La nuova frontiera C dell’ del land grabbing - eastwest.eu · i profitti della Saudi Investments...

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82 . east . europe and asia strategies numero 33 . dicembre 2010 . 83 La nuova frontiera del land grabbing Gli attivisti lo chiamano land grabbing, accaparramento della terra. . Le regioni subsaha- riane sono il principale mercato planetario. . Ma immensi appezzamenti sono disponibili anche in America Latina e Asia. «Tutti investono in Cina per la manifattura. Tutti investono in India per i servizi. Tutti devono ora investire in Africa per il cibo», afferma Ramakhrishna Ka- ruturi, direttore della società agro-floreale indiana già presente nel mercato delle rose e in quello orticolo in Etiopia. . È soprattutto l’Africa l’oggetto delle attenzioni degli investito- ri: il continente che contribuisce solo al 2% del Pil mondiale si sta rivelando di nuovo terra di conquista. . testo e foto di Emiliano Bos AFRICA dell’agrobusiness. Il governo di una nazione in cui una persona su sei ha bisogno di assistenza alimentare offre a prezzi stracciati oltre 3 milioni di terra irrigata e uber- tosa. Li mette a disposizione degli investitori stranieri. Che per ora provengono da India, Arabia Saudita, Emi- rati Arabi, Cina ed Egitto. Qui si raccoglie la verdura de- gli sceicchi, che a Gedda o Dubai pagheranno a caro prez- zo i broccoli Agassi raccolti da mani callose per una pa- ga di 75 centesimi di euro al giorno. O la lattuga – quel- la allineata – che qualcuno gusterà in un’altrettanto co- stosa insalata servita in un ristorante degli Emirati. «Entro tre o quattro ore dal raccolto – aggiunge il ma- nager-agronomo – il carico di verdura è pronto per l’im- barco all’aeroporto di Addis Abeba. Destinazione il Gol- fo Arabo». Quest’azienda modello sorge alle spalle del- l’Accademia militare di ingegneria, in una zona famosa per i suoi laghi vulcanici. Con una dozzina di grandi specchi d’acqua, altrettanti fiumi principali e oltre 3,5 milioni di ettari di terra irrigata, l’Etiopia è il “sogno blu” per gli investitori degli aridi Paesi arabi. I sauditi dal C iuffi di lattuga allineati in modo prefetto, quasi pet- tinati. File di broccoli impeccabilmente diritte in campi squadrati secondo geometrie precisissime. I semi sono accuditi con cura nella germination room, l’incubatrice per i germogli sotto un’enorme serra. Ben- venuti nel paradiso etiopico della verdura globale. Pove- ri? Col cavolo. Col cavolo, qui, si fanno i soldi. Ma anche con sedano, cipolla, finocchio e prezzemolo. Tibebe De- meke, giovane manager-agronomo, allunga il braccio per mostrare i confini della Jitfu, che da circa un anno qui coltiva ed esporta ortaggi a foglia verde: «La nostra azien- da si estende su oltre 70 ettari». Seicento operaie sono piegate schiena a terra, una terra rigogliosa. Siamo sulle zolle fertili della Rift Valley a Debre Zeit, una cinquanti- na di chilometri a sud di Addis Abeba. L’Etiopia, dove 65 degli 80 milioni di abitanti vivono di agricoltura di sussistenza, è una delle nuove frontiere C A FRONTE Holeta, le serre per la floricoltura. IN BASSO A DESTRA La regione di Getche è terra fertile.

