La notte del diavolo

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«GRANDI ROMANZI» La notte del Diavolo

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Maiorca, 1946. In un sanatorio per tubercolotici, un uomo solitario, un religioso, sta per morire. Oppresso dalla colpa, ritorna ossessivamente con la memoria al ricordo della macabra danza di morte nella quale, dieci anni prima, per viltà si è lasciato trascinare da un sinistro personaggio, il conte Rossi.

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«GRANDI ROMANZI»

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Miguel Dalmau

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ROMANZO

GREMESE

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Titolo originale:La noche del Diablo© Miguel Dalmau, 2009EDITORIAL ANAGRAMA, S.A., 2009

Traduzione dallo spagnolo: Vittorio Bonacci

Copertina: www.lamelaverde.itStampa: C.S.R. – Roma

Copyright dell’edizione italiana:GREMESE2011 © E.G.E. s.r.l. – Romawww.gremese.com

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,registrata o trasmessa, in qualunque modo e con qualunque mezzo,senza il preventivo consenso formale dell’Editore.

ISBN 978-88-8440-697-2

Questo volume è stato pubblicato con il sostegno della Direzione Generale delLibro, degli Archivi e delle Biblioteche, del Ministero della Cultura spagnolo.

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A mio padre, che mi ha insegnatoil valore della spada e il peso della croce.

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Resta con noi, Signore, perché si fa sera.Luca, 24, 29

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Sanatorio di Caubet. 1946

In principio fu il Verbo. Poi il Verbo si fece carne. Et ver-bum caro factum est. Mi chiamo Julián Alcover e sono natonell’isola di Maiorca. Per tutti questi anni ho mantenuto il si-lenzio, fino a quando la malattia mi ha lasciato solo nel miostudio, di fronte a un muro di ricordi. Per essere fedele ai fatti,dovrei confessare tutto; ma il medico mi ha consigliato di am-ministrare le mie forze con prudenza. Che devo raccontare?La vita è un mistero nelle mani di Dio, e soltanto Dio conoscela risposta agli enigmi umani. Da quando sono arrivato in que-sto sanatorio, mi domando spesso cosa ho fatto della mia vita.Allora, la mia memoria risale agli anni precedenti alla guerra,e mi vedo di nuovo in un convento nei dintorni di Palma, suuna collina popolata da pini e distante dal mare. Accadeva nel1936. Sono passati dieci anni. Un soffio. Poi faccio ritorno aquesta cella bianca, immacolata, e guardo oltre la finestra chesi affaccia sul giardino. Mentre osservo le monache che pas-seggiano tra i fiori, capisco che la pace è tornata sull’isola.Deo gratias. Eppure, ormai non riconosco più il paesaggiodella mia terra, perché non riconosco più neanche il paesaggiodella mia stessa anima.

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Tutto è troppo confuso. Se il Signore ha avuto bisogno disei giorni per dare ordine al caos, io non riesco invece a rac-contare la mia storia pienamente, sapendo, come so, che stoper morire. Né posso tanto meno avere la certezza di coglierenel segno con la mia testimonianza. Se avessi avuto a disposi-zione del tempo, mi sarebbe piaciuto scrivere per esempio del-la mia infanzia, perché l’infanzia è libera dal peccato e si di-spiega come un territorio unico, aperto e chiuso al tempo stes-so. Tuttavia, quella felicità non torna, così come non tornanoneppure la purezza perduta e la voce dei morti. Sarà sufficien-te dire che a quattordici anni entrai nel Seminario Conciliaredi Palma, con lo scopo di intraprendere la carriera ecclesiasti-ca. Dopo essere stato ordinato sacerdote, mi rinchiusi nel con-vento dei padri teatini, e per un decennio mi sono dedicato allapreghiera e allo studio delle lingue. In quel periodo, credevoonestamente di compiere la legge di Dio. Nemmeno nei mieiincubi peggiori potevo immaginare che sarei diventato un per-sonaggio sinistro, che ha venduto la propria anima nell’ora de-cisiva. La guerra. Quanto è stato ingiusto tutto ciò! Che ama-rezza! Ma ormai non c’è più nulla da fare. Prego soltanto laMadonna di Lluch affinché mi conceda le forze necessarie pertenere in mano la penna. E poter poi morire in pace.

