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Diversity Management: dalla teoria alle pratiche della società della conoscenza a cura di Lalla Golfarelli

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Diversity Management:

dalla teoria alle pratiche della società della conoscenza

a cura di Lalla Golfarelli

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Indice:

Building on diversity ..................................................................................................... 3

Donne e uomini, imprese e lavori in Emilia Romagna ..................................................... 10

Dalle pari opportunità alla gestione della diversità alle capacità: una nuova teoria di

eguaglianza sul luogo di lavoro? ................................................................................... 24

Diversity management e società della conoscenza ........................................................ 33

Tandem: Generazioni di età e competenze................................................................... 40

Genere e generazioni: differenti ma non troppo. Il Mentoring quale strategia di sostegno

per le giovani donne ................................................................................................... 57

Diverse abilità, diversity management e diversity tool nell’apprendimento in rete ......... 70

La gestione della differenza di genere contiene in sé quasi tutte le problematicità del

Managing Diversity ..................................................................................................... 80

Considerazioni finali ................................................................................................... 97

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Diversity management: dalla teoria alle pratiche della società della conoscenza.

"What do we live for, if it is not to make life less difficult to each other?" George Eliot or Mary Anne Evans, Middlemarch, 1871

Building on diversity

“Workforce diversity: Ways in which people in a workforce are similar and different from one another. In addition

to the characteristics protected by law, others cited by the literature include but are not limited to background,

education, language skills, personality, sexual orientation, and work role.”

Diversità della forza lavoro: I modi in cui le persone che compongono la forza lavoro sono

simili e diverse tra loro. Oltre alle caratteristiche protette per legge, altre citate dalla

letteratura comprendono, ma non si limitano a, retroterra, capacità linguistiche, personalità,

orientamento sessuale, e ruolo sul lavoro.

Equal ha scelto “Building on diversity” come tema di approfondimento nell‟ambito del gruppo

tematico europeo sull‟Occupabilità.

Si legge nel report del 2005: “Con tale termine si vuole sottolineare la specificità

dell‟approccio integrato di Equal, volto a facilitare l‟inclusione sociale di coloro che incontrano

difficoltà ad integrarsi o a restare nel mercato del lavoro. Il presupposto di questo tipo di

approccio è la convinzione che sia necessario, per ragioni sia sociali sia economiche, lottare

contro ogni tipo di pregiudizio e discriminazione basato sull‟origine etnica, sull‟età, sul genere,

sull‟orientamento sessuale o religioso, sulle abilità o altre caratteristiche che ostacolano

l‟integrazione o la partecipazione attiva dell‟individuo.”

“Possiamo dire che l‟ipotesi della diversity approfondisce ed estende quella della

discriminazione che cercava di sanzionare comportamenti scorretti in relazione a qualsiasi

segmento di popolazione. Ovviamente attraverso la diversity si cerca di abbattere le barriere

discriminatorie, ma in più si propone di valorizzare le dimensioni di talento individuale. In

questo cambiamento di prospettiva si tende a valorizzare sia i contributi individuali che il

contributo che le persone possono dare all‟organizzazione. Viceversa nella logica delle pari

opportunità venivano salvaguardati gli interessi dei singoli senza necessariamente tenere

presente i vantaggi organizzativi. Il gioco soggiacente passa quindi da win-loose a win-win con

evidenti elementi di reciproco vantaggio.” (M. C. Bombelli, 2003)

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Potremmo schematizzare così, attraverso i concetti simmetrici di cittadinanza sociale e

cittadinanza organizzativa, la strada per le pari opportunità per tutte e tutti, all‟interno di un

meta obiettivo di sviluppo sostenibile e coesione sociale:

Il tema si interseca con la tematica delle pari opportunità e con gli scacchi subiti.

“Le iniziative a favore delle pari opportunità spesso sono state viste come qualcosa che deve

essere fatto, per la presenza di una legge che lo richiede o lo finanzia, o che è bene fare,

perché politicamente corretto e perché alcuni stakeholder premono in questa direzione.

Finché questa visione resterà dominante, difficilmente le pari opportunità potranno incidere

sul complesso delle risorse umane, sulla cultura e sui processi aziendali e rimarranno, invece,

iniziative isolate e marginali riguardanti un gruppo di donne in azienda. (M. C. Barabino, B.

Jacobs, A. Maggio, 2001)

La ragione di queste difficoltà sembra risiedere nel fatto che la maggior parte degli

interventi di pari opportunità non è riuscita a incidere su quel modello tradizionale di gestione

delle risorse umane, che per anni ha mirato all'omologazione e assimilazione di tutto il

personale rispetto a un unico paradigma.

Contesto

sociale

Politiche e azioni

antidiscriminatorie

Cittadinanza

sociale

Cittadinanza

organizzativa

Diversity

Management

Contesto

organizzativo

Sviluppo

sostenibile e

Coesione

sociale

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Uguali opportunità di impiego: una politica inserita nella legge che richiede che le azioni di

impiego siano libere da discriminazione proibita, compresa rispetto a razza, colore, religione,

genere, origine nazionale, età o disabilità.

Gestione della Diversità: un processo mirato a creare e mantenere un ambiente di lavoro

positivo nel quale le similarità e differenze degli individui vengono ritenute di valore, così che

tutti possano raggiungere il proprio potenziale e massimizzare il proprio contributo agli

obiettivi e scopi strategici dell‟organizzazione.

Solo un modello di gestione fondato su una dinamica tensione tra più dimensioni, può garantire

un'efficace valorizzazione e integrazione di tutte le differenze di cui le risorse umane sono

portatrici, della varietà di abilità e comportamenti che riflettono il suo genere, la sua

nazionalità, l'età, la razza, il suo background e le sue esperienze. (Equal Glocal, 2004)

Negli ultimi anni, il dibattito sul ruolo sociale delle imprese ha acquisito un nuovo impulso.

Sempre più spesso si ricercano nessi fra coesione sociale e competitività di sistema, fra

successo e responsabilità sociale delle imprese.

“La promozione della differenze sul luogo di lavoro, nelle imprese, è associata alle nuove

strategie per reclutare e mantenere al lavoro le persone appartenenti a gruppi sociali diversi.

Il concetto più ampio di Responsabilità Sociale di Impresa (RSI) fornisce un quadro di

riferimento particolarmente fertile per lo sviluppo e l‟attuazione di queste strategie.”

(“Building on diversity” 2005)

Molte sono le sorgenti e molte le scie nelle quali questi cambiamenti si collocano.

E‟ con Elton Mayo che inizia la riflessione e la ricerca sulla soddisfazione sul lavoro: “Se il

dipendente puo‟ aspettarsi dalla partecipazione alla vita dell‟azienda la soddisfazione di alcuni

suoi bisogni emotivi, può sentirsi anche moralmente partecipe e impegnato nello sforzo

aziendale. Da parte sua l‟azienda può aspettarsi un grado maggiore di lealtà, di impegno e di

identificazione con gli scopi organizzativi” Secondo Mayo, nei lavoratori prevaleva la “logica

dei sentimenti”, mentre i manager si ispiravano alla “logica dei costi e dell‟efficienza”. In

pratica, i dipendenti apprezzavano la collaborazione spontanea e i rapporti creativi con le

persone colleghe di lavoro e si sarebbero comportati di conseguenza: “il desiderio di essere

stimolati dai propri simili, il cosiddetto istinto di associazione, è decisamente preponderante

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rispetto al mero interesse personale e alla logica delle argomentazioni sulle quali si fondano

così tante teorie fasulle di management.” (E. Mayo, 1949)

E‟ il primo passo verso un approccio che mette al centro dell‟organizzazione aziendale la

motivazione, è il primo sassolino negli ingranaggi dell‟ idea taylorista di organizzazione del

lavoro, che ha come nocciolo la neutralizzazione delle differenze e la centralità dell‟ uomo

macchina al servizio dell‟ organizzazione: è l‟inizio del lungo percorso che porterà a

tematizzare la cittadinanza organizzativa che “Tende ad analizzare i comportamenti (nel

contesto organizzativo) discrezionali e non prescritti direttamente dal ruolo e dalle norme

organizzative particolarmente favorevoli verso l‟organizzazione e di grande importanza ai fini

dell‟efficacia organizzativa basati sullo scambio sociale fra individuo e organizzazione.“ (G. P.

Quaglino, 2004)

Ma lo scambio sociale di chi? Chi è oggi nelle imprese? Di che cultura è portatore o

portatrice?

Geert Hofstede, uno dei pionieri della Cross Cultural Analysis ci dice che “La cultura è il

sistema di valori, il software della mente, che contraddistingue i membri di un gruppo dagli

altri” (G. Hofstede, 1989) e clusterizza le differenze: ma il mondo è mutato e la caduto del

muro di Berlino e la tecnologia hanno accellerato processi di internazionalizzazione e di

mobilità internazionale: la modernità, forse meglio la contemporaneità, ci porta a vivere in un

mondo sempre più globalizzato che mette in crisi anche quella clusterizzazione, che resta

comunque un punto di partenza .

In una società liquida (Z. Bauman, 2006) fatta di legami fragili e mutevoli, il mondo in cui

viviamo sfoggia una fisionomia sempre più effimera e incerta l‟individuo/a è sempre più solo/a

e al centro e fatica a stare dentro gli stessi confini di quelle differenze.

“Tutti noi condividiamo lo stesso mondo ed affrontiamo gli stessi problemi che non sono mai

problemi individuali nonostante li affrontiamo come problemi singoli, sono problemi condivisi e

non ci sono soluzioni individuali a problemi prodotti socialmente perchè i problemi collettivi

possono essere risolti soltanto collettivamente e a meno che non ci rendiamo conto di questa

cosa se non capiamo che non è un mio fallimento individuale un mio sbaglio, la mia ignoranza o

le mie mancanze personali, ma che tutto dipende da un modo in cui la nostra vita e'

organizzata, se non capiamo questo possiamo fare molto poco per migliorare la nostra

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condizione, ma una volta ancora dico che la modernità liquida come qualsiasi altra modernità e

post modernità è un rischio e un'opportunità allo stesso tempo”.

Se guardiamo Hierachy of Needs, (A. Maslow, 1954) comprendiamo meglio come le stesse

esigenze di soddisfazione trovano strade di soluzione differenti anche nello stesso contesto e

trascinano nei luoghi di lavoro, nelle organizzazioni e nelle imprese differenti toni di

incertezza e di bisogno: e‟ come se oltre che una gerarchia i bisogni avessero un sesso, un

colore, appartenenze, nostalgie, mode, tendenze…

In una società flessibile e liquida come si declina il bisogno di autorealizzazione? E quanto

diviene solido e desiderabile il livello della stima, della dignitas? E quanto si intrecciano

sicurezza e appartenenza? E in una società dei consumi la fame non è solo fame, la stessa

sopravvivenza cerca altre declinazioni. La stessa percezione di eguaglianza e differenza muta

con il mutare di “Generi, generazioni, genti.” (Associazione Orlando, 2000)

Quali differenze?

All‟ inizio era il due. “ Puntare sull'identità e non solo sulla soggettività e' anche un modo di

ricordarci che abbiamo bisogno di criteri oggettivi per elaborare la nostra cultura. L'identità

sessuata, che per me e' anzitutto un'identità relazionale - il primo luogo di intreccio fra

natura e cultura -, mi sembra un punto di riferimento oggettivo indispensabile per coltivare la

nostra soggettività e per condividerla nella differenza.” (Intervista a Luce Irigaray, 2007)

Vi sono differenze che fanno parte del patrimonio individuale immodificabile e quelle che

invece fanno riferimento ad elementi acquisiti nel tempo e mutabili.

Le une vengono tradizionalmente definite differenze primarie, le altre secondarie:

-Differenze primarie: fanno riferimento ad elementi quali il sesso, l'età, il paese d'origine,la

lingua d‟ origine, la razza o il gruppo etnico di appartenenza ovvero tutte quelle variabili che

fanno parte di un patrimonio di nascita dell'individuo che non possono essere modificate.

Il genere è parte delle caratteristiche primarie e continua a collocarsi fra queste come

rilevanza identitaria ma diviene anch‟ esso”mutabile”. La differenza sessuale si fa sessuata. Lo

stesso linguaggio d‟origine può essere plurimo.

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-Differenze secondarie: fanno riferimento ad elementi acquisiti nel tempo i saperi e le

competenze acquisite, i percorsi educativi, il ruolo organizzativo, l'esperienza professionale,

la situazione familiare, il paese di residenza e di provenienza, il reddito, la stessa religione,

che pure è un elemento di forte strutturazione culturale che determina fortemente l‟ essere

soggetto delle persone, è fra le esperienze modificabili.

Le identità personali sono caratterizzate dal mix variabile delle prime e delle seconde: siamo

diversi “fra” noi ma siamo diversi anche “in” noi, sperimentiamo identità multiple, che possono

entrare in sintonia o confliggere.

Le differenze non sono astratte, ma si riferiscono alle persone concrete con le loro

caratteristiche, personali e culturali, e i loro contesti di riferimento e di azione.

Come muta il nostro radicamento culturale e quali conoscenze ridisegnano il nostro software

mentale?

Questo modo di essere liquido e mutante del mondo globalizzato si riflette anche sulle

imprese e sulle organizzazioni, ove sono sempre più presenti molteplici identità e necessità di

esistere in ambiti molto differenti in tempi molto sincopati, ridotti, flessibili.

E‟ meno semplice parlare di eguaglianza, è meno semplice dire la propria identità, parlare di

diversità, agirla, implica guardare gli altri e le altre da noi, come persone che hanno una

propria identità e una propria storia, ma, come noi, cambiano rispetto a se stesse e al mondo e

cambiano il mondo. l‟eguaglianza.

Il valore dell‟eguaglianza resta, ma la tensione fra eguaglianza, fratellanza e libertà, che

definiscono la cultura occidentale moderna, è scandita da differenze di linguaggi, poteri,

saperi, provenienze, generi e generazioni in un mondo globalizzato, dove alle migrazioni per

necessità si aggiungono le migrazioni per scelta, per piacere, per conoscenza.

Sempre più la relazione fra individuale, locale e globale origina da diversi saperi e bisogni, di

quei saperi ha bisogno e si serve, spesso non da risposte a quei bisogni, creando nuove

discriminazioni.

Gestire le differenze con una tensione positiva verso l‟ equità, cambia il focus, la persona è al

centro.

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Managing diversity – how to move equity forward (CIPD, Diversity an overview- 2006)

Negli ultimi anni, il dibattito sul ruolo sociale delle imprese ha acquisito un nuovo impulso.

Sempre più spesso si ricercano nessi fra coesione sociale e competitività di sistema, fra

successo e responsabilità sociale delle imprese.

Quanto possono contribuire a conciliare le competenze, i saperi, le appartenenze, le esigenze

di flessibilità delle persone che vivono le loro vite, di donne e uomini, lavorano e studiano con

quelle delle imprese, strategie e pratiche di diversity management?

Come si possono gestire diversità/differenze per generare coesione e valore sociale ed

economico?

Attenzione al gruppo Attenzione all’individuo

Applicazione esclusiva Applicazioni inclusive

A spizzichi Strategia olistica legata agli scopi

aziendali

Integrare in una cultura esistente Includere in

una cultura aperta

Rimuovere le barriere alimentare il potenziale

Rispettare la legge Sviluppare buone prassi

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Donne e uomini, imprese e lavori in Emilia Romagna

E‟ difficile oggettivizzare ma per rendere palpabili, misurabili e ineluttabili le agenti, viventi,

parlanti differenze: guardiamo la Regione Emilia Romagna, almeno in quello spaccato

quantitativo che riguarda il lavoro e l‟ impresa.

l mercato del lavoro in Emilia Romagna – dal Rapporto 2007

Il tasso di attività é cresciuto dal 66,4% del 1995 al 71,9% nel 2006. Nonostante questo

forte aumento dell‟offerta di lavoro, il tasso di disoccupazione, sceso nel 2003 ad un valore

estremamente ridotto, il 3%, è risalito nel 2006 ma si è fermato al 3,4% (Nord-Est 3,6%,

media nazionale 6,8%). Il tasso di disoccupazione giovanile, giunto al 9% del 2003, risale al

10,7% nel 2006, ma nel Nord-Est è più alto (11%) e la media nazionale è doppia (21,6%). Il

tasso di disoccupazione delle giovani donne é al 13,7% nel 2006 (Nord-Est 15,2%, media

nazionale 25,3%).

In crescita risulta, come si è detto, la percentuale di disoccupazione di lunga durata. Era il

27,4% nel 1995 per il complesso e per le donne il 27%. Nel 2006 si ha rispettivamente il

28,7% e il 29%. Anche in questo caso si tratta però di valori che si situano nettamente al

disotto delle medie nazionali e lievemente al disotto anche del Nord-Est.

Sul terreno delle differenze uomini-donne (che peraltro rimangono significative) i dati

dell‟Emilia-Romagna mostrano valori assoluti migliori e riduzioni delle differenze superiori

rispetto a quelli nazionali e a quelli della circoscrizione Nord-Est.

Anche gli indicatori relativi alla formazione di capitale umano danno un quadro positivo. La

scolarità è a livelli superiori all‟obiettivo europeo. La percentuale di laureati in discipline

tecnico- scientifiche è aumentata: dall‟8,7% del 2000 al 16,5% nel 2005, valore nettamente

superiore alla media nazionale e alla media della circoscrizione Nord-Est. Il dato

dell‟istruzione appare particolarmente importante, come è ribadito nell‟ultimo capitolo del

presente Rapporto. Emerge infatti che in questa regione la precarietà del lavoro si presenta

più grave nei settori nei quali la domanda di lavoro richiede mediamente un livello di istruzione

superiore a quello che trova dal lato dell‟offerta, mentre la precarietà è minore nei settori nei

quali l‟offerta di lavoro ha un eccesso di istruzione. Anche da questo punto di vista occorre

tuttavia rilevare che ciò non può essere spiegato trascurando la questione salariale ed i regimi

contrattuali. Nei settori in deficit d‟istruzione il lavoro è infatti pagato poco e viene offerta

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scarsa sicurezza del rapporto di lavoro, per questo l‟offerta di lavoro di laureati, per esempio,

è minore della domanda. Occorre poi segnalare che in questa regione esiste un‟area, seppur

limitata, di grave precarietà composta da persone (in misura maggioritaria maschi) che hanno

livelli di istruzione particolarmente elevati, superiori alla laurea.

Queste differenze, con la forte ripresa dell‟occupazione femminile, possono essere spiegate

dalla compresenza di due elementi. In primo luogo, come era stato ampiamente sottolineato

nel rapporto pubblicato nel 2006, i dati relativi alla dinamica dell‟occupazione rilevati nel corso

del 2005 risentivano certamente di una parziale distorsione dovuta all‟effetto delle

regolarizzazioni degli immigrati, che erano contabilizzati, dal punto di vista statistico, come

un incremento del numero degli occupati. Il dato relativo all‟incremento dell‟occupazione

maschile, che risultava accompagnato da un progresso senza precedenti dell‟offerta di lavoro

degli uomini, appariva subire l‟influenza di questo fenomeno in misura maggiore rispetto a

quello delle donne, rendendo il confronto incoerente. La fine o forte riduzione dell‟effetto

distorsivo delle regolarizzazioni, che aveva giocato un ruolo centrale nei dati del 2005,

contribuisce dunque a riportare gli andamenti dell‟occupazione femminile più in linea con quelli

tradizionali. Ma la forte crescita dell‟occupazione femminile 2006 risente anche della ripresa

economica. L‟ andamento riscontrato é infatti coerente e conferma quanto già rilevato in

passato, e cioè che l‟andamento dell‟occupazione femminile é più sensibile rispetto quella

maschile alla congiuntura.

Al maggior contributo della componente femminile alla crescita dell‟occupazione si affianca un

andamento più equilibrato dell‟incremento dell‟offerta di lavoro, circa 19.000 unità in più di

uomini e circa lo stesso di donne. La dinamica congiunta di domanda ed offerta di lavoro

produce un andamento differenziato dei disoccupati: stabili i disoccupati maschi, in

diminuzione le donne disoccupate.

Per quanto concerne il lavoro part-time, abbastanza sorprendentemente, la quota di lavoratori

a tempo parziale che non vogliono un lavoro a tempo pieno è indifferenziata per genere e

ammonta a circa il 60%. Tuttavia sono profondamente diverse, tra maschi e femmine, le

ragioni che spingono alla scelta del tempo parziale: per i maschi il motivo prevalente (40%) è

“disporre di più tempo libero”1, mentre per le donne la motivazione largamente prevalente

(50%) è costituita dagli obblighi di cura verso figli e altri familiari. Solo il 14,4% delle donne

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dichiara, invece, di lavorare part-time perché nella zona in cui vive i servizi pubblici e/o

privati, cui affidare la cura dei bambini, sono assenti, inadeguati o troppo costosi.

A fronte della riduzione complessiva dei disoccupati di circa 7.000 unità si riscontra, infatti,

un incremento di 330 unità (pari a circa il 2%) dello stock dei lavoratori in cerca di

occupazione di età superiore ai 45 anni. A causa di tale incremento il peso dei disoccupati over

45 sul totale, che si attestava nel 2005 su un valore di poco superiore al 20%, raggiunge il

23% nel 2006. Tale crescita si pone in linea con l‟evoluzione di più lungo periodo. Nel 1996 la

quota era ancora il 13%. Si tratta dunque di un aumento di quasi dieci punti percentuali

nell‟arco dell‟ultimo decennio. Si noti che è anche il decennio dell‟introduzione prima e poi

forte aumento del lavoro atipico, che riguarda in modo particolare i giovani e costa meno,

come si dirà tra poco. Vi è stato, quindi, un significativo effetto di spiazzamento dei giovani

nei confronti dei lavoratori di maggiore età (ed esperienza). Il risultato è stato nell‟immediato

una riduzione del costo del lavoro, al prezzo però - forse - di una riduzione della produttività,

che desta preoccupazioni per il futuro.

I dati confermano, in primo luogo, l‟enorme aumento dell‟occupazione che si è avuto in Emilia-

Romagna tra il 1995 e il 2003, e che ha già costituito l‟oggetto di analisi dei precedenti

Rapporti (quando se ne é messa in luce anche le forte e crescente componente di lavoro

atipico). Il tasso di occupazione totale (lavoratori e lavoratrici) è cresciuto dal 62,1% del 1995

al 69,5% del 2003, superando l‟obiettivo europeo per il 2005 e s. orando l‟obiettivo 2010, per

poi scendere nei due anni successivi, a causa del ristagno produttivo, al 68,4% nel 2005. La

ripresa dell‟economia nel 2006 lo ha riportato al livello del 69,4%. In tutti questi anni il tasso

di occupazione dell‟Emilia-Romagna è stato superiore alla media delle regioni che fanno parte

della circoscrizione dell‟Italia del Nord-Est e nettamente superiore alla media nazionale.

Il tasso d‟occupazione femminile è cresciuto in misura ancora più rilevante, dal 50% del 1995

al 60,2% nel 2003, valore nettamente superiore all‟obiettivo SEO 2005 e leggermente

superiore anche all‟obiettivo 2010, per poi ridursi di pochissimo nei due anni successivi e

riprendere a salire fino al 61,6% toccato nel 2006, valore nettamente superiore sia

all‟obiettivo SEO per il 2010 (60%) sia, e in misura molto netta, alle medie circoscrizionale e

nazionale.

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Ancora lontano tanto dall‟obiettivo europeo quanto dalla media degli altri paesi dell‟Unione

Europea, anche se superiore ai dati del Nord-Est e dell‟Italia, risulta, invece, il tasso di

occupazione dei lavoratori anziani (“di età compresa tra i 55 e i 64 anni”) che, tuttavia, ha

ripreso a crescere, e in misura non indifferente già dal 2000, passando, in sei anni, dal 29,0%

al 38,0%, valore nettamente superiore a quelli della circoscrizione Nord-Est e alla media

nazionale, con una netta accelerazione nell‟ultimo anno, che potrebbe per. no permettere alla

regione Emilia-Romagna di raggiungere, o di avvicinare sensibilmente, l‟obiettivo fissato dalla

SEO per il 2010 (50%).

Si noti ancora come l‟aumento dell‟occupazione in regione sia stato di dimensioni enormi tra il

1995 e il 2000 e si sia andato poi riducendo man mano che ci si avvicinava agli elevatissimi

standard attuali. Al contrario, l‟aumento dell‟occupazione degli ultracinquantacinquenni è

iniziato soltanto nel 2000 e ha preso particolare vigore nell‟ultimo anno. C‟è da chiedersi a

questo proposito se si tratti di un segnale davvero positivo, ovvero si inserisca nel complesso

degli elementi legati alla precarizzazione del lavoro dei giovani e ai loro bassi salari.

Tutti gli indicatori occupazionali dell‟ Emilia-Romagna presentano risultati migliori sia, anche

se di poco, delle medie della circoscrizione Nord-Est sia, molto più nettamente, delle medie

nazionali, riflettendo così il netto miglioramento della situazione occupazionale avvenuto in

regione, almeno fino al 2003. Il tasso di attività (quota della popolazione di età compresa tra i

15 e i 64 anni che si presenta nel mercato del lavoro, assumendo o la posizione di occupato o

quella di “persona in cerca di occupazione”) è cresciuto in misura sostanziale, dal 66,4% del

1995 al 71,9% nel 2006, valore nettamente superiore alle medie nazionale e circoscrizionale.

Il tasso di disoccupazione, che era sceso nel 2003 ad un valore estremamente ridotto, il 3%, è

risalito nel 2006 al 3,4%, valore di poco inferiore alla media delle regioni del Nord-Est - 3,6%

- e nettamente inferiore rispetto alla media nazionale, 6,8%.

Il miglioramento del tasso di disoccupazione giovanile, tanto totale quanto femminile, è stato

impressionante nella prima parte del periodo che stiamo esaminando, per poi stabilizzarsi negli

ultimi tre anni: tra il 1995 e il 2003 il tasso di disoccupazione totale dei giovani e delle giovani

si è ridotto dal 17% al 9%, risalendo poi al 10,7% nel 2006 (valore di poco inferiore all‟11%

della media delle regioni del Nord-Est ma molto più basso del 21,6% medio nazionale); il tasso

di disoccupazione delle giovani donne si è ridotto dal 24,9% all‟11,2% tra il 1995 e il 2003, per

poi risalire al 13,7% nel 2006, anche in questo caso attestandosi su un valore decisamente

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inferiore alla media delle regioni del Nord-Est - 15,2% - e nettamente inferiore alla media

nazionale, pari al 25,3%, quasi il doppio del valore regionale.

