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9 e Giornate Reggiane di Dietetica e Nutrizione Clinica Atti del Corso LA NUTRIZIONE NELLA DONNA: DALL’INFANZIA ALLA SENILITÀReggio Emilia, 05 Ottobre 2012 A Cura del Team Nutrizionale ASMN William Giglioli - Salvatore Vaccaro

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9e Giornate Reggiane di Dietetica e Nutrizione Clinica

Atti del Corso

“LA NUTRIZIONE NELLA DONNA: DALL’INFANZIA ALLA SENILITÀ ”

Reggio Emilia, 05 Ottobre 2012

A Cura del Team Nutrizionale ASMN

William Giglioli - Salvatore Vaccaro

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Immagine riportata in Copertina: “ Donna al Mercato”, Pieter Aertsen (1567)

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Atti del Corso Clinico “La Nutrizione nella Donna: dall’Infanzia alla Senilità” 1

INDICE

Introduzione Pag. 02 William Giglioli, Salvatore Vaccaro

DCA nella Giovane Adolescente Pag. 03 Enrica Manicardi

L’Alimentazione nella Gravidanza e nell’Allattamento Pag. 11 Francesca Anzolin

L’Acqua nella Gravidanza e nell’Allattamento Pag. 18 Luca Valeriani

La Profilassi del Tromboembolismo Venoso in Gravidanza Pag. 23 Angelo Ghirarduzzi

L’Alimentazione nella Menopausa Pag. 28 Luisa Zoni

Osteoporosi più Frequente nella Donna? La Corretta Alimentazione Pag. 37 Annalisa Maghetti

Allergie ed Intolleranze Alimentari. Più Frequenti nella Donna? Pag. 43 Giuseppe Albertini

Nutrire delle Ambizioni. Figure e Carriere di Donne nella Storia dell’Arte Pag. 48 Enrico Maria Davoli

La Sindrome del Colon Irritabile. Più Frequente nelle Donne? Pag. 53 Silvia Lombardini

Esiste una Alimentazione Corretta per la Sindrome del Colon Irritabile? Pag. 59 Simona Bodecchi, Agnese Rustichelli

L’Alimentazione nella Donna Obesa Pag. 65 Salvatore Vaccaro

Quale Attività Fisica nella Donna? Dalla Giovinezza all’Età Matura Pag. 82 Vincenzo Guiducci

La Donna Grande Obesa e la Chirurgia Bariatrica Pag. 84 Stefano Bonilauri, Ruggero Bollino

La Nutrizione Artificiale nell’Età Avanzata Pag. 89 Carlo Lesi, Domenico Panuccio

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Atti del Corso Clinico “La Nutrizione nella Donna: dall’Infanzia alla Senilità” 2

INTRODUZIONE Siamo dunque giunti alla 9a Edizione delle “Giornate Reggiane di Dietetica e Nutrizione Clinica”. L'argomento di quest'anno riguarda “l'Alimentazione della Donna” nel corso di tutta la sua vita. Ma non abbiamo preso in considerazione soltanto problematiche nutrizionali, ne abbiamo anche voluto esplorare alcune altre, tipiche del sesso femminile, legate a stati fisiologici e patologici. Riteniamo infatti che le diverse fasi della vita debbano essere caratterizzate da una alimentazione appropriata e corretta così come crediamo che debba essere adottata una specifica ed adeguata nutrizione in presenza di particolari patologie. Finalmente la donna della nostra società è giunta ad uno stato di indipendenza culturale e sociale elevato che le permette di operare, in autonomia ed in modo consapevole, le scelte quotidiane tra cui anche quelle nutrizionali. L'incontro di oggi cercherà di promuovere, oltre alla pratica di una corretta alimentazione, anche una maggior consapevolezza circa l'importanza di una regolare attività fisica, meno praticata dalle donne rispetto agli uomini, funzionale ad una prevenzione efficace delle malattie tipiche dell' era moderna. I concetti oggi qui trattati potranno essere spunto per una proficua opera di comunicazione, di divulgazione e di coinvolgimento del mondo femminile. Il futuro contributo di tutte le figure sanitarie oggi qui rappresentate sarà il fondamentale strumento operativo per la loro diffusione. Come consuetudine, viste le forti interconnessioni fra numerose discipline mediche ed alimentazione, oltre a trattare tematiche strettamente nutrizionali, abbiamo ampliato l'attenzione ad argomenti di medicina interna, di angiologia e di gastroenterologia. Da ultimo, ma non meno importante, come già in passato, abbiamo ritenuto che un contributo di carattere squisitamente culturale potesse aggiungere qualità alle nostre trattazioni scientifiche, perché siamo convinti dell'insostituibile valore della Cultura, dell'Arte, del Sapere scientifico ed umanistico e di quella loro straordinaria miscela che è la “Conoscenza”. Team Nutrizionale ASMN

Dott. William Giglioli

Dott. Salvatore Vaccaro

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DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE NELLA GIOVANE ADOLESCENTE: L’ANORESSIA NERVOSA.

Enrica Manicardi

Responsabile S.S.D. di Diabetologia e D.C.A.

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

L’ Anoressia Nervosa (AN) è un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA) caratterizzato dal rifiuto di mantenere il peso corporeo entro il limite inferiore della norma, cioè al di sopra dell’85% del peso normale per sesso ed età o l’indice di massa corporea (BMI ) al di sopra di 17,6 Kg/m2, o di ottenere l’incremento ponderale atteso durante la crescita. Spesso sono presenti intensa paura di aumentare di peso, amenorrea, attività fisica compulsiva, condotte di eliminazione con o senza abbuffate. Le cause sembrano essere multifattoriali e comprendono tratti di personalità quali perfezionismo e compulsività, storia familiare di depressione ed obesità, pressioni familiari e culturali relative all’aspetto fisico, influenze genetiche. Possono coesistere altre condizioni psichiatriche quali disturbi ossessivo-compulsivi, depressione maggiore, distimia, disturbi d’ansia.

Le complicanze mediche derivanti dal semidigiuno, dalle condotte di eliminazione, dall’attività fisica estenuante o dalla combinazione di esse colpiscono virtualmente tutti gli organi. Si possono avere anche alterazioni cognitive secondarie alla perdita di corteccia cerebrale, intervenuta durante il calo ponderale e non completamente recuperabile (Katzman

DK, 2001). AN necessita sia in fase di valutazione, che di trattamento di interventi

multidisciplinari e interdisciplinari , che richiedono percorsi di difficile costruzione, con coinvolgimento trasversale di più discipline pubbliche e private (Dickerson et al 2010). La Regione Emilia-Romagna (RER) ha costituito un tavolo tecnico regionale DCA nel triennio 2009-2011, con l’incarico di produrre indicazioni specifiche di appropriatezza degli interventi. Il presente lavoro fa riferimento alle indicazioni regionali contenute nel documento steso dal tavolo e di prossima pubblicazione.

La diffusione nella popolazione generale dei quadri clinici riconducibili ai DCA è in aumento. Non solo i dati di incidenza e prevalenza sono aumentati, ma si estendono anche le fasce di età coinvolte e si modifica il rapporto tra i sessi con un aumento di maschi malati. L’età di insorgenza si sta abbassando ad interessare ragazze prepuberi. Proliferano anche disturbi sotto-soglia, forme ibride e Disturbi Alimentari non Altrimenti specificati (EDNOS). Pure in aumento è il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (BED), che si sta affermando come patologia a sé stante.

Tre milioni di persone in Italia soffrono di questi disturbi. Ogni 100 ragazze in età adolescenziale, 10 soffrono di qualche disturbo collegato all’alimentazione, 1-2 delle forme più gravi come AN e bulimia nervosa (BN), le altre di manifestazioni cliniche transitorie e incomplete. La difficoltà di conoscere esattamente la diffusione dei DCA nella popolazione

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deriva dalla tendenza delle persone affette ad occultare il proprio disturbo e non ricorrere, almeno per un lungo periodo iniziale, all’aiuto dei professionisti che possano stendere un progetto di cura.

L’età di esordio dei DCA cade per lo più tra i 10 ed i 30 anni, con 2 picchi intorno ai 14 ed ai 18 anni. Fra i 15 ed i 30 anni l’incidenza dei DCA è di 164 nuovi casi su 100.000 abitanti. La prevalenza dell’AN è tra 1,4% e 2,8%, con picchi del 4% riguardanti gli studi epidemiologici che comprendono i disturbi sottosoglia. La prevalenza della BN è del 5%.

L’ origine ed il decorso dei DCA sono influenzati/determinati da una pluralità di variabili, nessuna delle quali singolarmente può condizionarne l’insorgenza od il decorso. Tali variabili possono essere di genesi psicologica, evolutiva, biologica.

La RER ha scelto come indirizzo organizzativo per pianificare gli interventi DCA quello dei Programmi, in quanto rispondenti alle modalità sotto descritte, in una logica orientata a mettere il cittadino al centro della cura (DRG 1298/2009, RER). Il modello organizzativo per il trattamento dei pazienti con DCA scelto dalla RER rappresenta una integrazione ed un arricchimento della tradizionale organizzazione in rete dei servizi sanitari, resa necessaria dalla realtà complessa e peculiare dei DCA: si tratta di un disturbo clinico di asse I (APA, 2001), la cui gravità e specificità è dovuta alla concomitanza di un nucleo psicopatologico di malattia, di comportamenti e fattori specifici di mantenimento, nonché di componenti e complicanze biologiche che contribuiscono anche essi alla tendenza; accanto agli aspetti propri del DCA, devono essere identificati gli aspetti personologici e relazionali che costituiscono fattori di rischio predisponenti e precipitanti all’esordio, fattori aspecifici di mantenimento e resistenza alle terapie e fattori di rischio per ricaduta e cronicizzazione; infine le frequenti copatologie e complicanze psichiatriche e mediche. La peculiarità e complessità (DCA; aspetti personoligici e relazionali; copatologie e complicanze) ha ricadute a livello di diagnosi, terapia e modelli organizzativi.

In fase di diagnosi, l’assessment strutturato deve innanzitutto comprendere gli aspetti propri del DCA, comprensivi di rischio biologico, livello di motivazione ed ingaggio e fattori di mantenimento; vanno poi considerati gli aspetti personologici e relazionali, le complicanze e le co-patologie.

Spesso il DCA può coesistere con quadri clinici psichiatrici , il cui rischio è aumentato di 5 volte in tali pazienti. Tra i quadri sindromici più frequentemente associati vi sono la Depressione maggiore ed i Disturbi D’ansia compreso il Disturbo Ossessivo Compulsivo (OCD), fobia sociale, disordine e disturbo d’ansia generalizzato. Circa l’80% degli individui con AN e BN, in qualche momento della loro vita hanno una diagnosi con un altro disturbo psichiatrico. La comorbilità con i disturbi di personalità è implicata nel mantenimento, nel trattamento e nel decorso dei disturbi dell’alimentazione. Vi possono inoltre essere deficit del funzionamento cognitivo ed emotivo, con difficoltà espositive in particolare nel contesto delle emozioni negative.

In fase terapeutica, la peculiarità e complessità dei DCA spiega la necessità ormai riconosciuta di un trattamento specifico, con un piano di lavoro strutturato sulle risultanze dell’assessment diagnostico, comprendente obiettivi, strumenti, risorse, tempi e fasi della terapia (DCA in fase acuta, follow up , cronicità, fattori personologici e relazionali residui) e

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indicatori di esito e processo (L.G. APA, 2006; L.G. NICE, 2004; DGR 1298/2009 RER, Consensus SIO-

SIDCA 2010). Dal punto di vista organizzativo il modello gestionale prevede che il trattamento sia

gestito da risorse esperte dedicate almeno parzialmente e che, secondo le indicazioni della DGR 1298/2009/RER costituiscono un’Equipe specializzata, l’Equipe aziendale per DCA, che intrattiene rapporti con altri Centri residenziali specializzati e con strutture della Rete dei servizi sanitari, psichiatrici e medici. Il modello costituisce un’evoluzione rispetto a quelli tradizionali, modello a “Centri/Ville” e modello a “Rete”: il primo, pur garantendo una maggiore concentrazione di trattamenti e risorse interdisciplinari dedicate ed omogenee, risultava carente nel trattamento dei fattori personologici e relazionali e non garantiva continuità terapeutica; il modello a rete garantiva la continuità di cura, ma non la specializzazione, l’esperienza e la interdisciplinarietà. Il modello a Programma previsto dalla RER tende ad essere una sintesi degli aspetti migliori dei due precedenti modelli: l’Equipe aziendale per i DCA, dedicata ed esperta tratta in maniera dedicata ed intensiva i DCA in fase acuta, in prossimità territoriale con la residenza dei pazienti; affronta inoltre gli eventuali aspetti personologici e relazionali e le copatologie psichiatriche e mediche; è responsabile della continuità e coerenza dei trattamenti nei diversi setting/livelli di cura che possono rendersi necessari (ambulatoriale a diversi livelli di intensità, DH, ricovero ospedaliero in acuto o in strutture riabilitative, ricovero in strutture riabilitative extra ospedaliere sanitarie e socio-sanitarie) e dei rapporti con i Centri/Ville specializzati. L’organizzazione a Programma, se da una parte risponde più prontamente alla complessità ed alle caratteristiche trasformative di queste patologie, da un’altra potrebbe rappresentare una sfida rispetto alle nuove modalità di configurazione dei servizi.

Il Programma assume caratteristiche di priorità nella programmazione sanitaria dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) in collaborazione con i Dipartimenti di Cure Primarie, Sanità Pubblica, Ospedalieri e comporta un forte riconoscimento di cambiamento culturale dell’organizzazione dei servizi e una forte visibilità e peso organizzativo. Alle equipe dedicate spetta di favorire la diffusione della conoscenza dei percorsi, dell’aggiornamento dei colleghi e di essere riferimento clinico ed organizzativo, di garantire la continuità e la coerenza delle cure nelle diverse fasi e nei diversi setting.

Le linee guida internazionali (APA, 2006; NICE, 2004; RANZCP, 2004; Consensus Conference

SIO-SISDCA, 2010) raccomandano un approccio terapeutico multidimensionale e interdisci-plinare integrato in equipe, considerato ormai indispensabile per il trattamento dei DCA, che tiene conto della loro complessità e multifattorialità, delle problematiche personologiche e relazionali e delle copatologie e complicanze psichiatriche e mediche. Un team specializzato nel trattamento dei DCA prevede la presenza di personale medico specialista nel campo del loro rischio biologico, medici nutrizionisti e dietisti, psicoterapeuti addestrati all’uso degli interventi con maggiori evidenze di efficacia nei DCA, psicoterapeuti della famiglia, in particolare per i pazienti adolescenti; psichiatri e neuropsichiatri infantili; operatori sociali ed educatori; in numero tale da poter garantire una presa in carico psicoterapica per la maggior parte dei pazienti e con la possibilità di effettuare interventi di gruppo.

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Il lavoro interdisciplinare è distinto da quello multidisciplinare e ancor più dalla consulenza e avviene in equipe. Il lavoro psicoterapeutico e la riabilitazione psico-nutrizionale integrati, con formazione e linguaggio comune, oltre a garantire l’integrità fisica del paziente affrontano da diversi punti di vista, in maniera concordata, disturbi che si esprimono in maniera multimodale (il lavoro nutrizionale ha valenza psicoterapeutica, il lavoro psicoterapeutico si concretizza nei comportamenti alimentari (DGR 1298/ 2009 Regione

Emilia Romagna). I livelli di cura dipendono dalla motivazione al trattamento (da buona a molto

scarsa) e dalla gravità degli indicatori medici e/o psichiatrici e sono:

1) ambulatoriale 2) ambulatoriale intensivo 3) day hospital 4) trattamento residenziale 5) ricovero ospedaliero

Il trattamento ambulatoriale rimane il punto centrale dell’intervento ed è corretto che risponda al 60% della domanda di cura. È necessario però che tale intervento garantisca un reale approccio integrato che comprenda sia l’aspetto nutrizionale sia quello psicologico.

Il Day Hospital garantisce un livello più intensivo di assistenza in ambiente ospedaliero con un attento monitoraggio delle condizioni cliniche e associato alla riabilitazione nutrizionale (pasti assistiti). Il ricovero ospedaliero in fase acuta (salvavita) garantisce la presa in carico in momenti più critici della malattia, con lo scopo di stabilizzare le condizioni mediche-psichiatriche, attivare una nutrizione più adeguata, gestire le complicanze acute associate al disturbo e preparare il paziente al passaggio ad un altro livello terapeutico-riabilitativo di trattamento .

Il National Istitute for Health and Clinical Excellence suggerisce che deve essere preso in considerazione il ricovero ospedaliero quando non vi è stato un miglioramento significativo con il trattamento ambulatoriale, per pazienti con rischio clinico elevato o moderato, se vi è un rischio elevato di suicidio o di pesante autolesionismo. Neumärker KJ (1997) in una review sulle cause di morte esclude che vi sia una relazione tra la essa e la durata di malattia o l’età, mentre vi è correlazione con i bassi livelli di albumina e con BMI < 12 Kg/m2, rapide perdite di peso corporeo (> 0,5 Kg/settimana). Circa il 50% dei decessi sono imputabili ad alterazioni elettrolitiche, 50% a suicidio.

L’ incremento ponderale è una componente essenziale del trattamento dei pazienti con AN ed è associato alla stabilizzazione delle condizioni cliniche, miglioramento del tono dell’umore (Meehan K, 2006), prevenzione delle ricadute (Keel PK, 2005). La disponibilità al trattamento è condizionata dai sintomi, in particolare dalla distorsione dell’immagine corporea e dalla paura di ingrassare (Thiels C, 2008). Viene raccomandato un incremento ponderale di 0,5-1 Kg alla settimana (National Collaboratine Centre for Mental Health, 2004). Tale incremento si ottiene contrastando il fortissimo desiderio delle pazienti di evitare l’incremento ponderale ed in assenza di supporti affidabili sulla corretta modalità di supportare il pasto. È per tale motivo che spesso si fa ricorso al sondino nasogastrico (SNG) in aggiunta alla alimentazione per os o per trattare pazienti che rifiutano adeguato apporto calorico per os. Con il SNG si

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ottiene un incremento ponderale più rapido e un peso più elevato alla dimissione (Robb AS,

2002; Silber TJ, 2004; Zuercher JN, 2003). Tuttavia solo il 29% delle pazienti acconsente al posizionamento del SNG, mentre il 50% lo rifiuta. Dopo la rimozione del SNG e da subito nelle pazienti che lo rifiutano, si adotta l’assistenza al pasto: personale addestrato ad hoc presenzia con empatia e comprensione il pasto, incoraggia l’assunzione di cibo, si dimostra inflessibile circa la quantità di cibo che deve essere consumata ed il tempo impiegato per consumare il pasto (Couturier J , 2009). Si cerca di utilizzare argomenti di conversazione che esulano dal cibo oppure giochi interattivi durante il pasto, mentre vengono censurati alimenti riguardanti il cibo, e/o la malattia. Spesso la presenza di ritardato svuotamento gastrico e ridotta motilità intestinale rendono disagevole il consumo di elevate quantità di cibo. La paura di aumentare di peso e di perdere il controllo e l’identità, richiedono supporto emozionale e psicologico.

È diffusa l’idea erronea che le pazienti posseggano buone conoscenze di nutrizione. In realtà possiedono una buona conoscenza delle calorie contenute nel cibo, ma una scarsa cognizione del valore nutrizionale dei vari alimenti e di che cosa significhi consumare un pasto bilanciato. Una parte significativa della riabilitazione nutrizionale prende in considerazione fattori psicosociali e significa fornire competenze sulla pianificazione dei pasti, fare la spesa, cucinare e stabilire la corretta porzione da consumare.

L’utilizzo di integratori per os non va incoraggiato, poiché tende a ritardare la riassunzione del cibo, anche se talvolta risultano utili perché non generano la sensazione di perdita di controllo, essendo visti come farmaci e non come cibo.

Il sondino nasogastrico viene utilizzato quando all’ingresso il BMI è particolarmente basso (< 12 Kg/m2) e/o vi è scarsa aderenza all’assunzione di cibo, se vi è alterazione di transaminasi e bilirubina, alterazioni elettrolitiche e/o dell’elettrocardiogramma, instabilità clinica soprattutto cardiaca. Prima di iniziare vanno controllati BMI, ECG, emocromo, urea ed elettroliti, test di funzionalità epatica, albumina, PCR, fosforo, magnesio e calcio. L’apporto calorico va aumentato gradualmente e supplementazioni di elettroliti, vitamine, oligoelementi decisi in base ai controlli ematochimici (Cockfield A, 2009).

L’aderenza alla cura ed in particolare al recupero ponderale è piuttosto scarsa a causa dei sintomi fisici e mentali della malattia, in particolare la distorsione dell’immagine corporea e la paura di ingrassare (Thiller j, 1993).

La difficoltà a recuperare il peso non è solo dovuta alla paura che le pazienti hanno di ingrassare, ma anche alla condizione di ipermetabolismo attivata dal refeeding. Van Wynelbeke (2004) ha descritto un aumento della spesa energetica a digiuno (REE) del 13,6% a 8 giorni dall’inizio della rialimentazione, del 42,7% dopo 75 giorni. In studi che hanno utilizzato l’alimentazione parenterale totale (Dempsey et a, 1984), viene definito un fabbisogno calorico di 9.768 Kcal per ottenere un incremento ponderale di 1 Kg durante gli oltre due mesi in cui essa viene impiegata.

Sebbene non sia nota la causa esatta dell’incremento della REE durante la rialimentazione, esso sembra essere almeno in parte dovuto all’effetto termico del cibo (TEF); ansia, paura e depressione possono a loro volta contribuire attraverso l’aumento di cortisolo, ACTH e catecolamine (Riguard D, 2007).

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Nonostante l’elevato fabbisogno calorico, molti protocolli di rialimentazione iniziano da apporti calorici molto bassi, che vengono aumentate gradualmente a partire da 1.200 Kcal/die, di 200 al giorno (American Dietetic Association 2006, American Psychiatric Association 2006). Il goal di tali indicazioni è di evitare la sindrome da rialimentazione, con gravi alterazioni elettrolitiche (ipofosforemia). L’ipofosforemia interviene nel 27,5% dei casi dei pazienti rialimentati per os, più spesso nei pazienti gravemente malnutriti.

È ben documentato che il basso peso corporeo al momento della dimissione aumenta il rischio di reospedalizzazione.

La riabilitazione nutrizionale ha come obiettivi il recupero del peso corporeo, la normalizzazione del pattern di alimentazione, il raggiungimento delle normali percezioni di fame e di sazietà, la correzione delle sequele biologiche e psicologiche della malnutrizione.

Durante il ricovero inoltre inizia/prosegue la psicoterapia che, in considerazione della natura multidimensionale della patologia, utilizza diversi approcci, che spaziano dalle psicoterapie a orientamento psicoanalitico, cognitivo-comportamentale, relazionale-sistemico, interpersonali. Se necessario intervengono lo psichiatra del programma DCA per il trattamento farmacologico (vengono utilizzati soprattutto antidepressivi, ansiolitici e antipsicotici di seconda generazione quali olanzapina e risperidone) e il dietista per l’inizio/prosecuzione della riabilitazione nutrizionale, spesso con utilizzo del diario alimentare. Ove indicato si effettua terapia familiare. I genitori vengono inseriti in gruppi psicoeducativi e vengono sostenuti mediante tecniche di counseling.

La presa in carico da parte del team di professionisti del Programma DCA anche durante il ricovero e la presenza all’interno dell’Ospedale di personale specializzato nella gestione delle complicanze organiche di tali patologie consente una continuità terapeutica non immaginabile se il paziente viene a trovarsi in un centro ad intensità di cura superiore, ma collocato in una sede diversa rispetto alla residenza del paziente. Per tale motivo la RER ha predisposto l’individuazione di un reparto di area medica ed uno di area pediatrica per ogni provincia, in grado di gestire le urgenze metaboliche dei DCA e formato specificamente sui DCA sia per quanto riguarda il personale medico, che infermieristico e sociosanitari (OSS).

La qualità dell’assistenza fornita dai reparti così preparati è sensibilmente migliore rispetto a reparti non formati. La lunga permanenza dei pazienti in ospedale, causata dal graduale incremento calorico e, di conseguenza, del recupero ponderale comporta infatti la necessità di acquisire abilità relazionali e conoscenze di malattie molto diverse da quelle più frequentemente gestite in tali reparti. Tutti gli operatori sono coinvolti: gli OSS hanno il compito di distribuire e ritirare i vassoi dei pasti ed osservare il reale consumo di cibo da parte dei pazienti, possono accorgersi della mancata assunzione del cibo e dei farmaci, di condotte di eliminazione, così come notare abitudini particolari dettate dalla comorbilità psichiatrica. Tutti i professionisti devono imparare a capire l’importanza di scrivere consegne dettagliate e leggerle attentamente, passarsi le informazioni, accogliere le difficoltà dei pazienti.

I miglioramenti clinici dei pazienti, la scomparsa delle alterazioni di umore e caratteriali da digiuno ripagano abbondantemente gli operatori nella loro professione.

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NUTRIZIONE IN GRAVIDANZA E NELL’ALLATTAMENTO

Francesca Anzolin

UO Dietologia e Nutrizione Clinica

Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna - Bologna

Gravidanza L’incremento ponderale e lo stato nutrizionale pregravidico ed in corso di gravidanza

condizionano lo stato di salute della mamma, del feto e del bambino. L’intervento nutrizionale in gravidanza è finalizzato a garantire un apporto di nutrienti adeguato ad ottenere un fisiologico sviluppo del feto in una condizione di salute e benessere della madre. In corso di gravidanza aumenta il fabbisogno calorico-proteico, oltre al fabbisogno di vitamine, sali minerali ed altri nutrienti (in particolare acido folico, vitamine B1, B2, B12 ed A, ferro, calcio, acidi grassi essenziali della serie omega-3, luteina): un’ alimentazione varia e bilanciata è in grado di garantire alla gestante l’apporto delle sostanze nutritive di cui necessita. PESO - L’incremento di peso in gravidanza dipende per meno della metà dal feto, dalla placenta e dal liquido amniotico, per il resto è dovuto alla ipertrofia dell’utero, alla formazione di nuovo tessuto adiposo materno, all’aumento del volume delle mammelle; si verifica inoltre aumento del liquido intracellulare, del volume plasmatico e dalla ritenzione idrica. L’incremento del tessuto adiposo sottocutaneo a livello di addome, cosce e dorso si osserva dalla decima alla trentesima settimana ed ha una funzione di riserva energetica in corso di gravidanza e successivamente di allattamento. Il peso pregravidico influenza l’andamento della gravidanza: la condizione di sottopeso è associata ad una più alta incidenza di nascite premature, di neonati sottopeso e di mortalità perinatale, soprattutto se l’incremento del peso in corso di gravidanza non è stato adeguato; la condizione di obesità e/o di eccessivo incremento ponderale espone ad un maggior rischio di diabete gestazionale, ipertensione, gestosi e complicanze in corso di parto.

In funzione del BMI pregravidico varia l’indicazione all’incremento ponderale della gestante: BMI pregravidanza Incremento ponderale Incremento di peso per

settimana (in kg) Normopeso 18,5-24,9 11,5-16 0,4 dalla 12° settimana

Sottopeso <18,5 12,5-18 0,5 dalla 12° settimana

Sovrappeso 25-29,9 7-11,5 0,3 dalla 12° settimana

Obesità >30 <7

Gravidanza gemellare 15,9-2,4 0,7 dalla 12° settimana

Gravidanza trigemina ca. 22

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L’aumento del peso corporeo deve essere progressivo: durante il primo trimestre deve essere contenuto ad 1,5 kg, successivamente dovrà essere settimanalmente di 0,5 kg in donne sottopeso, 0,4 Kg nelle normopeso e di 0,300 nelle sovrappeso. FABBISOGNO ENERGETICO - In termini energetici la gravidanza nella donna normopeso richiede un supplemento energetico di 70-80000 kcal che vengono “spese” per la crescita del feto, della placenta e per le variazioni a carico dei diversi tessuti della gestante. Il primo trimestre non richiede supplementi energetici; nel secondo e terzo trimestre è richiesto un supplemento energetico di 200-400 calorie in base al peso pregravidico ed all’attività fisica svolta. L’aumento del fabbisogno energetico viene ottenuto mantenendo invariato il rapporto tra i macronutrienti: le proteine devono fornire il 15-20% delle calorie totali, i lipidi non superiore al 30%, i carboidrati il 50-60%. CARBOIDRATI - Rappresentano anche durante la gravidanza la principale fonte di energia. Vanno preferiti i carboidrati complessi ricchi di fibra alimentare a basso indice glicemico che concorrono a migliorare il controllo metabolico della gravida. L'apporto di zuccheri semplici non deve superare il 10-20% delle calorie totali. Vi sono indicazioni a ridurre l'apporto di carboidrati al 45% in caso di sovrappeso,obesità o diabete gestazionale, comunque non si deve scendere al di sotto del 40% delle calorie totali. La quota di carboidrati giornaliera deve essere distribuita in 3 pasti principali e 2 spuntini, evitare il digiuno prolungato che potrebbe determinare chetonuria, a cui si associa una condizione dannosa per il feto. PROTEINE - Il fabbisogno proteico in corso di gravidanza richiede un supplemento di 6 g/die di proteine che corrisponde ad un fabbisogno giornaliero di circa 1,2g/kg/die (peso ideale pregravidico). Le proteine introdotte devono essere di elevato valore biologico e quindi fornite principalmente da uova, carne, pesce, latte e derivati. LIPIDI - Durante la gravidanza è particolarmente importante l’introduzione di acidi grassi omega 3, in particolare l'acido alfa linolenico ed i suoi derivati: l'acido docosoesaenoico (DHA) e l'eicopentaenoico (EPA). L’ uomo è in grado di sintetizzare DHA a partire dall'acido alfalinolenico, ma questa via non è altamente efficiente ed esiste una notevole variabilità interindividuale su base genetica. Il DHA è fondamentale per lo sviluppo del sistema nervoso e retinico del feto, mentre la carenza di acidi grassi omega 3 verrebbe posta in relazione anche con la comparsa di ipertensione in gravidanza, parto pretermine e depressione postpartum. La sintesi endogena di DHA non è sufficiente ed è necessario un adeguato apporto esogeno che può essere garantito da almeno due-tre porzioni settimanali di pesce. Va preferito il pesce di piccola taglia (sardine, alici, merluzzo, trota) per il rischio di contaminazione da mercurio che interessa maggiormente i pesci di grandi dimensioni (pesce spada, palombo, maccarello, tonno). Attenzione anche per aringhe e salmoni del mar Baltico per la possibile contaminazione da diossina. L’olio extravergine di oliva è fonte di acidi grassi monoinsaturi ed è il grasso da condimento da preferirsi in gravidanza, meglio a crudo. FIBRA - L'azione della fibra si esplica a livello di tutto il tratto digerente. Inizia nel cavo orale dove induce masticazione, salivazione e produzione di succhi gastrici. Le fibre solubili come la pectina determinano aumento della viscosità del chimo con conseguente rallentamento dello svuotamento gastrico, sensazione di ripienezza e maggiore sazietà. Determinano rallentamento della digestione e dell'assorbimento dei nutrienti per cui, da un

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punto di vista metabolico, concorrono a modulare il picco iperglicemico postprandiale migliorando il compenso glicemico in particolare nel diabetico e riducono l'assorbimento del colesterolo di origine alimentare. In gravidanza il rilassamento della muscolatura intestinale indotto dal progesterone rallenta la motilità intestinale e favorisce il ristagno del contenuto intestinale con produzione di feci di volume ridotto e di aumentata consistenza. Le fibre aumentano la velocità del transito intestinale e del volume della massa fecale grazie al materiale indigerito ed all’acqua trattenuta; in questo modo favoriscono la formazione di feci più morbide e concorrono a prevenire la stipsi. Per ovviare alla stipsi in gravidanza vi è indicazione all'assunzione di 30 g di fibra (prevalentemente idrosolubile) al giorno.

Fabbisogno dei nutrienti in gravidanza secondo i LARN (1996)

Proteine 59 g

Acidi grassi essenziali Omega 6 5 g

Omega 3 1 g

Calcio 1200 mg

Fosforo 1200 mg

Potassio 3100 mg

Ferro 30 mg

Zinco 7 mg

Rame 1.2 mg

Selenio 55 mcg

Iodio 175 mcg

Tiamina 1 mg

Riboflavina 1 mg

Niacina 14 mg

Vitamina B6 1.3 mcg

Vitamina B12 2.2 mcg

Vitamina C 70 mg

Folati 400 mcg

Vitamina A 700 mcg

Vitamina D 10 mcg

VITAMINE E MICRONUTRIENTI � Acido folico (vitamina B9): L’acido folico è naturalmente presente in lievito, verdure

verdi, cereali integrali, agrumi e legumi. La supplementazione di acido folico è in grado di ridurre significativamente i difetti del tubo neurale, che comprendono in particolare spina bifida e anencefalia. Esso entra come coenzima nella sintesi delle basi azotate degli acidi nucleici (DNA e RNA) e degli aminoacidi. Il ruolo dell'acido folico è da correlare all'aumentato fabbisogno di sintesi di questi composti nelle fasi precoci dell'embriogenesi a rapida divisione cellulare. La chiusura del tubo neurale (neurulazione primaria) avviene nel primo mese di gravidanza a partire dal 17° giorno. La donna dovrebbe iniziare ad assumere acido folico almeno da un mese prima del concepimento sino alla 12° settimana di gestazione. Proprio per l'estrema labilità dell'acido folico (conservazione e cottura ne compromettono la stabilità, la

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biodisponibilità dipende dallo zinco presente nella dieta, dalla presenza di micotossine, fitati, alcool e pesticidi) difficilmente l'intake alimentare è in grado di superare i 200 mcg/die. È stato stimato che solo un terzo delle donne assume acido folico prima del concepimento per cui in alcuni paesi è stata introdotta la fortificazione degli alimenti obbligatoria (Stati Uniti, Cile, Nova Scotia e Ontario in Canada) ottenendo una riduzione di DTN sino al 35%. Il ricorso a cibi fortificati quale profilassi ai DTN dove adottata ha prodotto risultati comunque inferiori a quelli della supplementazione. L’indicazione è pertanto quella di assumere alimenti ricchi di acido folico ed alimenti fortificati a cui va aggiunta la supplementazione di 400 microgrammi die. Nelle donne a maggior rischio di malformazioni in genere o del tubo neurale in particolare per storia familiare o personale, con polimorfismo del sistema enzimatico di attivazione del folato, con diabete, in terapia antiepilettica con valproato e carbamazepina deve essere valutata una supplementazione di 4-5 mg/die.