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82 . east . europe and asia strategies numero 33 . dicembre 2010 . 83

La nuova frontieradel land grabbingGli attivisti lo chiamano land grabbing, accaparramento della terra. . Le regioni subsaha-

riane sono il principale mercato planetario. . Ma immensi appezzamenti sono disponibili

anche in America Latina e Asia. «Tutti investono in Cina per la manifattura. Tutti investono in

India per i servizi. Tutti devono ora investire in Africa per il cibo», afferma Ramakhrishna Ka-

ruturi, direttore della società agro-floreale indiana già presente nel mercato delle rose e in

quello orticolo in Etiopia. . È soprattutto l’Africa l’oggetto delle attenzioni degli investito-

ri: il continente che contribuisce solo al 2% del Pil mondiale si sta rivelando di nuovo terra di

conquista. . testo e foto di Emiliano Bos

AFRICA dell’agrobusiness. Il governo di una nazione in cui unapersona su sei ha bisogno di assistenza alimentare offrea prezzi stracciati oltre 3 milioni di terra irrigata e uber-tosa. Li mette a disposizione degli investitori stranieri.Che per ora provengono da India, Arabia Saudita, Emi-rati Arabi, Cina ed Egitto. Qui si raccoglie la verdura de-gli sceicchi, che a Gedda o Dubai pagheranno a caro prez-zo i broccoli Agassi raccolti da mani callose per una pa-ga di 75 centesimi di euro al giorno. O la lattuga – quel-la allineata – che qualcuno gusterà in un’altrettanto co-stosa insalata servita in un ristorante degli Emirati.

«Entro tre o quattro ore dal raccolto – aggiunge il ma-nager-agronomo – il carico di verdura è pronto per l’im-barco all’aeroporto di Addis Abeba. Destinazione il Gol-fo Arabo». Quest’azienda modello sorge alle spalle del-l’Accademia militare di ingegneria, in una zona famosaper i suoi laghi vulcanici. Con una dozzina di grandispecchi d’acqua, altrettanti fiumi principali e oltre 3,5milioni di ettari di terra irrigata, l’Etiopia è il “sogno blu”per gli investitori degli aridi Paesi arabi. I sauditi dal

Ciuffi di lattuga allineati in modo prefetto, quasi pet-tinati. File di broccoli impeccabilmente diritte incampi squadrati secondo geometrie precisissime.

I semi sono accuditi con cura nella germination room,l’incubatrice per i germogli sotto un’enorme serra. Ben-venuti nel paradiso etiopico della verdura globale. Pove-ri? Col cavolo. Col cavolo, qui, si fanno i soldi. Ma anchecon sedano, cipolla, finocchio e prezzemolo. Tibebe De-meke, giovane manager-agronomo, allunga il braccio permostrare i confini della Jitfu, che da circa un anno quicoltiva ed esporta ortaggi a foglia verde: «La nostra azien-da si estende su oltre 70 ettari». Seicento operaie sonopiegate schiena a terra, una terra rigogliosa. Siamo sullezolle fertili della Rift Valley a Debre Zeit, una cinquanti-na di chilometri a sud di Addis Abeba.

L’Etiopia, dove 65 degli 80 milioni di abitanti vivonodi agricoltura di sussistenza, è una delle nuove frontiere

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A FRONTE Holeta, le serre per la floricoltura.

IN BASSO A DESTRA La regione di Getche è terra fertile.

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Gambella, al confine col Sudan, il governo federale diAddis Abeba offre tra gli altri un lotto di 385mila ettari,equivalente alle superfici delle province di Milano e Ber-gamo. Da quelle parti l’indiana Karuturi – principaleesportatrice al mondo di rose recise, attiva in Etiopia an-che nel settore della floricoltura – ha già avviato la pro-duzione di riso. Nella stessa area, crescono i pomodori ei profitti della Saudi Investments del miliardario saudi-ta Sheikh Mohammed al-Amoudi, etiope di nascita, unodei 50 uomini più ricchi del mondo.

A Gambella sta creando una struttura per la lavorazio-ne del riso per produrne a regime 100mila tonnellate al-l’anno. Ad Awassa, circa 300 chilometri a sud della capi-tale, la stessa società sta costruendo una gigantesca ser-ra, in vista di ulteriori acquisizioni fino a mezzo milionedi ettari. La lista di chi intende sfruttare le terre coltiva-bili d’Etiopia comprende l’Egitto, un consorzio cinese ealtri. Come l’indiana Emami Biotech, che possiede già

2015 cesseranno la produzione di cereali sul proprio ter-ritorio per decentralizzarla, soprattutto in Africa. Nonhanno acqua nel loro deserto. Qui sotto, invece, di acquane scorre tanta. «L’irrigazione non è un problema, abbia-mo scavato cinque pozzi», spiega ancora Tibebe Deme-ke. Soprattutto, non costa nulla. Perché qui, il leasing, èfull optional, compresa l’acqua.