L‟immigrazione

I dati recentemente pubblicati dall‟ISTAT indicano che il numero degli stranieri presenti in

Emilia-Romagna,4 al 1° gennaio 2006 raggiunge le 289 mila unità (informazioni tratte dalle

anagrafi). A fronte di una popolazione complessiva di poco inferiore ai 4 milioni e 200 mila, i

residenti con cittadinanza straniera sono pari al 6,9%. Questo dato è superiore a quello del

Nord-Est (6,6%) e di più rispetto alla media nazionale che non raggiunge i cinque punti

percentuali.

Il confronto con l‟anno precedente mostra un significativo incremento. Il dato all‟inizio del

2005 si attestava intorno alle 258.000 unità, e quindi l‟aumento in un anno è stato di 31.700

unità, corrispondente al 12,3% della popolazione straniera residente. Questo incremento è

maggiore sia rispetto al Nord-Est che all‟Italia. Il flusso migratorio registrato nel Nord-Est

nel 2005 si attesta, infatti, su un valore pari a 77.000 unità, corrispondenti all‟11,8%, mentre

il valore relativo all‟economia nazionale raggiunge le 269.000 unità, con un incremento

dell‟11,2%.

L‟ esame dell‟evoluzione dei flussi nel tempo mostra un parziale rallentamento degli ingressi di

stranieri in Emilia-Romagna che risultano inferiori rispetto ai valori registrati nel corso del

2003 e del 2004 (pari rispettivamente a 41.000 e a 38.000 unità. Questo andamento

corrisponde a quello che si è avuto nelle regioni nord-orientali e nell‟intera economia italiana.

In entrambi i casi si registra nel 2005 un valore del numero di ingressi di stranieri intermedio

fra quelli mediamente registrati nel biennio 2003-2004 e nel biennio 2001-2002.

Le informazioni fornite dall‟ISTAT permettono anche un parziale approfondimento in merito

alla composizione per genere e per età della popolazione straniera residente. Il dato relativo

alla scomposizione per genere evidenzia, in particolare, come i 289.000 stranieri residenti

siano costituiti da 150.000 uomini (pari al 51,9%) e 139.000 donne (pari al 48,1%). Il dato

relativo alla quota femminile appare non dissimile dal valore medio registrato nel Nord-Est

(47,6%) mentre esso risulta leggermente inferiore a quello mediamente rilevato nell‟economia

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15

italiana (49,4%), a causa della maggiore presenza femminile al Centro (52,1%) e al Sud

(53,7%).

Significativo appare il numero dei minori stranieri residenti in regione che si attesta intorno

alle 66.000 unità, pari al 23,3% del totale. Anche in questo caso la quota appare in linea con

quella registrata nel Nord-Est (23,4%) mentre essa è superiore alla media nazionale (21,9%).

All‟esame della struttura della popolazione straniera residente e della sua dinamica nel corso

dell‟ultimo anno debbono, infine, essere affiancate alcune informazioni in merito alle

grandezze relative ai lavoratori stranieri nel mercato del lavoro regionale.

Sulla base dei dati contenuti nell‟ “Indagine sulle Forze di Lavoro”, il numero dei lavoratori

stranieri in Emilia Romagna si attesta su un valore pari a circa 161.000 unità (pari a circa

l‟8,1% delle forze di lavoro regionali), di cui circa 149.000 (pari al 7,5%) provenienti da paesi

al di fuori dell‟Unione Europea. All‟interno di questo ultimo gruppo circa 11.000 lavoratori

risultano in cerca di occupazione. Il tasso di occupazione relativo ai lavoratori extracomunitari

si attesta, quindi, su un valore pari a circa il 7,2%, a fronte di un dato relativo alla popolazione

italiana che non supera il 3%. Molto elevata appare, in particolare, la disoccupazione

extracomunitaria femminile che raggiunge nel corso del 2006 il 10,8%.

Alle differenze nella dimensione della disoccupazione si affiancano altri significativi elementi

di diversità che attengono alla partecipazione al mercato del lavoro. Il confronto dei dati

relativi alla popolazione extracomunitaria con quelli riguardanti la popolazione di nazionalità

italiana evidenziano chiaramente un valore del tasso di attività fra i lavoratori stranieri

significativamente superiore (75,5% contro 71,5%). La scomposizione per genere mostra,

peraltro, come tale maggiore partecipazione derivi completamente dalla partecipazione

maschile (90,2% contro 78,3%) a cui si affianca una evidenza opposta per quanto riguarda le

donne (59,6% contro 64,6%).

Altre differenze significative si riscontrano con riferimento alla struttura per età degli

occupati, che appare caratterizzata fra gli extracomunitari da un maggiore peso delle classi di

età più bassa. A fronte di una quota di occupati di età inferiore ai 35 anni che rappresenta fra

gli italiani il 62% del totale, che cresce al 77% fra i minori di 45 anni, si registrano, infatti,

fra gli extracomunitari valori che si attestano rispettivamente all‟81% ed al 95%.

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Lavoratori in Emilia-Romagna per nazionalità, condizione e genere nel 2006 (migliaia di unità)

nazionalità maschi femmine totale

Italiana 995 773 1.768

UE25 3 8 12

NonUE25 88 50 138

Occupati

Totale 1.086 832 1.918

Italiana 24 31 56

UE25 0 1 1

NonUE25 5 6 11

Disoccupati

Totale 29 38 67

Italiana 1.019 804 1.824

UE25 3 9 12

NonUE25 93 57 149

Totale forze di lavoro

Totale 1.115 870 1.985

Tassi di disoccupazione, occupazione e attività per genere e nazionalità nel 2006

Nazionalità Maschi Femmine Totale

Italiana 2,4 3,9 3,0

UE25 8,8 4,5 5,7

Tasso di Disoccupazione NonUE25 5,0 10,8 7,2

Italiana 76,4 62,1 69,3

UE25 84,1 75,0 77,2

Tasso di occupazione NonUE25 85,6 53,2 70,0

Italiana 78,3 64,6 71,5

UE25 92,2 78,5 81,8

Tasso di attività

NonUE25 90,2 59,6 75,5

Occupati italiani e extracomunitari in Emilia-Romagna per classi di età nel 2006

Italiani

Valori Assoluti (in migliaia di unità) Valori percentuali

Maschi Femmine Maschi e Femmine

Maschi Femmine Maschi e Femmine

15 - 24 56 42 98 5,6 5,5 5,6

25 - 34 238 197 434 23,9 25,4 24,6

35 - 44 308 261 568 30,9 33,7 32,1

45 - 54 251 197 448 25,2 25,5 25,3

55 - 64 108 69 178 10,9 9,0 10,1

65 e > 34 7 42 3,5 0,9 2,4

Totale 995 773 1768 100,0 100,0 100,0 Stranieri Non UE25

Valori Assoluti (in migliaia di unità) Valori percentuali

Maschi Femmine Maschi e Femmine

Maschi Femmine Maschi e Femmine

15 - 24 10 5 15 11,4 10,0 10,9

25 - 34 31 18 49 35,1 35,1 35,1

35 - 44 32 17 49 36,2 33,5 35,2

45 - 54 12 9 21 13,3 17,7 14,9

55 - 64 3 2 5 3,7 3,6 3,7

65 e > 0 0 0 0,2 0,1 0,2

Totale 88 50 138 100,0 100,0 100,0

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Popolazione in età lavorativa in Emilia-Romagna: 1995, 2000 e 2003-2006* (valori in migliaia di unità)

Anno Occupati Persone in cerca di lavoro

Forze di lavoro Popolazione tra i 15 e i 64 anni

1995 996 35 1.031 1.334

2000 1.020 28 1.048 1.327

2003 1.045 21 1.066 1.334

2005* 1.066 29 1.096 1.354

Uomini

2006* 1.086 29 1.115 1.363

1995 673 69 742 1.330

2000 753 46 799 1.315

2003 804 38 842 1.318

2005* 806 45 851 1.333

donne

2006* 832 38 870 1.340

1995 1.669 104 1.773 2.664

2000 1.773 74 1.847 2.642

2003 1.849 58 1.907 2.652

2003ricostruito 1.870 60 1.930

2005* 1.872 74 1.947 2.655

Uomini e Donne

2006* 1.918 67 1.985 2.704

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

* Nel 2004 l‟ISTAT ha modi. cato le modalità di rilevazione dell‟indagine sulle forze di lavoro. Di conseguenza, i dati relativi al 2005 e al 2006 non sono confrontabili con

quelli degli anni precedenti. L‟ISTAT ha comunque ricostruito per il 2003 valori dell‟occupazione, della disoccupazione e delle forze di lavoro complessivi (maschi + femmine)

confrontabili con i successivi a livello regionale.

Occupazione, disoccupazione e forze di lavoro in Emilia-Romagna: 1995-2006

Nella tavola è sintetizzata la struttura della popolazione “in età lavorativa” (compresa tra i 15

e i 64 anni di età) nel 1995, nel 2000, nel 2003 e nel biennio 2005-2006. Questa scansione

temporale permette sia una visione di “medio/lungo periodo” (il 1995 è l‟anno in cui

l‟occupazione, in caduta a seguito della recessione di inizio anni novanta, tocca il minimo prima

di iniziare la lunga fase di espansione che si è protratta per tutti gli undici anni successivi) sia

un‟analisi di “breve periodo” degli ultimi anni. In questa, come nelle schede seguenti, va tenuto

presente che le modalità di rilevazione dei dati dell‟indagine sulle forze di lavoro dell‟ISTAT

sono cambiate nel 2004 rispetto agli anni precedenti, il che limita la possibilità di confrontare

i dati anteriori a tale data con quelli ad essa posteriori. L‟ ISTAT ha tuttavia “ricostruito” il

dato del 2003, applicandogli le modalità di elaborazione in vigore negli anni successivi. E‟ quindi

possibile valutare l‟evoluzione di occupazione e disoccupazione in regione confrontando i dati

anteriori al 2003 con l‟originale dato relativo a tale data e quelli successivi con il dato

“ricostruito”. Questa operazione non è purtroppo possibile né riguardo alla disaggregazione

maschi/femmine né riguardo ai dati delle singole province.

L‟ aumento dell‟occupazione che si è avuto in questo periodo è impressionante. Tra il 1995 e il

2003 l‟occupazione totale è passata da 1.669.000 a 1.849.000 unità: 180.000 nuovi posti di

lavoro sono stati creati in otto anni, corrispondenti ad un incremento percentuale complessivo

del 10,8%. Negli ultimi tre anni, a parità di modalità di rilevazione, il numero degli occupati è

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cresciuto di ulteriori 48.000 unità. La disoccupazione (“persone in cerca di lavoro”) che si era

ridotta nel periodo 1995- 2003 di 44.000 unità, pari al 42,3% del valore iniziale ha ripreso a

crescere nel 2004 e nel 2005, di 14.000 unità in due anni a parità di modalità di rilevazione ed

ha ripreso a ridursi, di 4.000 unità, nel 2006, segnalando con ciò una significativa inversione di

tendenza.

L‟ aumento dell‟occupazione tra il 1995 e il 2003 è stato determinato da una massiccia entrata

nel mercato del lavoro di persone che inizialmente ne erano fuori, in primo luogo le donne.

Tanto la crescita dell‟occupazione quanto la riduzione della disoccupazione hanno avuto in una

prima fase un andamento nettamente più pronunciato tra le lavoratrici che tra i lavoratori:

l‟occupazione femminile è cresciuta tra il 1995 e il 2003 di 131.000 unità, con un aumento

percentuale del 19,5%. Negli ultimi tre anni l‟aumento dell‟occupazione ha invece coinvolto

tanto le lavoratrici quanto i lavoratori.

Vale la pena di osservare che, mentre la riduzione della disoccupazione ha avuto luogo

principalmente tra il 1995 e il 2000, l‟aumento dell‟occupazione ha toccato le punte massime

tra il 1999 e il 2003, quando si sono fatti sentire gli effetti dell‟aumentata flessibilità del

mercato del lavoro regionale indotti in particolare attraverso la Legge n. 196/1997 (“legge

Treu”) e che, grazie all‟accresciuta elasticità dell‟occupazione rispetto alla produzione

introdotta con tale normativa e rafforzata con l‟emanazione della Legge n. 30/2003 (“legge

Biagi”), è continuato anche successivamente, nonostante il deciso rallentamento della crescita

produttiva. La ripresa produttiva del 2006 ha indotto un aumento dell‟occupazione di

dimensioni tali da far toccare all‟occupazione regionale nuovi massimi storici, sia per quanto

riguarda l‟occupazione totale sia con riferimento all‟occupazione maschile e a quella femminile.

La “popolazione in età da lavoro” (di età compresa tra i 15 e i 64 anni) è cresciuta molto più

lentamente; ciò significa che le fonti dell‟aumento dell‟occupazione sono state principalmente,

da un lato, l‟aumento della quota di occupati sulla popolazione in età da lavoro e, dall‟altro lato,

la crescita dell‟immigrazione.

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Tassi di occupazione sulla popolazione di età 15-64 per genere nelle province dell‟Emilia-Romagna, Nord-

Est, Italia,1995 e 2003-2006*

Uomini Donne Uomini e Donne

Province e Media Regionale, Nazionale e Circoscrizionalee Obiettivi europei

1995 2003 2005* 2006* 1995 2003 2005* 2006* 1995 2003 2003 ricostruito

2005* 2006*

Piacenza 72,2 72,7 75,2 76,5 40,4 55,2 52,4 55,9 56,5 64,0 64,0 66,4

Parma 72,6 77,0 77,3 78,8 54,7 61,4 57,5 61,4 63,7 69,2 67,5 70,2

ReggioEmilia 72,9 77,4 81,7 80,0 54,2 64,0 59,5 60,8 63,7 70,8 70,8 70,6

Modena 76,2 78,1 77,7 75,7 54,2 61,5 62,0 62,7 65,3 69,9 70,0 69,3

Bologna 70,6 73,7 75,6 78,6 50,3 62,1 63,2 66,1 60,4 67,9 69,4 72,4

Ferrara 70,8 77,3 74,7 72,7 46,3 58,4 60,6 59,5 58,5 67,9 67,6 66,1

Ravenna 72,9 77,2 74,4 74,9 49,5 58,4 62,0 65,3 61,0 67,8 68,3 70,1

Forlì-Cesena 72,9 78,1 74,3 77,8 48,7 61,7 59,0 56,0 60,8 69,9 66,7 67,0

Rimini 71,9 74,9 76,4 76,1 42,7 51,0 55,3 55,7 57,0 63,2 65,8 65,9

EMILIA-ROMAGNA 72,6 78,2 76,6 77,1 50,0 60,2 60,0 61,5 61,3 68,3 69,5 68,4 69,4

ITALIA 65,9 68,3 69,7 70,5 35,4 42,7 45,3 46,3 50,6 56,0 57,5 57,5 58,4

NORD-EST 72,5 75,6 75,8 76,8 45,6 55,1 56,1 57,0 59,1 65,4 66,6 66,0 67,0

Obiettivi strategia europea 2005

57,0 67,0

Obiettivi strategia europea 2010

60,0 70,0

*Nel 2004 l‟ISTAT ha modi. cato le modalità di rilevazione dell‟indagine sulle forze di lavoro. Di conseguenza, i dati provinciali relativi a l 2005 e al

2006 non sono confrontabili con i precedenti. Ai livelli nazionale e regionale é stato comunque possibile ricostruire per il 2003 valori

dell‟occupazione, della disoccupazione e delle forze di lavoro complessivi confrontabili con quelli degli anni successivi.

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

Il tasso di occupazione nelle province dell‟Emilia-Romagna nel 1995 e nel triennio 2003-2006

Nella tavola sono riportati i valori del tasso di occupazione (rapporto tra occupati e

popolazione in età da lavoro, convenzionalmente considerata come quella compresa tra i 15 e i

64 anni) nelle province, nell‟intera regione e, a mò di confronto, nella media nazionale e nella

media delle regioni della circoscrizione del Nord-Est negli anni 1995, 2003, 2005 e 2006. Va

ricordato che nel 2004 sono cambiati i criteri di rilevazione adottati dall‟ISTAT. Di

conseguenza, i dati relativi al 2004 e agli anni successivi non sono confrontabili con quelli degli

anni precedenti se non riguardo al dato complessivo (maschi e femmine) per il quale è stato

possibile ricostruire il dato 2003 comparabile con gli anni successivi. Sono anche riportati gli

obiettivi fissati dalla strategia europea dell‟occupazione per il 2005 e per il 2010.

I dati riportati nella tavola misurano il grande miglioramento delle condizioni operative del

mercato del lavoro regionale, culminato nel superamento degli obiettivi fissati dalla strategia

europea dell‟occupazione per il 2005: a partire dal 2003 il tasso di attività regionale ha

raggiunto il 68,3%, sulla base delle vecchie modalità di rilevazione, e addirittura il 69,5% sulla

base delle nuove, valori nettamente superiori all‟obiettivo europeo per il 2005 del 67% (si noti

che nel 1995 esso si attestava ad un ben più ridotto 61,3%) puntando decisamente al più

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ambizioso livello del 70%, fissato dall‟Europa come obiettivo per il 2010. Nel 2006 il tasso di

occupazione regionale ha raggiunto il 69,4%, valore ormai vicino all‟obiettivo europeo per il

2010. Il tasso di occupazione femminile è migliorato in misura ancora più impressionante,

passando dal 50% del 1995 al 61,6% del 2006 e superando anch‟esso nettamente l‟obiettivo

europeo previsto per il 2010 (60%).

Tra le singole province la performance occupazionale più brillante del 2006 si registra a

Bologna (72,4%), seguita da Reggio Emilia (70,6%), Parma (70,2%) e Ravenna (70,1%); in tutte

queste province è stato superato l‟obiettivo europeo per il 2010. Per converso, soltanto Rimini

(65,9%), che registra comunque una sostanziosa crescita rispetto all‟inizio del periodo, Forlì-

Cesena (67%) e Piacenza, limitatamente alle sole lavoratrici, fanno registrare nel 2006 un

tasso di occupazione inferiore rispetto all‟obiettivo europeo per il 2005.

Va sottolineato ancora una volta l‟enorme aumento dell‟occupazione che ha caratterizzato

tutte le province dell‟Emilia-Romagna tra il 1995 e il 2006. In questi undici anni il tasso di

occupazione complessivo (donne e uomini) è cresciuto di oltre otto punti percentuali, dal 61,3%

al 69,4%; in particolare, quello maschile è salito dal 72,6% al 77,1%, mentre quello femminile è

cresciuto addirittura di quasi 12 punti, dal 50,0 al 61,6%.

È utile osservare che la lunga fase di crescita dell‟occupazione ha interessato tutto il

territorio regionale, tutte le province hanno nettamente migliorato le loro performance

occupazionali. Tra il 1995 e il 2006 si sono anche ridotte sensibilmente le differenze

territoriali. La graduatoria delle province è cambiata, anche in misura considerevole, nel

periodo: Bologna è la provincia che ha fatto registrare i progressi maggiori. Permangono,

comunque, differenze in qualche caso rilevanti tra le situazioni medie provinciali, in

particolare con riguardo ai tassi relativi alla popolazione femminile; esistono, quindi, margini

per ulteriori miglioramenti, a condizione che il ciclo favorevole alla crescita occupazionale

permanga e che l‟elasticità dell‟occupazione al reddito si mantenga elevata, come è avvenuto

negli ultimi anni, per l‟effetto della progressiva flessibilizzazione delle condizioni del mercato.

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Va anche sottolineato come i dati regionali superino sia la media nazionale, in misura molto

netta, sia, in misura minore, la media delle regioni appartenenti alla circoscrizione del Nord-

Est (in questo caso soprattutto con riguardo alla componente femminile).

Tassi di attività sulla popolazione di età 15-64 anni per genere nelle province dell‟Emilia-Romagna,

Italia, Nord-Est, nel 2006

Province, Media Regionale, Nazionale e Circoscrizionale

Uomini Donne Uomini e Donne

Piacenza 77,9 58,2 68,2

Parma 80,7 63,5 72,2

ReggioEmilia 81,8 62,9 72,5

Modena 77,7 64,7 71,3

Bologna 80,6 68,6 74,6

Ferrara 76,1 63,7 69,9

Ravenna 76,8 68,5 72,7

Forlì-Cesena 80,8 60,7 70,9

Rimini 78,4 59,3 68,9

EMILIA-ROMAGNA 79,3 64,3 71,9

ITALIA 74,7 50,8 62,7

NORD-EST 78,8 60,2 69,6

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

Tassi di disoccupazione nelle province dell‟Emilia-Romagna, Italia, Nord-Est, nel 2006

Province e Media Regionale, Nazionale e Circoscrizionale

Uomini Donne Uomini e Donne

Piacenza 1,7 3,9 2,6

Parma 2,3 3,2 2,7

ReggioEmilia 2,1 3,2 2,6

Modena 2,5 3,2 2,8

Bologna 2,4 3,5 2,9

Ferrara 4,3 7,1 5,5

Ravenna 2,4 4,6 3,4

Forlì-Cesena 3,7 7,8 5,4

Rimini 2,9 6,0 4,2

EMILIA-ROMAGNA 2,6 4,3 3,4

ITALIA 5,4 8,8 6,8

NORD-EST 2,4 5,3 3,6

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT

I tassi di attività e di disoccupazione nelle province dell‟Emilia-Romagna nel 2006

Nelle due tavole sono riportati il tasso di attività (rapporto tra le forze di lavoro e la

popolazione in età da lavoro) e il tasso di disoccupazione (rapporto tra il numero dei

disoccupati e le “forze di lavoro”, costituite dalla somma di occupati e disoccupati) nelle

province dell‟Emilia-Romagna nell‟anno 2006. Questi dati, che sono esaminati con maggiore

dettaglio nelle schede provinciali, sono posti qui a confronto con i dati medi della regione,

della circoscrizione del Nord-Est e dell‟Italia, al fine di comparare le situazioni provinciali e

regionale con quelle del resto del Paese.

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Anche questi dati, come quelli riportati nelle schede precedenti, forniscono una misura delle

migliori condizioni operative del mercato del lavoro regionale rispetto alla media nazionale e

rispetto alla media delle regioni del Nord-Est, la cui struttura economica più si avvicina a

quella dell‟Emilia-Romagna. I tassi di attività e di disoccupazione forniscono indicazioni

analoghe a quelle fornite dal tasso di occupazione, esaminato nella scheda precedente: il

mercato del lavoro dell‟Emilia-Romagna fa registrare, nel 2006, performance nettamente

superiori a quelle medie nazionali e, con riguardo alla maggior parte degli indicatori, anche a

quelle della circoscrizione Nord-Est, in particolare per la componente femminile: il tasso di

attività delle lavoratrici emiliano-romagnole si situa, nel 2006, al 64,3%, quattro punti

percentuali al di sopra del tasso di attività delle lavoratrici del Nord-Est e ben 13,5 punti più

in alto del modesto 50,8% fatto segnare dal tasso di attività femminile medio nazionale. Per

l‟insieme dei lavoratori, maschi e femmine, il tasso di attività dell‟Emilia-Romagna (71,9%)

supera di 2,3 punti percentuali il tasso fatto registrare dalla circoscrizione delle regioni del

Nord-Est e di 9,2 punti il tasso medio nazionale; le differenze sono invece piuttosto

contenute con riguardo alla componente maschile del mercato del lavoro, che comunque fa

registrare in Emilia-Romagna valori superiori sia all‟Italia (+ 4,6 punti) sia al Nord-Est (+ 0,5).

Riguardo al tasso di disoccupazione, la performance della Regione Emilia-Romagna è, nel 2006,

lievemente migliore rispetto a quella della circoscrizione Nord-Est (3,4% contro 3,6%) e

nettamente migliore della media nazionale (6,8%), anche in questo caso grazie soprattutto alla

superiore performance del segmento femminile del mercato del lavoro, mentre il tasso di

disoccupazione degli uomini risulta in Emilia-Romagna lievemente superiore alla media delle

regioni del Nord-Est (2,6 contro 2,4%) anche se molto inferiore alla media nazionale.

La graduatoria tra le province è analoga a quella esaminata nella scheda precedente, che si

riferiva al tasso di occupazione con la provincia di Bologna nettamente in testa, seguita, ad

una certa distanza, dalle province di Ravenna, Reggio Emilia, Parma e Modena, che fanno

registrare tassi di attività più elevati e tassi di disoccupazione più bassi della media. All‟altro

estremo, le province di Piacenza, Rimini e Forlì-Cesena fanno registrare i tassi di attività più

ridotti. Piacenza, che pure fa registrare il più basso tasso di attività, ha un tasso di

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disoccupazione piuttosto ridotto, a causa della ridotta partecipazione dei cittadini al mercato

del lavoro, dovuta in larga misura all‟elevata percentuale di popolazione con età superiore ai 65

anni. Al contrario, Ferrara, pur registrando un tasso di attività abbastanza elevato si trova a

fare i conti con il tasso di disoccupazione più elevato della regione (5,5%, comunque inferiore

alla media nazionale del 6,8%).

Va sottolineato, infine, come questi due indicatori, così come quello esaminato nella scheda

precedente, indichino, in primo luogo, l‟enorme miglioramento della situazione occupazionale

che si è verificata nell‟intera regione e nelle singole province durante la lunga fase espansiva

che ha caratterizzato la seconda metà degli anni novanta e l‟inizio dell‟attuale decennio e, in

secondo luogo, che le differenze tra le province si sono andate riducendo negli ultimi anni, ad

indicare che il miglioramento si è diffuso in tutto il tessuto produttivo regionale.

Le imprese in Emilia Romagna per numero di addetti

20-49 addetti

1,61 %

0-1 addetto

55,01 %

più di 50 addetti

0,77 %

2-9 addetti 38,95 %

10-19 addetti

3,65 %

Dossier statistico immigrazione Caritas/Migrantes - Elaborazione CNA Nazionale

Emilia Romagna: Diversity is in

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Dalle pari opportunità, alla gestione della diversità, alle capabilities: una nuova teoria di

eguaglianza sul luogo di lavoro?

L‟assunto fondamentale del diversity management è gestire le differenze, e fare leva su di

esse per aumentare valore e operatività delle imprese e le possibilità di successo, cercando di

creare le condizioni affinché la persona che lavora possa sentirsi riconosciuta mettendo in

campo le proprie potenzialità.

Il diversity management parte dalla gestione delle risorse umane, dal miglioramento del clima,

ricerca le condizioni per un reale dialogo per condizioni di pari opportunità e si approccia alla

valorizzazione delle differenze.