� Vitamina B12: si trova in uova, fegato, carni, formaggi ed è coinvolta nella formazione degli eritrociti.

� Vitamina A : si trova in verdura-frutta di colore giallo/arancione e verde scuro, latte, burro, fegato, uova, carote, broccoli, spinaci. Il rischio di carenza di vitamina A è estremamente basso nella nostra popolazione per cui non vi è indicazione a una supplementazione. Va invece sottolineato il potenziale effetto teratogeno del sovradosaggio di vitamina A in particolare nel primo trimestre di gravidanza in cui avviene l’organogenesi fetale. L’apporto giornaliero complessivo non dovrebbe superare 700 microgrammi/die.

� Vitamina D: si trova in olio di fegato di merluzzo, pesce (pesce azzurro, salmone), burro e uova (in particolare nel tuorlo), cereali fortificati. La vitamina D stimola l’assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale, regola insieme al PTH i livelli plasmatici di calcio ed è fondamentale nella regolazione di un’adeguata mineralizzazione dello scheletro. In gravidanza aumenta il fabbisogno di vitamina D per l’aumentato utilizzo di calcio e fosforo nella mineralizzazione dello scheletro in crescita del feto ed a seguire dopo il parto, del neonato. La carenza di vitamina D è in aumento, per una inadeguata esposizione al sole, per le diverse abitudini alimentari, per la diffusione dell’obesità. Nell’obesità la vitamina D viene immagazzinata nel tessuto adiposo da cui viene difficilmente rilasciata con conseguente minore biodisponibilità. È dibattuto il ruolo della carenza di vitamina D in gravidanza nella patogenesi del diabete mellito gestazionale. Essa interverrebbe nel migliorare la sensibilità insulinica tessutale (aumento del numero di recettori e miglioramento del sistema di trasporto endocellulare del glucosio) e nell’aumentare l’efficienza beta cellulare nella sintesi di insulina. Vi è indicazione a supplementazione di vitamina D (10 microgrammi die) in condizioni di rischio di carenza (alimentazione povera di alimenti contenenti vit. D, mancata esposizione al sole per motivi culturali e religiosi, appartenenza ad etnie a rischio - donne afrocaraibiche e del sud-est asiatico, obesità) anche se a tutt’oggi non esistono evidenze suffragate per una supplementazione routinaria.

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� Calcio: le fonti principali di calcio sono rappresentate da latte, formaggio, verdure verdi, legumi. Il fabbisogno di calcio nella donna dai 19 ai 50 anni è di circa 1000 mg die e di 1300 al di sotto dei 18 anni. Durante la gravidanza è indicata una supplementazione di 400 mg di calcio al giorno che può essere raggiunta con 3 porzioni di alimenti ricchi in calcio. Se l'apporto esogeno è insufficiente, il calcio viene comunque attinto dalla madre causando in primis decalcificazione di ossa e denti perché deve essere comunque garantita la crescita del feto. Il calcio è fondamentale per la calcificazione del tessuto osseo fetale e quindi per la formazione dello scheletro.

� Fosforo: si trova in uova, latte, formaggio, cereali integrali, pesce, carne. Il fabbisogno è sovrapponibile a quello del calcio.

� Ferro: carne, uova, legumi (in particolare la soia), cereali integrali, verdure verdi. L’assorbimento del ferro può essere facilitato assumendo contemporaneamente alimenti ricchi di vitamina C (agrumi, kiwi, peperoni). La supplementazione di ferro in gravidanza è indicata quando i valori di emoglobina scendano al di sotto di 10 g % in quanto non è documentato il beneficio in presenza di valori di emoglobina e ferritina nella norma. La supplementazione di ferro ha l’obiettivo di ripristinare i depositi di ferritina e può essere richiesta a partire dalla 28° settimana di gravidanza quando si espande maggiormente la massa eritrocitaria o anticipatamente in situazioni particolari quali malnutrizione, malassorbimento, gravidanze multiple o ravvicinate.

� Acqua: preferire le acque bicarbonato-calciche per l’apporto di calcio. � Luteina: è un pigmento presente in verdure a foglia scura, spinaci, broccoli e cavoli e

nel tuorlo d’uovo che svolge un’azione antiossidante ed interviene nello sviluppo della retina del feto e del neonato.

BEVANDE : non eccedere nell’uso di caffè e bevande nervine in genere, attenzione alle bevande che contengono chinino per possibili effetti neurotossici. Durante la gravidanza è preferibile limitare o astenersi dall’assunzione di bevande alcooliche. L’abuso di alcool in gravidanza compromette l’assorbimento di nutrienti essenziali (Vit. B12 e folati) e può indurre malformazioni fetali e basso peso alla nascita. Evitare bevande dolcificate.

DOLCIFICANTI : limitare l’uso dei dolcificanti in genere: la saccarina supera la barriera placentare, non esistono studi adeguati per acesulfame-K, l’aspartame sembra sicuro (escluse le donne con fenilchetonuria).

In conclusione si può affermare che in gravidanza un’alimentazione varia ed equilibrata secondo le indicazioni della piramide alimentare è in grado di garantire un apporto sufficiente di tutti i principi nutritivi (escluso l’acido folico). Quindi:

� 5 porzioni di frutta e verdura al giorno di colore diverso (“5 colori di verdura-frutta”: giallo-arancio, verde, violetto, rosso, bianco) prediligendo il giallo-arancio ed il verde scuro;

� 3 porzioni di latte e latticini per garantire in primis l’apporto di calcio; � 1 porzione di carboidrati, meglio integrali ad ogni pasto; � Carne: 2-3 volte la settimana;

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� Pesce: non meno di 1-2 volte la settimana; � 1 porzione di noci al giorno; � Acqua: almeno 1500-2000 cc al giorno; � Oli vegetali ad alto valore nutritivo: olio extravergine di oliva.

Allattamento: Per la donna la produzione del latte è un impegno gravoso da un punto di vista

metabolico-nutrizionale, che richiede una supplementazione calorico-proteica integrata anche di calcio, ferro, vitamine (A, gruppo B e C) ed oligoelementi (iodio, zinco, rame, selenio). Come in gravidanza un’alimentazione variata e bilanciata con adeguato apporto di frutta e verdura è sufficiente a garantire i fabbisogni nutrizionali senza richiedere supplementi farmacologici. Il supplemento calorico durante l’allattamento è valutato intorno alle 450-550 calorie al giorno sino al 6° mese. Deve considerare le riserve caloriche accumulate in corso di gravidanza in forma di tessuto adiposo per non determinare un ulteriore incremento di peso nella donna soprattutto in caso di sovrappeso/obesità preesistenti, dipende anche dalla quantità di latte prodotto. Aumenta il supplemento di proteine necessario che diventa di 16/17 g/die. Il supplemento di calcio anche durante l’allattamento è di circa 400 mg/die.

In linea generale, l'alimentazione della donna che allatta deve comprendere alimenti proteici come latte e latticini che sono ricchi di calcio, fosforo e vitamina A, pesce uova e carne coprono il fabbisogno di acidi grassi e aminoacidi essenziali, ferro, minerali ed alcune vitamine. Oli vegetali, in particolare l'olio extravergine di oliva, da assumere crudo apporta acidi grassi monoinsaturi e vitamine liposolubili. Frutta verdura, legumi e cereali soddisfano la richiesta di fibre e vitamine ed oligoelementi. L'acqua introdotta non deve essere inferiore ai 2 litri/die a basso residuo fisso (oligominerale) alternata ad un'acqua a media mineralizzazione, preferibilmente calcica con un contenuto di nitrati inferiore a10 mg/litro. L'importanza dell'acqua durante l'allattamento va chiaramente riferita alla produzione di latte, che dal 1°al 5°mese aumenta progressivamente da 600 g ad 800 ml circa al giorno. Un adeguato apporto di acqua garantisce la produzione di un latte più fluido e più facilmente digeribile per il bambino. Prestare attenzione inoltre a: � alimenti potenzialmente causa di reazioni pseudoallergiche; � alimenti potenzialmente non graditi al neonato per il sapore troppo intenso; � se il lattante soffre di coliche gassose attenzione agli alimenti che possono indurre

meteorismo intestinale: fagioli e legumi in genere, frullati lieviti e latticini; � carne conservata ed affettati spesso contengono conservanti (nitrati e nitriti); � moderare il consumo di caffeina.

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L’ACQUA NELLA GRAVIDANZA E NELL’ALLATTAMENTO

Luca Valeriani

UO Dietologia e Nutrizione Clinica

Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna - Bologna

L’ Acqua è un elemento essenziale per la vita ed è il maggior componente di tutti gli organismi viventi. Nel corpo umano rappresenta la sostanza fondamentale di ogni cellula e partecipa a tutti i processi biologici che in essa si svolgono. Infatti, sebbene non fornisca energia, l’acqua oltre a dissetarci, svolge numerose e vitali funzioni: solvente nelle reazioni metaboliche; regola il volume cellulare e la temperatura corporea; attraverso il sangue ed il sistema linfatico trasporta i nutrienti e l’ossigeno alle cellule e rimuove i prodotti di rifiuto; favorisce i processi digestivi; fonte di sali minerali; diluente delle sostanze ingerite oralmente, inclusi i medicinali.

L’assunzione di acqua ed elettroliti è inseparabile dall’assunzione di nutrienti per os o dalla loro somministrazione mediante nutrizione artificiale, sia essa enterale o parenterale. In effetti è possibile vivere per un tempo sufficientemente lungo senza cibo ma solo dopo poche ore di mancanza di liquidi la sopravvivenza risulta seriamente compromessa. Una disidratazione del 2% provoca un’alterazione della termoregolazione e del volume plasmatico, del 5% provoca crampi, del 7% allucinazioni e perdita di coscienza, una perdita del 20-30% è incompatibile con la vita determinando coma ipersmolare.

L’acqua è il componente più abbondante del corpo umano: il suo contenuto percentuale varia in rapporto al sesso, all’età ed alla costituzione dell’individuo. Il contenuto di acqua corporea nel neonato è pari al 75% del peso corporeo, nell’uomo di 25 anni al 60%, nella donna di pari età al 50%, nell’uomo di 85 anni al 50% e nella donna della stessa età al 45%.

L’acqua corporea totale si divide in due grandi compartimenti: acqua intracellulare (ICW) ed acqua extracellulare (ECW). La prima rappresenta il 68% del peso corporeo ed è indice della massa cellulare corporea. La Massa magra (FFM) degli adulti ha un contenuto di acqua del 70-75%, sia nei maschi che nelle femmine, e questo non cambia in maniera significativa con l'età. L’acqua extracellulare raggiunge in media il 33% del peso corporeo suddividendosi in interstiziale (24%) ed intravascolare (plasma 7%). Un maschio con un peso corporeo di 70 kg avrà quindi circa 42 L di acqua corporea totale, di cui 28 L è intracellulare, e 14 L extracellulare, con 3,1 L di quest'ultima nel plasma.

La gravidanza è accompagnata da un aumento di peso che può variare dai 10 a 15 kg, con un incremento fase-specifico, che è basso durante la prima metà, più alto nel secondo trimestre e leggermente inferiore di nuovo nel terzo trimestre. Complessivamente, l'aumento di peso totale è composto del feto (25%), dalla placenta (5%) e dal liquido amniotico (6%). L'incremento di peso materno è costituito per il 62% di acqua con ampia variabilità, di cui circa il 10% è dovuto all'espansione del volume del liquido extracellulare, extravascolare.

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L'alto contenuto di acqua del peso guadagnato si riflette nei bassi costi energetici (4,7-6,4 kcal/g di peso) rispetto al costo dell'energia (8 kcal/g) per l'aumento di peso in donne non gravide. Di conseguenza, l'idratazione della FFM aumenta da circa il 72,5% alla decima settimana di gestazione a circa il 75% a 40 settimane, in particolare nelle donne con edema, e vi è una diminuzione del rapporto di intra-extracellulare dell'acqua. L’Espansione del volume plasmatico è ormonalmente indotta, massimo durante il secondo trimestre (più 50%), e accompagnato da un ridotto set-point di osmolarità plasmatica (meno di 10 mOsm/L).

Nel soggetto normale l’assunzione di liquidi e le perdite idriche si equivalgono. L'assunzione di acqua avviene prevalentemente attraverso il consumo di acqua potabile e bevande (80%) più l’acqua contenuta negli alimenti (20%). Il contenuto d'acqua del cibo è di solito inferiore al 40% nei prodotti da forno, tra il 40 e il 70% nei pasti caldi, > 80% in frutta e verdura e circa il 90% nel latte. Diete ricche di frutta e verdura forniscono quantità significative di acqua totale, mentre ad esempio i prodotti fast food, di regola, hanno basso contenuto d'acqua

L’acqua metabolica è quella che si forma per ossidazione durante il metabolismo dei principi nutritivi. Essa è di 0,56 g per grammo di amido, g 1,07 per grammo di lipidi e 0,39 g per grammo di proteine. In media l’organismo produce 350 ml di acqua metabolica/die. Non ci sono dati europei in materia di assunzione d'acqua rilevati in donne in gravidanza, ma a causa dell’aumento di peso e dell’aumento dell'apporto energetico, un aumento proporzionale nel consumo di acqua è appropriato. Ipotizzando un aumento di apporto energetico del 15% nel secondo trimestre, ad esempio equivalente a 300 kcal/giorno, un'assunzione supplementare di acqua totale di 300 mL sarebbe adeguato. Negli Stati Uniti un aumento di assunzione di acqua da 200 a 300 ml/giorno è stata rilevata in confronto con le dosi di donne non-gravide della stessa età. Coprire il fabbisogno di acqua attraverso la dieta può essere più difficile in gravidanza rispetto alle donne non in gravidanza a causa di frequente avversione alimentare. Ne consegue che le donne in gravidanza possono essere più vulnerabili alla disidratazione. La nausea ed il vomito, sintomi abituali nei primi mesi per il 50-90% delle gravidanze, possono persistere oltre la 20ma settimana e dare luogo a una grave sindrome, l’iperemesi gravidica, dove per la correzione dell’equilibrio idro-elettrolitico e l’ottimizzazione dello stato nutrizionale della paziente spesso si deve ricorrere alla idratazione endovenosa e alla alimentazione parenterale totale.

L’assunzione di acqua durante l'allattamento deve compensare la perdita di acqua attraverso la produzione di latte, quindi l'assunzione di acqua deve essere almeno pari alle donne che non allattano della stessa età, più il contenuto di acqua del latte prodotto (88%), che è pari a 600 a 700 ml/giorno. Una lieve disidratazione non influisce sulla produzione di latte, ma una moderata-grave disidratazione può avere effetti, tra cui cambiare la composizione del latte e diminuire la quantità di latte prodotto. Tra le acque minerali, in gravidanza ed allattamento saranno da preferire le acque definite calciche ed a basso contenuto di sodio. Il calcio, infatti, è particolarmente importante per lo sviluppo scheletrico del bambino. Il sodio invece può provocare ritenzione idrica frequente in gravidanza ed allattamento.

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Come noto, il nascituro soddisfa il proprio fabbisogno grazie al calcio contenuto nello scheletro materno, per cui una carenza di questo minerale nella alimentazione diventa dannosa non tanto per lo sviluppo del bambino quanto per la salute della madre.

È altresì vero che nel corso della gravidanza l’apporto di calcio potrebbe essere soddisfatto mediante il consumo di prodotti lattiero-caseari, ma per la frequente necessità di evitare il sovrappeso spesso si deve impostare un’alimentazione ipocalorica e povera di grassi. In queste situazioni le acque minerali naturali ricche di calcio, possono rappresentare una validissima fonte alternativa.

Il bilancio dell’acqua è determinato dall’equilibrio tra il volume di acqua assunta e quello di acqua eliminata dall’organismo. Tale equilibrio è regolato dal centro ipotalamico della sete che modula l’assunzione di acqua e dall’ormone antidiuretico (ADH o vasopressina) secreto dall’ipofisi posteriore che aumenta il riassorbimento di acqua nel rene (organo cardine dell’omeostasi idro-elettrolitica).

I due momenti principali in cui si divide la funzione renale sono: 1) la filtrazione renale glomerulare (GFR) 2) il riassorbimento tubulare.

Nella donna gravida si assiste all’aumento della velocità di filtrazione glomerulare ed ad un effettivo aumento del flusso plasmatico renale fino a livelli del 50 al 70% superiori alle non gravide. Questi valori si hanno molto presto in gravidanza e ben prima dell'incremento in acqua corporea totale e del volume plasmatico. Essi diminuiscono ancora una volta durante le ultime settimane di gravidanza. Nonostante l'incremento di velocità di filtrazione glomerulare ed il flusso plasmatico renale, non si verifica nessun aumento di perdita renale di acqua, ed i soluti filtrati vengono riassorbiti ad alta efficienza.

Infine non va dimenticato il flusso dei liquidi attraverso il tubo gastroenterico. Una delle principali ragioni della sua lunghezza è la capacità di riassorbire una grande quantità di acqua, sodio ed altri elettroliti che vi sono secreti. Ogni giorno all’interno del primo tratto dell’intestino tenue transitano 9 litri di fluidi compresi quelli assunti con l’alimentazione, quelli secreti con la saliva, la bile, il succo pancreatico ed intestinale. Il volume di tali fluidi si riduce a 1500 ml all’altezza della valvola ileo-cecale e diventa di 150 ml con le feci. L’assorbimento del sodio e quindi dell’acqua è potenziato nel primo tratto dell’intestino tenue dall’eccesso di sodio stesso in esso contenuto, mentre nel colon dagli acidi grassi a catena corta derivati dalla fermentazione delle fibre idrosolubili.

Il Bilancio idrico nel feto è invece dipendente da quello della madre. Ad esempio, quando la madre è disidratata, l'osmolarità plasmatica fetale aumenta in parallelo con l'osmolarità del plasma materno, se la funzione placentare è normale. L'aborto, il parto prematuro, le anomalie del volume del liquido amniotico, le malformazioni ed i ritardi di crescita del feto possono verificarsi quando l'omeostasi dello scambio di fluido materno-fetale viene interrotto. I meccanismi molecolari del bilancio idrico materno-fetale non sono noti. Secondo i ricercatori sono interessati meccanismi diversi, fra cui le acquaporine, gli ormoni e il fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF). Le acquaporine (AQPs) sono proteine di piccole dimensioni (circa 30 kDa) della membrana che vengono chiamate cosi per la loro capacità di aumentare la permeabilità

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all'acqua del doppio strato lipidico delle membrane plasmatiche. È noto che le AQPs determinano l'aumento della permeabilità all'acqua da 5 a 50 volte rispetto alle membrane in cui l'acqua si muove in primo luogo attraverso il doppio strato lipidico.

Nel sistema riproduttivo femminile, le AQPs sono fortemente espressa nelle ovaie, nell’ovidotto, nell’ utero, in placenta, nell’amnios e nel corion durante la gravidanza. Almeno nove isoforme di AQP (AQP1-9) sono espressi in questi organi [Fig.1]. È stato accertato che la permeabilità della placenta umana aumenta con l'avanzare della gestazione. Evidenze indirette hanno inoltre suggerito che le acquaporine possono essere coinvolte nell’aumento del flusso d'acqua placentare, ma i meccanismi sono ancora poco conosciuti.

Contenuto di acqua negli alimenti (per 100 g di parte edibile) Alimenti %

Frutta 95-75

Legumi verdi 95-85

Latte 90-80

Pasta asciutta 12

Pesci 85-50

Carni 60-50

Formaggi 50-35

Pane 40-30

Burro 20-15

Cereali e legumi secchi 10-5

Lardo 5-2

Zucchero 0

Bibliografia

(1) Manuale di Dietologia a cura di M. Venturini, Editoriale Italiana-Roma, 1998. (2) Basics in Clinical Nutrition Edited for ESPEN Courses Second Edition Publishing House Galèn Czech

Republic, 2000. (3) Manuale di Nutrizione Clinica a cura di R. Mattei, Franco Angeli Editore-Milano, 2001. (4) Manuale di Nutrizione Artificiale a cura del Consiglio Direttivo SINPE 2° Ed. 2007. (5) EFSA Panel on Dietetic Products, Nutrition, and Allergies (NDA); Scientific Opinion on Dietary reference

values for water. EFSA Journal 2010; 8(3):1459. (6) Acta Pharmacologica Sinica (2011) 32: 716-720

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Fig.1 - Tratta da Acta Pharmacologica Sinica (2011) 32: 716–720

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LA PROFILASSI DEL TROMBOEMBOLISMO VENOSO IN GRAVIDA NZA

Angelo Ghirarduzzi

Responsabile S.S.D. di Angiologia

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

Introduzione Le donne in gravidanza presentano un rischio relativo di circa 5-10 volte di eventi

tromboembolici venosi [TEV] rispetto alle donne di pari età non gravide. Il tromboembolismo venoso è altresì la principale causa di morte materna. La predisposizione agli eventi trombo embolici venosi è sostenuta da un relativo stato di “ipercoagulabilità” durante tutta la gravidanza che nella selezione naturale della specie trova il vantaggio di proteggere la donna dagli eventi emorragici della gravidanza in particolare in occasione del parto. In effetti ancora oggi nei paesi in via di sviluppo l’emorragia è la più importante causa di mortalità materna.

Una corretta gestione del rischio di TEV ha riflessi favorevoli non solo sulla mortalità ma anche sulla riduzione delle complicanze a lungo termine ed in particolare la s. post-trombotica.

Fattori di rischio Il rischio complessivo di eventi è condizionato dalla presenza contemporanea di

molteplici fattori di rischio ed in primo luogo dall’età della donna. Il rischio di TEV è aumentato nelle gravidanze di donne con età > 35 anni. Prima dei 35 anni l’incidenza di TEV è di 0,6 eventi ogni 1000 gravidanze ed oltre i 35 anni diventa 1,2 eventi ogni 1000 gravidanze. Questo dato è in parte legato alla maggiore prevalenza di parto con taglio cesareo, malattie cardiovascolari ed obesità. Un’importante fattore di rischio per TEV è rappresentato dal taglio cesareo, che precede più del 75% delle morti per embolia polmonare in puerperio. Il più frequente ricorso al taglio cesareo in Italia (circa 37%) rispetto alla realtà anglosassone (circa 23%) potrebbe aumentare l’esposizione al rischio di malattia tromboembolica.

Il rischio di TEV è maggiore nel terzo trimestre (45%) rispetto al secondo (35%) e primo trimestre (25%). Nel puerperio il rischio di TEV è circa 7-10 volte maggiore rispetto alla gravidanza. L’incidenza di TEV è 0,97 eventi per 1000 donne/anno in gravidanza e di 7,19 eventi per 1000 donne /anno in puerperio.

Il rischio di recidiva in gravidanza è di circa il 2,5% ed è maggiore in donne che hanno già avuto in passato un evento idiopatico o associato a precedente gravidanza o ad uso di estro-progestinici.

Nei pazienti con Trombofilie “minori” (ex eterozigosi per il Fattore V Leiden o eterozigosi per la mutazione del gene della protrombina) si è osservato, in gravidanza, un aumento del rischio di TEV di circa 6-10 volte. Nelle pazienti con Trombofilie “maggiori” (ex deficit di antitrombina, di proteina S, di proteina C, omozigosi per il FV Leiden o deficit multipli associati) il rischio è ulteriormente aumentato (anche 40 volte maggiore).

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Metodi di profilassi Le osservazioni disponibili sono scarse e mancano studi randomizzati e controllati,

cosicché la maggior parte delle raccomandazioni scaturisce da studi di coorte Gli Anticoagulanti Orali dicumarolici sono teratogeni nel primo trimestre.

Attraversano la placenta ed in caso di esposizione tra la sesta e dodicesima settimana di gestazione possono determinare una embriopatia caratterizzata da ipoplasia nasale, atrofia ottica, ritardo mentale di vario grado, microcefalia e macroftalmia. Anche in assenza di embriopatia manifesta è stata descritta la possibile insorgenza di problemi di apprendimento scolare in bambini esposti durante la gestazione.

La terapia anticoagulante orale è ragionevolmente sicura nel secondo e terzo trimestre ma è consigliabile comunque passare a terapia eparinica circa 4 settimane prima della data presunta del parto in modo da ridurre le possibili complicanze emorragiche materne o neonatali.

La somministrazione di anticoagulanti orali è del tutto compatibile con l’allattamento. L’ eparina non frazionata (UFH) e le eparine a basso peso molecolare (EBPM) non

attraversano la placenta e sono sicure per il feto. La profilassi prolungata con EBPM è da preferirsi per il più basso rischio di piastrinopenia autoimmune. La metanalisi di Sanson ha mostrato in terapia eparinica una percentuale di eventi feto-neonatali avversi (come morte endouterina, parto pretermine) in linea con i dati osservati nella popolazione normale non trattata.

L’ utilizzo delle eparine in gravidanza è gravato da un basso rischio di emorragie maggiori per la gestante e di un rischio ulteriore del 2% di osteoporosi con conseguente rischio di fratture sintomatiche. Il rischio di fratture da osteoporosi sembra essere inferiore per le EBPM rispetto a UFH. Attualmente, in gravidanza le EBPM sono preferite alla UFH per una maggiore maneggevolezza e per la ormai comprovata sicurezza per il feto e per la madre. Anche le eparine sono compatibili con l’allattamento.

La compressione elastica può essere usata nel corso della gravidanza, sebbene non esistano trial clinici che supportino tale pratica. Alcune Società scientifiche, raccomandano l’ uso di tale presidio in gravidanza e nelle sei settimane di puerperio soprattutto in donne con precedente TEV o portatrici asintomatiche di trombofilia.

La Profilassi in Gravidanza e Puerperio

Definizione del rischio Tutte le donne che affrontano una gravidanza dovrebbero essere sottoposte ad una

attenta valutazione dei fattori di rischio per TEV. È ritenuta di fondamentale importanza un’accurata anamnesi personale e familiare mirata alla conoscenza di eventuali pregressi eventi tromboembolici nella paziente o nei suoi familiari di primo grado. In tal modo è possibile definire la necessità di misure di prevenzione antitrombotica di tipo farmacologico e l’opportunità di un eventuale approfondimento diagnostico.

Non è raccomandato uno screening di trombofilia nelle donne gravide o che si accingono ad affrontare una prima gravidanza in assenza di una documentata storia personale

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o familiare di tromboembolismo venoso. È opportuno che donne con pregresso TEV vengano sottoposte a test per trombofilia congenita od acquisita prima di affrontare una gravidanza. Va ricordato che le uniche condizioni riconosciute come sicuramente associate a trombofilia sono i difetti di anticoagulanti naturali (antitrombina, proteina C ed S), la presenza di fattore V Leiden o protrombina G20210A, l’iperomocisteinemia e la presenza di anticorpi antifosfolipidi.

Profilassi in Donne senza precedenti eventi tromboembolici (profilassi primaria) Non esistono allo stato attuale dati conclusivi sulla profilassi primaria del TEV in

gravidanza. Nelle donne con età inferiore ai 35 anni, anamnesi familiare e personale negativa, taglio cesareo elettivo in gravidanza non complicata ed in assenza di altri fattori di rischio, possono essere sufficienti misure di prevenzione primaria di tipo non farmacologico (elastocompressione, attenta osservazione clinica e/o strumentale, intervento su abitudini di vita). È raccomandata la mobilizzazione precoce, soprattutto dopo taglio cesareo. In tutti gli altri casi, invece, va presa in considerazione la profilassi farmacologica.

Il rischio di TEV associato alla gravidanza in presenza di una trombofilia varia considerevolmente a seconda del tipo di trombofilia. Il deficit di antitrombina, proteina C ed S sebbene rari si associano ad un rischio elevato di TEV in gravidanza. In particolare le portatrici asintomatiche di deficit di proteina C o proteina S hanno un rischio maggiore nel puerperio.

Non esistono dati prospettici relativi all’incidenza di TEV in donne gravide portatrici di trombofilia senza precedente TEV. La profilassi in gravidanza non viene considerata necessaria, se non in presenza di trombofilie “maggiori” (deficit di antitrombina, proteina C ed S, omozigosi per fattore V Leiden o mutazione G20210A della protrombina o difetti combinati). Pertanto la profilassi durante la gravidanza in donne portatrici di fattore V Leiden o mutazione della protrombina G20210A in forma eterozigote non è indicata. È, invece, consigliata una profilassi con EBPM in tutte le donne portatrici di trombofilia nota durante il puerperio (6 settimane).

Indipendentemente dal rischio della singola paziente, è bene tener presente che l’immobilità durante la gravidanza ed il puerperio dovrebbe essere scoraggiata, in quanto comporta un aumento del rischio per TEV ed in modo analogo dovrebbero essere evitate le situazioni di disidratazione.

Profilassi in Donne con precedenti eventi tromboembolici (profilassi secondaria) Non ci sono chiare evidenze in letteratura circa l’opportunità durante la gravidanza di

una profilassi con EBPM in donne con precedente TEV senza fattori rischio persistenti e senza trombofilia. Sebbene la gravidanza si associ ad un rischio di ricorrenza maggiore di almeno tre volte, i dati disponibili non sono univoci. Esistono alcune evidenze relative al fatto che se l’ episodio di TEV si è associato ad un fattore di rischio temporaneo, come il trauma o l’intervento chirurgico, la profilassi in corso di gravidanza non è necessaria. Vi è invece accordo nel consigliare sempre la profilassi nelle sei settimane di puerperio.

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È consigliata una profilassi con EBPM durante tutta la gravidanza ed il puerperio in donne con precedente episodio di TEV spontaneo o correlato ad uso di terapia estroprogestinica o gravidanza, indipendentemente dai risultati dello screening di trombofilia. Le donne portatrici di trombofilie hanno un rischio aggiuntivo di TEV in gravidanza. In donne con pregresso TEV secondario ad un fattore di rischio transitorio, non più presente, ma presenza di trombofilie associate ad un rischio di TEV non particolarmente elevato (FV Leiden e FIIA20210A in eterozigosi) può essere suggerita sia sorveglianza clinica che basse dosi di EBPM ante-partum in presenza di altri fattori di rischio. In ogni caso, nel post-partum sono raccomandate basse dosi di EBPM per sei settimane. Si ricorda che deficit di antitrombina necessitano di dosi elevate di EBPM.

La sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS) è definita come la presenza costante nel tempo di anticorpi Lupus anticoagulante e/o anticorpi anticardiolipina a titolo medio-alto e una storia di complicanze trombotiche (arteriose o venose) od ostetriche. Il rischio di ricorrenza del TEV in pazienti con APS è stimato fino al 70% e potrebbe essere ancora maggiore in gravidanza. Dunque, donne con pregresso TEV e APS dovrebbero ricevere profilassi con EBPM durante gravidanza e puerperio. Pur in assenza di studi formali, per analogia con le altre condizioni trombofiliche a rischio elevato sopra elencate è consigliabile nelle donne asintomatiche con titoli medio-elevati di APS profilassi con EBPM in gravidanza e puerperio

Timing, Dosi e Durata della Terapia Anticoagulante In considerazione del fatto che il TEV ha una frequenza simile nei tre trimestri della

gravidanza, nel caso in cui la profilassi sia necessaria in corso di gravidanza, dovrebbe essere iniziata il più precocemente possibile. Nelle donne in cui sia indicata la profilassi nel post partum, l’EBPM va intrapresa appena possibile dopo il parto (considerare le precauzioni legate alla analgesia loco-regionale), a condizione che non ci sia alcuna emorragia in corso. In quest’ultimo caso la profilassi antitrombotica viene effettuata con le sole calze antitrombo. In considerazione del fatto che lo stato “protrombotico” della gravidanza persiste per alcune settimane, la profilassi post-partum viene protratta per sei settimane. Le dosi di EBPM raccomandabili in campo ostetrico sono paragonabili a quelle utilizzate nella chirurgia ad alto rischio (enoxaparina 40 mg die e Dalteparina 5000 UI die)

Precauzioni relative alla Terapia Eparinica durante il Travaglio Nel momento in cui la paziente è in travaglio, deve essere informata di sospendere

l’uso di eparina. In considerazione del maggiore rischio di TEV nel post-partum, le donne sottoposte a profilassi in corso di gravidanza devono estenderla al post-partum. Nel caso in cui la paziente riceva profilassi ad alte dosi o terapia eparinica, si può sospendere la somministrazione all’inizio del travaglio o ridurla a dosi profilattiche (es: 40 mg /die enoxaparina o 5000 UI/die dalteparina il giorno prima dell’induzione del parto o di un eventuale taglio cesareo).

