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Associazione pazienti oncologici dell’apparato muscolo scheletrico I pazienti del reparto di ortopedia oncologica dell'Istituto Nazionale tumori Regina Elena si raccontano Vi regaliamo la nostra storia La nostra storia

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Associazione pazienti oncologici dell’apparato muscolo scheletrico

I pazienti del reparto di ortopedia oncologica dell'Istituto Nazionale tumori Regina Elena si raccontano

Associazione pazienti oncologici dell’apparato muscolo scheletrico

Vi regaliamola nostra storia

La nostra storia

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A tutti i pazienti“Quando nel dolore si hannocompagni che lo condividono, l’animopuò superare tante sofferenze”.

dall’Amleto di William Shakespeare

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fantastici compiuti nel campo dell’ortopedia e sicuramente mi ha aiutato;ma poi pensavo: “Si, però questo, alle cinque, toglie il camice e va a casasulle sue gambe!”.E’ per questa ragione che poi, quando ho incontrato il primo amputato

bilaterale di coscia come me, che in piedi, sulle sue protesi, mi raccontavadi avercela fatta, che era stata dura ma che un modo l’aveva trovato….Bèh, il suo linguaggio era certamente meno raffinato e carico di terminitecnici precisi come quello del Professore, ma caspita, quanto più credibilile sue parole suonavano alle mie orecchie!Ecco cosa troverete in questo libro, non storie scritte da primari (con

tutto il rispetto eh…), ma di persone che ce l’hanno fatta. Persone cui ildestino ha tolto qualcosa, a cui, a chi più a chi meno ha rubato del tempo.Ma queste stesse persone sono riuscite a rialzarsi e questo è un fatto, nonuna finta storia raccontata per consolare. Loro sono l’indubitabile testimonianza che un modo esiste e che per

trovarlo, in fondo, non esistono segreti particolari, bisogna solo volerlodavvero.Anche se molti di loro, come è normale che sia, all’inizio avevano mille

dubbi, mille angosce, ci sono riusciti semplicemente perché era possibile,solo perché a un certo punto della loro storia hanno deciso che valeva lapena tentare e vedere se, man mano che l’orologio avanzava, potevaesserci ancora il modo per costruire dei bei ricordi godendosi la gioia dimigliorare, di fare progressi lasciandosi sempre più alle spalle la loroapparente sfortuna.In tanti mi fanno spesso complimenti esagerati. Uno di questi, m’è

arrivato da un amico e, francamente, me lo prendo tutto. Mi ha detto: “Tu Alex in realtà non sei solo un ottimista, tu incarni alla

perfezione la migliore mentalità giapponese: quella secondo cui nonimporta quanto in alto tu possa essere giunto, non importa quanto in bassotu possa essere precipitato, provi piacere semplicemente nell’affrontareogni giorno come una nuova occasione per aggiungere qualcosa e giornodopo giorno questo stesso meccanismo diventa una droga della quale nonpuoi più fare a meno!”Sono felice di essere diventato un “drogato di vita”. Non so se da solo

ci sarei riuscito, certamente, gli esempi di altre persone fantastiche mihanno accorciato la strada!Sapersi guardare attorno nei momenti di difficoltà per prendere forza

dagli altri è una cosa più difficile che scontata, ma vedere che altrepersone, superando guai simili ai nostri, hanno incassato gioia e orgoglioin misura superiore a quella ottenuta in tante altre cose più“programmate” fatte nella loro vita, è la ragione per cui dobbiamocomprendere che vale la pena tentare.Queste sono le storie che troverete in questo libro, anche se è solo il

primo passo, è dalla giusta ispirazione che si origina il percorso verso lavittoria più grande.Buona lettura

Alessandro Zanardi

Alex Zanardi,campione di automobilismo

Non sono gli stessi per ognuno di noi, ma ognuno di noi provasoddisfazione nel superarli, sono certo di questo. Una vita senza

ostacoli è una vita piatta. Il più delle volte ci scegliamo le nostre sfide, nello sport, nel lavoro, nel

dare agli altri ciò che si aspettano da noi.In altre occasioni la vita ci impone prove all’inizio meno piacevoli, come

ad esempio un esame scolastico. Chi non ricorda la tortura dello studio perpreparare un’interrogazione scolastica, ma poi, anche la gioia e l’orgoglionel raccontare a casa del bel voto guadagnato.Alti e bassi, “buche e scossoni”, ma tutto questo è normale, rientra nel

percorso che ognuno di noi compie nella propria vita.Possiamo avere giornate buone o cattive, momenti in cui per qualche

ragione non ci fa paura nulla ed altri invece dove avanziamo con timore.Solo che anche se non si possono vincere sfide memorabili in ogni giornatache viviamo, bèh la giornata passa comunque, il sole si alza e scendeindipendentemente da quello che noi saremo riusciti a costruire quelgiorno ed è un peccato che non si possa fermare l’orologio per riavviarlosolo nei momenti di forma migliore.Per questa ragione alcuni di noi sono doppiamente sfortunati; da un

lato si vedono recapitare dal destino prove così dure da superare che èimpossibile prevedere, dall’altro, la giusta riflessione su quello che è loroaccaduto e che ai più è invece risparmiato, rischia di trasformarsi in unmisto di rabbia e disperazione che impedisce di andare mentalmente oltrequel momento.L’orologio va avanti ma non lo si segue più. Il pensiero “cosa farò di

eccitante domani?”, lascia spazio solo a riflessioni tristi su quanto bella erala nostra vita prima che saltasse su un “binario diverso” ed ogni sguardoal nostro futuro è unicamente carico di angoscia e privo di speranza. In questi frangenti il male vince e lo fa in modo totale. Come possiamo reagire? Dove troviamo le risorse per rimettere a posto

le cose? E soprattutto, esiste un modo per trasformare questa apparentesfortuna in un’opportunità?Ognuno ha modi diversi, io, essendo un ottimista, ho fatto molto prima

a trovare la risposta, ma tutti possono riconoscere una fonte d’ispirazionemeravigliosa negli altri.Ricordo quando il primario dell’ospedale tedesco nel quale ero

ricoverato tentava di rassicurarmi raccontandomi dei progressi tecnologici

Comunque la si voglia vedere,la vita è un percorso a ostacoli

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...l’ho letto tutto d’un fiato. Sono testimonianze ap-passionate che mostrano una realtà con situazioni cheben conosciamo e di cui dovremmo sempre fare me-moria. Il libro nasce con l’intento di essere di aiuto aquanti si troveranno ad affrontare il percorso già vis-suto dai protagonisti dei racconti, ma penso che possaavere altri importanti scopi. Dopo la prima “veloce”lettura ho voluto infatti approfondirne il contenuto per cogliere altriaspetti che potevo non aver completamente percepito inizialmente. Tutti sappiamo come sia importante il rapporto tra il malato e il

personale sanitario, tutti inclusi, ma sono rimasto particolarmentecolpito da alcuni particolari. Dobbiamo riflettere su quanto una no-stra singola parola, un sorriso, un atteggiamento, incidano nel rap-porto con il paziente, sul modo con cui affronterà le terapie, sucome affronterà il periodo post cura. E’ quel rapporto umano cheinevitabilmente si instaura tra ammalato e sanitari, e che resteràcome ricordo indelebile.Ecco che allora questo libro sarà anche importante per noi tutti,

per ricordarci come il compito che ci attende tutti i giorni, gravosoma anche foriero di soddisfazioni, come dimostrano queste testi-monianze, incide non solo sul fisico delle persone che curiamo,ma anche sui loro aspetti psicologici. Non va inoltre dimenticato,come ben riportato nel libro, il ruolo delle famiglie dei pazienti nelpercorso terapeutico e sull’attenzione che noi tutti dobbiamo anchea loro. Un risultato positivo non soddisfa solamente una singolapersona (il paziente), ma tutte le persone che hanno parte integrantenella sua vita.E’ per questo motivo che ritengo che questo libro vada anche

dedicato a tutti coloro che con abnegazione si prodigano nella te-rapia di queste malattie non più “incurabili”, e l’Italian SarcomaGroup, che rappresento, è ben lieto di favorire e divulgare questainiziativa.

Piero PicciItalian Sarcoma Group, Presidente

Quando Monica mi ha inviato il libro in visione...

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mento, nell’immenso studio del pri-mario il prof. Campanacci, grandeluminare nel campo dell’oncologiaortopedica, il quale infastidito dalnostro comportamento, ci invitò aduscire e noi, lasciando la tac sul ta-volo indietreggiammo fuori dallostudio, chiedendo educatamente didargli almeno un’occhiata. Ci se-demmo fuori in attesa e dopo un po’uscì il professore che, mettendomiuna mano sulla spalla, con unaespressione tenera e due luminosiocchi azzurri, mi disse “Stia tran-quilla, entri nel mio studio che il miocollega vi spiegherà cosa dovetefare.” e andò via. Il suo collega era ildott. Piero Picci, oncologo e suobraccio destro, che mi accolse conun sorriso dolcissimo, con tono divoce rassicurante mi spiegò qualierano le altre indagini diagnosticheda fare. Il suo volto, il suo modo diparlare, mi fecero avere subito unagrande fiducia in lui che rasserenò ilmio cuore, non solo in quel mo-mento ma per tutto il mio lungo per-corso, anche quando entrò nella miastanza per dirmi il risultato dellabiopsia, e che dovevo fare la chemioa Ravenna.Le prime persone che incrociai

nei corridoi il giorno del ricovero,furono dei bambini in sedia a rotelle,i quali avevano delle malformazionifisiche che non avevo mai visto invita mia. Ricordo benissimo quale fuil pensiero che invase la mia mente:“In qualsiasi modo andrà a finire lamia storia, sono stata fortunata! Finoa 28 anni ho avuto una vita nor-

agli Istituti Ortopedici Rizzoli di Bo-logna (l’ospedale dal quale provieneil Prof. Biagini), dove attraverso unabiopsia, mi diagnosticarono un“osteosarcoma condroblastico di 4°grado al sacro-iliaco” che avevapreso completamente l’emibacinodestro: un tumore maligno del mas-simo grado di aggressività. Dopodue cicli di chemioterapia all’Ospe-dale Civile di Ravenna, sono tornataa Bologna per l’intervento, che durò14 ore e al quale seguirono 5 giornidi terapia intensiva, un mese emezzo di ricovero e poi altri 6 ciclidi chemio a Ravenna. Tutto il per-corso durò un anno circa.Credo che il messaggio impor-

tante sia raccontarti “come” abbiavissuto tutto questo.All’inizio non mi rendevo conto

di che cosa stesse accadendo, erostata catapultata dai preparativi peril matrimonio in un’altra realtà, dicui non conoscevo neanche l’esi-stenza. Mio fratello e mia sorella ge-stirono il tutto, cercando di nonfarmi capire la gravità di ciò che mistava accadendo, ma la partenzafrettolosa per Bologna mi resechiara la situazione e così feci unapromessa a mio fratello: gli dissi chenon mi sarei mai arresa, avrei com-battuto con le unghie e con i denti,anche se avessi dovuto vivere ilresto dei miei giorni su una sedia arotelle!La prima volta che misi piede agli

Istituti Ortopedici Rizzoli di Bolo-gna, nella mia mente c’era unagrande confusione e tanta paura, ioe mio fratello piombammo la mat-tina presto, senza alcun appunta-

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gno dello stesso anno, un mutuo peruna piccola casa e un bellissimo la-voro, conquistato dopo una lungagavetta come grafica pubblicitaria inun'agenzia di pubblicità. Ma nontutto andò come previsto. A lugliodel’91 avevo iniziato ad avere unlieve dolore alla gamba destra, cheandò aumentando gradualmente neimesi, nessuno degli ortopedici chelavoravano nei migliori ospedali diRoma (la città dove vivo) capì qua-l’era la causa, fino a quando amarzo del 1992 un medico del-l’ospedale S. Giovanni mi fece fareuna tac, dalla quale si capì la gravitàdella malattia. Ci consigliò di andare

Questa storia è dedicata a te chestai leggendo, con grande umiltà,mi auguro ti aiuti a riscoprire quelloche in cuor tuo sai già, ossia che bi-sogna trovare la forza per amareprofondamente la Vita, sempre e co-munque, soprattutto nei momenti digrande difficoltà fisica e psicolo-gica, perché ti assicuro che ne valesempre la pena!Nel marzo del 1992 avevo 28

anni, un fidanzato da sposare a giu-

Gioia nel cuoresorriso sulle labbra

di Monica Morelli

Qualsiasi cosa fosse accadutanon mi sarei mai arresa.

Anche se avessi dovuto vivereil resto dei miei giorni su

una sedia a rotelle

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gna e imparai a camminare con laprotesi, inizialmente aiutandomicon le stampelle. La prima volta cheandai in palestra stetti ferma fra leparallele con l’arto artificiale ad-dosso, ma sembrava più un ingom-bro che qualcosa di utile! Non fufacile capire come funzionava: lasensazione era stranissima, mi ri-cordo che ad un certo punto alzai gliocchi e guardando tutte le personeche, come me, stavano “imparandonuovamente a camminare” pensai:“Ma che ci faccio qui? Come ci sonofinita in questo posto?” Come se soloallora, all’improvviso, avessi presocoscienza di quello che mi era suc-cesso nell’ultimo anno! Fu un mo-mento di disorientamento chesuperai grazie ai ragazzi che, in-sieme a me, stavano percorrendoquella strada per la prima volta, chia causa di un incidente e chi a causadi una malattia. Ci facemmo forza avicenda condividendo ansie, paure,difficoltà mentali e fisiche. Devo alresponsabile della palestra, ClaudioPanizzi, il fatto di aver avuto il co-raggio di camminare per la stradasenza usare le stampelle, perchéogni volta che mi incontrava nei cor-ridoi con le stampelle, mi sgridava inuna maniera indescrivibile!Tornata a Roma, cambiai i co-

mandi della macchina per guidarecon la gamba sinistra e ricominciai ipreparativi per il matrimonio, nelfrattempo lasciai il lavoroe andai in pensione.Cominciarono a cre-

scere i capelli e per il 5giugno del 93’, data delmio matrimonio, riu-

pensiero positivo e chiesi: “Se andràtutto bene, potrò lo stesso averefigli?” - e loro mi dissero:“Certo!”Fui operata l’8 giugno del 1992,

due giorni prima, il 6 giugno, misarei dovuta sposare.Il giorno precedente all'inter-

vento volli fare l’ultima corsa dellamia vita, in un corridoio lungo cheportava al bar dell’ospedale, sotto glisguardi atterriti dei miei familiari cheavevano paura di una frattura. Peròche bella sensazione! La notte primadell’intervento permisero al mio fi-danzato di dormire accanto a mesulla sdraio, mi parlò di tutti i pro-getti che dovevamo realizzare in-sieme, mi disse che dovevoconcentrarmi solo su quelli e cosìfeci. Dopo aver affidato tutte le miepene a Dio, dormii tutta la notte, ri-fiutando il valium che l’infermieremi era venuto a portare.Tanti di noi credono in Dio, ma

pochi si affidano a Lui completa-mente, invece così facendo, la paceche si riesce ad avere interiormente,ti assicuro mio lettore, è immensa,infatti la mia preghiera di quellanotte fu: “Sia fatta la Tua volontà”.Tu che stai leggendo queste pa-

gine, potresti essere ateo, perciò tivoglio dire che ho un grande rispettoper chi lo è, perché sono convintache è il cuore delle persone chemanda avanti il mondo: l’amore e ilrispetto del prossimo sono i valoripiù grandi! La mia migliore amica èatea ed è una gran donna!Finalmente a novembre finì la

chemioterapia, mi ricoverai per unmese al Centro Protesi dell’INAIL diVigorso di Budrio, a 15 km da Bolo-

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passeggiata!” Non mi sembrò verodi uscire da quella stanza, anche secon il letto, andava bene lo stesso!Mentre ero ricoverata a Bologna,

i miei familiari fermavano spesso ilprof. Biagini, allora giovanissimo,per avere delle delucidazioni ri-guardo alla mia complicata situa-zione, e lui con estrema pazienzachiariva loro ogni dubbio. Comeanche la dott.ssa Tienghi all’ospe-dale di Ravenna e i suoi colleghi,sempre disponibili e dediti a infor-mare i miei parenti e me! In queimomenti è fondamentale avere la di-sponibilità e cortesia di coloro nellemani dei quali metti la tua vita!Qualche giorno prima dell’inter-vento venne nella mia stanza il dott.Gherlinzoni che accennò con moltotatto alla pericolosità di quello cheandavo ad affrontare, senza entrarenello specifico. Più tardi i dottori delreparto chiamarono me e la mia fa-miglia nel loro studio e ci spiega-rono i rischi ai quali andavoincontro; potevo rimanere con il ca-tetere a vita, potevo rimanere para-lizzata e nella peggiore delle ipotesi,potevo morire. Dovevano togliermila metà del bacino che era stata to-talmente presa dal tumore, com-presa la parte finale della colonnavertebrale, di conseguenza dove-vano amputare la gamba. C’era unameravigliosa assistente sociale, AnnaAntenucci, che mi fece vedere lefoto di persone che portavano laprotesi e avevano una buona qualitàdi vita. Dopo qualche istante, in cuila mia mente era invasa da pensierinegativi e nello stomaco c’era ilvuoto totale, cercai a tutti i costi un

male: ho corso, ho ballato, ho fattosport, sono andata a scuola, ho la-vorato, mi sono divertita con gliamici! Loro invece non potrannomai fare tutto questo!”Ad ogni ricovero partivano tutti

con me: mia madre, mio padre, miofratello, mia sorella e il mio fidan-zato, durante i ricoveri facevano laspola da Roma i miei cognati, i mieizii e tantissimi amici. Tutti loro sonostati la mia grande forza, insieme al-l’immenso amore di Dio, che nonmi ha mai abbandonata!Durante la chemioterapia cad-

dero tutti i capelli, il ciclo mestrualesparì e persi un po’ di chili, peròstavo bene con le mie compagne distanza e con gli infermieri, cheerano simpaticissimi.Lo so che sembrerà strano a te

che stai leggendo, ma ti assicuro cheè così, ho un bel ricordo di quel pe-riodo anche nei piccoli episodi di"vita quotidiana"! Una volta, adesempio, nella stanza entrò una zan-zara grandissima e la mia vicina diletto le corse incontro, tenendole vi-cino una ciabatta, ma senza ucci-derla. Allora le dissi: “Cosa aspetti aschiacciarla?” - e lei - “Dovrebbemorire solo con la puzza, perchè laciabatta è la tua!” E come avrei fattoa non ridere? Un’altra volta, costrettaa letto per settimane dopo l’inter-vento, dissi alla caposala che mi erostancata di vedere le pareti dellastanza. E lei mi rispose: “Hai tantepersone con te, fatti portare con illetto in giro per il corridoio!” Lapresi in parola e nonostante l’incre-dulità dei miei familiari dichiarai:“Portatemi subito a fare una bella ˛

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Credo che la morte sia degna dirispetto ancora più della vita e fin-ché siamo su questa terra dobbiamolottare sempre, con tutte le nostreforze, per affrontare qualsiasi pro-blema si presenti sul nostro cam-mino. Se così non facessimo,mancheremmo di rispetto verso chinon c’è più e quindi non ha più lapossibilità di lottare! Il mio lungo eimpervio percorso mi ha insegnatoad apprezzare le cose semplici dellavita, che sono le uniche che hannoveramente valore, quelle quotidianeche ognuno di noi dà per scontate,come il semplice alzarsi dal letto. Miricordo che dopo mesi sdraiata aletto, la prima volta che mi alzaidissi “Che bella sensazione! Stare inpiedi è fra le cose più belle che esi-stono al mondo!”. Il mio augurio per te, per la tua

famiglia e per i tuoi amici è di uniretutte le vostre forze e combattere atesta alta questa battaglia difficile,ma NON impossibile da vincere!

Con amore, Monica.

sono sereni e tornano a giocare. Aibambini basta dire la verità e dareuna spiegazione logica, anche sestrana, diventa normale: non hannoi preconcetti di noi adulti. Mi ri-cordo di un bambino che la sera mivide sul lungo mare a fare una pas-seggiata con la protesi e urlò da lon-tano contento “Guarda mamma,quella signora ha detto la verità, si èmessa veramente l'altra gamba!” Lamamma sarebbe voluta sparire dallavergogna, mentre io con un largosorriso, la tranquillizzai, anzi quel-l'incontro mi fece piacere!L’ultima cosa che ti voglio dire,

caro e paziente lettore, è che io vivocon la gioia nel cuore e il sorrisosulle labbra perchè la vita non è fattadi gambe, di braccia o di seni, ma èfatta di amore. Si può donare e rice-vere amore in qualsiasi condizionefisica e sicuramente tanta gente chenon ce l’ha fatta, avrebbe datochissà che per essere al mio posto,senza una gamba e senza due seni,ma viva!

prof. Biagini mi spiegò che avendoavuto tre tumori, con una gravidanzaci sarebbe stato il rischio di potersviluppare un tumore latente, chepotevo avevo da qualche partesenza saperlo. La mia decisione fuirremovibile e serena: non avrei vo-luto in seguito, rammaricarmi di nonaver tentato! Preferivo rischiare cherinunciare! Ci misi un bel po’ a con-vincere mio marito, ma alla fine ciriuscii! Così misi nelle mani di Diola mia vita e quella del mio bam-bino, vissi i mesi della gravidanzacon una celestiale serenità, in qua-lunque modo sarebbe andata, eropronta ad accettarlo e ad affrontarlo.Ad agosto del 2004, alla venerandaetà di 40 anni e mezzo, ebbi il figlioche tanto avevo desiderato! Il mira-colo della vita che si rinnova e da-vanti all’incredulità di tantissimepersone, da questo bruco nacqueuna meravigliosa farfalla! A causadella gravidanza mi venne un tu-more maligno ad una palpebra,come previsto dal prof. Biagini, macon un piccolo intervento chirurgicotutto si risolse, perché non aveva an-cora sparato metastasi.La prima volta che andai al mare

non fu facile, devo a mia sorella ilfatto di aver trovato il coraggio! Quando indosso il due pezzi, in-

fatti, le persone non possono fare ameno di guardarmi, ma io sono se-rena, perché credo fermamente chenella vita, a meno che non si rubi onon si uccida, non bisogna vergo-gnarsi di niente! I più teneri sono ibambini, che si avvicinano e comin-ciano a guardare sotto il mio bustoper cercare la gamba. Sono meravi-gliosi, dopo che spiego loro il per-ché della gamba che non c’è e chene ho una finta, lasciata in albergo,

scii a sposarmi senza parrucca. Unacosa cui tengo a raccontarti, mio at-tento lettore, è che mi sono sposatain un paesino semi-abbandonatodell’ Abruzzo a 200 km da Roma, inuna chiesetta mezza diroccata, chesi è costretti a raggiungere tramiteuna salita ripidissima a piedi, sudelle pietre tutt’altro che agevoli.Mio padre mi reggeva da una parte,dall’altra un mio amico, davantic’era mia sorella, che mi teneva illarghissimo vestito alzato per agevo-lare il passo: è stato acrobatico madivertente! Era fra i nostri sogni spo-sarci lì, non potevamo rinunciare!Inoltre la casa in cui andammo adabitare, era al terzo piano senzaascensore e ci restammo per setteanni, dopo di che ne prendemmouna con l’ascensore.Ma non è finita qui, dopo una de-

cina di anni mi venne un tumoremaligno al seno sinistro e subii unamastectomia, l’anno dopo ne ebbiun altro al seno destro e feci un’altramastectomia. A settembre del 2003feci la ricostruzione plastica di am-bedue i seni, anche questa voltaandò tutto bene! Devo ammettere

che a quasi 40 anniavere due bei seni ta-glia 4a quando primaavevo una 3 a chestava pure iniziandoad essere cadente, nonè stato proprio male!A 40 anni d'età mi

dissi: “Se non appro-fitto tra un tumore el’altro, ad avere unbambino, va a finireche divento vecchia enon lo faccio più!” Il

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La notte primadell’interventopermisero al miofidanzato didormire accanto a me. Parlammo di tutti i progettiche dovevamoancora realizzare. E cosi è stato

Pensai che eraarrivato il

momento di unagravidanza, anche

con il rischio disviluppare un

tumore latente.Ad agosto del2004 è nato il

figlio che avevotanto desiderato.