Il diversity management dando centralità alla persona nella gestione delle risorse umane, si

pone come cambiamento culturale e organizzativo che mira a creare un ambiente "inclusivo" in

cui le differenze dei gruppi, di individui e di esigenze non siano fonte di discriminazione ma

oggetto di reale attenzione e ascolto ma che tenda piuttosto a diventare un contesto che

promuova comportamenti di cittadinanza organizzativa.

Gli inizi teorici del Diversity Management si collocano fra responsabilità sociale e nuove

frontiere della competitività in un mercato globalizzato e multiculturale.

“In the early 1990s, American writers argued for a shift from equal opportunities to

diversity because the equal opportunities approach was insufficiently holistic in its attempts

to eradicate discrimination (some disadvantaged groups were not represented, or were not

adequately represented), and because those who were represented were regarded as

homogeneous groups (although, for example, each disabled employee requires individual

consideration). At around the same time, researchers were also finding that culturally

diverse teams were more creative than homogenous teams and contributed more effectively

to meeting organisational goals. Thus there was a business case for diversity, although coping

with it would be much harder than simply managing equal opportunities to meet legal

requirements.” (Managing diversity: people make the difference at work – but everyone is

different-CIPD- 2005)

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Già Investors in people, Community Mark, Business in Community etc. sono Standard che

mettono le persone al centro della gestione delle risorse umane e delle relazioni delle

imprese con il contesto.

La promozione dell‟ equità sociale e la gestione della diversità nel luogo di lavoro hanno

comunque diverse basi teoriche, la loro base razionale nel primo caso è la necessità di offrire

giustizia sociale (un caso morale) mentre nel secondo caso entrano in relazione le esigenze

dell‟organizzazione e quelle individuali (business case). (M. Noon, E. Ogbonna, 2001)

A influenzare le percezioni, i motivi e l‟importanza della diversità, di un‟organizzazione,

condizionandone le scelte, sono fattori di contesto e interni.

Se il focus sono i benefici aziendali, (D. A. Thomas, R. J. Ely, 1999) i benefici della diversità,

che si ottengono accettando le differenze individuali allo scopo di massimizzare il loro

potenziale, creando una cultura e un‟atmosfera di rispetto (R. Kandola, J. Fullerton, 1998)

sono visti una fonte di competitività e in questo caso lo scopo della diversità è considerato un

aiuto alla redditività in quanto aumenta l‟efficienza e l‟efficacia. (P. Iles, 1999)

Un contesto migliore per tutte e tutti grazie alla partecipazione competente di tutte e tutti:

è l‟ approccio ecologico al quale Marina Piazza si rifà quando parla di conciliazione dei tempi di

vita e di lavoro che si accomuna a scelte di cittadinanza organizzativa, che implicano

l'assunzione da parte di chi ha responsabilità nelle imprese e nelle organizzazioni di

responsabilità e coscienza del proprio ruolo e di strategie consapevoli, coerenti e strutturate

come nuove utilities non solo per migliore la coesione sociale e la qualità della vita lavorativa

ma per la stessa competitività delle imprese. (M. Piazza, 2006)

La premessa al diversity management è riconoscere le differenze: ma non basta conoscerle

occorre gestirle e fare leva su di esse per aumentare valore e operatività dell‟azienda e le

possibilità di successo.

Una definizione di molti anni fa (R. Kandola, J. Fullerton, 1994) è ancora efficace “Le persone

sono diverse una dall‟altra in molti modi: per età, genere, scolarità, valori, aspetto fisico,

intelligenza, personalità, esperienza, abilità, forza fisica e modo di approcciare il lavoro.

Guadagnare il vantaggio della diversità significa imparare, comprendere e apprezzare queste

differenze e progettare un luogo di lavoro che sviluppi questi valori – diventando abbastanza

flessibile da accogliere bisogni e preferenze – per creare un ambiente motivante e

accogliente”.

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Questa definizione implica che questa unicità è un mosaico di tessere visibili e invisibili, che

comprendono le caratteristiche personali e quelle che connotano il nostro essere parte di una

cultura o di un gruppo, di un paese, di una classe di età, di una sesso o di una razza o di una

religione e che queste differenze possono essere un valore se siamo capaci di metterle in

relazione positiva.

Non c‟è un solo modo di relazionarsi con chi lavora, specie ora in un mondo sempre più

globalizzato dove, anche in uno spazio piccolo come una PMI, si possono trovare persone con

bisogni, valori, credenze e aspettative differenti, perchè non sono diverse solo le

caratteristiche personali ma le culture e i modi e i mondi di appartenenza.

Le organizzazioni si trovano sempre più a dover competere in un mercato globale, non solo in

termini di prodotti e servizi, ma anche in termini di capitale umano. Attrarre, motivare e

trattenere i migliori dipendenti in azienda diventa sempre più difficile.

La competitività è anche questione di costi e c‟e‟ un risparmio legato alla gestione delle

diversità che può venire dal “mettere la persona giusta al posto giusto”.

fattori che tendono a favorire l'introduzione di politiche di gestione della diversità (L. M.

Visconti, 2005) sono identificabili in:

Mutamenti legati alla globalizzazione

• diversificazione dei consumi e fattori demografici

• internazionalizzazione dei processi aziendali

• cambiamenti della composizione della forza lavoro

• dislocazione di siti produttivi all'estero

e conseguenti

Benefici per le aziende

• superamento della carenza di manodopera e riduzione del tasso di turnover;

• aumento della motivazione del personale e miglioramento produttività

• sviluppo di competenze distintive

I cambiamenti nell‟ambito delle pratiche e delle strutture organizzative perseguono comunque

l‟efficienza: i cambiamenti negli atteggiamenti e nei comportamenti influiscono sulla

comprensione reciproca; producono equità e giustizia quando si concentrano sulle relazioni di

potere (B. Burnes,2004) e sulle assunzione di decisioni e partecipazione. (M. Noone, E.

Ogbonna, 2001)

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A causa dell‟interazione con l‟ambiente, l‟ampiezza e la rapidità del/dei cambiamento/i varia: le

pratiche presentano piccoli e rapidi cambiamenti, i cambiamenti strutturali sono di solito più

vasti e rapidi, i cambiamenti di atteggiamento/comportamento sono più lenti e di minore

dimensione, il cambiamento culturale è ampio e lento. (B. Burnes, 2004)

Un approccio strategico può contribuire ad ottenere i benefici desiderati (impegno dei

lavoratori, prestazione, soddisfazione del cliente, equità, efficienza, redditività) e una

gestione proattiva della diversità implica cambiamenti negli atteggiamenti, nelle mentalità,

nella struttura e cultura così come nelle regole, procedure e relazioni di potere attraverso

l‟integrazione strutturale della equità e diversità. (S. Gagnon, N. Cornelius, 2002)

Quando si sceglie di promuovere equità e diversità, vi è la possibilità di creare una nuova

mentalità e un cambiamento sia organizzativo che culturale, scegliendo di “fare qualcosa in

modo diverso attraverso il cambiamento radicale”. (N. Cornelius, 2002)

Il diversity management se sarà strategico potrà contribuire a rafforzare il brand-name:

l‟organizzazione diventa più appetibile per gli “stakeholder” (azionisti, clienti, dipendenti, e

fornitori) che scelgono anche in base alla reputazione e alla capacità di garantire qualità

dell‟impresa e che sono sempre più differenti e globali.

Il diversity management (M. C. Barabino, B. Jacobs, A. Maggio, 2001) è dunque un approccio

"diversificato" alla gestione delle risorse umane, finalizzato alla creazione di un ambiente

lavorativo inclusivo, che favorisca l‟espressione del potenziale individuale e lo utilizzi come

leva strategica per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

Il diversity management rappresenta una soluzione sia strategica che operativa: mettendo in

tensione opzioni di pari opportunità e consapevolezza/della differenza, il Diversity

Management rende accessibili a qualunque dipendente le stesse opportunità ma in maniere

diverse. Ogni risorsa viene quindi valorizzata secondo i suoi ritmi, le sue competenze e le sue

qualità.

“Diversity management è quindi un processo aziendale di cambiamento, il cui scopo è

valorizzare e utilizzare pienamente il contributo, unico, di ogni dipendente, conseguendo il

raggiungimento dei fini organizzativi ed attrezzando nel contempo l‟organizzazione nei

confronti delle sfide e dell‟incertezza provenienti dai mercati esterni.

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Questa opportunità consente alla persona di sviluppare e applicare, all'interno

dell'organizzazione, uno spettro ampio e integrato di abilità e comportamenti che riflettono il

suo genere, la sua razza, la sua nazionalità, l'età, il background e l'esperienza.” (M. C. Bombelli

2001)

E questo in tutto il ciclo di vita di chi lavora e dell‟impresa, ora imparando, ora trasferendo,

ora riposizionandosi: reclutamento, selezione, orientamento, formazione, sviluppo, promozione,

relazioni, pensionamento, dimmissioni, cambio di lavoro

“Senza pretesa di dare una definizione univoca ed esaustiva di diversity management

potremmo dire che tale modalità di gestione delle persone si sviluppa dalla consapevolezza

delle diversità esistenti in ciascuno e tenta di mettere in atto un cambiamento culturale

diffuso e di progettare degli strumenti di gestione che consentano di accogliere le diversità

compatibili con l‟organizzazione.

In questa definizione si vogliono contenere i due aspetti complementari che devono essere

tenuti presenti nella progettazione della diversity, da un lato le persone con i loro valori, le

loro culture e i loro comportamenti, dall‟altra l‟organizzazione, il contesto sociale in cui le

persone operano che può globalmente accogliere o rifiutare l‟idea di diversità. Cerniera tra

questi due elementi è lo stile di leadership diffuso nell‟organizzazione che deve esprimere

impegno rispetto a questi temi e mettere in atto comportamenti coerenti.” (M. C. Bombelli,

2003)

In impresa il diversity manager (P. Bongiovanni, 2006 ) è capace di

• ascolto attivo, negoziazione di significati, facilitatore di processi, anche con riferimento ai

codici etici adottati dall‟impresa

• contribuire alla valorizzazione della diversità, anche con riferimento ai diversi approcci, alle

diverse interpretazione dei valori di riferimento adottati

• favorire lo sviluppo di una sensibilità multiculturale, coerente con i valori condivisi

• valorizzare le differenze, ottimizzare le relazioni, anche per favorire la socializzazione dei

valori etici dell‟impresa.

Perché un‟impresa decide di porsi l‟obiettivo di intraprendere un percorso di cambiamento

culturale verso un approccio orientato alla valorizzazione delle diversità?

Il progetto EQUAL Glocal, 2004, ha dato queste risposte:

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“Sicuramente la motivazione principale va ricercata nell‟ambito delle ragioni di business.

Numerosi fattori, sempre più emergenti e radicati nel contesto produttivo europeo, come ad

esempio i cambiamenti demografici nella forza lavoro, con una presenza sempre più forte di

forza lavoro immigrata, la crescente diversificazione dei clienti (globalizzazione e one-to-one

marketing), le nuove modalità di lavoro all'interno delle aziende (time to market, lavoro per

processi, concurrent engineering) e tra le aziende (reti, mergers&acquisitions, strategic

alliances, outsourcing) rendono ipotizzabile ed auspicabile la presa di coscienza da parte delle

nostre imprese della necessità di una corretta valorizzazione delle diversità culturali

espresse dalle proprie risorse umane, mettendo in discussione la gestione manageriale classica

che ha sempre ragionato in termini di omologazione rispetto a uno standard, un modello

univoco esclusivamente fondato su caratteristiche definibili razionali.”

Attraverso la gestione delle risorse umane il management cerca in generale di creare le

condizioni affinché ogni singola persona possa mettere in campo appieno le proprie

potenzialità e contribuire al rafforzamento del capitale intellettuale dell‟ impresa, inteso

come "capitale di relazione, capitale umano e capitale strutturale" ovvero tutte le risorse non

tangibili di una organizzazione (le sue procedure, i brevetti, le conoscenze dei propri membri,

e la rete di contratti e collaboratori).

Il C.I. è il sistema delle risorse immateriali aziendali che sono alla base della creazione del

vantaggio competitivo e che spiegano una parte del differenziale tra il valore che il mercato

attribuisce ad un'organizzazione e il valore che emerge dal bilancio di esercizio è proprio tale

differenziale, non misurato dai tradizionali strumenti di analisi del valore aziendale, che ha

generato la forte esigenza di predisporre nuove metodologie e strumenti.

Un manager che ordina secondo differenza non presumendo omogeneità può meglio centrare

l‟obiettivo di aumentare il capitale intellettuale, specie se sa mettere in campo esperienze

autenticamente partecipative: il plusvalore della differenza attiva si connette alla capacità di

avere una strategia aziendale.

I dipendenti stanno acquisendo una influenza strategica, in quanto patrimonio di valore, sono

insostituibili, e vanno visti come un investimento (N.Cornelius, L.Gooch, S.Todd, (2001): il

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diversity management interessa quindi anche le pratiche di reclutamento e di selezione del

personale, l‟accompagnamento e l‟inserimento al lavoro, il tutoring e il mentoring, la formazione

continua e le opportunità di sviluppo etc. (L. Gooch and A. Blackburn, 2002).

Il non gestire le diversità può implicare la perdita di patrimonio intangibile e di talenti.

Comportamenti legati a stereotipi condizionano ancora l‟ organizzazione di molte realtà

aziendali almeno tanto quanto i contesti di appartenenza, con un triplo danno: per le persone,

le imprese e il contesto sociale che rischia di veder diminuire la coesione sociale.

La valorizzazione delle differenze e dei talenti in impresa potrà contribuire a rafforzare la

reputazione dell‟ impresa e il suo appeal per differenti stakeholder.

Le esperienze di imprese che hanno attuato strategie di gestione delle diversità sono

numerose in Europa ed è possibile una prima valutazione dei benefici.

E‟ evidente che la gestione delle diversità può essere collegata alle performances: un

ambiente di lavoro più differenziato ed inclusivo può dunque consentire una maggiore capacità

competitiva e aiuta ad aumentare le performance individuali e organizzative, incrementando il

capitale intelllettuale dell‟impresa.

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Il Diversity management implica in genere un processo che definisce e informa il business

case(Cipd):

1. A business case: diversity as part of the strategic plan

2. Leadership commitment

3. Diversity linked to performance

4. Measurement

5. Accountability

6. Succession planning

7. Recruitment

8. Employee involvement

9. Diversity training

Una tale prospettiva strategica strutturata è difficile da trovare o implementare nelle PMI.

In Otto passi per le micro, le piccole e le medie imprese, guida elaborata per iniziativa

europea e finalizzata alla gestione della “Diversità sul lavoro” si consiglia a quelle imprese,

senza un ruolo formale delle Risorse Umane, di ”chiedere aiuto”: “Assicurati di cercare un

aiuto che non parli solo degli approcci della diversità ma che colleghi gli approcci e i benefici

che può portare alla tua attività grazie ad una consulenza specifica e pratica. Se ti avvali di

una persona specifica al di fuori lavoro della tua attività per avere supporto, fai in modo che

segua il processo implementando i cambiamenti o fornendo una valutazione del successo del

nuovo approccio. I vantaggi del cercare aiuto consistono nel darti la sicurezza di fare quello

che puoi e imparare dagli altri, così da non lasciare che l‟incertezza ti fermi….”

Il tema del management, sia pur temporaneo, e della formalizzazione è posto in modo semplice

ed efficace e consegna anche alle piccole imprese la possibilità/necessità di rendere esplicite

conoscenze e pratiche tacite, formalizzandole e rendendole trasferibili.

E‟ una premessa necessaria.

Le strategie che le piccole imprese adottano non sono riconducibili a un unico modello: l‟ ottica

è piuttosto quella del problem solving, della sperimentazione, della ricerca del miglioramento

continuo, finalizzato alla ricerca della competitività attraverso la valorizzazione delle

competenze che già sono in azienda e alla formazione in itinere di chi in azienda si affaccia.

In gran parte dei casi le micro e le piccole e medie imprese intraprendono già molti approcci

alla diversità. Il problema è che non li riconoscono come tali, li descrivono in un modo o in una

lingua diversi, o non hanno alcun modo per dimostrare la loro effettiva realizzazione.

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Sulle possibilità di applicazione del diversity management nelle PMI “Il problema di partenza è

che le PMI sono generalmente carenti sugli strumenti di gestione in generale e delle risorse

umane in particolare, non disponendo in molti casi di una funzione formalizzata ad hoc.”

Insomma il problema è la managerializzazione ancor prima di quale managerializzazione.

(M. C. Bombelli, 2004)

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Diversity management e società della conoscenza

Con l‟avvento della cosiddetta società della conoscenza si è andato delineando un nuovo

scenario in cui si individua nell‟apprendimento continuo un processo chiave per la competitività

(A. Lipparini, R. Grant, 2002), così come i modelli organizzativi a rete (E. Rullani, 1999), le

comunità di pratiche e le comunità d‟apprendimento come luoghi di condivisione della

conoscenza (L. De Pietro, S. Micelli, 1999). Sviluppo organizzativo, innovazione e

capitalizzazione delle conoscenze risultano essere dimensioni di rilevanza strategica per

l‟adattabilità e la competitività delle imprese, anche di piccole e medie dimensioni.

L‟investimento sulle competenze diventa un‟esigenza vitale e un fattore critico di successo

anche per questa via.

(L. Golfarelli, E. Burzacchi, 2007)

La conoscenza è diventata oggi il principale fattore critico per le imprese: la ricerca continua

dell'eccellenza e del miglioramento impongono, infatti, anche alle aziende di piccole e medie

dimensioni, di affrontare in modo nuovo i punti chiave su cui si basa oggi la competizione

economica. Per questo risulta sempre più evidente quanto sia indispensabile definire

metodologie per individuare, creare e trasferire le conoscenze che possono produrre valore

per le imprese, all'interno di logiche di apprendimento, di relazioni di rete, di diversity

management delle risorse umane.

Lo sviluppo di questo nuovo filone di innovazione manageriale è motivato dalla situazione

attuale delle organizzazioni aziendali, immerse nella società della conoscenza, nella

globalizzazione e nel profondo mutamento del mercato del lavoro: le imprese hanno bisogno di

sempre nuove risorse e competenze, che non trovano più nei tradizionali giacimenti di lavoro.

Le donne, altre etnie e provenienze, differenti età e capacità, non solo caratterizzano la

nuova domanda di lavoro ma spesso rappresentano anche la risposta più adeguata, laddove la

crescente diversificazione dei clienti e dei mercati, la pressante esigenza di flessibilità, le

nuove modalità di lavoro nelle e tra le aziende, impongono capacità d‟innovazione per reggere

alla sfida dei mercati. Al contrario, spesso accade che comportamenti stereotipati e stanche

coazioni a ripetere non facciano intravedere soluzioni di questo tipo.

Certo gli stereotipi sono potenti e stretti compagni di strada del pregiudizio: sono frutto di

esigenze ordinatrici, cognitive e di condivisione culturali; aiutano l‟individuo a differenziare il

mondo che lo circonda, a definirlo e renderlo intelligibile. L‟operazione mentale di costruzione

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dello stereotipo si basa su una semplificazione non reale, ma soggettivamente necessaria (M.

C. Bombelli, 2003); ma quando ad uno stereotipo si aggiunge un giudizio di valore nasce il

pregiudizio che, a seconda del giudizio di valore, crea aspettative di risultati che lo

confermino e, di fatto, opera perché quelle profezie si auto-avverino.

Se è un fatto che sprechiamo talenti quando utilizziamo solo parte delle potenzialità sia dei

lavoratori e delle nuove lavoratrici sia quando non mettiamo in campo le differenti competenze

e capacità aziendali consolidate, è altresì vero che connettere nuove energie e culture,

differenti capacità, comportamenti ed esigenze, con ciò che è competenza e potere

tradizionale nell‟impresa, non è semplice. Non lo è quando si tratta di risorse di valore

autoevidente per lo sviluppo dell‟impresa; lo è ancor meno quando le capacità sono altre o

parziali.

La cooperazione nelle imprese può essere notevolmente potenziata con il supporto alle attività

aziendali volte a promuovere la diversità, ma il tipo di approccio iniziale è determinante per

ottenere la cooperazione dei datori di lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici che contano in

impresa: per fare ciò è necessario rendere limpido il bene, l‟interesse dell‟impresa, le

competenze presenti, le possibilità di trasmissione di sapere, ricercando soluzioni che

valorizzino i saperi interni, per farne un punto di forza e per poter stabilire criteri obiettivi

di ricerca, prima, e di verifica, poi, di un‟organizzazione che abbia al centro la produzione di

valore per l‟impresa e di riconoscimento per le risorse umane che in essa operano.

È a questo livello che imprenditori, imprenditrici e manager debbono porsi il problema di dare

concretamente vita a un ambiente di lavoro dove regni la coesione e la convinzione di quanto le

differenze tra le persone siano un patrimonio da utilizzare a beneficio delle organizzazioni e

delle persone stesse. Parlare di diversità significa, dal punto di vista del valore, rischiare di

entrare in rotta di collisione con la cultura prevalente. D‟altro canto, appiattirsi

sull‟uguaglianza significa elaborare un pensiero semplice, fermarsi ai bisogni condivisi, quelli di

base e poco più (M. C. Bombelli, 2003), non entrare in una dimensione “ecologica” in cui lo

sviluppo si sostiene nell‟equilibrio delle diversità (M. Callari Galli e altri, 1998).

Chiediamoci quali differenze incroci la storia di un‟impresa; sono differenze generali ma

altresì differenze della quotidianità: genere, razza, cultura, appartenenza etnica, età,

capacità, conoscenze, orientamento sessuale, religione, lingua, stato civile, educazione,

reddito, esperienze lavorative, personalità, aspetto fisico, lateralizzazione (ovvero l‟essere

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destri o mancini), essere di…, venire da…, preferire questo o quello… Le persone sono diverse

l‟una dall‟altra. Guadagnare il vantaggio della diversità significa imparare, comprendere e

apprezzare queste differenze e progettare un luogo di lavoro che sviluppi questi valori, per

creare un ambiente motivante e accogliente. (D. Jamieson, J. O‟Mara, 1991)

Se anche solo ieri questo poteva essere un viatico alla coesione e un ingrediente della

responsabilità sociale, ora non sprecare risorse equivale sempre più anche alla creazione del

vantaggio competitivo d‟impresa e ad un motore di consolidamento e sviluppo delle

performance aziendali.

Basti pensare ai cambiamenti demografici e di provenienza della forza lavoro, all‟urgenza della

domanda di lavoro delle donne, all‟esigenza di attrarre e fidelizzare nuovi e vecchi talenti,

superando gli stereotipi che ci fanno tremare per la carenza di manodopera e sprecare quella

che abbiamo, lasciando che vada in pensione, per difetto di motivazione, alla necessità di

cogliere i trend e le innovazioni necessarie a un mercato che si fa sempre più globale, più di

nicchia, più di qualità e che vuole dentro le aziende persone capaci di vedere oltre e di pensare

e fare in modo creativo. Essere capaci di internazionalizzare presuppone la percezione della

differenza fra il nostro pensiero e quello altrui.

L‟introduzione di strategie di Diversity management può così essere collocata fra gli

investimenti strategici delle imprese e diventare rilevante, contestualmente, per la

competitività e per la coesione sociale, per la trasmissione e l‟implementazione dei saperi e il

sostegno all‟innovazione, favorendo il rapporto con i differenti stakeholder, siano essi

rappresentanti dei lavoratori, attori locali, clienti o fornitori, grazie alla capacità di sviluppo

delle risorse umane e di competenze distintive e in grado di favorire la penetrazione dei

mercati e l‟aumento della competitività.

Come in molti altri casi l‟azione volta alla sensibilizzazione e alla divulgazione delle esperienze

positive è risultata efficace nel promuovere le pratiche di reclutamento basate sulla diversità

e l‟integrazione sul luogo di lavoro: è per questo che vogliamo presentare alcune buone

pratiche e metodologie efficaci e facilmente trasferibili, già sperimentate con successo, che

connettono necessità e competenze delle imprese con i bisogni di apprendimento di persone

inesperte o a rischio di discriminazione, in un ambiente aziendale che si fa formativo o in un

ambiente formativo che sappia farsi carico delle diversità e connettersi con le imprese.

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Rappresentiamo inoltre alcune esperienze che potrebbero diventare costitutive di percorsi

formalizzabili di miglioramento continuo attraverso il diversity management, che hanno

cinvolto le comunità locali ed alcune imprese.

La trasferibilità di queste esperienze si connette alla ricerca di meccanismi di diffusione

delle logiche di Diversity management tra le imprese, in un‟ottica di “moltiplicatori sociali”.

Uno dei suggerimenti di Building in diversity, di istituire un riconoscimento, a livello regionale,

in questo caso, di Impresa Responsabile e Formativa, da conferire alle imprese che applichino

modelli formalizzati (o comunque formalizzabili) e sottoscrivano Codici Etici che le impegnino

in tal senso, potrebbe costituire un buon supporto alla diffusione di una metodologia insieme

efficace e sostenibile e darebbe credibilità alla possibilità di implementare processi di

Diversity management con cura e con prudenza.

E‟ bene ricordare, infatti, che “Fare management interculturale può produrre il meglio, ma

anche disastri” (G. Hofstede, 1989): certo Hofstede ha in mente le difficoltà del management

interculturale, interrazziale, interetnico, di genere della grande pentola del melting pot

americano; ma anche nella provincia italiana si dovrebbero scambiare metodologie

sperimentate, funzionanti e sensate.

Ci vuole metodo.

La rilevanza, sia sotto il profilo economico sia sotto quello prettamente numerico, delle

imprese di piccole e medie dimensioni richiede un profondo ripensamento delle risorse e degli

obiettivi che possono essere posti alla base di azioni di diversity.

E‟ particolarmente interessante esaminare quelle azioni di diversity mangement capaci di

connettere fortemente impresa e persone da collocare o da ricollocare in modo più adeguato,

attraverso un insieme di azioni quali analisi di impresa, analisi delle mansioni, valutazione del

bisogno individuale di formazione, offerta di formazione, tutoring e mentoring sul posto di

lavoro, sensibilizzazione dei colleghi, trasferimento di competenze etc..