Ricordo che, nei primi tempi, evitavo i rapporti prolungaticon gli altri miei confratelli. Sebbene rispondessi con diligen-za alle loro attenzioni, mostravo i segni di una grande propen-sione per la solitudine. L’unica eccezione era rappresentatadal priore, un uomo buono e giusto, la cui compagnia calmavale mie ansie. Quell’uomo aveva capito che ero una persona daltemperamento fragile. È vero che avevo alcune inquietudini,espresse attraverso la mia sete di conoscenza e il mio deside-rio di andare a Roma; ma, in fondo, non ero molto diversodalle migliaia di sacerdoti sparsi per il mondo. Se il Signoreavesse potuto riunirci in piazza San Pietro, avrebbe scoperto

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una legione di individui che si vestivano, pensavano e si com-portavano esattamente come me. Lo affermo come argomentosoggettivo, senza il benché minimo compiacimento, e benconsapevole del fatto che quelli erano la mia vocazione e ilmio destino. Quanto al carattere, la mia memoria mi rimandaa una persona silenziosa e ritrosa, senza eccessiva vivacità.Non ero, insomma, uno di quei sacerdoti popolari che, spintida un prurito vanitoso, utilizzano l’abito per procurarsi l’affet-to della gente. Al contrario. Le relazioni con il gregge suscita-vano in me una certa avversione, e solamente quando i colpidella vita si abbattevano su qualche peccatore ero pervaso daun sentimento cristiano.

Poco prima di quella fatidica estate, acquisii la cattiva abi-tudine di guardarmi allo specchio. Non ritengo di essere in-corso in una sorta di peccato contro il pudore: cercavo sempli-cemente di capire chi fosse quell’estraneo riflesso sul mercu-rio. Ero io? O qualcuno che stava usurpando il mio vero esse-re? Non l’ho mai saputo e temo che non lo saprò mai. Ricordosolamente che il mio viso era quello di un uomo senza impor-tanza: uno come tanti. Vedevo i miei capelli neri, radi, e gliocchi piccoli, di colore indefinito, che gli occhiali ingrandiva-no fino a dimensioni apprezzabili. La faccia era bianca, latti-ginosa, monacale. Poi un sottomento un po’ flaccido, il nasoplebeo, e i denti leggermente sporgenti come quelli di un co-niglio. Quello ero io, Julián Alcover. Il priore era solito dirmiche un corpo avvenente non fa un buon cristiano. Aveva ragio-ne. Ma nemmeno un corpo ingrato. A volte mi piacerebbe chele suore di questo sanatorio conoscessero il mio segreto. Matemo che abbiano già sofferto abbastanza durante la guerra, eda queste parti nessuno vuole ricordare.

Qual è il mio proposito? Essere fedele al dramma? Oppurescrivere per recuperare la calma? So soltanto che il Male nonsorge in maniera innocente. Come la malattia che mi corrode i

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polmoni ha avuto bisogno di un lungo periodo di incubazione,allo stesso modo le tragedie umane si nutrono del tempo, perquanto noi uomini tendiamo a disperderci in questioni monda-ne. Ed esiste qualcosa di più frivolo della politica? Nelle mieattuali condizioni, non vorrei peccare di superbia, ma è inutileconfessare i miei peccati senza fare riferimento al grande erro-re della mia epoca: il furore delle ideologie. A questo puntodovrei parlare un po’ del mio popolo e iniziare con il dire chenoi maiorchini non eravamo granché interessati alla politica.Da sempre, ci eravamo contraddistinti per una marcata indif-ferenza verso di essa, quasi che in realtà non fosse altro cheuna faccenda arbitraria imposta dal governo. Come per altreisole, il continente rimaneva troppo distante, in un altro mon-do, e noi coltivavamo una nostra propria filosofia, basata suun codice impresso nel corso dei secoli e delle generazioni.