Emiliano, come ha deciso

mio marito, in onore dellaregione dove

era nato e che a me aveva

salvato la vita

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occuparsi”. Ma nel giugno 2008 ildolore ormai non mi lasciava più efinalmente decisi di fare una lastra.“La sua anca - mi disse subito la ra-diologa - non è affatto messa bene.L’artrosi è da escludere”. Poi, con de-licatezza, mi chiese se avessi maiavuto una diagnosi di cancro. “Sì –risposi - ma è una cosa vecchia!Sono passati ventidue anni daquando mi hanno operata per uncarcinoma mammario e sottoposta achemio e radioterapia. Per dieci anniho fatto scrupolosamente tutti i con-trolli periodici, finché mi hannodetto che ero guarita e che ormai sa-rebbe bastata una mammografia al-l’anno. No, non può essere…”Mentre balbettavo queste parole ras-sicuranti, ormai un campanello tril-

Amo inerpicarmi per i sentieri dimontagna, giungere in vetta e spa-ziare con lo sguardo su panoramisenza frontiere. Amo penetrare congli sci di fondo nel mondo intimo esilenzioso dei boschi innevati. O ar-rampicarmi sugli scogli, per affac-ciarmi sugli strapiombi spumosi dovenidificano gli uccelli marini. Goderedi inebrianti sensazioni di libertà e dimeraviglia era ciò che mi assicura-vano le mie gambe forti e flessibili edi cui ero segretamente orgogliosa.Per questo, per oltre un anno, misono ostinata a non dar peso a un in-sistente dolore all’anca destra.Quando le fitte aumentavano, pren-devo un antidolorifico e andavoavanti. Pensavo: “Ho 56 anni, sarà l’inizio di un’artrosi, non c’è da pre-

Da queste battaglienasce un’altra persona

di Anna Borioni

lava con insistenza nel mio cervellofacendomi accelerare i battiti delcuore. “Senta – mi interruppe la dot-toressa - non voglio allarmarla inutil-mente, ma visti i suoi precedenti, leconsiglio di andare dal suo oncologoe di sottoporsi a ulteriori accerta-menti ”. Esco dal gabinetto radiografico

con il caos in testa. Non mi ricordopiù dove ho parcheggiato l’auto, nontrovo le chiavi, cerco freneticamentegli occhiali che ho sul naso. Miguardo intorno e non so che fare. Miviene in mente che non ho più unoncologo: dopotutto perché dovrei,sono guarita! O no? Ero uscita a tren-tacinque anni dal carcinoma allamammella con il seno sinistro di-mezzato dalla quadrantectomia, unoscavo ascellare completo e, a causadella chemioterapia, in menopausaforzata: evento che mi aveva brusca-mente precluso la possibilità di averefigli e gettato in una forte depres-sione. Ora ero costretta a riviveresensazioni dolorose come in un in-cubo che si ripete. Tac, risonanzamagnetica, scintigrafia ossea, mar-catori tumorali: nella girandola diesami e di pareri di medici perplessinessuno me lo dice apertamente, néio lo confesso a nessuno, neanche ame stessa, ma ormai ne prendo co-scienza. Qualcosa di maligno si eradi nuovo fatto largo nel mio corpo,mi aveva bucato il femore come unagroviera e iniziato a rosicchiare l’ossoiliaco. Ma questa volta, cos’era? Il professor Roberto Biagini, a

capo dell’Ortopedia oncologica del-l’Ospedale Regina Elena di Roma, èun primario come uno non si aspet-terebbe. Bastò una telefonata per es-sere ricevuti la mattina dopo in

reparto. Capelli arruffati, occhi chiaritrasparenti, accolse mia sorella Clau-dia e me dietro due baffoni sornioni.Studiò le lastre attentamente, mi vi-sitò per poi esordire con un netto: - “Ssscignooora al novanta per cento èuna metastasi” - pronunciato conquel suo strascicato accento roma-gnolo che ti strappa un sorriso anchequando ti sta comunicando cose tre-mende. “ Ma dobbiamo essernessscicuri- continuò- perciò deve faresubito una biopsia ossea. La mando aModena perché sono bravi e veloci.Nel frattempo deve indossare un tu-tore e camminare con due stampelle,non deve caricare la gamba perchéil rischio di frattura patologica èmolto alto e in questo caso il tumoresi può spargere! ”. Mia sorella e io ri-manemmo senza fiato. Il tutore si ri-velò una sorta di armatura: unagrossa e rigida cintura di plastica in-torno alla vita, con un’asta snodabilee una specie di cilindro che si stringeintorno all’anca. Indossandolo, pro-vavo la sensazione di apparire comeuna donna bionica e dovevo anchedormire imprigionata in quel mar-chingegno.Nei giorni trascorsi in attesa del

risultato della biopsia, ho in bocca ilsapore amaro e pungente dellapaura. Paura della cosa oscura cheho dentro, delle cose ignote a cuivado incontro. Paura di soffrire, pauradi morire. Sono sopraffatta da un sen-timento di pena per me stessa, cupoe struggente, come quando si è co-stretti a dire addio per una partenzasenza speranza di ritorno. A voltel’ansia diventa insopportabile e le la-crime affiorano senza controllo daimiei occhi. Altre volte mi aggrappoa quel dieci per cento di incer- ˛

Amo godere di inebriantisensazioni di libertà

e di meraviglia era ciò che miassicuravano le mie gambe

forti e flessibili e di cui ero

segretamenteorgogliosa

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energia e capacità di sperare. Sentivocon ogni cellula del mio corpo chevolevo vivere. E che volevo vivereanche zoppicando. Non si trattò diuna forma di rassegnazione. Iniziai apensare all’invalidità non più come auna sottrazione della capacità di go-dere della vita, ma come alla mia op-portunità per continuare a vivere.Non è stato facile intraprendere que-sto percorso, ma è stato il mio per-corso di rinascita. E’ la notte prima dell’operazione

nel reparto di Biagini .Nel silenzio mialzo dal letto e, sfidando gli ordinidel primario, cammino piano pianoper la stanza senza stampelle, senzatutore, a piedi nudi. Voglio impri-mermi nella mente e nel corpo lamemoria dei miei passi del prima, diquando camminavo sicura e incon-sapevole. Poi, mi infilo di nuovo sottole lenzuola e dico a me stessa: ”Seistata una pazza, ora basta, volta pa-gina, domani inizia la tua nuovavita”. L’operazione andò bene. I chirur-

ghi avevano dovuto tagliare menodel previsto, comunque un pezzo delmio quadricipite della gamba destrase n’era andato insieme all’osso ma-lato. Mi avevano cementato un belbestione di protesi al posto del fe-more, lasciandomi un’artistica cica-trice a forma di esse sul lato esternodella gamba che, partendo dal fiancosegna tutta la coscia. Mi aspettavanotrenta giorni di immobilità, poi la ria-bilitazione e poi… in realtà non sa-pevo cosa mi aspettava una voltauscita dall’immobilità. Me ne sto nel letto dell’ospedale a

rimuginare sui miei problemi, fa-sciata dal tutore, senza potermi

razione al Regina Elena li dedicai acercare un’alternativa al destino dainvalida che mi era stato pronosti-cato. Inviai analisi e lastre del mio fe-more bucherellato ai più importantiospedali e reparti oncologici italianie persino a un istituto di Vienna. Il tu-tore stesso non costituì un ostacoloper spostarmi e farmi visitare a Fi-renze e a Bologna. Poi, però, tornavoda Biagini a riferirgli gli esiti dellemie scoperte “alternative” . Mi re-cavo in ospedale senza preavviso,tanto ero sicura di trovarlo sempre lì.Lo bloccavo lungo il corridoio del re-parto, aggrappata alle due stampellee intrappolata nel tutore. Lui miascoltava con pazienza, a bracciaconserte, poi rispondeva senzascomporsi: la cemento plastica? Nelsuo caso è una casssciata! Innestoosseo? Altra casssciata! E mi spiegavaperché. Ma io non voglio zoppicare,non voglio diventare invalida, riba-divo quasi implorando! Finché ungiorno mi disse in modo gentile, mafermo, con lo sguardo dritto piantatonei miei occhi: “Ssscignooora, forselei non l’ha ancora capito che quitratta di portare a casa la pelle!” .Fu uno shock che mi costrinse a

guardare in faccia la realtà. La malat-tia era progredita e Biagini avevaperfettamente ragione: ora dovevopreoccuparmi di rimanere viva, nondi come vivere, quello sarebbe statoun problema da affrontare dopo. Seci sarebbe stato un dopo. Mi venneroin mente alcune sue parole pronun-ciate nel corso delle prime visite,quel “noi la malattia gliela croniciz-ziamo” a cui lì per lì avevo dato pocopeso . Mi resi conto che quelle pa-role erano un’ancora di salvezza, acui mi aggrappai con tutta la mia

di una pianta che non germoglia più.La prospettiva di perdere la mia tantoamata libertà di movimento mi sem-brava più devastante del cancro.“Una cosa è certa- dissi a Claudiauscendo dall’ospedale - io da quelBiagini non mi farò togliere neancheun’unghia incarnita!”. Mia sorellanon fu dello stesso parere: “Peccato –ribatté - a me è piaciuto. E’ vero, èstato crudo, ma è andato dritto alpunto. Considera che con la fisiote-rapia potrai migliorare, dipenderàanche dal tuo impegno. L’importanteè che l’intervento sia eseguito bene etu lo sai che il professor Biagini èconsiderato uno dei migliori specia-listi nel suo campo. Secondo me, in-vece, è il medico giusto”.Si, infatti, lo sapevo. Su Internet

scoprii che proprio lui, dopo unalunga esperienza all’Istituto Rizzolidi Bologna, era stato il fondatore del-l’ortopedia oncologica a Roma nel2005. Prima di allora, per quanto as-surdo possa sembrare, chi si amma-lava di tumore osseo nella Capitale,se voleva avere una chance di sal-varsi, era costretto a curarsi altrove.Tuttavia i due mesi in attesa dell’ope-

tezza lasciato in sospeso da Biagini eriesco a deglutire senza sentire lagola bloccata. Claudia non mi lasciaun minuto, mi abbraccia e mi dice:“Io so che ce la farai, qualunque cosasuccederà l’affronteremo insieme evinceremo noi!” . Mi intima di ripe-terlo e io, ad alta voce: “So che ce lafarò, vinceremo noi”. Le stringo fortela mano perché voglio crederci. Dopo alcuni giorni l’esito della

biopsia è sul tavolo di Biagini e pur-troppo conferma la sua diagnosi:metastasi ossea da carcinoma mam-mario. Lui mi parla guardandomidritto negli occhi: “Ssscignooora mistia bene a ssscentiiire: noi la malat-tia gliela cronicizziamo, sostituiremoil suo femore con una protesi di tita-nio. Ma lei zoppicherà vistosamentee porterà il bastone tutta la vita! Hacapito ssscignooora? Ora la metto inlista per l’operazione!”. Ho capito,ho capito e piango senza ritegno.Mia sorella mi abbraccia, questavolta piange anche lei insieme a me.Mi sentivo disperata e in rivolta

contro la vita che mi stava aggre-dendo con tanta brutalità. Non po-tevo accettare di diventare zoppa.Avrei passato il resto degli anni aguardare la vita scorrere fuori dalla fi-nestra, mentre avvizzivo avvinghiataal mio bastone, come i tralci secchi

˛Me ne sto nel lettodell’ospedale arimuginare sui miei problemi,fasciata dal tutore, quando nella mia stanzaentra Raggio di Sole

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camminare come prima e soprat-tutto, senza essere consapevole diciò che sto facendo. Non posso piùcorrere, saltare, arrampicarmi, sciare.Salire e scendere le scale mi è diffi-cile. Continuo a fare fisioterapia permantenere la tonicità muscolare econ l’appoggio di due bastoncini migodo anche delle belle passeggiateimmersa nella natura. Quando lagamba si affatica e mi fa male, mifermo. Senza nostalgie né rimpiantidel piacere che traevo dalla capacitàdi muovermi come volevo. Lo spo-stamento, la velocità e la possibilitàdi raggiungere mete distanti, magariin fretta, non è l’unico modo per sen-tirsi liberi. La verità è che tutto ciò èsceso nella scala di valori della mianuova vita, che ancora sono impe-gnata a costruire. Può apparirestrano, ma proprio l’invalidità si starivelando l’occasione per scoprirenuovi significati di movimento. Ilritmo del respiro, per esempio, unmovimento leggero dentro di noi chediamo per scontato. Se non ci siferma ad ascoltarlo è impercettibile.Il contatto ravvicinato con il can-

cro mi ha lasciato un senso di di-stacco dalla vita, che non significamancanza di apprezzamento, anzi.Significa che sono consapevole dellasua precarietà per tutti gli esseri vi-venti. E’ per questo che la vita è pre-ziosa. Oggi mi è difficile ancheschiacciare una formica fastidiosa esento il bisogno di imparare ad ascol-tare il ritmo del mio respiro, del re-spiro della vita.Avere la coscienza di essere viva

istante dopo istante: ecco la mianuova meta.

Anna

la natura del tumore, su indicazionedell’oncologo ho iniziato una terapiasistemica con un farmaco mirato ainibire la produzione di estrogeni,verso cui il mio cancro si era rivelatosensibile. Una diagnosi di cancro èuna notizia che mette in discussionela vita, le terapie sono aggressive,spesso invalidanti, quasi insopporta-bili. Quando ti dicono che hai meta-stasi, hai la sensazione che ti stianocomunicando la data della tuamorte. Per affrontare questo male bi-sogna tirar fuori da se stesso ogni bri-ciolo di volontà di sopravvivenza,ogni particella di energia, ogni capa-cità di speranza. E’ una battaglia chenon si può intraprendere da soli,l’impresa è corale e ognuno deve farela propria parte. La competenza deimedici è strategica, senza questa nonsi va lontano. La professionalità el’umanità degli infermieri sono indi-spensabili per creare un ambiente te-rapeutico accogliente e sicuro.L’affetto e il sostegno delle personecare sono fondamentali per piangere,sorridere e rinascere insieme. La te-stimonianza di chi ci è passato è in-sostituibile come elemento diincoraggiamento e conforto. Ma ilvero protagonista, l’eroe, sei tu, ilmalato, anche se non te accorgi su-bito. Anche se le risorse per reagiresgorgano da dentro te stesso senzache tu sapessi di averle. Ma da que-sta battaglia nasce un’altra persona.Oggi, a quasi sette anni dall’ope-

razione, la zoppia non è più il mioproblema perché la vita mi ha offertoaltre opportunità. Nei primi anni hotentato con ostinazione di riprenderea vivere ignorando il fatto che l’inter-vento mi aveva veramente meno-mato e compromesso l’equilibro. Ecosì sono caduta più volte per strada,fratturandomi polsi e ginocchia. Mapoi ho accettato che non posso più

revo la vita sicura della mia falcata. Dopo due settimane in ospedale,

ho passato un mese in clinica di ria-bilitazione. Quando con l’aiuto delfisioterapista mi sono alzata dal lettola prima volta, la gamba mi sembravaletteralmente fatta di gelatina. Nonavevo alcun controllo su di essa, sen-tivo a mala pena il tocco del piedesul pavimento. Ma io ero entusiastalo stesso della novità e inviai un smsa tutti i miei amici in cui vi erascritto“Oggi ho conquistato la Luna!”Da lì in poi ogni progresso fu unaconquista che mi rendeva felice.Grazie alla ginnastica passiva iniziofinalmente a sentire la gamba. Poisulla carrozzina scorrazzo per i cor-ridoi della clinica. In palestra ce lametto tutta nel fare gli esercizi. Con ilgirello compio i primi passi, tremo-lanti e insicuri, ma io mi sento al set-timo cielo. Il passaggio alle duestampelle è una svolta storica versol’autonomia. Quando mi dimettonocammino con una sola stampella.Sulla cartella clinica c’è scritto “Re-cupero eccellente” e io sono dinuovo orgogliosa delle mie gambe. Per la piccola metastasi sull’osso

iliaco ho affrontato dodici cicli di ra-dioterapia mentre, appena accertata

girare, completamente dipendentedagli altri, quando nella mia stanzaentra Raggio di Sole. Si presentacome volontaria per l’assistenza aipazienti del reparto. Con fare moltocordiale, mi chiede se voglio un gior-nale e poi iniziamo a imbastire unachiacchierata. Io, in realtà, sono for-temente incuriosita proprio da lei.Alta e snella, lunghi capelli neri, unbel volto dall’espressione aperta esimpatica: Monica, questo il suonome, zoppica vistosamente. E sor-ride, con l’espressione serena delvolto, con la bocca carnosa, con loscintillio degli occhi scuri. Sorridecon un sorriso sincero. Alla sua se-conda visita non resisto e, senza giridi parole, le chiedo il motivo dellasua evidente zoppia. Lei, con altret-tanta sincerità, mi racconta la suastoria. Così scopro che a causa di unsarcoma, a 28 anni le avevano am-putato una gamba e che nonostanteil cancro si fosse poi ripresentato piùvolte, si era sposata e aveva avuto unfiglio. Più la conosco, più mi rendoconto che la sua è una vita ricca diaffetti, soddisfazioni, solidarietà, spe-ranze. Ricca di movimento lungopercorsi che anche io avrei potutoscoprire. Sono emozionata. ConMonica era penetrato in quella ano-nima stanza di ospedale un raggio disole che illuminava il mondo sottoun’angolatura diversa, mettendo inluce sfumature che nonpotevo vedere quandoero una persona cosid-detta normale e percor-

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Lo spostamento, lavelocità e la possibilità

di raggiungere metedistanti, magari in

fretta, non è l’unicomodo per sentirsi liberi

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mi innervosì molto, perchè capì:che il percorso era molto lungo,quindi mi toccherà anche la sedia arotelle. Incominciai a piangere e agridare: "quando finirà questo cal-vario?? quando mi lascerete libera?'quando ritornerò a casa???" credoche mi calmarono con delle gocce,quando aprii gli occhi, mi resi contoche ero ancora li e che dovevo ini-ziare a lottare: era arrivato il mo-mento di reagire.La mia famiglia è stato un ele-

mento fondamentale in questopezzo di vita, ci sono stati sempre,ogni giorno e ogni notte, e insiemesiamo partiti per Bologna, l'ultimapossibilità, l'ultima speranza. Mimadre mi ha insegnato molto, ve-devo in lei la voglia di non arren-dersi, di trovare la soluzione,divincere, anche se i medici non pro-misero niente. Lei mi ha fatto viverein ospedale come una principessa,mi portava dalla parrucchiera , ognimattina mi faceva trovare capuc-cino e cornetto e aveva la possibiltàdi cucinare nel cucinino i miei piattipreferiti. L'amore della famiglia,degli amici, in questi momenti sonodegli ottimi rimedi,ti riempionol'anima, anche se è ferita. Nonsono solo le medicine a far delbene, ma è l'amore, perchè lottareinsieme, ci fa sentire piu forti , nonda soli, ci da la carica giusta per af-frontare le piccole battaglie giorna-liere. Noi malati soffriamo psicolgica-

mente e fisicamente, chi ci ama sof-fre un pò meno di noi, ma

Volevo scrivere quello che mi acca-deva tutti i giorni, sperando che ungiorno mi sarei svegliata da quellungo sonno dicendo: "ah che belloera solo un incubo". Ma il tempopassava, il dolore aumentava e letante visite più o meno dolorose mifecero capire sempre di più che nonstavo dormendo, ma vivendo unavita che non pensavo che esistessee mi chiedevo: "perchè a me? Dioperchè a me? sono sempre venutain chiesa la domenica mattina per-che mi fai questo?" La risposta nonarrivò mai ed oggi, dopo 20 anni,mi dò delle risposte in base al miostato d'animo.Per 3 mesi circa fui ricoverata al-

l’ospedale gemelli di Roma, feciamicizia con la signora anziana conla quale condividevo la camera. Emi chiedevo: "ma che ci faccio qui?Le mie amiche stanno li fuori ad in-namorarsi, a progettare le vacanzeestive e a me tocca giocare a bri-scola con questa signora." Incomin-ciavo giorno dopo giorno a sentirmidiversa, a sentirmi malata e mi chie-devo se avrei mai rivisto quelmondo che conoscevo, il miomondo, quello che avevo lasciato li,e speravo che si fermasse perchènon volevo perdermi nulla. Ungiorno venne da me una ragazza afarmi una visita, stava sulla sedia arotelle, il medico mi disse: "avete lostesso male". Che fico pensai, nonsono la sola, quindi siamo due14enni colpite dal tumore alle cel-lule giganti del sacro. La sua visita

Provare a raccontare la mia sto-ria mi rimane sempre difficile. Hoprovato a prendere il meglio e ilpeggio da quel pezzo di vita.Era illontano 1994, avevo 14 anni, e fre-quentavo il primo superiore, mi sen-tivo una piccola donna, scuola eamici nuovi, i primi scambi di ve-stiti con le amiche , la prima siga-retta di nascosto e quel rossetto rosache voleva dire ora sono grande. Vi-vevo in un mondo colorato, ero fe-lice, amavo vivere, sognavo di farela ballerina e di innamorarmi per laprima volta.Poi d'improvviso, laluce intorno a me si spense e iniziòun percorso di vita completamente

diverso da quello che avevo so-gnato.Sentivo che il mio fisico nonstava bene, lo sentivo dentro di me,un magone forte che non mi facevadormire, mi chiudevo in cucina,accendevo la radio e ballavo dasola nel buio. Fino a quando unamattina non mi alzai più, dissi a miamadre: "ho un dolore fortissino albacino, pochi giorni fa sono caduta,forse devo visitarmi". Andammo con la mia famiglia

dal miglior ortopedico del paese,ma non vide nulla, la lastra nondava nessun esito: "prenda un pò diaulin e starà meglio".Passarono igiorni la situazione peggiorò e cosiincominciò un nuovo e inaspettatopercorso di vita. Scrivevo molto inquel periodo , chiusi il mio diariopieno zeppo di foto di big e di de-diche e ne incominciai uno nuovo.

Mi sono ripresa la vitadi Cristina Frateloreto

È iniziata unasalita che a me

sembrava infinita.Ma la rabbia cheavevo dentro è

stata la mia forza

che mi ha fattocapire che la vità

è una cosameravigliosa

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continuare a sognare. E vi capiteràdi incontrare persone che vi amanoper quello che siete, con i vostrisegni sul corpo e nell'anima, chenon vedranno nessun difetto in voi,ma solo un cuore grande e una sto-ria a lieto fine da raccontare, sonopersone speciali, esistono vera-mente non soltanto nelle favole.Questa storia rappresenta la mia

vittoria piu grande, ho sconfittoquel male, grazie a quel medicoche gira nei reparti senza camicebianco, che ci ha creduto piu di me.E che alla fine della battaglia midisse " ora non ti voglio piu vedere",io invece ti vedrò sempre, in ognimio domani, perchè se oggi c'è unragazzo che mi ama, se oggi hodegli amici straordinari e una fami-glia presente lo devo sopratutto alui, perchè mi ha dato una secondapossibilità che non sarà mai comela prima, ma è pur sempre un'altraoccasione per vivere.

Cristina

trasformato, mi fecero e mi fannomolto male, non ho mai accettatodi non poter fare la ballerina, nonho mai accettato quei segni, anchese rappresentano la vittoria. Si dice:ciò che la vita ti toglie la vita te lorestituisce, questa esperienza mi hadato molto a livello umano, mi hareso una persona sensibile e ingrado di apprezzare una giornata disole e godermi il panorama,e di vi-vere giorno per giorno. Ci sono statimomenti brutti, di sconfitta e scon-forto, mi ricordo che ripetevo sem-pre " non passa più, starò persempre dentro l'ospedale" e miamadre mi cantava "passerà " di Ale-andro Baldi. È proprio vero, passeràanche se farai solo la la la, abbiatefiducia nella vita, vivete nella spe-ranza che il male si può sconfig-gere, che potete riprendere a vivereanche senza una gamba,senza unbraccio o con metà osso sacro. Ri-tornerete a vivere una nuova vita,siate consapevoli che nel bene e nelmale la vostra vita è diversa, mavale sempre la pena di esserci e

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soffre insieme a noi. Credo perqualsiasi genitore, marito, figlio,moglie o fratello, vedere il propriocaro disteso su quel letto tra le lelenzuola bianche e con una fleboattaccata al braccio faccia moltopiu male di una medicazione. Ildolor dell'anima è difficile da cu-rare, bisogna attendere solo la finedella battaglia, quando il traguardoviene tagliato e il medico ti dice"puoi ritornare alla tua vita". Il miointervento durò 14 ore. Per 14 ore i miei genitori, sono

stati li fuori, se quella doveva essereuna punizione divina, penso cheabbiamo saldato tutti i loro debiti,perchè oggi da adulta non riesco atrovare le parole per descrivere illoro stato d'animo. Durante l'inter-vento ebbi molte complicazioni enon so se per qualche secondosono passata a miglior vita. Mihanno raccontato che il medicouscì dalla sala operatoria dicendo aimiei che non c'erano piu speranze.Poi, forse un miracolo o forse per lagrande professionalità di quellaequipe di medici, incomiciai a rea-gire a dare buoni segnali. L'opera-zione si concluse nel migliore deimodi. Certo mi sono fatta 15 giornidi terapia intensiva, (tra l'altroanche il mio 15 compleanno). Non sto qui a raccontare tutto

quello che mi ricordo perchè mi an-goscio solo al pensiero, però sto quia dirvi che da li sono uscita, e sonoritornata nel mio reparto, e pensateun pò ,ero felicissima, perchè ve-devo il sole , il cielo, la luce dallafinestra e rivedevo le mie compa-gne di stanza. Mi accorsi che una

mancava all'appello, eh già, lei nonce la fece. Mi mancava molto, mimancavano le nostre chiacchieratenotturne, il suo accento siciliano ele sua mamma che ci riempiva didolci. Quel letto vuoto mi misemolta paura. Credo che in quel mo-mento mi senti una sopravissuta,avevo vinto, sì sì avevo vinto, manon la battaglia, la vera guerra. Ca-volo avevo vinto, io cosi piccolinae magrolina ho resistito a tutto, aldolore fisico, all'anestesia, all’inter-vento, al dolore delle medicazioni,avevo vinto, mi sentivo pronta a ri-tornare nel mio mondo. Iniziai a fare tanta fisioterapia, a

volte non volevo, a volte mi sentivoinvincibile, a volte piangevo, in-somma ero una ragazzina contante emozioni belle e brutte cheavevano voglia di uscir fuori . Riu-scivo a piangere e ridere contem-poraneamente. Sono passati 20anni e quella è l'esperienza più in-credibile della mia vita, sono statamessa subito alla prova. Sono cre-sciuta presto, quando ritornai acasa, dopo circa un anno, non ri-trovai il mio mondo, le mie amicheavevano cambiato comitiva, la lorovita era andata avanti, la vita di tuttiera andata avanti...e la mia??? La mia era diversa, io dovevo

lottare per riprendermi quello cheera mio, dovevo lottare per alzarmidal letto,lottare per andare in bagnoe soprattutto dovevo trovare il co-raggio di guardarmi allo specchio efare amicizia con il mio nuovo fi-sico. Le mie cicatrice, il mio corpo

Mi sono sentitaper la prima voltavincitrice di ungioco al quale nonavevo scelto di partecipare. E vi assicuroquesta vittoria è la mia più grandesoddisfazione

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Ho capito che sesiamo disposti alottare possiamoottenere tutto,vivere con unhandicap è

comunque vivere.Non tutti possono

continuare il loro viaggio...

