nel tempo un’ombra scura, o che

l’“amico interiore” si manifesti, inizialmente, come un cacciatore che sorprenda, nel

suo nido, l’ego e lo impegni a una lotta disperata.36 

Le fiabe nascono quindi da un bisogno psicologico, comune all’intera

umanità, di creare prodotti culturali che rappresentino il percorso cheogni uomo deve intraprendere per raggiungere la completezza della

 propria identità. Tutti i prodotti culturali che ne conseguono, sono

composti da parte del materiale di questa struttura archetipica.

33Jung C.G., Tipi psicologici, Torino, Bollati Boringhieri, 1977 34

Ferrero D., La struttura della Fiaba secondo la morfologia di Propp, da www.labirintoermetico.com35 Nota alla traduzione pag. 836 “Il processo di individuazione” da C.G.Jung,  L’uomo e i suoi simboli, Raffaello Cortina Editore,1983

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Riconduciamo questo concetto ad un’opera come l’Odissea37 : Odisseo,

quando chiude il suo periplo per le isole del Mediterraneo tornando ad

Itaca, conclude una ellissi identitaria; è sempre se stesso, ma non è più

colui che è partito, bensì colui che ritorna. Per essere davvero Odisseo

egli deve aver concluso un ciclo di avventure che gli permettono, una

volta concluse, di vivere, con lo spirito rinnovato dall’esperienza, le

vicende lasciate in sospeso alla sua partenza. Possiamo immaginare la

 parte della vita del protagonista di un racconto narrataci come fosse uno

spettro visivo per l’occhio umano. Come le cose a noi visibili risiedono

nello spettro tra i raggi ultra-rossi ed ultra-violetti, la parte della vita

dell’eroe a noi tramandata risiede tra il “c’era una volta” ed il “...e

vissero felici e contenti”. E così, quando un bambino chiede ad un adulto

“mi racconti una storia?”, spesso la storia, la conosce già. Vuole, però,

che ricominci. Proprio come nel libro  La storia infinita38, la trama è

circolare, infinita, sempre pronta a ricominciare, perché di generazione

in generazione, di epoca in epoca, l’uomo avrà sempre bisogno di storie

che esemplifichino il suo difficoltoso cammino attraverso l’esistenza e lo

rassicurino sugli ostacoli e le incertezze da superare.

Quando un bambino ascolta una storia può non tanto pretendere

variazioni rispetto ai racconti precedenti, quanto piuttosto che l’eroe, alla

fine del racconto, non sia più uguale a come era all’inizio: ovvero che le

vicende del racconto abbiano segnato, volta per volta, il comportamento

e le scelte del protagonista della narrazione, tanto da mutarloradicalmente alla fine di essa.

Secondo Bettelheim il bambino, per rafforzare il suo senso di sicurezza

nell’affrontare la realtà, ha bisogno di ascoltare fiabe in cui le esperienze

vanno a buon fine e di apprendere che, prima di lui, c’è stato qualcuno

37 Omero, introduzione e traduzione di Ciani M.G., Odissea, Milano, Rizzoli, 2008 38 Ende M., La storia infinita, Bergamo, TEA, 2008

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che con il suo ingegno ha risolto questioni complesse39. Così, anche se

un bambino sa come si conclude una storia, non potrà esimersi dal

 preoccuparsi per il suo eroe e dal provare sollievo ogni qual volta egli si

salva e salva il suo mondo. Spesso un bambino può desiderare che questa

catarsi sia quotidiana, e che sia usata per esorcizzare quel tempo della

giornata in cui il suo inconscio gli racconterà fiabe non sempre a lieto

fine: la notte. Potrebbe essere allora plausibile mettere in relazione

l’ascolto delle fiabe al gioco simbolico poiché, in entrambi i casi, un

 bambino può fare esperienza del mondo in maniera indiretta,

 permettendo a se stesso di sperimentare senza correre rischi. Come un

 bambino, quando gioca, “interpreta una parte immaginandosi in

situazioni diverse dalle sue abituali”40, così quando ascolta una storia, si

immedesima nel protagonista. Se un bambino, quando recita durante il

gioco simbolico, può osservarsi da fuori e, attuando un gioco delle parti

con gli altri partecipanti, sovvertire per la durata del gioco i rapporti

sociali pregressi, durante l’ascolto di una fiaba potrebbe non soltanto

immedesimarsi nel protagonista, ma anche permettere che l’eroe si

immedesimi  in lui. Ovvero sovrapporre le vicende fantastiche dell’eroe

alle proprie reali, attuando un’operazione di epicizzazione dell’ordinario

che permetterebbe al bambino, sentendosi un eroe, di affrontare con

maggiore coraggio i problemi della sua quotidianità. Fiabe che

riscaldano, fiabe che, come piccole lanterne, illuminano una notte troppo

nera: nel film di Guillermo del Toro,  Il labirinto del fauno41 , vienenarrata la storia di Ofelia, una bambina che, per sopravvivere

emotivamente alla tirannia del crudele patrigno, uno spietato capitano

franchista, e per affrontare la malattia della madre, in fin di vita dopo

aver partorito la sorellastra, si racconterà una lunga fiaba di cui è

 protagonista. Vivere a metà fra il mondo reale, teatro della guerra civile

39 Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 2000 40E. Baumgartner, Il Gioco dei bambini, Carocci, Le Bussole, 201141 Il labirinto del fauno di Guillermo del Toro (Messico, Spagna, USA), 2006

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spagnola e del conflitto familiare in cui è immersa, ed il mondo delle

fate, campeggiato da un misterioso fauno che le promette di svelarle la

verità sulla sua reale identità, le permette di tollerare l’insopportabile

carico del contesto familiare.

Il fatto che le vicende narrate nelle fiabe siano fantastiche potrebbe

essere utile affinché un bambino possa sovrapporle indifferentemente

alla sue: un orco può essere un nonno burbero, ma anche un fratello

maggiore prepotente. Bruno Bettelheim sottolinea l’importanza della

natura “non realistica” delle fiabe, poiché tale assenza di realismo

 porterebbe un bambino a canalizzare il suo interesse non tanto sui dati

concreti narrati, quanto sui sentimenti che vengono messi in scena:

La natura non realistica di queste fiabe (oggetto delle obiezioni di razionalisti dalle

anguste vedute) è un importante espediente, perché evidenzia che il proposito della

fiaba non è quello di comunicare utili informazioni circa il mondo esterno, ma di

chiarire i processi interiori che hanno luogo in un individuo42.

Un piccolo uditore, secondo Bettelheim, ritiene secondario che le

vicende narrategli siano fantastiche o verosimili, ma non transige

sull’autenticità dei sentimenti e delle aspirazioni dei protagonisti.

In questo, le fiabe, potrebbero essere del tutto aderenti al mondo emotivo

di un bambino: vi si narrano, infatti, invidie familiari, dispute tra fratelli

e sorelle, paure dell’abbandono, attrazione per il mistero, grandi diaspore

e grandi ricongiungimenti. La fiaba, come spiega Milena Bernardi, offre

quindi al bambino un “teatro mentale”:

(...)teatro mentale nel quale sperimentare affettivamente, emotivamente, attraverso

l’immaginazione e la fantasia ciò che poi tradurremo cognitivamente con gli

strumenti della comprensione e quindi della ragione, oppure faremo ricorso al

 processo contrario per raggiungere il medesimo apprezzabile risultato: l’integrazione

42Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 2000

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dell’esperienza, della conoscenza, dell’affettività.43 

Un “teatro mentale” dal quale un bambino può uscire rinfrancato,

rassicurato dalle proprie angosce: questa trama circolare, questa storia

destinata a finire soltanto per ricominciare da capo, potrebbe mettere

ordine al caos interiore di cui la vita è spesso portatrice.

Spesso un bambino ha una fiaba che predilige rispetto alle altre: è quella

che non si stanca mai di ascoltare e che, quando conosce ormai a

memoria, prova piacere nel riascoltare per poter prevedere ogni

 particolare della trama. Tale preferenza, che varia a seconda del

soggetto, può anche essere ricollegata alla teoria di Jung che interpretava

le fiabe “come possibili configurazioni di tipici conflitti fra le varie

componenti strutturali della psiche”.44  Jung, nell’opera Gli archetipi e

l’inconscio collettivo45, spiega che la coscienza si relaziona con il mondo

esterno e che, al di sotto di tale coscienza, vi è l'inconscio personale, in

cui risiedono le esperienze rimosse. In uno strato più profondo ancora vi

è l'inconscio collettivo, deposito di tracce latenti provenienti dal passatoancestrale dell'uomo, e in cui albergano gli Archetipi, le idee innate e

 predeterminate dell'inconscio umano. In questi tre livelli della psiche

sono presenti delle istanze psichiche: l’Io, la Persona, l’Ombra, l’Anima

e l’Animus, il Sé. L'Io è la mente cosciente, la Persona è l’aspetto che

l’individuo assume nelle relazioni sociali e nel rapporto col mondo,

l’Ombra  è il “lato oscuro” della personalità, l’Anima è l’archetipofemminile presente nell’inconscio dell’uomo, l’Animus è l’archetipo

maschile presente nell’inconscio della donna, il Sé è il centro della

totalità psichica, il punto centrale della personalità. Ognuna di queste

aeree psichiche, secondo Saverio Parise, corrisponderebbero ad un

43

  Bernardi M., prefazione di Emy Beseghi, Infanzia e fiaba: le avventure del fiabesco fra bambini,letteratura per l’infanzia, narrazione teatrale e cinema, Bologna, Bononia University Press, 2007 44 Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 200045 Jung C.G., Gli archetipi e l’inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino 1982

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determinato personaggio all'interno della fiaba:

(...)una fiaba focalizzata sullo sviluppo femminile, descriverebbe soprattutto le

sofferenze della principessa alle prese con la cattiva matrigna, ed eventualmente con

l'invidia delle sorelle (…). Il tema specifico di una fiaba può essere lo sviluppo di un

qualunque particolare motivo archetipico, ed è infinita la varietà di ricami che si

 possono tessere su di un medesimo ordito narrativo.46 

In questo passo si ipotizza dunque uno dei motivi per i quali sentiamo

 più vicine di altre le trame di certe fiabe che, a seconda di come sono

strutturate, richiamano più o meno determinate aree psichiche e,

contemporaneamente, offrono un’espansione del nostro orizzonte

immaginativo in territori che, secondo Bettelheim, sarebbero altrimenti

restati inesplorati:

(...) se fossimo stati abbandonati a noi stessi, i nostri sogni si sarebbero limitati a

immagini di rabbia e di vendetta, a soddisfazioni confinate al ristrettissimo campo

della nostra esperienza. (...)E’ proprio quello che la poesia, l’arte e la letteratura ci

consentono di fare, più avanti negli anni. Ma queste vie d’accesso a un vasto

arricchimento della vita immaginativa (fantastica?)e, allo stesso tempo

dell’esperienza fantastica e della sensibilità, non sono ancora aperte al fanciullo. La

 poesia delle fiabe è quindi per lui l’unico approccio che lo renderà capace di

allargare i confini della sua vita personale e di includere nei suoi fantasmi

 personaggi, peripezie, pericolose avventure concluse felicemente, che mai avrebbe

 potuto inventare da solo.47 

Tramite il gioco “il bambino sperimenta il mondo”48, ricostruisce un

teatro di cui lui è il marionettista, muove i fili dei suoi archetipi

immaginando i possibili effetti dati dalla loro interazione. Potremmo

46“Le fiabe” di Saverio Parise da Carotenuto A., Trattato di Psicologia Analitica – La dimensione

culturale, Torino, Utet, 1992 47  Introduzione di Bettelheim B. da Perrault C. , I racconti di Mamma Oca : le favole di Perrault

 seguite da favole di Madame d' Aulnoy e di Madame Leprince de Beaumont , Milano, Feltrinelli, 197948 Baumgartner E., Il gioco dei bambini, Urbino, Carocci, 2011 

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quindi ipotizzare che la fiaba gli offra un canovaccio su cui muoversi

liberamente, su cui edificare, distruggere e creare di nuovo, in un infinito

gioco in cui il bambino è Dio ed impara le regole della vita prima

sognando e poi vivendo. Il racconto fantastico è un aiutante magico che

corre in soccorso del bambino, fornendogli gli oggetti magici ed i

suggerimenti, sulla base dei quali potrà procedere nel proprio cammino.

E’ qui che la fiaba fornisce al bambino ciò di cui ha maggiormente bisogno: essa

inizia esattamente dove il bambino si trova dal punto di vista emotivo, gli mostra

dove deve andare, e come deve procedere. Ma la fiaba ottiene questo scopo per via

indiretta, sotto forma di materiale fantastico da cui il bambino può attingere quantogli sembra meglio, e mediante immagini che gli facilitano la comprensione di quanto

è essenziale che capisca49 

A questo punto non resta che prepararsi per la partenza, raggiungere

quello che Milena Bernardi chiama “il tappeto dell’altrove, la zona reale

eppure simbolica della narrazione”50, accomodarci ed assistere alle tappe

di questo viaggio. 

49 “Le fiabe e le paure dei bambini” di Bettelheim B. da Poe E.A., Bradbury R.,Kafka F. e altri, a curadi G.Armellini, Il piacere di aver paura: racconti dell’orrore e dell’assurdo, San Giustino (Perugia),La Nuova Italia, 199450  Beseghi E., prefazione di Faeti A.,  Infanzia e racconto: il libro, le figure, la voce, lo sguardo,

Bologna, Bononia University Press, 2008 

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CAPITOLO 1

SELVATICHEZZA 

1.1.Selvatichezza come antisocialità

C’era una volta una cara ragazzina; solo a vederla le volevan tutti bene e

specialmente la nonna, che non sapeva più cosa regalarle. Una volta le regalò un

cappuccetto di velluto rosso, e poiché le donava tanto ch’essa non volle più portare

altro, la chiamarono sempre Cappuccetto Rosso. Un giorno sua madre le disse:“Vieni Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali

alla nonna; è debole e malata e si ristorerà. Mettiti in via prima che faccia troppo

caldo; e, quando sei fuori, va’ da brava, senza uscir di strada; se no, cadi e rompi la

 bottiglia e la nonna resta a mani vuote. E quando entri nella sua stanza, non

dimenticare di dire buongiorno invece di curiosare in tutti gli angoli. “Farò tutto per

 bene” disse Cappuccetto Rosso alla mamma e le diede la mano51.

Ecco dunque l’incipit di una delle più celebri fiabe dei Fratelli Grimm.

Cappuccetto Rosso parte per il suo viaggio verso casa della nonna e,

lungo la strada maestra, incontra un Lupo che la istiga ad ad

abbandonare la via principale:

“Vedi, Cappuccetto Rosso, quanti bei fiori? Perché non ti guardi intorno? Credo che

tu non senta neppure come cantano dolcemente gli uccellini! Te ne vai tuttacontegnosa, come se andassi a scuola, ed è così allegro fuori nel bosco!”.

Cappuccetto Rosso alzò gli occhi e quando vide i raggi di sole danzare attraverso gli

alberi, e tutto intorno pieno di bei fiori, pensò: “Se porto alla nonna un mazzo fresco,

le farà piacere; è tanto presto, che arrivo ancora in tempo”. Dal sentiero corse nel

 bosco in cerca di fiori. E quando ne aveva colto uno, credeva che più in là ce ne fosse

uno più bello e ci correva e si addentrava sempre più nel bosco52.

51 “Cappuccetto Rosso” da Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980 52Ibidem

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Possiamo dunque dire Cappuccetto è un personaggio “selvatico”, poiché

infrange l’ordine costituito? Quando possiamo definire un personaggio

“selvatico”?

La definizione che il dizionario53  offre della parola  selvatichezza è:

“mancanza di socievolezza, carattere ruvido e aspro”.

L’aggettivo  selvatico, riferito ad una persona, vuol poi esprimere

“scontrosità e selvatichezza di carattere, si esclude dai comuni rapporti

umani”; mentre, rapportato ad un’animale, significa “che vive in libertà”,

“contrapposto a domestico” o “di animale domestico scarsamente docile

e mansueto”.

Associando i vari significati fra loro, otteniamo una mescolanza fra i

seguenti concetti: non addomesticato, antisociale, insubordinato, ribelle

ed aggressivo.

Il senso complessivo di significato della parola selvatichezza è dunque

l’incapacità di rispettare le regole del mondo sociale.

Questa incapacità, se portata all’estremo, diventa patologica, e

clinicamente viene definita disturbo antisociale di personalità:

Disturbo caratterizzato dal disprezzo patologico del soggetto per le regole e le leggi

della società, da comportamento impulsivo, dall'incapacità di assumersi

responsabilità e dall'indifferenza nei confronti dei sentimenti altrui. Il dato

 psicodinamico fondamentale è la mancanza del senso di colpa o del rimorso, con la

mancanza di rispetto delle regole sociali e dei sentimenti altrui.54 

Il disturbo antisociale di personalità nasce dall’incapacità del bambino di

“internalizzare i valori e la morale dei genitori e delle norme sociali”55.

Il bambino è in grado unicamente di effettuare delle identificazioni

53 Devoto G., G.C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze, Dizionari Le Monnier, 197154

 Invernizzi G., Bressi C.,  Manuale di Psichiatria e Psicologia Clinica, Milano, McGraw-Hill Italia,200055  Kernberg P.F.,Weiner A.S.,Bardenstein K.K.,  I disturbi di personalità nei bambini e negli

adolescenti, Roma, G.Fioriti, 2001

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adesive, ossia degli atteggiamenti con i quali echeggia ed imita le altre

 persone, senza averne in alcun modo interiorizzato la morale. La

letteratura trabocca di personaggi “selvatici”, la cui selvatichezza, non di

rado, sfiora la patologia.

Analizziamo a tal proposito la fiaba di Carlo Collodi,  Il Principe

amato56 

: un Re, durante una battuta di caccia, incontra la fata Candida

che, colpita dall’animo buono del Sovrano decide di donargli qualsiasi

cosa lui voglia. Il Re domanda quindi alla fata di rendere il proprio

figlio, “il migliore dei Principi” poiché “a che gli servirebbe essere bello,

ricco e padrone di tutti i regni del mondo, se fosse cattivo?”. Il buon Re

muore, e la fata consegna allora al Principe Amato uno speciale anello

correttivo: tutte le volte che il Principe si comporterà male, il gioiello gli

 bucherà il dito. Amato, in un primo momento, tollera la frustrazione data

dalla funzione limitante da parte dell’anello sulle sue azioni, ma infine si

stanca, si libera del monile e inizia a comportarsi in maniera ingiusta

verso il proprio popolo e verso i propri servitori.

Il super io, secondo Freud57, è quell’istanza intrapsichica originata dall’

interiorizzazione dei codici di comportamento e dagli schemi di valore

(bene/male, giusto/sbagliato, buono/cattivo) appresi all’interno della

 propria famiglia e del proprio ambiente sociale.

Il ruolo del super-io è quello di controllare, limitare l’individuo nelle

 proprie manifestazioni che, se non dominate, potrebbero ledere gli altri.

Il sentimento di empatia si sviluppa nelle primissime relazioni del bambino con il mondo esterno, in particolare durante i primi scambi con

la madre o con le figure che si occupano di lui.

Tanto più i bisogni del bambino saranno ascoltati, capiti ed accolti,

quanto più il bambino sarà in grado di sviluppare i medesimi sentimenti

56  Charles Perrault, traduzione di Carlo Collodi, introduzione di Bruno Bettelheim, I racconti diMamma Oca : le favole di Perrault seguite da favole di Madame d' Aulnoy e di Madame Leprince deBeaumont, Milano, Feltrinelli, 197957 Freud S., Freud opere 1917-1923: l’io, l’es e altri scritti, vol. IX, Torino, Bollati Boringhieri, 1989

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nei confronto del mondo.

Ecco dunque che, quando la brutalità di Amato è divenuta ormai

incontrollabile, interviene la fata Candida la quale, come una madre

autorevole ed inflessibile, o forse come un super-io altrettanto rigoroso,

lo trasforma in una bestia che racchiude, nell’aspetto, le sembianze di più

animali:

“Io dunque vi condanno a diventare simile alle bestie, colle quali avete in comune le

inclinazioni. Vi siete reso simile al leone per la collera violenta; al lupo per la

voracità; al serpente straziando colui che vi aveva fatto da secondo padre; al toro per

la vostra brutalità. Nel vostro nuovo aspetto serberete un po’ delle forme e delcarattere di tutti questi animali”.58 

Il Principe Amato, nonostante i rimproveri della Fata, non è stato in

grado di limitare la propria libertà in modo da non nuocere agli altri:

nella fiaba si verifica dunque un avvenimento incredibile, un fatto

iperbolico che sempre potremo trovare nei racconti fantastici. Ad

un’azione sventata segue una conseguenza che spesso pare irreparabile:

Amato diventa una bestia ibrida e, sul momento, pare non vi sia alcuna

 possibilità che il principe, redimendosi, possa tornare sui propri passi.

Questa irreparabilità che a volte troviamo nelle fiabe è, secondo Stephen

King, un escamotage narrativo per porre l’ascoltatore in una situazione

di allarme: “se ti comporterai malamente, il risultato delle tue azioni

 potrebbe essere irreversibile”.

 Nella struttura della maggioranza dei racconti dell’orrore si ritrova un codice morale

così rigido che farebbe sorridere un puritano. Nei vecchi albi “E.C.”, gli adulteri

fanno inevitabilmente una brutta fine, e gli assassini patiscono pene tali che al

confronto la ruota della tortura e lo stivaletto malese sono un giro sulla giostra dei

 bambini. (...) Le moderne storie dell’orrore non sono tanto diverse dalle morality

58 Afanasjev, Grimm, Perrault ed altri, a cura di P.Angelini, C.Codignola, Fiabe sui “ruoli sessuali”:

tredici fiabe tradizionali sulla divisione dei ruoli, Roma, Savelli, 1978

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 plays del quindicesimo, sedicesimo e diciassettesimo secolo. Il più delle volte la

storia dell’orrore non solo sta a chiare lettere per i Dieci Comandamenti, ma li

ingrandisce a caratteri cubitali59.

 Nel mondo fantastico la realtà è guardata attraverso un caleidoscopio:viene distorta, manipolata, ingrandita, diminuita, ma comunque

cambiata. Avere a che fare con materia fantastica permette di giocare

liberamente con i propri fantasmi, trasformare la maestra antipatica in

una strega che mangia i bambini e sentirsi così legittimati quando la si

 butta nel forno. O magari, nell’infinito gioco delle parti che si snoda

all’interno delle fiabe, la strega cannibale è il bambino stesso: il suodesiderio di ottenere tutto quello che vuole quando lo vuole, viene

simbolizzato nel personaggio della megera divoratrice. Nel film The

 Blair Witch Project 60, due ragazzi e una ragazza si addentrano in un

 bosco del Maryland che, secondo le leggende locali, pare sia dominato

dalla potente strega di Blair. I giovani vogliono girare un documentario

sull’argomento, intervistano gli abitanti, filmano i luoghi celebri del bosco, specie quelli nei quali pare si siano svolti episodi sanguinosi nel

corso della storia ma, nel farlo, fanno cadere una struttura di pietra posta

al centro di una radura. Da quel momento in poi non riusciranno più ad

uscire dal bosco: persi in un incanto che pare lo stesso della fiaba  Hansel

e Gretel 61, in cui i fratellini non riescono a trovare la strada di casa e si

imbattono infine nella casa della strega mangia bambini, si perderanno

all’infinito fino all’inevitabile ed angosciante epilogo. In questo film

horror, nel quale viene messa in evidenza la stretta parentela fra questo

genere e la fiaba, nulla di pauroso compare sullo schermo. Il terrore si

intuisce tramite la concitazione dei protagonisti ed i lugubri suoni

notturni del bosco. Il “non vedere” concretizza uno dei massimi timori

59 King S., Danse Macabre, Cles (TN), Edizioni Frassinelli, 198560 The Blair witch project  di Daniel Myrick, Eduardo Sanchez, (USA) 1999 61 Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980

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dell’uomo: l’ansia dell’ignoto, l’angoscioso sentimento verso le cose che

non hanno nome e forma. Il nulla che lo spettatore osserva dall’inizio

alla fine del film – o del non film, come alcuni hanno detto- è un'enorme

tela su cui lo spettatore dipinge il proprio più intimo terrore. Sebbene lo

schermo sia privo di mostri, il pubblico ha potuto disegnare i suoi mostri,

la totalità delle sue paure più recondite. Nelle fiabe tutto è palese, tutto è

mostrato: il male è la strega, l’orco, lupo, personaggi che, anche se

 brutali, offrono la possibilità all’ascoltatore/lettore di identificare il male

in una forma ben precisa. All’angoscia vengono assegnate palesi

sembianze.