Circa l’anestesia epidurale, per ridurre al minimo il rischio di ematomi peridurali, le tecniche di anestesia regionale non dovrebbero essere impiegate prima delle 12 ore successive

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alla somministrazione dell’ ultima dose di EBPM. Nel caso in cui la paziente stia utilizzando dosi terapeutiche del farmaco, l’uso di tali tecniche va intrapreso 24 ore dopo l’ultima somministrazione del farmaco. La somministrazione del farmaco va ripresa almeno 4 ore dopo l’inserzione o la rimozione del catetere epidurale e la cannula non va rimossa entro le 10-12 ore dall’ultima iniezione.

In caso di taglio cesareo elettivo, la paziente, ove indicato, dovrebbe ricevere una dose profilattica il giorno prima dell’intervento (es: la sera prima, se l’intervento è programmato per il mattino successivo).

Bibliografia

1) Blanco-Molina A., Trujillo-Santos J. et al.: Venous thromboembolism during pregnancy or postpartum: findings from the RIETE. Registry Tromb Haemost 2007; 97: 186-90. 2) De Stefano V., Martinelli I., Rossi E. et al.: The risk of recurrent venous thromboembolism in pregnancy and pueperium without antithrombotic prophylaxis. Br J Haematol 2006; 135: 386-91. 3) Heit J.A., Kobbervig C.E., James A.H. et al.: Trends in the incidence of venous thromboembolism during pregnancvy or postpartum: a 30-year population based study. Ann Intern Med 2005; 143: 697-706. 4) Johnston J.A., Brill-Edwards P. et al.: Cost-effectiveness of prophylactic low molecular heparin in pregnant women with a prior history of venous thromboembolism. Am J Med 2005; 118: 503-14. 5) Maslovitz S., Many A. et al.: The Safety of low-molecular-weight heparin during labor. Obstet Gynecol Surg 2005; 60: 632-3.

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L’ALIMENTAZIONE NELLA MENOPAUSA

Luisa Zoni

UO Dietologia e Nutrizione Clinica - Azienda Unità Sanitaria Locale di Bologna - Bologna

Past-President A.D.I. Sezione Emilia-Romagna

Il passaggio di vita della donna dalla fase di fertilità a quella di impossibilità a procreare è un evento fisiologico caratterizzato da cambiamenti fisico-biologici, comportamentali, emotivi e culturali naturali ma di notevole impatto sia sulla singola persona, sia sulla collettività.

Infatti, l’innalzamento della vita media nei paesi occidentali e, nella fattispecie, nella vita delle donne, fa si che un terzo abbondante della vita di una donna avvenga in una situazione di assenza di ormoni estrogeni, con le conseguenze - amplificate - di ciò che tale situazione comporta. La menopausa compare, usualmente, tra i 45 ed i 55 anni; sono possibili menopause anticipate (>38 anni) o precoci (>35 anni) e menopause tardive >56 anni).

Ciò rende la donna maggiormente passibile di una serie di patologie croniche - malattie cardiovascolari, più o meno associate a quadri dismetabolici lipidici o glucidici, osteoporosi e sue conseguenze, neoplasie, deterioramento cognitivo e, in primis, aumento ponderale - tutte strettamente correlate con l’alimentazione, preventiva prima ancora che curativa, e che vedono come fattore causale la caduta degli estrogeni circolanti.

L’ aumento di peso è anch’esso un fenomeno naturale in questa fase di vita della donna, a genesi multifattoriale (riduzione della spesa energetica, minor efficacia funzionale delle membrane cellulari con conseguente insulino-resistenza, minor dispendio motorio, apporto alimentare “emotivo” aumentato, etc.): poco meno della metà delle donne sperimenta un aumento medio di 5 Kg nel periodo peri-menopausale; il 17% circa supera i 15 Kg ed altre aumentano da 6 a 15 Kg. Quindi, anche se l’incremento è contenuto e può essere facilmente smaltito con qualche attenzione, è pur sempre presente e può favorire la comparsa di fenomeni patologici attraverso il meccanismo del “normopeso metabolicamente obeso”: peso normale o di poco in eccesso ma con parametri attinenti alla Sindrome Metabolica presenti.

Il primo aspetto connesso con tale modifica del peso è dato dal cambiamento della distribuzione adiposa: la donna possiede - come caratteristica legata al genere - una percentuale di massa adiposa maggiore rispetto al maschio ed in sedi diverse. La funzione filologica di tale diversità, assente in altre specie viventi, è in parte legata alle necessità procreative ed al bisogno di far fronte con riserve energetiche adeguate ai possibili momenti di carestia (intemperie naturali, luoghi di vita, etc.); le nostre antenate preistoriche si sono selezionate per la sopravvivenza secondo le capacità di accumulare riserve energetiche in sedi apposite (area gluteo-femorale e mammaria per le donne del bacino mediterraneo; anche nel

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dorso-addome in aree più nordiche). La porzione di tessuto adiposo ubicata in zone particolari del corpo femminile ha giocato - e gioca tutt’ora pur se con impatto diverso - sulla scelta maschile della partner a maggior garanzia procreativa.

Con la menopausa i depositi loco-regionali abituali vengono riforniti in maniera minore (sono estrogeno-dipendenti), mentre aumenta lo stoccaggio in quelli addominali e viscerali, con conseguente maggior facilità di comparsa di Sindrome Metabolica. Il tutto è facilitato dall’accelerazione della perdita di massa muscolare - lenta tra i 25 ed i 50 anni e più rapida in seguito (con perdita di circa 3 Kg di massa muscolare con la menopausa). Alla base dell’aumento progressivo dell’insulino-resistenza nel periodo pre- e post-menopausale, c’è l’infossamento parziale del recettore dell’insulina all’interno delle membrane cellulari. Come conseguenza aumenta la quantità di acidi grassi a rapido turnover e, quindi, rapida mobilizzazione, aumentando la lipemia.

Quindi, in menopausa osserviamo:

� calo di massa magra = riduzione spesa metabolica (~ -60 kcal/die → +2 Kg/anno) e calo

forza muscolare (→ maggior fatica per sforzi anche lievi → calo del movimento); � redistribuzione depositi adiposi = aumento lipidi in sede viscerale e circolanti; � aumento resistenza insulinica = eccesso relativo di insulina (con azione anabolica verso

gli adipociti, quindi aumento accumulo adiposo) ed aumento rischio comparsa di diabete mellito, dislipidemia, eventi cardio-vascolari;

� aumento trasformazione entro al tessuto adiposo degli androgeni surrenalici = mantenimento di produzione di quote di estrogeni (con valori anche elevati nelle donne obese);

� calo depositi ossei = minor efficacia assorbitiva intestinale di calcio e vit D (→ rimaneggiamento osseo in senso porotico);

� calo estrogeni = aumento rischio depressivo (→ calo movimento ed aumento peso corporeo);

� stressori bio-psico-sociali = aumento rischio depressione sottosoglia (→ aumento turbe del sonno e modifica reattività ambientale, anche alimentare);

� turbe dell’umore (ansia e depressione) = utilizzo emotivo del cibo (→ aumento di peso) + cambio di gusto;

� alterazione del quantitativo lipidico corporeo + aumento di peso + eventi biopsicosociali + calo reattività emotiva e fisica (PNEI) = aumento rischio neoplasie.

Un dato interessante è rappresentato dal fatto che la comparsa di Sindrome Metabolica

nella donna si accompagna ad aumenti del rischio di eventi cardio- e cerebro-vascolari con incidenza e rapidità di sviluppo spesso maggiore che nel maschio, pure se con una disparità di attenzioni preventive e di aggressività terapeutica inferiori. Per tale motivo il VI Joint Committee ha definito la menopausa il “fattore unico di rischio cardiovascolare maggiore

per il sesso femminile”. Di conseguenza appare importante agire su ogni elemento atto a garantire un impatto

minore ai fattori di rischio e maggiore a quelli protettivi. E, come si può ben comprendere, la battaglia si gioca, in primis, sul campo della prevenzione.

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Fattori preventivi : � Alimentazione - con effetti anche curativi, in corso di patologie conclamate, � Attività Fisica - con efficacia anche nei confronti di patologie già instaurate.

L’organismo femminile si adatta ai cambiamenti dapprima in maniera lieve e scarsamente sintomatica (fase “premenopausale”, inizia 4-5 anni prima del blocco mestruale), attraversa la burrasca della brusca interruzione della produzione di estrogeni con una serie di sintomi fisici e psicologici (fase “menopausale” vera e propria, durata 6-12/15 mesi dal momento di cessazione del ciclo mestruale), per assestarsi ulteriormente in maniera più graduale e con attenuazione di alcuni disturbi nei 4-5 anni successivi (fase “postmenopausale”). L’insieme di questi periodi costituisce il “climaterio”. Tutto ciò avviene, nel mondo occidentale, in un contesto di “normalità” dell’evento, ma associato a situazioni di vita personale, familiare e lavorativa sovente molto impegnative e psicologicamente forti, nelle quali il vecchio passaggio da donna fertile a donna sterile (con conseguente cambio anche dei ruoli sociali) appare più sfumato e meno inibente sul piano culturale e sociale, mentre predominano gli aspetti di efficienza e di capacità di gestire il complesso delle situazioni.

ALIMENTAZIONE Le regole di base sono le stesse del’alimentazione sana e corretta in generale:

� Non eccedere con le dosi, � Variare le fonti, � Controllare le calorie, � Limitare cibi grassi, sale ed alcol, � Aumentare le fonti vegetali proteiche, � Consumare regolarmente frutta e verdura.

Ci sono però alcuni aspetti particolarmente importanti da sottolineare.

Il Controllo delle Fonti Lipidiche .

Durante la vita fertile la donna gode di una situazione protettiva estrogenica che le consente di mantenere livelli di colesterolo totale ed LDL più bassi ed accompagnati da HDL elevato. Ciò consente di modulare, attraverso le diverse concentrazioni di lipoproteine, il rischio cardiovascolare relativo. È anche presente un effetto diretto degli estrogeni a livello vascolare attraverso la presenza dell’ossido nitrico, con riduzione dell’LDL e della risposta infiammatoria locale, inibizione dell’aggregazione pistrinica e, di conseguenza, ridotta formazione di placca ateromasica. Ma accanto a questi aspetti, i lipidi sono importanti per la prevenzione e per il trattamento dei problemi menopausali per altri motivi.

Le membrane cellulari sono costituite da strutture lipo-glico-proteiche nelle quali i lipidi di membrana giocano un ruolo chiave. L’elasticità delle stesse e le conseguenze di una loro modifica incidono sulla funzione che giocano negli scambi intra-extracellulari. Il tipo e la presenza dei lipidi di membrana consentono, infatti, una maggiore o minore resistenza agli insulti ossido-riduttivi dei processi metabolici. L’eccesso di grassi saturi e di acido arachidonico comporta una “rigidità” maggiore del bilayer di membrana, con minor efficienza

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degli scambi e con una sorta di “asfissia” di membrana. La presenza non equilibrata, invece, di polinsaturi favorisce i fenomeni di perossidazione, che determinano o peggiorano lo stato infiammatorio eventualmente connesso all’obesità.

La composizione lipidica della membrana cellulare deve, pertanto, essere costantemente mantenuta a livelli normali nel corso della vita, come fattore preventivo del danno da modifiche per caduta della concentrazione di estrogeni nel periodo menopausale. L’analisi di composizione è attualmente semplificata, grazie al Fat Profile dosato sulle membrane dei leucotici e degli eritrociti.

Sono quindi da preferire fonti vegetali di lipidi , con apporto di oli monoseme e di

fonti di ωωωω-3 quotidianamente, in grado proteggere la fluidità di membrana e di ridurre la produzione di sostanze proinfiammatorie a genesi da attivatori di membrana (cascata

attivatrice prostaglandinica legata agli ω-3 in contrapposizione con quella degli ω-6); i monoinsaturi (olio extravergine d’oliva) devono rappresentare gran parte della quota delle forniture, garantendo la stabilità della membrana attraverso un minor rischio di perossidazione; i grassi saturi possono essere utilizzati in quantitativo modesto ed occasionale, più per l’effetto aterogeno circolante che per quello di membrana (se comunque iper-rappresentati stimolano la produzione di prostaglandine pro-infiammatorie attraverso la cascata dell’acido arachidonico).

La quota complessiva giornaliera dei lipidi alimentari dovrebbe assestarsi sul 25-28%

max della quota calorica e, di questa, gli ω-3 dovrebbero costituire 1,5% del totale - circa 3 g al dì secondo la FAO in una dieta da 1800 kcal - il che comporta un consumo di pesce

quotidiano ed in dose sostenuta. L’introduzione degli ω-3 sotto forma di integratori richiede l’accortezza di controllare il contenuto dei prodotti assunti, in quanto molti non sono

adeguatamente ricchi di quanto promesso (dosi di ω-3 ed ω-6 basse, aggiunta di grassi saturi, scarso contenuto di antiossidanti, aggiunta di altre sostanze “funzionali” per giustificare il

basso apporto di ω-3 e 6). In pratica, però, le dosi di acidi grassi essenziali ω-3 dovrebbero comprendere circa 2 g/dì di acido linolenico ALA e 0,5-1 g di EPA + DHA.

Gli alimenti ricchi di ω-3 sono: • Pesce (EPA e DHA), • Olio di pesce (EPA e DHA), • Crostacei (EPA e DHA), • Noci (ALA), • Oli vegetali come l'olio di lino, di ribes nero e l'olio di colza (ALA), • Olio e semi di canapa alimentare, • Olio extravergine di oliva.

Il problema principale è rappresentato dall’apporto calorico obbligato se si vuole raggiungere la quota giornaliera solo attraverso i cibi (con la dieta mediterranea delle nostre regioni si arriva al massimo a 2-2,5 g/die con apporto calorico elevato). Inoltre, molti degli

alimenti che contengono ω-3 contengono anche ω-6 ed ω-9, per cui il rapporto consigliato di

1:2 tra EPA e DHA e quello di 1:4-6 tra ω-3 ed ω-6 non è facilmente raggiungibile.

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L’aumento degli Alimenti Ricchi di Antiossidanti Naturali . Tutti i processi metabolici avvengono mediante dissipazione di calore (entropia) e

spostamento di elettroni (ossidoriduzioni con produzione di Radicali Liberi). Senza di essi non sarebbe possibile la vita. Tali processi producono, però, sostanze dannose, da eliminare come scorie o da controllare nei loro effetti chimico-fisici se non eliminabili. Le nostre cellule ed il nostro metabolismo sono pertanto attrezzati per far fronte ai danni che i processi biologici comportano, grazie alla presenza di anti-ossidanti endogeni (enzimi, molecole, oligoelementi). Possono peraltro verificarsi situazioni di inefficienza o di scarsa possibilità di correzione, in relazione con eventi/processi inaspettati, eccessivi o su di un organismo debilitato ed impoverito. Un eccesso di radicali liberi comporta danni cellulari in toto ed alle singole molecole, in primis a livello delle membrane cellulari esterne ed interne. Molte malattie croniche, tra cui le neoplasie, vedono coinvolti i radicali liberi come cofattori patogenetici. Gli studi in tal senso (sulla patogenesi, l’epidemiologia ed il trattamento di malattie che li vedono coinvolti) sono numerosi, consolidati e validi.

Per prevenire possibili carenze dei mezzi di detossificazione dal surplus di radicali liberi che possono prodursi è perciò opportuno introdurre - grazie ad una alimentazione adeguata e variata - alimenti che naturalmente contengono dosi abbondanti di sostanze antiossidanti.

Il contenuto di antiossidanti nei cibi viene misurato in unità ORAC (misura della capacità di assorbimento dei radicali liberi di un dato prodotto). Sono validi i contenuti di ORAC tra 1000 e 2000 unità per porzione; sono medi quelli tra 500 e 1000; bassi quelli inferiori a 500 unità. Alcune delle sostanze attive contenute in vari alimenti, se estratte e commercializzate in maniera a sé stante, non sempre ottengono lo stesso risultati in termini di efficacia anti-ossidante, verosimilmente in relazione con la mancanza del complesso di altre sostanze che rendono l’alimento valido dal punto di vista protettivo (effetto fitocomplesso).

Contenuto unità ORAC negli alimenti.

FINO A 500 UNITÀ ORAC TRA 500 E 1000 UNITÀ ORAC TRA 1000 E 2000 UNITÀ ORAC Cetrioli 1 = 36 unità Pomodori 1 = 116 unità Albicocche 3 = 172 unità Spinaci crudi un piatto = 182 unità Melone tre fette = 197 unità Pera 1 = 222 unità Banana 1 = 223 unità Pesca 1 = 248 unità Mela 1 = 301 unità Melanzana 1 = 326 unità Uva bianca1 grappolo = 357 unità Cipolla 1 = 360 unità Uvetta nera 1 cucchiaio = 396 unità Cavolfiore cotto una tazza = 400 unità Fagiolini cotti una tazza = 404 unità Patata americana 1 = 433 unità Kiwi 1 = 458 unità

Peperone 1 = 529 unità Uva nera 1 grappolino = 569 unità Avocado 1 = 571 unità Patata arrosto 1 = 575 unità Susina 1 = 626 unità Arancia 1 = 983 unità

Succo di arancia un bicchiere = 1142 unità Fragole una tazza = 1170 unità Pompelmo rosa 1 = 1188 unità Succo di pompelmo un bicchiere = 1274 unità Cavoli di Bruxelles cotti una tazza = 1384 unità Prugne nere 3 = 1454 unità More una tazza = 1466 unità Barbabietola cotta una tazza = 1782 unità

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Il Controllo del Peso Corporeo. Non si tratta solo di un dato estetico, ma è importante come sistema di prevenzione - o

quanto meno di attenuazione - degli effetti legati alla correlazione tra l’aumento dei depositi adiposi viscerali e lo sviluppo di una Sindrome Metabolica manifesta o misconosciuta. Con la

caduta del livello di estrogeni circolanti aumentano adiponectina e TNF-α, tanto che quest’ultimo può essere utilizzato come marker di Sindrome Metabolica nelle donne in menopausa. Anche l’aumento del testosterone (dalla teca ovarica o dal surrene) vede un aumento relativo dei suoi livelli, con interazione metabolica sui tessuti analoga a quella del maschio (quindi pro-dismetabolica) e concorre all’aumento del rischio cardiovascolare post-menopausale femminile. In questo contesto si osserva una ridotta clearance lipidica post-prandiale strettamente correlata con l’aumento della circonferenza addominale ed un conseguente aumento della comparsa di eventi cardiaci acuti (69,5% nelle donne rispetto al 50% negli uomini), tanto più frequente quanto più ci si allontana dal momento di cessazione delle mestruazioni (da 1 caso su 9 tra 45 e 64 anni si passa ad 1 su 3 dopo i 65 anni, spesso con eventi misconosciuti e reperiti a posteriori nelle indagini strumentali). L’utilizzo di TOS (Terapia Ormonale Sostitutiva) ha un effetto protettivo nei confronti del rischio cardiovascolare e ne attenua la portata.

L’alimentazione nel periodo pre-menopausale e menopausale deve essere attenta e mirata a controllare il peso corporeo, in modo da non arrivare già in situazioni di sovrappeso od obesità al momento di cessazione del ciclo. I dati epidemiologici evidenziano che nella fascia di età tra i 40 ed i 69 anni: � Il 22% delle donne è obeso (vs. 18% degli uomini), � Il 24% delle donne ha un colesterolo totale = o > 240 mg/dl (vs. 20% degli uomini), � Il 46% delle donne non svolge alcuna attività fisica (vs. 34% degli uomini), � Il 30% delle donne ha PA =/> 160/95 (vs. 33% degli uomini), � Il 21% delle donne fuma - media 13 sigarette/die (vs. 30% degli uomini - media 17

sigarette/die), � Il 6% delle donne è diabetico (vs. 8% degli uomini).

La consapevolezza del problema, pur a fronte di campagne di sensibilizzazione e di educazione di massa nei confronti di peso, alimentazione, controllo della pressione arteriosa e del colesterolo, riduzione/sospensione del fumo, è bassa tra la popolazione. La conoscenza specifica ed istantanea delle problematiche esposte e delle relazioni con la menopausa è nota, ma recepita in maniera consapevole soprattutto dalle fasce di popolazione media ed alta.

Appare pertanto chiaro che sono importanti i sistemi di educazione alimentare ed alla salute e quelli di motivazione. E che questi devono partire dalle fasce di età giovanili, per consentire di maturare posizioni consapevoli nei confronti dei propri comportamenti e dei rischi per la salute. Occorre, peraltro, rammentare che le donne sono di fondo più sensibili degli uomini ai problemi di peso e forma corporea e che recepiscono in maniera più attenta i messaggi educativi, quando questi vengono posti nei modi consoni alla sensibilità di fondo del genere e della classe sociale di appartenenza.

Il modello alimentare della dieta mediterranea, vincente sotto tanti aspetti, ma più teorico che pratico, in quanto appartenente a popolazioni e stili alimentari post-bellici

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piuttosto che attuali (apporti calorici bassi; fonti proteiche preminenti da legumi, pesci o animali da cortile; cereali non raffinati; predominanza di verdura e frutta nell’alimentazione quotidiana) sarebbe in ogni caso quello ottimale in quanto, pur se rivisto alla luce del benessere della nostra società attuale, garante di apporti ancora “poco raffinati” e “poco trasformati”. Purtroppo appare sempre più insidiato da prodotti commerciali elaborati, raffinati, trasformati e resi più digeribili - quindi con minor spesa energetica per assimilarli. È su questi aspetti che l’educazione alimentare deve portare la sua attenzione, oltre che sulla presa di responsabilità del singolo nella gestione del suo peso.

Oltre all’effetto sul peso, il controllo alimentare aiuta a gestire il controllo dell’assetto lipidico, che durante la menopausa si altera per deficit dell’effetto protettivo legato agli estrogeni (che inibiscono la lipasi epatica, la quale catalizza il colesterolo HDL, e sono attivi sulla parete vascolare proteggendola dai fenomeni pro-infiammatori connessi con l’eccesso ponderale). Il colesterolo si eleva, in menopausa, nel 35-40% dei casi, con aumento soprattutto dell’LDL (70% dei casi) e calo dell’HDL (30% dei casi).

Questo insieme di fattori - cattivo controllo del peso ed aumento dell’adipe viscerale, dell’apporto di lipidi, dell’alimentazione in generale - concorrono all’aumento del rischio cardiovascolare ed alla comparsa di forme tumorali per tutta la popolazione a carico di colon-retto, esofago, endometrio, pancreas, reni e seno. Dati di metanalisi evidenziano, per la donna, strette relazioni tra eccesso ponderale e neoplasie endometriali, colecistiche, dell’esofago e del rene, con accentuazione in fase post-menopausale delle forme mammarie, di pancreas, tiroide e colon.

L’assunzione Precoce e Preventiva di Fonti Naturali di Bioflavonoidi.

L’osservazione che le popolazioni orientali risentono meno di quelle occidentali dei disturbi connessi con la menopausa data da decenni ha portato al riconoscimento di alcuni fattori protettivi legati all’alimentazione orientale. Gli aspetti salienti sono rappresentati da un apporto calorico tendenzialmente basso e dalla presenza di fonti proteiche vegetali rappresentate dalla soia e dai suoi derivati. Questo legume contiene elevati quantitativi di proteine vegetali (= basso impatto sull’acidità metabolica) e di flavonoidi con struttura simile a quella degli estrogeni. Questi ultimi finiscono, da un lato, col sensibilizzare i recettori periferici degli estrogeni e, dall’altro, col garantire una attivazione degli stessi nei periodi in cui quelli naturali sono carenti.

In generale i bioflavonoidi hanno un effetto protettivo per la salute, a patto che siano assunti per lunghi periodi di tempo ed in quantitativi significativi. Hanno effetti antiossidanti, modulanti gli enzimi detossificanti, stimolanti il sistema immunitario, riducenti l’aggregazione piastrinica e la pressione arteriosa, modulanti il metabolismo ormonale e l’attività antibatterica ed antivirale. Quelli della soia sono presenti ed attivi nel legume ed in tutti i suoi derivati (farine, salse, olio, latte, formaggio). Sono contenuti anche in altre leguminose (fagioli, lenticchie, piselli, fave, ceci) ed in alcuni cerali pur se in quantitativi inferiori (grano, riso, orzo, segale ed avena). L’efficacia della loro assunzione è correlata alla trasformazione batterica intestinale dei principali flavoni introdotti con la dieta (genisteina - la più attiva - e daidzeina - la più abbondante) in equolo; questa trasformazione avviene solo nel

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35% della popolazione ed è in funzione della microflora batterica, del tempo di transito e del pH intestinale, di eventuali farmaci assunti di malattie intestinali e di interventi chirurgici. Da questo punto di vista esistono due distinti gruppi di soggetti e solo i “batterio-tipi” sono in grado di ottenere la produzione di equolo, rendendo di fatto utile per la salute. Sembra, comunque, che oltre all’equolo siano comunque attivi anche altri metaboliti non identificati.

Nella menopausa vengono consigliati per temperare i sintomi neuro-vascolari (vampate, sudorazione, insonnia), ma il loro utilizzo alternativo alla TOS rimane controverso, sia per gli aspetti di cura alternativa, sia come fattore preventivo nei tumori ormono-dipendenti. Il rapporto costo-beneficio, comunque, sembra in funzione della dose e della durata di assunzione. Il loro uso va evitato nelle donne mastectomizzate, per la loro attività sui recettori estrogenici mammari.

L’Assunzione di Calcio e Vitamina D.

Un aspetto importante nella menopausa è rappresentato dal metabolismo dell’osso. Alla nascita lo scheletro umano contiene 25 g di calcio ed in età adulta raggiunge il picco, a 30 anni, di 1 Kg; in seguito si riduce progressivamente, con accentuazione delle perdite nei 5 anni successivi alla menopausa (gli estrogeni regolano i livelli di calcio nelle ossa,

controllando i livelli di interleuchina 1 e 6 ed i fattori di crescita TNF-α e GMCSF; la loro scomparsa aumenta la perdita di calcio dalla matrice ossea e l’espulsione urinaria di calcio e fosfato inorganico). Questo calo di massa si associa alla perdita di massa muscolare, rendendo il sistema muscolo-scheletrico fragile e determinando una malattia di rilevanza sociale estrema, altamente invalidante, quale è l’osteoporosi. A livello intestinale, inoltre, la mancanza di estrogeni comporta inoltre la riduzione dei recettori intestinali per la vitamina D attivata.

La comparsa e la gravità dell’osteoporosi è multifattoriale ed intervengono anche fattori generici (nel 30% dei casi), fattori razziali (più frequente in etnia caucasica, specie europea), sesso femminile, bassi apporti di calcio alimentare e di vitamina D, scarsa o nulla attività fisica, scarsa esposizione ai raggi UV, menopausa precoce. Sono, inoltre, coinvolti fattori intercorrenti (malnutrizione generale, patologie sistemiche, fumo, familiarità per fratture di femore) e va sottolineata l’importanza delle malattie metaboliche con interferenza sull’osso che compaiono nella terza età e la concomitante assunzione di farmaci interferenti sull’osso (diuretici, anticoagulanti, chemioterapici, steroidi).

Anche in questo caso hanno particolare importanza le attenzioni all’alimentazione e ad alcune regole di igiene di vita: apporti di calcio adeguati fin dall’infanzia e per tutta la durata di vita, regolare attività fisica, esposizione alla luce solare con costanza, eliminazione o riduzione dei fattori interferenti in maniera negativa (fumo, alcolici, alimentazione povera di calcio e Vitamina D e ricca di lipidi, eccesso ponderale).

Soprattutto gli apporti di calcio nella prima parte della vita contribuiscono a favorire il conseguimento di un picco osseo precoce e più marcato. Purtroppo l’assunzione di calcio è scarsa ed al di sotto dei fabbisogni in gran parte della popolazione italiana, sia maschile che femminile e lo è in maniera drammatica negli anziani. Questi dati correlano con quelli della popolazione europea, lo stesso discorso vale per l’ipovitaminosi D.

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La copertura della quota di fabbisogno calcio è comunque non raggiungile con i soli alimenti, per cui l’integrazione calcio-vitaminica è tassativa (fabbisogno di 1000 mg nelle donne in terapia sostitutiva e di 1500 mg in sua assenza). Inoltre, gli stessi alimenti che contengono calcio contengono anche acidi grassi saturi, colesterolo e calorie: sono quindi sconsigliati in dosi elevate in quanto aumentano il rischio cardiovascolare. Una alternativa compensatoria è rappresentata dall’assunzione di acque minerali ricche in calcio. Vanno inoltre garantiti gli apporti degli altri minerali in equilibrio col calcio a livello osseo (magnesio, fluoro).

ATTIVITÀ FISICA Un ruolo importante è rappresentato - nella gestione del peso, delle funzioni

metaboliche, dell’apparato cardiocircolatorio, della prevenzione tumorale e della matrice ossea - dall’attività fisica. Dati epidemiologici decennali confermano quanto sopra riportato e segnalano l’importanza di una quota regolare di movimento fin dalla giovane età: la durata consigliata è di 30 minuti al dì, con movimento di intensità non esagerata ma superiore a quella della semplice passeggiata.

Bibliografia

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OSTEOPOROSI PIÙ FREQUENTE NELLA DONNA? LA CORRETTA ALIMENTAZIONE

Annalisa Maghetti

Medico Specialista in Scienza dell’Alimentazione - Team Nutrizionale Poliambulatorio Airone

Presidente A.D.I. Sezione Emilia-Romagna

L’Osteoporosi è una condizione patologica comune correlata all’età, è caratterizzata da una eccessiva fragilità scheletrica e da un’aumentata predisposizione alle fratture ossee localizzate soprattutto al femore, alle vertebre ed al polso, la causa principale di queste fratture è la ridotta massa ossea. È ormai risaputo che la misura dello scheletro e la sua densità aumentano a partire dall’embriogenesi attraverso la vita intrauterina, infantile, giovanile ed adulta (1,2). Poiché questa malattia trova le sue radici nei primi stadi della vita ma si manifesta prevalentemente nell’anziano è necessario che la salute delle ossa dipenda costantemente da una corretta alimentazione (3). L’alimentazione è infatti uno dei fattori modificabili per la prevenzione di questa patologia ed un corretto apporto nutrizionale, associato ad esercizi fisici protettivi per la salute ossea, potrebbe ridurre il rischio del 50% (4).

Come indicato dall’Istituto Superiore di Sanità nello sviluppo dell’osteoporosi dobbiamo prendere in considerazione la coesistenza di fattori non modificabili (predisponenti) e fattori modificabili (legati allo stile di vita). Tra i primi ricordiamo: il sesso (femminile più colpito), l’età (col passare degli anni il rischio aumenta), il menarca (se tardivo è un fattore sfavorevole) e la menopausa (se precoce c’è maggior rischio); inoltre alcune condizioni come l’amenorrea (assenza del ciclo mestruale per un lungo periodo), l’immobilizzazione od il ricovero, trattamenti farmacologici (come ad es. uso di cortisonici) e patologie varie (come ad es. anoressia nervosa, malassorbimenti intestinali, artrite reumatoide, etc.). In queste situazioni ci troviamo di fronte alla difficoltà di poter intervenire preventivamente ma sui fattori modificabili possiamo e dobbiamo impegnarci per ridurre l’incidenza di questa malattia.

I fattori modificabili sono: alimentazione, peso, fumo di sigaretta, attività fisica, abuso di alcolici, esposizione ai raggi solari. Se volessimo pertanto generalizzare potremmo dire che un buono stile di vita, rappresentato da corretta alimentazione, mantenimento di un peso adeguato, costante attività fisica ed abolizione di alcuni “vizi”, ci può offrire un efficace strumento preventivo.

La prevenzione risulta quanto mai importante data l’entità del fenomeno. I dati diffusi dalla FIRMO (Fondazione italiana ricerca malattia ossea) nella Giornata Mondiale dell’Osteoporosi del 2011, promossa dalla International Osteoporosis Foundation, ci dicono che in Italia abbiamo 5 milioni di abitanti affetti da osteoporosi, con una donna su tre dopo i 50 anni ed un rapporto di 3:1 con gli uomini di pari età. L’incidenza sulla popolazione italiana è dell’8% in generale e del 12% per il sesso femminile. Per quanto riguarda l’epidemiologia delle fratture da fragilità è importante sapere che solo nel 2007 ci sono stati 98.000 ricoveri in

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Italia per frattura del femore prossimale, dei quali il 78% di pazienti aveva un’ età >75 anni ed un rapporto F:M pari a 4:1 (5). La letteratura internazionale ci conferma inoltre che un paziente su cinque con frattura del femore muore entro 6 mesi ed uno su 4 entro un anno e ciò avviene per lo più per immobilità, per aumentate richieste metaboliche causate dalle fratture, nonché per indebolimento del femore controlaterale che deve supportare il deficit (6).

Il sesso femminile è particolarmente esposto al rischio osteoporosi ma ne può essere contemporaneamente promotore attraverso le modificazioni epigenetiche che la madre può trasmettere al feto.