gnificò che non avrebbe permessoche il cancro potesse avere la me-glio su di me. Dopo circa due settimane venni

chiamata dalla dott.ssa Ferrarese,oncologa che mi fu presentata dalProfessore e che mi accompagnòper tutto l’anno di terapia. Quandola cercavo non la trovavo mai, maquando meno me l’aspettavo la ve-devo nell’atrio; mi chiedeva semprecome stavo e mi diceva: “ Non misono dimenticata di te”. Me la ri-cordo come una donna veramentestraordinaria. Lei mi mise al cor-rente di tutti gli effetti collateralidella chemioterapia, che iniziai il18 maggio 2009. Credo di esserlerimasta impressa perché quandoparlammo per la prima volta, men-tre lei cercava di spiegarmi con tattocos’era la chemio io le dissi: “Nonsi preoccupi so di che si tratta, mianonna l’ha fatta per anni. Ma io vor-rei sapere solo una cosa: io fumo eadesso non posso smettere, come lamettiamo?” lei rimase dapprimasenza parole, poi mi disse che ca-piva e che per il momento bastavaridurre le sigarette giornaliere, mache avrei dovuto smettere in futuro,cosa che ho fatto. Fui sottoposta a 4 chemio pre-

operatorie e il 16 luglio venni ope-rata nel reparto di OrtopediaOncologica. Il Prof. Biagini era inferie, me lo aveva comunicato qual-che giorno prima verso le 7. Me loricordo perché dopo la terapia delle6.30 era difficile che riprendessisonno. Mi ripeté più di una voltache, mentre io sarei stata in salaoperatoria, lui sarebbe stato sull’ae-reo. Forse la mia scena muta gli

mente nella testa dell'omero sini-stro. Subito dopo fui sottoposta auna Tac presso l'ospedale Israeli-tico, dove il primario del reparto diRadiologia mi parlò di un bravis-simo medico che si trovava al-l’Ospedale Rizzoli di Bologna.Chiamai il Rizzoli e la risposta delcentralino fu: “Signora ma il Prof.Biagini si trova a Roma ed è diven-tato il primario del reparto di Orto-pedia oncologica dell'IstitutoRegina Elena. E’ inutile che vengaqui a Bologna quando ha l'oro vi-cino casa sua”. Io rimasi molto sor-presa da quelle parole e corsi aprenotare una visita. Quando in-contrai il Professore mi fece subitosentire a mio agio, ma ciò che piùmi piacque fu che, nonostante fossiaccompagnata dai miei genitori, luisi rivolse direttamente a me, met-tendomi al corrente di tutta la situa-zione. Mi spiegò che avrei dovutofare una biopsia ossea e che il mioproblema poteva essere o un tu-more maligno o una malattia delleossa. Come mi aveva prescritto, fecila biopsia a Modena. I risultati mivennero direttamente comunicatidal Prof. Biagini. Mi disse che ioavevo un “osteosarcoma fibrobla-stico di 3°”, spiegandomi che tipodi tumore fosse, come dovesse es-sere curato e l'intervento al qualemi avrebbe sottoposta. Le sue pa-role furono poche, ma soppesate:sottolineò che non avrei più alzatoil braccio neanche per toccarmi latesta. Risposi che non ero preoccu-pata di questo, ma che volevoavere la certezza che lui avrebbeestirpato il male dal mio corpo. Mibastò il suo “sì”, perché per me si-

Ho 23 anni e mi chiamo Stefa-nia. La mia storia inizia nei primimesi del 2009 quando comincia-rono forti dolori alla spalla. Ho ini-ziato subito a prendere gliantidolorifici, ma i dolori aumenta-vano, rendendomi impossibile dor-mire la notte. Quando ho capitoche non era normale utilizzare untavolino in sostituzione del letto,dove ormai non potevo più sdra-iarmi, convinsi il medico a sotto-pormi a controlli più approfonditi.Da una prima lastra risultaronodelle macchie bianche precisa-

Un anno difficile,ma sono felice

di Stefania Ristucci

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sostenendomi e regalandomi ognigiorno sorrisi pieni d'affetto, cheriempivano il mio cuore di gioia edi speranza; grazie anche ai medicioncologici, i quali rispondevanocontinuamente alle mie innumere-voli domande con estrema pa-zienza senza i quali non sarei vivaoggi. Grazie ai chirurghi del repartodi “Ortopedia Oncologica”, peravermi regalato la cosa più pre-ziosa al mondo, la possibilità di unavita normale e per aver estirpato ilcancro dal mio braccio. E grazieagli infermieri che mi hanno assi-stito giorno e notte e che mi hannoregalato dei momenti di luce in unperiodo così oscuro.Infine, ma non perché meno im-

portante, vorrei ringraziare la Presi-dente di questa associazione,perché grazie a lei ho capito che sesiamo disposti a lottare possiamoottenere tutto e che vivere con unhandicap è comunque vivere e nontutti sono così fortunati da potercontinuare il loro viaggio.Grazie Monica, grazie a tutti.

Stefania

come viene dipinta. Ma questa èun'altra storia.E' stato un anno veramente

lungo e molto difficile, la terapia èstata estenuante, l'operazione miha letteralmente travolto. Capirequello che avrei potuto fare o nonfare con il braccio è stato difficile:sembrava di dover superare ognigiorno un esame con se stessi. Poiho capito che l'unica prova da su-perare era scoprire quanto fossiforte e ho cercato di lottare contutte le mie energie, sforzandomi distare bene anche quando stavomale. Perché ciò che mi preoccu-pava di più, più della sofferenza,più del tumore, più di tutti i cicli dichemio, erano i volti dei miei geni-tori e dei miei famigliari stravoltidalla paura, dal dolore e dall'ango-scia. Quando cercavo di far capireloro che stavo bene e che questastoria sarebbe diventata un ricordo,i loro occhi divenivano più leggerie insieme ad essi si alleggerivaanche il mio cuore. Quindi capiiche, anche se dura, avevo intra-preso la strada giusta. Ma se dicessiche ho fatto tutto da sola sarei unagran bugiarda, perché la mia fami-glia mi è sempre stata vicina e sonostata circondata da molto amore,anche in ospedale, in entrambi i re-parti dove sono stata curata. Il mio grazie va agli operatori del

reparto di “Oncologia Medica A” eagli infermieri, i quali mi hannosempre aiutata, preparandomi e as-sistendomi in ogni ciclo di terapia,

fece credere che ero rimasta scon-volta, oppure voleva solo accertarsiche avevo capito, ma in realtà inquel momento avevo troppo sonnoper reagire a qualsiasi notizia. Lapaura mi assalì dopo poco, ma allafine gli altri dottori riuscirono a ras-sicurami.L’operazione venne eseguita dai

dottori Salducca, Favale e Zoccali,che mi sostituirono la parte di ossomalato con una protesi innovativa,

asportandomi granparte del deltoide (mu-scolo della spalla), per-ché era preso dal male.Ricordo nitidamente ilmio primo incontrocon loro: entrarononella stanza, mentreparlavo con il Profes-sore, lui si alzò per mo-strar loro le mie lastre.Loro annuirono e mi

sorrisero. Mentre uscivamo uno diloro, il dott. Salducca, si girò versodi me, mi accarezzò il viso e midisse: “non temere penseremo noi ate!”. Io, trattenendo a stento le la-crime, non fui in grado di dire ne-anche una parola, mi riuscì solouna mezza smorfia che poteva so-migliare in via molto approssima-tiva ad un sorriso. Di fattomantenne la sua parola. I dottorinon mi lasciarono mai sola, si oc-cuparono di me anche quando nonli vedevo, mi coccolarono facen-domi sentire come a casa; insiemealla capo sala e agli altri infermieri,

con i quali si instaurò un rapportoche tutt’oggi ci lega, mi facevanotanto ridere. Non finirò mai di rin-graziarli, possono sembrare cosebanali, ma in realtà non lo sono più,quando vivi il momento più difficiledella tua vita e ti appare tutto nero.Devo confessare, anche a costo

di sembrare pazza, che mi è dispia-ciuto molto quando sono stata di-messa da quel reparto. Talmentetanto che, mentre ero in macchinasulla strada verso casa, guardandodal finestrino la grande struttura del-l’ospedale e scorgendo le finestredel reparto, non riuscii a trattenereuna lacrima di nostalgia! Fu da quelgiorno che promisi a me stessa cheappena avrei potuto sarei tornata,perché non potevo abbandonare imiei Eroi.Quando credevo che il mio viag-

gio terapeutico fosse giunto quasialla fine, ricevetti i risultati sulla “ne-crosi del tumore”. Si tratta di un’ana-lisi che viene fatta sulla parteasportata dall’operazione chirurgica,con cui si controlla quante cellulemaligne siano morte con la chemiopre-operatoria. Nel mio caso risultòuna soglia inferiore al 90%, quindidovetti essere sottoposta ad altri 12cicli di chemio, con l’aggiunta di unulteriore medicinale. Furono i 9 mesipiù lunghi della mia vita. L’incubofinì l' 8 aprile 2010. Un semplicelibro non basterebbe per descriverela chemio e i suoi effetti psico-fisici,ma posso aggiungere che ognuno lavive in maniera diversa e che, se sivuole, può non essere così tragica

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moglie e due bambini, non è sem-plice da accettare. È a loro che èandato subito il mio primo pen-siero, ai miei figli, Lorenzo e Leo-nardo. Pensavo se fosse capitato ilpeggio, loro non si sarebbero nep-pure ricordati di me. Ma comunquemeglio che sia capitato a me che amia moglie. Loro, i miei figli, nonavrebbero potuto fare a meno dellamamma.All’ospedale San Camillo di

Roma mi visita un ortopedico chedecide di ricoverarmi per asportaretutto il tumore. Mi manda al re-parto, dal primario di ortopedia. Misembra, anzi ne sono sicuro, sichiamasse Pallotta. Mi guarda,legge i referti, mi chiede l’età edice: «Ascolta, hai 39 anni, ioasporto il tutto senza nessun pro-blema, ma vai al Regina Elena, lìcon i vetrini sono i più bravi».Ed ecco che mi ritrovo all’Istituto

Regina Elena. Mi accoglie il dottorPrencipe, poi il prof. Biagini, il pri-mario, colui a cui io metterò inmano la mia vita. In questo periodo non mi sento

bene psicologicamente. Mia mo-glie è la persona cui io mi ag-grappo maggiormente. Lei non haun dubbio, non un pensiero nega-tivo, sicura che ne usciremo senzaproblemi, ha piena fiducia nei me-dici. Ma anche lei, l'ho capitodopo, ha sofferto, in silenzio, dasola, senza farsene accorgere pernon incrementare la mia ansia.

Come si dice: dietro ungrande uomo c’è sempreuna grande donna. Beh, ionon sono un grande uomo,ma mia moglie, sicura-mente, è una gran donna.In questi momenti ci sonotante persone che ti amanoe che soffrono, in manieradifferente, insieme a te: iparenti, gli amici, chi più chi meno;cercano di starti vicino e di aiutarticome possono. All’inizio tu non tene rendi conto, credo si diventiegoisti in queste circostanze, mapoi man mano che passa il tempocapisci che sono un supporto eaiuto importantissimo.Altri esami, approfondimenti,

ago-biopsia per capire di che cosasi tratti veramente. Benigno o maligno? Passano i

giorni e aspetto con ansia la rispo-sta. Parrebbe benigno. Ora mancasolo il responso finale dei medici.Quel giorno dentro lo studio delprofessor Biagini sono abbastanzateso. Dopo aver ricapitolato tutto, ildottore sentenzia che vuole interve-nire lo stesso, meglio togliere il tu-more. Mi fa vedere una lista. Tantinomi, il mio sarà inserito all’ultimariga. Siamo alla metà di maggio.Torno a casa con qualche certezzain più. Anche se fosse qualcosa didiverso, se ne può uscire. Passanodue mesi. Nel frattempo mi sonoveramente rilassato. Penso che tuttoandrà per il meglio.

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Come in tutte le storie di fin-zione il finale può essere bello obrutto, ma in entrambi i casi lo de-cide l’autore. Nella vita non è pro-prio così: anche se possiamodecidere un percorso, prendere unastrada invece di un’altra, tentare dievitare gli ostacoli, a volte, dob-biamo accettare quello che la vitaci riserva, anche le fermate obbli-gate che bloccano il cammino. Il mio scoglio da superare arriva

nel 2007, precisamente il 19 aprile.Di ritorno da una breve vacanza aVenezia, mi sottopongo ad un’eco-grafia, programmata da un po’ ditempo, alla coscia destra, doveavevo una cosa strana a forma dinocciola.

È in quel momento che scoproche qualcosa non va. L’ecografo,dopo aver concluso l’esame, miconsiglia di approfondire in fretta lacosa. Gli dico: ”Mi sta dicendo chepotrebbe essere un tumore?”. Mi ri-sponde di approfondire e di tenerloinformato (non l’ho fatto e ancoraoggi me ne dispiaccio, avrei volutoringraziarlo). Con il medico di fa-miglia decidiamo il da farsi e co-mincia, così, il mio camminonell’accertare la natura della pato-logia. Approfondimenti clinici, ri-sonanza magnetica con contrasto,visita chirurgica e poi ortopedicainfine la diagnosi: "Sì, potrebbe es-sere un tumore".Potete immaginare come ad un

tratto la vita cambi: cominci a pen-sare alle cose più brutte, anche allamorte. È naturale: si nasce, si vivee si muore, ma a 39 anni, quanti neavevo io allora, con una giovane

Il caso non esistedi Francesco Minorenti

˛

La mia famiglia invacanza aVenezia.

Dopo l’ecografiascopro qualcosa

che non va...

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giorno della mia vita. Ho ripresoanche a fare sport, gioco a calcio. Ilmio nuovo percorso di vita si è in-crociato e arricchito con la cono-scenza di nuove persone e nuoviobiettivi da raggiungere. Ogninuova conoscenza fatta mi accre-sce e mi completa, soprattuttoquelle di chi, attraverso la miastessa esperienza, capisce e condi-vide le ansie, le paure, le gioie e laconsapevolezza che vi è stato soloun ostacolo che si può superare.Chissà quante volte ci siamo

sentiti dire, quando ci succedevaqualcosa: " E' un caso". Ma vogliousare le parole di un personaggiodi un cartone animato, visto con imiei figli: “Il caso non esiste”. Cre-detemi, ne sono convinto: tuttoquello che ci succede, anche lamalattia, ha un senso, non so qualema ha un senso.

Francesco

di giorni, altra occasione per cono-scere altri pazienti. Nascono delleamicizie, seppur limitate all'in-terno di quelle stanze, con chi tisegue: Flavio, che ogni giorno sioccupa di te; Cinzia, una miaamica, che accompagna suamamma a fare la terapia. È Marzo 2008: finalmenete il

mio percorso di cure si è conclusoe ora dovrò solo fare i controlli. Una nuova sensazione mi per-

vade. Non una tranquillità pura,ma sento ormai che il peggio è pas-sato ora bisogna ricominciare a“Vivere”. Psicologicamente non èfacile. I miei amori hanno svegliatoin me una forza inimmaginabile.So perfettamente che la mia espe-rienza non è nulla in mezzo ad unmare di persone che si sono am-malate, ma in quel mare ce nesono tante che sono guarite. Que-sta storia come tutte le altre cheavete letto e leggerete in questolibro ne sono la testimonianza. A distanza di quattro anni va

tutto per il meglio. Amo mia mogliee i miei figli, vivo serenamente ognigiorno come se fosse il primo

Sono in vacanza al mare. Unpomeriggio, è mercoledì, mi arrivauna telefonata. È il Regina Elena.Dall’altra parte del telefono il dott.Favale mi chiede se sono disponi-bile a ricoverarmi il sabato se-guente. Vado nel pallone, non soper quale motivo, dovrei esserecontento, un paziente ha rinunciatoe io fortunatamente sono diventatoil primo della lista. Lo ringrazio glidico di sì, ma gli passo mia moglie,sono troppo nervoso e non riesco acapire nulla. Il 14 luglio sono inospedale, è sabato. Mi mettono instanza con un ragazzo di 25 annigià operato. È lì che comincia ilmio rapporto con altre persone chevivono la realtà di una malattia delgenere. Man mano che prendo

contatto con gli altridegenti, mi convincolentamente che io sonofortunato, solo adascoltare alcune delleloro storie me ne con-vinco ancora di più. Epoi ho mia moglie e imiei figli sono la miavita e non posso delu-derli. Devo assoluta-

mente trovare la forza di lottare perevitare un ostacolo che mi co-stringe a cambiare strada nel prose-guimento della mia esistenza. Arriva il giorno dell’intervento.

Sono il primo, anzi no stavolta di-vento l’ultimo. Arrivati in sala ope-ratoria l’anestesista m’inietta illiquido per farmi addormentare.

Ecco gli anestesisti, in questi mo-menti sono loro che tengono uniti ifili della nostra vita, sono loro gliangeli custodi che si occupano dinoi, ma non ho sentito mai nessunoringraziarli abbastanza. Io lo farò inseguito con una lettera. Ricordo ungiramento di testa e un dottore checomincia a fare qualche foto. Mi ri-sveglio qualche ora dopo. Mi di-cono: “Tutto a posto, l’intervento èandato bene, dobbiamo aspettarel’esame istologico”.Caratterialmente sono un ap-

prensivo. Mi sono sempre preoc-cupato per gli altri, non avrei maimesso in conto che poteva succe-dere anche a me. Vivo il periodo diattesa teso, ma ottimista. Torno almio paese, la gente mi vede con lestampelle e mi domanda: cos’èsuccesso? Che ti sei rotto? Non sache non sempre ci si rompe qual-cosa quando si portano le stam-pelle. Io l’ho imparato a mie spese.Una mattina, erano i primi di ago-sto, mi chiamano dall’ospedale. Miinformano che l’esito era un po’ di-verso dall’esame dell’ago-biopsia:il tumore è maligno, poco aggres-sivo, bassa gravità. Comunque perme è un colpo che non mi aspet-tavo. Vado di persona a ritirare ilreferto. Il dottor Prencipe mi visitami dice che è tutto a posto che nonci sono altri problemi. Forse po-trebbe essere il caso di fare unciclo di radio. Dopo vari consulti,devo prendere io la decisione: ini-zio la radio. Durerà una quarantina

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Mia moglienemmeno un dubbio, mai un pensieronegativo.Ho capito poiquanto ha sofferto in silenzio

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grandi di me, che al tempo gioca-vano nell’under 16. Era la cosa piùbella che facevo dopo la scuola, maquella notte, cambiò per sempre lamia vita.Al pronto soccorso mi fecero su-

bito una lastra e consigliarono aimiei genitori di andare da uno spe-cialista. Nei giorni seguenti inizia-rono una serie di visite edaccertamenti, non riuscivo a capireil perché. Mia madre mi rassicuravadicendomi che dopo la caduta, siera formato del liquido, che avreb-bero dovuto estrarre in qualchemodo, ma più tardi le cose sareb-bero state ben diverse.Mi ricoverarono all’ospedale

Umberto I per fare una biopsia. Inquei giorni, grazie alla mia giovaneetà, riuscii a superare il ricovero ri-dendo e scherzando. La mattina,mentre il personale addetto ripulivala mia stanza, io cantavo a squar-ciagola con la playstation accesa,ed insieme a mio padre, imparai afare i fiori di carta; tanto da riempiretutto il reparto e gli infermieri.Una volta fatta la biopsia, i miei

genitori seppero che nel mio brac-cio dimorava un tumore maligno di10 cm per 8 cm, il Sarcoma di Er-wing. Mi dissero che avrei dovutopassare altri giorni in un altro ospe-dale, l’IFO.Era quasi Natale e con i miei ge-

nitori, andai per il primo ricovero.Prima però, feci un colloquio conuna dottoressa del reparto di onco-logia medica. Non capii subito lesue parole, che furono: -“Non tipreoccupare, nel tuo braccino haidelle cellule buone ed altre cattive.Dobbiamo fare una terapia per an-

dare ad eliminare quelle cellule cat-tive, prima che loro uccidano le tuecellule buone. Facendo questoperò, la terapia ti darà degli effetticollaterali. Ti cadranno un po’ di ca-pelli, ma sarà tutto normale, e vistoche sei diventata da pochissimo unavera donnina, addormenteremo letue ovaie, così staremo ancora piùtranquilli.” La guardai sbalordita edincredula alle sue parole, e uscitidalla stanza, dissi subito a miamadre che quella donna non mipiaceva, non volevo perdere i ca-pelli per nessun motivo, e nonavendo capito il senso delle sue pa-role, dissi: «Ma questa che vuole?Che ha detto? Io non ho capitoniente!».Ci sedemmo sui divanetti di

pelle nera che si trovano nella Hall,dove mia madre con le lacrime agliocchi, seriamente mi informava deltumore che stava crescendo in me.Iniziai a piangere, quando mi resiconto che la mia vita era in peri-colo, ma con l’ingenuità e la sola-rità di una bambina dissi: -“E va bèhdai…allora vorrà dire che passe-remo un po’ di tempo qui in ospe-dale, ma se vinco io, e sappiamoentrambe che vinco io, tu mi pro-metti che mi compri il motorino,ok??”Non esitò a dirmi di sì. Inizia-

rono questi giorni in ospedale, fecila prima chemioterapia, passò infretta il tempo, ridevo e scherzavocon tutti, ma soprattutto studiavo edisegnavo. Il giorno di Capodanno,iniziarono a cadere le prime cioc-che. Mio padre la mattina seguentemi disse: «Vieni qui che fac-

Caro lettore, mi ritrovo a scrivertila mia storia, per farti capire chenon sei solo in questa battaglia eper aiutarti a non lasciare andaremai la presa sulla tua vita, che è lacosa più importante che tu possaavere. Mi chiamo Francesca, ho 23anni e vivo a Roma.La mia storia comincia esatta-

mente 10 anni fa, nel settembre del2000. Era un sabato sera, mi trovavoin casa con mia sorella, di tre annipiù grande.Stavo guardando la Tv in camera

dei miei genitori durante la loro as-senza per via del lavoro. In quelmomento, mi scoppiò un dolorelancinante all’avambraccio destro,un dolore che non riesco a descri-vere; ricordo soltanto che in un se-condo mi ritrovai con le lacrimeagli occhi, gridando il nome di miasorella per farmi aiutare. Lei, dispe-rata, non sapendo che cosa stessesuccedendo, chiamò immediata-mente i nostri genitori che mi por-tarono subito al pronto soccorso.Il dolore che sentivo, era scatu-

rito da un gonfiore che avevo datempo. Tutti pensavano fosse dovutoad una caduta avuta giocando apallavolo, sì perché in quel periodogiocavo nella squadra del mio quar-tiere, avevo 12 anni, mi allenavo 4– 6 ore al giorno con ragazze più

Strilla al mondo intero la tua forza

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di Francesca Sorrenti

˛

Non lasciare andaremai la presa sullatua vita, che è la

cosa piùimportante che tu

possa avere

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battere un male che proprio non vo-leva lasciarmi in pace. Dopo 2 oree mezza il Dott. Zoccali mi telefonòe mi chiese gentilmente di salire inreparto. Nello stesso tempo arrivòtempestivamente mio padre con lacompagna, Manuela. Tornai a pian-gere di nuovo, non riuscivo a na-scondere lo sconforto.Insieme salimmo ed ebbi un col-

loquio fulmineo con appunto ilDott. Zoccali ed in Prof. Biagini. Fula prima volta che il Prof. Biagini sirivolgeva a me con quel suo tonodeciso.Mi disse che quel nodulo, che da

anni dimorava in quel punto delmio corpo, aveva cambiato improv-visamente forma, crescendo legger-mente. Decisero subito di operarmi.Il giorno seguente, sarei stata im-mediatamente ricoverata ed il mer-coledì successivo operata.Piansi ancora, non riuscii a trat-

tenere le lacrime, non riuscivo aparlare, loro erano lì che mi guar-davano. Chissà cosa avrà pensato ilProf. in quell’istante, forse che nonero abbastanza forte; ma io pian-gevo non perché dovevo essereoperata, ma perché per la secondavolta la mia vita era in pericolo etutto così in fretta, neanche il tempodi capire.Tornai a casa non riuscendo ne-

anche a guidare, preparai la valigia,informai mia madre e mia sorella eandai a dormire a casa di miopadre, non volevo restare sola.Quel giorno fu l’ultimo giorno chepiansi.