La necessità di rendere conoscibile il contesto di lavoro e accettabili i tempi

dell‟apprendimento e dell‟inserimento di nuove risorse, evidenziando e valorizzando, in questo,

un ruolo più consapevole e formalizzato dell‟impresa come contesto formativo, specie se PMI,

ha stimolato la riflessione e il lavoro di ricerca portato avanti da uno dei partner del progetto,

ECIPAR, struttura per la formazione ed i servizi innovativi alle PMI promossa dalla

Confederazione Nazionale dell‟Artigianato (CNA), e ha tra i propri scopi la ricerca,

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l‟elaborazione e la sistematizzazione dei “saperi” utili alle piccole e medie imprese. In questo

scenario si è sviluppata un‟attività di ricerca finalizzata alla messa a punto, alla

sperimentazione ed alla diffusione di sistemi e metodologie innovative, utilizzabili in modo

trasversale e con differenti soggettività implicate, in grado di favorire il trasferimento della

conoscenza anche all‟interno delle piccole imprese, ad integrazione dei tradizionali interventi

formativi, al fine di mettere in luce quei “giacimenti” di sapere tacito presenti, ma non

adeguatamente utilizzati e portati a valore. Per raggiungere e mantenere un vantaggio

competitivo è infatti fondamentale, oltre alla capacità di risolvere i problemi, saper utilizzare

in modo adeguato il patrimonio di conoscenze personalizzate, individuali o di piccolo gruppo, già

presenti in impresa, considerando che si tratta spesso di un sapere che deve essere portato

alla luce e reso maneggiabile attraverso processi di formalizzazione e di condivisione. (R.

Centazzo, 2005) Saper riconoscere e trasferire questa ricchezza di impresa è al centro degli

stessi processi di inserimento adeguato e rende possibile un accesso e una permanenza sul

luogo di lavoro più rapportata alle capacità dei singoli lavoratori e delle singole lavoratrici con

le loro differenze.

Il lavoro di ricerca e sperimentazione portato avanti da ECIPAR nel corso degli ultimi anni

attraverso numerosi progetti, ha cercato di analizzare i processi di formazione continua,

particolarmente on the job, quale prodotto complesso di tutte le attività che l‟organizzazione

ordinariamente svolge (l‟azienda, infatti, non “si ferma ad apprendere”, ma lo fa durante il suo

normale funzionamento), al fine di individuare efficaci modalità per intervenire nel facilitare

proprio queste dinamiche. Si è partiti dall‟osservazione delle modalità attraverso cui le

competenze, tecniche, pratiche, relazionali ed organizzative, nei contesti in cui vengono

utilizzate quotidianamente, si trasformano da tacite in esplicite, e successivamente vengono

formalizzate e dalla valutazione di come questo percorso evolutivo non sempre avvenga. Può

accadere, infatti, che non sia possibile esplicitare e formalizzare alcune conoscenze tacite (a

volte sappiamo più di quello che siamo in grado di esprimere e spiegare…): spesso però, proprio

le conoscenze non formalizzate, o non esplicitate, sono quelle che rappresentano il patrimonio

di distintività dell‟impresa, quel “sapere in azione” che la identifica rispetto ai suoi competitor.

La sussistenza di situazioni di questo tipo è quindi influenzata dalla costante tensione presente

fra tre grandi variabili: sapere e saper fare (know how posseduto legato a tecnologie, metodi,

strumenti), potere (l‟esistenza di procedure e strumenti organizzativi che consentano la

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riproduzione e la trasmissione d‟informazioni e conoscenze) e volere (l‟esistenza di un clima

organizzativo che favorisce ed incentiva lo scambio e la condivisione, la creatività, la

motivazione), il cui equilibrio garantisce il buon funzionamento dell‟impresa. (M. Ruffino, 2003)

Il valore attribuito alla distintività di certe conoscenze tacite, provoca spesso comportamenti

di protezione del sapere e di chiusura verso coloro che non sono ritenuti degni di fiducia o non

“atti”, per le loro caratteristiche personali o sociali, per le loro differenze. La scommessa per

il futuro consiste nel trovare le strade per rendere formativo il contesto organizzativo,

inserendo esplicitamente tra gli obiettivi di rilevanza strategica lo sviluppo del capitale umano

e delle competenze e la gestione interna della conoscenza in un‟ottica di diversity management,

come parte integrante della mission dell‟impresa stessa.

Spesso si sono definite ipotesi di management delle differenze non facilmente trasmissibili e

troppo legate ad asset teorici implicanti tempi e modalità di trasferimento non adeguati a quel

“pit stop” del cambiamento, che spesso caratterizza la formazione del management della

piccola impresa, quando non si parta dalla realtà dell‟azienda, dalle energie e dalle competenze

che la fanno essere competitiva.

Gestire più velocemente il ciclo della conoscenza (acquisire o produrre, codificare, riprodurre

e trasferire conoscenza all‟interno dell‟organizzazione, ma anche verso l‟esterno) e quindi

saper comprimere il tempo che intercorre tra la produzione (o l‟acquisizione) di nuove

conoscenze e la loro messa al lavoro, è fondamentale per il singolo, così come per le imprese e

i territori. Ritardare la messa in opera delle conoscenze possedute può significare infatti

vederle “invecchiare” prima di averle rese produttive. (R. Centazzo, 2005) Per ridurre i rischi

di arretramento rispetto al mercato e avere prospettive positive di crescita e successi, la

strategia aziendale efficace, oggi, si basa sulla capacità di alimentare un sapere organizzativo

in grado di rinnovarsi continuamente, con una velocità di apprendimento pari o superiore a

quella con cui si modifica il proprio ambiente di riferimento.

Occorre quindi adottare modalità di gestione del ciclo della conoscenza più strutturate ed

intenzionali, che possono avere più spazi applicativi e che sappiano individuare figure di

riferimento che si occupino di diversity management in una strategia di trasferimento della

conoscenza .

Ma come può fare, l‟impresa, ad apprendere, a creare o acquisire nuove conoscenze?

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Le piccole imprese hanno spesso mostrato la capacità di sviluppare conoscenze attraverso

modalità spontanee, che adesso non sono più di per sé sufficienti.

Vi sono differenti opportunità e metodologie efficaci ed è possibile individuare alcune figure

chiave di tutor e mentor, come attori capaci di facilitare i processi di inserimento, e

trasferimento della conoscenza attraverso la conoscenza e la valorizzazione delle diversità.

Quali progetti è possibile realizzare?

Le tipologie di progetti che possono rientrare sotto la cifra 'Diversity Management' sono

anch‟ esse diverse e la loro adeguatezza dipende sia dalla storia chee dalla cultura aziendale,

una cosa è certa, al centro dei cambiamenti nelle organizzazioni ci sono l'individuo e i suoi

talenti.

Abbiamo scelto di descrivere le esperienze di diversity management di Ecipar, per la sua

esperienza in materia di innovazione manageriale delle organizzazioni e delle PMI e, in

particolare, per l‟approfondita conoscenza di processi di accompagnamento attraverso il

tutoring ed il mentoring, per le analisi sulla cittadinanza organizzativa in numerosi contesti

lavorativi e per la trasferibilità delle metodologie sperimentate.

Queste metodologie sono risultate di successo nel trasferimento delle conoscenze, a partire

dalle diversità e attraverso la relazione fra differenti generazioni, generi, abilità e capaci di

facilitare la collaborazione e l‟interazione tra chi detiene o sa mettere a disposizione le

competenze da trasferire e chi deve apprenderle.

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Tandem: Generazioni di età e competenze

La prima metodologia si può collocare fra i “Percorsi di Lavoro Supportato”, intendendo per

Lavoro Supportato quell‟approccio volto a combinare il collocamento delle persone,

diversamente in condizione di svantaggio, sul mercato del lavoro con il potenziamento delle

capacità e delle competenze individuali attraverso differenti metodiche e strategie. Alcune

suggestioni ci sono venute anche dalle “skills” del “Manuale per l‟Attuazione della Gestione

della Diversità” (Manual on the implementation of Diversity Management) del progetto Equal,

Itaca, 2004.

Il modello di formazione continua on the job vuole facilitare i processi di comunicazione,

trasmissione, scambio di conoscenza ed apprendimento che avvengono normalmente nelle

aziende di dimensioni medio piccole, attraverso l‟intervento di figure e competenze ad hoc,

interne ed esterne al contesto organizzativo, e l‟utilizzo di strumenti appositamente

predisposti a supporto dell‟intero processo, dall‟analisi alla progettazione, alla gestione, alla

valutazione del percorso svolto. Si tratta di un modello adattabile, semplice ed efficace, di

inserimento ed accompagnamento lavorativo, capace di confrontarsi con le differenze. Di

fronte ad una rapida evoluzione del mercato, ad un invecchiamento delle risorse interne, alla

perdita di conoscenze e competenze distintive ed alla necessità quindi di dovere

costantemente ricercare e formare personale, l‟impresa può rischiare di penalizzare i processi

di produzione e gestione del cliente, e la qualità complessiva del servizio, per investire tempo

e risorse nel fronteggiare queste problematiche. Tandem è una modalità facilmente

applicabile per supportare le imprese nel trovare il modo più efficace per trasferire “il come

si sta in impresa” e “il come si fa un determinato lavoro”.

Conoscere il contesto di lavoro e sapere qual è il proprio lavoro è di per sé elemento di

accesso facilitato per chiunque e in special modo per chi è particolarmente “dispari” rispetto a

quel contesto: è la prima parte dello scambio necessario a rendere un‟organizzazione di lavoro

capace di considerare le differenze come risorse positive ed utili e di trarne linfa per un

miglior posizionamento competitivo, che si avvalga di pratiche organizzative responsabili e

sostenibili.

Partendo da un‟analisi accurata e personalizzata della situazione aziendale, il modello Tandem

prevede di utilizzare la metodologia del mentoring all‟interno dell‟azienda, per facilitare la

cooperazione e la trasmissione di modalità relazionali, saperi e competenze tra lavoratori e

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lavoratrici esperti (mentor) ed inesperti/e o a rischio di marginalizzazione per le loro

caratteristiche di genere, età, etnia o abilità (junior). L‟impresa viene supportata nel processo

di formalizzazione delle competenze possedute dai lavoratori e lavoratrici esperti e attese

dalle nuove risorse, e nell‟attività di trasferimento delle stesse, che avviene abitualmente sul

campo, coinvolgendo nel processo di erogazione (realizzato sempre in azienda) diverse figure

interne ed esterne, che si caratterizzano per il possesso di specifiche competenze e

l‟esercizio di un preciso ruolo, necessario al buon esito dell‟attività. Finalità del percorso è

quella di attivare una “spirale di conoscenza” nell‟interazione fra nuove o differenti risorse e

mentor, facilitando lo sviluppo di un rapporto di cooperazione e trasmissione reciproco, in

modo da valorizzare l‟esperienza professionale acquisita in azienda da parte dei lavoratori e

lavoratrici con maggiore esperienza e anzianità, consentire e/o accelerare il trasferimento di

saperi informali e competenze acquisibili on the job e accompagnare, in modo consapevole,

l‟inserimento lavorativo delle nuove e/o differenti risorse. Il modello prevede l‟intervento di

figure di mediazione e facilitazione della relazione, interne ed esterne all‟azienda, per

migliorare la qualità del processo di apprendimento situato nelle sue diverse fasi, anche

trasferendo tecniche e strumenti per la gestione del percorso e dell‟interazione.

Il percorso di intervento si sviluppa secondo i seguenti step:

Macrofase ANALISI

1. Analisi del contesto aziendale e dei fabbisogni, effettuata da un Coach/Tutor esterno

grazie ad una visita in azienda e ad un‟intervista alla direzione. Conseguente individuazione

della possibilità di applicare il modello Tandem per rispondere a necessità legate

all‟apprendimento di competenze con modalità on the job.

2. Individuazione dei destinatari dell‟intervento (Mentor e uno o più Junior) e degli obiettivi

strategici, in accordo con la direzione aziendale e, se presente, con il Tutor Aziendale

(TAZ) interno.

3. Analisi delle competenze obiettivo delle o degli junior (singoli o di gruppo) e del “gap”

rispetto alle esigenze .

4. Analisi delle competenze del lavoratore o della lavoratrice esperta in qualità di Mentor

(aspetti didattici e relazionali, modalità di coppia o gruppo).

Macrofase PROGETTAZIONE

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5. Progettazione da parte del Tutor esterno del/dei percorso/i di affiancamento per il

trasferimento delle competenze sulla base delle considerazioni emerse dal colloquio con il

Mentor e il Tutor Aziendale in merito a tempi e modalità attuative.

6. Approvazione della Direzione. Pianificazione organizzativa, definizione modalità di

monitoraggio dei percorsi, valutazione dei risultati e riconoscimento delle competenze

(valutando la presenza del TAZ).

Macrofase GESTIONE

7. Definizione e stipula del patto formativo tra le parti (lavoratori e lavoratrici-azienda) e

avvio del trasferimento in affiancamento.

8. Gestione degli interventi di mediazione da parte del Tutor Aziendale all‟interno della

coppia (Mentor - Junior) o del piccolo gruppo (Mentor – più di uno Junior) per facilitare la

comunicazione.

9. Monitoraggio dell‟andamento da parte del Tutor Esterno (a distanza e in alcuni momenti di

presenza).

10. Supporto al Mentor (da parte dei due Tutor) per la gestione della funzione formativa.

Macrofase MONITORAGGIO E VALUTAZIONE

11. Predisposizione e trasferimento al Tutor aziendale e al Mentor di strumenti per la

rilevazione dei dati di processo e di prodotto (griglie di osservazione e specifiche di

qualità degli output).

12. Rilevazione dei dati sull‟andamento del percorso.

13. Misurazione degli indicatori di processo e di prodotto.

14. Riconoscimento delle competenze maturate dallo o dagli Junior e dal/la Mentor, anche con

la Direzione.

Per comprendere al meglio la valenza e la spendibilità del modello proposto, risulta

significativo soffermarsi sulle specifiche competenze richieste alle diverse figure coinvolte

nel processo, che potremmo distinguere tra:

- più figure interne all‟impresa: imprenditore/trice o rappresentante della direzione aziendale,

lavoratore/trice esperto in qualità di Mentor, lavoratore/trice Junior, singoli o in gruppo

(destinatari del trasferimento), Tutor Aziendale quale figura di mediazione e facilitazione

interna;

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- una figura esterna, di Tutor/Coach, con un ruolo di mediazione nelle relazioni e facilitazione

del processo di trasferimento, in qualità di esperto dei processi di apprendimento situato.

Destinatari diretti dell‟intervento, per quanto riguarda le figure interne all‟impresa, specie se

PMI, sono l‟imprenditore o l‟imprenditrice, con un fondamentale ruolo di motivazione per il

gruppo, promotore e valutatore dell‟attività svolta dai lavoratori e lavoratrici, in

collaborazione con il Tutor Aziendale e la coppia, o piccolo gruppo di lavoratori e lavoratrici,

tra cui avviene il trasferimento di competenze (formato da un esperto in qualità di mentor e

uno o più junior/neo-inseriti, che dovranno apprenderne le abilità). Questi soggetti sono al

tempo stesso destinatari e attori del percorso di apprendimento, impegnandosi attivamente

nella realizzazione del progetto.

I lavoratori e le lavoratrici Junior, destinatari del percorso di trasferimento di competenze,

possono essere:

- giovani neo-assunti (con diverse caratteristiche sia dal punto del titolo di studio che della

forma contrattuale di assunzione) che hanno la necessità di inserirsi efficacemente in

azienda e nel contesto lavorativo sviluppando una serie di competenze specifiche;

- apprendisti;

- stagisti, tirocinanti e giovani in percorsi di alternanza;

- lavoratori e lavoratrici anche non giovani, ma che si trovano nella condizione di dover

apprendere nuove competenze, o riqualificare la propria posizione lavorativa, a seguito, ad

esempio, di un reinserimento dopo un lungo periodo di assenza dal mondo del lavoro, rientri

dopo lunghi congedi parentali, oppure lavoratori e lavoratrici che hanno modificato la

propria posizione a causa di una riorganizzazione aziendale o a rischio di espulsione, ecc.;

- lavoratori e lavoratrici per i quali può essere necessario un maggior presidio nel percorso

di inserimento (ad esempio immigrati, con implicazioni in termini di socializzazione e

avvicinamento alla cultura aziendale);

- lavoratori e lavoratrici appartenenti a categorie svantaggiate o diversamente abili, il cui

inserimento in azienda implica il monitoraggio di diversi aspetti sia di contenuto sia di

relazione e socializzazione, che può essere supportato attraverso l‟utilizzo di strumenti

codificati e l‟implementazione di competenze relazionali e comunicative specifiche;

- lavoratori e lavoratrici già attivi in impresa, che si trovano nella condizione di dover

ricoprire ruoli di maggior responsabilità, anche in sostituzione di figure che si avvicinano al

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momento di fuoriuscita dal mercato del lavoro, con particolare riferimento alle situazioni

di ricambio generazionale e trasmissione di impresa.

Queste figure vengono accompagnate nell‟inserimento lavorativo, trovando molteplici supporti

al processo di socializzazione in ingresso, per identificare una propria collocazione ed essere

riconosciute da parte dei membri della nuova comunità-azienda. L‟approccio metodologico del

mentoring prevede che ogni junior sia affiancato costantemente da parte di un/una mentor

(esperto/a interno all‟azienda) per “imparare facendo”, mettendo progressivamente in pratica,

attraverso un progetto concreto, le abilità necessarie per ricoprire il ruolo richiesto,

supportato da un tutor aziendale autorevole e riconosciuto. La metodologia prevede lo sviluppo

di un rapporto di scambio reciproco delle proprie esperienze, grazie al quale il lavoratore in

formazione può confrontarsi costantemente con un modello a cui potenzialmente ispirarsi,

comprendendo meglio anche quali siano le sue prospettive professionali e gli obiettivi che

vuole raggiungere.

I/le Mentor in questo modello sono lavoratori e lavoratrici che detengono conoscenze e

competenze specialistiche, spesso tacite, sia di tipo tecnico-professionale che organizzativo e

relazionale, rispetto al contesto aziendale di appartenenza, che vengono incaricati/e dalla

direzione aziendale della formazione delle risorse più giovani ed inesperte.

La figura del/la mentor può essere vista come una persona che, avendo maturato con successo

una lunga esperienza in un determinato settore, viene incaricata di seguire e formare giovani

inesperti/e tramite la trasmissione delle proprie conoscenze e metodologie di lavoro. Questa

figura, quindi, presidia un‟area di attività che potremmo definire “del mestiere”, legata al

trasferimento delle conoscenze e delle capacità tecniche proprie del lavoro e della

professione, sviluppando un apprendimento dalla pratica.

Il percorso prevede lo sviluppo di una relazione interpersonale „uno-a-uno‟, che può essere sia

individuale, sia di gruppo (un/una mentor per un gruppo di junior della stessa azienda). Chi

svolge funzioni di mentoring ha l‟obiettivo di rendere, attraverso esperienze ed insegnamenti,

autonoma la persona o il gruppo di persone abbinate, nelle proprie scelte operative e capaci di

assumersi le proprie responsabilità. Il rapporto che si va ad instaurare assume quindi

un‟importanza strategica per lo sviluppo personale di entrambe le parti, rispondendo a diverse

esigenze: da un lato il/la mentor ha la possibilità e viene stimolato a sviluppare le proprie

capacità relazionali e vede consolidarsi con soddisfazione il proprio ruolo formativo in azienda;

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dall‟altro il/la lavoratore/trice junior può acquisire professionalità, apprendere nuove

competenze e sperimentare valori e norme comportamentali che fanno parte della cultura

organizzativa, attraverso la trasmissione di esperienze concrete, e viene necessariamente

affiancato nel percorso “iniziatorio” necessario a conseguire una piena integrazione nella

nuova comunità professionale (Quaglino, Cortese, 1997).

L‟intervento di un‟ulteriore figura esperta, interna all‟azienda, con funzioni di mediazione e

facilitazione dell‟inserimento del neo-assunto e del rapporto di affiancamento stesso, può

essere particolarmente significativo per la buona riuscita del processo di trasferimento di

competenze e per il raggiungimento degli obiettivi di ruolo dello junior. Tali funzioni possono

essere esercitate efficacemente, se presente all‟interno dell‟impresa (nel caso di apprendisti

e tirocinanti, ma anche fasce deboli), dalla figura del Tutor Aziendale, o comunque da un altro

lavoratore/trice designato internamente delle funzioni relative al presidio e all‟organizzazione

dei processi di apprendimento interni e alla gestione delle risorse umane. Nelle più recenti

normative in materia di mercato del lavoro (Legge n°30/2003 di Riforma del Mercato del

lavoro ed il Decreto attuativo 276), il Tutor aziendale viene descritto come figura essenziale

e strategica nel facilitare l‟inserimento e l‟integrazione delle nuove risorse umane in azienda,

producendo in tal modo valore aggiunto per l‟impresa intera. Si tratta però di una figura cui è

possibile attribuire una funzione più ampia di quella prevista dalle norme, che assomma le

caratteristiche di un lavoratore esperto a quelle di gestore delle risorse umane e di “garante”,

per conto dell‟azienda, della validità ed efficacia dell‟impresa in quanto contesto di

apprendimento.

Tre sono le Aree di presidio del Tutor Aziendale.

1. L‟area della relazione, che riguarda la gestione del sistema delle relazioni che viene a

definirsi nel momento dell‟inserimento di un giovane neo-assunto: in particolare nei

percorsi di apprendistato, tirocini formativi e stage, viene a configurarsi un complesso

sistema di relazioni, caratterizzato da rapporti e scambi continuativi tra impresa (e quindi

tutor aziendale quale referente interno all‟impresa e responsabile degli apprendimenti in

azienda dell‟apprendista e o del tirocinante), agenzia formativa, giovane stesso, in quanto

soggetto portatore di esperienze, aspettative, esigenze e di fatto co-autore del proprio

progetto di vita e professionale.

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2. L‟area della gestione delle risorse umane, in riferimento alle attività di selezione e

reclutamento di nuove risorse, inserimento, accoglienza dei nuovi assunti, programmazione

e gestione dei percorsi di crescita degli stessi e valutazione degli apprendimenti e delle

performance realizzate.

3. L‟area del trasferimento e della formalizzazione delle conoscenze e della cultura

organizzativa, legata alla funzione di supporto all‟inserimento, all‟esplorazione ed alla

conoscenza del sistema organizzativo da parte del neo-inserito. Il tutor infatti ha la

responsabilità di introdurre esplicitamente e di far conoscere al giovane i meccanismi di

funzionamento dell‟organizzazione ospitante, il sistema di regole formali ed informali,

valori, credenze, clima che animano l‟impresa e le sono peculiari.

Inoltre al tutor spetta pianificare il percorso di apprendimento del giovane che deve essere

supportato nella comprensione della cultura del lavoro peculiare all‟impresa ospitante, delle

metodologie, routine, pratiche, procedure, sia formalizzate sia non formalizzate.

Nell‟ambito del modello Tandem il Tutor Aziendale sarà chiamato a svolgere una funzione

interna di Coach del processo di trasferimento di competenze e apprendimento e di

Mediatore del rapporto tra Mentor, Junior o gruppo di Junior, Imprenditore. La realizzazione

del percorso prevede inoltre l‟intervento di una figura di facilitazione esterna che verrà di

seguito descritta (il Tutor Esterno), con specifiche competenze metodologiche di analisi,

progettazione formativa, presidio e valutazione dei processi di apprendimento on the job. A

questa figura esperta il Tutor Aziendale andrà affiancandosi quale referente e garante

interno del buon esito del processo di trasferimento, a supporto dei diversi soggetti coinvolti

nell‟iter formativo. Nello specifico egli potrà partecipare alla definizione del progetto di

affiancamento, valutando il fabbisogno formativo dei destinatari in relazione al gap di

competenze individuato e il livello di autonomia da raggiungere, ma anche rispetto al quadro di

obiettivi e strategia aziendale, avvalendosi anche della collaborazione del Mentor.

Per esercitare questa funzione egli dovrà possedere e/o rafforzare le proprie competenze

relative alla gestione del processo formativo in azienda, utilizzando adeguati strumenti e

metodologie per l‟analisi e la formalizzazione delle competenze richieste e possedute, il

monitoraggio e la valutazione in itinere e finale degli esiti del percorso di affiancamento,

l‟osservazione e la mediazione della relazione. Egli inoltre si troverà a dover presidiare un

triplo fronte interno, relazionandosi: con il neo-inserito, per affrontare i problemi legati

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all'acquisizione delle competenze e sostenere un clima favorevole all'apprendimento,

comprenderne le aspettative e interrogarsi sui bisogni da soddisfare (anche al fine di

trattenerlo successivamente in azienda); con la rete dei colleghi, in quanto esperti che

possono intervenire direttamente nella presentazione dei contenuti e delle metodologie

collegati alle diverse attività lavorative da acquisire e nell‟affiancamento della nuova risorsa; e

infine con la direzione aziendale restituendo gli esiti dell‟attività realizzata. Il Tutor inoltre

gestisce le relazioni con gli eventuali soggetti esterni all'azienda coinvolti nel percorso

formativo dello junior (in questo caso il Tutor esterno), fungendo da interfaccia. In questo

senso egli può fornire un contributo importante nella creazione di un elemento di continuità

tra la formazione extra-aziendale, l‟inserimento dei nuove risorse e lo sviluppo/trattenimento

delle professionalità interne all‟azienda e, in una dimensione più ampia ed evoluta, nella

promozione e legittimazione del processo formativo all'interno dell'organizzazione.

L‟esercizio del ruolo di Tutor Aziendale, l‟efficacia dello stesso ed il buon esito delle funzioni

svolte, infine, si legano fortemente alla specifiche caratteristiche delle persone, alle quali le

funzioni di sostegno e socializzazione si rivolgono. Gli junior, infatti, potrebbero essere

giovani con un buon bagaglio culturale, diplomati o con titolo di studio superiore (tirocinanti,

apprendisti, ecc.), oppure lavoratori e lavoratrici che hanno già maturato una certa esperienza

e che devono ricollocarsi, giovani non comunitari, ma anche persone in condizione di svantaggio

o diversamente abili. La specificità delle fasce di destinatari può quindi esplicarsi in

riferimento alle dimensioni culturale, di genere, alla dimensione di garanzia di pari

opportunità, di specificità linguistica, alle diverse abilità, alle storie di vita, ecc.; è anche sulla

base di queste variabili che andranno valutate le competenze necessarie all‟esercizio del ruolo

di Tutor aziendale e la necessità di rafforzarle con eventuali interventi formativi ad hoc da

sviluppare in parallelo.

Esercitando queste funzioni al termine del percorso descritto i/le Tutor aziendali potranno

veder riconosciuto appieno il proprio ruolo in azienda, in termini di prestigio e consenso, in

quanto punto di riferimento comune e legittimo per i processi di inserimento di nuove leve,

formazione esplicita delle risorse aziendali, monitoraggio e governo del trasferimento di

competenze realizzato grazie all‟affiancamento on the job, gestione complessiva del ciclo

della conoscenza all‟interno dell‟azienda di appartenenza e, nei casi specifici, di vero e proprio

diversity manager.