AAA terre affittasi, quasi gratisassa anche dall’Etiopia la nuova “corsa alla ter-ra” africana. Terra fertile, s’è visto. Ma soprattut-to quasi gratuita. La proprietà dei latifondi resta

del governo, ma mezzo secolo d’affitto costa davvero po-co agli investitori stranieri. «Quasi nulla», assicura Mes-sele Fisseha, un ricercatore di Addis Abeba. Nell’ordinedi una manciata di dollari all’ettaro, per concessioni fi-no a 99 anni su immensi appezzamenti. «Incoraggiamoinvestitori motivati e seri a impegnarsi nel settore agri-colo», strilla il volantino del ministero dell’Agricolturae dello Sviluppo rurale, che ha creato un apposito uffi-cio per attirare società straniere nell’Eldorado verde. Dei74,3 milioni di ettari coltivabili – sostiene il ministeroetiopico – solo 12 milioni sono coltivati. Il resto può sod-disfare i “nuovi colonizzatori”, come li definisce l’orga-nizzazione non governativa spagnola Grain, impegnataa monitorare questo tipo di fenomeno. Nello Stato di

A SINISTRA Un apicoltore a Getche

mostra il registro della raccolta del miele.

AL CENTRO Due contadine di ritorno dai campi a Wenchi.

A DESTRA Un anziano davanti a un tukul,

l’abitazione tradizionale delle campagne.

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Battitura del tef, cereale tipico dell’Etiopia.

IN BASSO A DESTRA Guraghe, l’insegna pubblicitaria di un’azienda locale.

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11mila ettari coltivati a jatropha (usata per il biodiesel) ea cui il governo ne ha promessi altri 40mila garantendoanche un regime di esenzione fiscale per i primi anni.

Rivoluzione verde o neocolonialismo?li attivisti lo chiamano land grabbing, accaparra-mento della terra. Le regioni subsahariane sonoil principale mercato planetario. Ma immensi ap-

pezzamenti sono disponibili anche in America Latina eAsia. «Tutti investono in Cina per la manifattura. Tuttiinvestono in India per i servizi. Tutti devono ora investi-re in Africa per il cibo», afferma Ramakhrishna Karutu-ri, direttore della società agro-floreale indiana già presen-te nel mercato delle rose e in quello orticolo in Etiopia.È soprattutto l’Africa l’oggetto delle attenzioni degli in-vestitori: il continente che contribuisce solo al 2% del Pilmondiale si sta rivelando di nuovo terra di conquista.Questa volta non solo di minerali e idrocarburi, di cuimolti – cinesi in primis – da decenni stanno già sfruttan-do il potenziale. Ma anche di nuove modalità di investi-

mento. Per esempio i prodotti agricoli: dopo la crisi deiprezzi alimentari del 2008, il costo di alcuni cereali rad-doppiò e il riso quasi triplicò.

Ora sono diventati interessanti e redditizie commodi-ties, oggetto come le altre di pressioni speculative e diforti variazioni di mercato. Senza dimenticare però chel’esasperata crescita dei prezzi, in molti paesi del Sud delmondo ha provocato violenti moti di protesta. Centina-ia le vittime delle “rivolte del pane” in Camerun, Costad’Avorio, Haiti, Messico. Di nuovo, pochi mesi fa, uninatteso (e ingiustificato) aumento del pane ha causatoalcune decine di morti nelle proteste in Mozambico.