Le fiabe con il tema della selvatichezza vogliono quindi affrontare un

nodo focale, comune all’intera umanità: la necessità del bambino, nel

 percorso di crescita, di imparare a controllare e soppesare le proprie

azioni per l’interesse collettivo.

 Non si può descrivere il confine fra ordine collettivo e libertà soggettiva, ma si può

 parlare dell’espressione artistica, che abita su questo confine, e può essere concepitacome viva e mobile traccia, nella quale il soggetto può muoversi per trovare il

 proprio percorso. La parola soggetto contiene due valenze contrapposte: il soggetto è

tale in quanto assoggettato a un ordine, ed è soggetto di una frase, attante soggetto di

una storia, protagonista della propria vita. L’educazione trasmette la necessità

dell’assoggettamento: il soggetto-bambino (...) rifiuta di assoggettarsi. La prigione in

cui si trova confinato diventa lo spazio in cui esprime la propria ribellione...62 

La fiaba è l’espressione artistica della selvatichezza, della ribellione

infantile: qui il confine tra possibile e impossibile viene abbattuto, la

rabbia, l’incomprensione, il rifiuto assumono i caratteri del fantastico.

L’onnipotenza infantile raggiunge il suo apice in queste metamorfosi; ma

a questa fase di rabbia pantoclastica, ne segue una in cui prevale una

62 Antoniazzi A.,Gasparini A.,  Nella stanza dei bambini: tra letteratura per l’infanzia e psicoanalisi,Bologna, CLUEB, 2009

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 posizione depressiva: il bambino sperimenta infatti, una volta raggiunto

il massimo grado della sua ira, un senso di solitudine, di isolamento, di

frustrazione, dati dalla comprensione dei suoi limiti. Questa esperienza

di contenimento da parte degli adulti e di presa di coscienza dei propri

limiti da parte del bambino, è importantissima per lo sviluppo:

Uno stile educativo debole e poco autorevole che evita al figlio il confronto con il

limite, con il dolore della rinuncia ad alcuni desideri, lo mantiene legato gli aspetti

 più immaturi della sua personalità, caratteristici dell'onnipotenza infantile. Se la

realtà si adatta costantemente ai suoi desideri fino a coincidere con essi, egli troverà

“naturale”avere tutto ciò che desidera ed evitare ciò che non gli piace.

63

 

E così il principe Amato diventa una bestia, mentre Max, protagonista

dell’albo illustrato  Nel paese dei mostri selvaggi64

  di Maurice Sendak,

fugge in un mondo popolato da animali ibridi, così come lo è l’animale

in cui si trasforma il Principe Amato.

L’uomo che non rispetta la legge della differenziazione sfida Dio. Creando nuove

combinazioni di forme e di generi egli prende il posto del creatore e diventa un

demiurgo. Si noti che la parola “ibrido” viene dal greco hybris, che significa

violenza, eccesso, cosa estrema, enormità. L’hybris è per i greci, com’è noto, il

 peccato più grande. “E diventereste come Dio”, disse il serpente a Eva (Genesi, III,

5b).

In greco il significato originale di nòmos, la legge, è “ciò che è diviso in parti”.

Perciò il principio di separazione è il fondamento della legge65.

Questo concetto dell’ ibrido lo troviamo espresso anche nel libro di

filastrocche di Tim Burton,  Morte malinconica dei bambini ostrica66  , in

cui tutti gli sfortunati bambini protagonisti sono nati all’insegna

63

 “Presenza o assenza di guida” di Poli O., dal sito http://www.osvaldopoli.com/ 64 Sendak M., Nel Paese dei mostri selvaggi, Verona, Babalibri, 201165 Chasseguet Smirgel J., Creatività e Perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 199066 Burton T., Morte malinconica dei bambini ostrica e altre storie, Venezia, Einaudi, 2001

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dell’ibridismo e del frankensteinismo. Nessuno di loro è interamente

 bambino, ma sono metà bambino e metà qualcos’altro: bambino/ostrica,

 bambino/pinguino, bambino/spazzatura, ecc...

Ten fingers, ten toes,

he had plumbing and sight.

He could hear, he could feel,

 but normal?

 Not quite67.

Sono dei freaks, i loro corpi sono assemblati in maniera caotica, non

rispettano il “principio di separazione”. Il mito di Frankenstein nasce

 proprio da questo fondamento: il corpo della creatura è il risultato della

mescolanza di parti che avrebbero dovuto essere distinte fra loro. Da ciò

nasce il peccato più grande, la sfida del Demiurgo contro il creatore, Dio,

o la Natura. Nell’albo illustrato Che rabbia68

 vediamo un bambino che

tracima ira: sputa dalla bocca la sua rabbia, una palla rossa a metà fra

una nuvola di fumo, una sorta yeti ed un volto dai lineamenti minuti e

dall’espressione feroce: un ibrido, per l’appunto, un incrocio fra vari

imprecisati elementi.

Tutto ciò che il bambino apprende nei primissimi anni, lo apprende

tramite l’esperienza ed il rapporto diretto che intrattiene con il mondo.

 Nel film  Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora Primavera69 di

Kim Ki duk, un bambino che vive con un Monaco in un tempio, gioca

con gli animali che popolano il bosco circostante. Lega una corda, a cui è

attaccata una pietra, al corpo di un pesce, di una rana, e di un serpente e

si diverte a vederli muovere con fatica. Tramite il gioco, sperimenta, e

 prova gioia nel constatarne gli effetti, che non giudica da un punto di

67Ibidem68 D’Allancé M., Che rabbia!, Milano, Babalibri, 2011 69 Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera di Kim Ki-duk (Corea del Sud) 2003

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vista morale, ma da un’angolazione puramente ludica/scientifica in cui

 predomina la curiosità, il piacere della scoperta. Il Monaco, che senza

commentare ha assistito alla scena, durante la notte, lega un grosso

macigno alla schiena del bambino che, svegliandosi la mattina dopo e

soffrendo, si renderà conto solo allora di quello che ha fatto ai tre

animali. Si reca quindi nel Bosco per liberarli, ma il pesce e il serpente

sono morti. Il bambino scoppia in lacrime, perché ora riesce a sentire

quello che sentono gli animali. Vive il loro dolore, è entrato in empatia

con loro. Ovviamente questo episodio del film di Kim Ki duk è

 puramente simbolico, è una parabola, non è da interpretarsi in maniera

letterale: il significato profondo di questa sequenza di immagini è il

 passaggio del bambino da una fase di egocentrismo ed assenza di

empatia, in cui è il Dio del suo Universo e distrugge ciò che lo circonda

senza curarsene, ad una fase in cui diventa consapevole del Bene e del

Male e delle ripercussioni profonde che le sue azioni hanno sul mondo

che lo circonda. Durante la sua sperimentazione ha capito il valore della

vita tramite l’esperienza della morte e del dolore. Kim Ki duk, nel suo

film, affronta i temi Vita/Morte, Gioco/Onnipotenza, Gioia/Dolore,

Sacro/Profano, ma non entra nell’ambito della pedagogia e di come sia

meglio educare un bambino con la convinzione che “la libertà deve avere

come limite l’interesse collettivo”.70  E’ la lezione che Giannino

Stoppani, nel romanzo  Il giornalino di Gianburrasca71, pare non

apprendere mai e, nel corso della storia, provocherà varie offese, anchefisiche, agli altri personaggi. Nonostante non faccia altro che recare

danno agli altri, durante la lettura non possiamo fare a meno di ridere

dell’irriverenza chiassosa che caratterizza questo bambino. Lo stesso ci

viene da fare con Holden72 e con Pinocchio73  i quali, pur essendo degli

70

 Montessori M., La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 197071 Guareschi G./Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, Firenze, Giunti, 1973 72 Salinger J.D., Il giovane Holden, Gli Struzzi, Farigliano (Cuneo), Einaudi Editore, 199973 Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1965

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anti-eroi, ci commuovono e ci divertono per le loro debolezze, che

ricorrono con un’ingenuità ed un candore, tali da impedirci di

condannarli in maniera definitiva.

Giannino, durante il gioco, cerca di riprodurre, in maniera più realistica

 possibile, le trame delle storie che lo hanno maggiormente colpito: una

volta, imitando un illusionista, colpirà l’occhio del futuro cognato con

una freccetta, un’altra improvviserà un circo con i bambini e gli animali

che vivono nella campagna, arrivando a legare una bambina al ramo di

un albero e tingendole il viso per farla somigliare ad una scimmia. In uno

dei passi più divertenti del romanzo, Giannino “abbandonerà” Maria, una

 bambina di nove anni, figlia della sorella di quel disgraziato cognato, già

quasi accecato. Nel suo giornalino, il bambino racconta dunque come si

siano svolti gli eventi:

-Oh, eccoli finalmente!- ha esclamato la mamma vedendomi, con un sospirone di

sollievo. –Dov’è Maria? Dille che venga a pranzo. –Abbiamo fatto il giuoco dello

schiavo,- ho risposto. –Maria deve fingere di essersi smarrita. –E dove si è smarrita?-ha domandato la mamma ridendo. –Oh, è qui vicino, nel viale dei Platani,- ho

continuato mettendomi a tavola a sedere. Ma il babbo, la mamma, la signora Merope

e l’avvocato Maralli sono scattati in piedi, come se la casa fosse stata colpita da un

fulmine, mentre invece tonava appena appena. –Dici sul serio?- mi ha domandato il

 babbo, stringendomi forte il braccio e imponendo agli altri di mettersi a sedere. –Sì,

abbiamo fatto quel giuoco del signore e dello schiavo. Per questo ho dovuto

travestirla da mulatto; e io che facevo il padrone che l’abbandonava l’ho lasciata solalaggiù; poi viene la fata, che la conduce in un palazzo incantato, e lei diventa, non si

sa come, la più potente regina della terra.- (...) –Brutto! Cattivo! Scellerato!- ha

esclamato Virginia, strappandomi di mano i biscotti che stavo per mangiare. –Non la

finisci mai con le birbonate? Che coraggio hai avuto di venire in casa e di lasciare

quell’angiolo caro, laggiù, sola, al freddo e al buio? Ma cosa ti viene fuori dalla

tasca?-. –Oh nulla, sono i capelli di Maria. Glieli ho dovuti tagliare perché non fosse

riconosciuta. Non ho detto che l’ho travestita da mulatto, con i capelli corti e la

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faccia nera?- 74.

Per quanto Il giornalino di Gian Burrasca75

 sia pervaso da una profonda

ironia, dai racconti del bambino è possibile notare un modello educativo

fondato sull’autoritarismo, a cui costantemente Giannino si oppone in

nome della libertà, valore massimo appreso proprio da quegli adulti che

ora, presi da un’irrefrenabile ira, sono pronti contraddirlo con le loro

azioni, volte ad educare il bambino con l’utilizzo di ben poche parole:

Fui cacciato in camera come un cane, e il babbo mi disse che sarebbe venuto su per

conciarmi per il dì delle feste. So purtroppo quel che vogliono dire queste minacce  

(...). Il babbo mi ha chiuso qui dentro, dicendomi una filza di parolacce, in mezzo alle

quali invece delle virgole ci ha messo tanti calci così forti, che bisogna che stia a

sedere su una parte sola e cambiando parte ogni cinque minuti... Bel modo di

correggere i ragazzi che son perseguitati dalla disgrazia e dalle circostanze

impreviste!...76 

L’educazione di Giannino pare quindi essere impostata sempre e solosulla legge del più forte. E così Giannino, come in un girone dantesco,

ripete all’infinito gli stessi errori, e non riesce a correggersi mai perché è

vittima di un sistema educativo confuso, in cui nulla viene spiegato, ma

solo commentato con la violenza. Difatti il bambino, all’ira cieca del

 padre, reagisce con l’intraprendenza che lo contraddistingue, e si arma

come di fronte ad una guerra:

Ma io feci le barricate, come nelle città in tempo di guerra, e non mi prenderanno che

sulle rovine del lavamano e del tavolino da scrivere che ho messo contro l’uscio. (...)

All’uscio di camera mia non ci sono più stati assalti. In ogni modo io ho deciso di

resistere. Ho rinforzato la barricata e ho messo insieme anche una discreta quantità di

 provvigioni procuratemi da Caterina per mezzo d’un panierino che ho calato dalla

74 Guareschi G./Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, Firenze, Giunti, 197375 Ibidem76 Ibidem p.26 

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finestra del giardino(...)77 

Che cosa possiamo dunque dedurre dalla lettura di questi passi del libro

di Guareschi? E’ in atto un braccio di ferro fra padre e figlio, che si

traduce in una vera e propria guerra fatta di barricate e provvigioni.

Dopo un po’ si perde il fulcro del conflitto, spazzato via dalla fiera difesa

che il bambino attua sulla sua camera, a fronte agli assalti del padre, che

 brama solo di poterlo bastonare per sfogare la propria collera. E infatti,

una volta che la rabbia è sciolta, gli episodi passano in cavalleria.

Restano solo le raccomandazioni: “sii buono, non devi più essere

cattivo”. Giannino, in questo modo, non comprenderà mai cosa ci sia

stato di male nell’abbandonare Maria in via dei Platani e nel tagliarle i

capelli per travestirla da “mulatto”. Giannino, come tutti i bambini,

tramite il gioco ha voglia di sperimentare. Ma non sa mai fin dove può

arrivare, a che punto deve fermarsi. Maria Montessori dice nella sua

opera:

Se un atto educativo sarà efficace, potrà essere solo quello tendente ad aiutare il

completo dispiegamento della vita, per far questo è necessario evitare rigorosamente

l’arresto di movimenti spontanei e l’imposizione di atti per opera di altrui volontà, a

meno che non si tratti di azioni inutili e dannose, perché queste devono  essere

soffocate, distrutte. Quando le maestre furono stanche delle mie osservazioni,

cominciarono a lasciar fare ai bambini tutto quello che volevano: ne vidi coi piedi sul

tavolino, con le dita nel naso, senza che le maestre intervenissero a correggerli; nevidi alcuni dare spinte ai compagni, assumere nel volto un’espressione di violenza

senza che la maestra facesse la più piccola osservazione. Allora dovetti intervenire

 pazientemente per far vedere con quale assoluto rigore, occorre impedire e a poco

 poco soffocare tutti gli atti che non devono compiersi, affinché il bambino abbia un

chiaro discernimento fra il Bene ed il Male.78 

77 Ibidem p.2678 Montessori M., La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1970

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Vi è quindi un pensiero volto all’approvazione della sperimentazione da

 parte del bambino, il quale non deve essere soffocato e represso

dall’azione educativa, ma contenuto.

Molte fiabe mettono in scena esattamente questo schema: il protagonista,

 per inesperienza, per tracotanza, per avversità, non ha ancora trovato una

sua collocazione identitaria e vive un conflitto con il mondo sociale. Il

suo super io non è del tutto sviluppato e questo può portarlo a situazioni

spiacevoli.  Pinocchio79

  di Collodi ne è un emblema: Pinocchio nasce

dalle mani di un burattinaio, che nella metafora teatrale/esistenziale

rappresenta un Padre/Dio/Creatore: lo scolpisce nel legno, materiale

duro, difficile da modellare. Pinocchio è testardo, duro come il materiale

di cui è composto: non ascolta, non ubbidisce, si ribella all’ordine delle

cose. Nel corso del suo viaggio, durante il quale tenterà costantemente di

ritrovare il padre e tornare a casa, Pinocchio si perderà continuamente,

spesso proprio quando pochi passi lo dividono da quel tanto agognato

traguardo. Nel corso delle sue peregrinazioni sarà in costante conflitto

con il mondo sociale, che nel libro viene rappresentato da uomini, ma

anche da numerosi animali antropomorfi. Il burattino saprà alla fine

trarre da ogni incontro -scontro-, un insegnamento diverso. Ogni

 personaggio è ricollegabile ad un attributo caratteriale: il Grillo

simboleggia la saggezza, il Gatto e la Volpe la disonestà, ma anche la

furia assassina pur di raggiungere i loro scopi, Mangiafoco

l’autoritarismo che sa però lasciar posto alla compassione, Lucignolol’accidia e il vizio, ecc... Anche il viaggio di Holden Caufield attraverso

 New York può essere metaforicamente interpretato come il viaggio di

Pinocchio: Holden abbandona il College, dopo essere stato per

l’ennesima volta espulso a causa del suo pessimo rendimento scolastico.

 Non vuole confessare il proprio insuccesso ai genitori e non può perciò

79 Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1965

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 presentarsi a casa prima dell’inizio delle feste natalizie. Rientra

comunque in città, ma decide di passare in albergo i tre giorni precedenti

all’inizio delle vacanze. In questo lasso di tempo Holden vagherà per

 New York, passando dai locali notturni ai luoghi più amati della sua

infanzia, conoscendo persone nuove e incontrandone altre appartenenti

al proprio passato: questo viaggio attraverso la metropoli, la gente, i

luoghi, è per Holden un percorso prima di tutto interiore, durante il quale

avrà modo di riflettere sul proprio passato e sui motivi che l’hanno

condotto fino alla situazione attuale. La morte del fratello Allie,

l’assenza dei genitori, l’allontanamento fra lui e la vecchia Jane, amica,

ma anche amore platonico. Il viaggio è un tragitto che il protagonista non

compie solo fisicamente, ma specialmente mentalmente, e qui i luoghi e

le persone rappresentano prima di tutto un sentimento. Pinocchio

compie un cammino di espiazione: viene messo di fronte alle sue

debolezze in maniera brutale, impara sbagliando e soffrendo per gli

errori commessi. La sofferenza, in entrambi questi libri, viene messa in

risalto: Pinocchio piange e si tormenta per le occasioni perse, per quelle

situazioni nelle quali non ha saputo scegliere in maniera corretta per il

suo bene e per quello degli altri e che lo hanno così allontanato dal padre

Geppetto o dalla sua mamma/sorella maggiore, la fata Turchina.

O fatina mia perché sei morta? Perché, invece di te, non sono morto io, che sono

tanto cattivo mentre tu eri tanto buona? E il mio babbo, dove sarà? O fatina mia,dimmi dove posso trovarlo, che voglio stare sempre con lui, e non lasciarlo più, più,

 più! O fatina mia, dimmi che non è vero che sei morta! Se davvero mi vuoi bene, se

vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci, ritorna viva come prima! Non ti dispiace a

vedermi solo e abbandonato da tutti? Se arriveranno gli assassini, mi attaccheranno

daccapo al ramo dell’albero e allora morirò per sempre. Che vuoi che io faccia qui,

solo in questo mondo? Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da

mangiare? Dove anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh,

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sarebbe meglio, cento volte meglio, che morissi anch’io, si voglio morire!80 

In questo monologo Pinocchio si strugge per aver perso i propri cari, ma

il suo struggimento è tuttavia a tratti comico, poiché molto auto-centrato.

Il suo pensiero è infatti rivolto, più che alle ferite che ha provocato agli

altri, al rimpianto per la perdita delle cure per se stesso: “chi mi darà da

mangiare?”, “dove dormirò la notte?”, “chi mi farà la giacchettina

nuova?”. Questa sfumatura ironica è perfettamente trasmessa

dall’interpretazione di Carmelo Bene di Pinocchio nelle piece teatrale

radiofonica Pinocchio81.

Uno stesso sentimento di struggente malinconia. ma anche di

autocommiserazione pinocchiesca, pervade anche Il giovane Holden82, in

cui, ad un certo punto, il protagonista ripensa ad un giorno in cui, senza

un vero motivo, ha negato al fratellino Allie, la possibilità di partecipare

ad una gita a cui si stavano per recare lui ed un amico.

Dopo che la vecchia Sunny se n’era andata, restai per un poco seduto nella poltrona afumare un paio di sigarette. Fuori faceva giorno. Ragazzi, come mi sentivo infelice.

Mi sentivo così depresso che non potete immaginarvelo. Andò a finire che mi misi a

 parlare ad Allie, ad alta voce o quasi. Qualche volta lo faccio, quando sono molto

giù. Continuo a dirgli di andare a casa a prendere la bicicletta e di trovarsi davanti

alla casa di Bobby Fallon. Bobby Fallon abitava proprio vicino a noi, nel Maine -

questo, anni fa. Ad ogni modo, successe che un giorno Bobby ed io dovevamo

andare in biciletta al Lago Sedebego. Dovevamo portarci la colazione e tutto quanto,e i nostri fucili ad aria compressa. Ad ogni modo, Allie sentì che ne parlavamo e

voleva venire anche lui, e io non volli. Gli dissi che era un bambino. E ogni tanto,

ora, quando mi sento molto depresso, gli dico: “D’accordo. Va’ a casa a prendere la

 bicicletta e troviamoci davanti alla casa di Bobby. Spicciati”. Non è mica che non lo

 portassi mai con me, quando andavo in qualche posto, Al contrario. Ma quel giorno

80

 Ibidem p.29 81 C.Bene, Pinocchio: due parti dal romanzo omonimo di Carlo Lorenzini Collodi, Il teatro alla Radio,Radio3, 1974 82 Salinger J.D., Il giovane Holden, Gli Struzzi, Farigliano (Cuneo), Einaudi Editore, 1999 

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non lo portai. Lui non si arrabbiò mica –non si arrabbiava mai di niente- ma io

continuo a pensarci, quando mi sento molto giù.83 

Anche Giannino Stoppani, detto Gian Burrasca, durante le sue

avventure/sventure si rammarica frequentemente dell’avversa sorte che

lo perseguita, anche se spesso è lui stesso la causa dei suoi continui guai:

Ah, giornalino mio, come son nato disgraziato! E quel che mi è successo finora non è

niente, perché c’è il caso che io finisca in galera, come mi è stato predetto da più

d’uno e, tra gli altri, dalla zia Bettina...84 

E’ anche vero, però, che se Holden, Pinocchio e Giannino hanno

difficoltà a muoversi nel mondo, non è solo a causa della loro

selvatichezza, o antisocialità, ma la responsabilità è anche in parte da

additare ai cosidetti “cattivi maestri”.

1.2.Selvatichezza in una società antisociale

Gli adulti, nel Giornalino di Gian Burrasca, contraddicono

continuamente gli insegnamenti da loro impartiti con tanta dovizia.

Bianca Pitzorno, in un passo del suo libro, fa un’accurata descrizione del

talento contraddittorio di cui, anche secondo la sua opinione, sono dotati

davvero molti adulti:

La coscienza del mio io, la possibilità di interpretare il mondo, la scelta etica come

giudizio delle cose e volontà di essere in un modo piuttosto che in un altro, le devo

esclusivamente ai libri. A quei libri. Devo a loro la mia sete di giustizia e i due

sentimenti forti che hanno sempre guidato (e tormentato) la mia vita: la rabbia e

l’indignazione. Rabbia per le ingiustizie che io stessa pativo, indignazione per le

ingiustizie che non mi riguardavano, ma che vedevo patire da altri.