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A seconda delle caratteristiche strutturali dell‟impresa in cui viene realizzato il servizio, ci si

potrà trovare in presenza di diverse condizioni organizzative e di conseguenza figure interne:

non sempre infatti, soprattutto nelle aziende di dimensioni piccole e micro, è possibile

prevedere la presenza di due diverse persone che esercitino i ruoli distinti di Mentor e Tutor

Aziendale.

Il “peso” riservato all‟esercizio delle funzioni dello stesso lavoratore, infatti, può oscillare

fortemente tra tutor -maestro di mestiere e di competenze e tutor-facilitatore di relazioni e

di coerenza organizzativa o più in generale, gestore delle risorse umane in azienda. Nella

realizzazione del percorso Tandem potremmo quindi trovarci di frequente in presenza di

un‟unica persona che esercita al contempo una doppia funzione di Mentor-Tutor, presidiando le

quattro aree in precedenza descritte.

Vediamo infine qual è la funzione del Tutor Esterno, che interviene nel modello in qualità di

Coach dell‟apprendimento e del trasferimento. Si tratta di una figura chiave per la

realizzazione del percorso che garantisce l‟efficace applicazione del modello e delle

metodologie correlate: il possesso di determinate caratteristiche e competenze è condizione

sine qua non per l‟erogazione del servizio Tandem.

La figura del Tutor esterno ha il compito di supervisionare l‟intero processo, dalla diagnosi

all‟intervento, e nello specifico di facilitare l‟apprendimento in azienda, supportando il Tutor

aziendale nel suo intervento sulla relazione e sulle modalità di apprendimento messe in atto.

Nelle piccole imprese la difficoltà principale è spesso quella di trasformare ciò che è tacito, e

al limite patrimonio di un solo individuo, in conoscenza organizzativa, convertendo in parole e

processi espliciti le conoscenze personali dell‟imprenditore e dei suoi collaboratori,

individuando le competenze di soglia e distintive necessarie a raggiungere e mantenere una

posizione competitiva sul mercato. Il Tutor esterno avrà il compito di facilitare la traduzione

delle competenze esperte in compiti, attività, modalità di lavoro, direttamente applicabili e

sperimentabili nel contesto di lavoro quotidiano. Chi possiede le competenze, infatti, spesso

non è in grado di esplicitarle, né formalizzarle e trasmetterle: proprio in questo snodo

acquista importanza questa figura, come soggetto esterno capace di interpretare e tradurre

efficacemente i contenuti e accompagnare gli attori del processo di trasferimento.

Caratteristiche fondamentali per l‟esercizio del ruolo sono il possesso di un‟approfondita

conoscenza dei contesti aziendali di piccola e media dimensione, dei processi e delle dinamiche

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che li caratterizzano, competenze attinenti alla diagnosi dei fabbisogni formativi e di

apprendimento e alla predisposizione di piani formativi aziendali e individuali, competenze

comunicativo-relazionali e didattico-formative.

Il Tutor esterno facilita il raggiungimento degli obiettivi formativi anche attraverso il

trasferimento di modelli e strumenti di lavoro al Tutor aziendale e al Mentor, stimolando la

riflessione individuale e di coppia, fornendo un feedback in presenza e a distanza sulle scelte

operative e non, supportando le figure interne all‟azienda su un duplice fronte:

- da un lato nella gestione del processo di apprendimento relativamente agli aspetti

organizzativi e di metodo (analisi di competenze e fabbisogni, definizione e formalizzazione

del patto formativo, pianificazione operativa, monitoraggio e valutazione degli apprendimenti);

- dall‟altro intervenendo sugli aspetti relazionali, esplicitando strumenti e modalità di

superamento delle difficoltà, stimolando anche la riflessione su tematiche quali conflitto e

negoziazione, motivazione, collaborazione e spirito di gruppo, leadership e delega.

Nel corso delle esperienze realizzate da Ecipar sono state approfondite, ove presenti, le

buone pratiche adottate da alcune aziende sul tema dell‟apprendimento on the job e del

trasferimento di competenze tra lavoratori. La loro messa in trasparenza è funzionale ad

evidenziare i possibili contesti di utilizzo e applicazione dell‟approccio metodologico

presentato, valutandone la potenziale riproducibilità e il trasferimento delle pratiche stesse;

è inoltre finalizzata a fornire ulteriori elementi utili nel delinearsi di un nuovo modello di

“impresa come luogo e comunità di apprendimento”.

Tra i casi aziendali rilevati diversi sono stati i punti centrali di applicazione

“La formazione in azienda e la gestione delle risorse umane”

“La formalizzazione delle competenze e il passaggio generazionale”

“L‟inserimento delle nuove risorse e i percorsi in alternanza”

“La formazione in azienda e la gestione delle risorse umane”

L‟Azienda in cui è stata rilevata la Buona Pratica è una realtà imprenditoriale di piccole

dimensioni (14 addetti) della provincia di Ravenna, operante nel settore termoidraulico,

specializzata nell‟assistenza e manutenzione caldaie e condizionatori. Il clima organizzativo

risulta essere buono, l‟azienda è principalmente costituita da giovani e la direzione (formata

dall‟imprenditore e dalla moglie) incoraggia momenti di scambio ed incontro anche al di fuori

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dell‟orario di lavoro. Visto il settore in cui opera l‟azienda, l‟attività è fortemente soggetta a

stagionalità: questo comporta la necessità di sfruttare i mesi di minor carico lavorativo per le

attività di supporto, come la formazione o l‟implementazione di servizi aggiuntivi. La scelta

dell‟impresa in riferimento all‟ingresso di nuove risorse è quella di orientarsi principalmente

verso giovani con poca esperienza del settore; criterio selettivo per eccellenza è il possesso

di buone capacità relazionali, fondamentali per la gestione del rapporto col cliente da parte

del manutentore, mentre si ritiene che le competenze tecniche possano essere sviluppate più

efficacemente una volta entrati in azienda, con un percorso formativo specifico.

All‟interno dell‟azienda, però, il titolare è l‟unica figura depositaria delle conoscenze distintive

e in grado di seguire il processo di inserimento e formazione delle nuove leve. Sono presenti

altre figure tecniche, che hanno maturato una pluriennale esperienza nell‟impresa, ma che

detengono comunque una conoscenza ancora parziale.

La Buona Pratica rilevata riguarda le modalità di gestione del processo di inserimento e

apprendimento attuate dall‟azienda, caratterizzato da un elevato livello di formalizzazione

rispetto agli standard adottati da imprese della medesima classe dimensionale. In impresa,

infatti, è previsto un percorso standardizzato di formazione del personale tecnico

(manutentori) che prevede la valutazione progressiva del raggiungimento di livelli di

competenza predefiniti, che si distinguono in particolare per la capacità di saper intervenire

in autonomia prima per l‟erogazione di prestazioni di manutenzione ordinaria (più semplice), e

successivamente di manutenzione straordinaria (più complessa), presso il cliente finale

(privati). La formazione, che prevede sia momenti teorici che esercitazioni e simulazioni

pratiche, avviene principalmente all‟interno dell‟azienda, in appositi spazi separati dal ciclo

produttivo (aula attrezzata), e viene gestita dal titolare. Per ogni dipendente viene raccolto

un dossier che contiene le informazioni relative ai percorsi formativi realizzati sia in azienda

sia all‟esterno, e la valutazione delle competenze progressivamente acquisite, secondo una

check list predefinita dal titolare.

L‟azienda ha partecipato alla sperimentazione della metodologia Tandem, accogliendo un Tutor

esterno che ha osservato le dinamiche descritte ed è intervenuto nella facilitazione del

processo. Nello specifico le figure coinvolte sono state quelle del titolare, che in qualità di

lavoratore esperto in questo caso esercita la doppia funzione di Mentor e Tutor aziendale, e

due giovani manutentori con differenti esperienze e livelli di competenze tecnico-

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specialistiche (Junior). Dopo una prima analisi dell‟impresa, delle competenze possedute dai

lavoratori coinvolti e di quelle necessarie per ricoprire il ruolo richiesto, sono stati definiti, in

collaborazione con il Tutor esterno, due progetti concreti da realizzare attraverso

l‟affiancamento:

- il primo junior, neoassunto, allo scopo di apprendere le nozioni di base per la manutenzione

ordinaria, ha affrontato una parte di formazione teorica (attraverso la lettura di manuali e la

visione di filmati) e alcune sessioni di simulazione guidata dal Mentor, per la revisione e la

pulizia ordinaria di diverse tipologie di caldaie;

- il secondo junior invece, già esperto in manutenzione ordinaria, ha affrontato in simulazione

diverse problematiche relative al funzionamento delle caldaie, al fine di sperimentare sotto la

supervisione del mentor casi di manutenzione straordinaria.

Il Mentor ha costantemente affiancato entrambi durante la pratica trasferendo le proprie

competenze sia tecniche che relazionali, per la gestione della comunicazione con il cliente.

Il Tutor esterno Ecipar ha assistito il Mentor nella fase di pianificazione del trasferimento,

che in questo caso era comunque già abbastanza strutturata e formalizzata, e ha poi

partecipato ad una serie di incontri tra il Mentor e i due Junior con lo scopo di osservare

l‟andamento del processo ed eventualmente intervenire, se e quando necessario, per facilitare

la comunicazione e quindi il raggiungimento degli obiettivi di progetto, fornendo un feed back

in tempo reale sulle scelte, operative e non, messe in opera. In particolare in questo caso il

Tutor esterno ha potuto fornire al Mentor alcuni suggerimenti pratici per il miglioramento di

alcuni strumenti già esistenti, e affiancarlo nella riflessione sul proprio ruolo didattico e sulla

possibilità di coinvolgere maggiormente anche altri lavoratori esperti in questa funzione. La

presenza del Tutor inoltre ha enfatizzato il valore del riconoscimento formale delle

competenze acquisite al termine del percorso dai due giovani junior da parte dell‟azienda, in

termini di “certificazione interna” del raggiungimento di determinati livelli di autonomia

nell‟esercizio del ruolo richiesto. Il primo junior ha sviluppato le capacità necessarie ad andare

in autonomia presso il cliente per operare interventi di controllo e manutenzione ordinaria, con

la garanzia di poter far comunque riferimento in caso di difficoltà al Mentor o ai colleghi più

esperti con una telefonata. Il secondo junior è passato da manutentore ordinario a

manutentore straordinario apprendendo le abilità necessarie a rispondere autonomamente alle

diverse richieste dei clienti, identificando e risolvendo le problematiche riscontrate. Il

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Mentor ha rafforzato le proprie capacità di trasferimento delle competenze distintive e il

proprio il ruolo di formatore esperto in azienda, ma ha anche intrapreso una riflessione sulla

possibilità di trasferire anche ad altri le proprie competenze e la metodologia appresa per

l‟esercizio della funzione interna di “gestione delle risorse umane”, per avvalersi del supporto

di altri collaboratori nei successivi percorsi di inserimento e dedicarsi così maggiormente al

presidio degli altri processi di gestione aziendale.

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“La formalizzazione delle competenze e il passaggio generazionale”

L‟Azienda su cui è stata effettuata la sperimentazione è una realtà di piccole dimensioni (10

addetti) operante nel territorio di romagnolo nel settore dello stampaggio di articoli in

gomma, che collabora con aziende leader del settore in qualità di contoterzista. L‟Azienda è in

grado di assicurare ai clienti servizi e soluzioni tecniche sempre adeguate alle esigenze del

mercato, in quanto rispondenti ai requisiti di qualità, affidabilità ed economicità indispensabili

per affrontare le richieste del mercato di riferimento. Gli articoli prodotti sono

principalmente destinati al settore automobilistico, veicoli industriali, macchine per fitness,

macchine per lavorazione ortofrutticoli, macchine per lavorazione legno, ecc. Tra i possibili

mercati di sbocco di prossima introduzione vi è un certo interesse per il settore nautico, in

forte sviluppo, nel quale l‟impresa vorrebbe entrare grazie ad alcuni contatti già instaurati sul

territorio. Dal punto di vista delle risorse umane operanti in impresa è da segnalare un

significativo tasso di turnover nella manodopera, da ricondurre probabilmente alle scarse

possibilità di sviluppo della figura professionale che opera sulle macchine per lo stampaggio

all‟interno all‟azienda.

La prima visita aziendale effettuata dal Tutor esterno è stata funzionale alla raccolta di una

serie di informazioni di contesto sulla situazione organizzativa ed alla conseguente valutazione

delle possibilità di applicazione del modello Tandem. In particolare la direzione aziendale

(costituita in questo caso dal titolare e dalla figlia), ha esplicitato al Tutor esterno il bisogno

di analizzare nel dettaglio e formalizzare processi e competenze necessarie per la

realizzazione delle attività di stampaggio, ed è pertanto stata ritenuta un efficace contesto

per la sperimentazione degli strumenti proposti. Focus dell‟intervento, in questo caso, è stata

quindi l‟applicazione degli strumenti previsti dal servizio Tandem nelle fasi di analisi e codifica

delle competenze possedute e obiettivo dell‟apprendimento, rispetto ad una determinata

figura professionale, per un innalzamento del livello di formalizzazione (inizialmente scarso) e

di conseguenza per garantire ai dipendenti il riconoscimento finale del livello raggiunto in

termini di competenza rispetto al gap inizialmente individuato. In questo caso le figure

coinvolte sono state quelle dell‟imprenditore, di un lavoratore esperto e prossimo al

pensionamento in qualità di Mentor, di un giovane junior neoassunto. Il Tutor esterno è

intervenuto direttamente in azienda nelle fasi di comunicazione ed esplicitazione degli

obiettivi del progetto, analisi di dettaglio delle competenze possedute e delle competenze

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obiettivo del percorso, pianificazione delle attività concordata con il Mentor e l‟imprenditore,

definizione del patto formativo e avvio del percorso di trasferimento, presentazione

strumenti di lavoro, osservazione in itinere dell‟andamento del trasferimento, supporto alla

compilazione degli strumenti, confronto con la coppia sull‟andamento dell‟attività e sull‟utilità

percepita nei confronti degli strumenti proposti e del ruolo del facilitatore esterno, verifica

raggiungimento obiettivi di progetto e restituzione output alla direzione aziendale, confronto

finale sulla sperimentazione realizzata, sulle modalità attuative, sui vantaggi percepiti

dall‟applicazione del modello e sui possibili aspetti da migliorare. In particolare in questo caso

l‟intervento del Tutor ha sopperito alla carenza interna di una figura di facilitazione e

mediazione (Tutor Aziendale) e ha supportato l‟attività del Mentor soprattutto negli aspetti

di gestione efficace della relazione e di comunicazione con il neo assunto (anche a causa di

difficoltà, vincoli e possibili incomprensioni causate sia dal divario generazionale, sia dalla

posizione del mentor ormai prossima alla fuoriuscita dal contesto aziendale). Dal punto di vista

aziendale, inoltre, l‟applicazione degli strumenti e delle griglie proposte dal Tutor eterno, ha

facilitato l‟introduzione di elementi di formalizzazione, la cui valenza strategica è stata

riconosciuta in particolare dalla figlia del titolare, che ha esplicitato proprio la volontà di

rafforzare questi aspetti come direzione futura per la gestione aziendale.

In questo caso risulta interessante evidenziare poi come la sperimentazione effettuata abbia

suscitato una riflessione interna nella direzione aziendale ed un nuovo bisogno, scarsamente

percepito in precedenza: la proposta finale infatti è stata quella di valutare l‟applicabilità

della metodologia Tandem per la codifica dei saperi taciti posseduti dell‟imprenditore stesso

(ormai non lontano dal pensionamento) per il trasferimento efficace degli stessi alla figlia che,

pur operando in azienda già da diversi anni, si troverà tra non molto nella situazione di

dovergli subentrare interamente nella conduzione dell‟impresa stessa. L‟esperienza realizzata

verrà quindi portata avanti in questa direzione, evidenziando in questo caso la valenza

dell‟approccio presentato e la trasferibilità dello stesso nelle situazionI di ricambio

generazionale e trasmissione di impresa.

“L‟inserimento delle nuove risorse e i percorsi in alternanza”

L‟azienda in questione opera nelle settore dell‟informatica, in particolare su due differenti

mercati di sbocco: il settore dell‟ “architettura virtuale 3D” (che impegna circa il 40%

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dell‟attività aziendale attuale, ma risulta prioritaria in termini di fatturato), con una clientela

di costruttori e agenzie immobiliari diffusa sul territorio regionale, e il settore del web

marketing per il comparto turistico della riviera romagnola (relativo al restante 60%

dell‟attività aziendale). L‟azienda di dimensione piccola è costituita da 2 soci, che si occupano

distintamente delle due aree di riferimento, e da 9 dipendenti. Il posizionamento sul mercato

appare medio-buono, sicuramente più consolidato per la parte relativa all‟architettura virtuale.

Il clima appare positivo e rilassato; l‟azienda è principalmente costituita da giovani e gli

scambi di informazioni avvengono soprattutto a livello informale. Non vengono organizzate

riunioni a scadenza fissa ma, anche in ragione dell‟alto livello di creatività richiesto, è diffusa

la pratica del lavoro di gruppo per la progettazione e la realizzazione dei servizi offerti. Le

comunicazioni si basano quindi principalmente sulla costante interazione tra colleghi e sulla

disponibilità degli stessi a diffondere e condividere le proprie conoscenze al fine del comune

raggiungimento degli obiettivi prefissati per la realizzazione dei singoli progetti. Lo scambio

di conoscenze si basa principalmente sulla volontà del singolo. L‟azienda ha vissuto negli ultimi

anni un processo di crescita progressivo dal punto di vista delle aree di attività e del

fatturato (che ha portato anche alla creazione di uno spin off che opera su una sede

distaccata, sempre nel settore della promozione turistica on line), facilitato sia dalle

dinamiche in atto nel mercato di riferimento, sia dall‟approccio propositivo e creativo dei

titolari, che dedicano parte significativa del proprio lavoro anche ad attività di aggiornamento

tecnologico e Ricerca e Sviluppo. Le figure coinvolte nella sperimentazione a cui si riferisce la

Buona Pratica si inseriscono nell‟area del web marketing, attraverso la quale l‟azienda si

occupa di pubblicizzazione sul proprio portale di pacchetti turistici proposti da hotel/agenzie

locali e fornitura di servizi tecnologici per la creazione di siti web per terzi (hotel/strutture

turistiche, ecc.). L‟interesse dell‟azienda per l‟approccio metodologico proposto è nato dalla

constatazione della mancanza di un percorso interno standardizzato per l‟inserimento e la

formazione delle risorse, che in precedenza era sempre avvenuto in maniera informale, pur

ottenendo in genere buoni risultati. In sostanza le pratiche di apprendimento e trasmissione

adottate dall‟azienda si sono sempre basate sulle attitudini individuali, affidando

eccessivamente alla buona volontà e alle capacità dei singoli l‟esito del percorso di inserimento

e crescita professionale. Questa difficoltà viene ricondotta dal titolare alle caratteristiche

del settore di riferimento, per il quale sembra non esserci sul mercato un‟adeguata offerta in

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termini formativi e di reclutamento di nuove risorse da inserire in azienda, se non attraverso

canali non convenzionali e specifici come la ricerca via web.

L‟azienda ha usufruito della metodologia Tandem in occasione dell‟inserimento di un giovane

stagista proveniente da un corso di formazione post-diploma in web marketing organizzato

dall‟agenzia formativa. L‟inserimento dello stagista, in questo caso, è stato seguito dal socio

che presidia l‟area del web marketing, che ha governato complessivamente le funzioni

attribuite al Tutor Aziendale (relazione, gestione delle risorse umane, socializzazione, ecc.), e

da altri due lavoratori esperti che in alternanza, e in collaborazione con lo stesso titolare,

hanno esercitato le funzioni di mentoring, trasferendo di volta in volta allo junior le

competenze “di mestiere” possedute. In questo caso, pertanto, ci si è trovati di fronte alla

presenza di tre mentor che in alternanza hanno fornito un costante supporto allo junior quali

punti di riferimento per le specifiche competenze possedute, relative rispettivamente alla

programmazione (primo mentor), all‟approccio commerciale nell‟implementazione dei contenuti

della pagina web (seconda mentor) e alla gestione complessiva dell‟attività di progettazione e

implementazione di un sito di web marketing (il titolare in qualità di mentor). Il Tutor esterno

ha fornito un supporto strategico sia nelle attività di analisi delle competenze obiettivo

dell‟inserimento e del periodo di stage e di programmazione dei tempi e delle modalità di

trasferimento (operata in collaborazione con il titolare), sia intervenendo direttamente

nell‟osservazione della relazione con i diversi mentor. Ha inoltre fornito alcuni strumenti

operativi e indicazioni metodologiche al titolare per operare il suo ruolo di Tutor interno ed

intervenire efficacemente nel presidio delle relazioni tra gli altri lavoratori esperti/mentor e

il giovani in formazione, con la finalità di garantire continuità all‟intervento e di fornire un

metodo di lavoro replicabile in occasione di successivi inserimenti. L‟esperienza realizzata

costituisce pertanto un buon esempio dell‟efficacia e dell‟applicabilità del modello di

intervento anche nelle situazioni di inserimento di stagisti e tirocinanti, fornendo alcuni spunti

di riflessione sul rapporto tra azienda e scuola/agenzia formativa nella gestione dei percorsi

in alternanza e nella costruzione di una relazione di scambio e collaborazione reciproca.

Allegato 1: Slides Tandem

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Genere e generazioni: differenti ma non troppo. Il Mentoring quale strategia di sostegno

per le giovani donne

Questa è un‟ esperienza di mentoring (L. Golfarelli, Equal Portico, 2004) rivolta a un gruppo di

giovani donne, intenzionate a fare insieme impresa, cercando di individuare i punti di forza e i

punti di debolezza di una siffatta metodologia formativa, anche grazie alle testimonianze, i

commenti e i suggerimenti dei soggetti protagonisti del percorso.

I fattori che incidono negativamente per la piena realizzazione della parità di opportunità e

che, altresì, producono un effetto discriminante nel coinvolgimento e nelle opportunità delle

donne nel mondo del lavoro sono sicuramente diversi da paese a paese all‟interno dell‟Unione

Europea, ma un tratto risulta comune a tutti e cioè che le donne hanno meno degli uomini

posizioni che godono di alto prestigio sociale e che sono rare quelle che hanno posizione di

prime nel processo di presa di decisione.

E‟ un dato di fatto che il numero delle donne che lavorano è in sensibile aumento in ogni paese

e che in particolare in Emilia Romagna sono la vera novità del mercato del lavoro: nonostante

questo e malgrado molte donne abbiano grandi competenze professionali, esistono barriere di

accesso per molti lavori, che comportano alte responsabilità e compiti manageriali, con le

conseguenti adeguate retribuzioni.

A fronte del gap ancora significativo fra competenze reali e speranza di successo anche per

le donne delle generazioni più recenti, il Mentoring è stato uno valido strumento anche per

giovani competenti.

Il Mentoring quale tecnica di accompagnamento nella formazione professionale rappresenta

una metodologia utile nell‟ambito delle diverse forme di agevolazioni previste a favore delle

donne; in realtà non è propriamente una novità negli ambienti di lavoro, infatti è già stato

adottato all‟interno di molte strutture pubbliche e private con la finalità di aumentare la

professionalità di soggetti più giovani e meno esperti, attingendo all‟esperienza di soggetti,

che operano sul campo da più tempo e che hanno il compito di trasferire loro le competenze e

le conoscenze acquisite nel corso del tempo.

Nel contesto Europeo la metodologia del Mentoring è nota in molti ambienti lavorativi, ora

intesa come formazione interna ora come formazione esterna, entrambe con l‟obiettivo di

promuovere l‟orientamento lavorativo delle donne attraverso dei modelli positivi per la

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trasmissione del sapere: grazie alle personali relazioni e contatti con modelli di successo è

facilmente visibile infatti lo sviluppo delle competenze delle donne coinvolte nel progetto.

Un gruppo di giovani donne ha partecipato a un percorso formativo, si è costituito in

associazione e successivamente a un percorso di accompagnamento allo start up di impresa e

alla relazione con una mentor, ha dato avvio a una propria impresa, che opera con successo.

Il Mentoring è qui una strategia di sostegno che si adatta alle esigenze di una compagine di

giovani donne.

La figura del/della mentor è una persona che, avendo maturato con successo una lunga

esperienza in un determinato settore, viene incaricata di seguire e formare giovani

inesperte/i tramite la trasmissione delle proprie conoscenze e metodologie di lavoro. Le

esperienze si situano in una dimensione aziendale, dove le/gli attori sono definiti dal contesto.

Se in linea teorica il mentoring è un processo metodologico nel quale una persona, la/il mentor,

segue e promuove la carriera e lo sviluppo professionale di un‟altra persona, più giovane e/o

meno esperta, instaurando non un rapporto di subordinazione, bensì un rapporto amichevole e

cordiale, a livello di luogo di lavoro, questa relazione è fortemente scandita dalla forma

organizzativa e dalla relazione che può essere di subordinazione o di passaggio di competenze.

In ogni caso le potenzialità di una siffatta relazione sono tali che essa può concretamente

permettere di fare spazio, all‟interno della realtà in cui si opera, all‟apprendimento, alla

sperimentazione, nonché allo sviluppo di nuove potenzialità personali e professionali.

Il mentoring in molti casi ha permesso di incrementare la presenza delle donne in posizioni

manageriali tipicamente maschili, apportando un cambiamento importante all‟interno di alcune

strutture lavorative, attraverso rapporti di affidamento e riconoscimento.

Un programma di „accompagnamento‟ come quello del mentoring può incoraggiare le giovani

donne, che si misurano con le prime esperienze lavorative, ad acquisire maggiore sicurezza e,

quindi, a raggiungere, nella maniera più indolore possibile, i propri obiettivi professionali e

soddisfazioni personali.

La possibilità di confrontarsi con altre donne che hanno vissuto le stesse difficoltà, permette

di rendere la situazione meno gravosa di quanto potesse apparire inizialmente, in quanto dà la

consapevolezza che i problemi da affrontare esistono in diversi contesti a prescindere dalle

donne che ne sono coinvolte e che, quindi, non è, o meglio quasi mai è, una questione di capacità

personale.