La regolazione epigenetica delle ossa e dell’osteogenesi non è ancora ben definita ma in molti studi lo stato nutrizionale della madre è stato considerato un importante fattore ambientale per modificazioni epigenetiche che possono intervenire nel nascituro (2).

In un grande studio longitudinale effettuato all’Università di Helsinky sono state messe in relazione le caratteristiche della madre e del feto con il peso alla nascita e le fratture femorali del figlio adulto e le più interessanti dal punto di vista statistico sono risultate, l’alta statura materna, scarsa crescita staturale del bambino e neonati piccoli alla nascita (7).

Per quanto riguarda gli aspetti nutrizionali, nel lavoro di Cooper del 2006 (8) è stata studiata la correlazione tra scarsa alimentazione “in utero”, peso nell’infanzia e densità minerale ossea nell’adulto, definendo come una scarsa alimentazione possa condurre a modificazioni epigenetiche sullo sviluppo osseo futuro. Questo è stato confermato anche dallo studio di Javaid (9) che ha dimostrato come bambini di 9 anni avessero una ridotta densità minerale ossea, rispetto ai coetanei, se erano figli di donne magre, con scarsi depositi adiposi, fumatrici e di basso livello culturale.

Altri fattori implicati in modificazioni epigenetiche sono l’uso di glucocorticoidi in periodo prenatale e atteggiamenti comportamentali sul neonato che possano generare stress (10).

Il corretto quantitativo di calcio è indispensabile già nella vita intrauterina, il feto necessita di 30 gr di calcio per lo sviluppo osseo il quale viene garantito attraverso un trasporto attivo a livello placentare e ciò può avvenire se la madre aumenta l’intake e l’assorbimento intestinale del minerale. Ne deriva che una scarsa assunzione di calcio e ridotta risposta alla vitamina D potrebbero generare maggiori rischi per la salute ossea del nascituro identificata in una minor densità ossea (2).

Il calcio, in forma di sale minerale allo stato solido, è il più rappresentato nel nostro organismo, è presente nel 98% nello scheletro ed in piccola parte nel plasma. Le ossa sono sottoposte ad un continuo processo di rimodellamento (turnover osseo) che dura tutta la vita e vede un continuo alternarsi di apposizione e mobilizzazione di calcio. Il calcio circolante proviene dall’introito alimentare e dal riassorbimento osseo. Il primo, presente negli alimenti e nelle bevande, deve essere ionizzato a livello gastrico per essere poi assorbito a livello intestinale. L’assorbimento prevede due processi, uno di trasporto attivo nel duodeno che è saturabile, regolato dall’intake alimentare ed influenzato dalla vit. D ed un meccanismo passivo che avviene per diffusione attraverso le giunzioni intercellulari dell’ileo ed in minima parte del colon e segue il gradiente elettrochimico, non è saturabile, aumenta all’aumentare dell’intake dietetico ed è indipendente dalla vit. D. Alcune molecole rendono il calcio solubile

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nell’ileo, in particolare le proteine del latte come i fosfopeptidi della caseina e gli aminoacidi L-lisina e L-arginina, che aumentano l’osmolarità e favoriscono la diffusione passiva del calcio intestinale. I meccanismi di trasporto attivi, mediati dalla vit. D, dipendono dalla quantità introdotta col cibo (se il calcio introdotto con la dieta è poco, l’assorbimento aumenta anche del 30-40%), dai diversi stati fisiologici (ad es. è maggiore in adolescenza e gravidanza) e dalla biodisponibilità degli alimenti (11,12). Interessante è anche il ruolo di alcune fibre, come le pectine, che legando alcuni minerali li rilasciano poi nel colon dove i processi di fermentazione favoriscono l’assorbimento di calcio e magnesio (11). Recenti studi su animali (roditori in postmenopausa) suggeriscono l’uso di prebiotici per aumentare l’assorbimento minerale (13).

Il calcio viene escreto dall’intestino (quota non assorbita a livello intestinale), dalla cute, ma soprattutto dalle urine con una quota di 100-250 mg/die in base alla quota assorbita, all’età (più elevata in adolescenza e menopausa) ed alle componenti dietetiche (12).

I fabbisogni di calcio (stabiliti dai LARN = Livelli di Assunzione giornalieri Raccomandati di Nutrienti per la popolazione italiana) variano in funzione del sesso e dell’età, donne e uomini adulti necessitano di circa 1000 mg/die di calcio, ragazze in crescita e donne in età menopausale, che non facciano terapia sostitutiva con estrogeni, necessitano di almeno 1200 mg/die. Una classica alimentazione che comprenda 2 porzioni di latticini die ed un po’ di formaggio stagionato non riesce a coprire neanche la metà di questo fabbisogno, pertanto bisogna bilanciare l’alimentazione anche con frutta secca, legumi ed acque minerali. Studi americani hanno messo in evidenza come la popolazione in tutte le fasce d’età non copra il fabbisogno (in particolare le donne > 40 anni non superano i 600 mg/die) e come un basso intake di calcio sia correlato ad un maggior rischio di frattura femorale. Tale situazione si normalizza per un quantitativo pari a 1200 mg/die come raccomandato dal National Institute of Health (6) e dagli stessi LARN.

Per raggiungere i fabbisogni sono molto utili le acque minerali. In Italia consumiamo 143 litri pro capite anno di acque in bottiglia ed in commercio esistono 264 tipi di acque minerali, delle quali il 75% sono minimamente mineralizzate, mentre solo il 25% sono medio minerali o ricche in sali, queste in media con un litro coprono il 22% del fabbisogno di calcio di un adulto (14). Anche l’acqua potabile presente nelle nostre case ha un discreto quantitativo di calcio, sicuramente superiore a molte acque oligominerali presenti in commercio .

“Ormone” Vitamina D - In natura la Vitamina D2 (ergocalciferolo) è presente in alimenti vegetali (frutta e verdura), la D3 (colecalciferolo) in quelli animali (fegato, pesce, latte, tuorlo d’uovo), entrambe sono pro-ormoni. La fonte di provenienza alimentare di tale vitamina è scarsa, mentre è più importante, ai fini metabolici, la presenza della previtamina nella cute, che attivata dai raggi ultravioletti e trasformata nel fegato e nel rene, diviene vitamina D attiva, responsabile dell’assorbimento intestinale del calcio, del suo riassorbimento renale e della sua mobilizzazione.

Pertanto se dovessimo aumentare il quantitativo di tale vitamina sarebbe utile l’esposizione ai raggi solari, sembra infatti che 10-15 minuti di esposizione per 2-3 volte alla

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settimana siano sufficienti a raggiungere i 10 µg (quantitativo adeguato per un soggetto adulto sano).

Purtroppo sembra che persino nel 70% dei bambini sia insufficiente l’apporto di vit D e la stessa prevalenza si è riscontrata negli adulti (6). Una meta-analisi del 2005 suggerisce una supplementazione di 700-800 IU/die per ridurre il rischio di fratture, dosaggi inferiori sembrano inefficaci (14).

Calcio e vitamina D pertanto così utili per la salute delle nostre ossa dovrebbero essere incrementati sino a coprire i fabbisogni delle popolazioni più a rischio, come donne in menopausa o anziani in regime di ricovero, scarsamente esposti alla luce solare, sia con fonti

naturali che con integratori, fino a raggiungere i 1200 mg di calcio e 800 IU (20µg) di vit. D per ottenere una sostanziale riduzione nell’incidenza di fratture e riduzione della perdita ossea (16).

Il terzo nutriente molto discusso nel metabolismo osseo è il fosforo, componente essenziale dello scheletro, indispensabile per la mineralizzazione, ma che tra i sostenitori e gli accusatori della “acid-ash hypothesis” non ha ancora trovato una definitiva collocazione. L’ipotesi prevede che sostanze acide presenti nella dieta (per lo più latticini) siano responsabili di escrezione renale di ioni acidi, di maggiore escrezione urinaria di calcio e di conseguente demineralizzazione ed osteoporosi. Tale ipotesi è fortemente contrastata dalla recente letteratura scientifica che attraverso una corposa meta-analisi ha dimostrato l’esatto contrario, cioè che elevati introiti di fosforo sono associati a minor calciuria e ad aumento del riassorbimento, nessuno studio analizzato in tale lavoro evidenzia che l’intake di fosforo sia responsabile della demineralizzazione ossea o aumentata escrezione renale di calcio (17). Estendendo questo concetto all’assunzione di latticini, una parte dell’opinione pubblica ne sta consigliando l’esclusione e Fenton nuovamente nel 2011 ribadisce che non vi sono evidenze scientifiche per modificare la dieta moderna privandola dei derivati del latte che non producono acidosi metabolica e sono prodotti utili come fonti proteiche e di altri nutrienti (18).

Anche per quanto riguarda l’apporto proteico, in riferimento alla salute ossea, la letteratura non è concorde , alcuni sostengono che l’aumento di proteine aumenti l’acidità e di conseguenza una perdita urinaria di calcio (19) altri affermano l’esatto contrario e cioè che è stata riscontrata un’associazione positiva tra quantità di proteine dietetiche e massa ossea misurata in varie età ed in vari siti (20). Recentemente però uno studio prospettico effettuato su 40.000 donne nell’Iowa ha definito che un elevato apporto proteico (fino a 2,1 g/kg peso corporeo) riduce il rischio di frattura femorale e che apporti proteici di 1-1,2 g/kg sono consigliati per gli anziani (21).

Proseguendo con una carrellata sui sali utili al metabolismo osseo, ricordiamo il magnesio (presente in frutta e verdura, è importante per la crescita dei cristalli e la loro stabilizzazione; la supplementazione in donne israeliane sembra aver migliorato la densità ossea rispetto ai controlli), il fluoro (stimola la formazione ossea ed evita la dissoluzione dei cristalli), lo zinco (è utile nello sviluppo osseo dei neonati e sembra migliorare la densità ossea nel periodo perimenopausale) ed anche il rame (sembra avere effetto benefico riducendo la perdita ossea). Pare che il sodio aumenti l’escrezione urinaria di calcio e che troppo sia deleterio per l’osso, ma gli studi per ora sono dubbi, mentre il potassio

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migliorerebbe la densità minerale ossea. Anche alcune vitamine sono implicate nel metabolismo osseo come la vit. C (interviene nei processi biochimici della formazione del collagene, componente fondamentale del tessuto osseo), la vit. K (utile per la produzione di un ormone regolatore del turnover osseo, l’osteocalcina) e la vit. A (sembra aumentare invece il rischio di fratture) (6,22).

Altri nutrienti sembrano interessanti e sono sostenuti da alcuni studi scientifici, anche se non sempre univoci, e riguardano l’utilità degli isoflavoni della soja e del tè verde, nella prevenzione dell’osteoporosi in menopausa e nella riduzione delle disabilità funzionali negli anziani. Questi studi sono condotti per lo più in popolazioni asiatiche dove l’assunzione di tali cibi è comune e l’apporto di queste sostanze è significativo (23,24).

Anche l’alcool assunto con moderazione (una unità/die) sembra avere un ruolo protettivo sulla patologia, essendo positivamente correlato con la densità minerale ossea (25) in alti dosaggi invece risulta deleterio riducendo la densità minerale ossea ed aumentando il rischio di fratture.

Non dimentichiamo infine che un eccessivo dimagrimento soprattutto nella donna adulta è controproducente per la salute ossea e che anzi pazienti obese in un recente studio italiano sono risultate essere in minor percentuale affette da osteoporosi, ma non da osteopenia, rispetto ai dati nazionali (26).

Concludendo potremmo dire che la salute delle ossa dipende da molteplici equilibri che partono dalla fase embriogenetica e si snodano per tutta la vita e non possono prescindere da una corretta e consapevole alimentazione.

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ALLERGIE E INTOLLERANZE ALIMENTARI NELLA DONNA

Giuseppe Albertini

Direttore S.C. di Dermatologia

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

La definizione “Reazione Avversa ad Alimenti” si riferisce ad ogni anomala risposta clinica associata all'ingestione di un alimento. Nel 2005 l'EAACI (European Academy of Allergology and Clinical Immunology) ha proposto una classificazione basata esclusivamente sui meccanismi patogenetici di queste reazioni. Allergie ed intolleranze alimentari rientrano nella categoria delle reazioni avverse agli alimenti che comprende, a sua volta, tutte le malattie ed i disturbi causati dall'ingestione di determinati cibi, additivi o contaminanti alimentari. Queste risposte avverse possono essere classificate in due grandi gruppi, quello delle reazioni tossiche e quello delle reazioni non tossiche. Queste ultime non sono dovute alla presenza di particolari sostanze avverse ma, pur risultando innocue per la maggior parte delle persone, possono causare gravi problemi a taluni individui.

L’ allergia alimentare è una reazione immediata verso un alimento scatenata da anticorpo IgE verso un alimento; spesso si tratta di una reazione non su base immunitaria chiamata “intolleranza alimentare”: i sintomi possono assomigliare a quelli dell’allergia alimentare. La prevalenza dell’allergia ad alimenti è più elevata nei primi anni di vita: colpisce circa il 6% dei bambini con meno di 3 anni di vita e cala successivamente. Nei bambini si può avere un’allergia al latte vaccino nei primi anni di vita: è possibile nell’80% dei casi di assumere nuovamente il latte entro i 5 anni di età: si crea cioè una tolleranza. Un terzo dei bambini con allergia al latte vaccino svilupperà con l’età altre allergie alimentari Mentre può essere possibile nel tempo reintrodurre l’uovo per i bambini allergici, minori sono le possibilità di reintrodurre senza problemi cibi quali arachide, nocciola, molluschi e pesce. La possibilità di sviluppare tolleranza verso gli alimenti è progressivamente minore quanto più tardi si sia sviluppata l’allergia alimentare. È stato stimato che le allergie alimentari si manifestano nell’1-2% circa della popolazione adulta. Quadri clinici legati ad allergia alimentare sono la dermatite atopica e, più raramente orticaria ed asma. Il 3-4% della popolazione generale dei Paesi occidentali, Italia compresa, ha una allergia alimentare IgE-mediata. Pur con diete estremamente differenti, gli alimenti responsabili delle allergie alimentari nel mondo sono relativamente pochi. Latte, uovo ed arachide sono responsabili della maggior parte delle allergie indotte da alimenti nei bambini, mentre arachide, nocciola, pesce e molluschi sono in genere responsabili delle allergie alimentari negli adulti.

Allergia a vari tipi di noci. Spesso è grave (talora letale), inizia in età precoce e dura per tutta la vita. Arachidi, noci, mandorle, noci brasiliane e nocciole possono provocare sintomi anche con un minimo contatto cutaneo o per inalazione. L’allergia alle noci può limitarsi a dermatiti, nausea e cefalee; talora edema della lingua e labbra. Può provocare

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shock anafilattico. Bisogna evitare l'assunzione di questi cibi e tenere sempre a disposizione l’adrenalina autoiniettabile (es. Fast jekt).

Tra gli altri alimenti maggiormente associati a reazioni allergiche vi sono frutta, legumi (compresi i germogli di soia), uova, crostacei (granchi, gamberi di fiume/mare, aragoste), pesce, ortaggi, semi di sesamo, girasole, cotone, papavero e senape. Il potenziale allergenico di alcuni allergeni può essere eliminato (non costantemente) con la cottura o la lavorazione industriale, che denaturano le proteine Tecniche più recenti (es. alte pressioni, fermentazione ed utilizzo di enzimi) possono ridurre l’allergenicità di alcune proteine alimentari. La raffinazione degli oli può eliminare gli allergeni.

I possibili quadri clinici possono essere a livello gastrointestinale (sindrome orale allergica, anafilassi gastrointestinale), cutanee (orticaria, angioedema, ecc.), respiratorie (rinite, oculorinite, broncospasmo, ecc.) o generalizzate: shock anafilattico. Alcune reazioni allergiche impiegano varie ore od addirittura giorni a manifestarsi dopo l’esposizione ad una proteina estranea. In questo caso si parla di "reazioni di ipersensibilità ritardata". La maggior parte delle risposte allergiche agli alimenti è relativamente lieve, ma in un numero limitato di persone si verifica una reazione violenta che può essere letale e che prende il nome di anafilassi.

Sindrome Orale Allergica o “Food-Pollen Syndrome”. Appena dopo l'ingestione di alcuni cibi, in pazienti affetti da pollinosi, si può manifestare una sintomatologia caratterizzata da prurito e bruciore della mucosa orale ed edema delle labbra. È causata da proteine (allergeni) comuni tra pollini (es. betulla, ambrosia ed artemisia) ed alimenti vegetali (es. banana, melone, patata, carota, sedano, mela, pera, nocciola e kiwi). Gli allergeni responsabili sono facilmente distrutti dal calore o dagli enzimi gastrici per cui la maggior parte dei pazienti hanno sintomi limitati alla mucosa orale e faringea.

Anafilassi Gastrointestinale. È caratterizzata da nausea, dolore addominale di tipo colico, vomito e diarrea; è generalmente associata ad altre manifestazioni allergiche a carico di cute e apparato respiratorio.

Orticaria/Angioedema Acuto. Manifestazioni eritemato-pomfoidi pruriginose che variano considerevolmente per estensione e durata si possono associare ad angioedema (delle cute soprattutto del volto) senza prurito. Sono tra i sintomi più comuni delle reazioni allergiche indotte da alimenti. L’allergia alimentare è raramente la causa di orticaria-angioedema cronico, ossia da sintomi che durano per più di 6 settimane.

Oculorinite. Difficilmente si presenta come unica manifestazione di allergia alimentare.

Asma bronchiale E’ una manifestazione non comune di allergia alimentare, sebbene il broncospasmo acuto venga osservato di solito associato ad altri sintomi indotti da alimenti.

Anafilassi. L’anafilassi da allergie alimentari viene osservata soprattutto nei Pronto Soccorsi ospedalieri. Si associano a sintomi cutanei, respiratori e gastrointestinali; talora si possono avere sintomi cardiovascolari quali ipotensione, collasso ed aritmie. I livelli sierici delle beta-triptasi sono raramente aumentati nell’anafilassi alimento-indotta. In uno studio osservazionale condotto su casi di anafilassi indotta da alimenti sono emersi una serie di fattori di rischio per l’anafilassi indotta dagli alimenti: semi vari quali arachide e nocciola

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sono gli alimenti responsabili nella maggior parte dei casi (94%). A volte la reazione anafilattica può manifestarsi nel giro di qualche minuto dall’esposizione e richiede cure mediche immediate. Le arachidi sono molto note come causa di "shock anafilattico": si tratta di una grave condizione in cui si ha un’ipotensione e si può giungere all’arresto cardiaco se non gli viene rapidamente somministrata adrenalina ed altri mezzi antiallergici e rianimatori.

L’ anafilassi alimentare esercizio-indotta è una forma di anafilassi che si presenta solo quando il paziente compie attività fisica entro 3-4 ore dall’ingestione di alimenti. In assenza di esercizio, il paziente può ingerire l’alimento senza mostrare reazioni. Essa potrebbe essere responsabile di circa la metà dei casi di anafilassi esercizio-indotta ed è molto più comune in pazienti giovani (15-35 anni di età) di sesso femminile. L’omega-5 gliadina presente nella farina è risultato essere la causa più frequente di anafilassi esercizio-indotta dipendente da alimenti. Esistono 2 forme di anafilassi post prandiale: associate o meno ad uno specifico alimento, quindi IgE-mediate o non IgE-mediate.

Oltre alle suddette manifestazioni IgE-mediate esistono Allergie alimentari miste (Dermatite atopica, esofagite eosinofila, enterite eosinofila) e non IgE-mediate (Dermatite da contatto, Dermatite erpetiforme, Proctocolite, FPIES, Malattia celiaca, Sindrome di Heiner).

Intolleranze Alimentari

Le intolleranze alimentari possono essere legate ai cibi (per caratteristiche farmacologiche quali caffeina e tiramina o per tossine quali batteri, da pesci quali sindromi sgombroidi) oppure al paziente (metaboliche, quali deficit di lattasi o fruttasi oppure psicologici, ossia disordini da panico).

L’intolleranza può provocare sintomi simili all’allergia (es. nausea, diarrea e crampi gastrici), ma la reazione non coinvolge direttamente il sistema immunitario. Si manifesta quando l'organismo non riesce a digerire correttamente un alimento od un suo componente. Nei soggetti realmente allergici bisogna eliminare del tutto il cibo incriminato, mentre i soggetti che presentano un’intolleranza possono spesso sopportare piccole quantità dell’alimento senza manifestazioni cliniche. Fanno eccezione gli individui sensibili al glutine ed ai solfiti. I due più comuni responsabili dell’intolleranza alimentare sono il lattosio ed il glutine.

Intolleranza al Lattosio - Il lattosio è lo zucchero contenuto nel latte. Normalmente, l’enzima chiamato lattasi, presente nell’intestino tenue, scompone il lattosio in zuccheri più semplici (glucosio-galattosio) che entrano poi in circolo. Quando l’attività enzimatica è ridotta, il lattosio non viene scomposto e trasportato nell’intestino crasso dove è fermentato dai batteri presenti. Sintomi conseguenti possono essere diarrea, flatulenze, dolore intestinale. Tra le razze non bianche e le popolazioni del Medio Oriente, dell’India e di alcune parti dell’Africa, la carenza di lattasi è un fenomeno diffuso. Circa il 70% della popolazione mondiale adulta non produce lattasi a sufficienza e presenta quindi un certo grado di intolleranza al lattosio. In Europa, la carenza di lattasi si manifesta nel 5% circa della popolazione bianca ed in proporzione superiore (50-80%) nelle minoranze etniche. La quantità di latte e latticini tale da determinare sintomi di intolleranza è molto variabile. Molti soggetti che hanno una ridotta attività intestinale della lattasi possono bere un bicchiere di

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latte senza alcun problema. Analogamente, i formaggi stagionati, che hanno un basso contenuto di lattosio, ed i prodotti a base di latte fermentato, come lo yogurt, sono in genere ben tollerati. L’introduzione costante di cibi contenenti lattosio induce un progressivo adattamento e la riduzione della quantità totale di lattosio ingerita in un solo pasto può migliorare la tolleranza negli individui sensibili.

Intolleranza al Glutine - È una disfunzione intestinale che si manifesta quando il corpo non tollera il glutine (proteina presente nel grano, segale, orzo e forse avena). La diffusione della celiachia od intolleranza al glutine, è sottostimata: si tratta di una condizione in genere gestita da gastroenterologi. Ha carattere permanente e può essere diagnosticata a qualsiasi età. Consumando un alimento contenente glutine, le pareti dell’intestino tenue si danneggiano e subiscono una riduzione dell'assorbimento di grassi, proteine, carboidrati, minerali e vitamine. I sintomi includono diarrea, debolezza dovuta a perdita di peso, irritabilità e crampi addominali. Nei bambini, possono manifestarsi sintomi di malnutrizione (es. deficit di crescita). Si consiglia una dieta priva di glutine. I centri di dietologia e le organizzazioni di informazione sulla celiachia mettono a disposizione gli elenchi degli alimenti privi di glutine. Escludendo tale sostanza dalla dieta, l’intestino si ripara gradualmente ed i sintomi scompaiono.

Additivi Alimentari e Reazioni Negative - Se per la maggioranza delle persone gli additivi alimentari non costituiscono un problema, alcuni soggetti che soffrono di specifiche allergie possono essere sensibili a determinati additivi quali alcuni coloranti ed i solfiti. Poiché tutti gli additivi alimentari devono essere chiaramente indicati in etichetta, coloro che hanno una specifica sensibilità o ritengono di averla possono evitare qualsiasi additivo. Una categoria di reazioni avverse agli alimenti che rientra tra le manifestazioni di tipo tossico sono forme di "avvelenamento" legati alla presenza, in un dato cibo o prodotto alimentare, di una o più tossine: quelle del pesce palla, di patate germogliate (solanina), dell’Amanita falloides e del Clostridium botulinum. Non si tratta ovviamente di problematiche di competenza dell’Allergologo.

Diagnosi Una corretta diagnosi delle allergie ed intolleranze alimentari deve essere effettuata

attraverso un’attenta anamnesi e test scientifici. Si valuta se una persona soffre di reazioni allergiche mediante prick test e dosaggio delle IgE specifiche.

Test cutanei. Sulla base dell’anamnesi dietetica, gli alimenti sospettati di provocare reazioni allergiche sono inseriti nella serie utilizzata per i test cutanei. Si eseguono in genere i prick test. Il valore di questo tipo di test è molto controverso ed i risultati non sono affidabili in assoluto. Sugli alimenti vegetali possono essere effettuati i “prick by prick” con alimenti a fresco. Nel caso di dermatiti atopiche si fa uso talora degli “Atopy patch test”.

Dosaggio IgE specifiche (RAST: radioallergosorbentest) In una vera allergia, il sangue produce anticorpi per combattere la proteina estranea che può così essere rilevata. Il test può essere usato soltanto come indicatore di un’allergia ma non determina l’entità della sensibilità all’alimento nocivo.

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Diete ad esclusione Il principio della dieta ad esclusione si basa sull’eliminazione di un alimento o di una combinazione di alimenti sospetti per un periodo di circa 2 settimane prima di effettuare una prova di verifica. Se in questo periodo i sintomi scompaiono, i cibi sospetti sono reintrodotti nella dieta, uno per volta, in quantità ridotte ed aumentate gradualmente fino a raggiungere la dose normale. Una volta verificati tutti i cibi sospetti, è possibile evitare quelli che causano problemi.

Test in doppio cieco con controllo di placebo (DBPCF). In questo test allergologico, l’allergene sospetto (per es. latte, pesce, soia) viene inserito in una capsula o nascosto in un alimento somministrato al paziente sotto stretto controllo medico. Questi test permettono agli allergologi di individuare i più comuni alimenti e componenti alimentari che provocano effetti negativi. È il gold standard sia per le allergie che per le intolleranze alimentari.

Gli altri tipi di test per la diagnosi delle allergie ed intolleranze alimentari non sono considerati dall'EBM e potrebbero non avere alcun valore ovvero solo valore orientativo se coincide con quanto osservato dal paziente.

Profilassi delle Allergie ed Intolleranze Alimentari. L’unico modo per prevenire la reazione allergica nei soggetti sensibili è eliminare gli alimenti o loro componenti dalla dieta. In caso di intolleranza alimentare, il solo fatto di ridurre le porzioni può essere sufficiente ad evitare i sintomi. Il miglior sistema di difesa consiste nel leggere attentamente le informazioni relative agli ingredienti riportate sulle etichette dei prodotti e nel sapere quali sono gli alimenti che scatenano allergie, intolleranze o asma. Dr. Giuseppe Albertini Direttore Dipartimento di Medicina Interna e Specialità Mediche Direttore Struttura Complessa di Dermatologia Arcispedale "S. Maria Nuova" Professore a contratto di “Dermatologia Ambientale” Specialista in “Allergologia e Immunologia Clinica” Viale Risorgimento 80 - 42123 - Reggio Emilia (Italy) Mail to: [email protected]

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NUTRIRE DELLE AMBIZIONI. FIGURE E CARRIERE DI DONNE NELLA STORIA DELL'ARTE

Enrico Maria Davoli

Docente di Storia della Decorazione

Accademia di Belle Arti di Bologna

Il gioco di parole insito nel titolo di questa relazione dovrebbe suonare abbastanza ovvio in una giornata di studi come quella odierna. Esso sottintende che, storicamente parlando, l'ufficio primario delle donne è sempre stato quello di nutrire sé e gli altri: ossia allevare i figli, attendere alla preparazione del cibo, curare i lavori di casa. E che, pertanto, le donne salgono da protagoniste sul palcoscenico dell'arte nel momento in cui, guardando oltre le funzioni ancillari, domestiche, loro tradizionalmente riservate, trovano il tempo ed il modo di “nutrire” qualcosa di più e di diverso, di coltivare cioè le proprie vocazioni, sensibilità, ricerche individuali. In questo senso non c'è dubbio che, strappando all'establishment

maschile il permesso di esercitare un'attività artistica, e beneficiando delle gratificazioni economiche e sociali connesse a tale esercizio, le donne abbiano anche iniziato a sviluppare una riflessione critica sulla propria condizione di subalternità, un ripensamento circa la propria identità ed il proprio ruolo.

La scuola angloamericana dei Gender Studies (che non a caso ci ha insegnato ad affiancare alla nozione di “sesso” quella di “genere”, proprio per sottolineare quanto vi sia di convenzionale, di culturalmente imposto, nel fatto che un individuo si pensi come “uomo” o come “donna”), ha prodotto in questi ultimi quarant'anni una grande quantità di studi aventi per oggetto le donne artiste. Ed è innegabile che il pensiero femminista abbia giocato un ruolo-chiave nel far decollare questi studi. Due mostre che hanno fatto epoca e stabilito un precedente nel loro genere, Women Painters tenutasi a Los Angeles nel 1976 e L'altra metà

dell'Avanguardia tenutasi a Milano nel 1980, non avrebbero potuto essere concepite al di fuori dei presupposti politici, ideologici, antropologici propri della militanza femminista. Da allora, la riscoperta di una storia dell'arte fatta dalle donne ha fatto passi da gigante, ed il rilievo delle donne nell'arte attuale non è più quello di comparse ma di protagoniste.

Tuttavia, valutare la presenza e/o l'assenza dell'elemento femminile sulla scena artistica, in base ad una concezione dell'arte vista pressoché esclusivamente come pratica di vertice, spiccatamente intellettuale, rigorosamente distinta dall'artigianato, riservata ad una élite monopolizzata pressoché per intero dai maschi, non è il modo migliore per affrontare il problema in tutti i suoi aspetti storici e geografici. O quantomeno non dovrebbe essere il solo. Non fosse altro perché questa concezione dell'arte è, a sua volta, il prodotto di una coscienza (sia essa “di sesso” oppure “di genere”) essenzialmente maschile. Tale concezione prende corpo in età rinascimentale, recuperando e deformando alcuni antefatti di età grecoromana, e costruisce il mito dell'artista-genio - figura unica, irripetibile, profetica, addirittura “divina” - proiettandolo sulle età successive, su fino a noi, uomini e donne del secolo XXI appena

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iniziato. Ebbene, pur con tutto il nostro dichiararci postmoderni, pur con tutto il nostro prendere le distanze dalla modernità dei secoli XVI-XX, nel momento in cui continuiamo a dare per scontata questa idea di arte e di artista restiamo ben piantati, con tutti e due i piedi, in quella che è una concezione moderna, dunque essenzialmente maschile, dell'attività artistica e culturale.

In altre parole, chiedersi quale sia il posto della donna nell'arte presuppone un'altra domanda, o addirittura una serie di domande. E cioè: cosa si intende per “arte”? Di quale arte si sta parlando? Fatta da chi, per chi, come e perché? Se è così, allora si dovrà tenere conto del fatto che il ventaglio semantico della parola greca techne e della corrispondente latina ars (così come di tutte le altre usate in età premoderna per designare ciò che noi chiamiamo “arte”) concede ben poco a quegli aspetti linguistico-comunicativi, ammantati di oscurità concettuali e dialettiche, che, ancor più degli elementi prettamente contenutistici, formali e tecnici, caratterizzano oggi la fortuna di un artista. Né tantomeno consente di indulgere a quelle componenti psicologiche, caratteriali, biografiche, la cui conoscenza ed analisi viene oggi ritenuta indispensabile per la comprensione di ciò che un artista produce. Cosa significa questo? Significa che l'attuale concezione individualistica e personalistica del lavoro artistico è relativamente giovane, mentre nelle età passate era molto più debole o addirittura assente, tanto che l'anonimato è la condizione assolutamente normale in cui quasi tutti i capolavori dell'antichità e del medioevo ci sono pervenuti. Significa anche che per molti secoli non si è sentito alcun bisogno di distinguere tra arte, artigianato e tecnica, che erano come un unico grande mare su cui i capolavori galleggiavano insieme agli oggetti di uso comune, le opere di significato universale insieme a quelle pensate per usi particolari e privati.

Certo non si può negare che, in tutte le epoche ed in tutte le civiltà, anche le più livellate e collettivistiche, le donne siano state quasi sempre escluse dai posti di comando, dalle cabine di regia. E tuttavia esse dovevano recitare un ruolo di primo piano in molti scenari produttivi che, in quei contesti, non solo erano arte a tutti gli effetti, ma spesso erano l'unica forma di arte possibile. Si pensi per esempio alla tessitura, al cucito, all'intreccio di fibre vegetali: col loro incalcolabile valore economico e sociale, queste attività hanno di fatto consentito il dispiegarsi di repertori decorativo-simbolici che sono un lascito essenziale dell'arte preistorica e protostorica, e che sono giunti fino a noi pressoché immutati. Ora, sarà anche vero - ma è comunque solo un'ipotesi, benché avallata da studiosi importanti - che i dipinti paleolitici di cacce al bisonte ritrovati nelle caverne francesi ed iberiche abbiano come autori dei maschi: stregoni oppure cacciatori, che riproponevano sulla parete rocciosa le stesse situazioni vissute all'esterno, uccidendo le loro prede.