Roma: chi meglio di lui avrebbe po-tuto seguire il mio caso?! Per annicontinuai i periodici controlli, arri-vando a farli una volta l’anno.Nel giugno del 2011 avrei avuto

l’ennesimo controllo, ma fortunata-mente, essendo nata un’amiciziacon il Dottor Zoccali, scoprimmo inanticipo di qualche mese che la ma-lattia si stava ripresentando imper-territa, con una metastasipolmonare. Ero andata a trovarlocasualmente in reparto, mostrando-gli l’ultima tac che avrei dovuto por-tare al controllo: subito rimaseimmobile davanti al monitor delcomputer, dicendomi: -“Mi dispiaceFrancesca, ma è cresciuto!” mi gelaiall’istante, raccolsi tutte le mie forzementre mi diceva di stare tranquillae di aspettare poiché ne avrebbeparlato subito dopo l’ambulatoriocon il Prof. Biagini.Uscita da quella stanza, corsi

fuori l’ospedale, mi rifugiai in unangolo da sola, ed iniziai a pian-gere. Pensai che non avrei voluto ri-vivere di nuovo quell’esperienza,pensavo che non ce l’avrei fatta asopportarlo, era più grande di me emi ritrovavo di nuovo sola a com-

sfinivo ogni giorno di più, ma lui,per quanto amore aveva da darmi,non ha mai detto di no.Ricordo che una sera, era quasi

mezzanotte, chiamai mio padre emi feci portare due piatti di tortel-lini con la panna e lui, paziente,trovò un ristorante aperto a quel-l’ora e me li fece preparare.Tornati a Roma, feci altri 3 cicli

di chemio, assistita sempre dal mioinseparabile e fidato amico Jack,l’albero trasporta flebo. Eravamo in-separabili, non mi lasciava mai, ne-anche per andare in bagno!Quando mi dimisero dall’IFO,

feci 30 giorni di radioterapia dinuovo all’Umberto I.Ho dei bellissimi ricordi di quel-

l’anno trascorso. A settembre del2001, feci una grande festa, a cuiinvitai parenti, amici, insegnanti,conoscenti, insomma tutti quelliche dovevano assistere alla mia vit-toria!Oggi ogni momento che rivivo,

quando penso a quei giorni, sorridoserenamente.Continuai la mia vita, feci le mie

prime esperienze, la scuola, il la-voro; i miei genitori si separaronol’anno successivo, e all’età di 15anni restai a vivere con mia sorellae, seguendo comunque gli studi,iniziai a lavorare. Mi fidanzai conun ragazzo che amai tantissimo, mirestava accanto in ogni momento. Ad un controllo, incontrai sor-

presa il Prof. Biagini, trasferitosi daBologna.Fui contenta di saperlo qui a

ciamo barba e capelli!». Dopo es-sersi fatto la barba, cambiò la la-metta e iniziò a rasare la mietestolina. Ero carina, tanto che miamadre mi chiamava “Zio Fester”(ancora mi viene da ridere).Feci altri 2 cicli di chemio, per

poi essere ricoverata a Bologna edoperata.Presi questo viaggio come una

vacanza, e così furono i miei geni-tori (a cui nel giro di poche setti-mane era crollato il mondoaddosso) che seppero nascondere aimiei occhi il dolore e la paura perfare spazio alla serenità d’animo eall’amore di cui avevo bisogno.Arrivati al Rizzoli conobbi tutti i

medici che mi avrebbero operata,tra cui il Professor Biagini.Il giorno dell’operazione nevi-

cava, ed io adoravo la neve. Miamadre e mio padre mi salutaronopiangendo prima di scendere insala operatoria, perché, a mia insa-puta, loro conoscevano le possibi-lità di come sarebbe potuta andare.Dopo 7 ore, mi riportarono su in re-parto: ricordo solo di aver sgridatomia sorella perché aveva indosso lemie scarpe. In quel momento tutticapirono che stavo più o menobene.I giorni passarono tra caricature

fatte ai medici e agli infermieri e lepartite a carte con mio padre che

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˛

Oggi ognimomento cherivivo, quando

penso a quei giorni, sorrido

serenamente

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Immaginate quindi che sorpresa eche stato d’animo colpì la mia fami-glia per non farmi mancare niente, cisi mise anche la crisi della miaazienda che decise di mettere incassa integrazione migliaia di lavora-tori e io ero tra questi….quindi nelgiro di due mesi la mia vita era cam-biata radicalmente…una cosa, però,non persi mai la fede! Gesù è sem-pre rimasto con me ! A lui ho affidatotutte le mie pene e le mie preoccu-pazioni in cambio ho avuto quellapace nel cuore che mi ha permessodi affrontare con grande serenità tuttoil mio percorso.Seguii un’unica strada che mi

portò dal Professor Maini, primario edirettore del centro di medicina nu-cleare dell’Ifo di Roma, il quale, vistala delicatezza della situazione e lanecessità di intervenire in tempibrevi, chiamò a consulto il ProfessoreBiagini, primario del reparto di

Mi chiamo Renato, ho 47 annisono sposato e ho tre splendidi figli.La mia storia comincia molti anni

fa esattamente nel 1994 quando sco-prii di avere un carcinoma tiroi-deo…fui operato ben due volte e poiseguirono i classici follow up previstiper questa patologia. Tornai quindi almio lavoro che era quello di assi-stente di volo in Alitalia e tutto sem-brava tornato alla normalità.Nell’ estate del 2008 cominciai

ad avvertire dolori lombari, ma pen-sai che fossero dovuti al lavoro chesvolgevo visti i continui decolli e at-terraggi ai quali era sottoposta la miaschiena. Dopo circa sei mesi poichéi dolori non passavano, decisi di sot-topormi ad una risonanza magnetica,la quale mise in evidenza una fratturavertebrale che venne ben presto dia-gnosticata come secondarietà sche-letrica del carcinomatiroideo.Successivi esami misero inevidenza ulteriori secondarietà a ca-rico di varie parti scheletriche le qualituttavia non destavano preoccupa-zione immediata.

Non ho perso mai la fededi Renato Sichera

consapevole di quello che stavasuccedendo. Il Prof. fu subito chiarocon me, e fu la cosa migliore chepotesse fare, trattarmi da personaadulta.È stato difficile accettare il sar-

coma per la seconda volta, nonavevo paura di morire, non ne homai avuta, ma avevo paura di crol-lare psicologicamente.I medici hanno fatto del loro me-

glio e non smetterò mai di ringra-ziarli, ma il vero eroe sono io.Ho combattuto con tutta me

stessa, non cedendo alla paura dinon farcela perché non ero forte ab-bastanza.Caro lettore ho voluto raccontarti

la mia storia perché tu, come me,hai la forza per superare questo mo-mento. Abbiamo dentro di noi il po-tere, di cui non tutti sono aconoscenza: amiamo Noi stessi!Amiamo la nostra vita. Non dob-

biamo permettere mai a nessuno difarci del male, tanto meno ad unamalattia!Oh lettore, circondati di persone

che ti amano: sono un toccasana inquesti momenti così difficili da di-gerire; guarda nei tuoi occhi la spe-ranza che non si spegnerà maifinché continuerai a lottare.Quando senti di non farcela,

stilla al mondo intero la tua forza,dimostra a te stesso che niente puòfermare i tuoi sogni!

Francesca

Arrivato il momento del rico-vero, ero pronta ad affrontare tuttoper la seconda volta, dovevo tirarefuori la forza che avevo avuto dabambina, e c’era, era proprio lì den-tro di me.Il giorno dell’operazione, ero

spaventata, avevo paura di doverperdere anche una parte del miopolmone, ma grazie alla mia fami-glia, che da sempre mi sostiene e midà la forza di lottare, scesi in salaoperatoria con il sorriso, volendotogliere subito quella cosa che stavatentando di togliermelo. Non ci riuscì!Risalii dalla sala più orgogliosa

di prima: avevo vinto io! Di nuovo!I giorni seguenti sono stati duri, i

dolori erano forti, dovevo tirarmi sudal letto con una corda che avevofatto legare ai piedi del letto, perchénon potevo muovere un muscolo!Cinque giorni di ospedale e fui

dimessa.Avevo voglia di riprendermi in

fretta, di tornare alla mia vita.I dottori erano gentili e gli infer-

mieri dolcissimi. Il dott. Zoccali e ilProf. Biagini ogni tanto venivano avedere come stavo. Sotto consiglio del prof e della

Dottoressa Ferraresi di oncologia,andai successivamente a fare 10cicli di radioterapia al Sant’Orsoladi Bologna.È stata dura questa volta. Ero

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Quando senti di non farcela,strilla al mondointero la tua forza, dimostra a te stesso cheniente puòfermare i tuoi sogni!

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gia!”. Se falliva anche questo tenta-tivo, eravamo ormai pronte a rasse-gnarci.Al Regina Elena, il prof. Biagini

mi fece fare altri accertamenti, da cuirisultò tutto negativo;.ma in questocaso fu il professore a non arrendersie mi spedì a Firenze da un suo col-lega, il dott. Massimo Ceruso, diret-tore del dipartimento di Chirurgia eMicrochirurgia della mano, del-l’Ospedale di Careggi. Qui, tramiteun’ecografia, mi fu riscontrato “unapiccola pallina” nel gomito. Presa ladecisione di asportarla, fui inserita inlista di attesa, ma per l’operazioneavrei dovuto aspettare ancora unanno! Arrivato finalmente il giornofatidico, io ero davvero felice, per-ché dopo 6 anni stavo finalmente perrisolvere la mia situazione e nonavrei più sentito dolore! Passato unmese, durante una visita di controllo,il dottor Ceruso ci comunicò il re-ferto istologico: purtroppo avevo unsarcoma sinoviale cioè un tu-

Sono passati già cinque anni daquando la mia vita è cambiata! Al-l’età di 18 anni ho avvertito i primidolori: forti fitte al braccio destroche, partendo dal gomito, arrivavanofino alla mano, impedendomi disvolgere le normali azioni quoti-diane (ad es. non riuscivo a scrivereneanche per 5 minuti o a prendereuna brocca d’acqua)! Mi feci visitareda vari ortopedici e fisiatri di Roma edintorni, ma nessuno riusciva a indi-viduare la causa del dolore, giacchéda lastre ed altri esami diagnosticinon risultava nulla di anomalo. Que-sto strazio è durato quasi cinqueanni! Ormai mi ero arresa, ma rin-graziando Dio, mia madre, che in-vece non si era data per vinta, vennea sapere, tramite una conoscente,che all’Istituto Regina Elena di Romalavorava un bravissimo ortopedico, ilprofessor Roberto Biagini, prove-niente dall’Ospedale Rizzoli di Bo-logna. Così tentammo anche questastrada, benché avessimo deciso cheper noi sarebbe stata “L’ultima spiag-

Mi sono sentita protettadi Valeria Timperi

Un grazie speciale, pieno di rico-noscenza al Prof Biagini e ai suoivice Salducca e Favale e al dott. Zoc-cali con i quali il rapporto è straordi-nario. Dopo la mia convalescenzaho sentito forte il desiderio di met-termi a disposizione di coloro i qualicominciano un percorso “difficile”ho sempre pensato che se il Signoremi voleva ancora in piedi non eracerto per continuare a fare la vita diprima.La conferma è arrivata dopo il mio

primo viaggio a Medjugorje dove hoaffidato a Maria la nostra associa-zione…e mentre parlavo con un sa-cerdote, scendendo dal monte delleapparizioni, il quale mi chiedevacome mi rapportavo con i malati ecome riuscivo a superare le barrierepsicologiche, io risposi semplice-mente: “Guardando in loro Gesù! “Pochi giorni dopo una parte del

messaggio mensile di Maria diceva:“ Se volete conoscere voi stessi do-vete prima conoscere mio Figlio…sevolete conoscere gli altri dovete guar-dare in loro mio Figlio” fu un segnolimpido che la strada era quella giu-sta ! Nonostante tutto sono tornato adavere una buona qualità di vita, chetrascorro con la mia famiglia e adaiutare , attraverso la nostra associa-zione chi come me, si appresta ad at-traversare un “incrocio di vita” un po’difficile.Quando ci sentiamo abbandonati

dalla terra e dal cielo, quando la pre-ghiera non ci consola più e tuttosembra ingoiato dalla notte oscura…anzi è allora, è proprio allora, cheEgli sta alla porta e bussa è allora,proprio alloa, nel nostro/Suo Getse-mani, che la comunicazione fra Dioe uomo diventa Comunione in CristoGesù!

Renato

oncologia ortopedica. Il Prof. Biaginidecise di intervenire.. e senza tantipreamboli mi mise al corrente dicosa andavo in contro ma io, seppurimpaurito.. mi affidai senza ripensa-menti.Fui quindi operato in due tempi:

una stabilizzazione vertebrale edopo quindici(?) giorni un secondointervento per l’asportazione dellamassa tumorale e conseguente rico-struzione vertebrale. La mia degenzain ospedale fu contraddistinta princi-palmente dall’amore della mia fami-glia, soprattutto di mia moglieMarina… la mia luce di vita, dalla vi-cinanza di tantissimi amici e dallaprofessionalità e disponibilità di tuttoil personale ospedaliero.Ma in particolare conobbi una ra-

gazza, che oggi è la presidente dellanostra associazione, con la quale misentii subito sulla stessa lunghezzad’onda, per un semplice motivo…sa-peva leggere nei miei pensieri perchéanche lei era passata per un’espe-rienza simile. Seguirono dei cicli diterapia radio metabolica che a di-stanza di due anni continuo a fare inquanto persistono alcune metastasischeletriche.Sono sempre in cura presso l’IFO

e ringrazio in particolar modo il Prof.Maini e la Dottoressa Sciuto, rispetti-vamente primario e responsabile delreparto di Medicina Nucleare nelquale ormai sono di casa.

˛

È vero, ho dovuto econtinuo acambiare tantecose nella miavita e nel miomodo di vivere,ma quello checonta è vivere

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ziato a girare di nuovo e me la vo-glio godere tutta, attimo per attimosenza lasciare il posto alle paure! Vo-glio vivere! Inoltre la scienza è dallanostra parte: oggi la parola tumorenon è più uguale a morte!Naturalmente non si può pensare

di superare questa lotta da soli! Unconsiderevole aiuto, come ho giàdetto, per me è venuto dalla Fede,che mi ha costantemente accompa-gnato, sia suscitandomi tanta pace eserenità nel cuore, sia facendomi in-contrare tante persone, che mihanno aiutato tantissimo con i lorosorrisi e la loro professionalità: i dot-tori, gli infermieri, gli operatori delreparto di ortopedia oncologica del-l’Istituto Nazionale Tumori ReginaElena e il professore del reparto dimicrochirurgia della mano al Cto diFirenze; tutti mi hanno fatto sentireprotetta e senza di loro sarebbe statotutto molto più difficile! E grazieanche alla nostra presidentessa, Mo-nica che, quando ero un po’ preoc-cupata per i rischi dell’eventualechemioterapia che avrei subito, lei,con la sua testimonianza mi ha ri-dato il sorriso, la speranza che nondeve mai mancare a nessuno!Grazie infine ai parenti, agli amici

e non per ultimo al mio maritino cheè stato sempre pre-sente soprattutto neimomenti meno fe-lici!! Adesso…cu-cino benissimo ecambio velocementeil piccolo di casa,anche meglio di lui!

Valeria

nare a Firenze, dove mi avevanooperato la prima volta! Acconsentì e,arrivata a Firenze, mi ricoveraronosubito per rischio infezione e dovet-tero procedere alla rimozione dellaprotesi. Sono rimasta due mesi conun distanziatore di cemento al postodel gomito. Le medicazioni veni-vano eseguite da due persone, vistoche il mio braccio “ciondolava” unpochino! Anche qui il risultato delprelievo citologico risultò negativo,non c’era infezione! Poi finalmentel’ultima operazione, quella di reim-pianto protesico! Infine, ho messoun’altra protesi più piccola, di tita-nio, con il risultato che il braccio misi è accorciato di 4 centimetri! Alloraavevo molta paura che, a causa dellaprotesi, della mancanza del tricipitee di altri muscoli, in presenza, inol-tre, di una lesione del nervo ulnare,non avrei potuto più fare nulla! In-vece dopo 5 anni posso dire che misento bene! E’ vero, ho dovuto econtinuamente devo reinventare lamia vita! Come un bambino imparaa camminare, io sto imparando adusare il mio nuovo braccio! Adessoancora di più!Lo scorso anno, precisamente il

19 maggio 2013, ho realizzato il mioprimo sogno: quello di sposarmi! E,dopo neanche un anno il secondo:si chiama Marco! Ebbene sì, dopotanta fatica spesa nel combattere, ilSignore mi ha dato un altro segnodella Sua presenza facendomi darealla luce una creatura stupenda di3,580 kg che io e mio marito ab-biamo chiamato Marco e che sta be-nissimo! La mia paura più grande,quella di affrontare una gravidanza,alla fine è stata sconfitta! Come puòcambiare la vita in così poco tempo!Adesso la lotta si basa su come

gestire un neonato con un braccio emezzo, ma è diversa e più sopporta-bile: si affronta con un bel sorriso, ilsorriso della vittoria! La vita si erafermata per 2 anni, ma poi ha ini-

st’ultima che mi ha sostenuto (e an-cora adesso mi sostiene) e mi ha aiu-tato a rimanere serena per tutto ilperiodo della malattia e delle opera-zioni che ho dovuto affrontare!Dopo una settimana dall’opera-

zione sono uscita dall’ospedale;c’era solo da aspettare il referto isto-logico per poi iniziare la chemiote-rapia e la radio. Ho cercato di viverequesta attesa nel migliore dei modipossibili, senza perdere la Speranzae certa che il Signore avrebbe ascol-tato le mie preghiere e quelle delletante persone che mi stavano soste-nendo. Infatti, ci fu una bella sor-presa: nel referto istologico nonrisultò alcuna traccia di cellule tu-morali! Era tutto tessuto buono!Quindi, con un po’ di indecisione daparte del prof. Biagini e un po’ menoda parte dell’oncologa, si decise dinon farmi fare neanche un ciclo dichemio! Ero strafelice per questa no-tizia! E’ proprio vero che non biso-gna mai perdere la speranza! Aquesto punto il chirurgo di Firenzemi disse una cosa che mi rimarràsempre in mente: “La tua voglia divivere ti ha salvato la vita”! E’ pro-prio vero! Bisogna sempre essere po-sitivi e affrontare tutti gli ostacoli condecisione e positività, anche rialzan-doci dopo una caduta!Tuttavia, dopo subentrò un ulte-

riore problema: la cicatrizzazionedella ferita. C’era un punto in parti-colare che rimaneva sempre aperto,da dove fuoriusciva del liquido. Perquesto ho dovuto subire altre duepiccole operazioni: una per girare unpiccolo lembo di pelle e l’altra di pu-lizia della ferita. Però questa conti-nuava ad aprirsi e allora, siccomenon mi ero trovata troppo bene conil chirurgo plastico di Roma, chiesial professor Biagini se potevo ritor-

more maligno dei tessuti molli, piut-tosto raro. Aggiunse, tuttavia, di nonpreoccuparci perché sarebbe andatotutto bene, raccomandandoci di ri-tornare subito dal professor Biagini. A Roma i dottori iniziarono im-

mediatamente a sottopormi a tutti icontrolli per verificare se avessi me-tastasi. L’impatto con il prof. Biaginifu molto forte, vista la sua determi-nazione nell’affrontare questo male.Mi parlò con molta schiettezza: pro-babilmente avrei dovuto fare la che-mioterapia, una delle più forti; misarebbero caduti i capelli, sarei statamale, poi lui mi avrebbe operato algomito, togliendo alcuni muscoli einserendo una protesi in argento; in-fine sarei stata sottoposta a radiote-rapia chirurgica. Io, ascoltandolo,avevo tanta confusione in testa e ilprofessore, per farmi capire benecosa fosse il mio tipo di protesi, mimostrò dal suo Pc una foto scattatadurante un’operazione, dove si ve-deva un braccio aperto con la pro-tesi inserita! Ripensandoci ora, mi viene da ri-

dere, ma lì per lì di ridere avevo dav-vero poca voglia! Allora mi sentivofrastornata: era una situazione as-surda, ma stava accadendo vera-mente e ancora non mi rendevoconto di quanto sarebbe cambiata lamia vita! In breve, tutti gli esami ef-fettuati risultarono negativi, quindi,il prof. Biagini insieme all’oncologadecise di farmi iniziare la chemiodopo l’operazione. Sono entrata inreparto 2 giorni prima dell’opera-zione ed ero tranquilla. La mia tran-quillità derivava dalla profondafiducia che avevo e che ho tuttoraper il professore e per tutta la suaéquipe, ma soprattutto dalla forzadella fede in Cristo Gesù. E’ que-

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Naturalmente nonsi può pensare disuperare questalotta da soli! E ioho incontrato, oltrela mia famiglia,tante persone chemi hanno fattosentire protetta

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mente il 15 ottobre 2010. Chedire, è stata un’esperienza. Da al-lora sono passati quasi quattroanni nei quali mi sono riorganiz-zato e riappropriato della mia vitae dei miei spazi che avevo abban-donato per poter far fronte al-l'emergenza. Posso dire egarantirvi che se avete la volon-ta'di vivere e di donare voi stessialla famiglia e alla vita ce la potetefare. Tuttora faccio controlli seme-strali e vado avanti ringraziandoDio per quello che mi ha con-cesso.Sono tornato con grande gioia a

praticare il nuoto, faccio piccolilavoretti nella mia casa di campa-gna ed in parte aiuto mia moglienella nostra attività di famiglia: in-somma sono felice di vivere. Chedire, è stata una esperienza terri-bile, ma allo stesso tempo mi hapermesso di ampli are lo spettromentale e visivo di quello che è lamia esistenza. Ringrazio tuttal'equipe medica ed il personaleinfermieristico dell'ortopedia edell'oncologia medica. Ringraziotutti i miei amici che nel momentoopportuno mi sono stati vicini, ungrazie enorme ai miei parenti, unabbraccio enorme carico di amorea mia moglie ed a mia figlia, un sa-luto a Briciola, Black, Muschio,Caciotta e Sbirulino, i miei amicianimali. Infine ringrazio Dio che ciha donato questa vita meravi-gliosa.

Angelo

Regina Elena. Arrivo al reparto delprof. Biagini che mi stava aspet-tando insieme con il prof. Sal-ducca. L’impatto è statotremendo,sapete perchè? non ti re-galano niente, ed è bene che siacosì. Comunque, dopo scrupolosie veloci accertamenti, vengo sot-toposto a tre cicli di chemioterapiapreoperatoria che mi scombusso-lano completamente, dopodichérientro in ospedale con la speranzadi poter conservare la mia gambama da lì a poco tempo il prof. Bia-gini mi fa capire che probabil-mente mi dovrà amputare. Dentrodi me si miscelano sensazioni,amarezze, malinconie, paure,emozioni che sfociano in unpianto liberatorio. Viene a tro-varmi la mia amica Monica,chimeglio di lei mi può capire, riescea calmarmi. Con l'aiuto e l'amoredi mia moglie e di mia figlia de-cido che devo portare a casa lapelle e cerco di metabolizzarel'evento: la vita deve continuare.Così il 23 febbraio vengo ampu-tato e dimesso solo dopo novegiorni. Da quì inizia la fase di che-mioterapia post operatoria che èstato il momento più duro, ma chesono riuscito a completare felice-

Sono Angelo Spaziani, ho 50anni e voglio raccontarvi la miastoria. Nella primavera del 2009ho avvertito dolore alla gamba si-nistra, dopo aver fatto analisi diroutine e lastre, la diagnosi è statasbagliata o meglio non centratasull'obiettivo primario che era ap-punto l'osteosarcoma in atto.Quindi decidevo in base a quelladiagnosi di sottopormi ad unaserie di sedute di fisioterapia, que-sto fino a quando il 4 ottobre del

2009 mi si rompe il femore (im-pensabile dolore) e vengo ricove-rato nell'ospedale di Colleferro.Da questo momento inizia il miocalvario sia fisico che mentale, fi-sico perchè dopo aver passato imiei 54 anni senza quasi cono-scere il medico di famiglia mi ri-trovo proiettato in una dimensionedi sofferenza dovuta alla frattura ea tutti quegli strumenti di torturaospedalieri; mentale perchè da unmomento all'altro la mia mente siriempie di domande, di dubbi, dipaure alle quali al momento nonvoglio trovare risposte, anzi tirodritto come se niente fosse suc-cesso ed affronto la situazione sof-frendo tantissimo. Tra accertamentied operazione permango in ospe-dale per circa 40 giorni dopo diche da esami bioptici esce fuori ladiagnosi reale e vengo trasferito al

La vita deve continuare

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di Angelo Spaziani

Sono tornato congrande gioia a

praticare il nuoto,faccio piccoli

lavoretti nella miacasa di campagna:

insomma sono felicedi vivere

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Ad agosto mi ricovero all’Ifo. E’ laprima volta che mi ricovero in ospe-dale, ho paura, ma tutto il personaleche incontro scherza con me e mimette a mio agio. Non i medici, checontinuano a darmi notizie poco ras-sicuranti sui possibili effetti collate-rali dell’intervento. E mi fannofirmare tante carte, e ogni firma di-venta più difficile da mettere. Maormai ho deciso. E firmo. Altri esami,prelievi, aghi.Il dott. Zoccali, che fa parte del-

l’equipe del prof. Biagini, mi diceche sarà lui ad operarmi. Mi diceche non sa ancora quanto osso sacrotogliere, se dovrà tagliare da S3 o daS4. In un impeto di coraggio scherzocon lui e cerco di contrattare sulpezzo, da quale vertebra tagliare. Poiarriva il giorno dell’intervento. Miamoglie è lì, sempre presente, è leiche mi dà la forza, insieme al pen-siero costante dei miei figli, di poterliriabbracciare presto e riprenderli inbraccio.L’intervento dura 7 ore. Quando

mi sveglio penso “Bene, sono ancoravivo”. E le gambe? Sembrano ancorafunzionare. Nel frattempo, ancorastordito, mi portano in terapia inten-siva. E finalmente vedo il viso sorri-dente del prof. Biagini: mi dice chetutto è andato bene, ma che bisognaaspettare l’esito dell’esame istolo-gico. Durante la notte, altri medicidell’equipe mi vengono a trovare, micontrollano. Io mi sento coccolato,e finalmente li vedo sereni.Passano i giorni. Uno alla volta i

tubi che mi avevano messo in corpose ne vanno. I dolori, fortunata-mente, sono pochi, non ho infe-zioni, le gambe sembranofunzionare bene, ma devo an-

dia. Trovo il nome del Prof. RobertoBiagini. Telefono per prendere unappuntamento e me lo danno subito.Il giorno dell’appuntamento,

vado e finalmente riesco a parlarecon il professore. Gli dico la mia dia-gnosi. Mi chiede quanti anni ho. Poimi guarda e mi dice, serio: “Si sieda,dobbiamo parlare”. Lì ho capito chela cosa era veramente seria, mi sen-tivo il sangue gelare. Quando final-mente mi ha fatto entrare nel suostudio, abbiamo parlato tanto, mi havisitato, ha descritto fin troppo benequello che mi aspettava. Radiotera-pia? Chemioterapia? Tutto inutile. Bi-sogna intervenire chirurgicamente,senza perdere altro tempo, e toglieretutta la parte di osso intaccato dal tu-more. Ma prima bisogna fare unaserie di esami, a volte pesanti, manecessari per capire il livello di avan-zamento. Prima una Pet, poi una ri-sonanza magnetica e una Tac. E poialtre visite dal prof. Biagini. Fino aquando è pronto per propormi la suasoluzione. Chirurgica, ovviamente,togliendo anche l’osso sacro. Ma daquell’osso escono alcuni nervi im-portanti, che controllano la parte in-feriore dell’addome e anche imovimenti delle gambe. Piangoamaramente. Perché proprio a me?La decisione è dura: campare con

grossi deficit, nella speranza di vi-vere molti altri anni senza il tumore,o fare finta di niente e godermi lavita finché dura? La mia famiglia miha dato la risposta: devo vivere, vo-glio vedere i miei figli crescere, an-dare all’università, sposarsi e averedei figli. E degli altri problemi, deideficit cui potevo andare incontro,chissenefrega! Sono disposto a cor-rere questi rischi.