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Il mentoring può aiutare le giovani donne a raggiungere con le proprie forze gli obiettivi

professionali che si sono prefissate, portandole a sentirsi maggiormente motivate a seguire

una propria strada, anche se questo può significare affrontare numerosi problemi.

Il mentoring non è una tecnica meccanica, ma un processo che si fonda sul clima di fiducia

reciproca, di empatia e di assertività che si sviluppa nella relazione fra le persone.

Un buon intervento di mentoring deve saper agire positivamente anche verso l‟affermazione

dell‟autostima delle neo-imprenditrici, favorendo la crescita della fiducia in se stesse e nelle

proprie capacità, oltre a fornire indicazioni di lavoro e suggerimenti operativi verso i quali

indirizzarsi.

E‟ di particolare interesse connettere queste esperienze e un largamente condiviso

fondamento teorico con considerazioni più legate al farsi di un percorso di presa di decisioni

di giovani donne in un ambiente permeato di cultura di genere.

Non solo women friendly quindi ma scambio e specchio di esperienze fra un femminile forte e

di successo e un femminile competente e desideroso di successo, con una distanza

generazionale che dà autorevolezza ma non impedisce identificazione positiva.

Certo è che lo scarto simbolico e linguistico è immediatamente rilevante.

Mentore è il precettore, che fu incaricato da Ulisse di educare e prendersi cura del figlio

Telemaco durante la sua assenza, in sua vece, vece di padre

Il termine “mentor”, è divenuto presto sinonimo di persona preparata e con grande

esperienza, con il compito di educare e di guidare le persone più giovani e quindi con meno

esperienza.

Il termine “Mentoring” ha assunto un significato sempre più specifico, delineando con sempre

maggiore precisione l‟ambito di operatività della nuova metodologia formativa.

Il Mentoring è così diventata una specifica misura di supporto per i giovani, una metodologia

formale ed effettiva da adottare in azienda, con la quale offrire un supporto tecnico per lo

sviluppo delle carriere di uomini e donne, e per trasferire la conoscenza e l‟esperienza dei

manager più anziani verso la nuova generazione di occupati.

Applicato in ambito lavorativo la figura del Mentor, neutro/maschile, è stata vista come una

persona che ha maturato con successo una lunga esperienza in un determinato settore e viene

quindi incaricata di seguire e formare giovani inesperti tramite la trasmissione delle proprie

conoscenze e metodologie di lavoro.

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Il mentore è, in quanto precettore, un‟autorità benevolente e rischia di caricarsi di esempi,

modelli di riferimento maschile

E‟ noto quanto i modelli imprenditoriali di ruolo siano fondamentali per il successo di

un‟impresa, quanto siano decisivi i fattori di imitazione nello spingere ad intraprendere un

percorso imprenditoriale: una ricca letteratura dimostra che nelle aree in cui è più elevato il

numero di piccoli imprenditori, più alte sono le probabilità che altri piccoli imprenditori

entrino sul mercato; questo si verifica non solo per l‟esistenza di condizioni ambientali

favorevoli, ma anche per l‟effetto di incoraggiamento che l‟esperienza di altri può indurre.

Proporsi, tramite la metodologia del Mentoring, di delineare una cultura imprenditoriale delle

donne, significa mettere in luce la ricchezza delle risorse umane investite e l‟importanza di

utilizzare doti più o meno naturali per le donne, come la capacità di relazione e di

organizzazione, la disponibilità all‟apprendimento, la flessibilità, l‟attenzione alle esigenze

espresse dagli altri.

E‟ indubbio che nell‟intraprendere un cammino autonomo, soprattutto se questo si svolge su

sentieri non tradizionali, le donne possono contare raramente su modelli di ruolo consolidati o

sull‟esperienza di altre che abbiano compiuto prima di loro lo stesso percorso: i casi di

successo di donne imprenditrici spesso risultano troppo lontani e poco visibili; troppo diffusi

sono ancora i casi di ruoli tradizionali della donna lavoratrice e madre, in quanto spesso le

scelte di lavoro sono subordinate a quelle familiari.

Dalla necessità, quindi, di sperimentare metodologie di formazione innovative, che permettano

di sviluppare maggiormente le risorse umane delle donne nella creazione di nuova impresa,

scaturisce la possibilità di utilizzare la tecnica del Mentoring per incentivare le donne nella

ricerca di nuove opportunità lavorative tramite l‟impiego del loro spirito imprenditoriale.

Con l‟applicazione del Mentoring è quindi possibile rendere visibili problematiche che di

frequente si realizzano nella creazione di impresa, ma soprattutto far sì che gli ostacoli

incontrati diventino più uno stimolo di miglioramento piuttosto che un motivo di

scoraggiamento.

Dall‟esperienza di donne che hanno già avviato un‟impresa con discreto successo, le giovani

imprenditrici possono concretamente trovare il coraggio per affrontare le difficoltà

incontrate nella gestione della loro attività con maggiore sicurezza, avendo la possibilità di

confrontarsi con donne che potenzialmente hanno già superato la fase critica dell‟avvio e sono

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quindi in grado di poter dare consigli sul modo migliore per risolvere alcune problematiche

aziendali.

L‟affermazione e la diffusione di un diverso e più forte modello di imprenditoria femminile può

rappresentare uno stimolo per altre donne, può costituire un incentivo e un sostegno per

quante intendano raccogliere la sfida e cimentarsi “nell‟impresa di fare impresa”.

Pertanto obiettivo finale è quello di agevolare e far comprendere alle neoimprenditrici quale

sia il ruolo che devono ricoprire quali titolari della propria azienda e il rapporto tra mentor e

utente serve proprio a trasmettere maggiore consapevolezza sul ruolo manageriale di

quest‟ultima.

Il mentor è dunque un maschile che si femminilizza in la mentor, ma il simbolico mantiene una

sua rilevanza e può condizionare le pratiche e le modalità relazionali.

Nell‟ ambito delle politiche di pari opportunità fra uomini e donne, i programmi di “Mentoring”

sono stati particolarmente utilizzati per superare gap di accesso a funzioni e settori

tipicamente maschili.

La metodologia si è fatta women friendly, le mentor sono rigorosamente donne, ma l‟originaria

vocazione a dare indicazioni, a far da modello anziché a condividere percorsi di presa di

decisione, specie quelle piccole e insidiose della quotidiano, è spesso rimasta attiva fra le

pieghe della tecnica, insieme alla forte disparità di età fra mentor e mentee.

La tecnica è in genere buona, così come gli strumenti, ampiamente sperimentati e descritti in

letteratura e, nella versione women friendly, anche in materiali prodotti per questo stesso

progetto.

La domanda è: bastano modifiche tecniche o è l‟obiettivo del mentoring che va definito a

misura di donna giovane e competente e rapportato alla specificità dell‟ esperienza quando si

arrichisce di un contenuto gruppale e relazionale, che si vuole traslare nell‟ esperienza di

impresa?

La risposta non è scontata e diventa così particolarmente significativa un‟ esperienza di

mentoring che connette genere, generazioni, gruppo e scelta di impresa, poichè richiede un

oltrepassamento di più paradigmi del mentoring, che solitamente indica:

una serie di rapporti interpersonali instaurati e sviluppati fra i soggetti protagonisti, il cui

elemento fondamentale è rappresentato dalla necessità di creare relazioni “uno-a-uno”, cioè

relazioni che coinvolgano una/un solo utente ed una/un solo Mentor;

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una relazione fra adulte esperte e giovani donne

E‟ alla relazione uno a uno che è affidata nell‟ ortodossia la necessaria confiance fra mentor e

mentee e il processo di identificazione con chi ha avuto successo, che è persona più adulta,

spesso molto più adulta, con la mediazione di una tutor.

A ciò si aggiunge che spesso uno dei problemi ricorrenti nelle attività gestite da donne è il

conflitto che si crea tra matrimonio e lavoro e l‟oggetto del confronto fra mentor e mentee è

spesso inerente il conflitto di ruolo, le ambiguità su cosa fare, quando e come e il sovraccarico

di lavoro determinato dal doppio ruolo.

In generale, con mentoring si indica una serie di rapporti interpersonali instaurati e sviluppati

fra i soggetti protagonisti, il cui elemento fondamentale è rappresentato dalla necessità di

creare relazioni „uno-a-uno‟, che coinvolgano una/un sola/o utente e una/un sola/o mentor.

La relazione uno-uno da personale può diventare gruppale? Un/una mentor per un gruppo di

soci/e di una impresa?

Nel nostro caso il percorso riguarda il fare impresa, come farlo, come farlo in gruppo, come

avere successo come gruppo, che parte dall‟ essere associazione e ne vuol mantenere il valore,

un gruppo di giovani donne che non sono frenate da impegni di cura ma dal timore che fare

impresa leda l‟ eticità e l‟ impronta sociale della loro azione

Come si è avuto modo di dire in precedenza, le donne inserite nel mondo del lavoro, spesso si

trovano a doversi scontrare con numerose barriere che di fatto non hanno nulla a che vedere

con le loro capacità ed esperienze professionali.

Senza la possibilità di scambiare idee ed opinioni con altre donne che hanno vissuto le loro

stesse esperienze, può succedere che quelle barriere vengono percepite dalle interessate

come dei veri e propri limiti personali.

E‟ certo che un programma di “accompagnamento” come quello del Mentoring, incoraggia le

giovani donne che si misurano con le prime esperienze lavorative, ad acquisire maggiore

sicurezza e quindi a raggiungere, nella maniera più indolore possibile, i loro obiettivi

professionali e le loro soddisfazioni personali.

La possibilità di confrontarsi con altre donne che hanno vissuto le loro stesse difficoltà,

permette di rendere la situazione meno gravosa di quanto potesse apparire inizialmente, in

quanto dà la consapevolezza che i problemi da affrontare esistono in diversi contesti a

prescindere dalle donne che ne sono coinvolte, anche se sono un gruppo.

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Al fine di realizzare un corretto rapporto di mentoring è necessario che vengano coinvolti nel

processo tre figure ognuna delle quali con compiti precisi e ben determinati:

neoimprenditrice, mentor e tutor.

Nel nostro caso i soggetti sono:

compagine in avvio di impresa, mentor e tutor.

I tre ruoli si tengono e dunque è rilevante la conoscenza delle caratteristiche di tutte le

attrici singole o di gruppo.

Mentee: Le Comunicative.

La compagine è nota nelle sue caratteristiche per aver partecipato ad un percorso formativo e

consulenziale di gruppo.

Le sue esigenze in termini di consolidamento dell‟ idea di lavoro associativo comune sino ad un‟

impresa sono state approfondite attraverso numerose attività laboratoriali e consulenziali:

Le Comunicative sono giovani professioniste della Comunicazione, con differenti profili

professionali specifici, particolarmente attente alla comunicazione on line e all‟ organizzazione

di eventi.

Il centro della loro riflessione è come non perdere il loro contenuto valoriale nel fare impresa

e quale valore aggiunto dà l‟impresa che l‟ associazione non ha ovvero la facciamo questa

impresa e stiamo sul mercato senza farci inghiottire dal mercato?

Il percorso di avvio è stato seguito da alcune donne e un uomo che hanno interloquito con il

gruppo e sono state seguite da una coordinatrice e da una tutor.

Il passaggio dall‟idea al progetto e dal progetto all‟ impresa è stato facilitato dall‟ incontro con

una mentor con una storia e caratteristiche analoghe: una giovane donna, che fa impresa con

alcune socie, che opera nello stesso settore e ha avuto analoghi dubbi all‟ avvio ed è ora un‟

imprenditrice di successo.

La selezione della mentor è stato il punto chiave della metodologia ed ha consentito il

mismatch fra mentor e mentee, in assenza di un percorso ad hoc di formazione di mentor:

precedenti percorsi di definizione dell‟eccellenza imprenditoriale hanno consentito di

identificar,e all‟ interno di un repertorio di imprenditrici di successo, la mentor più adatta.

La relazione preesistente fra tutor e mentee ha facilitato il mismatch rendendo disponibile la

conoscenza delle dinamiche di gruppo, delle modalità di comunicazione, delle competenze e

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conoscenze acquisite , delle priorità, dei dubbi e dei valori delle singole e dell‟ intera

compagine.

La metodologia di selezione della mentor ha seguito questo percorso, che può essere

considerato la parte metodologicamente più rilevante.

Metodologia per la selezione della mentor per “ analogia”

Esame dei repertori Ecipar di Imprese Eccellenti.

Individuazione di una potenziale mentor attraverso l‟ analisi delle sue buone prassi e del sue

posizionamento competitivo.

In questo caso: Achtoons, Compagine- Giovane- Creativa-Settore analogo- Premiata per

l‟eccellenza

L‟ intervista è al centro del mis-match

Dati personali:

L‟imprenditrice ha 32 anni, possiede una laurea umanistica, ha anche una formazione post-

laurea: il suo percorso di studi è molto buono

È nubile, non ha figli: assenza di carichi familiari

l‟utilizzo delle tecnologie informatiche è quotidiano: Nella vita come nel lavoro le nuove

tecnologie sono importanti

Dati professionali:

Nell‟ambito della propria esperienza professionale, di circa dieci anni, ha creato la propria

piccola impresa nel settore della comunicazione. Impresa di dimensioni standard sul territorio.

Formazione e sviluppo professionale:

Presente un vettore di forte positività nelle scelte che dagli studi vanno verso la professione:

passione e chiarezza degli obiettivi

Le radici familiari sono state le linee guida: hanno trasmesso valori positivi

Forte centratura sull‟apprendimento continuo da tutte le situazioni nel corso della vita:

capacità nella professione significa capacità di “mettere a valore” l‟apprendimento

Esperienza professionale:

Si evince che il lavoro è al primo posto nelle proprie aspirazioni e ha una relazione diretta con

gli studi: scelta forte e continuità dall‟esperienza professionale all‟esperienza imprenditoriale

Desiderio impellente di anticipazione: cominciare a lavorare presto, creare la propria impresa

nonostante non abbia avuto aiuti e la gente si fidi più degli uomini che delle donne

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L‟azienda è vista come una compagine, ossia l‟impresa viene da un‟esperienza collettiva.

L‟obiettivo principale è il fare in COMUNE: prendere un impegno con un obiettivo comune,

stimolare la motivazione generare un senso di riuscita comune, per rendere i compiti più

gradevoli, ossia stare bene

Motivazioni:

Per prima cosa la considerazione si basa sull‟idea che la ossia la società ha bisogno delle donne,

in particolar modo di donne professioniste. Le motivazioni del proprio vissuto imprenditoriale

sono: trarre soddisfazione, avere autonomia, puntare all‟innovazione, sia di processo, che di

prodotto o servizio

Conciliazione e uso del tempo:

L‟imprenditrice è libera da carichi familiari, vive da sola, in piena autonomia e responsabilità

Importanza nel fare o non fare del duplice aspetto del tempo libero: libertà di fare più cose

contemporaneamente, o di non fare nulla e oziare senza sensi di colpa. Si vuole bene

Immagine di se stessa:

Emerge forte chiarezza sulle proprie abilità personali: iniziativa, costanza, impegno,

comunicazione: ho le stesse competenze dell‟altro sesso. Non solo si accetta, si piace, grande

autostima.

Punti di debolezza:

Caduta del femminile nella difficoltà di delega e nel senso di colpa

Aspettative e aspirazioni:

Sa tenere insieme vita e lavoro, sa gestire il suo tempo. Non avere orario è un valore, ma la

gestione tempi di vita e tempi di lavoro è fortemente equilibrata.

Ruoli:

Grande organizzazione e capacità di fare più cose contemporaneamente.

Importanza alla contrattazione in quanto capacità di convincere senza conflitto: attenzione

all‟interlocutore e alla capacità di comunicazione.

Grande valore al ruolo sociale. Si sottolinea la “rivoluzione delle donne imprenditrici”

attraverso la valorizzazione del loro lavoro.

Utilizzo delle nuove tecnologie:

Servono a tutto tondo: da un punto di vista personale, perché agevolano il lavoro, e anche da

un punto di vista di coesione sociale per la creazione di reti di genere.

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Immagine della società in futuro:

Emerge fiducia nelle politiche di pari opportunità per: educare alla parità e modificare i

modelli culturali forniti dai media, la società deve porre più attenzione alla comunicazione di

genere e „del genere‟ per trasmettere valori ed esperienze positive.

Il percorso di selezione della mentor è stato complesso ma la relazione mentee, mentor, tutor

ha confermato l‟adeguatezza del mismatch.

La Mentor ha costruito un rapporto di fiducia e “vicinanza” con la compagine partecipante al

corso, ha dato un sostegno anche morale, una guida, un incoraggiamento e un punto di vista

indipendente rispetto alle opportunità che la compagine intravedeva, lasciandola però libera di

prendere le proprie decisioni, ha rafforzato, grazie alla sua esperienza, la motivazione di

gruppo, ha sdrammatizzato il passaggio da associazione a impresa.

Ha accompagnato le Comunicattive, come gruppo,innescando un processo di identificazione

positiva.

Una delle principali funzioni della Mentor è infatti proprio quella di contribuire a consolidare

la fiducia e l‟ autostima:quindi per preparare i primi incontri fra Mentor e neo imprenditrice è

stato fondamentale esaminare sia la modalità che il tema - contenuto su cui avviare il

contatto.

Ciò che dovrebbe essere trasmesso in un corretto rapporto di mentoring è soprattutto la

capacità di saper guardare le proprie potenzialità per saperle sfruttare al meglio.

Il ruolo della mentor è un po‟ il ruolo di chi aiuta a fare un bilancio della situazione, aiuta a

scoprire i punti di forza e quelli di debolezza che servono poi a migliorare le proprie capacità

e a prendere le decisioni più corrette:

- Aiutando ad identificare i problemi

- Valutando la situazione e i rischi che il cambiare o il non cambiare comportano

- Analizzando le alternative

- Analizzando le alternative disponibili

- Accompagnando percorsi di decisione anche micro

- Una volta raccolte le alternative possibili operare una scelta

Il percorso di selezione della mentor è stato complesso ma la relazione mentee, mentor, tutor

ha confermato l‟ adeguatezza del mismatch.

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La Mentor ha costruito un rapporto di fiducia e “vicinanza” con la compagine partecipante al

corso, ha dato un sostegno anche morale, una guida, un incoraggiamento e un punto di vista

indipendente rispetto alle opportunità che la compagine intravedeva, lasciandola però libera di

prendere le proprie decisioni, ha rafforzato, grazie alla sua esperienza, la motivazione di

gruppo, ha sdrammatizzato il passaggio da associazione a impresa.

Ha accompagnato le Comunicative, come gruppo, innescando un processo di identificazione

positiva.

Una delle principali funzioni della Mentor è infatti proprio quella di contribuire a consolidare

la fiducia e l‟ autostima:quindi per preparare i primi incontri fra Mentor e neo imprenditrice è

stato fondamentale esaminare sia la modalità che il tema - contenuto su cui avviare il

contatto.

Ciò che dovrebbe essere trasmesso in un corretto rapporto di mentoring è soprattutto la

capacità di saper guardare le proprie potenzialità per saperle sfruttare al meglio.

Il ruolo della mentor è un po‟ il ruolo di chi aiuta a fare un bilancio della situazione, aiuta a

scoprire i punti di forza e quelli di debolezza che servono poi a migliorare le proprie capacità

e a prendere le decisioni più corrette, aiutando ad identificare i problemi, valutando la

situazione e i rischi che il cambiare o il non cambiare comportano, analizzando le alternative e

ccompagnando percorsi di decisione anche micro, operando una scelta una volta raccolte le

alternative possibili

Vi è una distanza significativa fra la metodologia implementata e quella di scuola prevista in

una classica raffigurazione degli stili del mentoring:

Gli stili base del mentoring

Persuasione

Mettere in

grado

qualcuno di

fare q.c.

Consulenza

Contatti

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E‟ al centro della pratica esaminata, caratterizzata da un percorso di selezione per

caratteristiche di eccellenza, positività, esperienza di gruppo e analogia/somiglianza

esperienziale e valoriale, un contenuto più autenticamente di scambio, dove la disparità è

minore.

Un contenuto più autenticamente di scambio, dove la disparità è minore è al centro della buona

pratica esaminata, caratterizzata da un percorso di selezione per caratteristiche di

eccellenza, positività , esperienza di gruppo e analogia/somiglianza esperienziale e valoriale.

Le caratteristiche della mentor selezionata ha garantito la non intrusività e la possibilità di

comunicazione di dinamiche positive e di sostegno dell‟ autostima delle singole e del gruppo

come soggetto dello scambio mentor/mentee.

La dinamica relazionale è una dinamica per affinità più che per disparità: potremmo parlare di

un‟ autorevolezza derivata dal rispecchiamento.

Un percorso di selezione adeguata, anche in assenza di un percorso formativo, ha consentito

di rendere credibile un processo di mentoring, in virtù della forte corrispondenza fra

esigenze della compagine/mentee e della storia e delle caratteristiche della mentor.

La tutor ha svolto funzione di accelerazione nella fase di conoscenza e di mediatrice di

processo.

La mediazione consiste essenzialmente nell‟agevolare il contatto tra le due parti, prevedendo

e favorendo gli incontri anche al di fuori delle ore di mentoring svolte in aula.

Una tutor deve manifestare disponibilità e capacità di leggere tra le righe il sopraggiungere

dei problemi, anticipandone le soluzioni: in pratica i/le tutor assumono il ruolo di registi del

processo, ma evitando di apparirne protagonisti, osservando il processo da dietro le quinte e

monitorando le fasi di sviluppo per assicurarne un esito positivo: l‟avere condiviso l‟intero

processo formativo e consulenziale ha rafforzato la competenza specifica della tutor.

Gli indicatori di performance:

i posti di lavoro creati

la nascita dell‟impresa

il tasso di sopravvivenza delle imprese

il successo della neo impresa

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un accresciuto livello di sviluppo personale e di fiducia in sé da parte delle neo-imprenditrici

partecipanti al programma

le relazioni acquisite e scambiate fra mentor e mentee

Rischiosità:

esiste un rischio da entrambe le parti del rapporto di mentoring. Le imprenditrici rischiano di

vedersi “rubare” le loro idee o che informazioni confidenziali vengano sfruttate, i consigli

possono essere sbagliati.

Le ComunicAttive hanno avviato con successo la loro impresa e ora condividono la sede con la

loro mentor.

L‟ intero processo, in presenza degli strumenti che lo hanno reso possibile, è trasferibile in

situazioni analoghe con buone prospettive di successo.

Allegato 2: Slides Il mentoring e lecompagini

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Diverse abilità, diversity management e diversity tool nell’apprendimento in rete

Dare ALI alle differenze

Le comunità locali possono essere considerate “local learning community” e rappresentare in

sé una sfida per il diversity management della conoscenza.

Il progetto Equal ADD+ ha contribuito a costruire una metodologia che grazie alle competenze

della partnership, attraverso le ALI e l‟ azione dei tutor locali ha reso più accessibile la

formazione anche in luoghi distanti dalle sedi formative, attraverso la rete e strumenti

adeguanti alle diverse abilità e competenze e la collaborazione con le comunità e i responsabili

locali .

I percorsi sono stati interpretati come percorsi di cittadinanza formativa, miranti a mettere

le persone al centro e a definire strategie finalizzate a:

- Accedere a servizi di orientamento, intesi come spazi e luoghi di riflessione in cui sviluppare

le capacità di fronteggiare e di gestire le problematiche connesse a fenomeni di transizione o

evoluzione lavorativa;

Local learning community

Scuola

Enti formazione

Sistema Servizi

Lavoro

Organizzazioni

datoriali e

sindacali

Amministrazioni locali

Cittadinanza

Associazioni

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- Definire per ciascuno/a il proprio percorso di formazione, attraverso un piano che colleghi

tra loro diverse opportunità formative, finalizzato a rafforzare la posizione professionale

contingente o in prospettiva;

- Usufruire di strumenti e tecnologie finalizzate al superamento delle differenze linguistiche

e di abilità;

- Valorizzare le competenze formali, non formali e informali.

Nei territori bersaglio la presenza di tecnologie di sostegno alle disabilità e alle difficoltà

linguistiche si è rivelato particolarmente significativo, al fine di facilitarne l‟inserimento

lavorativo. La mancata padronanza di determinati linguaggi, infatti, l‟analfabetismo

informatico e una scarsa conoscenza della lingua e/o delle consuetudini linguistiche locali e

professionali, anche non verbali, può compromettere seriamente la crescita professionale e

sempre più l‟esercizio tout-court di una qualsiasi professione.

L‟ ICT si è rivelato utile sia per il decentramento del sapere e delle opportunità che per

aumentare la diversificazione degli interventi in funzione dei/lle beneficiari/ie e le

opportunità di Lifelong Learning, attraverso l‟integrazione di diverse competenze e la messa in

rete di differenti agenzie erogatrici di servizi formativi.

È il contesto, infatti, che, insieme alle biografie personali, determina e definisce il fabbisogno

formativo e le opportunità professionali e può ridurre o drammatizzare le complesse

dinamiche tra competitività ed equità, tra nuova centralità dell‟individuo e differenze sociali

di opportunità e di appartenenza.

Gli attori e le attrici del diversity mangement della conoscenza sono stati i tutor delle ALI,

fortemente radicati nel territorio e formati in modo mirato sia per fungere da integratori dei

differenti stakeholder che per mediare le differenti esigenze integrandole nell‟ attività dei

learning point.

Tenere conto delle diversità e conoscerle ha come base alcune azioni:

Conoscenza dell‟utente

Questa attività deve essere condotta mediante alcune diverse tipologie di osservazione:

lettura, analisi e supporto alla compilazione di un adeguato curriculum; valutazione e analisi

attraverso alcuni colloqui degli aspetti motivazionali, relazionali, ecc. dell‟utente.

Individuazione delle competenze

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L‟accertamento delle competenze in possesso della persona che vuole cimentarsi in un

percorso di inserimento al lavoro, è una fase strategica, permette di valutare la “disponibilità”

della persona nell‟affrontare momenti di perfezionamento delle abilità in possesso, nonché di

momenti di specifica formazione. Il campo di osservazione privilegiato è quello delle

conoscenze informatiche, o meglio, del più vasto ambito dei supporti e tecnologie ICT

(Information, Communication Technology) perché è più che mai verificato che la presenza di

tali competenze trova corrispondenza nelle ricorrenti richieste fatte dalle aziende.

L‟esperienza di questi ultimi anni ha segnalato l‟interesse delle aziende, nel richiedere

competenze informatiche certificate, verso le persone da inserire nel proprio ambito di

lavoro; questo è dovuto in particolare a due aspetti; da un lato il fatto della sempre più

frequente necessità da parte delle aziende di disporre di personale che sia in grado ed in

maniera autonoma di svolgere tutte quelle attività al computer previste ormai in quasi tutte le

mansioni richieste dai profili di inserimento lavorativo.