Le perplessità della Banca mondialei recente, per la prima volta la Banca mondiale –finora tiepida sulla questione – ha espresso fortiperplessità sulla pratica dell’acquisizione di ter-

re coltivabili. In un rapporto diffuso lo scorso settembre,l’istituto finanziario segnala che prima della fine del2009 sono stati annunciati accordi di affitto di terre per

45 milioni di ettari. Una cifra enorme, visto che in pre-cedenza – secondo la stessa Banca mondiale – la cresci-ta globale di terra agricola nel mondo prima del 2008 “erapari a 4 milioni di ettari l’anno”. Stando allo stesso dos-sier, più del 70% delle nuove richieste sono state indiriz-zate all’Africa, in particolare Etiopia, Mozambico e Su-dan, Paesi che hanno concesso milioni di ettari agli in-vestitori stranieri negli ultimi anni. La saudita Foras, colsostegno della Banca islamica per lo sviluppo, starebbevalutando acquisizioni di terre per un miliardo di dolla-ri in Sudan (uno dei Paesi più richiesti dalle società stra-niere, con 2,4 milioni di ettari già assegnati), Mali, Sene-gal e Uganda. Altri investitori con sedi in Arabia Saudi-ta hanno già effettuato massicci acquisti di terre anche inEgitto e Kenya, oltre che in Etiopia.

Gli esperti della Banca denunciano “un’incredibilemancanza di consapevolezza di ciò che sta accadendosul terreno”. Evidenziano i principali punti deboli delland grabbing, soprattutto l’assenza di trasparenza negliaccordi e la totale mancanza di monitoring sulla loromessa in atto. Firmata l’intesa, gli investitori hanno ma-ni libere e risulta difficile controllarli. Impossibile, poi,contestare per vie legali eventuali comportamenti in con-trasto con le concessioni. Ecco perché la Banca mondia-le chiede di rimuovere il “velo di segretezza” dietro cuispesso vengono siglati questi patti. Altrimenti – avvertela Banca nel suo rapporto – “a pagarne il prezzo sarannoi contadini poveri, che si troveranno privati dalla propriaterra”. Non solo, ma viene anche formulato una sorta di“codice di condotta” in 7 punti, che prevede tra l’altro il“rispetto dei diritti della terra e delle risorse”. Un vade-mecum etico contestato anche dalle organizzazioni nongovernative che si battono per i diritti dei contadini. Af-fidarsi a queste regole non funzionerà mai «perché gli in-vestitori semplicemente non le tengono in considerazio-

A FRONTE Apicoltore a Getche.

QUI IN BASSO Un contadino

ara i campi con i buoi nella regione del Guraghe.

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saico etnico dell’Etiopia. Da anni denunciano la loromarginalizzazione. Al telefono da Washington Hirpaspiega ciò che ha scritto anche in una lettera al segreta-rio generale dell’Onu Ban Ki-moon: «Gli stranieri si go-dono il raccolto mentre gli Oromo muoiono di fame».Alexandra McGoodwill, una ricercatrice di Cambridgeche sta indagando questo fenomeno, è appena rientratada Addis Abeba: «Il governo – dice – sta studiando lacreazione di una Authority indipendente per garantirela correttezza dell’operato degli investitori». Un’ideabuona, ma con un evidente limite: «Questo organismosarebbe pagato dalle stesse società straniere che cercanodi ottenere profitti dal business agricolo in Etiopia».

Il paradosso dell’Etiopiaungo Wellega Road, appena fuori da Addis Abe-ba, si vedono le grandi green house, le serre usa-te per floricoltura e orticoltura. Inerpicandosi

verso Wenchi, un vulcano spento dove apicoltori e gui-de turistiche sono sostenute da un progetto dell’italianaSlow Food, si percepisce ad occhio il frazionamento dei

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Emergent Asset Managment di Londra, assicura renditedel 25% l’anno per chi investe adeguatamente nel com-parto agricolo nei Paesi subsahariani. Non solo cereali eortaggi, comunque. L’altro grande affare che si profila al-l’orizzonte riguarda le colture per il biocarburante, comel’olio di palma. L’Unione Europea, da sola, avrebbe biso-gno di oltre 17 milioni di ettari entro il 2015. Una super-ficie pari a metà dell’Italia.