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Mi chiamo Dino. La brutta noti-zia l’ho avuta nel 2010, a 42 anni,nel pieno di una vita normale, senzagrossi pensieri, avendo come uniciproblemi quelli di vivere in una tran-quilla famiglia e di andare a lavorareogni giorno, pensando solo ad un fu-turo sereno.Nel 2009 mi accorgo di avere

uno strano e doloroso rigonfiamentoall’altezza del coccige, proprio soprail sedere. Per i medici che ho con-sultato la diagnosi era di “Cisti sacro-coccigea”. A gennaio 2010 sonostato operato. Un intervento sem-plice, in day-hospital. A febbraio,durante uno dei previsti controlli, ilchirurgo mi riferisce l’esito del-l’esame istologico: “Sospetto cor-doma al sacro”. Cosa? Cos’è?Neanche il chirurgo lo conoscevabene. “E’ inoltre presente sul mar-

gine del tessuto tolto”. Quindi: non èstato tolto tutto.Da quel momento è iniziato il

mio calvario personale, e insieme ame quello della mia famiglia. Anzi-tutto cerchiamo di capire cos’è. In-ternet è la soluzione (o quasi): “Icordomi sono tumori maligni rari,che si sviluppano a partire dai resi-dui embrionali della notocorda delloscheletro assiale”. Il mondo mi crollaaddosso, nel vero senso della parola.Fino a ieri immaginavo un futuro coni miei figli, con mia moglie. Ora nonsembra che io abbia un futuro. La re-altà è dura. Devo muovermi, e infretta. Contatto alcuni medici, manon ottengo una risposta che miconvinca. Sembra che la soluzionesia la radioterapia, ma neanche i me-dici sembrano convinti. Finché miviene in mente un’informazioneavuta tempo prima: per i tumori unodei migliori istituti è l’Ifo. Bene, cer-chiamolo su Internet. E poi ortope-

Ero incavolato nerodi Bernardino Chirico

˛

Certo la mia vita è cambiata,

quello che mi èsuccesso non mipermetterà mai

di dimenticare ciò chemi è capitato, maposso sicuramente

dire che ora ho una speranza di

avere un futuro

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troppo nitidi di quei momenti, ma hochiaro il momento in cui quel me-dico ci disse: la situazione non èmolto bella, io consiglio un ricoverod’urgenza. Non capii molto il perché ma

certo è che compresi bene che lecose erano abbastanza serie.Uscito dalla Usl, la giornata era

meno bella, meno calda e sembravacome se di colpo l’inverno avesse ri-preso il posto che oramai stava pocoprima lasciando alla primavera e neltornare a tutta velocità verso casa miuscirono delle lacrime che non soancora se fossero causate dal vento oda uno stato d’animo pessimo.Di lì iniziò tutta una trafila di ana-

lisi e visite, ortopedici, oncologi especialisti vari. Andai persino a Pa-rigi al famoso ospedale GoustaveRoussy dove mi confermarono

Marzo è il mio mese. Il giorno 19di questo bellissimo mese compio glianni e da quando ero bambinoaspettavo con ansia il mio comple-anno perché quello è, come per ognibambino, il proprio giorno speciale,quello in cui tutti sono contenti perte, tutti ti danno più importanza, tuttiti pensano. E il giorno 15 di marzodel 1991 di anni ne dovevo ancoracompiere 16 quando, a seguito di undolore al ginocchio destro, di nottesordo e di giorno acuto, andai allaallora USL vicino casa a ritirare il re-ferto di una lastra fatta qualchegiorno prima.La primavera era alle porte, il sole

iniziava a scaldare le ultime giornateinvernali e i germogli sui platani diRoma affinché potessero sbocciarequanto prima. Volle venire anchemio padre, ma io andai per contomio col motorino nuovo fiammante,mettendo il mio solito berretto dilana e indossando un paio di oc-chiali da sole. Ho dei ricordi non

Sono testardo ma ora bastadi Lorenzo Parroni

volontario dell’associazione: perchénon tentare di aiutare io stesso altrepersone? Se non fisicamente, al-meno nella speranza…Ora, dopo un anno dall’inter-

vento, sono tornato ad avere unavita relativamente normale. Seguo ilprevisto percorso di follow-up, con-tinuando a fare tanti esami per veri-ficare che il male sia stato estirpatodefinitivamente. Dall’esame istolo-gico sembra che tutta la massa siastata tolta completamente e corret-tamente. Certo, ora convivo conqualche problema, soffro di riten-zione urinaria e di stitichezza (perurinare devo fare forza con gli ad-dominali), prendo dei lassativi, avolte soffro di incontinenza; i mieiglutei, poi, hanno perso la sensibi-lità, quando corro i muscoli mi dol-gono, e sono abbastanza brutti daguardare. Ma nonostante ciò mi ri-tengo fortunato in quanto le miegambe funzionano bene, comeprima. I medici dicono che il mio èun caso raro, che la mia riuscita èspeciale, ma io non credo che sa-rebbe stato possibile senza la lorobravura e professionalità, ma anchesicuramente grazie all’intervento delmio Dio, che ha guidato la manodei chirurghi.Ad oggi non so se sono guarito,

se posso affermare di avere sconfittoil cancro, anche se personalmentecredo che nessuno possa mai real-mente dirlo. Certo la mia vita è cam-biata, dovrò fare sempre controlli,esami, e tutto ciò non mi permetteràMAI di dimenticare ciò che mi è ca-pitato, di abbassare la guardia, maposso sicuramente dire che ora houna speranza di avere un futuro, dipoter sperare di vivere ancora tantianni, di poter fare tutte quelle coseche credevo avrei perso.

Bernardino

cora aspettare per alzarmi. Ognitanto mi prende la noia, altre voltemi viene il desiderio di fuggire via,ma gli infermieri sono eccezionali,riescono a tranquillizzarmi, a farmitornare la pazienza. Con loro si creauna bellissima intesa.E dopo dieci giorni, finalmente, in

compagnia del fisioterapista, inizio acamminare. Non vedo niente di di-verso, a parte un certo fastidio alfondo-schiena. Anche gli infermierisembrano sorpresi e contenti di ve-dermi camminare bene. E sono con-tento anche io. Il mio morale crescevelocemente, incomincio a intravve-dere un discreto futuro.Dopo due settimane dall’inter-

vento posso tornare a casa, maprima il prof. Biagini mi vuole par-lare e, con un gran sorriso sul viso,mi parla di quello che sarà. Fra l’al-tro, parliamo anche dell’Associa-zione Rukije, che avevo già avutomodo di conoscere, perché duranteil ricovero si erano presentate da medue persone, Monica e Renato,anche loro operati di tumore, checon la loro testimonianza mi ave-vano insegnato a non avere paura.Così, alla fine sono diventato anch’io

˛

Oggi sono ancoraqui e lo devo ai medici ma

tanto alla miatestardaggine

e alla speranza che ho sempre

avuto

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naio mi sottoposi all’esame e, dopodue giorni, ebbi i risultati. La pedia-tra visti i risultati chiese un incon-tro, il prima possibile, con mammae papà per spiegare che cosa mistesse succedendo. Siccome lei giàconosceva il dottor Favale del Re-gina Elena chiamò e gli chiese unappuntamento per me. La dotto-ressa aveva già capito cosa stessesuccedendo ma, non avendone lacertezza, mi disse solo che avreidovuto portare le stampelle per uncerto periodo. Il 17 gennaio 2013 andammo

alla visita con il dottor Favale a Ber-nalda. Portammo sia i risultati dellalastra sia quelli della risonanza. Luicapì subito che cosa avessi, ma midisse queste esatte parole: "Fino aquando non sappiamo il nome ecognome della malattia, non pos-siamo dire e fare niente". Il martedìmi sarei dovuta ricoverare a

Ciao, mi chiamo Linda e ho 13anni. Vivo a Matera, in Basilicata. Lamia storia è iniziata alla fine del2012 mentre trascorrevo la mia vitadi sempre: andavo a scuola, andavoa pallavolo, uscivo con gli amici ilsabato sera, andavo a casa delleamiche: vivevo la mia adolescenza. A metà novembre 2012 presi

una storta alla caviglia. I primigiorni non ne facevo un dramma,ma più passava il tempo più il do-lore alla caviglia diminuiva, ma losentivo acuirsi alla gamba. Un gio-vedì notai che la gamba destra eramolto gonfia allora mia madre midisse: "Se è vero che ti fa moltomale, rinuncia, almeno per oggi,alla pallavolo", e io rinunciai. Igiorni passarono e mamma telefonòalla mia pediatra che mi prescrissesubito una lastra alla gamba. Il 27dicembre 2012 andai a fare i raggix. Nel frattempo passammo la finedell'anno sperando in un 2013 tran-quillo. Il 2 gennaio avemmo i risul-tati della radiografia e la pediatradisse subito di fare una risonanzamagnetica con contrasto. Il 9 gen-

Arriverà il mio momentodi Linda Carlucci

di avere un osteosarcoma fibrobla-stico di 3° grado (solo il nome fapaura) e mi dissero che se volevo cu-rarmi i posti erano 2: o da loro o alRizzoli di Bologna.Per ovvi motivi scegliemmo (di

concerto coi miei genitori, essendoio all’epoca minore) Bologna, quindiad aprile iniziammo il lungo viaggionel famoso “Hotel Rizz” aiutati dal-l’allora dott. Piero Picci (oggi Profes-sore di ricerca sempre al Rizzoli) ilquale mi parlò di chemioterapia,cura avrebbe fatto regredire questecellule impazzite che mi causavanoil forte dolore; mi parlarono di un in-tervento con cui mi avrebbero recisouna parte di osso e inserito una pro-tesi denominata di KOTZ (o Campa-nacci & Kotz) con cui avrei potutofare quasi le stesse cose che facevoprima. E così fu.Il male dopo la chemio pre e post

intervento scomparve, la mia cam-minata pian piano diventò quasi nor-male e i capelli ricrebbero quasitutti.Poi, via coi controlli periodici,

fino al controllo di routine annualee al decimo anno mi dissero addirit-tura che potevo smettere di farli inquanto oramai ero fuori pericolo, maio volli comunque farlo per una miatranquillità. Infatti all’undicesimo“anniversario” feci le solite lastre e leportai a Bologna, dove però un dot-tore mi disse che vedeva qualcosa dinon troppo chiaro, pertanto mi fe-cero fare una biopsia a Modena. Me ne tornai casa aspettando il ri-

sultato quando in quel caldo pome-riggio di giugno mi arriva unatelefonata: lo stesso dottore mi diceche il male si e’ ripresentato e che

devo andare d’urgenza al Rizzoli perun ricovero immediato.Di nuovo serie di analisi, chemio

pre e post, intervento con innesto didoppia protesi femoro-tibiale, mastavolta la camminata non è un granche e i capelli già li avevo persi perconto mio. Comunque anche sta-volta è andata!Ora però i controlli erano molto

più frequenti e l’anno successivo vi-dero da una tac qualcosa di nonbuono al polmone destro, quindi su-bito operato all’IFO di Roma dalprof. Facciolo, che trovò due nodulioramai necrotici. L’intervento ebbeottimi risultati e non ci fu bisogno difare la chemio. Beh, ora basta, no?Forse.Purtroppo nel 2008 mi sono

preso una brutta, anzi bruttissima in-fezione all’arto destro tanto che sta-volta il Professor Biagini non credevache sarei riuscito a portare a casa lagamba, ma talmente mi sono inte-stardito che dopo sette interventi inun anno e grazie alla Madonna chemi ha miracolato (veramente) oggiposso ancora camminare da solosenza alcun ausilio.Ad oggi nel 2011 sono ancora

qui, ho una brava moglie e un bel-lissimo figlio, e tanto lo devo ai me-dici, tanto, forse, alla miatestardaggine e alla speranza che hosempre avuto, ma tanto lo devo al Si-gnore che mi ha voluto graziare. Spes ultima dea.

Lorenzo

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˛

Non fu facilesentire ciò che avreidovuto subire,infatti la dottoressadi meravigliò e disseai miei genitori:“Anche la bambinarimane qui?”. Io tutta convinta,risposti: “Si,nonvoglio che nessunomi nascondaniente!”

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Passò anche la gita e finì la scuola.Feci la Pet di controllo e una cosabuona uscì: la massa da 11 milli-metri si era ridotta a 2 mm! Dissi io:"Proprio quei due millimetri mi da-ranno fastidio?!' Io tutta contenta lodissi ai miei amici, non a tutti, però. Il 14 giugno dovetti incomin-

ciare gli esami di terza media: unapasseggiata! Il giorno prima fecil'infusione di chemio, quella un po'più pesante rispetto alla prima. Eroserena, tranquilla. Due settimane dipuro rilassamento! Il 23 giugno fecil’orale: ah, quel 23 giugno… vedoproprio che mi perseguita. Finiti gliesami, finito lo stress! Sono uscitacon 8 di valutazione alla faccia dichi mi ha voluto male! Ora aspetto solo il mio gran mo-

mento per festeggiare! Forse questamalattia mi ha insegnato una cosa:non bisogna mai fare progetti, per-ché poi, se non sono come dici tu,ci rimani davvero male! Un ringra-ziamento speciale va a tutti gli in-fermieri di entrambi i reparti che mihanno "sopportato" per tutto questotempo. Un ringraziamento specialeva anche alle infermiere che ci sonoin Day Hospital! Grazie Infermieri,grazie dottori, grazie professor Bia-gini e dottoressa Ferraresi!

Linda

tempo mi faceva male il bacino de-stro. Noi pensammo subito ad unostrappo muscolare, visto che in queigiorni feci tanti movimenti. Eroquasi pronta alla fine di tutto que-sto incubo, quando avemmo i risul-tati della Pet: secondo i medicidovevo fare di nuovo la chemio. Quel lunedì divenne indimenti-

cabile (in senso negativo!!!) per me.Piansi per tutto il giorno, non andaia scuola il giorno dopo, stetti damia zia per svagarmi un po', maniente, quel pensiero fisso era sem-pre lì. Come mai una ragazza cosìattiva come me doveva rifare tuttoda capo? I dottori mi spiegaronoche dovevo fare solo dei cicli dichemio e poi fare una Tac per ve-dere se la massa si era ridotta.Come dovevo spiegarlo ai mieiamici? Questa volta non lo fecemamma, ma io. Solo ad una miaamica lo confidai a scuola, durantela ricreazione, ma agli altri no. In-viai a tutti lo stesso messaggio: "Misento sola in questo periodo; per fa-vore, anche se dovrò perdere dinuovo i capelli mi starete accanto?"I miei amici mi risposero di sì!

Quando l’8 aprile andai ascuola senza capelli, per loro nonera cambiato niente, ero sempre laloro Linda. Facevo i cicli di chemioa Roma, scendevo a Matera e ilgiorno dopo subito a scuola. Hoperso tante lezioni quest’anno, maio mi sono sempre impegnata. Agliinizi di maggio, andai in gita; sic-come avevo le stampelle, mammami accompagnò. Passammo deigiorni indimenticabili, nonostantenon stessi in buone condizioni. Il 2maggio feci un’infusione di chemioe dal 5 all’8 maggio andai in gita. Il9 maggio feci l’altra infusione: eroattivissima, ma anche senza voce!

medica dell’IFO ciò che avrei do-vuto subire, infatti la dottoressa simeravigliò e disse ai miei genitori:"Anche la bambina rimane qui?" Io,tutta convinta, risposi: " Sì, non vo-glio che nessuno mi nascondaniente!"

Da quel giorno non volli sentirnominare le parole " tumore" e"chemio". Passò un po' di tempo eci recammo a Bologna per l'inter-vento che avrei dovuto subire alleovaie per la preservazione degliovuli. La dottoressa Ferraresi mispiegò che con la chemio potevonon avere figli in futuro e, per far sìche questo non accadesse, mi sareidovuta sottoporre ad un altro inter-vento all'ospedale Sant Orsola diBologna presso il reparto "pediatriachirurgica". Il 5 febbraio mi sotto-posi all'intervento; dopo neancheuna settimana tornai a Roma percominciare i cicli previsti di che-mio. Dopo aver superato questa du-rissima prova (per me!). Ad aprilemi operarono presso il reparto diOrtopedia Oncologica del ReginaElena. Il venerdì prima il prof. Bia-gini mi comunicò che il giorno del-l'intervento lui non ci sarebbe stato.Io mi preoccupai, ma dopo venni asapere che a operarmi ci sarebbestato tutto il team. L'intervento duròcirca 8 ore, ma io dormii tutto ilgiorno, non mi accorsi proprio diniente. Da quel giorno mi ripromisi di

abbandonare il più in fretta possi-bile le stampelle. Venni chiamataper iniziare i cicli di chemio post-operatori. Furono solamente cinquecicli. Iniziò la scuola, la terzamedia. Mi dovevo mettere sotto astudiare. Arrivò febbraio e io mi sot-toposi alla Tac di controllo.Avemmo i risultati e la dottoressaFerraresi ci disse che dovevo fareuna Pet, giusto per scrupolo per unesame più approfondito. Nel frat-

Roma presso il reparto di OrtopediaOncologica dell'ospedale ReginaElena. Poi avvisai subito alcuni mieiamici, ma chiesi loro di non spar-gere la voce. Finimmo la visita e io,non appena entrata in macchina, mimisi a piangere: mi sentivo piena dirabbia e continuavo a chiedermi,incredula: “Perché è capitato pro-prio a me?” Cercarono di tranquil-lizzarmi, ma io ero troppo in ansiaper la biopsia, era la prima opera-zione a cui presto mi sarei dovutasottoporre. Il 21 gennaio mi ricove-rai in ospedale al Regina Elena e,quella mattina, davanti agli ascen-sori, incontrammo un signore alto,con i baffi e capelli brizzolati che,appena mi vide, disse: " Scommettoche tu vieni da me!" e io dubbiosarisposi: "Non so". Quando ero nella mia stanza

"quell'uomo" entrò e mi disse:"Visto che avevo ragione?" - era ilprofessor Biagini! Egli mi spiegò su-bito alcune cose e mi tranquillizzòdicendomi la verità. Il 24 gennaiofeci la biopsia, dopo cinque giornisapemmo la condanna: avemmo laconferma che si trattava di unosteosarcoma di 2^ grado alla tibiadestra. La dottoressa Ferraresi volleun incontro per spiegare tuttoquello che avrei dovuto affrontare.Non fu facile sentire dall’oncologia

“Mi sento solo inquesto periodo; per

favore, anche sedovrò perdere dinuovi i capelli mistarete accanto?”

I miei amici mi risposero di si

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vece non voglio parlare con Lei, hofirmato il foglio di autorizzazioneall’intervento, non basta??” E inveceno, lui mi spiega che durante l’in-tervento potevo morire o cheavrebbero dovuto amputarmi l’in-tero arto oppure resezionare tutto ilbacino destro. Parole che non ca-pivo o che non volevo capire, masono madre e l’unica domanda chegli porgo è: “ che razza di madreavranno i miei figli?” e lui, pronto,mi risponde: “avranno una madre”!Stranamente questa risposta peròmi convince e così mi affido a Loro(Dio e Prof. Biagini). Ma la sensa-zione è quella di un condannato amorte. In genere si sa quando sinasce ma non quando si muore ecosì per non sbagliare sul calenda-rio del 2001 segno il 15 febbraiocon un grosso punto interrogativo.La mattina presto arriva a pren-dermi in stanza il portantino percondurmi in sala operatoria. Avreidovuto essere agitatissima, inveceinspiegabilmente o forse stanca diprovare l’ansia che mi accompa-gnava oramai da mesi, chiudo gliocchi e mentre l’anestesista mi pre-parava per l’intervento, io mi ab-bandono all’immagine di Cristo chemi prendeva in braccio. Niente,oramai, era più in mio potere.A questo punto dovrebbe conti-

nuare il racconto i prof. Biagini per-ché solo lui sa ciò che è avvenutoin 14 ore di intervento chirurgico!Di certo a detta dei miei parentiesce dalla sala operatoria tutto su-dato, ma comunica loro che era riu-scito ad asportare integralmente iltumore e che questa era una bellanotizia perché il rischio di eventualimetastasi era ridotta al minimo.Resto una settimana in terapia in-tensiva della quale ricordo solo

ironicamente pronuncio: “micaavro’ un tumore!? E invece il loro:“purtroppo si!!!” rimbomba nellamia testa così forte che riesco a ve-dere una sola cosa: la mia fine!! Lapaura e il panico mi fanno correrecome una ragazzina in tutto l’am-bulatorio di radiologia, come se vo-lessi scappare da tutto questo, mamolto presto mi sarei resa conto chestava capitando proprio a me e cheavrei dovuto affrontare l’impensa-bile.Cominciano i primi accertamenti

al S. Eugenio di Roma: TAC, mar-kers, biopsie, scintigrafie e pratica-mente si arriva al 18 dicembre2000. Siamo di fronte a una enormemassa tumorale che parte dall’ossosacro, ingloba il nervo sciatico,spinge l’utero, il retto, si inerpicasulla colonna e i medici del S. Eu-genio si trovano davanti a qualcosaa cui non sono preparati. L’eccel-lenza è l’Ortopedia Oncologica delRizzoli di Bologna. (partire? La-sciare i miei figli? Ma stiamo scher-zando?eppure non c’è scelta vienefissato il ricovero per l’8 gennaio2001). Salendo le scale del Rizzoli

sento pianti di bambini. Il miocuore si stringe e piango, salgo lescale e piango e non so se piangoper loro o per quella giovane donna(io) che è lontana dai suoi figli e chesi sente terribilmente smarrita. Mi ri-coverano e mi parlano del tipo diintervento, assolutamente di tipodemolitivo e che per affrontarlo hobisogno di tante sacche di sangue.Torno a Bologna per l’intervento,fissato il 15 febbraio 2001.La sera prima entra il prof. Bia-

gini nella mia stanza. “Io e lei dob-biamo parlare” mi dice, ma iovigliaccamente non volevo sentireniente. E così gli rispondo: “io in-

lui non guida e in Calabria dovevoarrivarci. Finalmente giungo a desti-nazione, tutto sembra procederetranquillamente, 10 giorni da fa-vola, ma poi si rientra e durante ilviaggio di ritorno la mia gamba co-mincia nuovamente a fare male e dicerto la posizione di guida nonaiuta. Finalmente Roma! Rientro al lavoro ma i dolori au-

mentano e nessun tipo di antidolo-rifico li attenua. Comincio adavvertire anche strani bruciori inzona pelvica. Allora vado dal gine-cologo che in sede di visita si ac-certa che tutto fosse nella norma,tranne il fatto che percepiva unasorta di “indurimento” che spingeval’utero. A questo punto anche il Me-dico di Base si allarma. Prescriveprima una lastra al bacino che nonevidenzia assolutamente nulla, inseguito una Risonanza Magnetica.Quando l’esame finisce, noto losconcerto di medici e tecnici. Unodi loro mi dice che doveva parlarmied io, tentando di darmi coraggio,

Difficile mettere nero su biancola propria storia, c’è anche il rischioche non importi a nessuno ma forsepuò far bene proprio a me. Da dovecomincio? Dal luglio del 1999,quando credevo che la mia vitafosse già, difficile per dover affron-tare una separazione con 3 figli mi-nori, portavo avanti il lavoro e moltii gravosi impegni che comporta lagestione di una casa. Ero stanca, mami ero ripresa la dignità di donnaoltre che di madre e questo era l’im-portante. Con questi bei propositi durante

l’estate del 2000 decido di affron-tare anche un viaggio in Calabria, almare, avevo proprio bisogno dipuntare sulla mia autonomia e dareai miei figli la sensazione che ce lapotevamo fare. E così parto, spingol’acceleratore e parto. Ma durante ilviaggio comincio ad accusare undolore persistente alla gamba de-stra. Tipico di una sciatalgia, ma di-verso. Devo fermarmi spesso perriposare, con me c’è mio fratello ma

˛

Nella vita c’è semprequalcosa da fare!

di Nicoletta Caldarola

L’unica domanda che gli porgo è:

“Che razza di madreavranno i miei figli?”.

E lui, pronto, mirisponde: “avranno

una madre”

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faccio i bagni, prendo il sole, fac-cio la spesa, suono la chitarra,canto, scrivo, cucino .. E fino a quelmomento io, che soffrivo per nonpoter più ballare o fare lunghe pas-seggiate, non poter più andare almare a mostrare il mio corpo per-ché sfigurato dalle tante cicatrici, fi-nalmente capisco che la mia vitaaveva un valore e che la vita stessaoffriva tantissime opportunità. Do-vevo solo porre la mia attenzione suquello che potevo ancora fare, nonsu quello che non potevo più fare!Ed era vero!! Nel 2006 scopro che esiste a

Roma un’Accademia che offre per-corsi artistici così mi iscrivo ad unprovino per un corso di doppiaggioe lo passo, esperienza meravigliosae in seguito comincio anche uncorso teatrale e mi ritrovo all’Olim-pico di Roma davanti ad una plateacolma di gente e recito con un de-siderio di essere al mondo e conuna felicità che forse non avevo maiconosciuto prima! E infine non mifaccio mancare neppure un corsocome speaker radiofonico. Nonsono diventata né doppiatrice, néattrice e neppure speaker radiofo-nico, ma ho scoperto che se non seitu a compiangerti neanche gli altrilo fanno. Non è questione di disa-bilità, è questione di carattere, dipensieri positivi, di atteggiamentialla vita che è unica e merita di es-sere vissuta!!Questi anni definiti di recupero

sono stati intervallati da ulteriori in-terventi chirurgici di pulizie, tiroi-dectomia e isterectomia, ma oramaisono diventata un’ospite gradita delRegina Elena di Roma, dove poi ilmio “amato” Biagini dirige dal 2005il Reparto di Ortopedia Oncologica. A distanza di 13 anni dall’esor-

dio della malattia, ho sentito il fortebisogno di raccontarmi e trasmet-tere, testimoniando, il messaggioforte e chiaro che periodi di malat-tia e di “calvario” sono passeggeririspetto ad una vita che può e deveessere vissuta e della quale soltantonoi possiamo essere gli artefici.Ecco perché per ogni attimo di vita,sia bello che brutto, vissuto dal quel15 febbraio 2001 fino ad oggi, mi èdavvero impossibile non poter rin-graziare il Prof. Biagini, e non sol-tanto perché da ottimo chirurgo miha salvato la vita, ma per come loha fatto; di certo non posso nonpoter ringraziare Dio, che è statocomplice di Biagini, gli amici(quelli veri, quelli che non sonoscappati dopo la malattia), gli infer-mieri, i fisioterapisti che si sono de-dicati professionalità; ringrazio tutticoloro che con parole, opere o mis-sioni hanno avuto e che hanno an-cora un ruolo importante nel miocuore e nella mia vita e, non per ul-timo, ringrazio la mia famiglia!Senza il supporto pratico e affettivodella mia famiglia, mi sarebbe statoimpossibile quasi tutto.E’ dura, sono consapevole che

affrontare questa malattia non è unoscherzo, ma essere in una brutta pa-rentesi non sempre signi-fica la parola fine! Io oralo so, e anche se puòsembrare assurdo, a voltela malattia rappresentauna nuova opportunità eche opportunità!