83 Ibidem84 Guareschi G./Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, Firenze, Giunti, 1973 

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Gli operatori di ingiustizia erano quelli più forti fisicamente, quelli che avevano

 potere su di noi, e dunque qualche volta i ragazzi più grandi, ma nella maggior parte

dei casi gli adulti. Se ripenso a me stessa in quegli anni, mi torna subito alla mente

l’acuta consapevolezza della mia poca forza fisica in confronto a quella dei giganti

da cui dipendevo per ogni cosa e il fortissimo, bruciante, sentimento di impotenza. Non perché i fatti della mia vita fossero particolarmente infelici, o che gli adulti che

mi circondavano fossero degli aguzzini simili ai direttori di ospizi dickensiani, ché

anzi sono cresciuta in una situazione privilegiata sia dal punto di vista economico che

da quello affettivo. Ma perché, anche e soprattutto grazie ai libri, ero consapevole del

mio valore (e di quello dei miei piccoli coetanei) come persona, come individuo; e

della incolmabile disparità di forza, fisica, emotiva, economica, che i metteva

inesorabilmente alla mercé dei grandi. I quali non erano tenuti a rispettare nei nostriconfronti alcuna legge, ma agivano, anche i meglio intenzionati, secondo il loro

arbitrio e capriccio.

“Perché?”

“Perché sì!?”

“Cosa credi Qui comando io!”

E poi fossero stati almeno conseguenti! Invece tutti gli adulti che conoscevo, senza

esclusione, affermavano a voce un sistema di norme e di valori dei quali esigevano

da noi il rispetto, ma erano i primi a violarli, quando di nascosto e quando con allegra

noncuranza.

Ricordo la mia indignazione davanti alle promesse non mantenute, ai patti infranti

con una risata. Alla raccomandazione: “Non bisogna mai dire bugie” subito seguita,

allo squillo fastidioso del telefono, dall’invito: “rispondi tu e dì che non ci sono”.

E la religione, apparentemente presentata come qualcosa da prendere molto sul serio,

ma poi... “Non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te”, per

esempio. Avrebbero voluto, loro, essere sculacciati o derisi con sarcasmo, costretti a

mangiare cibi ripugnanti, essere spediti a letto nel momento più bello del gioco,

essere abbigliati in modo ridicolo, costretti a fare amicizia con bambini odiosi solo

 perché figli dei loro amici?85 

Giannino difatti dice:

85  Pitzorno B., Storia delle mie storie: miti, forme, idee della letteratura per ragazzi, Milano, IlSaggiatore, 2006

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 Non c’è altro scampo, per me, che quello di scappar di casa prima che i miei genitori

e le mie sorelle si sveglino. Così impareranno che i ragazzi si devono correggere ma

senza adoprare il bastone, perché, come ci insegna la storia dove racconta le crudeltà

degli Austriaci contro i nostri più grandi patriotti quando cospiravano per la libertà, il

 bastone può straziare la carne ma non cancellare l’idea86

.

Giannino è un rivoluzionario e porta avanti l’idea di una rivoluzione

squisitamente infantile, in cui tutti i bambini si uniscono e, al di là delle

 bastonate inferte dai padri, portano avanti un’idea. Questa rivoluzione, in

cui il mondo adulto è avvertito come ostile e confuso, in cui i modelli

sono sbiaditi, può portare ad un blocco evolutivo. E’ il caso di Holden

che, in maniera palese, cerca delle guide alle quali aggrapparsi. Durante i

tre giorni che passa da solo a New York, cerca, per incontrarle, persone

che hanno attraversato la sua vita, e si presenta a quegli appuntamenti

desideroso di cogliere nelle parole dell’altro una qualche soluzione, una

qualche verità che possa portare chiarezza nella sua esistenza. Verso la

fine del romanzo Holden va a trovare il professor Antolini, il quale si

lancia in un’assurda orazione, sulla “taglia della mente” e sui pensieri

selezionabili e de-selezionabili.

Gli studi accademici ti renderanno un altro servigio. Se li prosegui per parecchio

tempo, cominceranno a farti capire che taglia di mente hai. Che cosa le va bene e,

forse, che cosa non le va bene. Dopo un poco, comincerai a capire a che specie di

 pensieri dovrebbe attenersi la tua particolare taglia di mente. Per dirne una, questo può farti risparmiare tutto il tempo che perderesti a provarti idee che non ti si

addicono87.

Che questa insicurezza di Holden sia dovuta all’assenza genitoriale, alla

morte del fratello, o ad entrambe le cose, non ci è dato di saperlo con

certezza: ma intuiamo che una matassa interiore l’ha bloccato e non gli

86 Guareschi G./Vamba, Il giornalino di Gian Burrasca, Firenze, Giunti, 1973 87 Salinger J.D., Il giovane Holden, Gli Struzzi, Farigliano (Cuneo), Einaudi Editore, 1999

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consente di andare avanti. La medesima difficoltà la vivono i bambini

del romanzo di Stephen King,  IT, i quali per poter portare avanti le loro

vite dovranno fare i conti con il loro passato. Bill Denbrough, uno dei

 protagonisti, si domanda:

Quanto di noi è rimasto indietro, è rimasto quaggiù? pensò mentre sentiva crescere

dentro di sé il terrore. Quanto di noi non ha mai lasciato i canali di scolo e le fogne

dove It viveva... e dove It si nutriva? E’ per questo che abbiamo dimenticato? Perché

una parte di ciascuno di noi non ha mai avuto un futuro, non è mai cresciuta, non ha

mai lasciato Derry? E’ per questo?88 

I ragazzini protagonisti di  IT 89  costituiscono un insieme di caratteri

emblematici nella definizione della  selvatichezza. Ognuno di loro è un

emarginato sociale e il loro legame di amicizia ha come base il comune

sentimento di isolamento. Insieme fonderanno un gruppo da loro

ironicamente denominato “Club dei Perdenti”. Questa emarginazione

non nasce da comportamenti antisociali, assunti invece diversi coetanei

che li perseguitano, bensì da un eccesso di sensibilità e di creatività.

Difatti, una volta diventati adulti, i “Perdenti” diventeranno “Vincenti”:

tutti loro, quando si rincontrano hanno una posizione sociale eminente.

Ma, nel loro cuore, conservano ancora quella parte fragile, mai accolta,

mai compresa, di ragazzino perdente.

Bill Denbrough è balbuziente: dopo la morte del fratello Georgie la sua

 balbuzie è peggiorata, acuendo i conflitti con il mondo esterno. I

genitori, annientati dal lutto, sono nei suoi confronti del tutto assenti.

Diventerà uno scrittore.

Ben Hanscom è un ragazzo obeso, orfano di padre. Ama leggere e

 progettare costruzioni. Sarà infatti lui, durante l’estate, a costruire la diga

88 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 199289 Ibidem

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ai Barren con l’aiuto degli amici Perdenti. Diventerà un ingegnere.

Beverly Marsh viene costantemente picchiata da un padre prevaricatore e

violento. Diventerà una modista.

Eddie Krasbrack è represso da una madre accentratrice, la quale

vorrebbe che il figlio non crescesse e si emancipasse mai, tanto che gli fa

credere di essere asmatico, anche se in realtà non lo è affatto. Diventerà

il responsabile di una ditta di trasporti.

Richie Tozier è un bambino irlandese dagli occhiali con la montatura

troppo grossa e sempre rattoppata da un pezzo di scotch. Fra tutti è

quello che di più, per insicurezza, ha sviluppato un’incredibile talento

oratorio ed imitativo. Diventerà un dj.

Stan Uris è l’“ebreo”. Diventerà un commercialista.

Mike Hanlon è il “negro”. E’ l’unico che non si sposterà mai da Derry.

Rappresenta la memoria del gruppo, il loro contatto con il passato e,

difatti, lavora nel luogo che per eccellenza preserva la memoria del

mondo: la biblioteca.

La selvatichezza può dunque rappresentare, all’interno della trama, il

conflitto fra l’individuo e il mondo, in cui l’individuo, nel percorso di

crescita, patteggia con la società le regole secondo le quali debba

comportarsi per non nuocere né a se stesso, né agli altri.

Ma non sempre la “selvatichezza” nasce da un comportamento

antisociale. Spesso è la società ad essere antisociale e la giustizia non

risiede dalla parte del mondo, ma dalla parte del protagonista. E’ il casodi  It 

90 , in cui i bambini sono vittime innocenti degli adulti che si

dovrebbero prendere cura di loro; e sono vittime anche dei coetanei,

vittime a loro volta delle prevaricazioni subite nel proprio contesto

familiare e che, di rimando, hanno sviluppato un comportamento

aggressivo. Gli errori dei padri vengono così trasmessi di generazione in

90 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992

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generazione e creano un’inarrestabile spirale di violenza.  It, la creatura

assassina protagonista del libro, ri-compare nel 1958, quando i bambini

 protagonisti hanno unidici anni. Durante l’estate della loro pre-

adolescenza, i Perdenti si troveranno costretti ad affrontare quel Male

Oscuro che infesta la loro cittadina, Derry, e che miete vittime senza

tregua. It non ha sembianze definite. Il pronome in terza persona

singolare, che tradotto in italiano significa “Esso”, ne accentua

l’indefinitezza. “It”, in inglese, è un pronome che si riferisce a cose ed

animali; è un sostituente, la sua funzione è quindi quella di definire

qualcosa, qualcosa che però, in questo caso, non verrà mai definito.

L’aspetto di It, infatti, cambia continuamente e, proprio come la strega di

Blair, è un telone nero sul quale vengono proiettate le paure più intime

dei protagonisti. A volte è un Clown, altre un Ragno, altre ancora un

Lupo Mannaro. It vive nelle fogne della città e, anche da questo indizio,

 possiamo ravvisare il suo carattere simbolico: rappresenta l’inconscio, il

rimosso, i sentimenti più malvagi e reconditi che vengono spinti

sottoterra ma che, in modo o nell’altro, tornano a galla. It, come da

tradizione fiabesca, è un’entità che si concentra su una fascia ben

definita di vittime: i bambini. Sorge allora spontaneo domandarsi come

mai nelle fiabe, ma anche nella letteratura per ragazzi, la figura del

mangia-bambini, che sia Orco, Strega, Lupo o Forma Indefinita, come è

il caso di It, sia così ricorrente. Secondo Freud lo spostamento di un

conflitto su un oggetto fobico è una soluzione comune nell’infanzia.Parlando della fobia di Hans nei confronti dei cavalli, Freud così scrive:

L’odio derivante dalla rivalità per la madre non può espandersi liberamente nella vita

 psichica del bambino, deve lottare contro la tenerezza e l’ammirazione da sempre

esistenti per la stessa persona che è oggetto di odio, il bambino si trova in un

atteggiamento emotivo ambiguo, ambivalente nei confronti del padre e in questo

conflitto di ambivalenza si procura un sollievo spostando i suoi sentimenti di ostilità

e di paura su un surrogato della figura paterna. (…) Il conflitto prosegue piuttosto

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sull’oggetto di spostamento, l’ambivalenza invade questo oggetto. È innegabile che il

 piccolo Hans provi non soltanto paura, ma anche rispetto ed interesse per i cavalli.

 Non appena la sua paura si è attenuata, egli stesso si identifica con l’animale prima

temuto. Galoppa come un cavallo e morde a sua volta il padre. In questo stadio della

risoluzione della fobia non esita a identificare i genitori con altri grossi animali.91

 

Ed ancora Melanie Kleine, parlando questa volta dell’ “edipo femminile”

scrive:

La bambina piccola ha un desiderio sadico, che si origina nei primi stadi del

complesso di Edipo, di depredare il corpo della madre di ciò che contiene, cioè il

 pene paterno, delle feci, dei bambini, e di distruggere la madre stessa. Questo

desiderio fa nascere nella bambina l’angoscia che la madre la depredi a sua volta di

quanto è contenuto nel suo corpo (specialmente bambini) e che distrugga o mutili il

corpo.92 

I bambini di It 93 stanno quindi spostando un conflitto interiore su quella

creatura che imperversa e distrugge la loro cittadina? Forse It non è altro

che la concretizzazione della loro rabbia, così sapientemente contenuta e

repressa ma che, presto o tardi riemerge. Quando Beverly, da adulta,

torna nella casa della propria infanzia, trova che vi abita, invece del

 padre, una graziosa vecchina, che d’un tratto si trasforma però in

un’orribile strega.

“Tutti ti stiamo aspettando!” strillò la Strega e le sue unghie si affondarono nella

superficie lucida del tavolo di cioccolato. “Oh, sì! Oh, sì!”.

Le bocce di vetro che contenevano le lampadine appese al soffitto erano enormi

caramelle. Il battiscopa era di pasta dolce caramellata. Abbassò gli occhi e vide che

le sue scarpe lasciavano impronte nel parquet, che non era fatto di legno, bensì di

91 Freud S., Freud opere 1912-1914; totem e tabù e altri scritti, vol.VII, Torino, Bollati Boringhieri,

198992 “Situazioni d’angoscia infantile espresse in un’opera musicale e nel racconto di un impeto creativo”di Melanie Klein in Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 200193 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992

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tavolette di cioccolata. L’odore dei dolciumi era nauseante.

Oh Dio, è la storia di Hansel e Gretel, è la strega che mi terrorizzava sempre perché

mangiava i bambini.

“Tu e i tuoi amici!” strillò ridendo la Strega. “Tu e i tuoi amici! Nella gabbia! Nella

gabbia mentre si scalda il forno!”. (...) Si voltò di scatto facendo ondeggiare la lungachioma di capelli rossi e vide suo padre che veniva barcollando verso di lei per il

corridoio, nel vestito nero della strega, con il suo cammeo a teschio.94 

 Nel brano citato vediamo dunque riemergere violentemente i terrori

infantili. It questa volta ha preso le sembianze della strega della fiaba

 Hansel e Gretel 95

: una strega divoratrice di bambini che li attira nella sua

tela facendo perno sulla loro golosità. Ma la Strega nasconde in realtà

una paura ancora più grande: il terrore di quel padre, amato tanto quanto

odiato da Beverly. Il gioco delle parti si espande e diventa infinito: da

vittima a carnefice, da fantasia a realtà, da strega a bambino, da bambino

ad orco, da orco a padre tiranno.

I Perdenti crescono, diventano adulti, ognuno di loro ha ottenuto

successo professionale ma, del loro gruppo, non vi è stato componente

che sia riuscito a trovare stabilità emotiva nella coppia. E nessuno di loro

ha avuto bambini: nessuno da figlio è riuscito a passare al ruolo di

genitore. Nel finale di  Peter Pan96 

 vediamo come questo passaggio sia

fondamentale per conclamare l’avvenuta maturità.

E mentre guardate Wendy, potete vedere i suoi capelli diventare bianchi, e lei farsi dinuovo piccina, perché tutto questo accadde molto tempo fa. Ora anche Jane è una

donna qualunque, con una figlia che si chiama Margherita: e ogni primavera, meno

quando se ne dimentica, Peter viene a prendere Margherita per condurla al Paese-

che-non-c’è, dove lei gli racconta ciò che sa di lui, e lui ascolta seriamente. Quando

Margherita crescerà avrà una figlia, che sarà a sua volta la mamma di Peter; e così

94 Ibidem p.3895 Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 198096 Barrie J.M., Peter Pan, Milano, I Cristalli, Fabbri Editori, 1984

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via, per sempre, fin che i ragazzi saranno allegri, innocenti e senza cuore.97 

I Perdenti sono cresciuti, diventando all’apparenza vincenti, ma nel loro

intimo restano i bambini insicuri ed emarginati di sempre. I più hanno

fatto delle scelte obbligate, date proprio da questa non crescita, da questo

mancato superamento dei traumi dell’infanzia.

Beverly ha sposato un uomo violento, così come era violento il padre.

Bill ha sposato una donna il cui aspetto ricorda incredibilmente Beverly,

il suo primo amore, e continua a sublimare gli orrori dell’infanzia

scrivendone nei suoi romanzi.

Eddie ha sposato una donna obesa ed oppressiva proprio come lo era la

madre. Non tutti usciranno indenni da questo tuffo nel passato. Alice

Miller scrive:

Per sopravvivere ad un ambiente ostile, il bambino deve quindi reprimere la sua

rabbia. Deve reprimere anche le sensazioni di un dolore violento, sopraffattore: per

non morirne. E così, su questa intera situazione, cala il silenzio dell’oblio e i genitori

vengono idealizzati: non hanno mai commesso degli errori. “E se mi hanno

 picchiato, vuol dire che lo meritavo”: è questa la versione corrente dei traumi cui si è

sopravvissuti. Oblio e rimozione sarebbero una soluzione accettabile se tutto finisse

lì. Ma le sofferenze rimosse paralizzano la sensibilità e provocano l’insorgere d’una

sintomatologia fisica. E –quel che è peggio- i risentimenti del bambino maltrattato,

zittiti nel momento in cui erano fondati, e cioè nel rapporto con i genitori che erano

la causa della sofferenza, tornano a manifestarsi nei confronti dei figli.98 

I Perdenti, per sopravvivere, hanno dovuto reprimere quella profonda

rabbia che albergava in loro, far sprofondare nell’oblio l’intensa estate

del 1958 e nascondere il cadavere di It nelle fogne della loro città natale.

Però, preda di un misterioso incantamento, non sono riusciti ad avere dei

97 Ibidem98  Miller A., L’infanzia rimossa: dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio dellasocietà, Milano, Garzanti Elefanti, 1999

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 bambini, anche se nessuno di loro è sterile. Forse quella lucidità nei

confronti del loro comune trauma, che li porta a riconoscerlo così

nitidamente, ma allo stesso modo, per mere questioni di sopravvivenza,

ad insabbiarlo, è la causa dell’impossibilità di ricreare un nucleo

familiare finché ogni cosa non venga risolta e i conti con il passato siano

definitivamente chiusi.

1.3.Selvatichezza e Natura

Così come i Perdenti, per alleviare il proprio senso di isolamento,

stringono fra loro amicizia e creano un gruppo, così fanno un altro

gruppo di ragazzini, che compongono la ghenga di Gigino Pestifero. Il

tono di questo racconto, rispetto ad  It 99 , è di tutt’altro genere: le

avventure dei bambini sono tratteggiate con molta ironia e leggerezza,

nonostante tutti loro vivano una condizione di trascuratezza da parte

delle proprie famiglie.

La madre e il padre di Gigino lavoravano dalla parte opposta della città: partivano da

casa al mattino presto e tornavano la sera. Gigino viveva, quindi, abbandonato a sè e,

quando la scuola non lo teneva occupato, la sua casa era la strada.

Detto questo si capisce benissimo la ragione che aveva indotto Gigino e i suoi soci a

riunirsi in ghenga. Ed è, poi, la stessa ragione che spinge tanti ragazzi a formare quei

“gruppi” che, se spesso rimangono tali, molte volte, purtroppo, si trasformano in

 piccole bande di teppistelli.

Le famiglie, rispetto ad  It 100, sono assenti a causa del lavoro, ma non

sono violente fisicamente/psicologicamente verso i figli. La motivazione

di questa assenza è il lavoro, che prosciuga gli adulti, li rende schiavi e

impossibilitati ad esserci, più che per scelta, per obbligo. I bambini si

99 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992100 Ibidem

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trovano allora soli e:

(...)come nei grandi allevamenti di polli i pulcini, nati dall’incubatrice, si

raggruppano sotto lampade elettriche speciali che emanano un dolce tepore come la

chioccia, ma sono soltanto vetro e filamento metallico.(...) La piccola Ghenga di

Gigino Pestifero, volevo dire, si era formata perché si trattava di ragazzi troppo soli

che sentivano il bisogno di stare vicini per scaldarsi il cuore.

Il vero nemico contro cui la Ghenga si trova a combattere non sono gli

adulti o i coetanei prevaricatori, ma l’industrializzazione.

(...) la grande città industriale la dovete cercare alla periferia, dove niente ricorda il

 passato, dove l’asfalto e il cemento hanno coperto i prati verdi e i canali sulle rive dei

quali, trent’anni fa, le lavandaie risciacquavano il bucato. (...) Dovete cercarla nei

nuovissimi quartieri, nelle strade ampie e diritte, senza un albero, senza un’ombra,

costeggiate da due alte muraglie annerite dal fumo, o meglio: colate di cemento che

sembrano muraglie e invece sono smisurati casamenti appiccicati l’uno all’altro.

Strade dove la terra trema perennemente, giorno e notte, per l’ininterrotto passaggio

di pesanti autocarri, di vetture, di motociclette, di autobus, di tram. Qui d’inverno, il

vento gelido soffia d’infilzata, senza trovare ostacoli o ristagna in una nebbia gialla,

densa, impenetrabile che puzza di stazione ferroviaria. Qui, d’estate, il sole picchia

feroce, spietato e arroventa il cemento delle case e fa bollire l’asfalto. E l’aria, non

solo scotta e sa di fumo e di acidi, ma è umida e appiccicosa sì che appena esce dal

 bagno, uno si sente più sporco di prima101.

Il panorama malato e ammalante, prosciuga ogni impulso vitale nei

 protagonisti:

La ghenga non era più che l’ombra di se stessa: l’afa terrificante di quei giorni aveva

fisicamente e spiritualmente prostrati il reparto maschile e il reparto femminile. In

quanto al reparto speciale degli ultra minorenni, era praticamente distrutto perché

101 G.Guareschi/Vamba, La calda estate di Gigino il Pestifero, Bologna, Editoriale il Borgo Bologna,1967

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Pio-Pio aveva perso il sonno e l’appetito e riusciva a malapena a reggersi in piedi.102 

La ghenga è oppressa dal peso di un mondo iper-industrializzato, in i

ritmi naturali dell’uomo sono costantemente violentati. E così Gigino e il

suo braccio destro, Asdrubale, partono a bordo del motorino chiamato“Leopardo”, per cercare un luogo in mezzo alla natura nel quale la

ghenga potrà accamparsi durante l’estate. Vagando per la provincia,

giungono ad una strada su cui il transito è interrotto: superandola

arrivano ad un ponte crollato. I due ragazzi attraversano il fiume e si

incamminano per il Bosco, alla fine del quale, grazie all’aiuto di un

 bonario cacciatore di frodo, scoprono, immersa nel verde, una splendidavilla abbandonata. Gigino fa dunque trasferire tutta la Ghenga nella casa

del custode, locata accanto all’incantevole dimora. Ma qui, durante un

terribile temporale, il tetto crolla. I ragazzi si trovano sotto l’acqua nel

cuore della notte ed hanno allora una visione collettiva: nel giardino

appaiono una donna e un bambino sorridenti e dai fulgidi capelli biondi.

La donna indica un vaso: qui Gigino troverà la chiave d’ingresso della

villa. Come per Mary, nel libro  Il giardino segreto103, sarà una chiave

nascosta e ritrovata, ad aprire un le porte di un regno magico ed

altrimenti inaccessibile, luogo messo al bando perché fonte di ricordi

 belli ma al tempo stesso dolorosi. La donna e il bambino sono infatti dei

fantasmi e sono rispettivamente la moglie e il figlio del proprietario della

villa, morti affogati nel laghetto vicino a casa. Così come lo zio di Mary

aveva sbarrato il giardino tanto amato dalla moglie, e si era chiuso in un

muto rancore, applicando su stesso una rimozione totale dei sentimenti

 poiché causa di troppi rimpianti, così il ha fatto il Proprietario della villa

scoperta dalla Ghenga. In entrambi i libri sono i bambini che sciolgono

lo strato di ghiaccio formatosi sul cuore dei due uomini, i quali hanno

 preferito dimenticare piuttosto che elaborare il lutto. Di nuovo, come in

102 Ibidem103 Burnett F.H. , Il giardino segreto, Gravellona Toce (VB), Salani Editore, 2010

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 It 104

 , troviamo la natura che si fa da contenitore del materiale rimosso.