Eravamo indifferenti, lo ribadisco, ma anche comprensivi eaccomodanti. La migliore prova di ciò si ebbe nel 1931, dopol’improvvisa caduta di Alfonso XIII. Per quanto il nostro po-polo fosse tradizionalmente monarchico, noi maiorchini ciadattammo al nuovo sistema – la Repubblica! – senza farneuna tragedia. Una volta passato il primo momento di timore,si imposero prudenza e buon senso. Ma nel fondo dei nostricuori, Maiorca non voleva essere repubblicana; per quanto iventi diabolici potessero soffiare da Mosca, il seme marxistanon mise radici nel nostro suolo. Nulla alterò il tradizionalepredominio della destra. Eravamo uniti. Lo ripeto. La politicanon ci interessava.

Ma nel continente le cose erano assai diverse. Dopo la fugadel re, il popolo si precipitò a bruciare conventi e chiese dellegrandi città. Era un pessimo auspicio, che dava ragione aquanti, come me, vedevano la Repubblica come una grandeportatrice di disastri. Sin dal primo giorno, il governo repub-blicano mise sotto assedio la Chiesa e ci allontanò dagli affari

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di Stato. Fummo perseguitati, umiliati, depredati… E, al cul-mine dell’oltraggio, alcuni barbari iniziarono a gridare: «Preti,prelati, tutti fucilati!». Per ben due anni dovemmo assistere in-creduli agli atti di vandalismo di quella nefasta utopia giacobi-na, finché i figli della luce non recuperarono il potere. Tutta-via, nonostante il trionfo della destra, nel 1934, ci avesse resti-tuito la speranza, i marxisti non seppero accettare la sconfittae misero nuovamente in moto la macchina del caos. Ci furonoscioperi selvaggi, insurrezioni contadine, tafferugli nelle stra-de. Poi arrivarono i crimini. E, siccome il Maligno vedeva chela sua opera restava incompleta, si scatenò una rivoluzione inAsturia che dovette essere soffocata dall’Esercito.

Nel febbraio del 1936, ebbe luogo una nuova consultazioneelettorale che si risolse con l’inattesa vittoria dei nostri nemici.Quel nefasto trionfo ci riempì i cuori di costernazione. Sindall’inizio, il Fronte Popolare si mostrò come una creaturaabietta e scellerata. La creatura bolscevica tentò di instaurare larivoluzione sul più cristiano dei suoli. Il nostro. In pochi giorni,cominciarono a ripetersi i soprusi del 1931, ora protetti dalla si-tuazione internazionale. Nel corso di quella primavera, la Spa-gna si affacciò alle porte dell’Averno, e nei nostri viali gli ope-rai sfilavano sotto colossali ritratti degli idoli rossi. Nel frattem-po, le autorità repubblicane se ne lavavano le mani. Non face-vano nulla o, peggio ancora, attizzavano il fuoco. In poche set-timane, i marxisti trasformarono il Parlamento in un luogo do-ve venivano investite di legalità tutte le viltà e tutte le turpitudi-ni. Per colpa loro, la plebe finì per impadronirsi della piazza.

Povero Julián! Sempre perso tra i libri. Ho l’impressioneche mi stia nascondendo. Forse pretendo di dare lezioni diStoria? Oppure di dare voce alle mie esperienze? E, in tal ca-so, quale devo scegliere? In questa cella silenziosa tutto ritor-na, in maniera inesorabile; ma devo rimanere fedele ai fatti e

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scrivere di ciò che ci condannò. So che l’Angelo di Dio miguiderà.

Benché fosche nubi coprissero l’intera Spagna, Maiorca sene manteneva al riparo. Ricordo che a quel tempo molti viag-giatori la chiamavano «L’isola della calma». Era vero. Persinoin quel periodo così turbolento, la mia terra continuava a rap-presentare un mondo ordinato, che proclamava la grandezzadi Dio: i monti si innalzavano maestosi, le onde azzurre si in-frangevano contro le scogliere, il grano cresceva e maturavaper il raccolto. I turisti che ci visitarono in quella primaveratrovarono un tesoro, lo stesso tesoro che splende nella miamemoria con il fulgore benedetto dell’armonia. Per loro, era ilParadiso. E ora mi rendo conto che, in parte, inizia a esserloanche per me. È come se in questo autunno di prostrazione,nel sanatorio, io desiderassi fuggire verso un tempo di imma-gini idilliache. Allora penso alla mia isola. La Maiorca prece-dente alla guerra.