Nicoletta

tore per la gamba e catetere (per ilquale Luca, il più piccolo, che al-lora aveva 2 anni nutriva un pro-fondo timore) sarebbe statodevastante! Cosa gli era rimastodella propria madre? Cosa.. diquella donna forte e combattiva?Non osavo immaginare i loro pen-sieri, perché intuivo che la sensa-zione di smarrimento sarebbe stataatroce! Ma questo mi diede forza.Ricordandomi le parole di Biaginiprima dell’intervento (“avranno unamadre”) io volevo a tutti i costi ri-dargli, anche se in maniera diversa,una madre fortissima. A luglio devo tornare al Rizzoli

di Bologna perché la ferita si rein-fetta. Altro mese di ricovero, altre 2pulizie chirurgiche e poi di nuovo aRoma sperando di potermi dedicarealla riabilitazione. Ma così non fuperché dopo 9 mesi, proprioquando devo iniziare il primo trat-tamento riabilitativo all´IstitutoSanta Lucia, l’infezione riappare.Torno per l’ennesima volta a Bolo-gna dove non affronto solo un in-tervento di pulizia chirurgica, maanche la rimozione di un mezzo disintesi che nel frattempo si era rotto. Quando rientro a Roma posso fi-

nalmente dedicarmi al recupero.Comincio riabilitazione al SantaLucia, piscina e palestra tutti i giornie dopo un anno “corro” con lestampelle, ricomincio a guidare, ri-torno al lavoro, riprendo in mano lamia difficile vita ma tutto ha unsenso!! Assisto alla comunione dimio figlio Andrea, assisto al matri-monio di mio figlio Stefano, diventononna, assisto alle recite di asilo delpiù piccolo Luca, vado al mare,

il mio avvicinare la mano allagamba destra e gioire nello scoprireche ancora c’era. Rientro in salaoperatoria il 23 febbraio per la rico-struzione ossea (si fa per dire: inne-sti ossei e in titanio.. viti a nonfinire). Altre dieci ore di interventochirurgico e un’altra settimana diterapia intensiva. Rientro in reparto, completa-

mente allettata, impossibilitata amuovermi, impossibilitata a farequalsiasi cosa. Per riassumere tuttociò che provavo a livello fisico edemotivo mi viene in mente il titolodi un libro: “Se questo è un uomo”di Primo Levi, ma è sorprendente lacapacità di noi umani di adattarcialle svariate situazioni, per cui unavolta capito che ero viva e che lagamba ancora c’era, nella mia testac’era solo il desiderio di ricomin-ciare. Ma finisce qui? Assoluta-mente no! Tre mesi di ricovero incui una volta a settimana ero ripor-tata in sala operatoria per puliziechirurgiche della ferita a livello pro-fondo per evitare che le protesi siinfettassero e dovessero essere ri-mosse. Tre mesi di ricovero in cuinon ci fu solo dolore. Ho pianto,riso, socializzato, vissuto rapportiumani che lasciano il segno. Cosí quando il 13 maggio il

prof. Biagini mi consentí di rientrarea casa per un po’, tornare mi facevapaura. Paura di non avere più i puntidi riferimento dell’ospedale, pauradi non saper affrontare la mia vita:quale?? C’era solo il desiderio diriabbracciare forte forte i miei figli,ma non avevo calcolato che perloro, rivedere la propria madre incarrozzina, con un busto rigido, tu-

Tre mesi diricovero in cui nonci fu solo dolore.Ho pianto, riso,socializzato,vissuto rapportiumani chelasciano il segno

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frequentazione notturna del bagno,ecco spiegato il dolore.Prima di capire, però, che cosa

sia quella massa passano un paio dimesi. Consulto decine tra radiologi,chirurghi, ortopedici e chi più ne hapiù ne metta. La maggior parte diloro mi parla di microfrattura, bor-site, strappo muscolare. Basta bucarequella massa o rimuoverla chirurgi-camente e la situazione è risolta. Perfortuna, tra i tanti medici consultati,uno di questi è il prof. Biagini, pur-troppo solo l’ultimo! Non appenavede le immagini mi prospetta lapossibilità che si tratti di un condro-sarcoma, ma per averne la certezzabisogna eseguire una PET ed unabiopsia ossea.Il giorno in cui mi arrivano i risul-

tati della biopsia mi immagino laSfiga come una vecchia fattucchierache si rimbocca le maniche, sispreme le meningi e si concentra almassimo su di me, tanto che il mioprimo pensiero è stato: in un’altravita devo aver fatto qualcosa dimale. In rapida sequenza accadeche: io e mia moglie buchiamo unaruota, torniamo a casa e mio figlioinciampando sbatte la testa su unospigolo, si alza ed è una maschera disangue, la caldaia si rompe. Ah di-menticavo: la biopsia dice che ho uncondrosarcoma di grado 3!Non so descrivere la miriade di

pensieri e sensazioni che per giornimi sono passati per la testa. La cosache ricordo è che non riuscivo a fer-mare il cervello, era un fiume inpiena. Ovviamente nei giorni suc-cessivi torno dal Prof. Biagini emolto onestamente mi prospettal’amputazione della gamba destracome soluzione più sicura, vistaanche la mia giovane età… giova-nissima direi: ho 33 anni e ne

leggerezza, ma questa volta non cela faccio proprio a non prenderli.Vista la situazione, decido di rivol-germi ad un ortopedico che dopoaver ascoltato il mio racconto e dopoavermi visitato, mi diagnostica unapubalgia. Per un paio di mesi vadoda un mio amico fisioterapista unavolta a settimana, faccio laser e mas-saggi ma il dolore non ha proprio in-tenzione di andarsene. Comincio anon riuscire più neanche a stare se-duto in macchina e ogni dieci mi-nuti, mi trovo costretto a scendere,farmi una passeggiata e risalire: stobene solo in piedi.Le notti insonni cominciano ad

essere tante e passo un’estate tragiorni in cui riesco a sopportare ildolore e giorni in cui proprio non cela faccio. La notte dormo pochissimoe la passo camminando avanti e in-dietro per ore, alzandomi ogni dueore per andare in bagno, cambiareposizione e fare anche due o tre co-lazioni per notte: così, tanto per pas-sare il tempo.Finalmente, dopo quasi cinque

mesi, l’ortopedico decide di farmifare una risonanza magnetica. An-cora ho in mente il momento in cuiil medico dal microfono mi dice:“Hai fatto pipì prima di venire? Haila vescica pienissima…. Ah noaspetta… non è la vescica…” e lacomunicazione si interrompe. Sdra-iato per un’altra mezzoretta, ovvia-mente non do peso a quelle parole,anche perché non ce la faccio più astare sdraiato, tremo e sudo, mastringo i denti. Il radiologo mi mostrale immagini: ho una palla di 11 cmdi diametro che parte dalla testa delfemore e va a comprimere la mia ve-scica, ridotta ad uno spicchio diluna. Ecco spiegata la mia assidua

˛

Il mio racconto comincia con lapartita di calcetto del lunedì: appun-tamento fisso al campo, sempre lostesso da anni, con colleghi edamici. Manca poco alla fine dellapartita e, dopo un banale movimentoper calciare il pallone, sento una fittafortissima all’inguine. Mi sdraio aterra e penso a uno stiramento, almassimo a uno strappo muscolare.Pochi minuti e mi rialzo. Ho ancoraun po’ di fastidio e decido di met-termi in porta per evitare di peggio-rare la situazione. Quella sera, acasa, una volta sdraiato nel letto,passo la prima di tante notti insonni.Neanche ci penso a consultare

un ortopedico. Un paio di settimane

di riposo e si ritorna in campo. Que-sta volta però, la fitta all’inguine lasento quasi subito, già nel blando ri-scaldamento che di solito faccio cin-que minuti prima di iniziare lapartita. Mi basta velocizzare un po’la corsa e… tac… ecco di nuovo lafitta. Il primo pensiero, condiviso datutti i presenti con un sorriso è: “Nonc’abbiamo più l’età. A vent’anni ti fa-cevi male e dopo un giorno eri giàguarito. Ora i tempi di recuperosono più lunghi!” E con questa spe-ranza, anche questa volta, passo lamia bella oretta giocando in porta.Il dolore, però, nei giorni succes-

sivi non passa e a poco servono glianti-infiammatori che ogni tantoprendo. Cerco di non abusarne: nonho mai amato chi usa i farmaci con

Ho una gambabellissimadi Marco Corazza Ora io e la mia

protesi siamodiventati

ottimi amici

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nipotino che porta il mio nome, glisguardi sempre sorridenti degli infer-mieri e dei fisioterapisti e tantissimialtri momenti e volti che non scor-derò mai. Tutto ciò ha alimentato inme la forza per poter andare avanti.Non dimenticherò mai mia madreche mi sussurra in un orecchio: “Cel’ho fatta io, ce la farai anche tu!” Omio fratello che la sera prima del-l’intervento mi dice: “Prima di ad-dormentarti pensa a qualcosa dibello”. E così ho fatto; ho chiuso gliocchi e avevo davanti a me l’imma-gine nitida di mio figlio e di mia mo-glie che mi sorridevano: non avreimai potuto fallire. Da quel primogiorno in cui mi sono rimesso inpiedi ad oggi, ho visto in me pro-gressi, anche piccoli, ma costanti.Ho ripreso a fare tutto quello che hosempre fatto, certo con fatica, maanche con molta più soddisfazione.Sono tornato al mio lavoro, ho ri-preso ad allenare la mia squadra dibaseball con cui proprio l’anno delmio ritorno ho vinto la coppa Italia(sono anche stato sele-zionato per allenarel’All Star Game ovverouna squadra formata daimigliori giocatori del-l’anno) e soprattutto migodo mio figlio, lo portoogni mattina all’asilo, cigioco e mi prendo curadi lui…. Insomma fac-cio il papà! E poi, ve lo assicuro,

da quando ho una gamba sola, mi ri-trovo spesso a guardarmela come unfesso, ogni tanto me la accarezzoanche, non ne posso fare a meno.Non è colpa mia se è sempre piùmuscolosa e tonica: eh già! Ho pro-prio una gamba bellissima!

Marco

So che potrà sembrare stupido edesagerato, ma in quel momento misono sentito felice come un bambinodavanti al gelato. Uscire dalla pale-stra per me ha significato lasciarmialle spalle una bella fetta di passato,fatto di ospedali, letti e barelle e tor-nare nel mondo reale e in tutto ciòche mi aspettava. Passo la notte pen-sando a tutti i movimenti che mihanno insegnato i fisioterapisti e meli ripetevo in testa decine di volteperché l’indomani non potevo sba-gliare.Ovviamente il giorno dopo tutto

va alla grande. Passo dopo passo econ un sorriso da ebete mi aggiroper ore nei corridoi del centro pro-tesi. Nei giorni successivi diventosempre più bravo. Trovo anche iltempo di cimentarmi con Lucia, unaragazza arrivata il mio stesso giorno,in una goffa ma alquanto divertentegara di velocità. Ora io e la mia pro-tesi siamo ottimi amici e dopo circaun mese lascio il centro protesi etorno a casa. Per circa tre mesi misono aiutato con due stampelle percamminare, poi con una soltanto e,dopo meno di un anno, le ho ab-bandonate del tutto.Nonostante questa sia stata

un’esperienza che ha sconvolto lamia vita, dico a tutti che è stata co-munque una bella esperienza. Credofermamente che il motore della no-stra vita siano le emozioni, belle obrutte che siano. E’ vero, il dolore ealcuni momenti sono stati davverodifficili, ma sono decisamente di piùle cose positive che in questo stranocammino ho trovato. L’amore smisu-rato per mia moglie e per mio figlio,l’affetto della mia famiglia e dei mieiamici, il supporto silenzioso ma pre-sente dei miei colleghi di lavoro, un

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Ho ripreso a faretutto quello che hosempre fatto, certocon fatica, ma anchecon molta più soddisfazione

unico pensiero è stare bene e la-sciare quel maledetto letto.Subito dopo l’operazione, ap-

pena i medici mi danno l’ok, mimetto in piedi e dopo due settimanesono di nuovo, finalmente a casa.Peso 41 chili e la gamba “buona” haperso molto tono muscolare, ma nonmi do per vinto e comincio a muo-vermi e camminare in ogni modo econ ogni mezzo possibile. La sediaa rotelle non mi piace e la primavolta che la prendo per uscire, dopopochi metri, scendendo da un mar-ciapiede si ribalta e il risultato è unbel taglio in testa e tanta rabbia chemi fa pensare: “Qui devo sbrigarmi:carrozzina io ti lascio appenaposso!” E così è stato. Inizialmente,non avendo molta forza e non riu-scendo a camminare con le stam-pelle, cammino aggrappandomi aimobili e ad ogni possibile spigolo osporgenza delle pareti, saltellando ofacendo scivolare il piede pianopiano, alternando prima il tacco epoi la punta.La voglia di tornare alla normalità

è tanta e prima divento un fulminecon le stampelle, poi metto la protesipresso il Centro Protesi di Vigorso diBudrio. Il primo impatto con la mianuova gamba non è dei migliori eguardandola provo uno strano sensodi rifiuto: mi sembra troppo grande etroppo ingombrante. Pian piano peròimparo a conviverci: ad“indossarla”,a piegarla, a calzare la scarpa e ov-viamente anche a camminarci. Iprimi passi li faccio in palestra all’in-terno delle parallele e mi godo il fattodi avere finalmente le mani liberedalle stampelle. Poi un giorno Or-nella, la fisioterapista che mi segue,mi dice: “Domani andiamo a farciuna passeggiata per i corridoi, bastapalestra.”

dimostro 20, modestamente! Mi diceanche, molto onestamente, che es-sendo la mia una patologia partico-lare, ci sono soltanto altri due centriin Italia in grado di trattarla: l’ospe-dale Careggi a Firenze e il Rizzoli aBologna. Ricordo ancora come cisiamo salutati: “Mi raccomando:Roma, Firenze o Bologna: non fartitoccare da nessun altro!”.Alla fine decido di operarmi a Fi-

renze, anche perché mi prospettanola possibilità di un grosso interventoche però potrebbe evitare l’amputa-zione e salvarmi la gamba a parità dirischio oncologico. Ricordo benis-simo la sera prima dell’intervento.Ero solo in stanza e come uno scemoogni tanto, a fatica mi facevo unacorsetta di pochi metri pensando:“Dai, me ne faccio ancora una, datoche chissà per quanto tempo nonpotrò più correre dopo l’operazione,anzi chissà se potrò mai più correre?Io che sono sempre stato una scheg-gia. Il più veloce della classe, masolo alle elementari, lo ammetto!”L’intervento dura circa 13 ore, ma

ne esco vivo e con due gambe. Passodue mesi completamente immobilea letto, con lo “stupor del nervo scia-tico” (un deficit transitorio nell’ele-vazione del piede) e tanta tantavoglia di farmi una doccia. Pianpiano comincio a rialzarmi, prima incarrozzina, poi finalmente in piedi.Dopo circa 5 mesi uno strano

gonfiore sulla coscia fa scattare dinuovo il campanello d’allarme e dinuovo TAC, RMN, biopsie e dinuovo quella maledetta parola: con-drosarcoma. A questo punto nonresta che fare l’amputazione.Affronto la cosa con molta sere-

nità. Non vedo l’ora di liberarmi diquesto ospite indesiderato ed il mio

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dell’incontro con l’oncologa la dot-toressa Nuzzo iniziai a piangereperché non volevo perdere i capelli.Infatti il giorno dopo, appena la in-contrai, la prima cosa che le chiesifu dei capelli e lei mi confermò chemi sarebbero caduti, aggiungendoche prima dell’intervento avrei do-vuto fare quattro cicli di chemiote-rapia e altri anche dopo. Lei, però,mi disse che la caduta dei capellisarebbe stato il problema minore,anche se per me, in quel momento,era la cosa più preoccupante.Ero molto ansiosa perché stavo

iniziando un percorso nuovo dellamia vita e non sapevo a che cosaandassi incontro. Le voci che mi ar-rivavano erano tutte negative: chesarei stata malissimo e che non sareiriuscita a fare nulla! Invece non èstato così: sono stata solo un po'male alla prima chemio, ma dopodue giorni stavo bene. Tutte le altretre chemio non mi hanno fattomale, sono stata sempre bene e nonmi sono privata mai di niente; hocontinuato a fare le stesse cose disempre, sono riuscita a superareanche il problema dei capelli conserenità, capendo che, come miavevano detto, era il problema mi-nore. Devo dire che di grande aiuto mi

sono stati, oltre ai dottori, anche gliinfermieri del reparto di oncologia,che tuttora mi fanno sentire a mioagio e sono molto affettuosi, ognivolta che ho dei periodi di ricovero.Uno dei momenti più difficili, chericordo benissimo è stato l’in-

portarmi subito dal Prof. Biaginipresso l’ospedale IFO di Roma. Quel giorno io ero a scuola, im-

provvisamente sono arrivati i mieigenitori per andare in ospedale afare la visita. A quel punto ho ca-pito che c’era qualcosa di strano eho iniziato a preoccuparmi, cosache fino a quel momento non avevofatto, perché anche io, sul problemadella mia caviglia, ero stata sempremolto superficiale. Arrivati all’IFO, mi visitarono fu-

rono il Dottor Favale e la DottoressaRossi, i quali non mi prescrisserosubito la PET e la Risonanza Ma-gnetica con contrasto. In quel mo-mento fui presa da una grandepaura e pensai di avere un tumore,però, questo pensiero durò poco, lorimossi subito.Il 9 dicembre feci la PET e nel

pomeriggio arrivò una telefonatadall’ospedale comunicandoci cheProf. Biagini mi voleva incontrare,così andammo nel reparto di orto-pedia. Ero un po’ preoccupata e an-siosa, ma mai avrei pensato diavere la conferma di un tumore. Diquel giorno la cosa che non dimen-tico sono le parole del ProfessorBiagini: “ Al 95% è tumore” - e poi- “ Ho la sensazione che in un fu-turo breve noi ci rincontreremo”. Quei giorni ho avuto l'impres-

sione che il mondo mi stesse crol-lando addosso e non riuscivo acapire più niente: non ci volevo cre-dere; non sapevo che cosa pensarene' a cosa sarei andata incontro. Ilmio primo pensiero furono i capellie la paura che non sarei più guarita.Poi arrivò l’esito della biopsia: “Sar-coma DI Ewing extraosseo”. Ri-cordo che la sera prima

quindi ho fatto altri controlli, riso-nanze, ecografie ma nulla, tutti con-tinuavano a dire che si era formatoun ematoma e ci voleva del tempoper guarire. Dopo nove mesi, graziea mia madre, che ogni volta conti-nuava a ripetere al dottore che nonera possibile che una caviglia fosseil doppio dell’altra, mi hanno fattofare di nuovo altri controlli e da lì èiniziato il caos. La nuova risonanza messa a con-

fronto con quella vecchia eviden-ziava che la massa (per loro"ematoma") era aumentata più deldoppio; quindi chiamarono subito imiei genitori e consigliarono loro di

Ciao sono Giada, ho 16 anni e viracconto la mia storia. Era una mat-tina di febbraio del 2013, mi sonosvegliata con un gran dolore alla ca-viglia destra, che era anche moltogonfia; allora con i miei genitorisono andata al pronto soccorso diPomezia. Lì i dottori mi hannodetto che era una distorsione, anchese io avevo ripetuto più volte chenon avevo preso nessuna storta onulla di simile; comunque mihanno ingessato la caviglia per unasettimana e poi messo a riposo peraltri quindici giorni. La mia caviglia,però, era sempre gonfia, anzi il gon-fiore aumentava sempre di più e

Perchè sorrido? Ho un futuro che mi aspetta

di Giada Pennazzi

˛

Uscita dallo studiodel prof. Biaginiiniziai a piangere,disperata perchéavevo paura. Il giornodopo, però, ero dinuovo carica epronta ad affrontarela mia battaglia

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ed è proprio quel motivo che devespingerti ad andare avanti. Per me èstata di grande aiuto innanzitutto lamia famiglia e in particolar modomia madre e mia sorella, alle qualidevo molto. Ma hanno contatomolto anche la voglia di voler fareancora tante cose nella vita, e poigli amici, quelli veri, che non mihanno mai lasciata sola. Io non hopermesso a questa brutta malattia divincere, anche se avevo tanta pauraho lottato con tutte le mie forze,sempre con il sorriso sulle labbra euna gran pace nel cuore, quasi in-naturale, ma della quale il Si-

Certe realtà sono così distanti danoi tanto da non riuscire a com-prenderle, forse neanche a immagi-narle, ma sono più vicine di quantonoi possiamo credere. Riusciamo arendercene conto solo quando citoccano davvero da vicino, solo al-lora sappiamo guardare il mondointorno a noi con occhi diversi escoprire ciò che ci circonda. Nelmio percorso nella malattia ho ca-pito che parlare e confrontarsi conaltre persone che hanno seguito iltuo stesso cammino, è di grandeaiuto e conforto e se io posso es-serlo per te, mi fa molto piacere.Prima di iniziare ti voglio invitare aricordare sempre quanto sia bella latua vita, pur con tutte le sue diffi-coltà, non dimenticare mai diamarla perché ci sarà sempre unmotivo per il quale bisogna viverla

Che abbia senso o no trova un motivo per amare la vita

di Maria Granada

razione, fissata per il 6 maggio2014. Il giorno prima dell’inter-vento avevo paura che qualcosa an-dasse storto, che ci potessero esseredelle complicazioni durante l’inter-vento; fortunatamente è andatotutto bene, l’operazione è duratacirca 12 ore e quando mi sono sve-gliata la prima cosa che ho fatto èstata vedere il mio piede e in quelmomento mi sono tranquillizzata. Sono stata ricoverata 41 giorni

perché ho dovuto fare un altro pic-colo intervento in quanto una partedella ferita è andata in necrosi e tut-t’ora sto combattendo con problemidi cicatrizzazione. Devo dire che ladegenza nel reparto ortopedia,anche se è stata lunga, non mi è pe-sata per niente: sono sempre statacoccolata da infermieri, medici eperfino dal personale delle pulizie. Ora ho iniziato di nuovo le che-

mio e devo fare altri 9 cicli e ilprimo lo sto facendo proprio adesso,mentre scrivo la mia storia. Ancoraho 8 chemio che mi aspettano, lariabilitazione per portare il miopiede a 90 gradi e per poter rico-minciare a camminare, però, in tuttoquesto mio percorso, una cosa chenon ho mai smesso e non smetteròmai di fare è di sorridere, perché houn futuro che mi aspetta. Questa èun’esperienza che mi ha reso piùgrande e sicura di me, grazie anchealla forza che mi hanno dato i mieigenitori, che sono stati sempre pre-senti: noi abbiamo affrontato tuttoinsieme fin dal primo giorno.A voi, che state leggendo, voglio

dire che non bisogna abbattersi masi deve reagire e affrontare tutto atesta alta e soprattutto con il Sorriso!

Giada

contro con il Prof. Biagini, tra la se-conda e la terza chemio, quando miparlò dell’intervento, argomentoche fino all’ora avevo sottovalutato.Il professore mi disse che non avreicamminato più come prima e chenell’intervento lui mi avrebbe do-vuto togliere anche parte della tibiae del perone. Tutto mi sembrò as-surdo perché il mio era un sarcomaextraosseo, cosa centravano oratibia e perone? Il Professore mispiegò che il tumore era attaccatoall’osso e quindi bisognava toglierela parte che era a contatto con il tu-more. Quando mi disse così non mivolevo più operare perché provavomolta paura, però dopo due minutimi convinse subito che l’operazioneera indispensabile. Uscita dallo studio del prof. Bia-

gini iniziai a piangere, disperataperché avevo paura. Il giorno dopo,però, ero di nuovo carica e prontaad affrontare la mia battaglia, anchese da quel momento ho iniziato atemere l’intervento e il mio pensieroera concentrato lì. Ecco ci siamo. Il 3 maggio 2014

sono stata ricoverata per fare l’ope-

˛

Con la malattiaè come se io

avessi messo inpausa la miavita di tutti igiorni e ne

avessi iniziatauna nuova, in un

luogo diverso e con tanti nuovi amici.