Però, in It 105

 , la natura è matrigna: nel bosco di Derry, in cui i Perdenti

trascorrono la loro estate, scorrono acque malate, acque in cui vengono

scaricati i liquami dell’intera città. Fra gli alberi si annidano strutture di

cemento a forma di tubo, gigantesche e scure entrate per accedere

all’impianto di fognature. La natura ha perso la sua identità originaria e

sta venendo gradualmente inghiottita dal processo d’inurbamento e dagli

appezzamenti agricoli dei contadini, in cui si accumulano rifiuti e il

fetore dei diserbanti. La natura di King è la discarica dell’inconscio,

magazzino di pensieri inconfessabili e violenti. Qui l’Occulto si

manifesta con malvagità, non c’è modo di addomesticarlo o dialogare

con esso. La natura di Guareschi è invece un Eden ritrovato, in cui

l’uomo può finalmente riscoprire se stesso e guarire dalle proprie ferite.

Così scrive Guareschi alla fine della sua opera, in un passo

chiarificatore:

(...)hanno strappato l’uomo dalla natura, costringendolo a vivere una vita innaturale,spesso addirittura contro-natura. Ecco perché il padrone, che si era rifugiato nella

città turbinosa per dimenticare, dopo vent’anni aveva deciso di tornare a vivere nella

villa solitaria, per ricordare106.

La natura è dunque il contenitore del ricordo, mentre la città è il luogo

dell’oblio.

(...) attraverso lo sportellino apertosi, per un istante, nell’impenetrabile muro di

cemento rovente che li circonda, Gigino e la sua ghenga hanno scoperto il

meraviglioso mondo del Soprannaturale. Il quale Soprannaturale non è una favola,

altrimenti sarebbero una favola anche la Terra, la Vita, l’Universo. (...) Le

meraviglie della natura, scoperte e spiegate dalla scienza, dovrebbero servire a

dimostrare con prove inequivocabili l’esistenza del Soprannaturale. (...) Le

104

 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992105 Ibidem 106 G.Guareschi/Vamba, La calda estate di Gigino il Pestifero, Bologna, Editoriale il Borgo Bologna,1967 

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meraviglie del creato, dovrebbero dimostrare, intendo dire, la grandezza del

Creatore. Le favole che, oggi, tutti disprezzano e che nessuno più racconta ai

 bambini sono nate quando l’uomo, affinatasi la sua mente, ha avvertito il bisogno del

Soprannaturale107.

Per Guareschi il Soprannaturale si manifesta durante la vicinanza alla

natura e la natura non è altro che Dio. Come si può ravvisare leggendo

 Mondo Piccolo108

 , Guareschi lega l’onestà e la purezza ai valori della

ruralità. Il comunista, Peppone, e il Parroco, Don Camillo, non sono altro

che due facce della stessa medaglia: sebbene gli obiettivi, la rivoluzione

 per l’uno, la vita eterna per l’altro, siano differenti, gli ideali sono gli

stessi e nascono dall’essere cresciuti entrambi in un ambiente e in una

società naturale: la campagna.

Questo legame fra natura e selvatichezza verrà riaffrontato nell’ultimo

capitolo di questa tesi, in cui vedremo che, a volte, l’uomo termina la

 propria ricerca identitaria proprio abbandonando la civiltà e smarrendosi

definitivamente nel bosco, fra gli alberi, habitat naturale della propriaselvatichezza.

107 Ibidem108

 G.Guareschi, Tutto Don Camillo-Mondo Piccolo, Milano, BUR, 2003

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CAPITOLO 2

SMARRIRSI

2.1.Scarpette rosse 

Venne l’autunno. La matrigna distribuì a tutte e tre le ragazze il lavoro serotino: a

una diede da intrecciare un merletto, l’altra doveva far la calza e Vassilissa doveva

filare: e tutto secondo le regole. Spense le luci in tutta la casa, lasciando una candela

sola, là dove lavoravano le ragazze, e lei se ne andò a dormire. Le ragazze

lavoravano. Ecco che la candela cominciò a filare; una delle figlie della matrigna

 prese le pinze per raddrizzare lo stoppaccino, ma invece, per ordine della madre,

spense la candela, come se non l’avesse fatto apposta. “Che faremo adesso? “

chiesero le ragazze, “in tutta la casa le luci sono spente, e i nostri doveri non sono

finiti. Bisogna correre dalla Baba Yaga a farsi dare un po’ di fuoco!”. (...) “Tocca a te

andare a cercare il fuoco,” gridarono entrambe “corri dalla baba yaga!” e spinsero

Vassilissa fuori dalla stanza. Vassilissa si preparò ad andare, mise in tasca la sua

 bambolina e, fattasi il segno della croce, entrò nel folto bosco109.

La bella Vassilissa, che vive con la matrigna e le sorellastre, viene

costretta con un inganno ad addentrarsi nel bosco e raggiungere la casa

della Baba Yaga per domandarle il fuoco. La ragazza porta con sé una

 bambolina che le ha donato la madre prima di morire; questo oggetto la

aiuterà a superare le prove alle quali sarà sottoposta dalla strega. I “doni

fatati”, presenti in moltissime fiabe, possono essere “(...)oggetti diorigine animale, oggetti di origine vegetale, oggetti alla cui base stanno

gli attrezzi, oggetti di varia natura cui si attribuiscono forze autonome o

 personificate, e, infine, oggetti connessi col culto dei morti.”110 Nel caso

109

  “Vassilissa la bella” da Afanasjev A.N.,  Antiche fiabe russe, Farigliano (CN), Giulio EinaudiEditore, 1990110  Propp V.J.,  Le radici storiche dei racconti di fate, Villanova Mondovì (Cn), Bollati BoringhieriEditore, 1998

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della fiaba Scarpette rosse111  così come la narra nel suo libro Clarissa

Pinkola Estes, il “dono fatato” è costituito da delle scarpette rosse che la

 protagonista della storia ha costruito per se stessa. Ma in questo caso,

così come gli oggetti donati dal Diavolo nella novella  Il diavolo che si

 fece frate112di Emma Perodi, le scarpette rosse diventano demoniache e

non sono portatrici d’aiuto, bensì di disgrazia.

C'era una volta una povera orfana che non aveva scarpe. La bimba conservava tutti

gli stracci che riusciva a trovare finchè un bel giorno riuscì a confezionarsi un paio di

scarpette rosse. Erano rozze, ma le piacevano. La facevano sentire ricca nonostante

trascorresse, fino a sera inoltrata, le sue giornate a cercare cibo nei boschi113. 

Un’altra versione della stessa fiaba è quella scritta da Andersen, ed ha un

inizio differente rispetto a quello trascritto dall’autrice:

C’era una volta una bambina molto graziosa e sottile, che d’estate doveva sempre

andare a piedi nudi, perché era povera e d’inverno portava degli zoccoloni di legno,

così che il collo dei suoi poveri piedini delicati diventava rosso rosso che faceva pena

a vederlo. Sulla piazza del villaggio abitava la vecchia calzolaia, che seduta al suo

deschetto mise assime, meglio che poteva, un paio di scarpette, cucendo delle

vecchie striscie di panno rosso; erano un po’ goffe, ma l’intenzione era buona: le

avrebbe date alla piccola. Essa si chiamava Karen. Fu proprio il giorno del funerale

della madre che Karen ebbe in dono le scarpette rosse e le calzò per la prima volta; a

dir la verità non erano le più adatte per il lutto, ma lei non ne aveva altre, e così vi

infilò i piedini nudi e seguì la povera cassa di paglia.114 

Clarissa Pinkola Estes riporta infatti una versione orale, di origine

magiaro-germanica, che sua Zia Tereza raccontava a lei e agli altri nipoti

quando erano piccoli. La zia, prima di iniziare la narrazione, così

111 “Scarpette rosse” da Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia,

Piacenza, Frassinelli, 2002112Perodi E., introduzione di A.Faeti,  Fiabe fantastiche – Le novelle della nonna , Torino, Einaudi,

1974113 “Scarpette rosse” da Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia,

Piacenza, Frassinelli, 2002114 Andersen H.C., introduzione di G.Rodari, Fiabe, Cles (Trento), Einaudi, 2009

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esordiva: “Guardatevi le scarpe e ringraziate che siano così comuni...

 perché nella vita bisogna fare molta attenzione, quando si hanno scarpe

troppo rosse.”115  E’ interessante analizzare il significato che Clarissa

Pinkola Estes estrapola, sulla base del proprio ricordo, dalla fiaba che

sua zia le raccontava. La scrittrice rielabora il testo e ne fa un uso

 personale, proprio come Valentina Pisanty spiega in un passo del suo

libro: 

(...) i bambini più piccoli si ribellano contro chiunque introduca dei cambiamenti, per

quanto minimi, nelle fiabe che sono abituati a sentire(...) ad un certo momento la

fiaba cessa di essere interpretata in chiave esclusivamente ingenua e diventa un puro

stimolo per un’ulteriore attività creativa da parte del fruitore. L’interpretazione cede

il passo all’uso personale del testo, il quale viene rielaborato e, in certi casi,

addirittura riscritto per venire incontro alle esigenze particolari del fruitore. La fiaba

si presta a simili manipolazioni forse più di ogni altro genere narrativo e ciò lo si

vede dal fatto che, da sempre, essa si è adattata ai diversi contesti specifici nei quali

si è trovata ad esistere senza mai assumere una forma definitiva.116 

Secondo la versione di Zia Tereza, una bambina, sola al mondo, senzafigure affettuose intorno a lei, in lotta quotidianamente per la

sopravvivenza, auto-produce un paio di scarpette. La descrizione di

questa scena, spogliata della drammaticità della situazione in cui la

 protagonista si trova, rievoca immediatamente il gioco del bambino. Il

 bambino, quando non ha a disposizione giocattoli pre-confezionati, si

diletta con quello che trova. Così utensili di vita quotidiana vengonotrasformati in oggetti magici utili a mettere in scena situazioni di gioco.

Una penna diventa un uomo, una scatola diventa un castello, una

 bacinella diventa il mare e degli stracci diventano delle scarpe. La

 bambina della fiaba che trasforma ciò che trova in calzature non è altro

che una bambina che gioca e che, tramite il gioco, esprime la propria

115 Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,2002116 Pisanty V., Leggere la fiaba, Bergamo, Bompiani, 1998 

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creatività. In seguito la bimba, mentre cammina lungo la strada, viene

accostata da una carrozza dorata a bordo della quale c’è una vecchia

signora, la quale si offre di adottarla e di farne la sua figlioletta. La

 bimba accetta: subito i suoi vestiti vengono cambiati con abiti puliti e

 ben cuciti. I suoi vecchi indumenti, e anche le scarpette rosse da lei

create, vengono gettati nel fuoco.

La bimba era molto triste perché quelle umili scarpette rosse che aveva fatto con le

 proprie mani le avevano dato la più grande felicità (...). Un fuoco segreto le si accese

nel cuore e continuò a desiderare più di qualsiasi altra cosa le sue vecchie scarpette

rosse.117 

La negazione dell’indipendenza della bambina, che tramite la creazione

di quelle calzature aveva potuto esprimere la sua autonomia, la sua

capacità, nonostante la tenera età, di sapersi destreggiare nel mondo,

segna anche la repressione di quella che l’autrice Clarissa Pinkola Estés

chiama “anima selvaggia” e che Maria Montessori chiama “libertà”.

Come dice Maria Montessori:

(...) chi è servito, invece di essere aiutato, in certo modo è leso nella sua

indipendenza: questo concetto è il fondamento della dignità degli uomini. Non voglio

essere servito perché non sono un impotente. (...) Ecco ciò che bisogna conquistare

 prima di sentirsi veramente liberi. Un’azione pedagogica efficace sui teneri bambini

deve essere quella di aiutarli ad avanzare su vie di indipendenza, intese in maniera da

iniziarli a quelle forme di attività che consentono loro di bastare a se stessi...118 

Si impara per prove ed errori, nessuno nasce sapendo assolvere i compiti

quotidiani alla perfezione. E’ proprio questo il ruolo chiave del gioco: il

 bambino, giocando, impara a conoscere il mondo che lo circonda

mettendo in scena, tramite la fantasia, situazioni di vita. Tramite il gioco

il bambino ha la possibilità di sperimentare senza rischi. Maria

117 Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,2002118 Montessori M., La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1970 

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Montessori spiega poi che un bambino a cui non viene insegnata

l’autonomia, è un bambino “schiavo” perché sarà sempre dipendente dai

servizi degli altri, anche da adulto. Il pericolo del servilismo si esprime

conducendo l’individuo all’impotenza, ma portandolo anche a reazioni di

 prepotenza ed ira, che sorgono ad accompagnare l’accidia. A tal

 proposito leggiamo i pensieri della madre di Eddie Krasbrack, uno dei

bambini protagonisti del romanzo It 119 di Stephen King:

...tutte le volte che le succedeva di pensare ad Eddie come ad un adulto, si sentiva

frullare nella mente un uccellino di vivo panico. Questo le era accaduto nei casi non

frequenti in cui aveva cercato di immaginarsi che cosa sarebbe successo a lei se

Eddie non avesse voluto frequentare il Businness College di Derry o l’Università del

Maine a Orono o l’Husson a Bangor, in maniera da poter tornare a casa ogni giorno

dopo le lezioni; e che cosa sarebbe stato se avesse conosciuto una ragazza, si fosse

innamorato e avesse voluto sposarsi. Dov’è il mio posto in un futuro così? Io ti amo,

 Eddie! Io ti amo! Io mi occupo di te e ti amo! Tu non sai far da mangiare, non sai

cambiarti le lenzuola, non ti sai lavare la biancheria intima! E perché dovresti? Le

so fare io tutte queste cose. Solo per te! Io le so fare perché io ti amo!120 

La madre di Eddie Kranbrack ha paura di rimanere sola e così blocca il

figlio in una relazione madre/figlio morbosa, in cui lui sarà sempre

dipendente da lei perché ineducato all’emancipazione e costantemente

oppresso dal timore di non poter riuscire nella vita senza le invadenti

attenzioni materne. La madre, la cui obesità nel libro viene fatta

 percepire come un’incombenza, oltre che fisica, anche mentale, è ritrattacome un’opprimente Sovrana Tiranna. La stessa tirannia la ritroviamo

nella donna anziana di Scarpette Rosse. L’obesità, così come la

vecchiaia, sono caratteristiche fisiche utilizzate dagli scrittori per

rimarcare la prepotenza morale. Joanne Kathleen Rowling  nel suo

romanzo Harry Potter e la pietra filosofale121, descrive minuziosamente

119 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992120 Ibidem121 Rowling J.K., Harry Potter e la pietra filosofale, Milano, Salani, 2007

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la molle grassezza del cugino di Harry, il cui aspetto fisico riflette la sua

decadenza interiore:

Dudley assomigliava molto a zio Vernon. Aveva un gran faccione roseo, quasi niente

collo, occhi piccoli di un celeste acquoso, d folti capelli biondi e lisci che gli pendevano su un gran testone. Spesso zia Petunia diceva che Dudley sembrava un

angioletto; Harry, invece, diceva che sembrava un maiale con la parrucca122.

 Nelle fiabe è prassi anteporre la bruttezza del personaggio malvagio alla

 bellezza del personaggio buono: “Una vedova aveva due figlie, l’una

 bella e laboriosa, l’altra brutta e pigra.”123 

Dunque le fiabe mettono in scena proprio una delle tappe fondanti per

l’evoluzione dell’uomo: la trasformazione, il passaggio da una fase

all’altra della vita tramite il superamento di ostacoli. Fu Propp ad

evidenziare l’evidente nesso che vi era fra fiaba e rito iniziatico. La

conclusione macabra di “Scarpette Rosse” è tipica delle favole in cui

il protagonista spirituale non riesce a completare una traformazione (...). Il motivo brutale è un sistema antico per provocare l’io emotivo affinché porga attenzione a un

messaggio serissimo (...), una carestia dell’anima induce la donna a scegliere cose

che la faranno danzare pazzamente, senza controllo, fino alla porta del boia.124 

Alcune fiabe ci insegnano che la selvatichezza, che coincide con il

nostro intuito, la nostra creatività, la nostra pulsione all’indipendenza, è

un elemento esistenziale indispensabile per l’appagamento della nostraanima, ma che è anche un ingrediente che va dosato, altrimenti diventa

un tossico, una droga che ci stregherà e ci farà ballare fino alla morte.

La perdita delle scarpette rosse fatte a mano rappresenta la perdita dell’esistenza

 prescelta e della vitalità appassionata, e l’accettazione di una vita troppo

122

 Ibidem123 “Madama Holle” da Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980124 Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,2002

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addomesticata125.

Il fulcro concettuale dell’albo illustrato  Il   Principe Tigre126 

  è  proprio

l’indispensabilità, a fini della crescita, di un  passaggio attraverso la

selvatichezza: un imperatore, che da bambino ha vissuto parte della suainfanzia con una tigre “conserva un ricordo così indelebile da voler

affidare, tanti anni dopo, suo figlio alla stessa tigre, perché anche lui

 possa giovare di questa esperienza fondamentale per diventare un

 principe.”127  Quello stadio di selvatichezza attraverso cui il bambino

deve obbligatoriamente passare per diventare uomo, racchiude in sé

numerosi significati. E’ la materia grezza senza la quale l’edificio non può essere costruito. E’ la componente istintuale della nostra natura,

quella che ci spinge a soddisfare i nostri bisogni primari, che non sono

solo legati alla sopravvivenza ma anche alle necessità dell’anima. La

fiaba ci insegna che l’uomo, quanto più sa armonizzare la propria

componente istintiva, alla propria componente razionale, quanto più

 potrà raggiungere un’esistenza appagante. Ma, nelle fiabe, accade anche

che questo stadio di crescita non venga raggiunto, ed è allora che vi è

una conclusione brutale. Numerose fiabe, come Bettelheim sottolinea ne

 Il Mondo incantato128, sono utili perché infondono nel bambino un

senso di speranza poiché, se l’eroe della fiaba, grazie alla forza del suo

impegno e del suo coraggio, è riuscito a mettere le cose a posto, allora

anche lui potrà riuscire a superare le proprie difficoltà esistenziali. Ma

non sempre le fiabe finiscono bene. Nella fiaba italiana  Zio Lupo129 una

 bambina, a causa della sua golosità, farà una brutta fine. Nel finale la

tensione sale man mano che Zio Lupo si avvicina al letto della bambina.

125 Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,2002126 Hong C.J., Il principe tigre, Padova, Babalibri, 2007127 Mirandola G.,Terrusi M.,  Le parole e le immagini: 22 esercizi di lettura, Milano, Beisler Editore,

Topipittori, Babalibri, 2008128 Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 2000129  Calvino I., illustrazioni di Emanuele Luzzati,  L’uccel Belverde e altre fiabe italiane,

Moncalieri(Torino), Giulio Einaudi Editore, 1993

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Il suo incedere, scandito dalla voce del Lupo che narra il proprio

 percorso a partire dall’esterno della casa fino ad arrivare al letto della

 bambina, è un conto alla rovescia in cui il terrore man mano che la bestia

si appropinqua al giaciglio.

Quando fu notte e la bambina era già a letto, si sentì la voce di Zio Lupo da fuori: -

Adesso ti mangio! Sono vicino a casa!-. Poi si sentì un passo sulle tegole: -Adesso ti

mangio! Sono sul tetto!. Poi si sentì un passo sulle tegole: -Adesso ti mangio! Sono

nel camino!-. –Mamma, c’è il lupo!-. –Nasconditi sotto le coperte!-. –Adesso ti

mangio! Sono nel focolare!-. La bambina si rincantucciò nel letto, tremando come

una foglia. –Adesso ti mangio, sono nella stanza!-. La bambina trattenne il respiro. – 

Adesso ti mangio! Sono ai piedi del letto! Ahm, che ti mangio! E se la mangiò. Ecosì Zio Lupo mangia sempre le bambine golose.130 

Questo conto alla rovescia ricorda il gioco del Nascondino, in cui tutti i

 partecipanti cercano di non essere trovati da chi sta facendo il conto alla

rovescia, che parte da un numero concordato e che termina generalmente

con lo zero, spesso accompagnato, in certe regioni dell’Italia, dalla

sentenza “chi è fuori è fuori, chi è dentro, è dentro”. Oppure, in inglese,

come viene riportata nel brano musicale di un celebre gruppo rap: “ready

or not, here I come, you can't hide, gonna find you and take it slowly”131. 

Questa frase, dalle valenze a tratti magiche, è il simbolico annuncio con

il quale il cercatore, che nella nostra fantasia potrebbe assumere le

sembianze di un Lupo, una Strega o un Orco mangiatore di bambini,

 proclama che la caccia è aperta. Chi conta, infatti, nel tempo del gioco, si

trasforma in inseguitore, un persecutore dalle cui grinfie tutti cercano di

sfuggire facendo “tana”, ossia tornando a casa. Questo gioco tradizionale

inscena un tipico inseguimento fiabesco, in cui l’eroe tenta

disperatamente di tornare a casa, mentre alle sue spalle lo tallona un

 personaggio malvagio. E’ un gioco che ci ricorda la corsa della bambina,

130 Ibidem131 “Ready or not” da The Score dei Fugees (USA) 1996 

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 braccata dalla Baba Yaga:

La bimba poggiò l’orecchio a terra, e sentito che la baba jaga era vicina gettò il

 pettinino: divenne una foresta orribilmente fitta! La baba yaga cominciò a

rosicchiarla, ma per quanto si sforzasse non potè abbatterla e tornò indietro.

132

 

Il motivo brutale, come già detto nel capitolo precedente, serve a

 provocare l’io emotivo affinché porga attenzione ad un messaggio

serissimo, cioè che una mancata integrazione fra istinto e ragione porta

ad avvelenare la propria anima, in un senso come nell’altro.

2.2.L’incubo dello sdoppiamento: schizofrenie zoologiche

L’uomo primitivo era governato dai propri istinti molto più profondamente dei suoi

moderni discendenti razionali che hanno imparato a “controllarsi”. Nel corso di

questo processo di civilizzazione noi siamo venuti scindendo sempre di più la nostra

coscienza dagli strati profondi istintivi della psiche umana e infine anche dalla base

somatica del fenomeno psichico. Fortunatamente non abbiamo perduto questi strati

istintivi di fondo: essi continuano a far parte dell’inconscio anche se possono trovare

espressione sotto forma di immagini oniriche. Questi fenomeni istintivi, che possono

anche non venire sempre riconosciuti per quello che sono, dato il loro carattere

simbolico, svolgono un ruolo vitale in quella che io ho definito la  funzione

compensatrice dei sogni.133

 

Jung sottolinea dunque come i nostri strati istintivi, anche se soffocati in

favore del processo di civilizzazione, riemergano per vie laterali, ossia

tramite il linguaggio dei sogni, che è poi lo stesso linguaggio tramite cui

si esprime la fiaba. Nel territorio dei sogni, così come in quello della

fiaba, troviamo l’inconscio espresso simbolicamente. La maschera

animale rappresenta il totem. E’ l’immagine archetipica degli istinti: la

tigre, il lupo, il gatto, rappresentano sentimenti oscuri e totalizzanti,

come rabbia, aggressività, ferocia, avidità, ecc... L’animale incarna

132 Afanasjev A.N., Antiche fiabe russe, Farigliano (CN), Giulio Einaudi Editore, 1990133 Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli, Farigliano (CN), Raffaello Cortina Editore, 1990

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l’impulso, il caos, l’eccesso:

I sogni di animali hanno quindi probabilmente in primo luogo il significato di

compensare il pericolo della perdita istintuale continuamente inerente all’umano. La

 base istintiva della natura umana somiglia a un circo interiore nel quale bisogna badare a tutte le specie perché non diventino rabbiose per la fame o muoiano.

Quando un animale diventa troppo vorace, rappresenta l’impulso parziale di cui

l’uomo è divenuto vittima. Per esempio, farsi condizionare dall’istinto gregario si

esprime in sogni di pecore e capre, mentre l’istinto dominatore si palesa in sogni di

leoni e aquile. Un topo che rosicchia nel buio rappresenta impulsi sessuali,

considerati insignificanti ma temuti per il disturbo che arrecano. (...) L’animale del

sogno è anche l’immagine di uno specifico comportamento istintuale134.