Ma chi ci dice che tutta l'immensa arte delle stuoie, dei tappeti, delle stoffe, delle impunture, dei ricami, elaborata a partire dal Neolitico, non sia invece in buona parte, anche dal punto di vista dell'invenzione iconografica, prerogativa femminile? Chi ci dice che l'universo delle figure a treccia, a zig zag, a spina di pesce, delle astrazioni modulari e geometriche, delle immagini naturali stilizzate per entrare nella trama e dell'ordito di una tessitura, non vada largamente ascritto alla creatività delle donne, esecutrici materiali di gran parte dei manufatti destinati alla vita domestica? E poco male se ciò evocherà, ancora una volta, il topos della donna “angelo del focolare”. La casa, il villaggio, la città, cioè i luoghi

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della stanzialità, sono la grande conquista dell'uomo e della donna che, a poco a poco, passano dal sistema economico della caccia-raccolta a quello dell'agricoltura-allevamento. Che la qualificazione artistica ed estetica di tali luoghi (gli stessi, via via più grandi e complessi, su cui da sempre si esercita la creatività di architetti, arredatori, designer) sia stata innescata in modo determinante dalla scintilla del lavoro e della produttività femminili, non è un'eventualità che si possa liquidare superficialmente, con una battuta. Piuttosto, è uno spunto su cui riflettere.

Va da sé, e non possiamo nascondercelo, che le mura della casa, come più tardi quelle del convento, diverranno nei secoli anche la prigione in cui la creatività femminile rimarrà segregata, occultata. Dalle miniaturiste alle merlettaie alle calligrafe (non parliamo delle poetesse, delle musiciste, delle vocaliste, delle studiose di varie discipline) l'apporto femminile alla cultura e alle arti, soprattutto la arti cosiddette “minori”, è inestimabile: la donna-artista c'è sempre stata, anche se per amore o per forza ha dovuto indossare di volta in volta la maschera della madre di famiglia, della vestale, della monaca, della cortigiana, della precettrice.

Ma chi sta assistendo a questa giornata di studi non vorrà andarsene senza aver sentito parlare, sia pure in modo succinto, delle donne che, dal Rinascimento in poi, sono riuscite in numero sempre maggiore ad iscrivere il proprio nome nel firmamento della storia dell'arte, scuotendosi finalmente di dosso la condanna dell'anonimato. Ed avrà già capito che questa uscita dall'anonimato non ha a che fare solo con una condizione specificamente femminile, ma anche con la più ampia transizione dalla prassi collettivistica che caratterizzava l'esercizio delle arti sino alla fine del medioevo, alla prassi individualistica, ancorata alla nuova concezione rinascimentale ed umanistica premiante l'eccellenza del singolo, che iniziò a prendere forma nei secoli XV-XVI, trionfando in età moderna e contemporanea. Semmai, gli svantaggi connessi alla condizione emarginata delle donne sono da vedere nel fatto che l'uscita dall'anonimato è stata più lenta, graduale ed irta di difficoltà per loro che non per gli uomini, nelle professioni artistiche come in ogni altra.

Tra i tanti esempi di atteggiamento discriminatorio che si potrebbero citare, limitiamoci a ricordarne due soli, desunti da contesti del tutto diversi: 1) Nella più avanzata città europea dei secoli XIV-XV, Firenze, intorno al 1340 l'Arte della

Lana accoglie sì le tessitrici fra le proprie file, ma senza riconoscere loro lo status ed i diritti di imprenditrici autonome.

2) Nella Parigi di inizio secolo XIX, alla scuola del grande pittore Jacques-Louis David, vi sono anche alcune allieve donne. Ce lo ricorda - ed è già meritorio - nel suo fondamentale libro di memorie intitolato David, son école et son temps (1855), il pittore e critico d'arte Etienne-Jean Delécluze, egli pure allievo di David. Ma mentre a molti ex-compagni di studi maschi, anche di scarsa importanza, Delécluze dedica un breve profilo, anche solo un ricordo, le donne si limita ad elencarle per nome nella lista posta in coda al volume.

Il primo esempio, storicamente risaputo, è di età tardomedioevale e di ambito istituzionale-giuridico, ed esprime una discriminazione esplicita, sancita dalla legge. Il secondo, una sorta di gossip storico-critico interessante perché sintomatico di una mentalità diffusa, è di età moderna ed implica invece una discriminazione basata sul silenzio, sull'oblio,

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quasi un lapsus freudiano. Benché distanti ed addirittura incommensurabili fra loro, i due casi hanno in comune la diffidenza nei confronti della donna, vista in un caso come potenziale insidia ad un potere connotato al maschile, nell'altro come elemento di contorno, se non addirittura di disturbo, in una vicenda da giocarsi tutta fra maschi.

Veniamo allora ad alcuni dei nomi di donne (soprattutto pittrici e grafiche, ma anche qualche scultrice) che, dal Rinascimento in poi, cominciano seriamente ad emergere in termini di notorietà personale. Nel secolo XVI si ricordano la veneziana Marietta Robusti (1554-90), attiva per quindici anni nella bottega del padre Jacopo Robusti detto il Tintoretto, le cremonesi sorelle Anguissola, su tutte Sofonisba (1535ca-1625), le bolognesi Lavinia Fontana (1552-1614) e Properzia de' Rossi (1490ca-1530). Entrando nel secolo XVII, ecco la milanese Fede Galizia (1578-1630), la romana Artemisia Gentileschi (1597-1652), la bolognese Elisabetta Sirani (1638-65). Fuori Italia, la portoghese Josefa de Ajala (1630-84), la francese Elisabeth-Sophie Chéron (1648-1711), le olandesi Clara Peeters (1589-1657), Maria Van Osterwijk (1630-83), Rachel Ruysch (1664-1750). E ancora, nel secolo XVIII, la veneziana Rosalba Carriera (1675-1757), la svizzera Angelica Kauffmann (1741-1807), le francesi Elizabeth Vigée-Lebrun (1755-1842) e Adelaide Labille-Guiard (1749-1803).

Il trionfo dei regimi borghesi nel secolo XIX apre spazi crescenti alla libertà di iniziativa delle donne, con più ampie possibilità di frequentare e dirigere scuole, di impegnarsi in molteplici rami dell'industria, dell'artigianato, dell'insegnamento, dell'informazione, di ricoprire ruoli pubblici, di essere fatte oggetto di segnalazioni critiche e riconoscimenti ufficiali. L'ottocento è un secolo di grandi scrittrici e poetesse (Jane Austen, George Sand, Emily Dickinson, Matilde Serao) ed il bilancio delle artiste, pur non toccando quei livelli, è ragguardevole. Ovvio che, come i loro colleghi maschi, le francesi facciano la parte del leone in campo europeo: da Rosa Bonheur (1822-1899), grande animalista, prima donna insignita della Legione d'Onore (1865), alle pittrici e disegnatrici che affiancano validamente i protagonisti maschi dell'avventura impressionista: le francesi Eva Gonzalés (1849-83), Berthe Morisot (1841-95), Marie Bracquemond (1840-1916) e l'americana Mary Cassatt (1844-1926). E poi la scultrice Camille Claudel (1864-1943) e l'altra pittrice Suzanne Valadon (1865-1938).

Tutta la vicenda delle avanguardie novecentesche è attraversata, in modo minoritario ma costante, dall'apporto femminile. Dalle protoespressioniste Kathe Kollwitz (1867-1945), Paula Modersohn-Becker (1876-1907) e Gabriele Munter (1877-1962) alla cubista-fauvista Marie Laurencin (1885-1956) alle surrealiste e visionarie Frida Kahlo (1907-1954) e Georgia O'Keeffe (1897-1986), alle astratto-concrete Sonia Tauber-Arp (1889-1943), Sonia Delaunay Terk (1885-1979), Barbara Hepworth (1903-1975) alle suprematiste-costruttiviste Natalja Goncarova (1881-1962), Ljubov Popova (1889-1924), Alexandra Exter (1882-1949) e Varvara Stepanova (1894-1958), all'espressionista astratta Helen Frankenthaler (1928-2011) non si contano le artiste donne europee ed americane che, spesso condividendo non solo l'arte ma anche la vita quotidiana coi colleghi uomini, danno un contributo di notevole spessore alle ricerche in atto. E nella fotografia, bastano due nomi come Margaret Bourke White (1904-71) e Diane Arbus (1923-71) per sottolineare la qualità dell'apporto femminile.

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Nella seconda metà del Novecento, la presenza femminile nei movimenti e nei gruppi artistici è ormai generalizzata, e dà spesso una coloritura femminista al diffuso impegno politico-sociale che, soprattutto dal '68 in poi, connota la ricerca artistica e la spinge a esplorare i contesti del corpo e della vita stessa, intesi come opera d'arte tout court. Molto importanti i nomi della artiste-performer, da Carolee Schneman (1939) a Marina Abramovic (1946) a Gina Pane (1939-90), e l'impegno su questo fronte riguarda anche molte artiste giovani, in piena attività, che evidentemente avvertono nella dimensione della corporeità uno dei campi elettivi della riflessione femminile sull'arte. Dagli anni ottanta-novanta del '900, l'ubiquità e la totale indistinzione dei confini disciplinari tradizionali nel campo delle ricerche visive fanno emergere una serie di artiste che rappresentano altrettanti punti di riferimento a livello internazionale. Tra di esse ricordiamo almeno Cindy Sherman (1954), Barbara Kruger (1945), Rosemarie Trockel (1952), Nan Goldin (1953), e la lista dei nomi potrebbe continuare a lungo.

Per insufficiente e frettolosa che sia, una conversazione come questa non può concludersi senza tentare di rispondere ad almeno una domanda: esiste un'arte “al femminile”, è criticamente e scientificamente lecito parlarne? La risposta che ci sentiamo di dare è negativa, e lo è proprio in virtù di quella distinzione fra “sesso” e “genere” di cui abbiamo già parlato. “Maschile” e “femminile” sono nozioni fortemente culturalizzate, ed è sconsigliabile attribuire loro un valore realmente decisivo, dirimente. Esattamente come risulterebbe sconsigliabile, addirittura controproducente, parlare di una specifica arte “omosessuale” o “ebrea” o “dei malati di mente”.

Bibliografia A. Sutherland Harris - L. Nochlin (a cura di), Women Artists. 1550-1950, catalogo della mostra, Los Angeles,

County Museum, 1976. Traduzione italiana: A. Sutherland Harris - L. Nochlin, Le grandi pittrici 1550-1950, Milano, Feltrinelli, 1979.

L. Vergine (a cura di), L'altra metà dell'avanguardia, catalogo della mostra, Milano, palazzo Reale, 1980. La versione originale, uscita da Mazzotta, è stata più volte riedita: vedi L. Vergine, L'altra metà

dell'avanguardia, Milano, Il Saggiatore, 2005. S. Bartolena, Arte al femminile, Milano, Electa, 2003.

Un ringraziamento alla Prof.ssa Daniela Boni per la segnalazione concernente

E.-J. Délecluze.

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LA SINDROME DEL COLON IRRITABILE. PIÙ FREQUENTE NELLE DONNE?

Silvia Lombardini

U.O. Medicina III e Gastroenterologia

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

Definizione ed epidemiologia

La sindrome del colon irritabile (IBS: Irritable Bowel Syndrome) è una condizione caratterizzata dalla presenza di dolore addominale ed alterazioni dell’alvo in assenza di cause organiche.

I dati relativi alla sua prevalenza nel mondo, seppur eterogenei, sembrano indicare valori attorno al 10-15%. Anche i dati sull’incidenza sono molto variabili: 2-70 nuovi casi su 1000 pazienti all’anno. La comparsa dei sintomi è frequente durante l’adolescenza con un picco nella terza e quarta decade di vita.

L’IBS colpisce entrambi i sessi ed è riportata a tutte le età. Anche se difficilmente l’esordio della malattia è oltre i 50 anni, l’età avanzata non deve essere un motivo di esclusione della diagnosi di IBS; l’aumentata incidenza di altre patologie con sintomi similari in questi pazienti dovrebbe tuttavia imporre di essere più cauti nel formulare la diagnosi di IBS.

Le donne presentano una maggior prevalenza dei sintomi rispetto agli uomini con una rapporto di 2:1. Tale predominanza si osserva soprattutto nella fascia d’età dei 20-30 anni e tende a ridursi nelle età più avanzate. Alcune evidenze inoltre indicano che uomini e donne con IBS rispondono diversamente ai vari trattamenti per l’IBS. Sono state formulate numerose ipotesi per spiegare queste differenze legate al sesso. Una base biologica può essere ricondotta a differenze in termini di tempo di transito intestinale, di sensibilità viscerale (verosimilmente aumentata nelle donne) e di modalità di elaborazione del dolore a livello del sistema nervoso centrale (diverse risposte allo stimolo viscerale nell’uomo e nella donna) e dai specifici effetti dell’estrogeno e progesterone sull’apparato digerente. Anche alcuni aspetti scocio-culturali e psicologici, quali la somatizzazione, la depressione, l’ansia, la risposta allo stress potrebbero contribuire a determinare questo dato [Fig.1]. Sicuramente studi futuri porteranno chiarezza in questo ambito complesso.

L’IBS è la patologia che più comunemente giunge all’osservazione dello specialista gastroenterologo, essendo responsabile del 36% di tutte le visite gastroenterologiche. È inoltre responsabile di un elevato accesso alle cure primarie e rappresenta la seconda causa di assenteismo sul lavoro dopo l’influenza. Nonostante solo il 15% dei pazienti realmente affetti cerchi l’aiuto medico, tale patologia è stata associata ad un elevato costo sanitario; alcuni studi suggeriscono come sia responsabile di un costo annuale diretto ed indiretto di circa 30 bilioni di dollari.

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Figura 1 - Tratta da Chang L. Gastroenterology 2002.

Storia Naturale e Prognosi I pazienti con IBS raramente sviluppano altre malattie gastrointestinali. Tale

condizione inoltre non sembra essere associata allo sviluppo di gravi malattie nel tempo, né esistono evidenze di aumentata mortalità. Alcuni dati mostrano tuttavia che i pazienti con IBS vengono sottoposti più frequentemente ad alcuni tipi di interventi chirurgici quali isterectomia e colecistectomia rispetto ai controlli non affetti da IBS. I sintomi ricorrenti dell’IBS sembrano inoltre avere un importante impatto negativo sulla qualità della vita.

Patogenesi

La patogenesi della IBS è scarsamente conosciuta. È verosimile che intervengano numerosi fattori; tuttavia, nonostante i numerosi sforzi, i dati in letteratura sono contradditori ed al momento attuale non è stato identificata alcuna alterazione specifica nella IBS. L’attenzione è stata focalizzata su:

- Motilità gastrointestinale: seppure sia stato descritto un incremento della frequenza ed irregolarità delle contrazioni luminali ed un alterato transito, nessun pattern motorio particolare è risultato caratteristico dell’IBS.

- Ipersensibilità viscerale: circa i due terzi dei pazienti mostrano un’aumentata sensibilità viscerale alla stimolazione gastrica effettuata sperimentalmente; l’ipersensibilità viscerale sembra dunque giocare un ruolo importante nello sviluppo del dolore cronico nei pazienti con IBS.

- Fattori genetici: l’esistenza di una suscettibilità genetica all’IBS è suggerita da numerosi studi effettuati sui gemelli; tuttavia anche l’ambiente familiare riveste un

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ruolo chiave nello sviluppo della IBS. Sono in corso studi relativi all’associazione tra specifici geni ed IBS.

- IBS post-infettiva: circa un circa un terzo dei pazienti con IBS presenta all’esordio un quadro simile ad una enterite acuta. È stata pertanto ipotizzata una associazione tra IBS ed enterite infettiva e proposte svariate teorie (aumento della permeabilità intestinale, alterazioni della mucosa, utilizzo di antibiotici).

- Sensibilità agli alimenti: il ruolo del cibo nella fisiopatologia della IBS non è chiaro. Gli studi si sono recentemente focalizzati sulla relazione tra malattia celiaca e IBS (sensibilità al glutine).

- Fattori psicosociali e risposta allo stress: la risposta allo stress può giocare un ruolo centrale nella patogenesi della IBS fungendo da “trait d’union” tra le alterazioni motorie, sensitive ed eventualmente genetiche osservate nella IBS. Studi epidemiologici hanno sottolineato l’importanza degli stress ambientali quali fattori predisponenti per lo sviluppo della IBS e nel perpetuare i sintomi caratteristici.

Clinica La sintomatologia cardine della Sindrome del colon irritabile è rappresentata dal

dolore addominale ricorrente associato ad alterazioni dell’alvo (in frequenza e consistenza) in assenza di cause organiche potenzialmente responsabili della sintomatologia suddetta.

Il dolore è cronico, ricorrente, di tipo crampiforme, di intensità da lieve a grave, che solitamente è esacerbato dallo stress e dai pasti e migliora con la defecazione.

Altri sintomi gastrointestinali di accompagnamento possono essere il gonfiore addominale, la flatulenza, l’urgenza defecatoria, la sensazione di incompleta evacuazione, la difficoltà all’evacuazione e la presenza di muco nelle feci. Si associano spesso anche sintomi del tratto gastro-intestinale superiore quali la dispepsia e la pirosi (circa nel 25-50% dei pazienti).

Sono stati inoltre descritti frequentemente altri disturbi extra-intestinali quali la letargia, le dismenorrea e la dispareunia nelle donne e sintomi urinari (nicturia, sensazione di mancato svuotamento vescicale).

Allo scopo di standardizzare i protocolli di ricerca, un team internazionale riunitosi a Roma ha definito i criteri diagnostici per l’IBS che sono stati recentemente revisionati nel 2005 (criteri di Roma III), di seguito esposti: presenza di dolore addominale ricorrente o fastidio addominale che persiste per almeno 3 giorni al mese negli ultimi 3 mesi, associato a due dei seguenti sintomi: - miglioramento con la defecazione; - esordio accompagnato da alterazioni nella frequenza delle evacuazioni; - esordio accompagnato da alterazioni nella consistenza delle evacuazioni.

In base alla consistenza delle feci viene poi stabilita una classificazione in 4 tipi:

1. IBS con stipsi: presenza di feci dure ≥ 25% delle volte e feci di scarsa consistenza < 25%,

2. IBS con diarrea: presenza di feci di scarsa consistenza ≥ 25% delle volte e feci dure < 25%,

3. IBS mista: presenza di feci di scarsa consistenza ≥ 25% delle volte e feci dure ≥ 25%,

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4. IBS non classificabile: insufficienti alterazioni nella consistenza delle feci per rientrare nei criteri sopracitati.

Comorbidità

I pazienti con IBS presentano frequentemente altri disturbi funzionali associati tra cui la fibromialgia (circa il 20-50% dei pazienti ne è affetto). Peraltro l’IBS è una condizione comune in numerose altre condizioni dolorose croniche: è presente nel 51% dei pazienti con sindrome da fatica cronica, nel 64% con sindrome temporo-mandibolare e nel 50% con dolore pelvico cronico. I pazienti con IBS sembrano lamentare con frequenza stress e presentare problemi psicosociali.

Diagnosi La diagnosi di IBS dovrebbe essere basata sull’identificazione dei sintomi tipici come

suggerito dai criteri di Roma sopracitati. Poiché tuttavia il dolore addominale e le alterazioni dell’alvo sono elementi caratteristici ma non specifici di IBS, essendo presenti in molte altre condizioni, la diagnosi di IBS prevede l’esclusione di altre cause.

Gli esami di laboratorio di routine ed in particolare l’esame emocromocitometrico, la velocità di eritrosedimentazione e la proteina C reattiva, solitamente non sono alterati nei pazienti con IBS.

Sintomi atipici e non compatibili con la sola diagnosi di IBS (i cosiddetti sintomi di allarme) sono:

• la rettorragia,

• il dolore addominale ingravescente e prevalentemente notturno,

• la perdita di peso,

• l’alterazione degli esami di laboratorio (quali incremento degli indici di flogosi o alterazioni elettrolitiche).

La presenza di tali sintomi, la familiarità per il tumore del colon, l’esordio della sintomatologia dopo i 50 anni, sono elementi che impongono un’attenta valutazione prima di formulare la diagnosi di IBS; in prima istanza deve essere esclusa una patologia infiammatoria/neoplastica.

La scelta delle indagini di secondo livello deve essere guidata dalla sintomatologia descritta dal paziente, valutando la possibile diagnosi differenziale. Ad esempio nei pazienti che presentano come sintomo prevalente la diarrea dovranno essere escluse la malattia celiaca, le malattie infiammatorie croniche intestinali, le coliti microscopiche, la giardiasi e la diarrea da malassorbimento degli acidi biliari.

La colonscopia deve comunque essere presa in considerazione nei pazienti di età superiore ai 50 anni che presentano un recente (meno di sei mesi) esordio dei sintomi (tra cui il cambiamento dell’alvo) per il maggior rischio di neoplasia del colon a questa età. In presenza di familiari di primo grado affetti da neoplasia del colon con esordio prima dei 45 anni o di due familiari di primo grado affetti da neoplasia del colon, la colonscopia deve essere anticipata.

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Terapia Il fattore più importante nel trattamento della IBS è la capacità di stabilire un adeguato

rapporto medico-paziente. Il paziente dovrebbe essere rassicurato sulla buona prognosi della malattia, edotto sulla presunta patogenesi e sulla natura cronica della malattia. È importante inoltre che sia coinvolto nelle scelte terapeutiche. I pazienti che hanno instaurato un buon rapporto con i medici sembrano infatti ricorrere ad un numero inferiore di visite. � Trattamento dietetico:

Un’attenta raccolta del diario alimentare può rivelare la presenza di sintomi associati a specifici alimenti. Sono stati pertanto proposti svariati interventi dietetici nel trattamento dell’IBS, la cui efficacia non è ancora stata ben stabilita. L’attenzione in particolare è stata rivolta verso l’introito di fibre alimentari, l’esclusione dalla dieta di alcuni tipi carboidrati quali lattosio, fruttosio e sorbitolo e l’esclusione del glutine. � Intervento psicologico/psicosociale:

Sono stati proposti vari interventi psicologici nel managing dell’IBS (training di rilassamento, terapie cognitivo-comportamentali, terapie psicodinamiche), tuttavia la loro efficacia rimane incerta. Tali approcci devono essere proposti ai pazienti motivati, che presentano sintomi di ansia e depressione e che associano la sintomatologia intestinale allo stress. Alcuni studi hanno mostrato anche l’efficacia dell’ipnoterapia nel migliorare i sintomi dell’IBS; tali risultati tuttavia devono essere confermati. � Trattamento farmacologico:

La sicurezza del trattamento dovrebbe essere una prerogativa fondamentale dal momento che l’IBS, pur essendo associata ad una ridotta qualità della vita, è una condizione con prognosi favorevole. L’intervento farmacologico nella terapia dell’IBS dipende della sintomatologia predominante (IBS con diarrea o stipsi).

Antispastici. Il razionale del loro utilizzo è attenuare l’aumentata contrattilità di base e post-prandiale osservata nei pazienti con l’IBS. Gli antispastici determinano un sollievo temporaneo della sintomatologia, ma la loro efficacia a lungo termine non è ancora stata dimostrata.

Antidepressivi. Gli antidepressivi possiedono proprietà analgesiche indipendentemente dal loro effetto sul tono dell’umore; sono efficaci nel dolore neuropatico. Numerosi studi randomizzati controllati versus placebo hanno dimostrato come gli antidepressivi triciclici utilizzati a basse dosi siano in grado di ridurre la sintomatologia soprattutto nei pazienti con prevalenza di alvo diarroico. Gli studi effettuati sugli inibitori del reuptake della serotonina, seppur di numero limitato, sembrano dimostrare come tali farmaci siano in grado di determinare un beneficio globale al paziente anche senza portare ad un significativo cambiamento della sintomatologia intestinale.

Fibre e lassativi. L’utilizzo delle fibre è finalizzato all’incremento della massa fecale ed all’accelerazione del transito colico. Gli studi mostrano come il supplemento di fibre nella dieta porti ad un miglioramento della stipsi ma non determini benefici sulla sintomatologia

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dolorosa addominale. In alcuni casi le fibre insolubili si ritiene possano esacerbare il meteorismo e la sensazione di gonfiore addominale. Lassativi efficaci e ben tollerati nella stipsi cronica sono i sali inorganici anche se i dati relativi ai pazienti con IBS sono scarsi.

Antidiarroici. I trials suggeriscono che la loperamide sia più efficace del placebo nel trattamento della diarrea ma abbia scarso effetto sul dolore addominale. La somministrazione “al bisogno” sarebbe da preferire ad un trattamento cronico.

Agonisti/antagonisti dei recettori della serotonina. La serotonina, agendo tramite i recettori 5-HT3 e 5-HT4 gioca un ruolo chiave nel controllo della motilità/sensibilità intestinale e della secrezione intestinale. Per tale motivo l’attenzione è stata rivolta ai recettori della serotonina come possibili targets terapeutici nell’IBS; è possibile che gli agonisti dei recettori 5-HT4 possano favorire il transito agendo come procinetici e che gli antagonisti dei recettori 5-HT3 possano portare al rallentamento della motilità intestinale ed alla riduzione della sensibilità viscerale.

Antibiotici e probiotici. Alcuni pazienti con IBS hanno mostrato un miglioramento del gonfiore e dolore addominale se trattati con antibiotici, in particolare la rifaximina. Analogamente i probiotici sembrano determinare un miglioramento del meteorismo; tali risultati devono tuttavia essere validati da ulteriori studi.

Terapie alternative. Alcuni studi sono stati condotti utilizzando terapie alternative per l’IBS, ed in particolare le terapie immunosoppressive, i preparati di erboristeria e l’agopuntura. Il ruolo di tali interventi terapeutici rimane tuttavia incerto.

Bibliografia

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• Spiller R, Aziz Q, Creed F, Emmanuel A, Houghton L, Hungin P, Jones R, Kumar D, Rubin G, Trudgill N, Whorwell P. Guidelines on the irritable bowel syndrome: mechanisms and practical management. Gut. 2007 Dec;56 (12): 1770-98.

• Drossman DA, Camilleri M, Mayer EA, Whitehead WE. AGA technical review on irritable bowel syndrome. Gastroenterology 2002 Dec; 123 (6): 2108-31.

• Jones J, Boorman J, Cann P, Forbes A, Gomborone J, Heaton K, Hungin P, Kumar D, Libby G, Spiller R, Read N, Silk D, Whorwell P. British Society of Gastroenterology guidelines for the management of the irritable bowel syndrome. Gut. 2000 Nov; 47 Suppl 2:ii1-19.

• Chang L, Heitkemper MM. Gender differences in irritable bowel syndrome. Gastroenterology 2002; 123: 1686–701.

• Chang L. Review article: epidemiology and quality of life in functional gastrointestinal disorders Aliment Pharmacol Ther 2004; 20 (Suppl. 7): 31–39.

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ESISTE UNA ALIMENTAZIONE CORRETTA PER LA SINDROME D EL COLON IRRITABILE?

Simona Bodecchi°, Agnese Rustichelli*

° P.O. Ospedale Civile di Guastalla - Azienda Unità Sanitaria Locale - Reggio Emilia

* Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

La Sindrome del Colon Irritabile (IBS = Irritable Bowel Syndrome) è definita come un

gruppo di disordini gastrointestinali funzionali, molto frequenti nei paesi occidentali, soprattutto tra la popolazione delle aree urbane (colpisce circa il 15%della popolazione). I sintomi sono caratterizzati da dolore o fastidio addominale che si manifestano in relazione a modificazioni dell'alvo, con segni di alterata defecazione e distensione addominale. La causa dell'IBS rimane tuttora ignota, i criteri condivisi dalla comunità internazionale per la diagnosi di IBS, sono riportati nel documento di consenso definito “Rome III criteria” [1], non è tuttavia insolito che i soggetti non presentino i classici sintomi, in questo caso i medici devono basarsi sulla diagnosi clinica.

Manifestazione clinica e classificazione L'esordio avviene spesso prima dei 30 anni; il rapporto femmine/maschi varia da 2:1 a

4:1 [2]. Il sintomo più caratteristico è il dolore addominale accompagnato da crampi. Questi pazienti riferiscono una storia di lunga durata dei sintomi con fasi di remissione e recidive, spesso precedute da eventi stressanti, variabili in frequenza e gravità, ma con decorso sostanzialmente benigno. Il dolore, che a volte può essere un fastidio, è localizzato diffusamente nei quadranti addominali e talvolta può essere scatenato dal pasto, spesso un temporaneo sollievo compare con la defecazione o l'emissione di gas. A questo frequentemente si associano senso di tensione e distensione addominale.

A seconda delle caratteristiche delle feci vengono distinti quattro gruppi di IBS [2]:

• Stipsi prevalente (IBS-C): caratterizzata dalla prevalenza di feci dure o fecalomi in più del 25% delle evacuazioni. È l'aspetto più obiettivabile; la stipsi può essere inizialmente episodica per poi diventare continua e difficilmente trattabile con lassativi, le feci sono dure e di volume ridotto, i pazienti riferiscono spesso meno di 3 evacuazioni la settimana, accompagnate da sforzo durante la defecazione e sensazione di incompleto svuotamento dell'alvo. È più frequente nel sesso femminile.

• Diarrea prevalente (IBS-D): caratterizzata dalla presenza di feci non formate in più del 25% delle evacuazioni. È una condizione che si presenta più frequentemente nel sesso maschile; i pazienti riferiscono spesso più di 3 evacuazioni al giorno, accompagnate da stimolo imperioso, incontinenza e presenza di muco nelle feci. La diarrea, tuttavia, non interrompe il sonno e non provoca né squilibri idroelettrici né sindrome da malassorbimento.

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• Alvo alterno (IBA-A): si caratterizza per la presenza di feci non formate in meno del 25% delle evacuazioni e di feci dure e caprine anch'esse in meno del 25% delle evacuazioni.

• Inclassificata: in cui i criteri per caratterizzare la IBS come stipsi prevalente, diarrea prevalente od alvo alterno risultano insufficienti.

In tutti i casi mancano evidenti alterazioni organiche dell'apparato digerente per cui l'eziopatogenesi del colon irritabile rimane tutt'oggi sconosciuta, ma sicuramente sono fattori favorenti:

• lo stress

• alimentazione irregolare e disordinata

• dieta non equilibrata povera di fibre e di acqua

• sedentarietà Condizioni somatiche, sintomi extraintestinali, disturbi psicologici e psichiatrici sono

frequenti nei pazienti con IBS. In alcuni soggetti la Sindrome da Colon Irritabile può invece svilupparsi in seguito a

una patologia infettiva (IBS-PI) post Infettiva, caratterizzata due o più fattori tra i seguenti sintomi: vomito; febbre; diarrea; cultura fecale positiva.

Trattamento [3] Il problema terapeutico del colon irritabile è molto difficile e non presenta una

risoluzione globale: basti pensare che il placebo è efficace nel 40% dei casi. Possiamo però affermare che i principi del trattamento possono essere costituiti da:

• antidiarroici

• antispastici

• procinetici

• antidepressivi ed ansioloitici

• psicoterapia

• educazione alimentare Gli interventi educativi, per raggiungere risultati apprezzabili, devono prevedere un

coinvolgimento importante del team di cura, articolato su un’educazione strutturata del paziente. Educazione Alimentare

L'approccio alla terapia dietetica richiede un dialogo sereno, disteso e supportivo con il paziente allo scopo di rassicurarlo sulla natura funzionale dei disturbi ed indicargli una corretta strategia alimentare.

L'alimentazione dovrà essere varia, equilibrata e soprattutto con un apporto ottimale di fibre e acqua. Si dovrà ridurre l'apporto di cibi a forte e medio potenziale flautogeno: latte e derivati, cipolle, sedano, carote, cavoletti di bruxelles, melanzane, patate, legumi, dolci, dolcificanti, agrumi, uva passa, banane, albicocche, succo di prugne e alimenti ricchi di sale. Spesso andranno evitate alcune sostanze che hanno un'azione stimolante sulla motilità intestinale (alcol, caffeina, guaranà, cioccolato, bibite gassate, spezie..), ma generalmente si

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sostiene che non esistano alimenti strettamente controindicati in soggetti che presentano Sindrome del Colon Irritabile.

La dieta deve seguire un criterio soggettivo, al fine di ridurre i cibi che possono esacerbare i sintomi, a questo scopo, risulta utile la compilazione di un diario alimentare per circa 1-2 settimane al fine di valutare la tolleranza individuale agli alimenti evitando così eliminazioni inutili e talvolta dannose se protratte per lungo tempo.

Alcuni studi suggeriscono l’utilità di infusi o decotti di menta peperita per il controllo del dolore (12 gr per 350 cc d’acqua per 10 minuti di infusione). L’efficacia della menta peperita sarebbe legata all’azione sulla muscolatura liscia, attraverso il blocco dei canali del calcio, che porta ad una riduzione della contrattilità e del dolore [4].

Altri autori propongono di integrare l’alimentazione con olio di semi di lino, fibra di psyllium o fibra d’Ispaghula, dimostratesi utili nel ridurre la stitichezza ed i dolori addominali

[5]. Molti studi condotti fino ad oggi [6] hanno valutato i benefici di:

• diete prive di lattosio e carboidrati fermentabili (NSP)

• diete ricche in fibra solubile ed insolubile

• diete empiriche di esclusione

• integrazione con probiotici

Stipsi (IBS-C) [7] Per cercare di porre rimedio al sintomo della stitichezza è necessario:

• Fare pasti poco copiosi e frequenti (4-5 al giorno) ad orari regolari, masticando a lungo i cibi; si consiglia di consumare tre pasti principali (colazione, pranzo e cena) e uno o due spuntini, a metà mattina e/o a metà pomeriggio.