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purtroppo noi dobbiamo passaremolto tempo insieme ma primadobbiamo dare un nome e un co-gnome a questo inquilino”. Io ri-masi attonita, ma le parole del profcominciarono a risuonare nella miatesta così capii di essere nel postogiusto e da quel momento in poi ri-posi un’immensa fiducia e stima inquell’uomo al quale so di doveremolto. Naturalmente sono grata atutta l’equipe di medici che con luicollaborano, tutti si sono sempreprodigati per farmi superare al me-glio la malattia e per farmi guarireprontamente in modo da poter ri-tornare al più presto ai miei affettipiù cari. Fu il dott. Zoccali a eseguire la

biopsia e a riferirmi l’esito del-l’esame, si trattava di un “osteosar-coma condroblastico di grado 3”che aveva colpito l’emibacino sini-stro, dovevamo intervenire subitocon la chemioterapia, il tumoreaveva un diametro di circa 15 cm.Ero nella mia stanza quando venne,si sedette di fronte a me e disse cosaavrei dovuto fare ed io inevitabil-mente cominciai a piangere. Sonoconvinta che piangere faccia bene,è un modo per sfogarsi ma dopo èimportante asciugare le lacrime ecominciare la battaglia. Io ho sem-pre voluto sapere tutto sia dagli or-topedici che dall’oncologa, nonvolevo che nulla mi fosse nascosto,io dovevo sapere quale sarebbestato il percorso che avrei dovutoseguire con tutto ciò che avrebbecomportato. Credo che sia impor-tante sapere perché se sai cosa tiaspetta saprai anche come affron-tarlo.Ricordo che il giorno del mio

primo ricovero per iniziare la che-mio nel reparto di oncologia, prima

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gnore mi ha voluto fare dono. Cisono stati dei momenti in cui inevi-tabilmente crollavo, ero stanca mami dicevo che dovevo stringere identi e continuare a lottare per mema soprattutto per la mia famiglia,ero io a fare coraggio a loro.Fatta questa premessa, posso co-

minciare a raccontarti la mia storia.Mi chiamo Maria e oggi ho 25 anni,ma quando tutto è cominciato neavevo 21. Ho avvertito i primi do-lori alla gamba sinistra, inizialmenteerano solo dei fastidi ma con il pas-sare del tempo il dolore cominciavaa essere insopportabile. Durante ilgiorno riuscivo a tollerarlo, ma lanotte assolutamente no, era diven-tata un incubo, non riuscivo più adormire. L’ortopedico che mi presein cura sbagliò la diagnosi, mi cu-rava per una lombosciatalgia e cosìquando finalmente arrivai dal prof.Biagini era passato ormai troppotempo: se fossi arrivata prima pro-babilmente la mia storia sarebbestata diversa. Ho un ricordo perfet-tamente nitido dei giorni e deglieventi precedenti al mio ricovero.Quanta tensione nell’aspettare il re-ferto della risonanza, che sembravanon arrivare mai. Fu mia madre chelo andò a ritirare ed io rimasi adaspettarla a casa con mia sorella econ i parenti, ma non appena vidiche tardava a tornare capì che qual-cosa non andava. Forse, inconscia-mente, già avevo capito da qualchetempo ma in quel momento quellapossibilità si stava concretizzandoed io piangevo, avevo paura di nonriuscire a lottare, avevo paura di la-

sciare la mia famiglia, però ricordocon immenso affetto mio cuginoche si sedette accanto a me, miprese la mano e mi abbracciò. Nelreferto della risonanza indicavanola presenza di una massa e m’invi-tavano a fare una biopsia. Non sa-pevamo dove andare, a chirivolgerci e in quei momenti non seineanche così lucido da poter pren-dere una decisione. Abbiamo chie-sto aiuto a un amico di famiglia,medico, il quale mi ha consigliatodi rivolgermi al prof Biagini. Io abitoin Sicilia e così assieme a miamadre e mia zia siamo partite perRoma. La mattina prima della miapartenza, dopo una nottata insonne,ero terribilmente confusa, stavo lìnella mia camera a guardare miasorella e le mie cugine che corre-vano da una parte all’altra per pre-parare i bagagli ed io non riuscivoa fare niente. Il primo ricovero nelreparto di ortopedia oncologica del-l’ospedale Regina Elena avvenne l’8giugno 2011. Quella mattina avevoun appuntamento con il primario.Appena entrata in reparto vidi nelcorridoio un infermiere che parlavacon un signore alto dai foti baffi. Ionon potevo sapere che proprio quelsignore era il prof. Biagini e così mirivolsi all’infermiere e gli chiesidove avrei potuto trovare il prima-rio, subito il prof mi rispose “Ec-comi, ti stavo aspettando! Guardòla mia risonanza, mi prese sottobraccio e mentre mi accompagnavadagli infermieri per farmi ricoveraremi disse “Spero di farti simpatia,

di varcare la soglia, guardai la portad’ingresso del reparto e provai unagrandissima paura, un senso divuoto e solitudine. Però mi conso-lava sapere che lì ad aspettarmic’era Valentina, avevamo comin-ciato insieme il nostro percorso,prima in ortopedia e poi in oncolo-gia. Quando sei in ospedale iltempo non passa mai e hai bisognodi occupare tutti i momenti che haia disposizione. Con Valentina face-vamo progetti sulle vacanze cheavremmo fatto non appena guarite,ci sfidavamo con la settimana enig-mistica, scherzavamo, quando erapossibile, nel cortile dell’ospedalefacevamo anche le gare con la car-rozzina e soprattutto riuscivamo acomprenderci e ad aiutarci nei mo-menti più difficili. Valentina è sem-pre con me ed io custodisco ilricordo dei momenti passati in-sieme nel mio cuore. Con la malat-tia è come se io avessi messo in ˛

Con la malattia è come se io avessi messo in pausa la mia vita di tutti i giorni e ne avessi iniziata una nuova, in un luogo diverso e con tanti nuovi amici

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varmi, le giornate erano tutte ugualie sempre monotone, e senza il so-stegno di tutti gli amici conosciutiin questo “viaggio” sarebbe statoancora più difficile. Ci sono moltianeddoti che mi ricordano quel pe-riodo, piccoli gesti che possonosembrare inutili, banali, ma che tifanno capire quanto si è amati epensati e ti danno lo stimolo percontinuare a lottare.Quando finalmente tornai a

casa, era l’agosto del 2012 maprima di raggiungere questo tra-guardo ho faticato. Già da un po’chiedevo insistentemente a Biaginidi mandarmi a casa e il prof avevacompreso la mia stanchezza, maera preoccupato per gli attacchi feb-brili che ancora avevo, anche se eraconvinto che l’aria di casa avrebbesolamente giovato alla mia salute.Dopo aver fatto svariate indagini,un giorno abbiamo stretto un patto:se la TAC che avrei fatto nei giorni aseguire fosse stata negativa e seavessi trovato un valido chirurgoche mi avrebbe seguito una voltarientrata a casa sarei stata dimessa.Feci la TAC nel fine settimana. Lu-nedì mattina aspettavo con ansial’arrivo del prof, anche se già i me-dici mi avevano avvisato che la TACera negativa. Quando Biagini entrònella mia stanza, io ero nel mioletto e guardavo fuori dalla finestra,non appena senti la porta aprirsi eil tintinnio dell’enorme mazzo dichiavi del prof, mi girai e lo guardaisorridendo e lui mi disse “Mariaperché ridi?” ed io molto semplice-mente gli risposi “Perché lei mi

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manda a casa?!” e mentre uscivadalla stanza, mi disse “…ti mando,ti mando…”. Solo sentendo quelleparole ero felicissima, una gioia im-mensa, io mia sorella e mamma cisiamo abbracciate, non vedevol’ora di tornare a casa, subito pre-notammo il biglietto e il giornodopo partimmo. Ero così felice ditornare a casa ma avevo anchepaura: se fossi stata male, se la feb-bre si fosse alzata, a chi avrei chie-sto aiuto? Dopo tutti quei mesipassati in ospedale, solo lì mi sen-tivo al sicuro perché sapevo che aqualunque ora del giorno o dellanotte, c’era sempre qualcunopronto ad aiutarmi. Solo dopo chesono tornata a casa, pian piano,anche la febbre è andata via e la fe-rita si è chiusa. Ma la mia avventuranon era ancora finita! In una TAC dicontrollo mi fu diagnosticata unametastasi polmonare, così a no-vembre fui ricoverata e nuovamenteoperata e poi seguirono altri cinquecicli di chemioterapia. Subito dopo l’ultimo ciclo di

chemioterapia sono partire per Bu-drio, per la mia prima protesi. Noncredo dimenticherò mai il momentoin cui ho cominciato a fare i mieiprimi goffi passi con la protesi, fuoridalle parallele. La sensazione di tor-nare di nuovo a camminare dopomolto tempo è qualcosa d’indescri-vibile, è emozionante e in quei mo-menti sei assalita da sentimenticontrastanti, la paura di un’even-tuale caduta ma anche e soprattuttotanta gioia. Dobbiamo darci iltempo di imparare a convivere ˛

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possibilità” di dover amputare lagamba. Il prof capì subito quelloche volevo chiedergli e non mi feceneanche completare la frase, senzaguardarmi in faccia mentre uscivadalla stanza, con la voce un po’strozzata, mi disse “…si…”. Nean-che il prof in quel momento riuscivaa parlarmi, andò via, mi lasciò iltempo di digerire la notizia e solodopo qualche giorno ne parlammoinsieme. Per me avere quella con-ferma fu devastante, cominciai apiangere e non sapevo come fer-marmi, avevo paura, pensavo a tuttoquello che non avrei più potuto faree non riuscivo ad accettarlo, nonriuscivo ad accettare la vita senza lamia gamba.Ho subito due grandi interventi,

molto lunghi e invasivi, più altrisette di pulizia delle ferite, il mio ri-covero in ortopedia è durato ottolunghi e interminabili mesi. La seraprecedente al mio primo interventoBiagini mi chiamò nel suo studio mispiegò cosa avrebbero dovuto faree le possibilità di riuscita. Quellanotte non chiusi occhio, avevopaura di non riuscire a superarequell’intervento e di perdere tutto.Io mi sono completamente affidataal Signore, Lui mi ha dato una granpace del cuore, riuscivo a percepirela Sua presenza e anche se avevo ti-more, inconsciamente sapevo chetutto sarebbe andato bene. Ottomesi lontano dalla famiglia, semprechiusa in una stanza e sempre aletto, sono duri e difficili. Miamadre era sempre accanto a me emia sorella veniva spesso a tro-

pausa la mia vita di tutti i giorni ene avessi iniziata una nuova, in unluogo diverso e con tanti nuoviamici. A questi amici sono legati iricordi più belli di quel periodo,anche se può sembrare paradossale,insieme non si faceva nulla di parti-colare, però era straordinario comesi riuscisse a stare insieme, chiac-chierare, scherzare e a volte dimen-ticarsi anche il motivo per cuieravamo lì. Sono nate delle grandiamicizie che resteranno nel tempo,anche se ci separano chilometri, senon ci si sente spesso, ma quandoci incontriamo o sentiamo è sempreuna gioia. Al termine di ogni ciclo però si

ritornava a casa da mia sorella, daimiei affetti…era un continuo viavai:andavo a Roma per fare la chemio epoi tornavo di nuovo a casa, doverestavo per circa 15 giorni e poi dinuovo in ospedale. Il programmadel prof Biagini e della dottoressaFerraresi era di farmi completareprima tutti i cicli di chemioterapia.Ma così non è stato. Ho fatto solo 8cicli di chemio e a dicembre 2011,dopo aver ripetuto i controlli di rou-tine e dopo aver visto che la malat-tia si era di nuovo “svegliata”, il profBiagini ha deciso che era il mo-mento di intervenire chirurgica-mente. Ricordo con precisione chementre ero ricoverata in oncologiauna mattina entra nella mia stanza ecomincia ad accennarmi qualcosasull’intervento. Poi mentre stava perandare via, lo fermo e gli dico chedevo ancora fargli una domanda,volevo saper se era “contemplata la

Anche se mi mancauna gamba sonocapace di riderci su,di prendermi in giroda sola. Ho potutoconoscere i miei limitie le mie possibilità

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trovato negli infermieri, nei volon-tari, nei compagni di avventura enei loro famigliari una nuovagrande famiglia, ho scoperto diavere un umorismo che non cono-scevo. Anche se mi manca unagamba sono capace di riderci su, diprendermi in giro da sola. Ho po-tuto conoscere i miei limiti e le miepossibilità. Ho capito di avere unaforza che non pensavo di posse-dere. E poi ho anche scoperto ungrande ingegno! È vero che certecose non si possono fare, ma io nonmi perdo di coraggio e trovo sem-pre un modo alternativo per farle,basta guardare la vita in una pro-spettiva diversa e continuare a vi-verla. Io amo il mare, mi piace e mirilassa e desideravo fare una bellanuotata. Ma come fare? Adesso chenon avevo più la mia gamba comeavrei fatto? Potevo ancora andare amare? E gli sguardi di tutte le per-sone li avrei accettati? Quante do-mande mi frullavano in testa, allequali, e fin quando non avessi pro-vato non avrei neanche potuto dareuna risposta. Chiesi a mia madre diportarmi al mare, ma anche daparte sua c’era il timore di non sa-pere come fare. È una cosa norma-lissima, ma è importante non averepaura e aver voglia di sperimentare,di non temere gli sguardi degli altri,perché noi siamo speciali, le nostrecicatrici sono il segno delle espe-rienze passate e della nostra vittoriae dobbiamo sfoggiarle con orgoglio.Anche le persone che ci stanno in-torno, le nostre famiglie, devonoriuscire a superare i nostri limiti e

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darci la possibilità di andare oltre,anche se è difficile, anche se si hapaura. Il giorno che sono riuscita adandare a mare ero la persona più fe-lice sulla faccia della terra, anche seè stata un impresa! Arrivai in spiag-gia con la protesi, poi aiutata damia sorella e da alcuni amici, hotolto la protesi mi sono seduta sullabattigia e poi sono scivolata giù inacqua. Raccontata così sembra unacosa molto semplice e invece nonlo è. Le prime volte non sai comedeve sederti per terra, non hai ideadi quello che sai fare e sembra tuttopiù difficile di quanto in realtà nonsia. Per questo ti esorto ancora acredere in te, nelle tue potenzialità,nella tua forza. Lotta e non arren-derti, non lasciarti sopraffare dallamalattia, tu sei più forte e puoi vin-cere, ricordalo sempre! Adesso è ilmomento di concludere, mi sonodilungata anche troppo e spero dinon averti annoiato o soprattuttorattristito. Prima di salutarti ti vorrei la-

sciare un pensiero…...“nella vita per compiere grandi volici vogliono grandi ali, occhi che guardano lontano e un cuore aperto per comprendere tutto l’orizzonte”disse il fenicottero alla gallina…

Un ringraziamento è per il prof eper Monica i quali mi hanno dato lapossibilità di raccontarti la mia sto-ria e un grazie davvero speciale èper tutti i medici e gli infermieri chesi sono presi cura di me e a tutti ivolontari che mi hanno sostenuta.

Con affetto, Maria

sempre di mettermi alla prova e afare quello che sembra impossibilee quando ci riesco, anche se con unpo’ di difficoltà, sono contenta deltraguardo raggiunto, ma so cheposso fare molto di più. Adesso stobene e piano piano comincio a ri-prendere in mano le redini dellamia vita, ho ripreso di nuovo a stu-diare e a frequentare l’università, hointrapreso un’attività sportiva chemi piace, ho anche preso la patenteed è anche arrivata la mia mac-china. Riuscire ad accettare la mia

nuova condizione non è stato fa-cile, all’inizio si può comprendereche è una scelta obbligata ma nonsi riesce ad accettare, bisogna darsidel tempo per riuscire ad amarsi dinuovo. Oggi riesco a vedere tutto inmaniera diversa, o quasi, se ognitanto mi rattristo, penso che io hoavuto un’altra possibilità, che possoancora godermi la mia famiglia, gliamici, la mia “nuova” vita e penso achi ho conosciuto nel camminodella malattia e non e più con noi.L’ho promesso a Valentina che ioavrei continuato a vivere per en-trambe e ho mantenuto la pro-messa. La malattia mi ha privato dimolte cose, ho perso anni di uni-versità, momenti di vita sia con lafamiglia che con gli amici, che sonopassati e io non potrò rivivere, peròmi ha dato molte più possibilità ri-spetto a quanto mi abbia tolto: ho

con la nostra realtà, di conoscerla edi abituarci a essa e poi si potrà faretutto, un passo alla volta, magaricon i nostri tempi che inevitabil-mente non coincideranno più conquelli degli altri, l’importante è ES-SERCI, GODERE della propria vita,AMARLA e VIVERLA…nella vitapresto o tardi che sia, arriva tuttoquello che di buono il nostro cuoredesidera. Prima che succedessequesto “incidente”, io ero una per-sona molto attiva e tutti questi av-venimenti chiaramente hannolimitato la mia autonomia ed èanche questo il motivo per il qualeio desideravo fare la protesi il primapossibile, riuscire a camminare dinuovo con le mie gambe avrebbesignificato che io avrei riacquistatola mia indipendenza. È naturale cheall’inizio non riuscivo a fare molto,mi stancavo subito e anche tenereLucrezia (è così che ho chiamato lamia nuova gamba) tutto il giornoera davvero difficile, ma adesso,con il passare del tempo sto acqui-stando più sicurezza e riesco anchea fare molte più cose di quelle cheriuscivo a fare i primi tempi. Cerco

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l’ortopedico, che si trovava al-l’estero, ebbe un ripensamento im-previsto: “La cosa non mi convince,ti ho fissato un appuntamento con ilprofessor Biagini, capisci? Nientemeno che il professor Biagini”, ri-peté con enfasi. Non esitai a direche non lo conoscevo, ma la stimaprofessata dal mio ortopedico mispinse ad andare alla visita nono-stante le precarie condizioni: eroormai allettato da un mese, lagamba, che somigliava sempre piùa una zampa d’elefante, mi facevamale quasi in ogni posizione, ren-dendo problematico anche il viag-gio in ambulanza. Mi bastò vedere ilnuovo primario per provare una su-bitanea fiducia, nonostante la frase,drammatica quanto lapidaria, concui mi annunciava che avevo un tu-more. Io, un tumore? Io che avevo fatto

di tutto per scongiurarlo, almenocosì ritenevo, sport, camminate,cibo controllato; io che avevosmesso di fumare ventidue anniprima proprio per scongiurare l’in-sorgere della malattia più temuta, ioun tumore? La biopsia ha confer-mato la diagnosi, puntualizzando ilnome e cognome del nemico: "sar-coma pleomorfo di alto grado indif-ferenziato". “Non è proprio il

Lei ha una malattia importante,molto importante: ha un sarcomaalla radice della coscia sinistra. Pos-sibilità di errore? Così”. Sovrapposel’indice e il pollice lasciando unospazio minimo. Questo, più omeno, è quanto mi disse il professorRoberto Biagini al nostro primo in-contro, il 3 settembre del 2012,dopo aver esaminato la risonanzamagnetica. Quella stessa risonanzache, secondo il parere del primarioortopedico, che aveva in cura tuttala mia famiglia da quasi trent’anni,evidenziava “uno strappo muscolarecon ematoma”. Pertanto la terapiaconsisteva in trattamenti con latecar, impacchi umidi, camminatedentro l’acqua. Dopo un mese stavocosì male, in preda a dolori lanci-nanti, che alla visita di controllo allaIcot di Latina il primario decise l’im-mediato ricovero. Tralascio il pe-riodo trascorso alla Icot, durante ilquale la diagnosi rimase immutata evenne concordato l’intervento chi-rurgico, fissato per il 3 settembre.Tre giorni prima dell’operazione

Sopravvivere? No, rinascere

di Gian Maria Molli

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Io, un tumore? Io che avevo fatto di tutto per scongiurarlo, almeno così ritenevo, sport, camminate, cibo controllato; io che avevo smesso di fumare ventidue anni primaproprio per scongiurare l’insorgere della malattia più temuta, io un tumore?

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questi pazienti, in apparenza sereni,fiduciosi, a sopportare i nefasti ef-fetti collaterali dell’alleato divenutoper me un nemico? Non hannoavuto reazioni? Sono davvero un“homo fragilis”!Ero ridotto così male che venne

deciso il mio trasferimento al re-parto del professor Biagini... E si ar-riva alla terza parte di quello che iochiamo l’evento. Il programma era:rimettermi in sesto il prima possibilee procedere all’operazione cheormai era divenuta improcrastina-bile. Avevo sempre pensato, cre-duto, sperato che il chirurgoavrebbe rimosso il tumore conser-vando quasi integre le funzioni dellagamba, procedendo con la sua con-sacrata perizia tra vasi, muscoli,nervi. Sapevo che il problema prin-cipale erano i nervi, pertanto rite-nevo di poterne uscire con unazoppia più o meno evidente. Già datempo mi vedevo camminare conl’ausilio di un bastone. Ma il sognovenne interrotto tre giorni prima del-l’operazione: con il suo consuetomodo diretto di rivolgersi al pa-ziente, il professore mi informò chedoveva procedere all’amputazionedella gamba fino all’anca. Un durocolpo da assorbire: una gamba inmeno significa rimanere disabile pertutto il resto della vita. Il chirurgo mispiegò che la chemioterapia nonaveva dato l’esito sperato, anzi il tu-more si era ingrandito e poteva es-sere in pericolo la mia stessa vita.Ho scoperto in seguito che aveva

raggiunto 29 centimetri, aveva cioèpiù che triplicato le sue dimensionidal giorno della prima ecografia, aluglio. Chiunque mi avesse detto in pre-

cedenza che era inevitabile l’ampu-tazione, avrebbe incontrato il miorisentimento. Avrei cominciato a di-scutere sui metodi della cosiddettamedicina ufficiale, sulle sue ca-renze, talmente vistose da giustifi-care la sempre maggioreimportanza e invasività della chirur-gia, a deprecare il tempo perdutoper le diagnosi sbagliate e per l’at-tesa di un posto letto, ma al profes-sore ho risposto: “Se è proprionecessario, d’accordo”. Qualunquecosa dica: “Lei ha una malattia im-portante” oppure: “Mi creda, ab-biamo valutato ogni possibilità: nonci resta che l’amputazione” il pro-fessor Biagini ha un modo tutto suodi convincere, di persuadere il ma-lato. “E dopo?” gli ho chiesto “Comefarò a camminare dopo?”. “Con unaprotesi”, mi ha risposto, come sefosse la cosa più ovvia, come se sipotesse perdere una gamba senzaquasi risentirne. Sarà per il modo diguardare il paziente, dritto negliocchi per tutto il tempo della con-versazione, sarà il tono della voce,deciso, ma nello stesso tempo sua-dente, che fuoriesce dal bianco foltodei baffi, come se dicesse: non devipreoccuparti, penso io a tutto, saràperché ritenevo di essere arrivato alcapolinea, ho detto: “D’accordo."L’operazione è stata più invasiva

del previsto. Durante l’inter- ˛

dico di parlare, ma neppure di sol-levare la testa. “Lei è un “homo fra-gilis”, ha detto uno dei medici delreparto, dopo che venne sciolta laprognosi riservata. “Homo fragilis”, perché non ho

sopportato il liquido incolore erosso che per tre giorni mi è entratonelle vene? Perché non ce l’ha fattaa uscire indenne dalla caverna buiae melmosa, dove il liquido temutomi ha fatto precipitare? La cavernadella materia più sordida, popolatadai mostri orrendi della mia fantasiadivenuta realtà. Dimesso dal re-parto, con mio grande sollievo, sonotornato a casa, ma la chemio mi haraggiunto anche fra le mura dome-stiche: l’emoglobina ha avuto uncalo preoccupante e sono tornato inospedale per fare una trasfusione inday hospital (ne ho fatte in tutto di-ciannove). Mentre attendevo, lagrande sala si è riempita di pazienti:giovani, anziani, di mezza età si se-devano diligentemente sulle pol-trone allineate lungo le pareti eassorbivano la loro dose di chemio,quotidiana o settimanale o mensile,non so. Una volta terminata l’appli-cazione, si alzavano e uscivano,come se fossero andati al bar a de-gustare un aperitivo. Anche vecchicurvi e malfermi sulle gambe, ter-minata la seduta, guadagnavanotranquilli l’uscita. Io li guardavodalla mia posizione orizzontale, in-capace di fare qualsiasi movimento,con una emoglobina scesa a 7.4.Pensavo: “Come hanno fatto tutti

peggiore, ma è uno dei peggiori”.Alla drasticità del professor Biaginiormai ho fatto l’abitudine, comequando gli chiesi, poco tempo dopol’intervento, se la malattia potevatornare: “Sempre, comunque e do-vunque”, fu la risposta, peraltroscontata. Dopo il risultato della biopsia, è

cominciata la seconda parte del miocalvario. Si è deciso di procederecon due o tre cicli di chemioterapiaper cercare di ridurre la massa deltumore, che nel frattempo conti-nuava a ingrandirsi: da 8 centimetria 11 a 14. La chemioterapia, però,anziché ridurre la massa tumoraleha scatenato, già al primo ciclo, tuttigli effetti collaterali che di solito simanifestano dopo due, tre applica-zioni: dalla nausea alla disappe-tenza al vomito alla caduta verticaledei globuli bianchi. Era il 12 ottobre,giorno della scoperta dell’America,e io scoprivo di non riuscire a sop-portare l’epirubicina e l’ifosfamide.Sono rimasto in isolamento perquattro giorni. Dopo i globuli bian-chi, sono precipitati anche i rossi.Non avevo neanche la forza non

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disperazione perché si sente ancoraviva, ma sa che non potrà più essereaccanto alla sorella, che non potràmai più sorreggere questo mio bustotraballante, oscillante nell’orridovuoto che mi si spalanca di fronte. A fatica ho cominciato ad accet-

tare l’idea di mettermi la protesi. Ilprimo input me l’ha dato Monica,una volontaria della Rukije – UnRaggio di Sole, l’associazione di pa-zienti oncologici dell’apparato mu-scolo scheletrico, tutti passati sotto iferri del professor Biagini, tutti entu-siasti dei risultati ottenuti. È stataMonica a spingermi a fare la protesi,ed è stata ancora Monica a sugge-rirmi di andare al centro Inail di Bu-drio, dopo l’esito non riuscito dellaprima protesi. Ora sono proprio qui,in mezzo a infortunati di ogni ge-nere. Ma anche qui, come al SantaLucia di Roma, ce ne sono pochis-simi con la mia amputazione, fra cuiMaria, giovanissima siciliana, ope-rata, è il caso di dirlo, proprio daBiagini, un mese dopo di me. Cam-mino ancora con l’aiuto delle stam-pelle, e mi stanco dopo pochi passi.Ma non dispero di uscire da quiusando un solo “punto mobile”,come specifica la relazione dellaprima visita intendendo una solastampella. Intanto continuo a scri-vere, non ho mai cessato di farlo,neppure quando il dolore allagamba mi tormentava al punto chedovevo distenderla su uno sgabellosotto la scrivania. Da quando sonostato operato ho concluso due ro-manzi, in sospeso da decenni, rivi-sto due raccolte di poesie,cominciato il commento al Paradisoterrestre di Dante. Non dispero dipoter riprendere anche il commentoal Convivio, interrotto a metà delTrattato primo. È imminente la pub-blicazione di uno dei due romanzi.