La maschera dell’animale, che imbruttisce e copre le reali sembianze,

 può quindi rappresentare un bisogno di contatto con le proprie parti

istintuali ma anche, come scrive Bettelheim nella sua opera, una

rappresentazione del sesso secondo il bambino:

(...)il sesso deve essere percepito dal bambino disgustoso fintanto che i suoi desideri

sessuali sono fissati sul suo genitore, perché soltanto mediante un tale atteggiamento

negativo verso il sesso, il tabù dell’incesto, unitamente alla stabilità della famiglia

umana, può essere al sicuro. Ma una volta distaccati dal genitore e diretti verso un

 partner di età più adeguata, nello sviluppo normale, i desideri sessuali non sembrano

 più bestiali, ma al contrario sono percepiti come meravigliosi.135 

 Nella fiaba Pelle d’asino136  di Charles Perrault, una giovane principessa

fugge lontano dal Re suo padre che, dopo la morte della Regina, ha

trovato solo in sua figlia una donna che eguagliasse la grazia e la

 bellezza della moglie perduta. La giovane, per sottrarsi all’incesto, dice

al padre che acconsentirà al matrimonio solo se avrà la pelle di un

Somaro che è stato allevato gelosamente a corte e che possiede proprietà

134 Hillman J., Animali del sogno, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2001135

 Bettelheim B., Il mondo incantato, Milano, Feltrinelli, 2000136 Perrault C., traduzione di C.Collodi, introduzione di B. Bettelheim, I racconti di Mamma Oca : lefavole di Perrault seguite da favole di Madame d' Aulnoy e di Madame Leprince de Beaumont,Milano, Feltrinelli, 1979

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magiche:

Perché bisogna sapere che questo raro animale meritava davvero ogni riguardo, a

motivo che la natura lo aveva formato in un modo così straordinario e singolare, che

tutte le mattine la sua lettiera, invece di essere sporca, era ricoperta a profusione di bellissimi zecchini e napoleoni d’oro, che venivano raccattati, appena egli si

svegliava.137 

Ma il Re, ormai sull’orlo della follia, fa uccidere l’asino magico e allora

la Principessa, su consiglio della sua comare, la fata Lilla, si copre con la

 pelle d’asino e fugge dal regno.

“Che fate figlia mia,” diss’ella vedendo la Principessa che si strappava i capelli e si

graffiava il bel viso, “questo è il momento più fortunato della vostra vita.

Avvolgetevi in codesta pelle, uscite dal palazzo e camminate finché troverete terra

sotto i piedi. Quando si sacrifica tutto alla virtù, gli dei sanno ricompensare. Andate;

sarà mia cura che le vostre robe vi seguano dappertutto; in qualunque luogo, dove vi

fermerete, la cassetta de’ vostri vestiti e delle vostre gioie vi sarà tenuta dietro sotto

terra: eccovi la mia bacchetta: ve la regalo, e battendola in terra tutte le volte che

avrete bisogno della vostra cassetta, la cassetta apparirà dinanzi ai vostri occhi. Ma

spicciatevi a partire, e non più indugi.”138 

La principessa, indossando la pelle del Somaro magico, acquista le stesse

capacità magiche dell’animale, che fisicamente appariva come una bestia

senza qualità, mentre dentro di sé conservava un tesoro. La funzione

della maschera d’animale rappresenta quindi anche un invito al non

fermarsi alle apparenze, ma all’osservare la realtà da una prospettiva più

ampia. Nelle fiabe, frequentemente, un uomo o una donna anziani e

dall’aspetto umile, celano in sè potenti stregoni. La ragazza, così

travestita, intraprende un percorso iniziatico: quello di distacco dalla

famiglia d’origine e di ricerca di una nuova collocazione all’interno del

mondo esterno.

137 Ibidem p.55138 Ibidem p.55

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Il rivestire la pelle di un animale s’incontra nei riti di iniziazione e simboleggia

l’identità con l’animale. Gli iniziandi danzavano, rivestiti di pelli di buoi, di orsi, di

 bufali, imitando le loro mosse e rappresentando un animale totemico.139 

 Nell’albo illustrato  In una notte nera140

  di Dorothee de Monfreid, il

 piccolo Pietro è solo, in una buia foresta, terrorizzato dagli animali feroci

che la popolano. Si nasconde nel tronco di un albero e, lì acquattato,

distingue tre bestie: una tigre, un lupo ed un coccodrillo. Quand’ecco che

il bambino scopre che l’albero ha una porta, dalla quale si accede non,

come si potrebbe temere, alla casa di una strega, ma alla dimora di un

tenero coniglietto, il quale rassicura il bambino e lo invita, prima di ri-

attraversare il bosco per tornare a casa, ad indossare la maschera di un

mostro. Il consiglio del coniglio si rivela utile: Pietro terrorizza il lupo, la

tigre e il coccodrillo, i quali finiranno col chiedere ospitalità proprio a lui

 per sfuggire al terribile mostro che hanno visto aggirarsi per la foresta.

Pietro ha così la possibilità di sperimentare l’alterità, pur restando, come

l’amico coniglietto, non un predatore ma una preda. Nell’albo illustrato

 La Maschera141

 , i bambini protagonisti, Ulisse e Lila, dimostrano che

 possono diventare più cattivi del Lupo stesso se indossano la loro

Maschera da Lupo.

“Mi presterai la tua maschera da Lupo?” chiese Lila al fratello. E Ulisse rispose “no,

 perché è una maschera da Lupo e una maschera da lupo può far diventare cattivi. “E

tu”, chiese Lila, “non hai paura di diventare cattivo?”. “No, se resteremo insieme”,

rispose Ulisse.142 

Anche nel libro di Maurice Sendak,  Nel Paese dei mostri selvaggi143

 ,

troviamo Max, il bambino protagonista, travestito da lupo:

139  Propp V.J.,  Le radici storiche dei racconti di fate, Villanova Mondovì (Cn), Bollati BoringhieriEditore, 1998140

 De Monfreid D., In una notte nera, Milano, Babalibri, 2011 141 Solotareff G., La Maschera, Milano, Babalibri, 2003 142 Ibidem143 Sendak M., Nel Paese dei mostri selvaggi, Verona, Babalibri, 2011

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Il bambino ha indossato la maschera del lupo, ovvero, nel momento della

manifestazione dell’aggressività è uscito dal sé conosciuto per diventare

l’incarnazione –secondo una simbologia ricorrente- della negatività: il lupo. Il

 bambino Max ha ceduto il posto al lupo Max che agisce di conseguenza. Questo

 processo di presa di distanza da sè, attraverso la maschera, è necessario a Max persperimentare l’alterità e, infine, ritrovare se stesso.144 

La parola “persona”, che nella lingua italiana indica “l’individuo umano

in quanto oggetto di considerazione o di determinazione nell’ambito

delle funzioni e dei rapporti della vita sociale”145  deriva dalla parola

latina  persona, la quale significa “maschera” e designa le maschere

utilizzate dagli attori nel teatro antico, maschere che avevano lo scopo didare all’attore le sembianze del personaggio che stava interpretando, ma

che erano inoltre utili ad amplificare la voce dell’attore stesso. Il verbo

 personare è infatti formato dalla preposizione  per , che indica eccesso, e

 sona  che deriva a sua volta da  sonare, "suonare”. La Maschera che i

 bambini utilizzano potrebbe quindi essere interpretata come

un’amplificazione di un singolo lato della loro personalità. Nel momentoin cui Ulisse indossa la maschera diventa il suo lato cattivo, si identifica

del tutto con il suo animale totemico, il Lupo. Come lui stesso dice alla

sorella, quel lato non prenderà completo possesso di lui se staranno

insieme e lui non resterà quindi solo. Di nuovo ricorre la paura

dell’isolamento a causa dei propri lati scuri e di nuovo quella paura viene

addomesticata dalla certezza che quello è solo un lato, è solo unamaschera, e non prenderà il sopravvento se potrà essere accolta e

compresa. Ed è per questo che Ulisse dice alla sorella Lila che non

diventerà cattivo, ma solo se resteranno insieme. Nel Principe Tigre146  la

mancata integrazione fra istinto e ragione viene sottolineata dal

contrappunto fra civiltà/natura. L’una non può vivere senza l’altra, hanno

144

 Antoniazzi A.,Gasparini A., Nella stanza dei bambini: tra letteratura per l’infanzia e psicoanalisi,Bologna, CLUEB, 2009145 Devoto G., Oli G.C., Dizionario della lingua italiana, Dizionari Le Monnier, 1971146 Hong C.J., Il principe tigre, Padova, Babalibri, 2007 

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 bisogno di mescolarsi per completarsi, ed è per questo che il bambino

impara ad essere tigre, ma dopo ha necessità di completare il proprio

apprendistato presso la Casa Reale.

Perché si abbiano stabilità mentale e salute fisiologica, l’inconscio e il consciodebbono essere integralmente connessi fra loro e muoversi su piani paralleli. Se

vengono scissi o “dissociati”, si crea un disturbo psicologico.147 

La cerimonia nella quale si celebra lo stretto contatto con le proprie

 pulsioni primordiali, segna dunque il passaggio alla maturità, all’età

adulta: una volta acquisita consapevolezza delle proprie parti e averle

unite fra loro, si passa ad una fase evolutiva successiva.

 Nel processo di crescita di ogni persona ci sono alcuni aspetti che finiscono per

 prendere il sopravvento su altri. (...) Quando l’essere umano nasce, la prima

esperienza che prova è quella di una profonda e totale vulnerabilità. Il bambino, se

non è accudito, amato, accolto e protetto, letteralmente muore; inoltre è vulnerabile

 perché è estremamente sensibile, aperto a tutta la gamma emotiva: può percepire lo

spettro completo delle emozioni in tutta la loro intensità. Proprio per proteggerequesto nucleo centrale di vulnerabilità, alcuni aspetti di noi emergono e si affermano

sempre di più nella nostra personalità. Le ragioni contingenti per cui finiscono per

 prevalere alcuni aspetti (o sé) a scapito di altri sono molte: il contesto famigliare e

culturale, la reazione personale di avversione o di adesione ai modelli proposti, ecc...

In ogni caso l’intento dei sé che prendono il sopravvento è quello di proteggere la

nostra vulnerabilità, al punto che gli aspetti che in qualche modo sono funzionali a

questo progetto finiscono col tempo per costituire un team di sé primari che cercano

di tenere lontani gli opposti, ovvero gli aspetti che diventeranno perciò sé rinnegati.

(...) A ben vedere si crea una situazione paradossale: gli aspetti che nel processo di

crescita si attivano per proteggere il nucleo della vulnerabilità, finiscono in realtà per

soffocarlo, nasconderlo, allontanarlo dalla nostra coscienza, diventando spesso più

dei carcerieri che dei protettori!148 

Quando vi sono degli aspetti del sé vengono rinnegati, può nascere

147 Jung C.G., L’uomo e i suoi simboli, Farigliano (CN), Raffaello Cortina Editore, 1990148 Errani Civita F., Il Caleidoscopio interiore, Montespertoli (Fi), M.I.R. EDIZIONI, 2005

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quella che Massimo Monteleone, parlando del film di Tim Burton,

 Batman-Il Ritorno, chiama “schizofrenia zoologica”, film in cui tutti i

 personaggi hanno doppia personalità nata propria da una mancata

armonia fra i vari aspetti del Sé: “sono creature eccessive che cercano di

risolvere un problema d’identità, minata dalla tentazione animalesca e

dal vizio del travestimento, trionfo dell’apparenza.”149  Catwoman

domanda a Batman: “Chi sei tu? Chi è l’uomo che si nasconde dietro al

 pipistrello? Forse tu puoi aiutarmi a trovare la donna che si nasconde

dietro questo gatto.”150  E ancora: Bruce Wayne/Batman è a casa con

Selina/Catwoman e parla del suo fallimento sentimentale con Vicki

Vale, che conosceva la sua identità segreta: “c’erano due verità. E lei

aveva difficoltà a conciliarle perché avevo difficoltà a conciliarle io.”151 

2.3. Il mondo capovolto: tra familiarità ed estraneità

Il tema del “doppio” è uno dei temi focali della letteratura e della

cinematografia horror, genere che, come già evidenziato, ha strette

 parentele con il fiabesco:

Tutto il mio essere, divenuto trastullo capriccioso di un destino crudele, fluttuava

senza pace in un oceano di avvenimenti le cui enormi ondate ricadevano su di me

mugghiando. Non riesco più a ritrovarmi... sono quel che sembro e non sembro quel

che sono. Problema inesplicabile per me stesso: il mio io è diviso in due.152 

Del concetto del “doppio” se ne occupò per primo, nel 1914, lo psicanalista Otto Rank nel suo saggio, Il Doppio: il significato del sosia

nella letteratura e nel folclore.153  Rank parte dall’analisi di un film

tedesco,  Lo studente di Praga154, nel quale viene narrata la storia di

149 Monteleone M., Luna Dark, Genova, Le Mani, 1996150  Batman-Il Ritorno di Tim Burton (USA) 1992 151 Monteleone M., Luna Dark, Genova, Le Mani, 1996 152

  Gli Elisir del Diavolo di Ernst T.Hoffmann da Prawer S.S., prefazione di Beniamino Placido,  I figli del Dottor Caligari: il film come racconto del terrore, Roma, Editori Riuniti, 1994153 Rank O., Il Doppio: il significato del sosia nella letteratura e nel folclore, Milano, Sugarco, 1987154

 Lo studente di Praga di Stellan Rye (Germania) 1913

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Baldovino, uno studente che, pur di diventare ricco per ottenere l’amore

di una Contessa, stringerà un patto con il Dottor Scalpinelli, che gli darà

un’ingente somma di denaro in cambio dell’immagine del giovane

riflessa in uno specchio. Il doppio inizia però a perseguitare Baldovino,

tanto che l’uomo, in preda alla disperazione, alla fine dell’opera spara

addosso alla propria immagine riflessa, causando però così anche la

morte di se stesso. Rank parla di un “ritorno del represso”, la parte

segreta del nostro sé che riaffiora pericolosamente.

Il Doppio fa anche rivivere le credenze primitive nell’esistenza indipendente, quasi

corporea, della nostra anima nella magia dello specchio o del fantoccio, in demoni edei che si divertono ad assumere le nostre forme... e tutto questo si combina in un

brivido di lontane memorie.155 

L’emergere improvviso della figura del sosia è un’ invasione

dell’inconscio nel campo del conscio, un ritorno del rimosso che assume

i tratti del demoniaco, perché, a ben guardare, è «il manifestarsi

dell’angoscia della morte, la quale, scansata in quanto lutto e dolore, siripresenta nel reale, con la beffarda e ghignante figura del Sosia”156. Nel

racconto di Hans Christian Andersen, L’ombra157 , si racconta la storia di

un Uomo che viene abbandonato dalla sua Ombra, la quale vive al suo

 posto una vita avventurosa, stimolante, ma anche a tratti cinica e crudele.

La sensibilità dell’Uomo è portata all’estremo, tanto da diventare

depressiva:

Passarono gli anni e passarono i giorni, e l’ombra tornò. “Come va? chiese. “Ahimé,”

rispose l’antico padrone, “scrivo intorno al vero, al buono e al bello, ma nessuno ci

tiene a sentire cose del genere, e io sono disperato, perché me la prendo tanto a

cuore!”. “Io no, invece,” replicò l’ombra, “e mi ingrasso: così bisogna fare! Lei non

155 Prawer S.S., prefazione di Beniamino Placido, I figli del Dottor Caligari: il film come racconto del

terrore, Roma, Editori Riuniti, 1994156 L. Guidi-BuffariniI, V. Lavia, «Introduzione» a O. Rank,  Il Doppio: il significato del sosia nella

letteratura e nel folclore, Milano, Sugarco, 1994157 Andersen H.C., introduzione di G.Rodari, Fiabe, Cles (Trento), Einaudi, 2009 

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sa vivere in questo mondo. Andrà a finir male. Dovrebbe muoversi un poco. Io

quest’estate andrò a fare un viaggio. Vuol venire con me? Sarei molto contento di

viaggiare in compagnia! Vuol accompagnarmi, in qualità di ombra? Sarei felice di

averla con me, pagherò tutte le spese!”. “Mi sembra un po’ eccessivo!” obiettò

l’altro. “(...) Se mi vuol fare da ombra, non avrà da pagare un soldo in tutto ilviaggio!”. “Questo poi è troppo!”. “Così va il mondo,” sentenziò l’Ombra, “e così

continuerà ad andare,” e poi lo lasciò158.

Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, in cui i protagonisti

vivevano una “schizofrenia zoologica”, il sé rinnegato crea una vita

indipendente e si pone in una relazione conflittuale rispetto al suo

legittimo proprietario. Vediamo nel caso del racconto di Andersen come

l’Ombra voglia relegare l’Uomo ad un ruolo di “attore non protagonista”

all’interno della sua stessa vita. Gli aspetti della psiche rimossi,

rinnegati, prendono il completo dominio dell’Io e lo mettono anzi in

 punizione, lo spodestano ed occupano tutta la scena. Al termine del

racconto di Andersen l’Uomo viene ucciso e l’Ombra sposa la

 principessa da lui amata.

Un doppio, inizialmente attraente, poi pauroso e pericoloso, entra a

contatto anche Coraline, protagonista dell’omonimo libro di Neil

Gaiman, la quale scopre, in una parete della casa nella quale da poco si è

trasferita con i genitori, un tunnel che porta in una casa tale e quale alla

sua, ma in cui tutto sembra essere più gradevole. L’ “altra madre”, come

la strega di Hansel e Gretel 159 , lusinga la bambina con complimenti e leoffre cibo squisito.

In cucina trovò una donna che le dava le spalle. Assomigliava un po’ a sua madre.

Solo che... Solo che aveva la pelle bianca come la carta. Solo che era più alta e più

magra. Solo che aveva le dita troppo lunghe, che non stavano mai ferme, e le unghie,

adunche e affilate, di un rosso scuro. “Coraline?” disse la donna. “Sei tu?”. Quindi si

158 Ibidem p.61 159 Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980

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voltò a guardarla. Al posto degli occhi aveva due grossi bottoni neri. “E’ ora di

pranzo, Coraline” disse la donna. “E tu chi sei?” domandò la bambina. “Sono l’altra

tua madre” rispose la donna. “Va’ a dire all’altro tuo padre che il pranzo è pronto.”

(...) Si sedettero attorno al tavolo e l’altra madre di Coraline servì il pranzo. Un

enorme e dorato pollo arrosto, patate fritte, pisellini verdi. Coraline spazzolò il cibo

che aveva nel piatto. Era buonissimo. “E’ da un pezzo che ti aspettiamo” disse l’altro

padre di Coraline. “Me?”. “Sì” disse l’altra madre. “Senza di te, qui non era più la

stessa cosa. Ma sapevamo che un giorno saresti arrivata e che a quel punto saremmo

diventati una vera famiglia. Ti va un altro po’ di pollo?”. Era il pollo più buono che

Coraline avesse mai mangiato in vita sua. A volte lo faceva anche sua madre, il

pollo, ma era sempre precotto o surgelato, veniva sempre troppo asciutto e non

sapeva mai di niente.

160

 

Come in  Dietro lo specchio161  di Lewis Carroll, in Coraline  vi è il

concetto di specularità, di simmetria, ed il passaggio segreto è una porta,

un buco o, appunto, uno specchio. La realtà che la protagonista incontra

oltre il passaggio è possibile, ma irreale, verisimile ma mai vista prima.

E’ familiare, ma allo stesso estranea. E’ perturbante.

Perturbante è una possibile traduzione italiana dell’aggettivo tedesco unheimlich e,

come spesso accade nei casi di traduzione, è una parola che non riesce a condensare

in sè tutti gli stupefacenti richiami di cui si connota, invece, il termine originale.

L’aggettivo di cui è antitesi – heimlich. significa tranquillo, confortevole (deriva da

Heim, casa) o patrio, natio e dunque noto, familiare, abituale. Unheimlich inidica

allora tutto ciò che non è tale e in più si connota delle sensazioni che l’uomo prova di

fronte a quanto non è tranquillo, non è domestico, non è usuale. Con unheimlich si

dice anche la paura, il turbamento, il disorientamento, che sono sempre legati

all’ignoto, all’estraneo, all’inconsueto. (...)Vi è un luogo, o un momento, in cui ciò

che è unheimlich  –cioè più proprio e più intimo- nel suo essere estremamente

protetto, rinchiuso, nascosto, finisce col risultare in sé segreto e per noi stessi ignoto,

misterioso, un po’ anche magico -proprio come tutto quanto è unheimlich-. Si delinea

un’interessante ambiguità: c’è qualcosa –o qualcuno- che appunto può essere

avvertito ad un tempo come familiare (e dunque come confortevole ed affidabile),

160 Gaiman N., Coraline, Cles (TN), Arnoldo Mondadori Editore, 2003161 Carrol L., Alice nel paese delle meraviglie- Dietro lo specchio, Milano, Garzanti, 1979

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ma anche come strano, inattendibile, oscuro; o meglio c’è qualcosa che è per noi

proprio ed intimo a tal punto da risultare per la nostra stessa coscienza segreto e da

dovere forse rimanere celato, che però ora si è reso noto, è apparso, si è in una forma

esterna rivelato162.

La suggestione e lo straniamento che prova Coraline davanti agli altri 

genitori sono determinati non soltanto dalla situazione per sé ma anche

dal fatto di vedere le due persone che le sono più familiari, suo padre e

sua madre, comportarsi in maniera ignota e non prevedibile. Il sogno,

come afferma Freud, è il teatro simbolico dell’inconscio163, e non vi è

nulla di più familiare ed, al tempo stesso, estraneo, del proprio inconscio

che riemerge in quelle immagini notturne. Ed il risveglio, di

conseguenza, porta con sé una sensazione di disorientamento:

Coraline venne svegliata dal sole di metà mattina, che le illuminava il viso. Per un

istante si sentì profondamente scombussolata. Non capiva dove si trovasse; non era

nemmeno del tutto sicura di chi fosse. E’ sorprendente come ciò che siamo possa

dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente come tutto ciò

possa rivelarsi fragile.164 

Vediamo dunque che Coraline vive una situazione insoddisfazione nei

confronti della sua famiglia “reale”: il problema che spesso lamenta,

oltre alle mancate attenzioni da parte dei genitori, sempre intenti a

lavorare, è quello dato dall’assenza di cibo buono da mangiare. La madre

ed il padre reali, le servono pietanze scongelate, spesso a base di verdure.

L“Altra madre” soddisfa la fame di Coraline, una fame che, nel libro,

viene descritta come viva ed appassionata, anche se Coraline e la sua

famiglia non vivono certo in tempi di carestia, ambientazione storica che

troviamo invece in numerose fiabe. Ma a questa soddisfazione seguirà

immediatamente il terrore della scoperta della vera identità dell’ “Altra

162

  Grilli G., prefazione di Faeti A.,  In volo, dietro la porta, Cesena, Società Editrice “Il PonteVecchio”, 2010163 Freud S., L’interpretazione dei sogni, Cles, Bollati Boringhieri, 1994164 Gaiman N., Coraline, Cles(TN), Arnoldo Mondadori Editore, 2003

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madre”, una strega che divora l’anima dei bambini. Quindi, ancora una

volta, si oscilla fra il desiderio di divorare e il terrore di essere divorati.