• Incoraggiare l'assunzione di 30 ml di acqua/kg/die, se l'idratazione è scarsa infatti nel colon la massa degli alimenti digeriti si disidrata ulteriormente diventando più secca e dura e di conseguenza più difficile da espellere. Va preferita acqua naturale, a temperatura ambiente, da bere a piccole quantità durante l’arco della giornata, soprattutto lontano dai pasti. Iniziare la giornata con 1-2 bicchieri di acqua tiepida al mattino a digiuno può essere un espediente efficace.

• Aumentare il consumo di fibra, soprattutto insolubile, fino ai quantitativi raccomandati di 25-30 gr/die, da raggiungere gradualmente in quanto la tolleranza individuale a livello gastrointestinale è variabile e particolarmente critica in soggetti non adattati, che potrebbero incorrere in disturbi quali meteorismo, gonfiore e dolori addominali. Per raggiungere i fabbisogni indicati è consigliabile l'introduzione costante di due porzioni al giorno di verdura accompagnate da 2-3 porzioni di frutta, preferendo le varietà più ricche in fibra (carciofi, cavoletti di Bruxelles, melanzane, broccoli, cicoria, barbabietole, radicchio rosso, fagiolini, verza, porri, cavolo cappuccio, asparagi, cavolfiore, finocchi, spinaci, bietole e rape, pere, lamponi, more, ribes, cachi, mandaranci, melograno, kiwi, nespole, fichi, mele, fichi d’india). Sarebbe meglio evitare invece, frutta ricca in acido tannico che rallenta la peristalsi (uva, mirtilli), abituarsi a consumare legumi (fagioli, ceci, lenticchie, fave, piselli e soia) preferendoli ben cotti e passati eliminando le bucce,

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ed infine preferire l'uso di prodotti integrali (pasta integrale, pane integrale, cracker integrali, fette biscottate integrali, ecc.) a quelli raffinati. Se la quota ottimale di fibra non può essere raggiunta tramite l'assunzione di alimenti naturali può essere indicato l'uso degli integratori di cui il commercio è ricco.

• Scegliere alimenti ricchi in fermenti lattici come yogurt o latte fermentato può contribuire, se assunti quotidianamente, a ripristinare la flora batterica intestinale.

• Preferire condimenti di origine vegetale come olio extra vergine d'oliva al posto di quelli di origine animale da utilizzare sempre a crudo.

• Ricordare che nonostante non sia una norma dietetica, l’esercizio fisico stimola la motilità intestinale, favorendo la defecazione. È pertanto consigliato ridurre la sedentarietà ed intraprendere una costante e moderata attività fisica (passeggiate, cyclette, nuoto, ecc.).

Diarrea: (IBS-D) [7]

• Assicurare una corretta idratazione, per tamponare le perdite dovute alle eccessive evacuazioni: bere frequentemente acqua naturale a temperatura ambiente e a piccoli sorsi.

• Per quanto riguarda i condimenti, è meglio utilizzare soltanto olio di oliva extravergine aggiunto a crudo e con moderazione

• In fase acuta evitare latte e latticini, in cronico dopo aver escluso l’intolleranza al lattosio con il breath test è possibile reintrodurre il lattosio nella dieta gradualmente, se la diarrea si ripresenta è consigliabile sostituire il latte vaccino con prodotti alternativi quali: latte di soia, di riso, avena, quinoa, preferibilmente arricchiti in calcio.

• Seguire una dieta povera di fibre, di amido resistente e polialcoli.

• Evitare i cibi troppo grassi o fermentati, le fritture, le creme, gli aromi, formaggi fermentati, salumi piccanti e insaccati, lardo, pancetta, strutto, uova fritte e fritture in genere, cibi a base di salse piccanti, mostarda, senape, spezie, avocado, cachi, cocco, datteri, fragole, fichi, frutta secca, lamponi, mandorle, more, nocciole, noci, pinoli, pere, prugne, ribes, uva, dolciumi troppo elaborati a base di creme, e cioccolato, caramelle e chewin-gum con edulcoranti.

• Sospendere l’assunzione di caffè, tè e bevande alcoliche, o con caffeina per la loro capacità di aumentare la secrezione e la motilità del colon.

Gonfiori Addominali [7]

• Cercare di consumare i pasti alla stessa ora, in un ambiente sereno e masticare a lungo i cibi.

• Frazionare l’alimentazione in 3 pasti principali accompagnati da 2-3 spuntini.

• Abituarsi a bere un bicchiere di acqua al mattino a digiuno e bere regolarmente 1,5-2 litri d’acqua nell’arco della giornata.

• Aumentare gradualmente il consumo di frutta e verdura

• Valutare la sensibilità individuale a cibi che possono influenzare la funzionalità intestinale: alcol, caffeina, alimenti grassi (fritti, sughi molto elaborati, formaggi stagionati e

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fermentati), legumi, zuccheri, dolcificanti (lattosio, fruttosio, sorbitolo, smaltitolo, isomalto), marmellate, cibi a potenziale flautogeno forte.

• Evitare di bere con la cannuccia o da bottiglie a collo stretto.

• Evitare: bibite gassate, frullati, panna montata (gelati di crema, si ai gusti alla frutta), chewin-gum, caramelle, legumi, patate, cavoli, broccoli, cavolfiore, castagne, prugne, uva passa, fichi.

• L’attività fisica stimola l’attività intestinale: programmare ogni giorno 30 minuti di attività fisica moderata (camminata a passo veloce, bicicletta, cyclette, o tappeto).

• Evitare di usare l’ascensore e di passare tante ore in casa davanti al televisore. Oltre all'attuazione di una alimentazione corretta anche gli interventi sullo stile di vita

sono indispensabili [2]:

• ridurre lo stress (riconsiderando i ritmi di vita o prendendo in considerazione attività ricreative, ecc.)

• mantenere i pasti a orari regolari e dedicare tempo ai pasti

• dedicarsi a una regolare attività fisica (questa favorisce il buon funzionamento dell'intestino ed aiuta a scaricare lo stress)

• Modificare le abitudini non corrette come l’abuso di alcol o fumo

• usare farmaci solo su consiglio del medico e non abusare di lassativi

La British Dietetic Association nel 2012 ha pubblicato le “ Evidense-besed guidelines for the dietary management of irritable bowel syndrome in adults” con lo scopo di rivedere sistematicamente aspetti chiave della gestione alimentare della IBS, fornendo linee guida evidens-based ricavate dalla valutazione critica di 30 studi rilevanti, effettuati dal 1985 al 2009 [6].

La Federazione Europea di Gastroenterologia sta conducendo un sondaggio sui pazienti con IBS utilizzando world wide web, lo studio permetterà di acquisire importanti informazioni per il trattamento e la gestione clinica dei pazienti, per partecipare si ci può collegare al sito: www.pi-ibs.eu (username di accesso: piibsitgb). [8]

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Bibliografia

1. Longstreth GF, Thompson WG, Chey WD, Houghton LA, Mearin F, Spiller RC. Functional bowel disorder. Gastroenterology 2006; 130:1480-91

2. Minoli G, Casetti T. Sindrome dell’intestino irritabile. Stato dell’arte sull’impatto e sulla gestione della Sindrome dell’Intestino Irritabile nella popolazione italiana. Primo Rapporto Sociale sull’Intestino Irritabile a cura del Comitato Scientifico editoriale di AIGO. http://www.intestinoirritabile.it/images/ RapportoSociale506.pdf

3. Giuseppe Fatati. Nutrizione e patologia gastrointestinale. Alimentazione come profilassi e terapia del colon irritabile. Collana Archi, Dicembre 2009.

4. Hills JM, Aaronson PI. The mechanism of action of peppermint oil on gastrointestinal smooth muscle. Gastroenterology 1991;101:55-65.

5. Ford A et al. Effect of fibre, antispasmodics and peppermint oil in the treatment of irritable bowel syndrome: systematic review and meta-analysis. BMJ 2008; 337:2313-24

6. YA McKenzie, A.Alder, W.Anderson, A.Willis, L.Goddard, P.Gulia, E.Jankovich, P.Mutch, L.B:Reeves, A.Singer, M.C.E.Lomer. British Dietetic Association evidence based guidelines for the dietary management of irritable bowel syndrome in adults. Journal of Human Nutrition and Dietetics. june 2012, Volume 25, issue 3 pages 260-274.

7. E. del Toma. Prevenzione e terapia dietetica. Il pensiero scientifico editore. 2005 8. Associazione colon irritabile: www.sindromecolonirritabile.org

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L’ALIMENTAZIONE NELLA DONNA OBESA

Salvatore Vaccaro

S.C. Logistico Alberghiero & Team Nutrizionale

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

Consiglio Direttivo Nazionale S.I.N.P.E. - Consigliere Rappresentante Area Dietisti

Nei paesi industrializzati si registra una preoccupante diffusione di patologie cronico-degenerative, all’origine delle quali intervengono molteplici fattori, tra i quali l’alimentazione riveste un ruolo importante non solo come fattore di rischio ma anche come fattore protettivo. L’obesità e le patologie croniche ad essa associate costituiscono un grave problema di salute e hanno un significativo impatto economico sul sistema sanitario nazionale.

L’obesità sta diventando una vera e propria emergenza sanitaria ed economica anche nel nostro paese; la preoccupante diffusione del sovrappeso e dell’obesità è attribuibile a fattori di tipo genetico, all’adozione di stili di vita sempre più sedentari associati a scorrette abitudini alimentari. Scelte alimentari equilibrate adottate fin dall’infanzia e mantenute poi nell’età adulta insieme alla pratica di una regolare attività fisica contribuiscono a ridurre il rischio di insorgenza di patologie quali obesità, malattie cardiache, ipertensione, diabete, alcuni tipi di cancro e osteoporosi.

Il peso corporeo è un parametro composito in quanto risulta costituito dalla somma del peso di tutti i compartimenti corporei (in base al modello molecolare, risulta dalla somma di: acqua, proteine, minerali, glicogeno e grassi), dato ciò esso non ci permette di distinguere le perdite di tessuto magro da quelle di tessuto grasso.

A partire dagli anni ’70, con il nascere e lo svilupparsi della Scienza dell’Alimentazione e della Nutrizione Umana, le acquisizioni medico-scientifiche hanno dimostrato come l'aumento ponderale sia direttamente correlato ad un peggioramento della qualità di vita, ad un maggiore tasso di incidenza di complicanze e di altre malattie ad esso associate.

Definire l'Obesità non è semplice e non trova pareri unanimi tra la classe medica e l’opinione pubblica. Da un punto di vista clinico, l’ Obesità è una malattia cronica, durevole, multifattoriale, geneticamente predeterminata, dovuta ad un eccessivo deposito di grasso corporeo rispetto alla massa magra (paragonato alla media della popolazione), che presenta significative conseguenze di ordine medico, psicologico e sociale. Per l'opinione pubblica, il considerare l’eccesso ponderale (sovrappeso/obesità) uno stato di malattia (o per lo meno non fisiologico) è poco diffuso ed a molti addirittura sconosciuto, viene considerato semplicemente un fattore estetico.

Tale visoni discordanti si ripercuotono anche sull'aspettativa legata al dimagramento, la classe medica punta a ridurre i problemi di salute derivanti da tale condizione [Tabella 1], mentre l'aspettativa pubblica è più di tipo estetico.

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Tabella 1 - Alcune Conseguenze dell’Obesità. Mediche Psico-Sociali

� Complicanze Endocrine � Complicanze Metaboliche � Compl. Cardiovascolari � Compl. Gastrointestinali � Complicanze Polmonari

� Complicanze Neurologiche � Compl. Muscoloscheletriche � Compl. Dermatologiche

�Difficoltà Esami Strumentali

� Impatto Sociale � Relazioni Interpersonali

� Isolazione Sociale � Discriminazione

� Traspirazione Cutanea �Difficoltà nell’abbigliamento � Difficoltà negli spostamenti

� Difficoltà negli arredi � Disagi Visite Mediche

Attualmente, per conoscere lo Stato Ponderale di un individuo viene fatto ricorso

all'Indice di Quetelet o Indice di Massa Corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI) che, in termini antropometrici, correla l'altezza con il peso del soggetto. Viene ricavato dal rapporto tra il peso corporeo (espresso in kg) ed il quadrato dell'altezza (espressa in metri).

Peso Corporeo (kg)

BMI = Altezza (m2)

Epidemiologicamente si è dimostrato che il BMI è correlato con il rischio di mortalità

e con l'aspettativa di vita, la curva della durata della vita contro il BMI è a forma di U, con zenit intorno ai 20 kg/m2. Presenta alcune limitazioni, quali ad esempio, non consente di distinguere la massa magra da quella grassa, perde di significatività d'uso nei bambini, nelle gravide e nei soggetti con rilevanti masse muscolari.

Fasce di BMI e Classificazione Ponderale Classificazione

Ponderale BMI

(kg/m2) Rischio di

complicanze Sottopeso

Magrezza grave

Magrezza moderata Sottopeso

< 18,5 < 16

16 - 16,99 17 - 18,49

Basso (aumento del rischio per

altre problematiche

cliniche)

Range normale 18,5 - 24,99 Medio

Sovrappeso 25 - 29,99 Aumentato

Obesità Ia classe 30 - 34,99 Moderato

Obesità IIa classe 35 - 39,99 Elevato

Obesità III a classe ≥ 40 Molto elevato

Obesità Patologica 40 - 49,99 Estremamente elevato

Super Obesità 50 - 59,99 Estremamente elevato

Super Super Obesità ≥ 60 Estremamente elevato

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In questa relazione, al fine di fornire una visone globale del trattamento che bisognerebbe garantire alla persona obesa, si è pensato di divulgare quanto contenuto nella recente pubblicazione SIO-ADI “Standard Italiani per la Cura dell’Obesità 2012/2013”. Ogni capitolo del documento inizia con una sequenza di affermazioni per le quali viene indicato il Livello di Prova scientifica [LP] e la Forza della Raccomandazione [FR], alle quali seguono un commento (approfondisce le basi scientifiche su cui poggiano le prove e le raccomandazioni) e le indicazione bibliografiche. In tali Atti viene riportata una parte del documento, invitando tutti coloro che ne fossero interessati alla lettura della versione integrale reperibile gratuitamente sui siti internet delle società scientifiche che lo hanno redatto.

Gli Standard Italiani per la Cura dell’Obesità 2012/2013 costituiscono il secondo documento italiano di linee guida sull’obesità, dopo la pubblicazione delle Linee Guida Italiane Obesità del 1999 (Li-GIO’99). Essi vogliono essere una guida, basata su prove scientifiche, utile a tutti coloro chi si trovano coinvolti nella gestione delle persone obese.

Dati O.M.S. riportano che l’86% delle morti ed il 75% della spesa sanitaria (Europa e Italia) sono determinate da patologie croniche che hanno in comune 4 fattori di rischio: fumo, abuso di alcol, scorretta alimentazione ed inattività fisica. Queste ultime due sono alla base del preoccupante aumento della prevalenza di sovrappeso/obesità nelle popolazioni occidentali ed in quelle in via di sviluppo. In Europa, il sovrappeso e l’obesità sono responsabili di circa l’80% dei casi di diabete tipo 2, del 55% dei casi di ipertensione arteriosa e del 35 % di casi di cardiopatia ischemica; tutto ciò si traduce in 1 milione di morti/anno e 12 milioni di malati/anno.

La raccomandazione di ridurre il peso corporeo quando elevato è fondata sull’evidenza della relazione che lega l’obesità ad una minore aspettativa di vita. Tuttavia, il trattamento a lungo termine è assai problematico e richiede un approccio integrato, che utilizzi gli strumenti a disposizione in modo complementare, avvalendosi di competenze professionali diverse, le quali condividano il medesimo obiettivo terapeutico.

Il Management della Persona con Obesità

L’obesità è una patologia cronica ad etiopatogenesi complessa, per la quale attualmente non esiste una strategia monodirezionale efficace nel lungo termine.

Come comunicare la tipologia di trattamento al paziente obeso? La progressiva diffusione di sovrappeso/obesità e l’assenza di una strategia di

trattamento efficace nel lungo termine favoriscono il proliferare di modelli terapeutici, più o meno ortodossi, proposti da diverse figure professionali (mercato della Diet Industry) che spesso si rivelano delle truffe. I medici che si occupano di obesità devono rendere preliminarmente trasparente il proprio modello d’intervento, con la formulazione di una brochure o l’organizzazione di incontri di gruppo preliminari. (LP: VI; FR: B)

Quanto deve durare una prima visita? E i controlli? Questo aspetto è sottovalutato sia a livello nazionale che internazionale. A livello

nazionale il tempo medio per una visita in una struttura pubblica (con l’eccezione per quelle di tipo psicologico-psichiatrico) si stima in 15 min. Studi e/o indicazioni al riguardo sono

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inesistenti. Gli esperti propongono un tempo medio ragionevole per una prima visita si collochi tra 45-75 min. e per un controllo tra 20-30 min. (LP: VI; FR: B)

Quanto è importante l’esempio dei sanitari? È scontato il ruolo dei professionisti della salute nella promozione di misure

preventive e nell’incoraggiare corretti stili di vita. In realtà, si stima che non meno di un terzo degli operatori sanitari abbiano difficoltà nel proporre adeguati stili di vita, a causa di una bassa autostima determinata dalla consapevolezza dell’incongruenza tra il loro fare e consigliare. Per essere convincenti e rassicuranti bisogna allora adoperarsi per migliorare il proprio livello di coerenza. (LP: VI; FR: B)

Meglio la terapia individuale o di gruppo? Alcuni studi dimostrano come l’intervento psico-educazionale individuale o di

counseling risulti debole in termine di efficienza richiedendo risorse eccessive. La terapia di gruppo (cognitivo-comportamentale finalizzata alla modifica degli stili di vita) sembra più efficace rispetto al trattamento individuale, specie se associata ad attività fisica. La terapia di gruppo dell’obesità è pertanto da privilegiare specie in ambito pubblico. (LP: III; FR: B)

Quale il tempo pedagogico per il paziente obeso? Il decremento ponderale non può essere considerato l’unico obiettivo del trattamento

dell’obeso. La stabilizzazione del peso nel tempo è vincolata all’apprendimento pedagogico dell’autogestione della patologia. Per insegnare al paziente è necessario adeguare ed affinare le tecniche di comunicazione (spesso inadeguate). Il personale sanitario tende a sovrastimare le capacità cognitive dei pazienti. Un paziente con patologia cronica, specie se over 65 riduce sensibilmente il livello di comprensione alla lettura; ciò significa che il linguaggio da utilizzare deve essere preliminarmente testato. Da tenere presenti le comuni barriere all’apprendimento: rabbia, negazione, paura, ansietà, credenze sulla salute, età, limitazioni cognitive, differenze di linguaggio, disabilità fisiche, dolore, pratiche religiose, comorbosità, disponibilità economica, distanza dal centro clinico. Altro fattore rilevante nel caso di obesità complicata è l’aderenza terapeutica, inversamente proporzionale all’entità della modifica del proprio stile di vita. I medici di medicina generale utilizzano insufficientemente analisi sistematiche sullo stile di vita nei loro pazienti: non più del 30% motiva il paziente obeso alla perdita di peso. Sono molto scarse le evidenze relative agli effetti di sollecitazioni da parte di società scientifiche e/o istituzioni per lo screening dell’obesità. Un counseling adeguato migliora la perdita di peso nel lungo termine in almeno ⅓ dei pazienti. Il tempo pedagogico per il paziente obeso deve essere pertanto stimato nell’ordine di qualche anno da inserire nella strategia terapeutica. (LP: III; FR: A)

Come valutare il gradimento del paziente? Il rilevamento della qualità percepita (gradimento al trattamento da parte del paziente)

è una componente fondamentale della qualità della prestazione erogata. Il miglioramento della qualità della vita dell’obeso diventa uno degli obiettivi prioritari del trattamento e deve essere adeguatamente monitorata. Questi due aspetti (gradimento del trattamento e qualità della vita) sono tra loro strettamente correlati. Si raccomanda di predisporre una rilevazione sistematica del gradimento al trattamento, con campionamento e frequenza adeguate, fondamentale per il miglioramento professionale continuo. (LP: V; FR: A)

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Atti del Corso Clinico “La Nutrizione nella Donna: dall’Infanzia alla Senilità” 69

Modificazioni dello Stile di Vita A. Dieta

Un contributo sostanziale all’Epidemia di Obesità e Sovrappeso nei Paesi occidentali e in quelli in via di sviluppo è stato dato dall’incremento nei consumi di alimenti ad alta densità energetica ma di basso valore nutrizionale (alimenti con grasso visibile, soft drinks con dolcificanti calorici, prodotti da forno, snacks, dolciumi, etc.), cui va aggiunta la notevole contrazione dell’esercizio fisico regolare sia durante il lavoro che nel tempo libero e negli spostamenti dalla propria residenza. La terapia dell’Obesità e Sovrappeso va pertanto indirizzata alla correzione di abitudini alimentari errate ed alla ripresa di un’attività fisica compatibile con le condizioni cliniche attuali del paziente: in altre parole spesso occorre instaurare un programma di riabilitazione fisica e nutrizionale. Tale intervento integrato, se adeguato, non è solo correttivo ma potenzia l’efficacia delle singole componenti, essendo ben nota la interazione tra tipo di alimentazione e tipo di esercizio muscolare praticato, ed ottimizza l’impiego dei farmaci necessari per le eventuali associazioni morbose.

L’intervento di correzione dell’obesità in assenza di altre specifiche indicazioni terapeutiche, deve mirare alla riduzione di circa il 10% del peso iniziale, soprattutto nel caso di sovrappeso o di obesità di I o II grado, in un tempo ragionevole, da 4 a 6 mesi. Solo in caso di obesità di III grado la necessità della riduzione di peso iniziale risulta essere superiore a questa quota convenzionale del 10%. In sostanza è stato possibile osservare che la stabile perdita del 10 % del peso corporeo iniziale, ottenuta con perdita prevalente di tessuto adiposo, è adeguata a correggere la componente morbigena dovuta alla eccessiva adiposità.

Ogni intervento dietetico, praticato sia nell’ambito delle Istituzioni pubbliche che private, non dovrebbe mai tralasciare una componente di semplice ma completa informazione ed educazione alimentare. Solo in caso di un evidente sospetto di disturbo della condotta alimentare correlabile ad un disturbo della personalità vi è l’indicazione ad un intervento clinico-diagnostico di tipo psicoterapico.

Carboidrati I carboidrati dovrebbero rappresentare il 55% dell’energia totale della dieta,

preferendo il consumo di alimenti ricchi in fibra o contenenti amidi a lento assorbimento, mentre deve essere contenuta la quota di energia derivante da zuccheri semplici. (LP: I; FR: A)

I cereali, la frutta ed i vegetali sono componenti importanti di una dieta sana e devono essere compresi nella dieta dei pazienti con obesità. (LP: III; FR: A)

Al momento non esistono evidenze per suggerire diete a basso contenuto di carboidrati (con restrizione al di sotto dei 120-130 g/die) nei pazienti con obesità. (LP: II; FR: D)

Il livello di zuccheri semplici nella dieta non dovrebbe superare il 10-12% dell’energia giornaliera, favorendo il consumo degli alimenti che ne contengono naturalmente (frutta e verdure) e limitando il consumo di saccarosio aggiunto. (LP: I; FR: A)

Indice glicemico L’indice glicemico di un alimento indica la velocità con cui aumenta la glicemia in

seguito all’assunzione di un quantitativo di alimento contenente 50 g di carboidrati. La velocità si esprime in percentuali, prendendo il glucosio come punto di riferimento (100%). Questo dato è influenzato in primo luogo dalla qualità dei carboidrati (quanto più sono

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semplici, tanto più l’indice glicemico aumenta) e delle caratteristiche del pasto come la cottura dei cibi, la presenza di fibre e le interazioni con grassi e proteine. L’indice glicemico deve essere considerato nella scelta degli alimenti da introdurre nella dieta quotidiana. In particolare gli alimenti con basso indice glicemico sono preferibili per il mantenimento del peso dopo una dieta ipocalorica. (LP: I; FR: A)

Proteine L’apporto proteico giornaliero raccomandato nell’adulto dovrebbe essere di 0,8-1,0

g/kg peso desiderabile (per peso desiderabile si intende un peso corrispondente ad un BMI di 22.5 kg/m2). Per l’età evolutiva ci si dovrà riferire alle raccomandazioni presenti nei LARN. (LP: I; FR: A)

Le proteine devono essere di buon valore biologico e provenire da fonti proteiche sia animali che vegetali. (LP: I; FR: A)

Grassi Una dieta equilibrata dovrebbe contenere una quota lipidica non superiore al 30%

dell’introito calorico giornaliero con un apporto ottimale pari al 10% in MUFA, 10% PUFA, 10% ac. grassi saturi. (LP: I; FR: B)

L’apporto giornaliero di colesterolo non deve superare i 300 mg/die nell’adulto e 100 mg/1000 kcal in tutta l’età evolutiva. (LP: I; FR: B)

L’introduzione di almeno 2 porzioni alla settimana di pesce deve essere raccomandata, poiché fornisce acidi grassi n-3 polinsaturi con effetti benefici sulla prevenzione del rischio cardiovascolare. (LP: II; FR: B)

L’uso di acidi grassi trans deve essere drasticamente ridotto perché associato ad aumento del peso corporeo, della circonferenza vita e del BMI in studi di popolazione Si raccomanda di non superare i 2,5 g/die di acidi grassi trans perché in relazione ad un aumento del rischio cardiovascolare. (LP: II; FR: B)

Fibre Le fibre alimentari esercitano effetti di tipo funzionale e metabolico. Oltre che

all’aumento del senso di sazietà ed al miglioramento della funzionalità intestinale e dei disturbi ad essa associati, l’introduzione di fibra con gli alimenti riduce il rischio di importanti malattie cronico-degenerative (diabete, malattie cardiovascolari) e di alcuni tumori del tratto gastrointestinale. Nell’adulto si considera ottimale un’introduzione di almeno 30 g/die e l’aggiunta di fibre vegetali durante la restrizione calorica è risultata efficace anche per il miglioramento di parametri metabolici. Un livello di assunzione di fibra auspicabile in età pediatrica può essere calcolato nell’intervallo compreso tra il valore (in g/die) compreso tra l’età anagrafica in anni maggiorata di 5 e l’età anagrafica maggiorata di 10; in alternativa si può raccomandare un apporto di fibra pari a 0,5 g/die/kg di peso corporeo. (LP: I; FR: A)

Alcol L’alcol, per le sue caratteristiche metaboliche, poiché fornisce energia di pronta

disponibilità va sconsigliato nella fase di dimagramento, perché limita l’utilizzazione di altri nutrienti e non ha potere saziante. (LP: I; FR: B) Potrà essere eventualmente re-introdotto nella cosiddetta “dieta di mantenimento” quando il paziente ha raggiunto il peso ritenuto adeguato e va consumato in dosi limitate e nel contesto dell’apporto calorico giornaliero prescritto.

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Bevande zuccherate L’assunzione di bevande zuccherate è sconsigliata, in quanto oltre l’apporto calorico

aggiuntivo esse influenzano sfavorevolmente sia la sazietà immediata (satiety) che la “satiation” (sensazione di sazietà a distanza, fino al pasto successivo). Il paziente va pertanto informato dei possibili effetti negativi sul peso corporeo e sul potere saziante. Il consumo delle bevande zuccherate va tenuto sotto controllo in età pediatrica, dato che esse rappresentano nel bambino e nell’adolescente una fonte di calorie “vuote” particolarmente sottovalutata sia del soggetto che dalla famiglia. (LP: I; FR: A)

Saccarosio e altri zuccheri aggiunti Se assunti, gli alimenti contenenti saccarosio e altri zuccheri aggiunti devono

sostituirne altri contenenti carboidrati, in modo da non superare l’apporto calorico complessivo previsto nell’arco della giornata. L’eccessivo consumo abituale di saccarosio e altri zuccheri aggiunti può comportare incremento ponderale, insulino-resistenza ed ipertrigliceridemia. (LP: I; FR: A)

Alimenti speciali, integratori nutrizionali, dolcif icanti acalorici Non vi è di norma una particolare indicazione all’uso di alimenti speciali, precotti o

preconfezionati con apporto calorico predeterminato. Lo stesso vale per supplementi vitaminici e minerali, da considerare solo se il paziente riferisce una anamnesi alimentare precedente alla dieta con chiare evidenze carenziali. Controverso è l’uso dei dolcificanti acalorici perché ovviamente limitano sia la “satiety” che la “satiation”.

Dieta mediterranea La Dieta Mediterranea non è correlata ad un aumento del rischio del sovrappeso e

dell’obesità e potrebbe avere un ruolo nella prevenzione di entrambi, visto che alcuni meccanismi fisiologici potrebbero spiegare questo ruolo protettivo. Saranno tuttavia necessari studi di intervento a lungo termine per dimostrare l’efficacia della Dieta Mediterranea sia per la promozione che per la prevenzione del sovrappeso e dell’obesità. (LP: I; FR: B)

Il maggior livello di adesione alla Dieta Mediterranea ha effetti favorevoli sulla mortalità cardiovascolare, per cancro e sull’incidenza su malattia di Parkinson ed Alzheimer, quindi potrebbe avere un ruolo protettivo nella prevenzione primaria delle malattie cronico-degenerative. (LP: I; FR: B)

B. Esercizio fisico Esercizio fisico e salute globale

Le persone che svolgono più attività fisica hanno una ridotta incidenza di mortalità da tutte le cause: cardiopatia ischemica, ipertensione arteriosa, vasculopatia cerebrale, diabete mellito, sindrome metabolica, cancro del colon e della mammella e depressione. Hanno inoltre una migliore capacità cardiorespiratoria e muscolare, oltre a una composizione corporea ed un profilo biochimico più favorevole in termini di prevenzione cardiovascolare, del diabete e delle patologie ossee. (LP: I)

Per i suoi effetti favorevoli sulla salute globale la pratica regolare di attività fisica è indicata anche negli individui con obesità o sovrappeso, indipendentemente dall’effetto sul peso. (LP: I; FR: A)

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In una persona adulta sono raccomandati almeno 150 minuti a settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata, oppure almeno 75 minuti di attività fisica aerobica di intensità vigorosa o una combinazione equivalente di attività fisica aerobica moderata e vigorosa. L’attività aerobica deve essere svolta in periodi della durata di almeno 10 minuti. (LP: I; FR: A)

Per ulteriori benefici sulla salute una persona adulta può aumentare l’attività fisica aerobica di intensità moderata a 300 minuti a settimana, oppure 150 minuti di attività fisica aerobica di intensità vigorosa o una combinazione equivalente di attività fisica aerobica moderata e vigorosa. Attività di forza, che coinvolgono i principali gruppi muscolari, dovrebbero essere intraprese almeno due giorni a settimana. (FR: B)

Le persone inattive avranno benefici dal passaggio dalla categoria “nessuna attività” a quella “qualche livello di attività”. Le persone che non raggiungono i livelli suggeriti dovreb-bero aumentare la durata, la frequenza e infine l’intensità per raggiungere le raccomandazioni delle linee guida. (LP: I; FR: A)

Esercizio fisico e prevenzione dell’incremento ponderale La pratica regolare di attività fisica è un fattore protettivo da incremento ponderale e

obesità mentre uno stile di vita sedentario è un fattore promotore. (LP: I) Per la prevenzione di un incremento ponderale significativo (incremento superiore al

3% del peso corporeo) in una persona adulta sono raccomandati 150-250 minuti a settimana di attività fisica aerobica di intensità moderata (corrispondenti ad un dispendio energetico di 1200-2000 kcal). (LP: I; FR: A)

Esercizio fisico e trattamento di sovrappeso e obesità Esiste un effetto dose-risposta tra la durata dell’esercizio fisico e la riduzione del peso

corporeo. (LP: III) Con meno di 150 minuti a settimana di esercizio fisico aerobico di intensità moderata

in genere la riduzione ponderale è minima; con 150-250 minuti a settimana la riduzione è modesta (2,3 kg in 6-12 mesi), con 250-400 minuti a settimana la riduzione è di circa 5,0-7,5 kg in 6-12 mesi. (LP: II; FR: A)

L’attività fisica associata a restrizione calorica aumenta significativamente la perdita di peso. (LP: I)

L’attività contro resistenza, associata o meno a restrizione calorica, non è efficace per la riduzione ponderale. (LP: I)

La persona con sovrappeso ed obesità richiede un’attenta valutazione cardio-pneumologica ed ortopedica prima e durante l’esecuzione del programma di esercizio fisico.

Esercizio fisico e prevenzione del recupero ponderale Dopo un calo ponderale significativo i livelli di attività fisica sono il miglior predittore

del mantenimento del peso. (LP: I) Per prevenire il reincremento ponderale sono necessari almeno 200 minuti a settimana di attività fisica di intensità moderata. (LP: III; FR: A)

Maggiore è il livello di attività fisica praticata, minore è il recupero ponderale. (LP: II)

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C. Educazione terapeutica L’educazione terapeutica (WHO 1998) deve permettere al paziente di acquisire e

mantenere le capacità che gli permettono di realizzare una gestione ottimale della propria vita con la malattia. Essa costituisce un momento indispensabile nella gestione del paziente cronico. Il suo scopo è quello di implementare le conoscenze sulla malattia e sulla sua gestione e di modificare comportamenti ad essa correlati per ottenere una migliore gestione della stessa, inoltre l’educazione permette di cogliere e gestire gli aspetti psicologici correlati con la malattia stessa e quindi, accanto al ruolo di informazione sulla gestione pratica della patologia, l’educazione si propone di contribuire a migliorare la qualità della vita.