Ciononostante, non posso dimenticarmi della mia modestapersona. Recluso nella mia cella, vivevo circondato da brevia-ri, libri e carte… Conservo ancora Introduzione alla vita devo-ta, di San Francesco di Sales, Omelie domenicali, di AntonioMaría Claret, Sermoni e panegirici detti da monsignore Spiri-to Flechier, vescovo di Nîmes, Le origini del Cristianesimo,di Le Camus, Anno cristiano di Croisset, il Breviarium Roma-num, e Educazione e buone maniere del sacerdote, di Bran-chereau, il padre superiore del seminario di Orleans. Fu graziea tali opere – e ad altre scritte dai grandi pensatori della Chie-sa – che imparai a rispettare quel linguaggio che rappresenta ilfondamento della vita sociale, e in virtù del quale tutte le ani-me entrano in comunione di sentimenti e di idee, così da ren-dersi sensibili. Leggevo inoltre assiduamente riviste religiosequali L’Aiuto Perpetuo, Il Messaggero del Cuore di Gesù oL’Araldo di Cristo. In realtà, soltanto le chiacchierate quoti-

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diane con il priore mi tenevano lontano da un’esistenza mono-tona e ripiegata sulla lettura.

Sì, mi alimentavo degli altri. E tuttavia non ero nemmenotalmente cieco da ignorare che la situazione politica si stavafacendo disperata. Verso la fine del mese di maggio, i sociali-sti al governo si tramutarono in burattini nelle mani dei comu-nisti, e correva voce che questi ultimi stessero preparando uncolpo di Stato. Come ho già detto, questo accadeva in conti-nente, e non a Maiorca. D’altro canto, noi maiorchini aveva-mo la percezione che qualcosa di fatidico stesse iniziando aestendersi, come un’epidemia. Dalla Sierra de Tramontana ve-devamo nuvole scure che avanzavano verso di noi. In tali cir-costanze, tutto ciò che accadeva nel continente colpiva la no-stra immaginazione, generando sfiducia, e quando la sfiduciasi insediò nei cuori, fu come se il dramma fosse già in atto an-che sull’isola. Come mi sembra strano rivivere quel timore!Veramente lo avvertivamo tutti? O si tratta soltanto dell’ecodella mia anima pusillanime? Non lo so. Ricordo soltanto cheun inferno di chiese vuote cominciò a popolare i miei sogni.Poi, ebbi quell’incubo.

Era una mattina di giugno. Passeggiavo per una città a mesconosciuta, vestito da contadino. Al momento di svoltare l’an-golo, scoprivo una meravigliosa piazza da cui si innalzava lachiesa più bella che avessi mai visto. Poi accadeva qualcosa diterribile. Improvvisamente, veloci figure nere si agitavano in-torno al santuario mentre le fiamme esplodevano dalla facciata.In brevissimo tempo, l’incendio divampava assumendo vasteproporzioni. Volevo correre, ma non ci riuscivo. Quando final-mente le guardie entravano in azione, la folla si rivoltava controdi loro, scagliando sassi e lanciando insulti. Lo stesso accadevacon i pompieri, i quali, di fronte alla violenza della folla, rinun-ciavano a intervenire ritirandosi nella caserma. Nel frattempo, ipiù esagitati avevano fatto irruzione nella chiesa, armati di tani-

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che di combustibile, e davano fuoco ai banchi, agli altari e aiconfessionali. Dalla strada era possibile vedere le fiamme ros-sastre uscire dalle finestre, mentre la gente applaudiva e grida-va. I malfattori che circolavano ancora all’interno dell’edificiosi davano a gettare dal balcone libri, sedie, cuscini, vestiti, qua-dri… Vedendo cadere quel tesoro, la marmaglia si avventava sudi esso. I più sfrontati si agghindavano con stole e casule, e simettevano a ballare in mezzo alla strada, consumando il sacri-legio. Mi svegliai terrorizzato alla vista di un miliziano che fa-ceva indossare un abito da monaca a una delle sue donnette.