C’è un evidente richiamo fiabesco a quello che Milena Bernardi chiama

“il ciclo della fame”:

(...)i pollicini sono sospesi tra il morire di fame e il morire divorati; (...)si costruisce

una catena di eventi che pongono l’infanzia nel bel mezzo di un metaforico banchetto

a cui partecipano adulti che interpretano ruoli densi di contraddizioni: adulti visti

dagli occhi dei bambini con lo sguardo “ingordo” delle loro fantasie “orali”, secondo

chiavi di lettura che la psicoanalisi collega alla proiezione degli impulsi aggressivi,

distruttivi, incorporanti; si veda bene, impulsi attribuibili sia ai bambini, sia agli

adulti;165 

Il cibo è indiscusso protagonista delle fiabe e tutti, potenzialmente, nelle

fiabe, sono cibo. E’ la legge della sopravvivenza, in cui, uomini e bestie,

possono essere prede o predatori, ed in questo cerchio di vita e di morte

in cui si inghiotte o si viene inghiottiti, si sbrana o si viene sbranati, ogni

creatura fa parte del banchetto dell’universo: “carne, carne, carne, carne,

ogni animale è fatto di carne, io sono carne, tutti i vostri sederi sono

carne. Ogni cosa fa parte del banchetto dell’universo”166. L’atto del

mangiare è un’azione dalle valenze profondamente archetipiche, poiché

richiama i primordi della vita: quando veniamo alla luce, siamo espulsi

dall’involucro di carne in cui eravamo contenuti ed, immediatamente,

iniziamo a nutrircene. Il bambino si attacca al seno materno, e la sua

fame è simbolo di svariati bisogni, non solo quello prettamente

fisiologico di essere nutrito: è il bisogno di essere accolto, riscaldato,

amato. Melanie Klein, nel saggio “Tendenze criminali nei bambini

normali”167, evidenzia come, già al termine del primo anno di vita, si

instauri nel bambino il complesso edipico, e che così come “l’individuo

165

Bernardi M., Infanzia e metafore letterarie:orfanezza e diversità nella circolarità dell'immaginario,Bologna, Bononia University Press, 2009166  Beast of the southern wild di Benh Zeitlin (USA) 2012167 Klein M., Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 2001

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ripete l’evoluzione dell’umanità sotto l’aspetto biologico, la ripete anche

sotto l’aspetto psichico”:

Troviamo perciò nello sviluppo, poi rimossi e inconsci, stadi che tuttora osserviamo

nei popoli primitivi: lo stadio del cannibalismo e di tendenze omicide dal carattere

più disparato. Questa componente primitiva della personalità è in totale contrasto

con la componente civilizzata, quella che in effetti genera la rimozione. L’analisi

infantile, e in particolare l’analisi dei bambini più giovani, cioè di quelli che hanno

dai tre ai sei anni, dà una visione veramente illuminata del modo in cui, in

tenerissima età, ha inizio la lotta fra la componente civilizzata e quella primitiva

della personalità168.

La Klein che attingeva il suo materiale teorico dall’osservazione del

gioco dei bambini, notava come quest’ultimi, una volta che l’analista

aveva contribuito ad abbassare la soglia delle rimozioni operanti contro

le fantasie, mettessero in scena, con giocattoli che rappresentavano i vari

componenti familiari, il materiale inconscio più profondamente rimosso.

Il meccanismo di rimozione è governato soprattutto dall’attività di critica

e di condanna del Super-io, di cui sono fonte i divieti e gli ordini dei

genitori che, durante il percorso di crescita, vengono man mano

assimilati dal bambino, ma il Super-io è composto anche da fantasie

sadiche peculiari del bambino. Questo tipo di fantasie, sottolinea la

Klein, sono presenti nel bambino “normale” così come in quello

“nevrotico”, la sviluppo della nevrosi si verifica nel caso in cui vi sia una

“fissazione”, che la Klein così spiega:

(...) la differenza fra i due è “l’intensità delle fissazioni, il modo e il tempo in cui si

ha la connessione delle fissazioni con talune esperienze, il grado di severità del

Super-io e il modo in cui questo si costituisce –che dipendono contemporaneamente

da fattori interni e da fattori esterni- e, inoltre, la capacità del bambino di tollerare

168 Ibidem p.65

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l’angoscia e il conflitto169.

Tramite l’attività fantastica, queste fantasie vengono sublimate attraverso

il gioco, ma se tale attività fantastica viene bloccata dal meccanismo

rimozione, non vi è possibilità di sublimazione e quindi di rielaborazione

e ciò porta ad una fissazione che si traduce in una coazione a ripetere. La

teoria di Melanie Klein converge quindi negli studi di Bruno Bettelheim:

il gioco, ma anche la narrazione di fiabe, potrebbero offrire ai bambini la

possibilità di affrontare e sublimare conflitti interiori tipici delle

primissime fasi di sviluppo.

169 Ibidem p.65

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CAPITOLO 3

RITROVARSI

(o smarrirsi definitivamente) 

3.1. Alla ricerca dell’Heimat

“Prendilo e chiudilo nella stia,” disse la Strega Bistrega “e domani di buonora,

mentre io sono via, fallo in spezzatino con patate”. Margherita Margheritone,

l'indomani mattina, prese un tagliere e una mezzaluna e aperse uno spiraglio nella

stia. “Pierino Pierone fammi un piacere, metti la testa su questo tagliere.” E lui:

“Come? Fammi un po' vedere.” Margherita Margheritone posò il collo sul tagliere e

Pierino Pierone prese la mezzaluna, le tagliò la testa e la mise a friggere in

 padella.Venne la Strega Bistrega ed esclamò: “Margheritone figlia mia bella, chi t'ha

messa lì in padella?”. “Io!” fece Pierino Pierone su dalla cappa del camino. “Come

hai fatto a salire lassù?”chiese la Strega Bistrega. “Ho messo una pignatta sopra

l'altra e sono salito”. Allora la Strega Bistrega provò a farsi una scala di pignatte per

salire ad acchiapparlo, ma sul più bello sfondò le pignatte, cadde nel fuoco e bruciò

fino all'ultimo briciolo170.

Questo è solo uno dei tanti finali sanguinosi che costellano le fiabe. I

 personaggi malvagi, ma non solo loro, vengono colpiti da punizioni

esemplari. Nelle fiabe il protagonista, per poter completare una

formazione identitaria, passa attraverso la propria ombra, si addentra in

una selva oscura. Pontremoli, parlando di Pinocchio, scrive:

Collodi ha scritto con  Pinocchio anche un romanzo di formazione, costellato di

 passaggi a punto di configurarsi complessivamente come viaggio reiteratamente

iniziatico; Pinocchio infatti, nel suo continuo andare, sempre correndo e sempre

incalzato di volta in volta dalla guazza e dagli assassini, dalla fame e dalle nottatacce

d’inverno, dalla morte e dai sensi di colpa, dal desiderio e dall’oppressione, altro non

170  “Il bambino nel sacco” da Calvino I., illustrazioni di Emanuele Luzzati,  L’uccel Belverde e altre

 fiabe italiane, Moncalieri(Torino), Giulio Einaudi Editore, 1993

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fa che incappare nella scoperta del lato oscuro della realtà171.

 Non sempre c’è un lieto fine: c’è chi rimane intrappolato in quel “lato

oscuro della realtà”, nella propria notte nera. Zio Lupo divora la

 bambina golosa. Cappuccetto Rosso, nella versione di Perrault, viene

mangiata dal Lupo. Stan Uris, uno dei bambini del romanzo  It 172

 , da

adulto si suiciderà nel momento stesso in cui apprenderà che deve

tornare con gli altri a Derry, per affrontare di nuovo It: l’idea di dover

rincontrare i mostri del passato lo atterrisce al punto dal togliersi la vita.

Ed anche Eddi, il ragazzino oppresso da una madre morbosa, verrà

ucciso nello scontro finale con It: la creatura gli mozzerà il braccio che,

da bambino, i bulli del quartiere gli avevano spezzato. I reduci del

gruppo dei Perdenti, dopo un terribile combattimento, riusciranno a

riemergere dalle fognature, potranno così finalmente chiudere i conti con

il passato e diventare grandi. Nei romanzi per ragazzi, ma anche nelle

fiabe, il lieto fine non è scontato.

Come abbiamo visto il lieto fine rappresenta un’acquisizione piuttosto recente

rispetto alla storia della fiaba. Basare la propria interpretazione su dei dettagli

inesistenti in tutte le versioni precedenti a quella dei Grimm è segno di una certa

indifferenza nei confronti dell’evoluzione del pensiero che si esprime nella fiaba.

Invece che considerare la fiaba nella sua “forma appiattita in una contemporaneità

atemporale”, sarebbe più opportuno osservare, proprio tramite il confronto tra

diverse versioni della stessa fiaba, come i modi di pensare siano radicalmente mutati

nel corso dei secoli. Anche nel caso di Bettelheim, l’interpretazione si intreccia

all’uso del testo, e questa operazione (ricca di spunti molto stimolanti) sfocia in

un’ennesima riscrittura della fiaba.173 

Quello che è emerso nel secondo capitolo, quando è stata riportata la

171 Pontremoli G., Elogio delle azioni spregevoli, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004172 King S., IT, Borgo San Dalmazzo (Cuneo) Sperling &Kupfer Editori, 1992 173 Pisanty V., Leggere la fiaba, Bergamo, Bompiani, 1998

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versione di Scarpette rosse174

  ricordata di Clarissa Pinkola Estes, è la

versatilità delle fiabe, le quali sono inafferrabili ed infinite proprio

 perché soggette ad innumerevoli variazioni a seconda di chi le ascolta e

di chi le racconta. I tre temi di questa tesi non sono altro che il

canovaccio attorno al quale si sviluppano gli eventi narrativi, che variano

in maniera imprevedibile. La letteratura mette in luce la complessità

emotiva dell’infanzia che, nel luogo comune, viene ritenuta una fase

della vita in cui l’individuo non cova in sé conflitti e rabbie. Ma invece,

come scrive Melanie Klein:

Ad onta di quella psicologia e pedagogia che continuano sempre a conservare la

convinzione che il bambino sia un essere felice e senza conflitti e a presumere che le

sofferenze dell’adulto siano prodotte dal peso e dalle asprezze della realtà, occorre

proclamare che è vero esattamente il contrario. Ciò che mediante la psiconalisi

apprendiamo sul bambino e sull’adulto è che tutte le sofferenze della vita sono per la

maggior parte ripetizioni di quelle della prima infanzia e che in quest’età ogni

bambino passa attraverso sofferenze smisurate175.

Uno scioccante caso di cronaca relativo all’infanzia, riportato anche nel

libro di Kerneberg176 nel capitolo introduttivo al disturbo antisociale di

 personalità, è l’omicidio di James Bulger, un bambino di soli tre anni,

che fu assassinato nel 1993 a Liverpool, in Inghilterra, da due ragazzini

di 10 anni, Jon Venables e Robert Thompson. In questo ed in altri casi, la

rabbia infantile ha dimostrato di poter raggiungere livelli d’ira

incontrollabile. Roberto, protagonista nell’albo illustrato177  di Mireille

d’Allancé, per poter vivere completamente la propria rabbia si sdoppia e

si identifica con un mostro rosso. L’adulto, come ribadito anche dalla

Montessori, è bene abbia ruolo contenitivo e limitativo nei confronti del

174 Pinkola Estés C., Donne che corrono coi lupi: il mito della donna selvaggia, Piacenza, Frassinelli,2002175

 Klein M., Scritti 1921-1958, Torino, Bollati Boringhieri, 2001 176  Kernberg P.F.,Weiner A.S.,Bardenstein K.K.,  I disturbi di personalità nei bambini e negli

adolescenti, Roma, G.Fioriti, 2001177 D’Allancé M., Che rabbia!, Milano, Babalibri, 2011

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bambino.

Si oscilla spesso –maestri, genitori- tra due modi di porsi in rapporto ai bambini. Da

una parte sta la schiera dei burrosi che, in un’orgia di diminutivi e leziosaggini,

bamboleggiano tristemente e ridicolmente e comprimono i bambini in un preteso“mondo dell’infanzia” intollerabilmente falso; dall’altra sta l’armata dei seriosi

pontefici, torrenziali e cupi elargitori di sentenze che non sanno vedere altro che sé –

un sé imperiale, invasore, cui l’altro deve solo assoggettarsi. Eppure l’infanzia è un

tempo non eludibile della vita di ogni uomo e come tale dovrebbe essere considerata.

E si dovrebbe assumere come un’affermazione ben provvista di senso quello che solo

apparentemente è una sciocca tautologia: i bambini sono bambini. (...) Non sono

adulti; non sono piccoli adulti; sono solo (solo?) esseri umani che percorrono un

tempo specifico del loro essere, camminando camminando, come esseri umani.178 

Dunque, come scrive Pontremoli, “i bambini sono bambini”, e come tali

hanno bisogni consonanti a “quel tempo specifico del loro essere”, ma il

fatto che stiano vivendo “quel tempo specifico” non li rende per questo

emotivamente meno “variegati”:

(...)essi sono fatti anche di fantasia, ragione, riflessione, sentimento, corpo, passioni.

E tutti in misura diversa, perché intervengono in loro -così è per tutti- mille cose. E ci

sono quindi bambini ricchi e bambini poveri; bambini assediati e bambini

abbandonati; quelli che hanno la colf e quelli che hanno l’assistente sociale; alcuni

hanno dei fratelli, altri dei televisori, altri fame, altri puzza sotto il naso. E così ci

sono bambini tristi, allegri, noiosi, antipatici, saggi, saccenti, arguti, crudeli, teneri,

costruiti, affettuosi, spontanei, ricci, estroversi, fantasiosi...-ognuno può proseguire,

basta guardarsi intorno.179 

La letteratura, nelle sue storie, affronta dunque aspetti del nostro animo,

della nostra umanità e, al di là dell’interpretazione che vogliamo

attribuire ai singoli elementi del racconto, è questo il suo innegabile

valore: allarga la nostra prospettiva, ci porta a riflettere su temi

178 Pontremoli G., Elogio delle azioni spregevoli, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004 179 Ibidem

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esistenziali, conflitti, interrogativi, che sarebbero altrimenti rimasti in noi

sopiti ed inespressi.

 Raccontare storie ai bambini, cioè aiutarli a crescere, aiutarli a imparare a vivere.

Vivere, crescere. Non: sopravvivere; non : trascinarsi. Vivere e crescere – ecambiare, quindi. Magari. Magari guardando e prendendo in mano il Qui, per

 progettare un Altrove che non si trovi altrove ma che sia qui, che sia il Qui

trasformato. Allora però è necessario che dietro il raccontare , prima del raccontare,

ci sia qualcosa di enorme, come il senso stesso della propria esistenza. Una passione

vera, almeno, che muova e accompagni –che perseguiti, forse; che non lasci respiro

al respiro affannoso, all’arrancare, e che aliti invece il proprio respiro ampio. Si può

chiamare amore, dolore, Dio –ognuno ha la propria storia-: non è il nome che conta,quel che è essenziale è che la rivelazione ci sia e sia mantenuta viva e alimentata:

con passione, con disponibilità a stupirsi e a rinnovare lo stupore180.

La fiaba può in questo senso offrire molto di più di un semplice lieto

fine: può donare la sensazione che, qualunque cosa sia, qualunque

sentimento, personaggio, paura sia, se ne può parlare. Esiste, fa paura,

ma non c’è bisogno di allontanarla, estirparla, può essere affrontata e,anche se non ci sarà un lieto fine, potrà essere comunque compresa.

Ritroviamo questo concetto nell’analisi che Marcella Terrusi fa dell’albo

illustrato di Erlbruch, L’anatra, la morte e il tulipano181

:

La morte indossa una vestaglia da nonnina, l’anatra si protende al cielo con la grazia

di una ballerina. Fra le due si svolge una danse macabre che ha un sapore ancestrale,

un’amicizia fatale. Indescrivibilmente dolce è il loro abbraccio. La nota finale diErlbruch è pedagogica, un requiem che senza timore contrappunta alla morte

dell’anatra, al suo sonno e al suo viaggio finale sul fiume, di sapore orientale, con

saggezza popolare: “ma così era la vita”. Il tono è rassicurante. Questa è una storia

fra le storie, nell’infinito ciclo della vita del mondo, dell’alternarsi di notte e giorno,

di morte e cominciamento. E, per chi nutrisse ancora dubbi pedagogici sulla presenza

di un tale personaggio in un libro per bambini, Erlbruch ritrae nell’ultimissima

180 Ibidem p.71 181 Erlbruch W., L’anatra, la morte e il tulipano, Roma, Edizioni e/o, 2009

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 pagina, un’ultima volta, la dolce signora in vestaglia, in compagnia di una volpe e di

un coniglio, proprio là in mezzo al loro naturale e infinito girotondo, come dire che là

che ella abita da sempre, nella più antica narrazione del mondo dalla fiaba in poi.182 

In questo albo si affronta dunque il tema della morte con dolcezza

rassicurante: l’anatra viene portata via dalla corrente, scivola dolcemente

in un fiume nero. Ma non c’è paura: è l’ineluttabilità della vita che con

sé porta l’indispensabile necessità della consapevolezza della nostra

finitezza e dei nostri limiti in quanto esseri umani. Nel film  Monsieur

 Lazhar 183, una maestra si impicca all’interno della scuola elementare

nella quale insegnava; il suo atto suicida, come sottolineerà una delle sue

alunne, è impregnato non solo di disperazione, ma anche di

“aggressività”. Gli studenti sarebbero desiderosi di parlare dell’accaduto,

ma il rifiuto arriva proprio da parte degli adulti, che cercano di

rimuovere la tragedia, di confinarla nella discussione settimanale fra i

 bambini e la psicologa della scuola. Gli insegnanti e i genitori credono

che nascondendo l’accaduto tuteleranno i bambini. Ma il suicidio della

maestra riemerge pericolosamente nella quotidianità dei bambini; si

manifesta nei litigi, nei gesti, ma specialmente nelle parole che una

 bambina scrive nel suo tema, parlando a proposito del suicidio della

maestra, Martine Lachance: “a volte mi chiedo se ci abbia voluto

trasmettere un messaggio violento. Quando noi siamo violenti ci mettono

in castigo. Ma noi non possiamo mettere in castigo Martine Lachance,

 perché lei è morta”. Il maestro, Monsieur Lazhar, vorrebbe diffondere il

tema della bambina perché ritiene che nel tema vi sia “la volontà di

comunicare, il desiderio di affrontare il concetto di morte”. Ma la preside

non vuole perché ritiene il testo “violento” e Monsieur Lazhar allora

controbatte: “è la vita ad essere violenta, non questo tema, non c’è nulla

di macabro qui dentro” e definisce il turbamento dei compagni di classe,

182 Terrusi M., prefazione di Antonio Faeti,  Albi illustrati: leggere, guardare, nominare il mondo nei

libri per l'infanzia, Roma, Carocci Editore, 2012183  Monsieur Lahzar  di Philippe Falardeau, (Francia/Canada) 2012 

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che hanno ascoltato la lettura ad alta voce del tema, come un

“turbamento sano”. Monsieur Lazhar suggerisce che la sensazione di

turbamento non dovrebbe essere respinta a priori, ma che dovrebbe

invece essere affrontata tramite il dialogo, attraverso il riconoscimento e

l’accettazione dei sentimenti di cui il suicidio è stato portatore.

I genitori che vogliono negare che il loro figlioletto ha desideri omicidi e vuole fare a

 pezzi cose e addirittura persone, credono che al loro bambino debba essere impedito

di covare pensieri del genere (come se fosse possibile). Negando l’accesso a storie

che implicitamente dicono al bambino che altri hanno le stesse fantasie, gli viene

lasciato credere che è l’unico a pensare cose del genere. Ciò rende le sue fantasie

veramente terrificanti. Invece che apprendere che altri hanno fantasie uguali o simili

alle nostre ci fa sentire di far parte dell’umanità e dissipa la nostra paura che il fatto

di avere simili idee distruttive ci abbia escluso dalla società.”184 

 Nell’albo illustrato,  Il Demone della foresta185, si narra la storia di Ran,

un bambino adottato che si sente differente dai suoi coetanei: è più forte

e più grosso rispetto agli altri bambini e, grazie a queste sue

caratteristiche, ama spaventarli. Queste capacità fanno sì che Ran si

senta “invincibile”, ma al tempo stesso lo allontanano dal prossimo, lo

isolano e lo rendono perciò sempre più triste, sempre più solo. Nainai, la

donna che si prende cura di lui, vedendo Ran così infelice, teme possa

diventare cattivo e e si rivolge perciò il Budda, chiedendogli consiglio.

Dopo questa preghiera, nel cuore della notte, Ran si sveglia e si reca

nella foresta. Lì incontra uno spaventoso demone, con il quale il bambino familiarizza, diventandone amico. I bambini del villaggio, la

mattina dopo, trovano Ran svenuto e disteso nell’erba. Lo portano quindi

a casa e, il giorno dopo, si recano con lui nella foresta per incontrare il

suo Demone che, puntuale, appare. La storia si conclude con una

184 “Le fiabe e le paure dei bambini” di Bettelheim B. da Poe E.A.,Bradbury R.,Kafka F. e altri, a curadi G.Armellini, Il piacere di aver paura: racconti dell’orrore e dell’assurdo, San Giustino (Perugia),La Nuova Italia, 1994185 Hong C.J., Il demone della foresta, Poiters (Francia), Babalibri, 2006

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splendida immagine nella quale Ran, in compagnia del suo Demone,

 balla sotto la luna con i bambini del villaggio. Analizzando l’albo

secondo la prospettiva di Bettelheim, il Demone rappresenta la parte

oscura di Ran, quella che lui stesso non conosce fino in fondo e ne è per

questo dominato. Non si sente compreso dall’ambiente e dalle persone

che lo circondano perché sente che la sua Ombra non può essere

accettata, deve essere vissuta in solitudine e nascosta nella foresta. Solo

dopo essere entrato in contatto profondo con questa parte del suo animo,

essere diventato suo amico, Ran potrà permettersi di mostrarla agli altri

 bambini, i quali non scappano di fronte al Demone, ma lo accettano anzi

in quanto amico di Ran e, festosamente, si uniscono a lui in una danza

selvaggia sotto la luna. Il bambino non si sente più solo perché non è più

il custode di un segreto inconfessabile, ossia avere una parte demoniaca.

Ran capisce che quel segreto non è così terribile, perché gli altri bambini

 possono capirlo ed accoglierlo, forse perché anche loro, da qualche parte

nella foresta, hanno un Demone amico. La fiaba mette fisicamente in

scena, tramite il Demone, l’angoscia del bambino che si sente isolato a

causa delle sue differenza caratteriali.

Poiché le fiabe mettono in scena le angosce, alcuni pretendono, a torto, che insinuino

la paura nel bambino. Coloro che pensano così dimenticano che l’uomo aveva

eccellenti motivi per inventare le fiabe e che queste non esisterebbero se non fossero

raccontate e ascoltate con piacere per motivi altrettanto validi. (...) Consentono di

dare un volto ad angosce indeterminate e, allo stesso tempo, le rendono molto piùfacili da dominare. Le angosce confuse sono molto più terrificanti che non quelle dai

contorni definiti. Più riusciamo a concretizzare l’angoscia e meno ci ossessiona. Più

ci diventa familiare, più opportunità abbiamo di trovare un metodo che ci consentirà

di calmarla e, al contempo, di proteggerci dal male e di allontanarla.186 

Tramite il suo teatro di archetipi la fiaba concretizza sensazioni, stati

186Introduzione di Bettelheim B. da Perrault C., traduzione di C.Collodi, introduzione di B.Bettelheim , I racconti di Mamma Oca : le favole di Perrault seguite da favole di Madame d' Aulnoy e

di Madame Leprince de Beaumont , Milano, Feltrinelli, 1979

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mentali del bambino: nel caso de  Il Demone della foresta187 , il Demone

incarna l’aggressività, la forza brutale che, se non è contenuta, diventa

distruttiva ed isola dal resto del mondo. Jack Zipes, parlando della

 prospettiva secondo la quale Bettelheim analizza le fiabe, dice:

Bruno Bettelheim sosteneva che la fiaba estraniasse il bambino dal mondo reale e gli

consentisse di affrontare problemi psicologici profondamente radicati ed eventi che

 provocavano ansia nel processo di acquisizione dell’autonomia. Che questo sia vero,

cioè che una fiaba possa davvero fornire i mezzi per affrontare i disturbi dell’io,

come sostiene Bettelheim, resta da vedere. E’ vero, tuttavia, che ogni volta che

iniziamo ad ascoltare o a leggere una fiaba sperimentiamo una forma di straniamento

o una separazione dal mondo familiare, il che induce un sentimento perturbante che può essere spaventoso e al tempo stesso rassicurante.