Le indicazioni rispetto ai differenti gruppi di interesse prevalente sono così declinabili:

Diversamente abili

Emerge una generale preoccupazione per l‟ accesso al lavoro dei disabili e un cruccio per lo

spreco formativo Cosa serve:

azioni formative per i disabili utili attivate in modo mirato, affrontando pochi casi e

con molta cura, sino all‟ inserimento lavorativo o ad esperienze di stage: i percorsi

formativi devono essere utili per l‟inserimento lavorativo

necessità per gli imprenditori di approfondire il tema della disabilità, poiché spesso

impreparati a gestire e ad affrontare i lavoratori disabili

percorsi individualizzati, per i disabili la formazione individuale è da preferire poiché è

di solito molto difficile “mettere insieme persone che hanno caratteristiche, attitudini

e bisogni formativi omogenei”

cogliere le opportunità legate ai finanzimenti FSE, Es. budget just in time o

collegamenti con altre iniziative

alfabetizzazione e formazione informatica accessibile e spendibile con postazioni

realizzate ad hoc se necessario

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fra i diversamente abili ci sono anche ragazzi che hanno semplici ritardi cognitivi o che

per tanti motivi sono rimasti indietro nell‟acquisizione di competenze legate alle nuove

tecnologie informatiche).

Al fine di evitare ogni improvvisazione si è fatto un lavoro comune al fine di meglio

valutare i fabbisogni formativi e relativi agli ausili necessari di questo tipo di utenza non

solo di una formazione mirata ma anche di un accompagnamento dei disabili fino

all‟inserimento lavorativo con testimoni privilegiati che hanno elaborato importanti

indicazioni in cconnessione a passaggi chiave.

Immigrati e immigrate:

immigrati: i più non vengano raggiunti dall‟informazione e quindi dalla formazione

questione alfabetizzazione linguistica e informatica

la formazione alle norme specie per gli imprenditori immigrati

immigrati abitano in zone periferiche: orari del learning point dovranno tener conto

delle difficoltà degli spostamenti

donne immigrate come target significativo anche per la socializzazione e l‟ integrazione

alfabetizzazione in rete con i Cpt

alfabetizzazione e formazione informatica e alle reti

sicurezza sul lavoro, in particolare sul lavoro in edilizia, sia per lavoratori che per

imprenditori, sicurezza per badanti

necessità degli stranieri che perdono il lavoro in seguito alla chiusura di grandi

stabilimenti (vedi caso Eridania o crisi avicola) di acquisire nuove competenze per

potersi reinserire nel mercato del lavoro

Over 45

Alfabetizzazione informatica e alla rete percorsi legati al reinserimento al lavoro

Alfabetizzazione informatica fasce di età alte anche oltre il lavoro

Le/I Tutor nei territori

hanno sviluppato a livello territoriale una serie di servizi finalizzati ad adeguare le

competenze professionali per evitare fenomeni di espulsione o di emarginazione dal lavoro e

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svolto il ruolo di animatore di nuove “comunità professionali locali”, per contrastare le

discriminazioni di

• Lavoratrici e lavoratori con disabilità fisiche e/o sensoriali

• Immigrate/i

• Lavoratrici e lavoratori over 45

• Inoccupati e disoccupati

• Occupati, in particolare nelle PMI

Strumenti

• Portale

• Formazione a distanza con il supporto dei tutor locali

• Catalogo di corsi selezionati in base ai fabbisogni emersi

• Accessibilità degli strumenti informatici a persone con difficoltà cognitive e sensoriali

• Strumenti di comunicazione innovativi e accessibili

Hanno operato per

- creare un collegamento forte con i territori di riferimento del progetto

- declinare le attività a seconda delle esigenze della singola situazione

- connettere con le altre attività territoriali le azioni previste in “ADD + Across The Digital

Divide”

- promuovere il coinvolgimento della cittadinanza e delle associazioni locali in comitati locali di

riferimento per i Centri ALI (Centri Territoriali per l‟Apprendimento e l‟Innovazione)

- promuovere presenze volontarie presso i Centri ALI

- ricercare il coinvolgimento degli istituti scolastici

- trovare i modi per un‟adeguata informazione alla cittadinanza, opportunamente estesa alle

realtà di impresa, dei lavoratori e delle lavoratrici locali.

La formazione dei tutor e la loro collocazione nellle ALI è stata particolarmente significativa

e complessa.

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La formazione dei tutor ha fornito loro gli strumenti per relazionarsi in modo opportuno con le

differenti esigenze di un‟ utenza che aveva ed ha esigenze e capacità differenti di accesso all‟

apprendimento e alla rete.

La formazione all‟accompagnamento di persone con differenti bisogni ha in particolare

approfondito l‟ approccio con le persone immigrate e con quelle diversamente abili e ha messo

a disposizione percorsi on line capaci di far acquisire eguali capacità attraverso percorsi

differenziati.

L‟offerta formativa relativa a contenuti dell‟area informatico / linguistica rivolta a persone

svantaggiate e disabili del progetto ADD++ si è articolata sulle seguenti linee metodologiche

di fondo:

il processo di apprendimento, tanto più se afferisce a tematiche di tipo

informatico/operativo, richiede un elevato grado di interazione tra l'allievo e il

computer, con una grande quantità di attività pratiche;

il "gruppo d'aula" sviluppa delle dinamiche di "mutuo aiuto" e sostegno reciproco che

migliorano il livello di apprendimento e innalzano il grado di motivazione degli allievi.

Per questo motivo, si è scelto di strutturare le attività formative favorendo l‟organizzazione

degli allievi in gruppi, i quali possono avere come punto di riferimento l‟ALI (Agenzie Locali per

l‟Apprendimento il Lavoro e l‟Innovazione).

Ciò non esclude ovviamente la partecipazione di coloro che fruiscono dell‟offerta formativa da

postazioni diverse dall‟ALI, ad esempio da casa: Consente però a coloro che, per svariati

motivi fruiscono dell‟offerta formativa operando completamente o parzialmente dall‟ALI, di

beneficiare di tutti gli aspetti relazionali sopra citati.

Nelle ALI assume un ruolo di primaria importanza la funzione del tutor di ALI, il quale ha da

un lato, l'obiettivo di favorire il nascere di "dinamiche d'aula", utili per i motivi sopra citati,

mentre dal punto di vista più propriamente contenutistico, la trasmissione di contenuti

propedeutici o complementari alla formazione a distanza di approfondimento di argomenti

particolarmente complessi.

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Il Servizio di supporto e tutoraggio per le ALI

Il servizio di supporto e tutoraggio ipotizzato si articola su due livelli:

Tutoraggio di secondo livello

è rivolto agli operatori delle ALI, che devono comunque essere in grado di gestire le attività

ordinarie degli allievi.

E‟ stato prodotto uno strumento di supporto multimediale per i tutor di ALI, che contiene

moltissime informazioni utili per gestire l‟accesso all‟offerta formativa da parte di persone

svantaggiate o disabili.

Didacta Onlus, partner del progetto, con una grande esperienza in strumenti e azioni di rete

per le differenti abilità, ha progettato e realizzato dei moduli di base pensati per

diversamente abili e stranieri.

Prodotti e strumenti per Immigrati e Immigrate

AL2 On Line - Percorsi di alfabetizzazione iniziale per adulti stranieri

Cerco casa - Percorsi di alfabetizzazione di lingua italiana per adulti stranieri

ECDL possibile, con accompagnamento linguistico

Nell‟ambito del progetto è stato ritenuto opportuno strutturare un‟offerta formativa, nel

campo delle competenze informatiche, rivolta a cittadini immigrati sulla base di un

riadattamento della versione progettata per persone con difficoltà di tipo cognitivo. I

principali elementi di tipo metodologico sono:

la revisione di alcuni capitoli di ECDL per garantire la massima chiarezza in termini di

leggibilità e comprensibilità,

la messa a punto di materiali didattici per l‟apprendimento dell‟italiano L2 da parte di

adulti e adulte stranieri utenti dei materiali didattici on-line ECDL possibile.

Verifica della comprensibilità e leggibilità ECDL possibile già è scritto tenendo conto di

criteri di facile leggibilità. La verifica del materiale prodotto dal punto di vista della

comprensibilità e leggibilità ne ha verificato la validità. Non è stata necessaria

un‟ulteriore semplificazione. I percorsi didattici sono pensati come sussidi al corso on-

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line ECDL possibile a cui ricorrere nel caso di apprendenti la cui competenza linguistica si

mostri insufficiente. Possono essere utilizzati come materiali integrativi nei corsi di

lingua italiana per adulti e adulte stranieri di livello A2.

Prodotti e strumenti per Diversamente abili

ECDL possibile – uno strumento traversale

L‟esame ECDL per “svantaggiati”

Prodotti per non vedenti

Per i testi delle lezioni, viene utilizzato un linguaggio estremamente descrittivo, che va oltre

la semplice narrazione dei concetti didattici, ma si sofferma su descrizioni delle videate, di

ciò che normalmente viene visualizzato a video, per dare un‟idea anche “visiva” delle

schermate.

Sono implementati delle funzioni che permettono, a richiesta, di ascoltare la lettura audio del

testo della lezione, attraverso l‟impiego di una sintesi dalle prestazioni estremamente

avanzate.

Prodotti per ipo-vedenti

La casistica di patologie che portano a situazioni di ipo-visione è veramente molto ampia,

pertanto ci sono tantissimi fattori da considerare nel realizzare un prodotto “per ipo-

vedenti”, e soprattutto anche in questo caso non esiste il prodotto universale. Per questo,

come espresso a proposito dei prodotti per disabili motori, è necessario un momento di

orientamento per individuare il supporto formativo più adatto a ciascuna persona con

difficoltà visive.

Prodotti per disabili motori

E‟ evidente che una classificazione seria della disabilità motoria è un‟operazione

estremamente complessa. Ne consegue che non esiste un prodotto e un approccio

metodologico “ottimale” per i disabili motori, ma che è indispensabile un‟azione di

accompagnamento e orientamento allo strumento migliore per ciascuno.

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Per disabilità motorie più lievi, invece, è stato previsto uno strumento abbastanza trasversale

ai vari tipi di disabilità, sufficientemente accessibile per chi presenta disordini motori di

leggera entità.

Prodotti per sordi

La metodologia didattica utilizzata per somministrare contenuti informatici a persone

audiolese si basa su un approccio di tipo visivo.

Non richiede una interazione complessa, con l‟attenzione ad evitare elementi di distrazione o

animazioni che distolgono l‟attenzione dell‟utente dalla richiesta che viene fatta.

L‟esperienza che deriva dai corsi di formazione rivolti a persone audiolese, porta a pensare

che l‟approccio didattico più efficace è un approccio che può essere definire “ribaltato”

rispetto a quello convenzionale. Non viene seguito il percorso tipico della didattica

tradizionale, “dalla teoria alla pratica”, ma quello opposto, cioè “dalla pratica alla teoria”.

( Didacta, ADD+, 2007)

L‟ accompagnamento agli stage e la formazione dei tutor aziendali, connesso al supporto al

colloquio di lavoro è la metodologia che completa adeguatamente questo percorso con la

persona al centro e che consente di organizzare le attività dei lavoratori disabili

garantendone la presenza sul posto di lavoro e il rispetto dei tempi e delle modalità di

funzionamento dell‟impresa.

Lo stage diventa il periodo di verifica delle aspettative sia aziendali che della persona;

l‟ambito lavorativo reale è il luogo di sperimentazione e di osservazione per prevedere

accorgimenti quali la postazione di lavoro, strumentazioni, ecc. e le modalità di relazione,

comunicazione, competenze, ecc.. Il tutor aziendale, come segnalato dagli stessi imprenditori,

è una figura chiave che accoglie e accompagna ma deve anche essere accolta e richiede e

abbisogna di supporti formativi e consulenziali da qui l‟ elaborazione di un percorso formativo

specifico.

Si è connnessa la modalità Tandem di affiancamento a lavoratori esperti per la promozione

dello sviluppo personale e professionale dei lavoratori disabili attraverso la loro motivazione e

valorizzazione (empowerment), monitorando e valutando la performance lavorativa.

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Nel corso del progetto è stato sperimentata con particolare successo un‟ esperienza di

ricollocazione lavorativa connnessa con un percorso formativo ECDL per una lavoratrice

disabile.

Questa la valutazione di un amministratore locale e della presidente di un‟ associazione di

disabili:

“Avevo qualche aspettativa in più rispetto ai risultati quantitativi di questo percorso ai fini

dell‟inserimento lavorativo, all‟inizio abbiamo provato ad aprire un rapporto più stretto con le

aziende più grandi, perchè secondo noi sono quelle che possono garantire qualche chance in

più, perché sono legate anche ai parametri di legge per quanto riguarda l‟assunzione di persone

disabili. Devo dire che invece in questa direzione non abbiamo avuto grandi opportunità, il

corso è rimasto come una occasione credo molto utile per chi l‟ha fatto, utile anche dal punto

di vista personale, perché ha sperimentato delle capacità personali e la soddisfazione di

riuscire a raggiungere degli obiettivi formativi. Credo che sia molto importante specialmente

per la fascia dei diversamente abili, e per quanto riguarda il percorso positivo anche per

qualcun altro, poiché, da quanto mi diceva la bravissima tutor, Stefania, qualcuno attraverso

questo percorso è riuscito a fare esperienza di lavoro. Forse le mie aspettative erano troppo

alte all‟inizio, avevo collocato attraverso questo percorso delle possibilità, delle opportunità

per chi partecipava al corso di formazione di inserimenti almeno per esperienze temporanee

dentro le nostre aziende. Mi rendo conto che sono percorsi particolarmente difficili, mi resta

la soddisfazione per quelli/e di loro che hanno potuto cogliere fino in fondo i frutti di questa

opportunità. Qui c‟è Claudia, credo che il suo sia stato un percorso molto, molto positivo,

perché grazie a questa esperienza ha potuto modificare anche il suo ruolo sul posto di lavoro.

Prima di questa esperienza aveva un ruolo che non la soddisfaceva e ora ne ha un altro che

risponde ai suoi desideri e alle sue capacità. E‟ importante per lei e per il piccolo imprenditore

che ci ha creduto. Per quel che riguarda le aziende c‟è una certa difficoltà ad aprire le porte,

se parli con loro dicono che sono già presenti in azienda delle persone così e quindi è stata già

soddisfatta la quota che la legge richiede, questa esperienza positiva potrà aiutare.

Claudia è al posto giusto e questa è una cosa buona per lei e per l‟ imprenditore. La diversità

non è un peso se la si valorizza, lo ha capito meglio un‟ impresa piccola, perché sa meglio

guardare alle persone.”

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La gestione della differenza di genere contiene in sé quasi tutte le problematicità del

Managing Diversity

“La gestione della differenza di genere contiene in sé quasi tutte le problematicità del

Managing Diversity dalla complessità del riconoscimento, alla valorizzazione e al rispetto di

soggetti diversi. L‟evento maternità, inoltre, rappresenta una sfida organizzativa in quanto

richiede di gestire e dare sviluppo a forme di flessibilità organizzativa, manageriale e

relazionale. A tal fine è necessario possedere un‟adeguata strumentazione individuale e

collettiva oltre che capacità di saper uscire fuori da schemi e preconcetti diffusi nelle

aziende e nella società.” (M. Chiesi, E. Lorini, A. Petetti, C. Storti, 2002)

In Emilia Romagna le donne arrivano a conseguire ottimi risultati nel campo dello studio e agli

stessi corsi di formazione professionale la partecipazione è elevatissima. Ma a così

significativi esiti nel campo dello studio e della formazione non fanno poi seguito analoghi

risultati sul fronte dell‟avanzamento professionale, della carriera, delle retribuzioni.

E questo perché il distacco dal lavoro per ragioni familiari, la scelta del part-time o di altre

forme di flessibilità lavorativa riducono automaticamente e ingiustamente le possibilità di

crescita professionale.

Ad oggi le iniziative imprenditoriali e i percorsi di carriera delle donne e la qualità stessa del

loro lavoro, sono spesso influenzati, oltre che da condizioni materiali e organizzative, da

stereotipi radicati e dalle pratiche che ne conseguono, che ritardano i cambiamenti richiesti

dalle mutate condizioni di vita e di lavoro e dall‟aumentata domanda di flessibilità.

I modelli di flessibilità veicolano due diverse opzioni di società e di relazione fra i sessi: l‟uno

si basa sulla tradizionale divisione del lavoro e dei ruoli ed è rivolto in misura prioritaria alle

donne, l‟ altro parla a uomini e donne e cerca l‟equilibrio delle responsabilità.

Flessibilità e conciliazione potranno avere un senso solo se ci sarà contemporaneamente una

redistribuzione, all‟interno della coppia, del lavoro di cura e del lavoro della famiglia.

Valorizzazione e condivisione delle responsabilità di cura, conciliazione dei tempi come bene

comune, uguali chance di e sul lavoro sono gli ingredienti della cittadinanza di genere, che nelle

realtà aziendali diviene pratica organizzativa consapevole che esiste un “al di fuori del lavoro”

per entrambi i generi.

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Fra le donne e gli uomini il contrasto più forte, rispetto alla conciliazione dei tempi, sta nel

limite e nell‟interpretazione delle responsabilità familiari, accessorie o fondanti le loro

biografie. È questa la radice di quella discontinuità necessitata, sino all‟interruzione o alla

modificazione dell‟attività lavorativa, che vede le donne lasciare, ridurre o cambiare lavoro

con la nascita del primo figlio o nel procrastinare le scelte di maternità.

Resiste la femminilizzazione della cura e la lentezza nel percorso di condivisione delle

responsabilità genitoriali e familiari: le donne emiliano-romagnole sono ancora oggi donne della

doppia presenza , ma si affacciano i primi uomini della doppia presenza e permangono per i due

sessi testarde identificazioni con il ruolo materno tradizionale, agito, e con il ruolo maschile,

spesso senza quel valore che era la paternità ruolizzata, comunque agita.

Se i nuovi padri sono diversamente presenti, la maternità per le donne è comunque un

significante primario dell‟ identità personale e dimensiona la vita: la si sceglie o la si rifiuta,

non la si può mettere fra parentesi. Se pensiamo a donne e uomini nello spazio vitale possiamo

dire che le donne di qui hanno due potenti luoghi di forza identitaria, che faticano a conciliare,

ma che sono così forti da portarle a desiderarli e praticarli entrambi, nonostante la fatica; gli

uomini hanno una forte identità pubblica e una difficile identità paterna, spesso non agita ma

rivendicata nei momenti di conflitto, come diritto.

Queste considerazioni danno il senso della fatica, che troppo spesso non trova sbocco, in

questo momento caratterizzato dalla cifra della riduzione del welfare, quando vi è invece

l‟esigenza che prenda forma ciò che in questa Regione si è cominciato a fare, lavorare perché

cittadinanza sia davvero cittadinanza di genere e conciliazione sia un bene comune, perché non

vi può essere conciliazione fuori da un discorso pubblico, che incorpori soggetti, generi,

organizzazioni e istituzioni, perché questo è necessariamente il rango di misure che possono

rendere meno drammatiche le contraddizioni tra tempi di lavoro e tempi di vita ed è il rango

di un cambiamento nella definizione stessa del maschile e del femminile.

Almeno un terzo delle donne in Emilia-Romagna lavora più di 70 ore alla settimana, mentre la

media si colloca dalle 56 alle 60 ore, circa 14 ore in più dei loro compagni o mariti.

Le difficoltà a conciliare impegni quotidiani e tempi di lavoro sono ogni giorno crescenti, per le

donne ma anche per gli uomini. Le esigenze dei figli, la presenza di anziani da accudire, i tempi

dei trasporti e della mobilità urbana, gli orari dei servizi non sempre compatibili con quelli del

lavoro: tutto questo determina problemi che incidono non solo sulla qualità della vita delle

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persone, ma anche sull‟organizzazione delle imprese. Un posto di lavoro poco compatibile con le

esigenze familiari determina maggiore assenteismo, turn-over del personale più frequente e,

in generale, un clima lavorativo meno sereno e motivato.

Le responsabilità familiari a carico delle donne spesso sono talmente impegnative da costituire

un ostacolo non solo ai loro diritti di cittadine e alla gestione del tempo dedicato a sé stesse,

ma anche alla riuscita delle loro attività lavorative e professionali.

Queste considerazioni rendono esplicita l‟idea che l‟esigenza di conciliazione non si esaurisce

in efficienti machineries o in una sorta di bricolage di buone pratiche. Machineries e buone

pratiche sono indispensabili ma la conciliazione si colloca in un processo di differenziazione

del mercato del lavoro e di richiesta di flessibilità e di ridefinizione delle identità di genere.

Affrontare i temi della conciliazione per le imprese può essere un vantaggio, anche in termini

di minori costi e maggiore produttività.

Riportiamo qui un‟esperienza promossa da Ecipar, con il progetto WEIRD, FSE 0263/03, che

ha avuto come obiettivo la valorizzazione delle diversità di genere nelle organizzazioni, nei

percorsi lavorativi e di impresa e nella gestione delle risorse umane, la diffusione della cultura

della conciliazione, l‟individuazione di aree in cui innestare la sperimentazione di azioni di

miglioramento/innovazione e lo scambio di buone prassi nelle aziende e nei contesti locali, per

promuovere la cittadinanza e la cittadinanza organizzativa di genere.

Sono state coinvolte 30 realtà del territorio regionale fra piccole imprese, aziende pubbliche,

semipubbliche e private, cooperative e consorzi di cooperative, circa 1700 fra imprenditrici,

dirigenti, lavoratori e lavoratrici e un‟intera città e il suo Comune, la città di Forlì, che ha

fatto della conciliazione una delle sue priorità.

E‟ emersa la capacità di piccole imprese eccellenti, di ottime imprenditrici, di trovare utili

strade informali di conciliazione e di benessere organizzativo autentico e attento.

Oltre a metodologie e pratiche, di grande valore, il progetto ha prodotto e validato una serie

di strumenti che possono essere utili per la costruzione di un sistema coerente: il questionario

“Benessere organizzativo, conciliazione e cittadinanza di genere”.

La risposta ai diagnostici utilizzati per la ricerca ha avuto un ritorno che non è sceso in alcun

caso sotto il 45% e in alcuni casi ha raggiunto un numero di risposte superiore al 90%. Questi

risultati sono stati raggiunti grazie alla competenza e al lavoro delle esperte coinvolte nel

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progetto e alla scelta di mettere in campo percorsi fortemente partecipativi, resi agibili

grazie all‟interesse e alla collaborazione delle organizzazioni coinvolte.

Quello che segue è l‟intero percorso prototipale sperimentato e validato con il Comune di

Forlì, partner del progetto, che si è rivelato facilmente trasferibile in organizzazioni e

imprese anche di piccole dimensioni.

In Comune a Forlì: il percorso partecipato di analisi e di miglioramento.

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Obiettivi

Capire il posizionamento dell‟ente/azienda rispetto alla cultura di genere e alla

conciliazione

Individuare i punti di forza e di debolezza per mettere in atto sperimentazioni di azioni

migliorative e innovative

Coinvolgere e responsabilizzare dirigenti e responsabili risorse umane

Strumenti

Focus group preparatori per definire la percezione dello scenario“dall‟interno”, sfondo

necessario per la stesura di un questionario che fosse strumento partecipato

Questionario strutturato rivolto a tutti le/i dipendenti

Il questionario

Caratteristiche socio-anagrafiche

Caratteristiche occupazionali

La formazione

Conciliazione dei tempi

Pari opportunità e valorizzazione delle competenze femminili

Il clima aziendale

Cultura di gestione dell‟Ente/azienda

Sperimentazione

Intervenire per aumentare il grado di benessere organizzativo e di cittadinanza di

genere

Individuare degli indicatori sui quali misurare il posizionamento dei soggetti nel tempo e

quindi l‟efficacia degli interventi messi in atto

Indicatori conciliazione

Situazione familiare e lavorativa

Figli piccoli

Donne sole con figli

Presenza di anziani da accudire di frequente

Full-time

Full-time a turni

Part-time

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Aspettative sulla possibilità di gestione dell‟orario

Maggiore flex entrata-uscita

Riduzione pausa pranzo

Diminuzione richiesta di straordinari

Permessi recuperabili

Orario personalizzato

Part-time

Atteggiamento della direzione nei confronti di richieste relative all‟orario

Rifiuto direzione di concedere permessi

Perplessità della lavoratrice nel richiedere il part-time

L‟importanza delle misure di conciliazione

Telelavoro

Asilo nido aziendale

Servizi per bambini durante le vacanze scolastiche

Formazione al rientro maternità/paternità

Importanza della figura di un responsabile di conciliazione

Esistenza di ostacoli nello sviluppo della carriera

Necessaria per la direzione la disponibilità a straordinari

Anzianità lavorativa

Assenza di passaggi di carriera

Titolo di studio

Cultura dell‟Ente

Sistema aziendale che promuove azioni positive per le pari opportunità

Modalità del sistema premiante

Cultura di genere dell‟ente/azienda

Cultura dell‟ente/azienda sulla conciliazione

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Quale domanda di politiche emerge?

Sono state prese in esame come espressione di una effettiva domanda di conciliazione i casi in

cui viene attribuito un grado di importanza alto o molto alto ad una serie di possibili misure

aziendali, su cui si è chiesto agli intervistati/e di dare una valutazione, quali:

modifiche degli orari di lavoro sia nel senso della flessibilizzazione che della riduzione;

telelavoro;

strumenti offerti alle lavoratrici e ai lavoratori: formazione al rientro dai congedi di

maternità e paternità; presenza della figura del tutor di conciliazione;

servizi per i figli: asilo nido aziendale e servizi durante le vacanze scolastiche.

Un‟analisi trasversale delle risposte relative alle politiche di conciliazione auspicate, nelle tre

diverse tipologie di contesto prese in esame, consente di rilevare alcuni elementi significativi

ricorrenti, anche se non ugualmente diffusi. In sintesi, emerge in tutti e tre i contesti che la

domanda:

si caratterizza in primo luogo, sia per le donne che per gli uomini, come domanda di

intervento sugli orari di lavoro, soprattutto nel senso di una loro flessibilizzazione;

non sempre denota un‟urgenza, perché è espressa anche da chi dichiara di non avere

attualmente problemi nella gestione degli orari;

nasce dall‟esigenza di trovare un equilibrio tra tempi del lavoro professionale con altri

tempi di vita e non soltanto con quelli necessari per assolvere agli impegni familiari, anche

per le donne;

non è soltanto femminile, nemmeno quando è motivata da esigenze familiari.