Mentre il resto del paese viveva ogni giorno calamità simi-li, a Maiorca il dramma si consumava in sordina. Non ci furo-no delitti né chiese distrutte. Deo gratias. Tuttavia, pregavamoaffinché quell’odio segreto che insidia le piccole comunitànon esplodesse alla luce del sole. Ignoro il momento in cui an-che la nostra aria si avvelenò. È ovvio, però, che dopo l’assal-to alla Casa del Popolo qualcosa cambiò definitivamente. LaCasa del Popolo di Palma era un centro ricreativo in cui glioperai organizzavano assemblee ed eventi culturali. Per i mar-xisti si trattava di qualcosa di simile a una cattedrale operaia,che Iddio mi perdoni. Per i cattolici, invece, era il simbolo deltrionfo repubblicano e il tempio dove venivano divulgate leidee dissolutrici. A quanto pare, era dotata di una biblioteca,di un teatro e di diverse aule dove venivano impartite lezionidi calcolo, ortografia e contabilità. Ma i rossi non potevanotrarci in inganno: nessun buon cristiano sarebbe mai entratonella Casa del Popolo. E, tanto meno, Julián Alcover.

Ebbene, nel giugno di quell’anno si verificò un’esplosionenell’edificio. Vi furono diversi operai feriti e ingenti danni. Sindal principio, i nostri nemici accusarono alcuni membri dellaFalange, ritenendoli responsabili di aver collocato la bomba.Ma non riuscirono a provarlo, visto che a quel tempo i princi-pali falangisti si trovavano reclusi nel forte di San Carlo. A

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causa dell’accaduto, i più esaltati si diressero verso la parroc-chia di San Giacomo con l’intenzione di distruggerla. Ci fu ungran tumulto, alcuni danni, e soltanto l’intervento divino riuscìa evitare la catastrofe. Poche ore dopo, comunque, i dirigentisindacali emanarono un comunicato urgente con il quale pro-clamarono una giornata di sciopero generale, al quale aderiro-no gli operai delle fabbriche e i lavoratori delle linee tranviariee ferroviarie. Nel contempo, i picchetti costrinsero alla chiusu-ra i caffè e i piccoli negozi, e venne ridotta l’attività nel Merca-to Municipale. Quel giorno, non uscimmo per strada, ma siracconta che Palma fosse una città perduta, lontana da Dio.

In quello scenario, l’assassinio di Calvo Sotelo a Madrid fuuna vera tragedia. L’eco di quel crimine scosse tutte le co-scienze, attraversò il mare e si fece sentire anche nella nostrapacifica città di provincia. La Bestia aveva parlato. E lo avevafatto consapevole del fatto che la Spagna eterna aveva rivoltoa quell’illustre connazionale i propri occhi pieni di speranza.Tutti potemmo vedere il suo cadavere gettato come un muc-chio di stracci insanguinati sul selciato sporco di una necropo-li. Per colpa dei marxisti, l’intero paese si rivestì di lutto, e di-ventammo la vergogna della Terra.

Quattro giorni dopo, venne celebrato un solenne funeraleper la sua anima nella chiesa di San Francesco. In previsionedi possibili tumulti, il sindaco repubblicano inviò un distacca-mento di polizia per mantenere l’ordine, e gli agenti si appo-starono davanti alla porta del santuario. Temendo le perquisi-zioni, alcuni giovani della Confederazione Spagnola delle De-stre Autonome si videro costretti ad assistere al funerale senzaarmi. Malgrado ciò, le fidanzate e le sorelle di quei fedeli riu-scirono a entrare nella chiesa con le pistole nascoste sotto ivestiti. In quel momento, un fatto così aberrante avrebbe do-vuto metterci in guardia. Ma non fu così. Pensavamo a unacosa sola: nel momento in cui dei buoni cristiani devono por-

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tare con sé le armi per potere assistere a una messa e, quel cheè peggio, devono nasconderle tra le sottane delle loro donne,l’ordine è morto.