188 

La riflessione di Zipes prende forma dalle conclusioni di Bettelheim,

 producendo nuovi concetti: secondo l’autore il capovolgimento del

mondo reale che, per Bettelheim, avviene durante la lettura di una fiaba,

esiste già prima della lettura stessa: lo scrittore, infatti, invita il lettore a

ripetere l’esperienza della dislocazione dal contesto familiare e

dell’identificazione col protagonista dislocato, dunque, ad una duplice

ricerca dell’ Heimisch  ovvero la casa, la patria, la famiglia. Zipes, a

differenza di Bettelheim, teorizza una ricerca bipartita nella lettura della

fiaba: una psicologica, difficile da interpretare poiché troppo legata alle

diversità individuali, l’altra contestualizzata all’hic et nunc storico e

sociale. La ricerca dell’heimisch  può essere regressiva o progressiva aseconda di come si pone l’autore nei confronti della società. Nonostante

ciò la concezione dell’ heimat  –patria intesa come identità comune- ha

una nozione fortemente progressiva per il lettore di fiabe, anche se le

ambientazioni fiabesche hanno continui rimandi ad un mondo

187

 Hong C.J., Il demone della foresta, Poiters (Francia), Babalibri, 2006 188  Zipes J., traduzione di G.Grilli, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della

 sovversione, Milano, Mondadori, 2006

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 primigenio. Jack Zipes, citando Hernst Bloch, scrive che il sogno inteso

come desiderio, come volontà di reagire ad uno stato di oppressione,

anche sotto forma di proiezione mentale, è la spinta che permette ad ogni

essere umano, anche soltanto in sogno, di ribellarsi e creare, per se

stesso, una realtà futura meno iniqua della precedente.

In questo senso tutti gli esseri umani sono virtualmente futuristi; essi trascendono la

loro vita passata, e nella misura in cui non sono soddisfatti, pensano di meritare una

vita migliore... e considerano l’inadeguatezza della loro specie come una barriera da

superare e non semplicemente come il modo d’essere delle cose.189 

La definizione di Heimlich fornitaci da Hernst Bloch è la seguente:

Una volta che l’uomo ha compreso se stesso e ha stabilito la propria dimensione

nella reale democrazia, senza spersonalizzazione e alienazione, qualcosa sorge nel

mondo che tutti gli uomini avevano intravisto nell’infanzia: un luogo e uno stato nel

quale nessuno si era ritrovato ancora. E in nome di questo qualcosa è casa o patria.190 

Jack Zipes illustra che nella maggior parte della fiabe vi è uno schema

secondo il quale il personaggio principale è chiamato, lungo il suo

 percorso, a trovare un nuovo piano sul quale ricostruire la propria

 Heimat . Gli studi di Hernst Bloch hanno cercato di fare luce su il fascino

esercitato dalle fiabe attraverso le diverse età, diverse epoche storiche,

fino ad una analisi approfondita delle forme moderne di fiaba e di

fiabesco. Bloch giunge alla conclusione che l’atemporalità nelle fiabe

tradizionali mantiene vivi i sentimenti ed il sogno di migliorare il

 presente al fine di ricongiungersi, in futuro, all’età del mito che precede

il “c’era una volta”. Questo è il messaggio del protagonista delle fiabe

moderne secondo Bloch: “pensa di essere nato libero e in diritto di essere

totalmente felice, usa liberamente le tue capacità di ragionare, pensa in

189 Hernst Bloch da Zipes J., traduzione di G.Grilli, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte

della sovversione, Milano, Mondadori, 2006190 Ibidem 

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modo ottimistico all’esito finale”.191  L’analisi di Bloch si appoggia al

concetto freudiano di sogno/desiderio: se il sogno fine a se stesso non è

fecondo, ma anzi controproducente, vi è pur sempre, nei sogni, un buon

contenuto.

(...) possibilità non realizzate che il destino potrebbe tenere in serbo e alle quali la

fantasia vuole ancora aggrapparsi, e inoltre tutte le aspirazioni dell’io che per

sfavorevoli circostanze esterne non hanno potuto realizzarsi, oltre a tutte le decisioni

della volontà che sono state represse e che hanno prodotto l’illusione del libero

arbitro”192 

Questo buon contenuto permette al lettore di coltivare lo spiritoevolutivo ed emancipatorio che le fiabe promuovono. Per spiegare il

motivo per il quale il pubblico delle fiabe è compreso nella fascia d’età

fra i cinque ed i dieci anni, Jack Zipes cita André Favat che, a sua volta,

chiama in causa Jean Piaget e spiega come le fiabe classiche descrivono

una realtà, se non del tutto, in buona parte consonante con la percezione

che i bambini dai sei agli otto anni hanno di sè e del mondo. Secondo

Piaget:

Durante questa particolare fase evolutiva i bambini credono nel rapporto magico tra

 pensiero e cose, considerano gli oggetti inanimati come animati, rispettano l’autorità

nella forma della giustizia retributiva e della punizione espiatoria, vedono la causalità

come paratattica, non distinguono il sè dal mondo esterno e credono che gli oggetti

 possano essere spostati in una continuità di risposta con i loro desideri193.

Grazie a queste considerazioni di Piaget, Favat riesce a dimostrare anche

il motivo per il quale, compiuti i dieci anni d’età , vi è un rifiuto nei

confronti delle fiabe: la percezione di sè e del mondo, nel bambino, si è

evoluta: la sua morale si fonda su un concetto di giustizia che, da

191 Ibidem192

 Freud S. da Zipes J., traduzione di G.Grilli, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della sovversione, Milano, Mondadori, 2006 193 Piaget J. da Zipes J., traduzione di G.Grilli, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della

 sovversione, Milano, Mondadori, 2006

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retributiva, diviene distributiva cioè uguale per tutti. Il suo animismo ed

il suo pensiero magico sfumano, rendendo così le fiabe inattuali per l’età

che sta vivendo fino a farle divenire completamente sgradite. Favat nota

anche che, finita l’adolescenza, si manifesta un ritorno di interesse nei

confronti della fiaba, tale interesse è tutt’altro che un banale capriccio di

tornare bambini, bensì la volontà di vedere la propria Heimat   compiuta,

come un cerchio che si chiude. Zipes, infine, sintetizza il pensiero di

Piaget, Freud, Bloch e Favat, rispetto al heimisch, notando che se, come

teorizza Bloch richiamando Freud, il buon contenuto dei sogni ispira un

 processo evolutivo ed emancipatorio progressivo, è altresì vero che le

fiabe classiche, in ossequio al concetto di giustizia retributiva e

 punizione espiatoria, proprio della forma mentis dei bambini dai cinque

ai dieci anni, presentano forme di giustizia e moralità regressive. Zipes

scrive quindi:

(...)in ultima analisi, per essere emancipatoria, la fiaba deve soprattutto proiettare su

un piano conscio letterario e filosofico l’oggettivazione della casa come di una reale

democrazia con condizioni non alienanti. Questo significa non che debba avere una

risoluzione morale e dottrinaria, ma che debba riflettere un processo di lotta contro

tutti i tipi di oppressione e di autoritarismo e postulare varie possibilità per una

concreta realizzazione di utopie.194 

Per Zipes non bisogna confondere “lieto fine” con “utopia”, poiché il

lieto fine è la conseguenza dell’espressione di un potere monarchico,

feudale, patriarcale, borghese. Compito degli scrittori contemporanei,

contro-culturali, è tentare di dare una definizione progressiva al concetto

di “casa”. Nel far convogliare le testimonianze di vari studiosi, Zipes

concretizza il fine ultimo del protagonista delle fiabe: tornare a casa,

dunque, una casa intravista nell’infanzia che non è soltanto casa, ma

identità, patria, democrazia. L’approccio esclusivamente psicologico di

194  Zipes J., traduzione di Grilli G., Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte della

 sovversione, Milano, Mondadori, 2006

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Bettelheim viene appena citato e considerato di difficile analisi poichè

soggetto a troppe variabili di individuali e contestuali, il modus operandi

adottato è quello del materialismo storico Marxista secondo il quale non

è l’individuo a determinare il contesto sociale, ma il contrario. 

3.2.Dall’essere cresciuti al far crescere 

Verso la fine del romanzo di Salinger, Holden ha ormai deciso di partire

 per vivere in una capanna, ai margini della società, rompendo

definitivamente i contatti con la famiglia e non tornando più a scuola, si

verifica un fatto che lo porta cambiare la propria decisione e, forse, -illibro termina con un interrogativo sul futuro- la sua vita. Phoebe

comunica infatti al fratello di voler partire con lui. Si presenta con una

grossa valigia a quello che avrebbe dovuto essere, secondo Holden,

l’appuntamento nel corso del quale si sarebbero dovuti dire addio.

Holden si infuria con la sorella, la rimprovera duramente:

Mi pareva che dovevi recitare a scuola e via discorrendo. Mi pareva che in quella

recita dovevi fare Benedict Arnold e via discorrendo, -dissi. Lo dissi rabbiosissimo. – 

Che cosa vuoi fare? Non vuoi più fare la recita, Dio santo? -Questo la fece piangere

ancora più forte. Ci avevo gusto. Tutt’a un tratto avrei voluto che le cadessero gli

occhi dal gran piangere. La odiavo, quasi. Credo che la odiavo soprattutto perché se

veniva via con me non avrebbe più fatto quella recita.195 

Holden comunica rabbiosamente alla sorella che non ha più intenzione di

 partire. Phoebe piange, poi si chiude in un risentito silenzio nei confronti

del fratello. I due si recano allo zoo, dove continuano a vagare in

un’atmosfera sospesa a metà fra il conflitto e l’imminente pacificazione.

La scrittura di Salinger trasmette al lettore la commozione nello scambio

fra i due personaggi: il profondo amore che li lega l’uno all’altra, il

195 Salinger J.D., Il giovane Holden, Gli Struzzi, Farigliano (Cuneo), Einaudi Editore, 1999

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desiderio di superare le difficoltà esistenziali restando finalmente vicini.

Phobe ed Holden giungono infine di fronte ad una giostra, in cui si

recavano con gli altri due fratelli, Allie e D.B., quando erano piccoli.

Allie e D.B. sono “i grandi assenti” di cui, per tutto il libro, si percepisce

la costante presenza proprio in virtù della loro assenza: Allie è morto,

D.B. lavora ad Hollywood e e dai racconti di Holden si intuisce che è

stato probabilmente inghiottito da una frenetica corsa al successo.

Holden incita Phoebe affinché salga sulla giostra:

-Sono troppo grande,- disse Phoebe.(...) -No che non lo sei. Vai pure. Io ti aspetto

qui. Vai, su,- dissi. (...) Sulla giostra c’erano alcuni bambini, per lo più molto piccoli,

e i genitori li stavano aspettando lì avanti, seduti sulle panchine e via discorrendo.

Allora finì che andai allo sportello dove vendono i biglietti e ne presi uno per la

vecchia Phoebe. (...) Allora la giostra si mise in moto e io guardai Phoebe che girava,

girava. (...) Tutti i bambini si sforzavano si afferrare l’anello d’oro, anche la vecchia

Phoebe, e io avevo paura che cadesse da quel maledetto cavallo, però non dissi e non

feci niente. Il fatto, coi bambini, è che se vogliono afferrare l’anello d’oro, uno deve

lasciarli fare senza dire niente, Se cadono, amen, ma è un guaio se gli dite qualcosa.Finito il giro, lei scese dal suo cavallo e venne da me. –Stavolta vieni anche tu,-

disse. -No, sto solo a guardarti. Mi sa che sto solo a guardarti,- dissi.196 

Holden non sale sulla giostra, ma resta a guardare la sorellina. La

osserva con una certa apprensione, teme infatti che possa cadere mentre

 prova ad afferrare l’anello d’oro che pende dalla giostra. Sceglie però di

non intervenire, di controllarla senza limitarla: in questo passo si sentono

echeggiare le parole di Maria Montessori197. Holden è diventato adulto e,

come gli altri genitori, aspetta sulla panchina che Phoebe termini il suo

giro sulla giostra. Da vigilato  è diventato vigilante. Holden, come

Pinocchio ,  accede ad una nuova fase della vita: la maturità. Prendersi

196 Ibidem p.80197 Montessori M., La scoperta del bambino, Milano, Garzanti, 1970

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cura di qualcuno, come Pinocchio fa con la Fata e con il padre, come

Holden fa con la sorellina Phoebe, attesta un cambiamento evolutivo in

atto. La sua cronica mancanza d’obiettivi, l’incapacità di sottomettersi

alle regole sociali, è in parte data dal terrore di crescere e di assumersi

delle responsabilità. Non sopporta che Phoebe possa comportarsi allo

stesso modo, seguendolo nel suo viaggio ai margini della società. La

fissazione evolutiva di Holden, il suo desiderio di tornare nel passato, è

intuibile leggendo altri passi del libro, nei quali il ragazzo rievoca la

 propria infanzia come un periodo mitico, un’età dell’oro:

La scuola di Phoebe era la stessa dove andavo io da bambino, e non facevano che

 portarci al museo. Avevamo quella maestra, la signora Aigletinger, che ci portava là

tutti i maledetti sabati o quasi. (...) Mi sento molto felice quando ci ripenso. (...)

Ragazzi, quel museo era pieno di bacheche. (...) La cosa migliore di quel museo era

 però che tutto stava sempre allo stesso posto. Nessuno si muoveva. Potevi andarci

centomila volte, e quell’esquimese aveva sempre appena finito di prendere quei due

 pesci, gli uccelli stavano ancora andando verso il sud, i cervi stavano ancora

abbeverandosi a quella fonte, con le loro belle corna e le belle, esili zampe, e quella

squaw col petto nudo stava ancora tessendo la stessa coperta. Nessuno era mai

diverso. L’unico ad essere diverso eri tu. (...) Certe cose dovrebbero restare come

sono. Dovreste poterle mettere in una di quelle grandi bacheche di vetro e

lasciarcele198.

Il desiderio di restare in un mondo sempre uguale, in cui tutto non

cambia mai, in cui la vita è eterna ed immutata, come fosse conservata

dentro ad una bacheca di vetro simile a quella che tutela il sonno eterno

di Biancaneve, è un sentimento tipico dell’infanzia. Il bambino, nei

 primissimi anni, ha necessità di avere una vita scandita dalle routine e da

gesti che è in grado di prevedere: poiché non ha ancora sviluppato una

 propria memoria e non ha coscienza del futuro, necessita di essere

198 Salinger J.D., Il giovane Holden, Gli Struzzi, Farigliano (Cuneo), Einaudi Editore, 1999

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rassicurato con la costante ripetizione di piccoli riti secondo uno stesso

ordine: dopo il pranzo sa che potrà giocare, dopo il gioco sa che potrà

dormire, dopo aver dormito sa che potrà risvegliarsi e fare merenda. La

 possibilità di figurarsi ciò che sarà, lo emancipa dalle paure che

altrimenti lo attanaglierebbero, ossia il timore che sarà abbandonato e

che le cure che riceve nel presente non avrà la certezza di riceverle anche

in un secondo momento.

Il bambino, in questo modo, attraverso la ripetitività dell’esperienza, costruisce la

 percezione della realtà e la memoria di questa; (...) Ripetere i gesti ritualizzati anche

nei momenti del cambio o prima di andare a dormire può significare per il bambinogarantirsi la costanza del mondo, di un mondo che cambia continuamente e

soprattutto affermare la sua presenza nel mondo. E’ attraverso il rituale, sollecitato

dall’educatrice, che si ottiene l’obiettivo di costruire una struttura di riferimento che

non varia, mediante la quale il bambino organizza confini di stabilità contro la

mutevolezza degli eventi199.

La famiglia di Holden, dopo la morte del fratello Allie, si disgiunge. Ilragazzo, che ha vissuto drammaticamente sia il lutto, sia la frattura

dell’ordine familiare, rimpiange costantemente il proprio passato e non

nutre alcuna fiducia nel futuro.

Anche Bastian, il bambino protagonista del libro La storia infinita200, ha

subito una perdita che ha cambiato in maniera radicale la sua esistenza.

Bastian, all’inizio del racconto, è un personaggio selvatico in cerca dellasua collocazione identitaria nel mondo. La prima descrizione che

l’autore ci offre di lui è quella di un ragazzo grassoccio, insicuro, in

costante fuga dai compagni di scuola prepotenti. Bastain si rifugia

all’interno di una libreria ed è lì che incontrerà il libro dei libri, la storia

emblema di tutte le storie, la quale lo aiuterà, durante la lettura, a trovare

199 Galardini A.L., Crescere al Nido: gli spazi, i tempi, le attività, le relazioni, Roma, Carocci, 2006200 Ende M., La storia infinita, Bergamo, TEA, 2008

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se stesso. Un grave lutto familiare, la morte della madre, ha inibito il suo

 percorso di crescita. Combattere al fianco del suo amico narrativo,

Atreiu, la battaglia contro il Nulla, che minaccia di divorare l’Impero di

Fantasia, lo aiuterà a fronteggiare la lotta contro il  suo Nulla Interiore,

quello che la morte materna ha lasciato in lui. Fantasia è il regno della

speranza, della rinascita esistenziale:

“Caro mio, ci sono persone che non potranno mai arrivare in Fantàsia”, disse il

signor Coriandoli, “e ci sono invece persone che possono farlo, ma che poi restano là

 per sempre. E infine ci sono quei pochi che vanno in Fantàsia e tornano anche

indietro. Come hai fatto tu. E questi risanano entrambi i mondi.”201

 

Peter Pan, archetipo del bambino che non vuole crescere, ha scelto di

rimanere per sempre nella sua personale Fantasia. Holden, potenziale

Peter Pan, vuole che tutto rimanga statico, come fosse conservato nella

 bacheca di un museo. L’Isola che non c’è appare come il regno

dell’eterno gioco, dell’infanzia infinita, una terra al di là del tempo. Peter

Pan è il bambino che ha rinunciato a crescere e che, per questo motivo,

ha subito l’affronto più grande che un bambino possa subire: l’essere

dimenticato dalla propria mamma.

(...) la finestra era chiusa, e davanti c’erano delle sbarre di ferro. Sbirciando dentro

vide sua mamma che dormiva pacificamente e fra le braccia teneva un altro bambino

 piccolo. Peter chiamò, “Mamma! Mamma!” ma lei non lo sentì; invano battè le piccole mani contro le sbarre di ferro. Dovette rivolarsene singhiozzando ai Giardini

e non rivide mai più la sua cara mamma. Che bambino stupendo aveva pensato di

essere per lei!202 

Il narcisismo del bambino viene offeso in maniera irreparabile. Accettare

201 Ibidem 202 Barrie J.M., prefazione di A.Faeti,  Peter Pan nei giardini di Kensington, S.Bonico(PC), I DelfiniFabbri Editori, 2004

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di non essere più l’assoluto protagonista non solo del suo mondo

fantastico, ma anche del mondo materno, causa in lui una ferita

incurabile. Resterà piccolo per sempre. Crescere significa compiere una

rinuncia nei confronti della propria onnipotenza, accettare di non essere

il sovrano assoluto, il creatore/distruttore del proprio mondo e del mondo

altrui. Nel film di Spike Jonze,  Nel Paese delle creature selvagge203

 ,

opera liberamente ispirata all’albo illustrato di Maurice Sendak, questo

concetto è messo in scena in modo lampante. Max non accetta che la

madre possa avere un proprio spazio, un’esistenza che non sia

completamente soggiogata dai suoi capricci. Per questo motivo, prima di

cena, ingelosito dalla presenza dell’amante della madre, indossa il suo

costume da Lupo e diventa un tutt’uno con la sua anima selvatica. Max

sale in piedi sul tavolo e urla alla madre: “nutrimi, donna!”. Scoppia un

violento litigio fra madre e figlio, durante il quale Max fugge. La sua

fuga lo porterà fino ad un mondo immaginario, popolato da enormi

Mostri afflitti da una forte inquietudine esistenziale. L’arrivo del

 bambino, che scambiano per un mitico sovrano inviato dalla divina

 provvidenza, fa loro credere che, grazie a questo avvento, i loro problemi

saranno definitivamente risolti. Quando i Mostri comprenderanno che il

 bambino non può risolvere i loro conflitti legati alla gelosia, alla

 permalosità, al bisogno di assoluta simbiosi, gli si rivolteranno contro.

Max è vittima della terribile rabbia pantoclastica infantile, quella che lo

aveva portato a scagliarsi contro la madre, la stessa per la quale, ora,rischia di passare dal ruolo di divoratore  a quello di divorato.  Max

comprende allora che il genitore non può essere la panacea di tutti i suoi

vuoti esistenziali. Il genitore è a sua volta un essere umano, con limiti e

fragilità, proprio come lui. Di nuovo la maturità è segnata dalla capacità

di empatizzare con il prossimo. E’ il passaggio che Peter Pan non

203  Nel Paese delle creature selvagge di Spike Jonze (USA-Australia-Germania) 2009

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riuscirà mai ad effettuare, e continuerà per questo a considerare la

mamma come una traditrice, poiché non è stata disposta a votare la

 propria vita all’insegna dell’attesa del suo ritorno e non ha accettato di

continuare a venerarlo nell’assenza, quasi come se lui fosse Dio. La

scena finale del film di Jonze è emblematica nella risoluzione di questo

conflitto infantile: il bambino è tornato a casa, la mamma gli ha dato da

mangiare del latte e della torta. Mentre lui mangia la mamma si

addormenta con la testa sul tavolo e lui la fissa con sguardo assorto: quel

modo di osservarla rievoca il senso di responsabilità che è nato in lui

durante il suo viaggio iniziatico. Ora non è più solo la mamma ad essere

responsabile di lui, ma è anche lui ad essere responsabile della mamma,

e a vegliarla quando è più stanca e fragile.

Anche la redenzione di Pinocchio avviene solo al termine del libro,

quando il burattino è in grado di mettere da parte i propri bisogni in

favore di quelli degli altri. L’episodio chiave della sua avvenuta maturità

è quello in cui rinuncia all’acquisto di un vestito nuovo per se stesso, pur

di aiutare la Fata Turchina, che si è gravemente ammalata:

Povera Fatina mia, se avessi un milione, correrei a portarglielo. Ma io non ho che

quaranta soldi... eccoli qui: andavo giusto a comprarmi un vestito nuovo. Prendili,

Lumaca, e va’ a portarli subito alla mia buona Fata. (...) Che mi importa del vestito

nuovo! Venderei anche questi cenci che ho addosso, per poterla aiutare! Va’,

Lumaca, e spicciati: e fra due giorni ritorna qui, che spero di poterti dare qualche

altro soldo. Finora ho lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò

cinque ore di più per mantenere anche la mia buona mamma.204 

Come un cerchio, a quel punto, la trama si chiude e Pinocchio diventa un

 bambino. Infatti, dopo tutte le peripezie vissute, il burattino si trova di

fronte al bivio iniziale. Come Geppetto aveva rinunciato alla propria

204 Collodi C., Le avventure di Pinocchio, Milano, Fratelli Fabbri Editore, 1965

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casacca pur di comprargli l’abbecedario per la scuola, così ora Pinocchio

rinuncia al vestito per se stesso pur di aiutare la Fata bisognosa. Il

 processo di crescita è perciò segnato non tanto dalla graduale

acquisizione del senso di colpa o del rimorso, sentimenti presenti

nell’animo di Pinocchio quasi fin dall’inizio del libro, quanto dal rispetto

delle regole sociali attraverso la comprensione del valore del lavoro e

l’avvenuta capacità d’empatizzare. Nelle fiabe è usuale, in ossequio al

concetto di “giustizia retributiva” di cui parla Zipes205, che ad una buona

azione verso un personaggio, o un animale o anche ad un oggetto senza

apparente valore, consegua un vantaggio.