La domanda di politiche degli orari di lavoro

La domanda di politiche degli orari di lavoro che tengano conto delle esigenze personali

prevale nettamente su quella relativa a strumenti e servizi che possono facilitare la

conciliazione, anche se, quando le difficoltà di conciliazione sono pressanti, si ritiene

importante un mix di interventi, non circoscritti in un unico ambito.

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L‟articolazione della domanda

La domanda di politiche di trasformazione degli attuali orari di lavoro riguarda diversi tipi di

misure. Le richieste si riferiscono in primo luogo ad una flessibilizzazione dei tempi,

attraverso la concessione di un orario personalizzato, permessi recuperabili anche in

settimane successive, elasticità in entrata ed in uscita.

In secondo luogo si auspica una riduzione dell‟estensione dell‟orario, sia nel senso di una

diminuzione del numero di ore lavorate mediante un rapporto part time o la limitazione degli

straordinari, che nel senso di una contrazione dell‟orario quotidiano, a parità di ore lavorate,

con la riduzione della pausa pranzo.

Poco più di un terzo del personale del Comune ritiene che entrambe le tipologie di variazione

degli orari potrebbero produrre un miglioramento delle proprie condizioni di vita.

Confrontando i casi in cui viene ritenuta importante/molto importante almeno una delle misure

di flessibilizzazione su cui si è chiesto di dare una valutazione e quelli in cui viene ritenuta

importante/molto importante almeno una delle misure di riduzione, la differenza tra le due

opzioni appare evidente .

Orari personalizzati e permessi recuperabili sono le scelte di flessibilizzazione più frequenti.

Sono prevalentemente femminili, le richieste di permessi recuperabili, mentre quelle di un

orario personalizzato lo sono soltanto tra chi lavora nei servizi. Una misura, questa ultima, più

valorizzata tra gli uomini nel Comune, probabilmente anche ai fini di liberare del tempo per

altre attività professionali. In parte però appare attribuibile ad una loro maggior assunzione

di responsabilità in famiglia, dato che hanno condizioni familiari che implicano un maggior

carico di cura e dichiarano problemi di conciliazione tra lavoro e famiglia, come si vedrà nel

paragrafo successivo, più spesso di chi lavora in altri contesti.

La domanda di elasticità in ingresso e in uscita, invece, è richiesta tanto dalle donne che dagli

uomini.

Tra le misure di riduzione degli orari prevale nettamente il part time che si conferma come

opzione soprattutto femminile, anche se nel Comune si ha un 21,2% di richieste maschili,

attribuibili forse, come si è visto a proposito dell‟orario personalizzato, all‟esigenza di

svolgere attività esterne. Le perplessità nel richiedere un part time sono comunque molte, in

primo luogo e soprattutto tra gli uomini per la riduzione di retribuzione che esso comporta. Il

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57,8% di chi ritiene il part time una misura importante/molto importante per migliorare la

qualità della vita segnala la propria difficoltà a richiederlo per motivi economici (il 55,7% delle

donne; il 66,6% dei colleghi).

Le probabilità di ottenere una limitazione delle richieste di lavoro straordinario da parte dei

responsabili sembrano essere molto ridotte, visto che nel Comune (55,1%) si ritiene che venga

attribuita una grande importanza alla disponibilità dei dipendenti a svolgere attività oltre

l‟orario di lavoro.

Dimensione e caratteristiche della domanda di politiche degli orari

Prendendo in esame l‟insieme delle misure di variazione di orario e considerando i casi in cui

almeno una di tali misure viene ritenuta importante o molto importante, si riscontra che la

domanda di politiche degli orari arriva quasi ai tre quarti.

A fronte di così diffuse esigenze di una diversa organizzazione del tempo di lavoro, si

riscontra un numero molto più ridotto di effettive condizioni di difficoltà di gestione dei

diversi tempi. Esse sono segnalate dal 41% di chi lavora. Una quota delle richieste di policies

sugli orari, pari a poco più di un terzo degli intervistati/e/e, si caratterizza, dunque, come

domanda di maggior benessere e di un miglioramento della qualità di vita da parte di chi

comunque riesce a trovare un equilibrio accettabile tra i diversi ambiti vitali.

Le differenze riscontrate nella domanda complessiva di politiche sugli orari dipendono quindi

in misura maggiore dal differente peso che hanno le situazioni di effettiva inconciliabilità dei

tempi.

E, all‟interno di queste situazioni di inconciliabilità, va notato che non è la presenza di

difficoltà permanenti o molto frequenti a creare le diversificazioni. Si può dunque avanzare

l‟ipotesi che incida la diversa frequenza con cui si presentano le difficoltà tra chi ha indicato

di doverle affrontare “a volte”, senza però poterla verificare perché la domanda posta nel

questionario non consente di definire un‟ulteriore articolazione all‟interno di questo gruppo di

risposte.

Una traccia delle ragioni sottese a tali asimmetrie la troviamo analizzando i motivi che stanno

alla base dei problemi di orario e, in particolare, quelli legati al rapporto tra responsabilità

professionali e familiari: la percezione di insufficienza di tempo per la famiglia e/o

l‟incompatibilità degli orari in ingresso e in uscita con gli impegni familiari.

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E‟ evidente che risulta più gestibile il disagio causato dal non poter dare spazio alle proprie

esigenze personali, per quanto importanti, di quello causato dalla necessità di rispondere ad

esigenze inderogabili, come quella di andare a prendere un figlio alla scuola materna o di

accudire un familiare non autosufficiente, quando non si può ricorrere all‟aiuto di altri.

Colpisce che, in un‟organizzazione in cui l‟orario contrattuale è più ridotto e che in genere

consente maggiori occasioni di ottenere permessi, la conciliazione degli orari di lavoro con gli

impegni di cura sia così problematica.

La domanda di altre misure favorevoli alla conciliazione

La domanda di altre misure favorevoli alla conciliazione è meno diffusa di quella relativa agli

orari di lavoro: la sua dimensione varia da misura a misura, raggiungendo una percentuale di

circa il 30% dei casi relativamente alla richiesta dell‟introduzione nelle organizzazioni della

figura di responsabile della conciliazione. L‟esigenza di tale misura non nasce tanto

dall‟esperienza concreta di difficoltà di gestione dei tempi, quanto da un atteggiamento

culturale che riconosce l'importanza della questione della conciliazione e che ritiene

necessario che se ne prenda atto negli ambiti lavorativi, istituendo anche una funzione che si

occupi in modo specifico di iniziative volte a favorirla.

La domanda delle altre misure esaminate, sia relative all‟offerta di interventi formativi al

rientro dalla maternità e dalla paternità, che all‟asilo nido aziendale e ai servizi per bambini

durante le vacanze scolastiche, risentono ovviamente delle condizioni concrete degli

intervistati/e. La formazione in ogni contesto è più richiesta dalle donne, che affrontano

tutte i problemi del rientro, in caso di nascita di un figlio. Il nido e gli altri servizi per

bambini, sono anch‟essi richiesti più dalle donne, che se ne occupano maggiormente, se non

quasi esclusivamente, ad eccezione però dei dipendenti comunali, che, come si è visto, hanno

sia nuclei familiari con figli e con figli piccoli, che un atteggiamento culturale propenso alla

condivisione del lavoro di cura, più che negli altri ambiti di lavoro.

Se entrambi i servizi destinati ai bambini facilitano in particolare la conciliazione tra lavoro e

famiglia, riducendo il lavoro di cura, diverso è il ruolo che assume il telelavoro, che influisce

più incisivamente sul fattore tempo, incidendo sia sull‟ambito lavorativo, che su quello

familiare. Infatti risponde non soltanto all‟esigenza di avere più disponibilità di tempo per

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assolvere gli impegni familiari, ma, contestualmente, consente anche di eliminare i tempi del

pendolarismo, le variazioni imprevedibili di orario e le richieste di straordinari, aumentando

quindi la possibilità di avere del tempo per sé. Ed è appunto la molteplicità di effetti a

rendere questa misura la più appetibile tra quelle che non riguardano direttamente gli orari di

lavoro, anche se non può essere attuata per chi svolge attività che richiedono

necessariamente la presenza nella sede operativa, oltre che risultare problematica per alcune

funzioni di coordinamento e dirigenziali.

Se volessimo tentare un‟analisi “di scenario” dai dati emersi potremmo dire che, per una serie

di ragioni – interne ed esterne all‟Ente - il sistema di conciliazione esistente risponde ai

bisogni espressi dalla maggioranza.

Rimangono tre campi aperti, su cui concentrare l‟attenzione per azioni di miglioramento:

L‟insieme dei/delle dipendenti che registra difficoltà, anche in una situazione di questo

tipo, a conciliare e che impone, a partire dalle proprie esigenze, una richiesta di risposte

“ad hoc”. Risposte che non andrebbero viste come concessioni clandestine, negoziate „a

parte‟, di benefit , sottoposte dunque al rischio di accuse di favoritismi e di creazione di

climi conflittuali. Che andrebbero invece viste – limpidamente – come risposte, anche

ricontrattate periodicamente – ad esigenze che nascono da una diversità di situazioni di

vita. Cominciando dunque a far nascere anche all‟interno della amministrazione pubblica un

sistema che non si basa sulla disuguaglianza ma sulla differenza. Spesso

nell‟amministrazione pubblica - proprio per la storia che ha alle spalle di favoritismi non

legati alla professionalità - in nome di un‟uguaglianza dei diritti si rimane in una sorta di

palude, che non si apre al riconoscimento non solo delle esigenze dei/delle dipendenti, ma

anche della loro professionalità. Potremmo chiamarli “misfatti egualitari”? Bisognerebbe

dunque trovare delle strade per movimentare quello che nei focus groups veniva definito

“uno schema rigido di flessibilità”.

Emerge una difficoltà di conciliazione - che in un certo senso avvicina il sistema pubblico a

quello privato – per quelle posizioni di responsabilità/dirigenza che richiedono un tempo

dilatato e una assunzione di compiti non delegabili. Come è ovvio, emerge più nelle donne

che negli uomini, e in questo senso interroga il sistema premiante nel suo complesso,

basato ancora più sulla presenza che sul risultato. E‟ questo un tema da intrecciare

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strettamente al sistema delle carriere, come vedremo nei prossimi capitoli. Detto in modo

provocatorio: un part time può essere dirigente?

Si può ipotizzare dai dati – ma anche questo sarà più visibile nei capitoli che raccontano la

cultura dell‟Ente e comunque è stato oggetto di discussione nei focus groups – che in tema

di conciliazione, l‟Ente abbia assimilato le norme e le contrattazioni ma non la cultura della

conciliazione.

Riprendendo velocemente in esame i risultati “teorici” emersi dalle esperienze fatte di

innovazioni in altri settori del pubblico impiego si potrebbe concludere che un sistema di

conciliazione deve vedere il superamento della cultura della presenza in favore del

riconoscimento della professionalità e dei risultati conseguiti; che un sistema di conciliazione

non è mai immobile, ma sottoposto a continue rinegoziazioni in modo da garantire dinamicità

organizzativa e rispetto di possibili cambiamenti di esigenze; che il diritto alla carriera o

comunque alla valorizzazione del ruolo professionale non deve essere intaccato dalla scelta

della modalità di lavoro.

La formazione: esperienze, valutazioni ed esigenze

Nonostante la diffusa partecipazione a momenti formativi, la domanda di formazione resta

ancora molto alta. Si potrebbe dunque pensare che l‟alta domanda di formazione ancora

esistente sia in realtà una domanda di acquisizione complessiva di competenze, che comprende

competenze specialistiche (tecniche, informatiche), competenze organizzative e competenze

relazionali. Una formazione che parta dal presupposto che l‟identità lavorativa consiste

nell‟insieme dei fattori che definiscono le forme dell‟identificazione con il lavoro, in cui

coesistono la dimensione soggettiva, la cultura di appartenenza, il contesto familiare/sociale e

il contesto organizzativo. Che ponga cioè al centro il soggetto. Mettere al centro il soggetto

significa “prendersi cura” di ciò che il soggetto porta in formazione e dell‟obiettivo che il

percorso formativo deve individuare per quel soggetto, significa dunque non prevaricarlo con

definizioni e imposizioni standard, ma individuare che cosa quel soggetto vuole fare e come

può riuscire a farlo. Significa, in altre parole, adottare una metodologia che presuppone uno

sguardo di genere. Un‟attenzione cioè a come uomini e donne si pongono in relazione al

processo organizzativo. Ma anche solo per porsi questo obiettivo, è necessario che l‟Ente

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abbia una cultura di genere. Assumere una cultura di genere nelle organizzazioni ha bisogno

dell‟attraversamento prioritario di una cultura delle pari opportunità, per la semplice ragione

che il genere femminile è sempre stato occultato da una visione neutra - in realtà maschile -

del lavoro, delle sue logiche e delle sue regole. Solo attraversando la differenza - con tutte le

sue implicazioni - del genere femminile si può vedere anche la differenza maschile. E solo

allora si può arrivare al mainstreaming. E‟ questo attraversamento che sembra mancare nella

cultura dell‟Ente, come vedremo nel prossimo capitolo.

Rispetto alle domande poste sull‟esistenza di diverse possibili policies di promozione delle pari

opportunità e di valorizzazione delle competenze femminili, il primo dato che emerge con

chiarezza dalle risposte è che una gran parte dei/delle dipendenti dichiara di non sapere se

esistono e, tra quelli/e che risultano informati/e, prevale la convinzione che il Comune non ne

metta in campo, tranne che per quanto riguarda un Piano di azioni positive e un codice di

comportamento nei casi di molestie sessuali.

I risultati delle domande sulle singole policies danno l‟idea del grado di disorientamento

rispetto alle politiche dell‟Ente, che peraltro può derivare dal fatto che non vi sia un sistema

consolidato di gender policies e/o un sistema di comunicazione interna finalizzato anche a far

emergere le differenze di genere.

Cittadinanza organizzativa e di genere

I comportamenti vantaggiosi per l‟organizzazione, ma non prescritti formalmente da essa,

sono distinti da quei comportamenti che invece sono richiesti direttamente dal ruolo e dalle

norme organizzative. Bateman e Organ (1983) hanno definito il primo tipo di comportamenti

come „comportamenti di cittadinanza organizzativa.

Abbiamo sondato la cittadinanza di genere attraverso due costrutti: la cultura di conciliazione

e la cultura di genere.

La cultura della conciliazione tra vita di lavoro e vita privata venga ritenuta dalla maggioranza

una misura destinata ad entrambi i sessi, ma accanto a questa convinzione è forte anche

l‟opinione contraria che considera le necessità di conciliazione „un fatto privato‟. Siamo in

presenza dunque di una polarizzazione degli atteggiamenti. Tuttavia questo dato si radicalizza

ulteriormente qualora prendessimo in considerazione una espressione più generale della

cittadinanza di genere.

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La maggioranza delle opinioni espresse considera infatti che l‟organizzazione sia neutrale

rispetto al genere e che non faccia, né debba fare, alcuna distinzione in base al genere.

Sarebbe a dire che l‟organizzazione si limita a riflettere la differenza di genere esistente

nella società e che sia sostanzialmente legata ad una visione economica del rendimento

lavorativo. Ad un immagine neutra dell‟Ente si affianca però una seconda immagine che, in

termini numerici, è di forza leggermente inferiore. La seconda opinione considera invece che

la parità sia un obiettivo ancora da raggiungere e che dunque il genere sia prodotto tanto dalle

condizioni lavorative, quanto dalla società in generale. L‟immagine di una polarizzazione tra un

elevato grado di cittadinanza organizzativa ed uno basso, tra un orientamento più

individualistico ed uno più collettivistico è dunque il quadro che emerge dalla prima lettura dei

dati. Inoltre se la correlazione con le aree di appartenenza organizzativa, l‟età ed il sesso non

sono significative, allora dovremmo concludere che ogni gruppo di lavoro ha al suo interno sia

persone a forte orientamento di cittadinanza, sia a basso orientamento e probabilmente il

dialogo tra le due componenti dovrebbe essere piuttosto acceso, almeno stando alle risposte

al questionario.

Importanza di alcuni requisiti per lo sviluppo di carriera

E‟ stato chiesto ai/alle dipendenti di esprimere una valutazione su alcuni requisiti che possono

incidere sulle opportunità di sviluppo di carriera, indicando per ognuno di essi se lo

ritenessero importante e se, a loro parere, fosse importante per l‟Ente. Come si può vedere

dalla tavola seguente, oltre il 90% del campione giudica rilevanti per sé tre fattori centrali: la

qualità del lavoro svolto, la capacità di risolvere i problemi e le capacità relazionali nei

rapporti con gli stakeholder interni ed esterni. Segno, questo, di una cultura che si discosta

da quella riscontrata diffusamente in passato negli enti pubblici, propria delle organizzazioni

burocratiche, caratterizzata dalla rilevanza dell‟assolvimento dei compiti e in cui le

metacompetenze relazionali trovavano scarsissima attenzione.

Gli stili di direzione

Uno stile di direzione che tenda a coinvolgere i colleghi e le colleghe nelle scelte sembra

essere una prerogativa femminile più che maschile, ma del fatto che si tratti di un

coinvolgimento non sporadico e che incentiva al lavoro in gruppo ne sono convinte le donne, più

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che gli uomini. Essi, pur riconoscendo che una parte dei dirigenti maschi elabora

autonomamente le proprie decisioni, senza raccogliere pareri e proposte delle persone che

coordina, più di quanto non facciano le donne dirigenti, ritengono però che siano alcuni

dirigenti maschi, più che le dirigenti, a stimolare un ruolo attivo e un lavoro di gruppo nella

programmazione e realizzazione degli interventi.

Le donne danno un‟immagine di stile di gestione partecipativo anche dei superiori dell‟altro

sesso. Per gli uomini, invece, le dirigenti coinvolgono di più, ma occasionalmente e incentivano

meno frequentemente a lavorare su un progetto comune.

Sembra confermarsi dunque una difficoltà maschile ad accettare un capo donna.

Anche all‟interno di una stessa area vengono segnalati stili di management differenti.

Ciò che colpisce è che la cultura organizzativa del comune è dalla maggioranza percepita come

neutra e neutrale e che non vi è una conoscenza adeguata delle sue politiche di pari

opportunità e di conciliazione.

Si può cogliere così una sorta di scarto tra la rappresentazione del Comune all‟esterno, nei

confronti dei e delle cittadine e l‟autorappresentazione come azienda innovatrice. Finora

sembra emergere la percezione che si siano fatto più azioni innovative all‟esterno che

all‟interno della macchina amministrativa. Si potrebbe anche azzardare l‟ipotesi che l‟Ente

(inteso come insieme dei dirigenti) non abbia introiettato le esperienze e le iniziative

conciliative fatte invece verso l‟esterno, non sia stato toccato in profondità da una cultura

innovativa di genere.

Viene percepito uno scarto tra la ricerca di miglioramento organizzativo e il dover fare i

conti con i numeri del personale, progressivamente calante: da vent‟anni a questa parte il

lavoro aumenta ma il personale cala. Non vengono consentite sostituzioni se non per le

maternità e a volte nemmeno per quelle. Il personale non sembra essere distribuito equamente

nell‟ambito dell‟amministrazione: ci sono ambiti in cui si lavora moltissimo e ambiti meno

produttivi. Comunque, questo è un dato comune a tutta la pubblica amministrazione: la

distribuzione del lavoro a macchia di leopardo.

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L‟insieme degli strumenti di conciliazione – part-time, entrate e uscite flessibili, orari ad

hoc, telelavoro, ecc. – è operante, ma sono riscontrabili resistenze da parte dei dirigenti ad

adoperare strumenti innovativi. Convivono due culture diverse nell‟Ente, spesso anche nella

stessa persona: una che è incline alla conciliazione, l‟altra che rifiuta il cambiamento.

Si tratta spesso di una sorta di “pigrizia organizzativa” perché gestire gli orari in senso

conciliativo richiede molto lavoro organizzativo e molta competenza sul funzionamento del

servizio, quindi a volte è più facile sottrarsi al compito invocando una ragione superiore.

Inoltre aprire verso soluzioni di orario anche personalizzate implica il dover affrontare una

mentalità comune a molti dipendenti e ai sindacati – di giustizia redistributiva fondata

sull‟universalismo dei diritti. Emerge una sorta di paura che la disparità di trattamento crei un

clima eccessivamente conflittuale. Comunque la gestione personalizzata degli orari si scontra

anche con le differenze nelle aree: ci sono aree dove il lavoro è più individuale, e aree dove il

lavoro si alimenta dal confronto e dalla relazione, richiede quindi una partecipazione

sincronizzata. Un giudizio sintetico potrebbe definire l‟Ente come chiuso in uno schema rigido

di flessibilità.

Un punto particolarmente critico viene individuato nel sistema premiante e di valutazione.

Viene riscontrata e riconosciuta una critica forte dei dipendenti sui metodi di valutazione

adottati dai dirigenti. Il sistema di autovalutazione sembra non funzionare se non in pochi

settori, dove è stato accompagnato da un colloquio e un confronto tra il dirigente e il

dipendente. Viene anche delineato il problema del rapporto tra valutazione e incentivazione

economica, ancora non risolto.

Si delinea una sorta di convergenza nel ritenere che pur in un sistema organizzativo che

presenta molti vantaggi, ciò che ancora appare incerto è una cultura condivisa, dai dirigenti e

dai dipendenti, sul fatto che l‟obiettivo finale dell‟Ente – il benessere del cliente finale, il

cittadino – passi necessariamente dal benessere dei clienti intermedi, i/le dipendenti. Si

auspica quindi una maggiore apertura nell‟affrontare nuove proposte da parte di chi gestisce

le risorse umane. Attraverso un continuo confronto con gli operatori, attraverso incontri

settoriali nei servizi, coinvolgendo i sindacati, perché c‟è una diversità tra lavori tecnici

(verticalità) e lavori che prevedono la circolarità tra diversi soggetti.

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E‟ condivisa l‟idea della convenienza di istituire una figura di “facilitatore”, un diversity

manager, con il compito di trovare soluzione a problemi complessi e individuare nicchie di

fattibilità.

Da questo percorso risulta confermata l‟esigenza che la conciliazione vada intesa come un

ecosistema, come dice Marina Piazza: occorre lavorare in impresa pensando il mondo e nella

società pensando il lavoro.

La conciliazione è entrata nel discorso pubblico, come dice Silvia Gherardi, “Perché il lavoro di

riproduzione, che era lasciato alle donne ora incontra sempre più donne che lavorano e che

scelgono di lavorare, la mediazione sociale e il welfare non sono ammortizzatori sufficienti e

l‟aspettativa sociale di soluzione raggiunge il soggetto maschile e mette in crisi le relazioni

tradizionali fra i generi”

Donne e uomini sono cambiati e fra questi cambiamenti vi è la stretta connessione fra i tanti

lavori e genere femminile, che rende le donne più acrobate che mai, collocate come sono nel

crocicchio fra flessibilità sul lavoro e dei lavori e conciliabilità fra vita e lavoro. Le donne sono

più atipiche e aumenta la loro presenza come imprenditrici, professioniste, lavoratrici

autonome.

Le responsabilità familiari a carico delle donne spesso sono talmente impegnative da

costituire un ostacolo non solo ai loro diritti di cittadine (vita sindacale, politica o associativa)

e alla gestione del tempo dedicato a se stesse, ma anche alla riuscita delle loro attività

lavorative e alla loro crescita professionale (lavoro autonomo, avvio di un‟iniziativa

imprenditoriale, lavoro a tempo pieno, avanzamenti di carriera) .

Non può quindi esserci conciliazione efficace e pari opportunità in impresa, fuori da una

strategia di diversity mangement, che incorpori i soggetti e i generi, insieme alle

organizzazioni e alle istituzioni, perché questo è il rango di misure che possono rendere meno

drammatiche le contraddizioni tra tempi di lavoro e tempi di vita ed è il rango di un

cambiamento nella definizione stessa del maschile e del femminile.

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Considerazioni finali

Un‟ organizzazione è e va pensata sempre come una costruzione sociale di processi, strutture,

modi, procedure, relazioni, saperi e poteri che si riorganizzano in altrettanti processi spesso

le diversità presenti nelle organizzazioni vengono percepite come elemet di indeterminazione

e producono incertezza e timore e innescano processi di chiusura, di memoria stereotipica, di

rifiuto.

Questa incertezza si insinua nei pensieri di ognuno all‟ inizio dei processi di cambiamento.

Un approccio consapevole e strategico può contribuire a mettere in evidenza le opportunità

che dalla presenza di diversità possono venire per chi lavora, per le imprese e i loro clienti,

per le organizzazioni e le comunità locali.

Rendere evidenti e desiderabili i benefici che possono venirne implica cambiamenti profondi

negli atteggiamenti, modi di pensare, strutture e cultura tanto quanto nelle regole, nelle

procedure e nelle relazioni di potere.

E‟ necessaria una integrazione strutturale fra pari opportunità e diversity, che non si limiti al

management ma diventi cultura diffusa e contestualmente non sia solo spazio di elaborazione

culturale ma si traduca in strategie e pratiche di management e di accompagnamento.

Ricorrono nelle esperienze che abbiamo raccontato pratiche che interpretano il managing

diversity, raggiungendo importanti risultati: tutte si inseriscono in una strategia, ma, tranne

che in un caso, quello del Comune di Forlì, la strategia non riguarda la totalità dell‟ azione o

dell‟ impresa ma una sua parte.

Interpreti di questi percorsi sono responsabili delle risorse umane, imprenditori, tutor e

mentor: figure più collocate in ambiti dove è più facile chiarire e verificare l‟ obiettivo.

Sono esperienze che connettono l‟ organizzazione, all‟ apprendimento e alla narrazione e per

questa via contribuiscono a cambiare la cultura organizzativa e, forse, anche quella del

contesto che li ospita.

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E. Morin ci dice “ Tutto il nostro insegnamento tende al programma, mentre la vita ci chiede

strtegia e, se possibile,anche serendipità e arte…….Una strategia porta con sé la

consapevolezza dell‟ incertezza che dovrà affrontare e comporta per ciò una scommessa.

Essa deve essere pienamente cosciente della scommessa, in modo da non cadere in una falsa

certezza….che conduce alla rovina.” ( La testa ben fatta, Cortina, 2000)

Visione, strategia, prudenza e speranza in un domani migliore per tutte e tutti e molte buone,

pazienti, lungmiranti, azioni quotidiane e sempre ” Putting people first: people make the

difference at work, but everyone is different.”