Tecniche di terapia comportamentale associate a modificazione dello stile di vita sono più efficaci nel trattamento dei pazienti obesi rispetto al solo intervento sullo stile di vita. (LP:

I; FR: A) L’educazione terapeutica nel trattamento a breve-medio termine dell’obesità è più

efficace se pianificata ed organizzata per piccoli gruppi di pazienti. (LP: I; FR: A) L’educazione terapeutica dell’obesità va garantita, all’interno del team, da parte delle

diverse figure professionali (medico, infermiere, dietista, educatore sociosanitario, psichiatra, psicologo, laureato in scienze motorie) specificamente qualificate sulla base di una formazione professionale continua all’attività educativa. (LP: I; FR: A)

La motivazione è fondamentale per ottenere l’aderenza terapeutica e una perdita stabile di peso. (LP: I; FR: A)

Terapia Farmacologica

Negli ultimi 25 anni sono stati studiati per il trattamento dell’obesità più di 120 farmaci. Solo un farmaco (Orlistat) negli USA e Italia è approvato per la terapia a lungo termine. Gli altri farmaci studiati per un trattamento a lungo termine (sibutramina e rimonabant) sono stati sospesi dal mercato per problemi di sicurezza.

Indicazioni generali alla terapia farmacologica e inizio della terapia In Italia il trattamento farmacologico è riservato ai soli soggetti adulti, mentre negli

USA vi è indicazione al trattamento dei soggetti sopra i 12 anni di età con Orlistat. Il trattamento farmacologico dovrebbe essere preso in considerazione solo dopo che è

stata valutata l’efficacia della dieta, dell’esercizio fisico e, dove indicato, della terapia cognitivo-comportamentale e tali approcci terapeutici si siano dimostrati inefficaci o nell’indurre perdita di peso o nel mantenimento del peso perso. (LP: II; FR: B)

La decisione di iniziare il trattamento e la scelta del farmaco (quando fosse possibile) dovrebbero avvenire dopo discussione con il paziente sia dei potenziali benefici che dei limiti del farmaco, inclusi il suo meccanismo d’azione, gli effetti collaterali e il potenziale impatto sulla motivazione del paziente stesso. Quando si prescrive il trattamento farmacologico, il medico specialista dovrebbe fornire informazioni, supporto e counselling sulla dieta, l’attività fisica e le strategie comportamentali da adottare. (LP: I; FR: A)

Prosecuzione della terapia e sospensione del farmaco Il trattamento farmacologico può essere indicato al fine di mantenere la perdita di

peso, piuttosto che per indurre un’ulteriore perdita del peso (terapia ciclica). (LP: II; FR: C)

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Dove esistessero preoccupazioni per l’adeguato apporto di micronutrienti, si dovrebbe considerare l’opportunità di supplementare il paziente con vitamine e minerali, particolarmente per i gruppi di pazienti più vulnerabili (anziani e i giovani). (LP: II; FR: C)

Si raccomanda un regolare controllo del trattamento per monitorare l’effetto del farmaco e per rinforzare i consigli nutrizionali e l’aderenza a corretti stili di vita. (LP: I; FR: A)

La sospensione del trattamento farmacologico dovrebbe essere presa in considerazione in pazienti che non perdono peso. (LP: II; FR: C)

La velocità della perdita del peso può essere più lenta nei pazienti affetti da diabete di tipo 2. (LP: I; FR: A)

Quindi, in questi pazienti gli obiettivi della terapia possono essere meno rigidi rispetto ai pazienti non diabetici. Tali obiettivi dovrebbero essere concordati con il paziente e riconsiderati regolarmente. I pazienti a cui il trattamento farmacologico viene sospeso dovrebbero essere supportati in modo adeguato al mantenimento del peso perso. (LP: I; FR: A)

Chirurgia Bariatrica

La chirurgia bariatrica deve essere presa in considerazione come opzione terapeutica nei pazienti adulti (età 18-60 anni) con obesità severa (BMI> 40 kg/m2 o BMI>35 kg/m2 se in presenza di comorbosità associata) in cui precedenti tentativi di perdere peso e/o di mantenere la perdita di peso siano falliti e in cui via sia disponibilità ad un prolungato follow-up postoperatorio. (LP: II; FR: A)

La chirurgia bariatrica è da considerasi controindicata nei pazienti che presentino una delle seguenti condizioni: assenza di un periodo di trattamento medico verificabile, incapacità a partecipare ad un prolungato protocollo di follow-up, patologia psichiatrica maggiore, alcolismo e tossicodipendenza, ridotta spettanza di vita, inabilità a prendersi cura di se stessi in assenza di un adeguato supporto familiare e sociale. (LP: VI; FR: A)

La chirurgia bariatrica deve essere eseguita in strutture dedicate che posseggano le competenze ed i requisiti necessari: equipe multidisciplinare dedicata, personale medico e paramedico con competenze culturali e tecniche specifiche, capacità di inquadramento clinico diagnostico e selezione dei malati secondo criteri di appropriatezza, minimo programma operatorio garantito, attrezzature tecniche adeguate all’assistenza del paziente con grave obesità assistenza post-operatoria adeguata, capacità di gestione delle complicanze precoci e tardive. (LP: VI; FR: A)

La valutazione preoperatoria del paziente candidato a chirurgia bariatrica, oltre alla valutazione standard prevista per qualsiasi tipo di intervento chirurgico, deve indagare le ulteriori seguenti aree: endocrinologica, diabetologia, cardiovascolare, respiratoria, gastro-enterologica, psicologico-psichiatrica, dietetico-nutrizionale. (LP: V e VI; FR: A)

La riduzione dei rischi operatori si può massimizzare mediante una ottimizzazione del controllo delle complicanze e l’attuazione di una adeguata profilassi trombo-embolica ed antibiotica. (LP I e VI; FR: A)

Gli interventi chirurgici attualmente suffragati da dati di letteratura comprendenti casistiche sufficientemente ampie e con follow-up adeguatamente prolungato sono i seguenti:

1. Interventi che limitano l’introduzione del cibo:

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a) ad azione prevalentemente meccanica (interventi restrittivi): - bendaggio gastrico regolabile; - gastroplastica verticale; - sleeve gastrectomy;

b) ad azione prevalentemente funzionale: - bypass gastrico e varianti.

2. Interventi che limitano l’assorbimento dell’energia: - diversione biliopancreatica sec. Scopinaro - duodenal switch. (LP: V; FR: B)

L’approccio laparoscopico deve essere considerato di prima scelta in chirurgia bariatrica in quanto vantaggioso rispetto a quello open in termini di miglior decorso postoperatorio e di riduzione delle complicanze. (LP: I; FR: A)

Non abbiamo al momento dati basati sull’evidenza tali da permettere di avviare ogni singolo paziente ad una particolare procedura bariatrica. I fattori che possono risultare utili per la scelta dell’intervento sono relativi al paziente (età, sesso; sovrappeso e distribuzione del grasso; composizione del corpo e consumo energetico; complicanze e condizioni morbose associate con particolare riferimento al diabete tipo 2; spettanza e qualità di vita; livello socio-economico e culturale; motivazione e capacità collaborativa; supporto familiare ed ambientale e distanza geografica dal luogo di cura), alla metodica (esecuzione tecnica; risultati; complicanze specifiche, immediate e tardive) ed al chirurgo (capacità tecnica; cultura ed esperienza, generica e specifica; struttura e sistema sanitario). (LP: VI; FR: B)

Un percorso di follow-up appropriato deve essere offerto (per tutta la vita) a tutti i pazienti operati da parte del team interdisciplinare del centro di chirurgia bariatrica di riferimento. Il follow-up deve comprendere la diagnosi ed il trattamento di tutti gli eventi, non necessariamente chirurgici, a breve ed a lungo termine, specificamente legati all’intervento, così come la gestione delle comorbosità e delle complicanze. (LP: VI; FR: A)

Riabilitazione Metabolica-Nutrizionale-Psicologica

La logica, i tempi ed i modi della medicina riabilitativa ben si applicano alla storia naturale dell’obesità caratterizzata da comorbosità, cronicità e disabilità con gravi ripercussioni sulla qualità di vita. (LP: I; FR: A)

La Riabilitazione Metabolica-Nutrizionale-Psicologica rappresenta un approccio all’obesità in presenza di grave malnutrizione per eccesso, nelle fasi di instabilità e scompenso delle comorbosità somatiche e psichiatriche, laddove il livello di disabilità è elevato e la qualità di vita è penalizzata. (LP: VI; FR: A)

La riabilitazione metabolico-nutrizionale-psicologica fa parte della rete assistenziale del paziente obeso con servizi/strutture semiresidenziali o residenziali. (LP: VI; FR: A)

Nella fase diagnostica del paziente obeso, è necessario effettuare una valutazione di: qualità di vita, disabilità, funzionalità motoria (forza muscolare, equilibrio, tolleranza allo sforzo) e problematiche osteoarticolari (dolore, limitazioni articolari). (LP: III; FR: A)

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Il percorso terapeutico-riabilitativo del paziente obeso deve essere caratterizzato dalla integrazione di interventi nutrizionali, riabilitativi (recupero e rieducazione funzionale, ricondizionamento fisico allo sforzo, attività fisica adattata), psico-educazionali (educazione terapeutica e interventi psicoterapeutici focalizzati) e di nursing riabilitativo. (LP: IV; FR: A)

L’intensità dell’intervento riabilitativo deve essere funzione del livello di gravità e comorbosità, della fragilità dello status psichico, del grado di disabilità e della qualità di vita del paziente. (LP: VI; FR: A)

Ruolo essenziale può svolgere il percorso riabilitativo nella preparazione dei pazienti candidati alla chirurgia bariatrica o plastico-ricostruttiva e nel follow-up degli stessi al fine di ridurre i rischi peri-operatori e di migliorare l’esito complessivo (calo ponderale, miglioramento delle eventuali patologie somatiche e psichiatriche associate e della qualità di vita), soprattutto a lungo termine. (LP: III; FR: A)

L’accesso al percorso di riabilitazione intensiva deve poter avvenire anche in assenza di un episodio acuto in base agli indici di disabilità e di appropriatezza clinica per il trattamento riabilitativo, specifici per il soggetto obeso. (LP: III; FR: A)

Disturbi dell’Alimentazione Classificazione e diagnosi

Lo studio del comportamento alimentare e il riconoscimento diagnostico dei suoi eventuali disturbi rappresentano una tappa essenziale nel processo di valutazione di un soggetto obeso. (LP: I; FR: A)

Il Binge Eating Disorder (BED), disturbo da alimentazione incontrollata, è da oltre 20 anni oggetto di particolare interesse. Il riconoscimento di questo disturbo dell’alimentazione in un soggetto obeso è importante sia per il trattamento medico che per quello chirurgico dell’obesità. (LP: I; FR: A)

Le condizioni psicopatologiche degli individui con obesità BED risultano in media più compromesse di quelle degli individui con obesità non-BED tanto da indurre a ritenere il BED soprattutto un marker di psicopatologia. Nell’obesità BED, una consulenza psicologico-psichiatrica è in genere necessaria. (LP: I; FR: A)

La descrizione dei comportamenti alimentari disturbati che si possono associare all’obesità comprende oltre al BED altri quadri, che sono stati descritti da tempo ma che non hanno lo statuto nosologico di sindromi autonome nelle classificazioni correnti. Meritano attenzione particolare in sede di valutazione: iperfagia, bramosie selettive (dolci, cioccolata etc.), piluccamento, mangiare per emozioni, mangiare di notte. (LP: I; FR: A)

Questionari autosomministrati e interviste semistrutturate possono essere di grande aiuto nella valutazione iniziale dei disturbi dell’alimentazione associati a obesità nell’analisi del decorso e negli studi di esito dei trattamenti. (LP: I, FR: A)

Trattamento Il riconoscimento e la cura dei disturbi del comportamento alimentare è parte

integrante del trattamento dell’obesità condotto secondo un modello multidimensionale, interdisciplinare, multiprofessionale. (LP: I; FR: A)

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Il trattamento del BED è fondamentalmente psicoterapeutico e deve tener conto della comorbosità psichiatrica, importante e frequente. (LP: I; FR: B)

Vari farmaci possono essere d’aiuto nella cura del BED. (LP: I; FR: A) Le cure farmacologiche e psicologiche del BED, anche quando hanno successo, non

comportano in genere cali ponderali significativi. È necessario associare un programma di cura dell’eccesso ponderale attraverso dieta, esercizio fisico e cambiamenti stabili dello stile di vita. (LP: I; FR: A)

Il BED non rappresenta una controindicazione assoluta a molti interventi di chirurgia bariatrica ma è un motivo di cautela per la frequente comorbosità psichiatrica. È comunque opportuno un trattamento preoperatorio e un accurato follow-up psichiatrico postoperatorio. (LP: IV; FR: B)

Il trattamento della Night Eating Syndrome è incerto per la definizione (controversa) dei criteri diagnostici. Alcuni farmaci (sertralina) possono essere d’aiuto. (LP: VI; FR: B)

Obesità in Gravidanza Gravidanza

L’informazione, a tutte le donne in età fertile con BMI ≥ 30, relativa ai rischi connessi ad una gravidanza ed il supporto nel percorso della perdita di peso prima di intraprendere la gravidanza risulta essere efficace se pianificata da team costituiti da Medici di Medicina Generale, da Ginecologi operanti presso i Consultori Familiari e dagli altri Servizi di Pianificazione Familiare. (LP: II; FR: B)

L’assunzione di acido folico (5 mg/die) almeno 1 mese prima del concepimento e per tutto il primo trimestre di gravidanza in donne obese che vogliono intraprendere una gravidanza è risultata efficace nella riduzione del rischio di malformazioni del tubo neurale. L’uso in fase preconcepimento di acido folico nelle donne gravide obese è risultato efficace nel ridurre il rischio di malformazioni del tubo neurale in maniera efficace. (LP: I; FR: A)

L’assunzione, durante tutta la gravidanza e l’allattamento, di Vitamina D (10 µg) è consigliata poiché le donne con BMI maggiore di 30 sono a maggior rischio di deficit di Vitamina D rispetto alle donne normopeso. (LP: II; FR: B)

Il follow-up durante tutta la gravidanza complicata da obesità da parte di una equipe multidisciplinare di cura che comprenda oltre al medico internista o all’endocrinologo ed al ginecologo, un infermiere esperto, una ostetrica, un dietista e altre figure professionali richieste dalla situazione specifica è consigliato per la riduzione delle complicanze materne e fetali legate a tale condizione. (LP: II; FR: A)

Durante tutta la gravidanza vanno monitorati il peso, il BMI, la circonferenza vita e la PAO. Le donne obese hanno un rischio aumentato di ipertensione, preeclampsia ed eclampsia, perciò oltre ad un attento e frequente monitoraggio dei valori pressori è consigliabile anche la valutazione della proteinuria, della funzionalità renale ed epatica nel secondo trimestre di gravidanza, da ripetere successivamente, secondo necessità. (LP: II; FR: A)

Visto il rischio di complicanze fetali tali donne devono essere monitorate strettamente per la valutazione della crescita e del benessere fetale. (LP: II; FR: A)

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L’obesità materna è associata ad in rischio elevato di tromboembolismo sia durante che dopo la gravidanza come evidenziato da una serie di studi di coorte. Inoltre, se tali donne presentano due fattori di rischio per tromboembolismo deve essere presa in considerazione la profilassi con eparina a basso peso molecolare, tale profilassi dovrebbe continuare anche 6 settimane dopo il parto. (LP: II; FR: B)

Terapia nutrizionale In gravidanza i fabbisogni nutrizionali adeguati che consentono un corretto incremento

ponderale ed una adeguata nutrizione materna e fetale sono quelli riportati dai LARN. L’incremento ponderale raccomandato per il benessere materno e fetale, è quello consigliato dalle linee guida dell’IOM (Institute of Medicine), fatte proprie anche da una serie di Istituzioni Internazionali e Nazionali. (LP: III; FR: B)

Interventi strutturati che contemplino schemi alimentari personalizzati associati ad una moderata attività fisica si sono mostrati efficaci nel prevenire incrementi di peso eccessivi in gravida obese. (LP: II; FR: B)

Post-Parto Studi randomizzati controllati hanno evidenziato che un approccio educativo

strutturato che incoraggi le donne obese ad allattare al seno migliora la lattazione, sia in termini di inizio che di durata. (LP: I; FR: A)

Il monitoraggio medico e nutrizionale per il raggiungimento del peso “accettabile” dopo la gravidanza e l’approccio educativo strutturato che incoraggi le adeguate modifiche dello stile di vita ed una moderata e costante attività fisica sono risultati efficaci nella riduzione del peso corporeo dopo il parto rispetto ad approcci non strutturati. (LP: I; FR: A)

La rivalutazione nelle donne obese con diabete gestazionale della tolleranza ai carboidrati dopo il parto è ritenuta utile nella riduzione del rischio di diabete tipo 2 nelle stesse. (LP: I; FR: A)

Studi osservazionali e di coorte hanno infatti evidenziato che le donne obese con diabete gestazionale hanno un rischio più elevato di sviluppare diabete tipo 2 dopo il parto rispetto a donne in normopeso. Si raccomanda l’esecuzione di un OGTT (2 ore-75 grammi) a distanza di 6-12 settimane dal parto. (LP: I; FR: A) Obesità Pediatrica

L’obesità ha un’elevata prevalenza nel bambino e ha mostrato un costante incremento negli ultimi decenni, nonostante qualche recente segnale di stabilizzazione in vari paesi industrializzati tra i quali l’Italia. Il bambino obeso presenta frequentemente fattori di rischio metabolici e non metabolici, fino a manifestare morbilità conclamata per ipertensione, dislipidemia, intolleranza al glucosio, disturbi del comportamento alimentare, ecc. ed una spettanza di vita inferiore a quella del bambino non obeso. Inoltre, l’obesità insorta in età evolutiva tende a persistere (40-80% di probabilità) anche in età adulta. Queste evidenze suggeriscono l’importanza e l’urgenza di riconoscere precocemente sovrappeso ed obesità nell’infanzia, di trattare l’eccesso ponderale e le sue complicanze, ed attuare interventi preventivi sulla popolazione generale e sui soggetti a maggior rischio.

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Terapia Lo scopo primario del trattamento dell’obesità è il miglioramento a lungo termine

della salute fisica attraverso stili di vita corretti. Questo di per sé permette di migliorare il peso in una parte dei pazienti, in altri è necessario introdurre ulteriori strategie di modificazione comportamentale per promuovere un bilancio energetico negativo. A tale scopo è necessario il coinvolgimento attivo dell’intero nucleo familiare. (LP: I; FR: A)

Nel caso siano presenti complicanze dell’obesità la loro risoluzione o quantomeno il loro trattamento è obiettivo prioritario. (LP: VI; FR: A)

La salute psicologica (autostima, attitudini corrette verso il cibo e il proprio corpo) e il miglioramento della qualità della vita sono parimenti cruciali negli obiettivi del trattamento. (LP: I; FR: A)

In tutti i bambini/adolescenti con eccesso ponderale, senza complicanze, è indicata una riduzione del sovrappeso che, grazie alla crescita staturale, non implica necessariamente un calo ponderale, possibilmente fino ad ottenere il rientro del BMI nell’intervallo di normalità. (LP: VI; FR: A)

In tutti i bambini/adolescenti con eccesso ponderale e complicanze, è necessario promuovere la risoluzione o quantomeno il miglioramento delle complicanze principalmente attraverso il calo ponderale, e possibilmente fino ad ottenere il rientro del BMI nell’intervallo di normalità. (LP: VI; FR: A)

Il percorso terapeutico deve prevedere la presa in carico del soggetto da parte di un centro specialistico e prevedere un percorso multidisciplinare di cambiamento di abitudini alimentari e stili di vita su obiettivi semplici e modificabili ad ogni controllo. Frequenza delle visite di controllo: andrebbero programmate mensilmente e comunque con intervalli non superiori a 2 mesi.

Nutrizione L’intervento di terapia nutrizionale prevede un percorso di educazione alimentare.

Questo comporta preliminarmente una valutazione critica delle abitudini alimentari della famiglia attraverso un’anamnesi alimentare accurata (composizione dei pasti, frequenza e modalità di assunzione dei cibi, preferenze alimentari, ecc), con particolare attenzione a condimenti, metodi di cottura e porzioni. È inoltre consigliato l’utilizzo di un diario alimentare compilato dal paziente e/o dai genitori (o da chi accudisce il bambino) e valutato da un dietista. (LP: VI; FR: A)

Uno degli obiettivi è la suddivisione dell’apporto calorico giornaliero in almeno 5 pasti nella giornata (3 pasti principali + 2 spuntini). (LP: I; FR: A)

È consigliato il consumo regolare di una colazione adeguata al mattino. (LP: I; FR: A) L’impiego di diete in generale, soprattutto se sbilanciate è vivamente sconsigliato.

Diete a bassissimo contenuto calorico possono essere prescritte solamente in casi particolari e sotto stretto monitoraggio clinico. (LP: VI; FR: A)

Le strategie consigliate per una restrizione calorica possono essere quelle della limitazione o sostituzione di specifici alimenti ipercalorici con altri meno ricchi in calorie. (LP: VI; FR: A)

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La quota proteica totale deve rispettare le raccomandazioni LARN per sesso, età e peso ideale per la statura. Nei 14 pasti principali settimanali sono consigliate le seguenti frequenze di assunzione: carne 3-4 volte/settimana, pesce 3-4 volte/settimana, legumi 3-4 volte/settimana, formaggio e uova 1 volta/settimana. (LP: VI; FR: A)

È opportuno che i carboidrati assunti coprano una quota non inferiore al 50% delle calorie totali, preferendo alimenti a basso indice glicemico (cereali quali pasta, orzo e prodotti di tipo integrale, di cui si consiglia l’assunzione 2 volte al giorno; legumi, frutta e verdura di stagione non passata o frullata, di cui si consiglia l’assunzione di 5 porzioni al giorno) e limitando alimenti che associno un alto indice glicemico ad un elevato carico glicemico (pane, riso, patate, dolci, zucchero, succhi di frutta). (LP: VI; FR: A)

I grassi complessivi della dieta dovrebbero coprire una quota non superiore al 30% delle calorie totali. (LP: I; FR: A)

L’adeguato apporto di fibre in g/die dovrebbe essere compreso tra età del bambino +5 ed età del bambino +10. Si consiglia l’assunzione di 5 porzioni al giorno di frutta e verdura di stagione (non passata o frullata) e di legumi 4 volte alla settimana. (LP: VI; FR: A)

Attività fisica Motivare i genitori a uno stile di vita più attivo. (LP: I; FR: A)

Programmare la riduzione del tempo dedicato ad attività sedentarie, in particolare il tempo di video-esposizione (TV, computer, videogames). (LF: I; FR: A)

Promuovere il gioco attivo, possibilmente all’aria aperta e in gruppo. Promuovere la pratica di un’attività motoria regolare organizzata gradita al bambino, divertente e in cui l’obiettivo principale non è la competizione, ma l’attività fisica. (LP: VI; FR: A)

È consigliato un tipo di esercizio aerobico (nuoto, bicicletta, camminare) da praticare quotidianamente. Si possono anche associare esercizi che stimolano la flessibilità e la forza soprattutto di braccia e tronco, adeguati all’età ed allo stadio dello sviluppo del bambino, con frequenza di 2-3 volte alla settimana. (LP: I; FR: A)

La durata dell’esercizio dovrebbe essere inizialmente di 30 minuti, aumentare con gradualità nelle sedute successive. (LP: VI; FR: A)

Obesità Geriatrica

Obesità e distribuzione regionale del tessuto adiposo in età geriatrica si associano ad aumento della comorbosità del rischio cardiovascolare e della disabilità. (LP: II; FR: B)

L’obesità ha importanti implicazioni funzionali nell’anziano ed esacerba il declino età correlato della funzione fisica. (LP: II; FR: B)

Il decremento ponderale nel soggetto anziano determina miglioramento di outcomes metabolici e funzionali. (LP: I; FR: A)

La modifica dello stile di vita mediante restrizione calorica moderata associata ad esercizio fisico è il trattamento di scelta dell’obesità anche in età geriatrica. Il solo esercizio fisico non assicura significativo calo ponderale nei soggetti anziani. (LP: I; FR: A)

La restrizione calorica nel soggetto anziano deve essere moderata (non superiore a 500 kcal/die), l’alimentazione contenere quantità adeguate di proteine ad elevato valore biologico,

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adeguate quantità di calcio e vitamina D. Diete a contenuto fortemente ipocalorico devono essere evitate. (LP: II; FR: D)

Inquadramento clinico del paziente anziano obeso: BMI e Circonferenza Vita Il BMI è un indice composito basato sul rapporto peso/altezza. Le modificazioni età

correlate della composizione corporea possono inficiare il suo utilizzo negli anziani. L’altezza si riduce con l’età probabilmente per deformazione della colonna vertebrale, con assottigliamento dei dischi intervertebrali e riduzione in altezza dei corpi vertebrali dovuta all’osteoporosi. È stata dimostrata una riduzione cumulativa dell’altezza dall’età di 30 all’età di 70 anni in media di 3 cm negli uomini e 5 cm nelle donne; dall’età di 80 anni la riduzione dell’altezza raggiunge i 5 cm negli uomini e gli 8 cm nelle donne. La riduzione età dipendente dell’altezza può indurre, con l’invecchiamento, falso incremento del BMI di 1,5 kg/m2 negli uomini e 2,5 kg/m2 nelle donne nonostante minime modificazioni del peso corporeo.

Il peso corporeo negli anziani riflette una maggiore quantità di massa grassa totale a causa della perdita età correlata di massa magra. Per determinare più precisamente il grado di massa grassa e per categorizzare meglio l’obesità nell’anziano è stata suggerita la misurazione dei compartimenti del grasso corporeo. Essa tuttavia richiede l’utilizzo di tecniche non sempre disponibili nella pratica clinica e pertanto la determinazione del BMI rimane raccomandata.

Nell’anziano come nell’adulto maturo, la circonferenza della vita è strettamente correlata sia al grasso viscerale che al grasso corporeo totale valutato con tomografia assiale computerizzata. Pertanto per meglio definire l’obesità nell’anziano dovrebbe essere utilizzata la circonferenza della vita, da sola o preferibilmente insieme al BMI. Nei soggetti adulti, il cut-off di circonferenza della vita suggerito per l’identificazione dei soggetti a rischio è di 102 cm per gli uomini e 88 cm per le donne. Questi cut-off necessitano tuttavia di essere testati come predittori di mortalità e morbilità nelle età più avanzate.

Valutazione Multidimensionale del Paziente Adulto Obeso

L’obesità rappresenta una patologia complessa, che necessita di un approccio complesso, multi/interdisciplinare ed adattato alle esigenze del singolo paziente. In base alla fenotipizzazione del paziente dovrà essere individuato un percorso che vedrà impegnato in prima battuta i servizi di cure primarie. Il livello di intervento successivo sarà caratterizzato dall’intervento specialistico ambulatoriale che prevederà il lavoro di un team multidisciplinare (internista, endocrinologo, nutrizionista, psichiatra, psicologo, dietista, fisioterapista, laureato in scienze motorie). A questi potranno affiancarsi altri specialisti per specifiche comorbosità. È pertanto necessaria un’azione di “team building” per effettuare il coordinamento del lavoro. L’intervento specialistico potrà infine realizzarsi, a seconda delle condizioni clinico-funzionali e psicologico-psichiatriche del paziente, a livello semiresidenziale e residenziale, in strutture specializzate. In alcuni casi si potrà far ricorso alla chirurgia bariatrica, sempre nell’ambito di un percorso di presa in carico globale e duratura del paziente.

Bibliografia

Standard Italiani per la Cura dell'Obesità 2012/2013 SIO-ADI http://www.sio-obesita.org/Standard.pdf (Scaricabile da chiunque) http://adiitalia.net/biblioteca.html (Scaricabile solo dai Soci ADI)

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QUALE ATTIVITÀ SPORTIVA NELLA DONNA? DALLA GIOVINEZZA ALL’ETÀ MATURA

Vincenzo Guiducci

S.C. Cardiologia

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

In Italia nel 2009 la popolazione che svolge un qualche tipo di attività sportiva si

aggira intorno al 30%, il 40% si dichiara invece totalmente sedentario. La restante percentuale svolge qualche attività motoria in modo non continuativo.

In particolare le indagini ISTAT rivelano come in Italia le donne risultino più sedentarie degli uomini: 44% delle femmine e 36% dei maschi. Tuttavia le donne svolgono un qualche tipo di attività motoria (non propriamente sportiva) in percentuale maggiore degli uomini: 30% rispetto al 25%.

La sedentarietà aumenta molto nell’età anziana: nelle donne raggiunge il 75%. Inoltre, la pratica sportiva si riduce scendendo da Nord a Sud del nostro paese: il 24% della popolazione del Nord svolge attività sportiva continuativa e solo il 16% al Sud.

La donna in età menopausale risulta sedentaria nel 48% dei casi con valori più bassi al Nord e più elevati al Sud.

L’American College of Sports Medicine suggerisce lo svolgimento di attività sportiva per il mantenimento della performance fisica e del benessere dell’adulto sano specificandone alcuni parametri. Si raccomanda un esercizio fisico aerobico almeno 5 volte settimana se di intensità moderata (per 30-60 min) o 3 volte se di elevata intensità (per 20-60 min).

Si privilegia un tipo di esercizio che sia regolare, continuativo e che coinvolga la maggior parte di gruppi muscolari.

L’allenamento fisico causa un aumento della forza muscolare, tuttavia nella donna l’ipertrofia muscolare è inferiore a quella dell’uomo. La donna adulta può raggiungere al massimo i 2/3 della forza muscolare dell’uomo. Nel sesso femminile vi è una maggior percentuale di massa grassa e minor percentuale di massa magra rispetto al sesso maschile.

Nella donna rispetto all’uomo la gittata sistolica è inferiore (per le ridotte dimensioni della camera cardiaca).

In diversi lavori scientifici è stato dimostrato come l’attività motoria nella donna tanto più è intensa e tanto più si riduce il rischio relativo di sviluppo di malattie dell’apparato cardiovascolare. Lo sport nel sesso femminile è in grado anche di ridurre significativamente l’incidenza di carcinoma della mammella modulando la produzione degli ormoni endogeni, aumentando le difese antiossidanti.

Diversi studi confermano come non vi sia una modificazione sostanziale della prestazione sportiva durante il ciclo mestruale. In particolare la capacità aerobica, la risposta ventilatoria e l’adattamento metabolico all’esercizio fisico non sono condizionati dalla fase del ciclo mestruale.

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Atti del Corso Clinico “La Nutrizione nella Donna: dall’Infanzia alla Senilità” 83

L’attività sportiva intensa (in particolare la danza) associata ad una riduzione del peso corporeo e ad un aumento dello stress psico-fisico può comportare un ritardo della comparsa del menarca in età adolescenziale o favorire una oligo-amenorrea.

La cosiddetta “triade delle atlete” è una sindrome caratterizzata da disturbi dell’alimentazione (anoressia, bulimia), amenorrea con ridotta produzione di estrogeni) ed osteoporosi che facilita le fratture da stress.

Durante la gravidanza, non a rischio, non si deve interrompere l’attività motoria ma adeguarla privilegiando attività aerobica leggera come cammino o bicicletta in pianura o nuoto per circa 20-30 minuti.

Nell’età peri-menopausale l’esercizio fisico è utile per ridurre l’osteoporosi e mantenere la performance atletica. Il carico di lavoro andrebbe applicato in compressione (forza di gravità) ed in trazione (contrazione muscolare), applicato in maniera dinamica intermittente, di breve durata, ma frequente con periodi di riposo tra le sessioni, eseguito ad alta velocità con numerose ripetizioni.