Tra aratro e agrobusinessulle colline di Wollisso, due ore d’auto a sud del-la capitale, Getachew conduce a fatica l’aratro ti-rato da una coppia di buoi. Impiega diversi gior-

ni per preparare i solchi necessari alla semina. A Gam-bella, invece, i trattori indiani della Karuturi in un gior-no fanno il lavoro di dieci contadini come Getachew.«Esiste un contrasto clamoroso tra 65 milioni di povericontadini etiopi condannati a coltivare pochi metri qua-drati e le élite che dispongono di enormi appezzamentidi terra», osserva ancora il sociologo Pankhurst. In Etio-pia la terra è pubblica. Il governo la concede agli stranie-ri per l’agricoltura commerciale, ma costringe i suoi cit-tadini su piccoli lotti spesso non sufficienti alla sussi-stenza. I contadini che non coltivano la terra si vedonorevocare il diritto all’uso. Così le famiglie povere resta-no sul proprio pezzetto di terra senza potersi trasferire incittà. E proprio nei grandi centri urbani, alle elezioni del2005, fu sconfitto il partito di governo del primo mini-stro Melles Zenawi (al potere dal 1993), che reagì conviolenza provocando oltre 200 morti.

Secondo un recente rapporto dell’Istituto internazio-nale per l’ambiente e lo sviluppo di Londra (Iied) e del-l’Ifad, dal 2004 le autorità di Addis Abeba avrebbero au-torizzato 815 progetti nel settore agricolo, ma i dati sonoincompleti e impossibili da verificare. E al ministero del-l’Agricoltura non si ottengono risposte. L’arrivo di socie-tà straniere, almeno secondo l’Associazione etiopica deiproduttori agricoli, potrebbe costituire un’opportunità ecreare posti di lavoro. «È ancora presto per valutare glieventuali benefici della presenza di investitori stranie-ri», riflette Million Billay, responsabile dell’organizza-zione locale Melca di Addis Abeba. Non esita a parlaredi «colonizzazione del XXI secolo» Haile Hirpa, presi-dente dell’Associazione per gli studi degli Oromo, cheriunisce una parte della diaspora etiope negli Stati Uni-ti. Gli Oromo sono una delle principali comunità del mo-

ne», afferma Antoine Bouhey, responsabile della campa-gna per i diritti dei coltivatori nei Paesi in via di svilup-po promossa da Peuples Solidaires e Action Aid. Criticoanche Olivier de Schutter, relatore speciale dell’Onu peril diritto all’alimentazione, che si dice molto preoccupa-to: «Non solo c’è il land grabbing, ma le aree fertili stan-no diminuendo anche a causa del degrado delle terre edell’espansione industriale». E nel suo documento laBanca Mondiale individua forse il punto più debole ditutto il sistema degli investimenti agricoli: “La scarsitàdi informazioni su ciò che accade sta incoraggiando spe-culazioni su larga scala”.

Chi compra?algrado dubbi e incertezze, per ora, la richiestadi terre coltivabili continua a crescere. Chi com-pra? Soprattutto Paesi con forte solidità econo-

mica ma ridotta sovranità alimentare. Come nel caso del-l’Arabia Saudita o della Corea del Sud. Acquisire terreall’estero per avere cibo a casa propria. I sauditi non han-no acqua, gli impianti per la desalinizzazione di quelladi mare costano miliardi di dollari. L’acqua è il petroliod’Etiopia: per ora le aziende del settore floricolo già atti-ve nel Paese continuano a non pagarla. «Lo sfruttamen-to indiscriminato delle risorse idriche etiopiche è un fat-tore decisivo», dichiara a east Alula Pankhurst, sociolo-go, già docente all’Università di Addis Abeba. Sugli alti-piani etiopi, dove il terreno è fertile, «c’è altissima den-sità di popolazione e quindi – avverte – poca terra dispo-nibile». In altre parole, il “miracolo verde” promesso dalgoverno etiope non sarebbe così prodigioso. «Si rischialo spostamento forzato di enormi masse di popolazione– sostiene – per far posto agli investitori». Però, si potreb-be obiettare, si creerebbero anche posti di lavoro. «Il bi-lancio costi-benefici – ci spiega ancora Pankhurst – de-ve tener conto di fattori di rischio come lavoro minorile,sfruttamento sconsiderato del suolo e rischi per la salu-te dei lavoratori».