La Baba Yaga si precipita nella capanna e vede che la ragazza se n’è andata; dagli a

 picchiare il gatto e a sgridarlo per non aver graffiato gli occhi della ragazza. –Per

quanto io ti serva,- risponde il gatto, -tu non mi dai neppure le ossa, mentre la

ragazza m’ha dato del prosciutto-. La Baba Yaga si gettò sui cani, contro le porte, la

 betulla e la lavorante, picchiando e sgridando tutti. Le dissero i cani: -per quanto ti

serviamo tu non ci getti neppure le croste bruciacchiate, mentre lei ci ha dato del

 pane-. Dissero le porte: -Per quanto ti serviamo, tu non versi neppure un po’ d’acqua

sui nostri cardini, mentre lei ci ha unto d’olio-. La betulla disse: -Per quanto io ti

serva, tu non mi ha legato neppure con lo spago, mentre lei mi ha infiocchettato con

un nastro-. La lavorante disse: -Per quanto io ti abbia servita, tu non m’hai regalato

mai uno straccio, mentre lei m’ha offerto un fazzoletto-.206 

Lo stesso accade nella fiaba Madama Holle207 

 dei Fratelli Grimm, in cui

la sorella che aiuta Madama Holle a sprimacciare i cuscini ed a

rigovernare la casa, ottiene magici premi: “cadde una gran pioggia d’oro,

e l’oro le rimase attaccato e la ricoprì tutta”. La sorellastra, pigra e

sgarbata, le viene rovesciato addosso “un gran paiolo di pece e non riuscì

205  Zipes J., traduzione di G.Grilli, Chi ha paura dei fratelli Grimm? Le fiabe e l’arte dellasovversione, Milano, Mondadori, 2006206 “La Baba Yaga” da Afanasjev A.N., Antiche fiabe russe, Farigliano (CN), Giulio Einaudi Editore,1990207 Grimm J. e W., Fiabe, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1980

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 più liberarsene per tutta la vita”. Vediamo dunque come, riprendendo

l’analisi di Zipes, anche in questa celebre fiaba dei Grimm risalti un

concetto di  giustizia retributiva, in cui la ragazza generosa che ha

sofferta viene ripagata dal soccorso di vari aiutanti della Baba Yaga. E

così viene premiato Pinocchio che, dopo aver tanto sofferto ed essersi

tanto sacrificato per i suoi cari, diventa un bambino.

Il fatto è che a me riesce molto facile pensare a Pinocchio come a un bambino, e alla

sua vicenda come alla storia di un’infanzia. E questa finisce, come tutti ben sanno.

Pinocchio non è Peter Pan (il quale, al contrario di Pinocchio, non solo non vuole

crescere, ma è anche incurante della morte e addirittura sostiene che “morire saràun’avventura tremendamente grande”), e così lo sgradevole “ragazzino perbene”

deve guardare con spocchiosa sufficienza e con “grandissima compiacenza”

all’intorcinato burattino, al “grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo

girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e

ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto”. E’ andato oltre, lui; ha

conseguito il nuovo stato, e deve rimarcare la differenza e la distanza. Pinocchio è un

 bambino, e quando si smette di essere bambini –o, più precisamente: quando ci siaccorge che è arrivato il tempo in cui è necessario smettere di essere bambini- da

quell’età si prendono scompostamente le distanze, e si guarda a essa spesso con

artificiosa alterigia, finanche con rancore. Si arriva anche a temerlo, quel tempo, a

temere che possa sopravvivere, che possa riaffiorare a tradimento come riaffiorano le

stridulità della voce208.

In questo passo di Pontremoli converge l’opinone di Favat, secondo cui,compiuti i dieci anni d’età, vi è un rifiuto nei confronti delle fiabe: e così

Pinocchio, ora che sente che è ora di smettere di essere un bambino,

“prende scompostamente le distanze” dal bambino che è stato ed

esclama: “com’ero buffo quando ero un burattino!”. Il burattino viene

ritenuto “buffo”, il suo valore è prevalentemente comico, quindi privo di

autorevolezza e serietà, attributi al contrario tipici del mondo adulto. La

208 Pontremoli G., Elogio delle azioni spregevoli, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2004

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 percezione pinocchiesca di se stesso e del mondo, si è evoluta: la loro

morale si fonda su un concetto di giustizia che da retributiva diviene

distributiva cioè uguale per tutti. Nell’ultima pagina di  Pinocchio

vediamo quel mondo di fiaba, fatto di animali parlanti e luoghi magici,

rarefarsi e scomparire del tutto. L’ultima immagine che la narrazione ci

offre, disegna uno scorcio d’una tratto realistico: una stanza arredata in

maniera semplice e un bambino elegantemente vestito. Questa

illustrazione, a differenza delle precedenti, è svuotata di ogni accezione

fiabesca. La fiaba è terminata e con essa, l’infanzia.

3.3.Il “non”ritorno

Fu il 15 giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per

l’ultima volta in mezzo a noi209.

Cosimo ha dodici anni ed è figlio del Barone d’Ombrosa. La sua

famiglia è nobile ed educa i figli secondo la rigorosa etichetta del tempo.

L’  Abate Fauchelafleur si occupa dell’educazione di Cosimo e di suofratello Biagio. La vita dei due bambini è oppressa dai rigidi dettami del

 bon ton, rendendosi evidente durante i pasti:

...stando a tavola con la famiglia, prendevano corpo i rancori familiari, capitolo triste

dell’infanzia. Nostro padre, nostra madre sempre lì davanti, l’uso delle posate per il

 pollo, e sta’ dritto, e via i gomiti dalla tavola, un continuo! E per di più

quell’antipatica di nostra sorella Battista. Cominciò una serie di sgridate, di ripicchi,di castighi, d’impuntature, fino al giorno in cui Cosimo rifiutò le lumache e decise di

separare la sua sorte dalla nostra.210 

Il gesto di Cosimo di allontanarsi dalla famiglia e di rifiutare in maniera

definitiva determinate regole non è da classificarsi solo come un atto di

ribellione, ma di rivoluzione. Cosimo non rifiuta le regole della società

209 Calvino I., Il Barone Rampante, Bologna, Arnoldo Mondadori Editore, 2003 210 Ibidem

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tout court, ma quelle che ritiene stupide, prive di valore. I dogmi del

galateo ne rappresentano il massimo esempio, essendo l’apice della

formalità svuotata di ogni contenuto. Cosimo sceglie di vivere a stretto

contatto con la propria selvatichezza e designa quindi come suo habitat

naturale la natura, la cima degli alberi, dalla quale può avere un

osservatorio privilegiato sul mondo che lo circonda. Inseparabili

compagni di viaggio di Cosimo saranno i libri e inizierà all’amore per la

lettura anche Gian dei Brughi, un brigante ricercato, che si appassionerà

a tal punto da trascurare il suo mestiere e venire infine catturato. Anche

di fronte al patibolo, Gian dei Brughi non ha che un pensiero, apprendere

il finale del libro, Clarissa, che stava leggendo al momento della cattura:

Prima che il romanzo fosse finito, venne il giorno dell’esecuzione. Sul carretto, in

compagnia d’un frate, Gian dei Brughi fece l’ultimo suo viaggio da vivente. Le

impiccagioni a Ombrosa si facevano a un’alta quercia in mezzo alla piazza. Intorno

tutto il popolo faceva cerchio. Quand’ebbe il cappio al collo, Gian dei Brughi sentì

un fischio fra i rami. Alzò il viso. C’era Cosimo col libro chiuso. –Dimmi come

finisce,- fece il condannato. --Mi dispiace di dirtelo, Gian,- rispose Cosimo, -Gionatafinisce appeso per la gola. –Grazie. Così sia di me pure! Addio!- e lui stesso calciò

via la scala, restando strozzato.211 

I due si conoscono durante una delle tante fughe dai gendarmi di Gian

dei Brughi, fuga che va a buon fine grazie all’intervento di Cosimo, che

trova il modo di celare il brigante fra le fronde degli alberi. Da questo

casuale incontro nasce la condivisione per una comune passione, che coltempo diventa sempre più impellente: la lettura. Gian dei Brughi

inizialmente, poiché trascorre gran parte della sua vita a nascondersi e

non ha un’occupazione che lo distragga e non lo catapulti nell’inedia,

cerca qualche libro da leggere per non annoiarsi. In breve quel

 passatempo diventerà il fulcro della sua esistenza, ma anche di quella di

Cosimo che, a sua volta, viene trascinato nel vortice dell’amore per le211 Ibidem p. 89 

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lettere:

(...) a Cosimo venne una tale passione per le lettere e per tutto lo scibile umano che

non gli bastavano le ore dall’alba al tramonto per quel che avrebbe voluto leggere, e

continuava anche a buio a lume di lanterna.

212

 

Il romanzo entra nella vita dei protagonisti al punto che Gian dei Brughi,

sul patibolo, calcia via la scala prima che il boia possa togliergliela, e

omaggia così il libro tanto amato con quest’ultimo gesto teatrale, con il

quale si identifica al personaggio che, come lui, era finito “appeso per la

gola”. Libri magici, libri infiniti, le cui storie si intrecciano con quelle di

coloro che li leggono. Come scrive Bianca Pitzorno213, i libri offrono la

 possibilità di conoscere se stessi e il mondo, ma specialmente sono

 portatori di volontà, perché regalano ai loro lettori la sensazione di

libertà: mentre si legge, si ha la possibilità di riflettere e farsi un’idea

sulle vicende narrate; e da ciò, come nel gioco, nasce la sperimentazione:

“se ci fossi stato io avrei di certo fatto così...”, “se ci fossi stato io avrei

detto quello che pensavo...”, ecc... Immedesimarsi, identificarsi con il personaggio, regala la possibilità di vivere mille vite oltre la propria,

innumerevoli possibilità, variegate sfumature d’umanità che a volte ci

incuriosiscono, altre ci commuovono, altre ci indignano, ma che

comunque rafforzano la nostra capacità di giudizio. Proprio come è

accaduto a Bianca Pitzorno, scrittrice per l’infanzia, e come è accaduto a

tanti celebri lettori protagonisti di libri per l’infanzia.

Ma chi è il bambino lettore? Poiché non esiste un lettore ma tanti lettori, ognuno con

la sua storia, forse è utile girare la domanda ad alcuni indimenticabili personaggi

della finzione in grado di ricondurre questa figura inafferrabile e molteplice ad

alcuni tratti. L’alterità e la solitudine di un’infanzia alle prese con la difficoltà della

crescita e la durezza del mondo dei grandi che non risparmia nulla sembra essere la

212 Ibidem p.89213  Pitzorno B., Storia delle mie storie: miti, forme, idee della letteratura per ragazzi, Milano, IlSaggiatore, 2006

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molla da cui nascono splendidi ritratti di bambini lettori che scoprono e trovano nel

libro un viatico prezioso, attingendovi pensieri e immagini destinati a illuminare gli

angoli più bui dell’esistenza. Così la lettura diventa uno spazio dove poter cercare se

stessi, indipendentemente dalle aspettative e dai modelli allestiti dagli adulti.214 

I libri rappresentano dunque le briciole di pane sparse lungo il sentiero,

quelle per trovare la strada verso la propria casa intesa come il proprio

io. Cosimo, arrampicandosi sugli alberi, rivendica la sua identità, a

dispetto delle imposizioni della famiglia. E quegli alberi che offrono la

 possibilità di un altrove in cui poter esprimere se stessi, sembrano essere

strettamente imparentati con quei libri che emancipano poiché, come

scrive Marcella Terrusi: “la radice etimologica di albero e albo è la

stessa, e significa bianco: il bianco del pioppo, il bianco del muro su cui

si può scrivere, il bianco della pagina, il bianco delle

 possibilità”.215Alberi e libri a cui aggrapparsi per intraprendere il proprio

viaggio, un viaggio che potrebbe durare anche tutta l’esistenza. Cosimo

non scenderà mai più da quegli alberi, perché lì ha trovato la sua heimat.

Il carattere del fratello di Cosimo, Biagio, narratore delle vicende del

libro, non emerge per nulla: è ipotizzabile che Cosimo e Biagio non

siano altro che la stessa persona e che Cosimo, per Biagio, sia la

 proiezione di un se stesso libero, fra quegli alberi che rappresentano un

richiamo alla selvatichezza, al fiabesco, all’infanzia. E, come i palloncini

che sfuggono di mano ai bambini al parco, Cosimo vola via a bordo di

una mongolfiera. Di nuovo, nel finale del libro, troviamo un richiamo aquanto descritto da Marcella Terrusi:

Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita.

Quel frastaglio di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spumii, minuto e senza fine, e il

cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio

214

 Beseghi E., prefazione di Faeti A.,  Infanzia e racconto: il libro, le figure, la voce, lo sguardo,Bologna, Bononia University Press, 2008 215 Terrusi M., prefazione di Antonio Faeti, Albi illustrati: leggere, guardare, nominare il mondo neilibri per l'infanzia, Roma, Carocci Editore, 2012

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fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che

assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine,

zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune, che a

momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli

come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi difrasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi,

e corre e corre e si dipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee

sogni ed è finito.216 

Il cielo d’Ombrosa diventa il foglio bianco, ed il foglio bianco diventa il

cielo dOmbrosa: fra cielo e carta si espande la narrazione. I rami, il

“leggero passo di codibugnolo” di Cosimo, le parole scritte conl’inchiostro da Biagio, compongono un ricamo di segni che raccontano la

storia. Nell’ultima pagina del romanzo Calvino, con leggiadria

linguistica, crea un rimando continuo fra rami e segni, fra carta e cielo.

La natura cela in se stessa non solo un linguaggio, ma anche un richiamo

irresistibile, a cui il cane Buck 217 , fatalmente attratto, non potrà infine

sottrarsi. All’inizio del romanzo Buck vive nell’assolata valle di Santa

Clara a casa di un giudice. London descrive Buck come un cane

dignitoso, regale, meritevole di rispetto da parte di tutti, uomini e

animali. Ma l’esistenza di Buck, comoda e serena, è destinata a cambiare

irreparabilmente: il cane verrà infatti rapito e portato, suo malgrado,

verso il grande Nord, dove diventerà un cane da slitta. Lì, passando da

un padrone all’altro, apprendendo la durezza del lavoro, la legge del

 bastone, la spietatezza della natura, la lotta per la sopravvivenza,

raggiungerà infine al compimento del suo percorso identitario, il quale

dalla civiltà lo porterà ineluttabilmente a piombare nella selvatichezza e

ad abbandonarsi al richiamo della terra, in cui il linguaggio corrisponde

all’istinto primordiale, alla parola degli avi che viene demandata di

stirpe in stirpe, di lupo in lupo.

216 Calvino I., Il Barone Rampante, Bologna, Arnoldo Mondadori Editore, 2003217 London J., Il richiamo della foresta, Trieste, Edizioni E.Elle, 1991

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(...)giorno per giorno, il genere umano e le sue esigenze si allontanavano sempre di

 più da lui. Nel cuore della foresta echeggiava un richiamo e non appena Buck lo

captava, misteriosamente eccitante e invitante, si sentiva costretto a volgere le spalle

al fuoco e alla terra battuta attorno ad esso, per tuffarsi nel folto della foresta,

ubbidendo all’impulso di andare avanti, senza sapere dove né perché; e non se lochiedeva, dove o perché, attirato dal richiamo imperioso sempre più nel folto della

foresta.218 

Parallelamente a questo richiamo, sempre più impetuoso, Buck comincia

ad avere delle visioni quando guarda nel fuoco. Vede un “uomo peloso”

con il quale vaga in “quell’altro mondo dei suoi ricordi”.

L’uomo peloso sapeva arrampicarsi sugli alberi e muoversi lassù alla svelta come

sul terreno, dondolandosi con le braccia da un ramo all’altro, distanti a volte tre o

quattro metri, lasciando la presa e riafferrandola, senza mai sbagliare e cadere. In

realtà, sembrava a suo agio sugli alberi come sul terreno e Buck ricordava notti di

veglia passate sotto gli alberi, sui quali l’uomo dormiva, reggendosi saldamente.219 

L’abilità con la quale l’ “uomo peloso” si muove sugli alberi non ha

nulla a che vedere con il “passo da codibugnolo” di Cosimo, che si

muoveva con grazia fra i rami, in un regno di alberi che non erano altro

che un tetto infinito di fronde che si espandevano in maniera rassicurante

a partire dal giardino d’Ombrosa. L’ “uomo peloso” ricorda l’uomo

 primitivo, più simile ad una scimmia che ad un uomo, che con

circospezione si muove in un mondo in cui ogni creatura lotta per la

 propria sopravvivenza. Buck, guardando nel fuoco, ha dunque unavisione ancestrale che, come London specifica, non è un’allucinazione,

ma un “ricordo”. Il cane, via via che torna a contatto con la propria

natura selvaggia, torna a contatto anche con la propria coscienza

collettiva, quindi con la memoria del primo lupo sulla terra. E così,

infine Buck si abbandonerà al richiamo:

218 Ibidem 219 London J., Il richiamo della foresta, Trieste, Edizioni E.Elle, 1991

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(...)il vecchio lupo sedette, puntò il naso verso la luna ed emise il lungo ululato dei

lupi. Imitandolo, gli altri lupi si accucciarono e ulularono. Allora il richiamo giunse a

Buck in maniera inconfondibile.220 

Il graduale distacco dalla civiltà ha portato Buck a ritrovarsi, e ritrovarsi

ha per lui il significato di riappropriarsi delle sue radici, che affondano

nella spietatezza dell’esistenza selvaggia del grande Nord, dove la vita

dei Lupi ha avuto inizio e dove, in un interminabile cerchio, continua a

ripetersi, creando l’inesauribile cerchio che comincia e finisce con il

ritorno all’infanzia.

E’ un grande lupo, dal mantello splendido, simile –ma non uguale- a tutti gli altrilupi. (...) Non è sempre solo. Quando vengono le lunghe notti invernali e i lupi

seguono la selvaggina nelle vallate più basse, lo si vede, alla testa del branco nel

 pallido chiarore lunare, che balza gigantesco in mezzo ai compagni, mentre dalla sua

grande gola spalancata si leva il canto dell’infanzia del mondo, che è il canto del

 branco.221 

220 Ibidem221 Ibidem 

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CONCLUSIONE 

Capisco che, anch’io, sono un pezzettino di un grande, grande universo.

Quando morirò, gli scienziati del futuro troveranno tutto questo.

Verranno a sapere che, una volta, c’era una Hushpuppye che viveva con suo padre, a Bathtub222.

Smarrirsi, ritrovarsi... ancora smarrirsi e ritrovarsi

 Nel suo saggio223, Giorgia Grilli, al fine di analizzare le caratteristiche

che contraddistinguono la letteratura per l’infanzia che “prova a

raccontare davvero l’infanzia”

224

, suggerisce un legame fra CharlesDarwin e letteratura per l’infanzia, poiché Darwin, proprio come la

migliore letteratura per l’infanzia, è un attento osservatore delle

“minuscole cose”, dei microrganismi, insignificanti poiché invisibili agli

occhi, ma fondamentali poiché base dell’esistenza stessa. L’infanzia è

anch’essa, metaforicamente, un microrganismo: così minuscola ma, al

contempo, così rilevante nella creazione dell’adulto, embrione del futuro

e dell’evoluzione del genere umano. Nel racconto dell’infanzia emerge

dunque tutta la precarietà dell’esistere: i bambini narrati cadono, lottano,

si perdono, vengono mangiati, si trasformano. Non hanno una

 personalità definita, sono in divenire, tutto potrebbe accadere così come

nulla potrebbe accadere. 

Rappresentazioni della fluidità delle forme dell’esistere, della loro sostanziale precarietà, mutevolezza, sospensione tra diverse e a volte opposte dimensioni.

Rappresentazioni di passaggi e attraversamenti di soglia, di trasmutazioni, di creature

anfibie sospese tra più regni, di un gioco costante tra essere qualcosa oppure

qualcos’altro, qualcuno oppure qualcun’altro, anziché di un mondo inteso come

222

  Beast of the southern wild di Benh Zeitlin (USA) 2012223  Grilli G. “Bambini, insetti, fate e Charles Darwin“ da Beseghi E.,Grilli G.,  La letteratura

invisibile: infanzia e libri per bambini, Urbino, Carocci Editore, 2011224 Ibidem 

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“dato”, con ogni creatura nel posto dovuto225.

La letteratura per l’infanzia e la scienza darwiniana esplorano “qualcosa

di possibile, più che di attuale”226. Risuona, ancora una volta, il concetto

di perturbante, in cui “familiare” ed “estraneo” si mescolano fra loro.Risulta impossibile creare una monade, un pezzo unico: trionfa

l’ibridismo, la contaminazione, l’irrequietezza, la fluidità delle forme.

Al termine del film  Beast of the southern wild 227 , Hushpuppy, la

 bambina protagonista, in seguito alla morte del padre, ha una precisa

visione della fluidità, delle precarietà dell’esistenza, ma anche del suo

essere un tutt’uno con l’intero universo; pensa che quando pure leimorirà, gli scienziati del futuro troveranno i resti del suo paese e della

sua gente ed apprenderanno allora che lì, in quel luogo, viveva anche lei

con il suo papà. Hushpuppy annuncia l’inizio di un’altra storia, proprio

come Michael Ende al termine de La storia infinita228

 , che scrive “...ma

questa è un’altra storia”. Le storie cominciano, finiscono, ricominciano.

Allo stesso modo la vita inizia, finisce, ricomincia. Da questa spirale,

 base del Tutto-Nulla universale, ha preso sviluppo anche questo lavoro,

in cui si è cercato di aprire possibili scenari e trovare un filo conduttore

all’interno di quei racconti in cui, circolarmente, instancabilmente, i

 protagonisti selvatici, inafferrabili, mutevoli, si sono smarriti, ritrovati,

 per poi smarrirsi e ritrovarsi di nuovo. E così continueranno a fare,

finché “il canto dell’infanzia del mondo”229  potrà continuare ad aver

voce.

225 Ibidem226 Ibidem227  Beast of the southern wild di Benh Zeitlin (USA) 2012228 Ende M., La storia infinita, Bergamo, TEA, 2008229 London J., Il richiamo della foresta, Trieste, Edizioni E.Elle, 1991 

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BIBLIOGRAFIA

SAGGI CRITICI

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l’infanzia e psicoanalisi, Bologna, CLUEB, 2009 

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dal sito http://www.osvaldopoli.com/

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 Batman-Il Ritorno di Tim Burton (USA) 1992

 Lo studente di Praga di Stellan Rye (Germania)1913

 Nel Paese delle creature selvagge di Spike Jonze  (USA-Australia-Germania) 2009

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 Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera  di Kim Ki-

duk  (Corea del Sud) 2003

The Blair witch project  di Daniel Myrick, Eduardo Sanchez (USA) 1999

 Il labirinto del fauno  di Guillermo del Toro (Messico-Spagna-USA)

2006

 Beast of the southern wild di Benh Zeitlin (USA) 2012

TEATRO ALLA RADIO

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Grazie:

... a mia madre con cui, per prima, ho solcato i sentieri delle fiabe.

... a Nader con cui, quotidianamente, ci avventuriamo per sentieri

fiabeschi.

... a Marcella che, insieme a me, ha tracciato il sentiero da percorrere per

trovare questo lavoro.