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LA DONNA GRANDE OBESA E LA CHIRURGIA BARIATRICA

Stefano Bonilauri , Ruggero Bollino

S.C. Chirurgia Generale II

Azienda Ospedaliera-IRCCS “Arcispedale Santa Maria Nuova” - Reggio Emilia

L’obesità è una patologia cronica in allarmante aumento, tanto da assumere i caratteri di un’epidemia globale (globesity). Secondo i dati forniti dall’OMS, a livello mondiale al 2008 1,5 miliardi di adulti (età maggiore di 20 anni) erano in sovrappeso. Di questi, 200 milioni di uomini e circa 300 milioni di donne erano obesi. L’obesità è un fattore di rischio per serie condizioni e patologie croniche come le malattie ischemiche del cuore, il diabete tipo 2, l’ictus, l’ipertensione arteriosa, le osteoartriti e diversi tipi di cancro (soprattutto corpo dell’utero, colon e mammella). La condizione di eccesso ponderale causa ogni anno la morte di circa 2,8 milioni di adulti a livello mondiale. In particolare, l’obesità infantile suscita preoccupazione, avendo raggiunto livelli allarmanti: nel 2010, circa 43 milioni di bambini sotto i 5 anni di età sono risultati in sovrappeso. In Europa la prevalenza di obesità si è triplicata dagli anni Ottanta e continua a crescere. Anche nei paesi europei, dove il 25-79% degli adulti risulta, secondo l’ OMS, in sovrappeso ed il 5-30% obeso, a seconda del paese, il rapido incremento della percentuale di obesità a livello infantile risulta drammatico. Il sovrappeso e l’obesità sono responsabili, per la maggior parte, dell’insorgenza di malattie croniche che sono a loro volta responsabili dell’86% dei decessi e del 77% del carico di malattia del continente. Per questi motivi L’OMS ha definito l’obesità come “l’emergenza sanitaria del terzo millennio”. Per studiare l’andamento di questi problemi in età giovanile in Italia nel 2007 il Centro nazionale di prevenzione e controllo delle malattie (Ccm) del Ministero della Salute ha avviato il progetto “Sistema di indagini sui rischi comportamentali in età 6-17 anni” da cui si sono sviluppati: il sistema di monitoraggio “OKkio alla Salute”, lo studio sulle abitudini alimentari “Zoom8” ed il progetto “Hbsc-Italia”. In Italia vi sono attualmente circa 16,5 milioni di soggetti in sovrappeso e circa 5,5 milioni di pazienti obesi (5 milioni con un B.M.I. compreso tra 30 e 40 Kg/m2, 500.000 con un B.M.I. > 40 Kg/m2). Questo si traduce in un impressionante impatto sociale, da una parte per il significativo aumento della morbilità e della mortalità con severe ripercussioni sulla qualità della vita di questi pazienti e dall’altra per il peso drammaticamente rilevante sulla spesa sanitaria. Dai dati dal sistema di monitoraggio “Okkio alla SALUTE”, su bambini di circa 8-9 anni si evince che:

Anno % di bambini sovrappeso

% di bambini obesi

Campione di riferimento (età 8-9)

2008 23,6% 12,3% 45.000

2010 23% 11% 42.000

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• Obesità infantile prevalente al sud rispetto al nord: le regioni con più alta densità sono Campania, Sicilia, Calabria, Molise.

• Obesità più alta fra i maschi: 13,3% nei maschi, 11,3% nelle femmine.

• Obesità più alta con il diminuire del livello di istruzione materna: 7% nei bambini con madri laureate, 15,8% per madri con licenza media o titolo di studio inferiore (relativamente ai dati del 2008). Obesità maggiore per figli di madri che non lavorano.

Dai dati dell’indagine multicentrica internazionale Hbsc 2005/2006 (Health Behaviour

in School-Aged Children). Per la situazione in Italia si evince che: � Obesità: stabile nelle tre età considerate, ovvero 3,6% per gli 11 anni, 2,7% per i 13 anni,

2,7% per i 15 anni. � Sovrappeso: decrescita fra gli 11 ed i 15 anni. � Più obesi e sovrappeso i maschi delle femmine: a 15 anni, 3,5% dei maschi e 2,0% delle

femmine. � Più obesi e sovrappeso al Sud: fra gli 11 ed i 15 anni, si ha il 2,0% al Nord, il 2,3% al

Centro e il 3,9% al Sud. L’obesità è in rapido aumento nelle donne, soprattutto in età fertile, in tutto il mondo.

Negli Stati Uniti la prevalenza delle donne in sovrappeso ed obese nella fascia di età compresa tra i 18 ed i 49 anni è del 44%; uno studio svedese mostra che la frequenza di obesità è aumentata dal 9% nel 1980/1981 al 12% nel 1996/1997 con un aumento proporzionalmente più elevato nella fascia di età 16-44 anni nella quale la prevalenza del sovrappeso è addirittura raddoppiata. Le donne obese, oltre ad avere le complicanze dell’obesità che interessano anche gli uomini, hanno anche alcune problematiche legate all’apparato genitale ed alla funzione riproduttiva. Tali problemi cominciano alla pubertà con la possibile comparsa di amenorrea e infertilità, si manifestano nel corso della vita, compresa la menopausa, con la più elevata frequenza di cancro dell’endometrio e della mammella e si verificano anche durante la gravidanza che può essere complicata da ipertensione, diabete gestazionale (GDM) ed outcome fetale negativo.

La Chirurgia Bariatrica ebbe origine nel 1953 con un bypass digiuno-ileale effettuato dal chirurgo americano Varco e con una resezione ileale realizzata dallo svedese Henriksson, interventi eseguiti per ottenere un calo ponderale. A causa delle complicanze associate all’intervento originale di bypass digiunoileale quali diarrea, squilibri elettrolitici, gas-bloat syndrome, nefrolitiasi, artralgie tossiche, eruzioni cutanee pustolose e difficoltà mentali questa procedura fu presto abbandonata e le procedure bariatriche si svilupparano in quattro diverse direzioni: interventi malassorbitivi, malassorbitivi/restrittivi, principalmente restrittivi ed altre procedure. Queste classificazioni sono basate su differenze anatomiche e sulla fisiologia intestinale. Comunque, esse non possono descrivere accuratamente i meccanismi di azione, che in natura, molto probabilmente, sono neuro-ormonali. L’obiettivo finale della chirurgia bariatrica, come affermato da Scopinaro, è quello di diminuire l’assorbimento di calorie responsabile dell’obesità e di assicurare un bilancio energetico che duri tutta la vita per mantenere un peso più normale.

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Il ramo malassorbitivo si è affermato ed è fiorito con la diversione bilio-pancreatica di Scopinaro, introdotta negli anni ’70. Questo intervento prevede una tasca gastrica non restrittiva, la separazione dei flussi alimentari e bilio-pancreatici ed un canale comune breve. Il ramo che ha sostenuto la chirurgia bariatrica negli anni ’70 è stato solo quello malassorbitivo/restrittivo, rappresentato essenzialmente dal bypass gastrico descritto da Mason e Ito (1966). Il ramo principalmente restrittivo dell’albero della chirurgia bariatrica prende ancora origine da Mason, che, insieme a Printen, nel 1971 introdusse la gastroplastica verticale con bendaggio. Il bendaggio gastrico, oggi il secondo intervento di chirurgia bariatrica più eseguito al mondo, fu introdotto da Wilkinson et al., Kolle e Molina e Oria negli anni ’70 e ’80. Nel 1986, Kuzmak propose la benda di Silastic gonfiabile connessa ad un serbatoio sottocutaneo, utilizzato per introdurre o rimuovere per via percutanea il fluido che permette di regolare il calibro della benda gastrica. Utilizzando la terminologia anatomica, la sempre più popolare sleeve gastrectomy, eseguita come intervento indipendente, dovrebbe essere definita, così come la gastroplastica verticale con bendaggio ed il bendaggio gastrico regolabile, una procedura principalmente restrittiva.

Nei primi anni novanta questi interventi sono stati eseguiti con successo per via mini-invasiva ed attualmente la laparoscopia risulta essere l’approccio più accettato, determinando risultati sovrapponibili a quelli della chirurgia laparotomica in termini di percentuale della perdita di peso in eccesso (% Excess Weight Loss, %EWL) e notevoli vantaggi in termini di morbilità post-operatoria, di degenza ospedaliera, di comfort del paziente e di costi sociali. Le tecniche di riduzione del volume gastrico ed il by-pass gastrico sono le procedure bariatriche attualmente più utilizzate. Le indicazioni all’intervento chirurgico, ancora legate alla codifica della Consensus Conference del ’91 e riviste alla luce della evidence-based medicine nelle Linee Guida europee, comprendono: � BMI > 40 Kg/m2; � BMI > 35 e < 40 kg/m2 in presenza di comorbilità correlata all'obesità (patologie

cardiovascolari, respiratorie, metaboliche, osteo-articolari); � età compresa tra 18 e 60 anni; � obesità stabile da almeno 5 anni; � fallimento dei regimi dietetici o trattamenti farmacologici da più di 1 anno; � assenza di patologie endocrine; � compliance del malato; � assenza di dipendenza da alcool o droghe; � rischio operatorio accettabile.

La terapia chirurgica è risultata l’unica forma di trattamento che consenta la guarigione duratura ed in un elevatissimo numero di casi degli obesi gravi (BMI 40 kg/m2) e dei superobesi (BMI 60 kg/m2). Diversi studi con follow-up adeguatamente prolungato, hanno dimostrato, per i pazienti sottoposti a trattamento chirurgico, una significativa riduzione della mortalità, del rischio di sviluppare altre patologie associate, del ricorso a trattamenti terapeutici e dei costi sanitari. Attualmente, in Italia, sono circa 1,5 milioni i pazienti che potrebbero giovarsi del notevole e duraturo calo ponderale indotto dalla chirurgia, con

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notevole riduzione della morbilità e della mortalità proprie dell’obesità e delle malattie correlate, con un notevole miglioramento della qualità della vita e con una notevole riduzione dei costi diretti per la Sanità. Vi sarebbe, inoltre, da considerare, e non secondariamente, la notevole riduzione dei costi indiretti, con il pieno recupero dei pazienti ad una normale attività lavorativa, sociale e di relazione nella massima parte dei casi. In occasione del 2 ° Congresso Mondiale sulle terapie interventistiche per il diabete di tipo 2 tenutosi nel 2011 presso il NewYork-Presbyterian Hospital, il dottor Lars Sjostrom, docente presso l'Istituto di Medicina di Goteborg in Svezia, ha presentato i nuovi risultati raccolti dallo studio probabilmente più famoso nel campo della chirurgia bariatrica (SOS). Sono stati riportati i dati sui risultati a 20 anni che riguardano n. 2.010 pazienti obesi sottoposti a chirurgia bariatrica confrontati con n. 2.037 pazienti che hanno ricevuto solo terapie mediche o igienico-comportamentali. Per quanto riguarda il diabete di tipo 2 questi dati mostrano una remissione nel 70% dei pazienti operati già dopo 2 anni di follow-up. Dopo 20 anni la chirurgia bariatrica ha ridotto i nuovi casi di diabete di tipo II dell’80% tra i pazienti che non manifestavano la malattia all'inizio dello studio. Altrettanto sorprendentemente, l'incidenza di nuovi eventi è stata di almeno il 30% inferiore tra i pazienti operati rispetto a quelli trattati conservativamente. La mortalità è risultata ridotta del 30,7% per i pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica. Si deve tenere conto che molti dei pazienti dello studio erano stati sottoposti ad interventi attualmente sostituiti da procedure più efficaci. Negli studi più moderni Il calo ponderale in termini di perdita del peso in eccesso indotto dalla terapia chirurgica varia dal 60% al 70% e questo risultato viene mantenuto a lungo termine. Nella metanalisi pubblicata da H. Buchwald e collaboratori su JAMA la percentuale di perdita del peso in eccesso su 10.172 pazienti è stata del 61,2%. Tra i pazienti analizzati inoltre si è riscontrata una risoluzione del diabete di tipo II nel 76,8% dei casi, un netto miglioramento dell’assetto lipidico e dell’ipertensione nel 70% e nel 78% dei casi ed una risoluzione dei problemi respiratori nell’80%.

Diverse evidenze hanno mostrato che l’effetto curativo degli interventi con componente malassorbitiva possa essere il risultato diretto dell’intervento e non sia secondario alle alterazioni del transito intestinale dovute all’intervento stesso. Tali osservazioni hanno portato ad approfondire gli studi sugli ormoni gastro-intestinali coinvolti nella regolazione della funzione β-cellulare pancreatica in condizioni fisiologiche e di diabete e sui cambiamenti che i diversi interventi chirurgici provocano. Da questi studi si è sviluppato il concetto di trattamento chirurgico del diabete di tipo II tuttora in fase di sperimentazione.

Una recente rivisione della letteratura ha mostrato che le donne sottoposte ad intervento bariatrico non siano soggette a rischi aumentati per la gravidanza mentre sono risultati ridotti i rischi delle diverse problematiche gestazionali connesse allo stato di obesità patologica. I dati che riguardano l’influenza delle procedure bariatriche sulla fertilità in termini sia positivi che negativi sono ancora dibattuti e tuttora non ci sono evidenze su una diminuzione della fertilità dopo l’intervento.

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LA NUTRIZIONE ARTIFICIALE NELL’ETÀ AVANZATA

Carlo Lesi, Domenico Panuccio*

Medico Specialista in Scienza dell’Alimentazione - Bologna

*Direttore UOC di Medicina Generale - Ospedale Maggiore - AUSL di Bologna

Quando Terenzio Varrone, letterato romano del I° secolo a.C., definiva la vecchiaia come “senectus ipsa morbus est” (1) non immaginava che duemila anni dopo l’aspettativa di vita media in Italia nel 2003 sarebbe stata per la donna di 82,8 anni e per l’uomo di 77,2 anni (2). Anzi non si sarebbe aspettato che nelle parti del mondo sviluppato, Stati Uniti compresi, gli anziani diventassero “sempre più anziani” (3). Non avrebbe poi pensato che le età dell’anziano sarebbero state suddivise in terza età (da 60 a 75 anni), quarta età (da 75 a 90 anni) ed in quinta età (oltre i 90 anni) (4). Nella relazione accomuniamo per praticità le due ultime età sotto l’unica voce di “età molto avanzata”. Dal punto di vista psico-fisico (4) questa età viene definita come la condizione “del grande vecchio”, ovvero di quella persona/organismo in cui si accelera la fase involutiva senza essere più produttiva come donna dal punto di vista materiale ed economico. Si riceve e si dà ancora meno. Si diventa un peso, un fardello per gli altri soprattutto se compare una malattia cronica invalidante che costringe la donna anziana ad un lungo periodo di allettamento in dipendenza altrui. I parenti sono costretti ad accudirla in modo diretto o indiretto per interposta persona con una “badante”, il che è alla lunga defatigante sul piano fisico e psichico. Diverse sono le ubicazioni dove la donna vive la quarta età: in casa propria, in casa dei figli, in una casa di riposo, in una struttura protetta dando origine a diversi contesti di cui occorre tenere conto nell’eventualità insorga malnutrizione e sia necessaria attuare la Nutrizione Artificiale (NA). Ubicazioni intervallate spesso da ricoveri ospedalieri. La donna di questa età rimane utile solo come memoria storica per i nipoti. Questa è l’età del “tracollo bio-esistenziale” con lo sguardo rivolto al passato. Ansia, depressione e rabbia (perché spesso la donna - più longeva dell’uomo - rimane sola) intristiscono l’umore.

Oggi nel mondo sanitario ed assistenziale si fa coincidere il concetto di “anziano“ con quello di “fragilità”. L’anziano fragile è una persona che ha perduto la propria indipendenza funzionale: fisica, cognitiva, nutritiva, comportamentale, socio-economica, relazionale. È portatore di patologie multiple croniche e/o di loro esiti invalidanti; spesso è costretto all’immobilità, incapace di mantenere relazioni interpersonali per cui in definitiva necessita di assistenza continua da parte di altre persone, parenti o personale dedicato che sia. Trattasi di un problema sociale di cui le istituzioni sanitarie, politiche ed amministrative devono tenere sempre più conto. Ad es. la Regione Emilia Romagna è la seconda in Italia per indice di invecchiamento ed ai primi posti nei paesi UE per percentuale di ultrasessantenni. Nella nostra regione su di una popolazione di 4.150.000 persone, il 22.6% supera i 65 anni di cui il 58% donne. Le persone con più di 75 anni sono il 9%. Trattasi di medie superiori a quelle

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nazionali in cui il 16% ha oltre 65% e nel 2020 si stima un 22,3% con un 6% di persone oltre gli 80 anni (5).

Perché si Invecchia? Secondo una teoria molto accreditata l’invecchiamento è dovuto al progressivo

accumulo di un “danno biologico”, cui si accompagna la progressiva riduzione della capacità di riparare il danno stesso che conduce al fenotipo biologico dell’organismo senescente (6). Il danno è di due tipi: esogeno ed endogeno. Il primo è legato strettamente allo “stile di vita”

(alimentazione, attività fisica, fumo, stress, ecc.); il secondo consiste fondamentalmente nell’accorciamento dei telomeri (una sorta di “cappuccio protettivo” della estremità dei cromosomi) e nella disfunzione dei mitocondri il tutto legato strettamente allo stress ossidativo in un circolo vizioso che si automantiene. La cellula senescente produce una grande quantità di sostanze ed in particolare citochine pro-infiammatorie e pro-trombotiche. Un loro aumento di 2-4 volte è documentabile in soggetti anziani sani rispetto ai giovani (7). Lo stato pro-infiammatorio e pro-trombotico da esse indotto è alla base della maggior parte delle patologie croniche che affliggono la persona anziana. Nel Framingham Offspring Study (8) si è osservato un aumento dei fattori della coagulazione: fibrinogeno, t-PA, fattore VII, fattore di von Willebrand. L’alterazione dei sistemi emostatici è una causa che in notevole misura contribuisce alla genesi della placca aterosclerotica responsabile di molte patologie cardiovascolari frequenti nell’anziano (9).

La Malnutrizione: Cause e Conseguenze Nella donna anziana l’alimentazione si riduce diventando monotona con calo di peso e

comparsa di malnutrizione. Numerose ricerche riportano percentuali molto elevate di malnutrizione proteico-calorica sia negli anziani istituzionalizzati (23-85%) sia in quelli ospedalizzati (20-60%) (10). Le sue cause, a prescindere dalle situazioni morbose, sono molteplici e possono essere suddivise in primarie e secondarie. Sono primarie la solitudine, la disabilità fisica e/o motoria e/o visiva, l’ignoranza di norme dietetiche con inveterate ed errate abitudini alimentari, la monotonia del cibo, le alterazioni cognitive, i disturbi mentali e la depressione dell’umore. Sono secondarie la masticazione insufficiente, la riduzione dell’appetito, il ridotto assorbimento dei nutrienti, la polifarmacoterapia. Anche la degenza ospedaliera può provocare malnutrizione per mancata registrazione del peso all’ammissione e del suo andamento durante il ricovero, per digiuni ripetuti e protratti causa l’espletamento di esami diagnostici, l’uso contemporaneo di più farmaci, il vitto ospedaliero spesso monotono e poco appetibile, l’insufficiente controllo da parte del personale e/o dei parenti delle reali assunzioni del cibo, la scarsa cultura da parte del personale sanitario dei bisogni nutrizionali e dell’importanza della nutrizione/malnutrizione, il ritardo nell’introduzione di supplementi nutrizionali orali nella dieta, la scarsa conoscenza della Nutrizione Artificiale (NA) (11). La malnutrizione può essere causata da stati morbosi che provocano notevoli perdite proteiche, quali ulcere da pressione, ulcere da insufficienza venosa, fase post-operatoria della frattura di femore, interventi chirurgici per patologie gastrointestinali; oppure da situazioni morbose che comportano un importante catabolismo proteico quali stati infettivi febbrili protratti,

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prolungato allettamento, patologie neoplastiche e/o da insufficiente apporto calorico-proteico per disturbi della deglutizione, come si può verificare in soggetti affetti da ictus cerebri, morbo di Parkinson, demenza. Le conseguenze della malnutrizione sono molteplici: riduzione delle difese immunitarie, maggiore esposizione all’azione nociva di batteri, virus, miceti, aggravamento delle malattie di base, maggiore incidenza di ulcere da pressione con loro difficoltà alla guarigione, idem per quelle da insufficienza venosa agli arti inferiori, comparsa di sindrome ipocinetica, aumento dei giorni di degenza o comunque di guarigione, aumento della mortalità (10). Quindi la malnutrizione è una condizione patologica molto frequente negli anziani ed anche nelle donne della quarta età, sia fra quelle ospedalizzate che fra quelle ricoverate presso strutture di lungo-degenza, nelle residenze protette, nelle case di riposo, al loro domicilio (12). La corretta terapia nutrizionale richiede la conoscenza di una serie di fattori che accompagnano la senescenza come le modifiche nella composizione corporea, nei fabbisogni nutrizionali e nella funzionalità del tratto gastrointestinale. In particolar modo nella fascia di età > 75 anni si osserva nella donna una marcata riduzione della massa magra con contemporanea riduzione della massa ossea ed aumento della componente grassa, il che influenza negativamente le capacità metaboliche dell’individuo. La valutazione dello stato nutrizionale è una procedura complessa e di grande importanza e si avvale di diversi parametri: antropometrici, alimentari, biochimici ed immunologici. Sono disponibili inoltre diversi test di screening nutrizionali semplici e applicabili al letto del paziente (Fig. 1 e 2). Uno di questi è il Mini Nutritional Assessment (MNA) (Fig. 1) (13) fondato principalmente su dati anamnestici e sulla raccolta di semplici misure antropometriche. Il test si è dimostrato affidabile, fortemente correlato agli usuali indici nutrizionali e quindi predittivo di malnutrizione ed indicativo della necessità del suo trattamento. La valutazione dello stato nutrizionale rimane però una procedura difficoltosa e soggetta ad errori. Nelle pazienti anziane viene spesso a mancare la possibilità di svolgere una accurata anamnesi alimentare per motivi cognitivi, mnesici o di linguaggio. Difficile è anche la rilevazione dei parametri antropometrici, in particolar modo delle pazienti lungamente allettate e non mobilizzabili. Non è da meno la raccolta dell’anamnesi ponderale che risulta complessa e difficoltosa. Non da ultimo i parametri biochimici che valutano lo stato nutrizionale ( albumina, transferrina, prealbumina, RBP) vanno aggiustati per età e mancano valori specifici di riferimento, mentre scarso significato assumono i parametri immunologici, già compromessi “fisiologicamente” in questa età (Fig. 2) (14).

La Nutrizione Artificiale

Quando lo stato di malnutrizione non è correggibile con un adeguato supporto per via orale (ad es. dieta cremosa ed assunzione di supporti nutrizionali orali) o la persona anziana non è in grado di alimentarsi, si prende in considerazione un programma di Nutrizione Artificiale (NA). In questo caso, Nutrizione Parenterale (NP) e Nutrizione Enterale (NE) non devono essere considerate tecniche alternative, ma terapie con precise indicazioni e controindicazioni ed ambiti clinici di applicazione ben selezionati. In particolare la NE va preferita ogni qual volta sia presente un intestino funzionante; al contrario nell’impossibilità all’utilizzo del tratto gastroenterico va presa in considerazione la NP. La NP va utilizzata

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anche quando è presente un rifiuto della paziente o dei familiari al posizionamento di una sonda o di una stomia per NE. Nella paziente molto anziana di solito le patologie che portano alla NA sono di ordine neurologico, come l’ictus, l’emorragia cerebrale, le disfagie neurologiche associate o meno alle varie forme di deterioramento cognitivo come il M. di Parkinson e la Malattia di Alzheimer, oltre alle neoplasie. La NA si è inoltre dimostrata in grado di favorire la guarigione di soggetti operati per frattura del femore e di quelli affetti da lesioni da pressione riducendo la degenza ospedaliera. In tutti questi casi la metodica da privilegiare è la NE, optando per la stomia (ovvero per la PEG) quando l’aspettativa di vita supera i 60 gg.

Una volta stabilita la via di somministrazione vanno definiti i fabbisogni in macro e micronutrienti, facendo particolare attenzione a quelli idrici che hanno riflessi negativi sull’anziano se non riconosciuti per tempo e trattati in modo adeguato: vanno evitati la frequente comparsa di complicanze quali l’iperidratazione, la disidratazione e gli squilibri idroelettrolitici. Si stima che il fabbisogno idrico medio sia intorno ai 25-30 ml/kg/die in condizioni fisiologiche, riducibile fino a 20 ml/kg/die in presenza di comorbidità severe (ad es. cardiopatie). L’apporto calorico da fornire con la NA usualmente viene stimato con le formule ormai codificate come quella di Harris Benedict.(HB). Nella paziente molto anziana l’OMS ha elaborato formule che tengono conto della sovrastima della formula di HB e che non necessitano del rilevamento di un parametro quale l’altezza. Nella pratica clinica quotidiana raramente si superano le 30-35 kcal/kg/die. I fabbisogni proteici delle donne anziane sono immutati o lievemente aumentati rispetto a quelle più giovani e si stima che un apporto pari a 1,2 g/kg/die sia sufficiente nella maggior parte delle donne ricoverate. La ripartizione fra glucidi e lipidi non differisce sostanzialmente da quella dei soggetti normali adulti, mantenendosi attorno al 70/30 o 60/40. Particolare attenzione va posta anche nei confronti dei fabbisogni vitaminici, data la fragilità dei soggetti e la loro frequente carenza di vitamine del gruppo B e dei folati (15).

Gli Aspetti Bioetici della Nutrizione Artificiale La NA pone importanti problemi di bioetica perché sostituisce in modo temporaneo o

permanente il deficit di funzione dell’apparato gastroenterico preposto all’alimentazione naturale. È comprensibile che nella coscienza e nella cultura umana l’alimentazione e l’idratazione siano intimamente collegate alla vita più di ogni altra funzione vitale: concetto suffragato dall’espressione corrente: “dar da bere agli assetati e dar da mangiare agli

affamati“, mutuata dal Vangelo secondo Matteo 25,35:”Perché io ho avuto fame e mi avete

dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere,” che permea la cultura cristiana occidentale della società in cui viviamo (16). Per bioetica si intende “l’indagine speculativa su

problemi morali ed etici sollevati in campo medico o biologico da interventi o esperimenti

che coinvolgono più o meno direttamente la vita umana o anche animale” (17).

Fino a pochi anni or sono un paziente in stato di incoscienza incapace di assumere cibo sarebbe morto. Ora invece, con una intera gamma di metodi è possibile garantire per molto tempo il sostegno vitale. Il processo decisionale è inoltre complicato dai problemi riguardanti la determinazione della morte al fine di usare gli organi per il trapianto su altri

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pazienti. Ci sono controversie sull’utilizzo di risorse dispendiose per il mantenimento protratto della vita incosciente, considerato il tempo, gli sforzi ed i mezzi impiegati, che potrebbero essere altrimenti destinati alla cura o al trattamento di altri pazienti (18).

In ambito geriatrico l’eventualità del ricorso ad un supporto nutrizionale artificiale medicalmente assistito è sempre più frequente in relazione alle patologie acute che fanno precipitare una condizione di salute già cronicamente compromessa per l’età avanzata della donna con verisimile ridotta aspettativa di vita rispetto una adulta. La NA pone alla donna anziana, ai suoi parenti ed al medico curante problematiche diverse da quella adulta che si presume abbia una più lunga aspettativa di vita. Molti sostengono il ricorso alla NA considerandola un mezzo per arrecare conforto alla paziente - oltre a nutrirla ed idratarla - e per evitare a chi assiste, familiare o personale sanitario - la colpevolizzante sensazione di abbandonare alla deriva una persona incapace di provvedere a se stessa. Ma, al di là di considerazioni sulla dubbia efficacia terapeutica della NA in pazienti con patologie croniche in stadio ed età avanzate, è necessario domandarsi se tale pratica sia sempre e comunque un mezzo di conforto. Infatti, poiché la NA implica il ricorso a sondini, stomie o vie venose, si configura come una vera e propria terapia medica a volte “aggressiva” e non più come una procedura di nursing.

Non si hanno evidenze che la NA riduca la fame e la sete o altri sintomi, anche se corregge disidratazione e malnutrizione, condizioni mediche non necessariamente rilevanti ai fini del conforto, in grado però di aggravare la malattia di base. Si usa affermare che la malnutrizione è “una malattia nella malattia”. La stessa rimozione ripetuta del sondino da parte del malato dovrebbe essere considerata espressione non verbale di rifiuto alla NA, piuttosto che indurre all’uso di mezzi di contenzione per attuarla a tutti i costi. In generale si può ritenere giustificato non ricorrere alla NA allorchè abbia scarsa possibilità di migliorare lo stato di nutrizione, quando il miglioramento dello stato nutrizionale non comporti un beneficio per la paziente e dal punto di vista della malata gli svantaggi del trattamento superino i benefici.

Quest’ultimo punto è delicato ed implica la possibilità per il paziente di esprimere un proprio giudizio. Possibilità reale in una minoranza di soggetti che siano integri dal punto di vista cognitivo. Per la paziente in coma o demente è necessaria una comunicazione dettagliata tra gli operatori sanitari ed i famigliari o l’amministratore di sostegno, se designato dalla paziente, che possono esprimere solo un parere “surrogato”, “non vincolante” una volta edotti delle finalità e dei rischi della NA e delle sue modalità di attuazione (10).

Viene sempre richiesto il consenso informato all’interessato od a chi gli è accanto prima di ogni intervento. Il che riguarda la tecnica in sé e non i benefici nutrizionali che può apportare, inseriti nel contesto clinico della malattia di base. Nel caso la NA venga rifiutata dalla paziente e/o dai parenti è doveroso da parte del medico curante almeno idratare la persona (acqua significa vita!) o per via venosa periferica o per ipodermoclisi nel caso che il letto venoso sia inagibile. Va evitato il posizionamento di un catetere venoso centrale perché manovra invasiva con possibile rischio di infezione. Il medico curante è tenuto comunque alla idratazione (fleboclisi con glucosio, con aminoacidi, con lipidi, isoelettroliche, ecc.) anche nel caso la signora anziana dimostri di non volere più vivere (bocca serrata quando si prova ad

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alimentarla, rifiuto verbale del cibo, distacco progressivo dagli interessi vitali, ecc.) o abbia affermato in tempi non sospetti che la sua vita doveva compiere il suo decorso naturale senza interventi invasivi o aggressivi dall’esterno.

Nell’ordinamento legislativo italiano mancano norme che si riferiscano alle c.d.

direttive anticipate di trattamento (DAT) o “testamento biologico” a salvaguardia sia del volere della donna anziana, espresso quando era in grado di intendere e volere, sia dell’operato del medico.

Problematiche irrisolte sono presenti anche sul versante della eventuale sospensione della NA nel caso di una donna anziana in stato vegetativo permanente/coma. Le divergenze di opinione se sia possibile interrompere la NA in un soggetto in stato vegetativo permanente/coma nascono da differenti concetti della vita, fenomeno biologico interpretato dal pensiero contemporaneo secondo due paradigmi opposti fra loro: il paradigma della sacralità, per il quale la vita è un dono che discende dall’alto e quindi non è disponibile da parte del soggetto che la riceve ed il paradigma della libertà, per il quale la vita emerge dal

basso e quindi è pienamente disponibile da parte di chi l’esperisce (19). Lo stato vegetativo persistente o permanente si identifica con la perdita della coscienza, ma non con le funzioni vegetative che lo fa differire dalla morte cerebrale in cui la vita viene mantenuta artificialmente. La difficoltà maggiore non è riconoscere uno stato vegetativo, ma pronunciarsi sulla sua irreversibilità.

Numerosi sono i documenti inerenti la materia usciti in poco meno degli ultimi 60 aa di cui il primo viene considerato l’art. 32 della Costituzione Italiana (1948) per arrivare al pronunciamento della Congregazione per la dottrina della fede del 2007 (16). I documenti segnalati poggiano su due visioni diverse della vita: da un lato la bioetica laica incentrata sulla qualità e sulla autodeterminazione razionale della vita che permea in prevalenza la scienza, dall’altro quella cattolica incentrata sul senso della vita in dipendenza dalla concezione creazionistica da cui scaturiscono l’indisponibilità e l’inviolabilità della medesima. Di qui le differenti opinioni nei confronti della NA e di una sua eventuale sospensione. Comunque sia è sempre fonte di tormento sul piano umano e medico la decisione di sospendere idratazione e nutrizione ad una persona anche in stato vegetativo permanente o in coma per quanto anziana con ridotta attesa di vita. Occorre però sempre porsi la domanda se “sia giusto che un malato

oncologico terminale muoia con un catetere (per la NA) inserito nel suo corpo” (20). Drammatico a nostro parere il momento della sospensione. Per quanto un essere umano possa essere ridotto a condurre una “vita vegetativa” che ci disgusta, l’uomo occidentale per sua cultura e tradizione è legato intimamente alla vita e teme la morte e quello che l’attende oltre quella soglia. Sarà solo dalla ricerca dei punti di contatto da parte delle menti più illuminate degli studiosi che si potranno superare le differenze esistenti sulla possibilità di sospendere idratazione e nutrizione. Si auspica che in tal modo le società scientifiche e le istituzioni, laiche per definizione, anche con il contributo di quelle religiose, possano offrire al paziente e ai suoi parenti strumenti riconosciuti legalmente su tutto il territorio nazionale per decidere o meno a tempo debito se in circostanze di pericolo per la loro vita intendano avvalersi dell’applicazione su se stessi di tecniche che possono mantenerli in vita prolungandone ad es. uno stato vegetativo o di coma. In tal modo verrebbe tutelato anche l’operato del medico di

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fronte alle scelte già compiute da parte del paziente, scelte che il professionista è tenuto a rispettare (21).

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idratazione artificiali. Tesi di laurea al Corso di laurea specialistica in Scienza della Nutrizione Umana, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali, Facoltà di Medicina, Anno Accademico 2002-2004.

19) G. Fornero: Bioetica cattolica e bioetica laica. B. Mondadori Ed. Milano, 2005; 2a Ed. 2009. 20) F .Contaldo: La nutrizione ai confini della vita. Guida Ed. Napoli, 2006. 21) C. Lesi: La Nutrizione Artificiale nella 4° età. Convegno Interregionale ADI , Riccione, 22-24 aprile

2010.

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Atti del Corso Clinico “La Nutrizione nella Donna: dall’Infanzia alla Senilità” 96

Fig.1 - Tratto da: G GERONTOL 2005; LIII:603-616 (7)

Fig.2 - Tratto da: LINEE GUIDA SINPE, RINPE, 20-2002 (8)