E pure dall’Europa si guarda ai vantaggi dell’agrobusi-ness, nella diffusa convinzione che il valore delle terrein Africa sia destinato a lievitare. Non si spiegherebbe al-trimenti l’interesse di Private Equity e Hedge Fund ver-so il continente africano, attratti anche da una formulasicuramente redditizia: grandi appezzamenti a basso co-sto, con manodopera a costi quasi inesistenti e irrigazio-ne compresa. L’African AgriLand Fund, un fondo della

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piccoli terreni dei contadini: un patchwork dalle milletoppe verdi. Scendendo verso la regione del Guraghe, sitagliano valloni fertili e rigogliosi. Osservando da que-st’angolo l’Etiopia, non ci si riesce a spiegare come il se-condo Paese più popoloso dell’Africa non sia in grado diraggiungere l’autosufficienza alimentare.

È un paradosso: la maggior parte degli etiopi è costret-ta a coltivare solo piccoli appezzamenti, su cui a mala-pena sopravvive. La Banca mondiale – che nel suo rap-porto inizia ad ammettere i limiti del land grabbing –promuove in Etiopia il programma Safety Net, al costo di500 milioni di dollari con finanziamenti internazionali.Garantisce cibo o soldi in contanti a 8 milioni di etiopiin cambio di un mese di lavoro all’anno per la loro co-munità locale. Emerge forte, così, il contrasto tra i gran-di lotti ceduti per fini commerciali agli stranieri e i pic-coli terreni riservati alla sussistenza per 65 milioni dicontadini, su una popolazione di 80 milioni.

A Getche, non lontano dal capoluogo regionale Welki-te, anche la famiglia di Getachew s’affida a due stanchebestie da soma per arare un campicello. Il duro lavoro neicampi permette una faticosa sussistenza dentro il tukul,tipica capanna a pianta circolare. Sotto lo stesso tetto difascine di paglia, una sorta di open space diviso da unosteccato di legno accoglie questo contadino, i suoi cin-que figli e un bue. Le capanne punteggiano lo stradonesterrato che il governo sta finalmente iniziando ad asfal-tare. Addis Abeba dista tre ore d’auto. Una distanza cheper ora sembra infinita. Nel raggio di decine di chilome-tri c’è solo un dispensario sanitario gestito dalle suore si-ciliane Figlie della Misericordia e della Croce. Suor Fran-cesca Shurabet, capo infermiera etiope, mostra un regi-stro con l’elenco delle prestazioni nel mese di aprile2010: 84 casi di malaria. «Oltre alle cure di base, fornia-mo anche un po’ di educazione sanitaria». La religiosas’infervora quando spiega che qui si coltiva l’ensete, ilcosiddetto falso banano, del tutto simile a quello da frut-to ma da cui si ricava invece la farina per il kotcho, unpane tradizionale. «Ho suggerito decine di volte ai con-tadini di coltivare il vero banano, che garantirebbe un mi-nimo di fabbisogno vitaminico. Ma qui non glielo spie-ga nessuno». Eppure, riflette, «su questa terra butti un se-me e cresce subito». Ormai l’hanno capito bene i cow-boys dell’agrobusiness, che cavalcano verso la nuovafrontiera africana senza perdere tempo. Alla conquistadella terra. Fertile e quasi gratis. .

Getche, il dispensario, suor Francesca,

mostra l’elenco delle cure per malaria.