E così giunse il pomeriggio del 18 luglio, quando tutta laSpagna era in ebollizione. L’Esercito d’Africa si era sollevatocontro la Repubblica. In poco tempo, tale sollevazione si estesein tutto il paese. Come una marea. Successivamente, alcuni mi-litari mi misero al corrente del loro profondo disgusto e mi in-formarono che già da vari mesi stavano preparando il Putsch.Venni anche a sapere che i falangisti conoscevano perfettamen-te i progetti dell’Alzamiento, e che il capo della Falange avevadato istruzioni ai comandanti dei villaggi perché attendesseroil segnale convenuto. Nel nostro convento, però, non arrivava-no queste voci, che invece altrove circolavano sin dalla prima-vera. Che cosa sarebbe accaduto? Ora le emittenti del governorepubblicano ci tormentavano con notizie allarmanti e non per-devano occasione per alternare la lusinga all’offesa, la spaval-deria alla promessa di perdono. Sin dal primo momento, i mar-xisti rivolsero le loro minacce contro di noi. Se avessimo ap-poggiato il colpo di Stato, saremmo stati considerati dei tradi-tori. Traditori verso che cosa? Verso Dio, verso i nostri princì-pi? La Chiesa aveva sofferto molto. Troppo.

All’alba del 19 luglio, un gruppo di repubblicani maiorchi-ni si recò dal governatore civile per ottenere armi e per impe-dire che la gente perbene si riversasse per le strade. Fortunata-mente, il signor Espina si rifiutò di soddisfare le loro richieste,sostenendo di disporre di forze sufficienti per garantire l’ordi-ne pubblico. Al tempo stesso, proibì ai militanti di organizza-zioni operaie, come la CNT e la UGT, di portare armi con sé.Egli intendeva in tal modo evitare quei disordini che tanto ec-citano il popolo e tanto danno avevano procurato negli annidella Repubblica. Grazie a tale iniziativa, così, non si dovette-

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ro registrare grandi spargimenti di sangue. Nel giro di pocheore, i nostri occuparono le sedi governative e iniziarono l’as-salto a quelle locali, dove risiedevano i raggruppamenti politi-ci di sinistra. Ricordo che quel giorno scesi a Palma colmo diinquietudine. Nei dintorni della città non c’era un’anima, manelle strade del centro circolavano automobili piene di gentebenestante che intendeva lasciare quanto prima la città. Trat-tandosi del primo fine settimana d’estate, i miei concittadinicredevano forse che tutto si sarebbe risolto con una crisi mini-steriale. E se ne andarono in vacanza.

Dal convento, il priore si manteneva al corrente dei fatti.Seduto accanto alla radio, ascoltava attentamente le notizie:ora Radio Maiorca stava promulgando un Bando di Guerra,decretato dal governatore militare, con istruzioni assai preciseper tutta la popolazione. Anche se non arrivai in tempo perascoltare le parole iniziali, rammento chiaramente il terzopunto in cui il generale Goded si dichiarava deciso a mantene-re l’ordine e l’autorità: «Saranno passati per le armi tutti colo-ro che tenteranno in qualsiasi modo, sia esso azione o parola,di opporre la benché minima resistenza al Movimiento Salva-dor della Spagna. Allo stesso modo, sarà punito anche il mini-mo tentativo di provocare scioperi o sabotaggi di qualsiasi ge-nere e il possesso di armi, che devono essere consegnate im-mediatamente presso le caserme». Dopo la lettura, il priore miguardò in silenzio. E successivamente si fece il segno dellacroce. Qualcosa di molto grave era accaduto fuori dall’isola, equalcosa di molto grave iniziava ad accadere al suo interno.Non avevamo mai vissuto una situazione simile. La nostraunica consolazione era la speranza di un Movimiento Salvador– anche se veniva dall’Africa – perché «salvatore» è la parolapiù bella per il cristiano stanco di soffrire.

Mentre le principali città spagnole continuavano a trovarsinelle mani dei marxisti, Maiorca riacquistò la Luce. Tuttavia,

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benché il Bene avesse vinto, l’isola rimaneva accerchiata danemici. Immaginiamo soltanto per un istante una Maiorca iso-lata nel più assoluto senso della parola, una terra circondatada un mare ostile, che incomincia a subire la minaccia del-l’Esercito Repubblicano. Il litorale mediterraneo era rosso:Barcellona, Valencia, Alicante… A poche miglia dalla costanavigavano navi da guerra i cui cannoni erano puntati controdi noi. Tutto annunciava odio, fuoco, devastazione. Quandoguardavamo verso terra, ci sentivamo al sicuro, ma se guarda-vamo verso il mare, il cuore ci si stringeva in petto. Il nostrospirito era prostrato, soprattutto mentre osservavamo gli stra-nieri affrettarsi a partire di fronte all’imminenza del disastro.Un certo cappellano inglese mi riferì che l’Inghilterra avevainviato una nave verso l’isola per recuperare i propri sudditi.Una mattina, il cacciatorpediniere Devonshire apparve mae-stosamente nella baia, con la sua bandiera bianca che svento-lava sul colore smeraldo del mare. Nei giorni successivi, altrinavigli stranieri – francesi e tedeschi – approdarono a Palmaper raccogliere i propri compatrioti. L’isola si era trasformatain una nave. Una nave alla deriva, colma di persone inquiete,incalzate, intimorite. Eravamo circondati. E, quel che è peg-gio, eravamo rimasti soli.

Verso la fine di luglio, i marxisti iniziarono le incursioniaeree. Dalla mia finestra ebbi modo di assistere al passaggiodel primo aereo: in lontananza tutto appariva tranquillo, poi ilrombo del motore risuonò minaccioso sopra i tetti della città.Udii il latrato dei cani e successivamente il rintocco dellecampane. Improvvisamente echeggiò uno sparo, e i piccionidel chiostro si alzarono precipitosamente in volo. È singolareil fatto che la guerra cominciasse, per me, con quello sparoche metteva in fuga i piccioni. Fu il primo segnale. Fino ad al-lora noi tutti eravamo stati come uccelli, creature semplici chevivevano in un giardino preservato dal mare. Ma quello sparo

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ci espulse dall’Eden con un suono terribile: il suono dell’uo-mo che si scaglia contro il suo stesso fratello. Caino e Abele.Mentre l’aereo pirata continuava a profanare il nostro cielo, sisuccedettero altri spari. Ricordo che noi frati salimmo in moltisulla terrazza, allarmati dai colpi. Era tutto oltremodo confu-so. In realtà nessuno di noi si era ancora abituato all’idea diuno stato di guerra: la maggioranza non pensava nemmenoche Palma fosse già presieduta dalle nostre truppe, e ci costònon poco scoprire che erano state queste ultime ad aprire ilfuoco sull’aereo dei rossi. Non il nemico. La sparatoria si fecepiù intensa, e la città intera iniziò a pulsare di un’eco sincopa-ta e violenta, fino a che l’aeroplano concluse le sue evoluzionie scomparve in direzione del mare.

Poco dopo, giunse l’ora dell’Angelus e ci riunimmo nellacappella. Rammento un altro particolare deprimente: in pochiminuti le nostre voci erano cambiate. Ormai non c’era più nésperanza, né serenità, poiché l’accaduto aveva estirpato da tut-ti noi qualunque sentimento di allegria. Fu allora che compre-si che i drammi più profondi della vita spesso si manifestanonelle cose più insignificanti: un rumore, lo sbattere di una por-ta, il battito d’ali di un uccello. Al termine della preghiera, ri-tornammo alle nostre faccende con il cuore in apprensione.

In conseguenza del primo attacco, e delle furibonde raffi-che che si erano scatenate per le strade, i nostri cominciaronoa predisporre strategicamente le difese. All’approssimarsi delpericolo, rispondevano con mitragliatrici e mortai antiaereocollocati su alcune terrazze. Oggi mi domando se esista anco-ra l’edificio della Società Anonima Cross, o se sono soltantoio a conservare il ricordo delle sue mitragliatrici che sputanofuoco. Non credo che le suore lo sapessero, e neppure chequesto le interessasse particolarmente. Comunque, nel mioracconto voglio mettere in risalto il fatto che ora finalmentepotevamo difenderci.

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