Mi auguro di poterlo presentare inpubblico, come ho fatto con le mieopere precedenti, e di riprendere lemie conferenze dantesche, senzatrascinarmi, a stento verso il tavolodei relatori. Mi auguro di essere pre-sentabile perché ho ancora molto dadire, con l’aiuto indispensabile dimia moglie Silvana, che non ha ces-sato un istante di restare al miofianco, come è sempre avvenuto daquando ci siamo sposati 44 anni fa.E voglio riprendere a stare con i mieinipotini, come ho fatto finché sonoriuscito a reggermi in piedi. So chele mie condizioni mi impedisconomovimenti indispensabili, comeprenderli in braccio per addormen-tarli o per calmarli, correre per gio-care o per prevenire una caduta,insomma: so bene che non potròpiù essere il nonno sportivo diprima, ma un vecchio nonno sag-gio, sì, che insegna loro a sollecitarel’inventiva, la fantasia, che legge sto-rie o le inventa, insomma che fal’unica cosa che sa fare: raccontare.

Gian Maria Molli

So bene che non potrò più essere il nonno sportivo di prima, ma un vecchio nonno saggio, sì, che insegna loro a sollecitare l’inventiva, la fantasia, che legge storie o le inventa,insomma che fa l’unica cosa che sa fare: raccontare

vento, era il 20 novembre, è statochiamato un urologo, che ha toltouna “fettina” di un corpo cavernoso,per distaccare la massa tumorale“tenacemente adesa”, come si leggenella descrizione dell’intervento. “Siconsideri fortunato”, mi ha detto aun anno e mezzo di distanza l’uro-logo che ha effettuato la resezione.Quasi un’eco della colorita afferma-zione di Biagini: “Stappi una botti-glia di spumante, Molli: quando èvenuto da noi era morto”. Sì, sono ancora vivo. Per quanto

tempo non mi è dato sapere. Me lochiedo ogni qualvolta entro nelclaustrofobico tubo della risonanzamagnetica, ogni qualvolta effettuotac, radiografie, ecografie o quandol’apparecchio della Pet mi esploraalla ricerca di addensamenti so-spetti, le cosiddette “iperfissazioni”.Ma un amico, il caro Appio, più gio-vane di me di vent’anni, che si èammalato, o meglio che ha scopertodi essere malato meno di un meseprima di me, è già morto. Anche ilmio compagno di letto non c’è più,il dolcissimo Claudio e altri, tanti,troppi. Così come tanti si sono sal-vati grazie alle cure a cui non horetto. Sì, sono ancora vivo, a distanza

di un anno e mezzo dall’opera-zione, ma non è facile accettare diavere una gamba in meno: spesso famale, la gamba che non c’è più, midà scariche elettriche o stilettate,tanto improvvise da non poter repri-mere un gemito. Talvolta è il piedeche fa male, come se fosse dentrouna morsa, talaltra è lo stinco chepulsa, e la “vedo” la mia gamba ete-

rica, impropriamente definita “artofantasma”, la vedo dov’è stata per68 anni di camminate, di corse, dipartite al pallone, di sedute a tavolae al computer. In un primo tempo avevo deciso

di non fare parola con nessuno dellamia menomazione, tranne logica-mente la mia famiglia, e di rifu-giarmi in casa. Farsi vedere in girocon un arto in meno implica do-mande, espressioni e gesti di mera-viglia, di partecipazione genuina oforzata, di compassione autentica,ma anche di indifferenza, di sguardidistolti all’ultimo istante, di fastidio.Migliori, come sempre, sono i bam-bini. Non fanno nulla per nascon-dere la sorpresa, lo stupore, nonfanno nulla per reprimere espres-sioni come “Mamma, mamma: aquel signore manca una gamba”,ma la madre è troppo occupata aguardare altrove. L’espressione piùbella è stata di un ragazzino almare. Mi ha guardato a lungo senzamanifestare evidenti segni esteriori,poi con grande naturalezza mi hadetto: “Meno male che invece dellagamba non hai perso un braccio, al-trimenti come facevi a salutare?”. Comunque sia, l’invalidità mi

pone al centro dell’attenzione, al-lora visibile attraverso il gambalevuoto dei pantaloni. Perché è veroche si può supplire con una protesi,ma passano mesi di vuoto prima diriempirlo, un vuoto che trovi nelletto al risveglio, che appare all’im-provviso allo specchio, il vuotodella gamba che non c’è più epensi: non ce la farò mai senza dilei, e colei che non c’è urla la sua

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Ci sono persone...semplicemente uniche

Un taglietto? Una trentina di minuti?C’è voluta oltre 1 ora e non sto quia sottolineare il fastidio (per usareun eufemismo). Il 12 ottobre, at-tacco la prima chemioterapia: miappendono al collo un elastomeroda 500ml collegato al port messo ilgiorno precedente, che avrei ricari-cato con altre 70 fiale di Ifosfamideil venerdì successivo. Questa opera-zione di attaccare, ricaricare e stac-care è stata ripetuta per successivi 6cicli di Chemioterapia. Al mio se-condo ciclo di chemioterapia, dopotredici ore di travaglio, viene allaluce Irene, la mia nipotina, il mioangelo e come di incanto tutto si tra-sforma; anche il fastidioso port acath diventa per magia il bottone daspingere affinchè zia canti una can-zoncina per la piccola. Al controlloTAC dopo il VI ciclo, le lesioni pol-monari avevano dato una rispostaottima al farmaco, mentre la massaal ginocchio era rimasta pressochéinvariata. La dottoressa Ferraresi mipresenta il primario il Professor Ro-berto Biagini, dell’oncologia ortope-dica. Due settimane dopo eroricoverata nel suo reparto e il dottorZoccali, uno con i capelli dritti e lescarpe alla moda, mi illustra agrandi linee il motivo del mio rico-vero. Con una delicatezza da ele-fante, mi informa che mi sareiscampata l’amputazione, grazie allapresenza di metastasi sul polmone.Amputazione? Io non ne avevo maisentito parlare. Un’immediata crisidi panico, viene sedata dall’inter-vento della dottoressa Ferraresi, checon voce decisa mi dice che nonsarei stata amputata. Poco dopo,passano in stanza il Professore e ilsostenuto dottor Salducca per

colato viaggio in autoambulanzaper le vie della Città Eterna, mi portòad approdare all’Istituto NazionaleTumori Regina Elena, dove un con-sulto in Chirurgia Toracica, si tra-sformò immediatamente in unintervento chirurgico di decortica-zione pleuro-polmonare, talcaggioe resezione atipica della parte ba-sale del polmone sinistro.Al mio risveglio, ero attaccata ad

una strana macchina che drenava,attraverso due grandi tubi inseriti nelmio polmone, sangue e siero dallostesso; per capirci, somigliava vaga-mente alla batteria di un’automo-bile. A questo punto, potevo iniziaredavvero a preoccuparmi; nono-stante non riuscissi a comprenderecosa stesse succedendo. Come in unfilm dell’orrore, il 4 Settembre 2012,l’esame istologico dell’interventosentenzia: Metastasi da Sarcoma Si-noviale Monofasico a cellule fusatedi alto grado di malignità, che tra-dotto, voleva dire: “Benvenuta nelmondo del cancro!” Giusto per nonsmentire la mia fama di Miss For-tuna, ero affetta da una rara forma dicancro, che però spiegava cosafosse l’incurabile dolore al ginoc-chio. Succedeva tutto troppo infretta, anche solo per avere paura. Il 26 Settembre del 2012 avevo

appuntamento presso l’AmbulatorioSarcomi. Nella stanza c’erano lasimpatica infermiera Violetta, la sor-ridente psicologa Dottoressa Ga-briella Maggi, il burbero ortopedicoDottor Leonardo Favale e la risolutaOncologa nonché Personal Hair Sti-list Dottoressa Virginia Ferraresi. Poil’appuntamento per l’impianto delport a cath, dicono sia nulla di che,un taglietto, e inseriscono un dispo-sitivo biotecnologico che permettedi avere un accesso venoso centrale.

˛

Il numero 210120 era il codicedella scheda per la mia Chemiote-rapia.Tutto è iniziato in un momento in

cui, il terribile dolore al ginocchiodestro, inziato quando avevo 13anni (e che mi aveva accompagnatanegli ultimi 17 anni), era miracolo-samente scomparso. Quegli anni,40 radiografie, 20 TAC con e senzamezzo di contrasto, 23 RisonanzeMagnetiche, 3 Scintigrafie Ossee, 7Ecografie, 3 Elettromiografie,10 In-terventi chirurgici ortopedici, 2 in-terventi chirurgici sul nervo sciatico,in strutture pubbliche e private ditutta Italia (e non solo), visite da me-dici, primari e luminari del campo,diagnosi di condride rotulea, osteo-mielite, neurinoma, lipoma, neuro-patia cronica, malattia immaginaria

e chi più ne ha più ne metta, ave-vano come risultato “nessuna dia-gnosi”. Per quanto nonscientificamente provato, il miocorpo si era semplicemente presouna pausa prima di ufficializzareche qualcosa non andava real-mente. Il 1 Luglio del 2012, nelcuore della notte, il mio respiro di-ventò sempre più lento e faticoso,tanto da costringermi a recarmipresso l’Ospedale più vicino, dovedisposero un ricovero urgente perBroncopolmonite o Pleurite. Dopouna settimana, fu necessario il tra-sferimento in un Ospedale di Romaperché il versamento pleurico sini-stro, non rispondeva alle terapie cor-tisonica e antibiotica. Fui accettatanella nuova struttura ospedaliera,ma lì, neppure il posizionamento diun Drenaggio Pleurico, favorì il rias-sorbimento del versamento.

Un‘altra settimana e uno speri-

di Ivana StabileOgni volta che honominato me stessa,in realtà, avrei dovutoscrivere di tuta la miafamiglia. Perché inogni battito del miocuore, in ogni miorespiro, c’erano, cisono e ci sarannoanche loro. Sempre

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macchina invece non può più rac-contarlo. Dopo una quindicina digiorni ho iniziato ad avere dei dolorie un rigonfiamento all'osso sacroche, giorno dopo giorno, diventavasempre più doloroso e sempre piùgrande, fino a che provavo delle dif-ficoltà nel sedermi. Dopo un'infinitàdi visite e di accertamenti, ad otto-bre mi ricovero all’ospedale di Cittàdella Pieve. Vengo operata e miasportano una massa circolare dicirca 11 cm definita, dopo l'esameistologico "condroma" cioè tu-

Mi chiamo Maria Luisa, ho 49anni e fino a 6 anni fa avevo una vitanormale. Un lavoro che mi piaceva,che cercavo di svolgere con dedi-zione, umiltà e passione; un maritoe due figlie, Letizia e Silvia, che oggihanno 24 e 19 anni, ragazze mera-vigliose di cui sono fiera e orgo-gliosa; inoltre tanti amici; una bellacasa. Non mi fermavo mai, erosempre di corsa per poter far frontealle esigenze di tutti, trascurando avolte le mie, ma non era un pro-blema! La mia storia inizia nell'agosto

del 2008; mentre mi recavo al la-voro ebbi un incidente con la mac-china: nulla di grave per me, la mia

Aiutavo gli altrie trascuravo me stessa

di Maria Luisa Stefanucci

˛

informarmi sui rischi dell’opera-zione: recidere il nervo che regolala mobilità del piede con il conse-guente obbligo ad utilizzare un par-ticolare tutore per ladeambulazione. Ok! Al massimosarei stata protagonista della can-zone che recita “Quella camminatastrana, pure in mezzo a chissà che,l'avrei riconosciuta”. Ero la primadel reparto a scendere in sala ope-ratoria. Ad accogliermi la premurosae affettuosa anestesista Ilaria che dilì a poco mi ha trasformata nellaBella Addormentata nella sala. Leultime parole che ho sentito primadi chiudere gli occhi sono statequelle del carro armato Biagini chemi prendeva in giro: “sci vuole pocoa taaagliare una gaaamba!” Al miorisveglio, la gamba c’era e il piede simuoveva benissimo. Il giorno dopo

l’intervento, pio-veva, ma improvvi-samente, la miastanza venne illumi-nata da un sorrisodolce: “sono Mo-nica, il Presidentedell’AssociazioneRukije Un Raggio diSole." Avevo davantiai miei occhi ladonna che vorrei di-

ventare, una persona che ha trasfor-mato un cammino lungo ecertamente non facile, in un’espe-rienza per aiutare il prossimo.Ad Ottobre 2012, il mio percorso

non è ancora giunto al termine: sulmio polmone ci sono ancora dellelesioni, ma la mia gamba funziona

benissimo. Al controllo di dicembre,la Ferraresi decide che le lesioni pol-monari rimaste, devono essere trat-tate con radioterapia stereotassica.Dagli esami, si evince che solo unadelle due lesioni può essere rag-giunta dai radioterapisti, l'altra vieneaffidata al trattamento chirurgico deldolcissimo dottor Gabriele Alessan-drini, capace oltre che professional-mente, di rendere il mio ricoveronella triste e spaventosa ChirurgiaToracica un "piacevole" percorsocon amici. Ad Aprile, cinque sedutedi stereotassica, colpiscono l'ultimalesione sul polmone destro.La dottoressa Ferraresi è diventata

la mia dolcissima fata, il ProfessorBiagini, il mio simpaticissimo Prof.,l’antipatico dottor Zoccali, è un caroamico, il sostenuto Dottor Salduccaè affettuosissimo, il burbero dottorFavale, teneramente sempre dispo-nibile. Insomma, è vero che esistonomalattie rare, ma esistono anchepersone uniche!Ah, avrete certamente notato che

nel raccontare la mia storia, ho sem-pre parlato di me e della malattiacome di un rapporto esclusivo. Ognivolta che ho nominato me stessa, inrealtà, avrei dovuto scrivere io, lamia mamma,il mio papà, mia so-rella Ilaria, mio cognato Andrea e…Irene! Perché in ogni battito del miocuore, in ogni mio respiro, c’erano,ci sono e ci saranno anche loro.Non sono un valore aggiunto, ma lamia stessa vita.

Ivana

In quel preciso momento è successo quel che io definisco una "rapina a manoarmata": vengo rapinata della mia vita in cambio di una che non conosco, non mi

appartiene, che non so vivere e soprattutto che non voglio vivere

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ranza e amore. Non potevo delu-derle!! L'intervento, durato circa 18ore, è riuscito, con alcune impor-tanti conseguenze, ma riuscito. Ini-zia una lunga degenza ospedaliera;eravamo al 20 ottobre! Il secondointervento, programmato per finegennaio, consisteva nell'asporta-zione dell'osso sacro, S3, S4, e S5,dove passano numerose termina-zioni nervose: le conseguenze sa-ranno, poi, molteplici, la miavescica non avrebbe più ricevuto lostimolo, avrei avuto problemi perevacuare ecc...La paura fa breccia di nuovo non

voglio operarmi, non voglio sfidareil destino, mi sono salvata una voltaperché ritentare la sorte? Non vogliovivere su una sedia a rotelle e chissàche altro. Ed ecco che gli occhi fi-duciosi di Letizia e di Silvia col-mano di nuovo la mia mente: devofarlo per loro, devo lottare, hannobisogno di me e io di loro, sono lamia voglia di vivere, la mia forza, ilmio tutto!Mi opero, l’intervento dura circa

12 ore; mi sveglio e intorno a metutto è offuscato, solo una cosa è ni-tida: "Sono viva". Tra ospedale e cli-nica riabilitativa trascorro circa unanno; torno a casa e inizio un nuovocapitolo della mia vita: sedia a ro-telle, poca autonomia nel cammi-nare, catetere, difficoltà neimovimenti e nello svolgere le azioniquotidiane (lavarmi, cucinare ecc),ho bisogno di assistenza. Però???Però sono viva! Vedo le mie figlie crescere tra

mille problemi; cerco di essere loroutile, di supportarle nelle decisioniche devono prendere, cerco di dareloro la certezza che, malgrado tutto,io per loro ci sono e ci sarò

coma sacrale, un tumore raro e chesuccede??? Mi ritrovo anche unosteosarcoma vertebrale, altrettantoraro! Il prof. Biagini pensa che lacombinazione dei due non si è maiverificata; un segno che la mia vita ègiunta al traguardo? Tante domande,ma anche paura delle risposte. Nonso che pensare, se non a loro allemie pargole!!! Il terrore che potreb-bero vivere senza la loro mamma miassale e man mano nella mia mentefa breccia l'ipotesi di voler lasciaretutto così, di non operarmi, di viverequel che mi rimane e di uscire discena, quando sarebbe arrivata lamia ora. Questo, però, significavaarrendersi, perdere un incontrosenza giocare, senza lottare per lacosa più grande che esista "l'amorematerno": che insegnamento avreidato alle mie figlie? Era ora di tirarfuori le unghie e aggrapparsi a tutto,anche agli specchi se necessario!A fine settembre mi ricovero e

dopo una ventina di giorni miopero; il professore ha deciso di in-tervenire prima sul mostro che abitanella colonna, di sostituire la D12 efare una “stabilizzazione” in titanio.Le mie preoccupazioni e i miei pen-sieri sono sempre per loro, per Leti-zia e per Silvia. I rischi e leconseguenze sono molteplici, mauno prevale su tutti, il rischio dellamia vita! La mattina dell'intervento ho

guardate, le mie figlie e ho cercatodi imprimere nella mia mente i lorovolti spaventati, ma pieni di spe-

˛

mi indirizzò dal prof. Biagini, indi-candolo come il migliore esperto inquesto campo.La speranza cominciò “a perdere

i colpi” nella mia mente e i voltidelle mie figlie presero forma. Pen-sieri contrastanti mi assediavano e lelacrime cominciarono a scendereprima lentamente poi sempre piùcopiose. Una visita all’Ospedale Re-gina Elena con il dottor Favale con-ferma la diagnosi: "condrosarcomasacrale".Silenzio assoluto, guardo mia fi-

glia, la più piccola: il suo volto di-venta bianco all'improvviso, mi sistringe il cuore! In quel preciso mo-mento è successo quel che io defi-nisco una "rapina a mano armata":vengo rapinata della mia vita incambio di una che non conosco,non mi appartiene, che non so vi-vere e soprattutto che non voglio vi-vere. Una girandola di emozioni,incredulità, sorrisi, lacrime, ma poipenso a loro, alle mie bimbe, chehanno bisogno di me e io di loroche mi danno la forza per affrontarequesta maledetta avventura. Facciola PET, chiamo il professore, che michiede di andarlo a trovare. Mi portaa conoscenza di una lesione allaD12 e mi manda a Modena a fare labiopsia: risultato osteosarcoma!!! La mia mente naviga in cielo,

come una mongolfiera, tutto intornoa me gira, gira per giorni interi; dinascosto piango fino ad esaurire lelacrime. Ricapitoliamo, sono andataal Regina Elena per un condrosar-

more benigno che non necessitavadi nessuna terapia. Felice di potermidi nuovo sedere, continuo la miavita di sempre.Verso settembre 2009 noto una

piccola “pallina” nel punto in cui miero operata; anche se da me segna-lata, la cosa non viene presa sulserio dai medici, che mi visitano eche definiscono la pallina una con-seguenza dell'intervento. La “pal-lina”, però, cresce e con lei anche imiei dolori. Di nuovo visite, accer-tamenti finché approdo all’Ospe-dale S. Camillo di Roma, dovevengo visitata da un ortopedico.Mentre controlla gli esami, non so ilperché, io ho cominciato a provaredelle emozioni contrastanti: paura,speranza, ma anche gioia. Gioia peraver finalmente trovato la causa ditutti quei dolori. Il dottore fa acco-modare me e mio marito con tran-quillità e con determinazione iniziaa parlare e a poco a poco la gioia la-scia il posto alla paura. Finché pro-nuncia la parola che nessunovorrebbe mai ascoltare: "Penso chesia un tumore maligno, un condro-sarcoma sacrale". L’ortopedico, poi,

Ed ecco che gli occhifiduciosi di Letizia edi Silvia colmano dinuovo la mia mente:devo farlo per loro,devo lottare, hannobisogno di me e io di loro, sono la mia voglia divivere, la mia forza, il mio tutto!

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Tutto iniziò nel 2008, con unostrano dolore all’anca destra. Amicie parenti mi tranquillizzavano, di-cendo che probabilmente era ar-trosi; data l’età poteva essere più chenormale. Forse avrei dovuto mettereuna semplice protesi, come era ca-pitato a un mio amico. Decisi,quindi, di fare una lastra, poi, mi ri-volsi ad un professore di ortopedia.Il professore, un po’ perplesso, miconsigliò di fare una scintigrafiaossea ed una Tac. L’ortopedicoquindi, con gli esami alla mano, midisse di stare tranquillo, che nonavevo nulla di grave, e che, consi-derata la mia età, avevo semplice-mente bisogno di mettere unaprotesi al femore. Quindi, il 27aprile 2009 mi operarono. L’ortope-dico però, mettendo la protesi, notòche c’era qualcosa di strano, perciòfece fare un esame istologico. Esitodell’esame: “condrosarcoma di se-condo grado”. Fu una doccia gelidaper me e per tutta la mia famiglia. Pur sapendo del tumore, l’orto-

pedico mi mandò a fare la fisiotera-pia in una clinica di riabilitazione.Una mattina mentre mi dirigevoverso il bagno, la protesi andò fuorisede. Provai un dolore pazzesco!! !Mi trasportarono prima in un ospe-dale vicino e poi, subito dopo, miportarono nella clinica dove ero

stato operato. Lì mi aspettava l’orto-pedico che mi avrebbe rimesso laprotesi in sede. Nel frattempo, però,fù una vera e propria agonia: il do-lore che provai mentre mi trasporta-vano dall’ambulanza alla clinica fuindescrivibile!In seguito, l’ortopedico mi fece

rivolgere ad un ortopedico onco-logo. Arrivato all’ospedale Ifo vengopreso in cura dal Professor Biagini,che mi ricovera il 12 giugno 2009 emi opera quattro giorni dopo: subiiun’operazione di 12 ore. Mi miserouna protesi a sella, in modo da evi-tare l’amputazione della gamba,così da avere una minima speranzadi non perderla anche in seguito edi poter tornare a camminare. Su-bito dopo l’operazione mi portaronoin rianimazione. Una terribile con-seguenza dell’anestesia e della mor-fina fu un sonno pieno di incubi…tanti incubi. L’operazione, però, eraandata bene, e mi riportarono in re-parto dopo pochi giorni.Dopo circa 20 giorni dall’opera-

zione però, il 6 Luglio, mi portaronodi nuovo in sala operatoria, stavoltad’urgenza. Avevo una bruttissimacera, il dottore che mi aveva

La mia forzaè il carattere

di Otello Ceracchi

˛

sempre. A novembre dopo circa 2mesi dal mio ritorno a casa, mio ma-rito, dopo 23 anni di matrimonio, hadeciso di andarsene: me l'aspettavo.La separazione, per vari motivi, nonè amichevole, come speravo e vo-levo; si è trasformata in una guerralunga e dolorosa, ma questa è unaltra storia!Verso febbraio di quest'anno

(siamo arrivati nel 2014), inizio adavere dei dolori diversi da quelli cheho normalmente e che riesco a ge-stire: sono molto forti, coinvolgonotutta la schiena e le gambe, gli anti-dolorifici li attenuano solo legger-mente. Un rigonfiamento, inoltre, facapolino sulla schiena; inizio con gliaccertamenti, ma il rigonfiamento ei dolori aumentano. Faccio la RMNa marzo, il panico, nell'attesa dellarisposta, è l'unica cosa che regnadentro di me. Il prof. Biagini guardala RMN e la mia schiena: si è rotta lastabilizzazione esterna che deve es-sere sostituita. Tutte le cellule delmio corpo iniziano a fare le caprioledalla gioia, certo dovrò affrontare unaltro intervento, ma questa volta nondevo lottare con il mostro cancro!!!Ad aprile faccio l'intervento contutte le complicazioni del caso eanche qualcosina in più.Questa avventura non l'ho vis-

suta da sola, le mie figlie, la miaamica-sorella Stefania, i miei amici(non pensavo di averne così tanti!),le mie colleghe e i colleghi, chehanno avuto ed hanno un ruolo im-portantissimo nel sostenermi sempree in qualunque modo, i parenti, tuttimi hanno fatto sentire amata come

non mai e mi hanno donato la forzaper affrontare l’intera la strada cheho percorso. Per quel che riguarda il prof. Bia-

gini e la sua équipe, loro sono laprova e l'esempio che, con la pas-sione e l'umiltà, l’eccellenza nelmondo della sanità esiste. Non sonoda meno gli infermieri, cortesi, sim-patici e professionali, che allevianole giornate di degenza e ti fanno vi-vere questa brutta esperienza conun altro spirito: un sorriso fa la dif-ferenza e loro ne hanno da vendere!Che dire di Monica e di questa

meravigliosa associazione? Le espe-rienze di questi ex pazienti ti aiu-tano a superare i momenti grigi.Loro ci sono passati e sanno quelloche uno prova; la serenità, chehanno, quando parlano, ti rapiscecompletamente, ti fa riflettere, rifles-sioni che fanno bene alla mente e alcuore. A settembre dovrò sostituirela stabilizzazione interna, ma non faniente: l'importante è che il mostronon si ripresenti. L'ultima sensa-zione che mi piacerebbe condivi-dere con voi è la seguente: la miasperanza, visto che ho avuto duemostri diversi, è quella di averli toltia qualche bambino sparso nelmondo. È giugno, sto scrivendo lamia storia nella speranza che possaessere di aiuto a chi la leggerà…..Grazie a Rukije Un Raggio di

Sole Onlus per l'opportunità che miha dato.

Maria Luisa Stefanucci

È proprio quandopensi di aver toccatoil fondo e credi che non c’è piùnessuna speranza,che un sorriso può cambiare le cose

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una sala da ballo, essendo un exballerino: eravamo settanta persone,tra amici intimi e parenti ed è statauna serata stupenda. È vero, ho pas-sato dei momenti bruttissimi, ho sof-ferto moltissimo, ma sono felicedella vita che faccio ora. La mia fa-miglia mi è stata vicinissima, miamoglie in particolare e non so comeringraziare tutti. Non so come avreifatto senza di loro, per questo li rin-grazio con tutto il cuore. Consiglio a tutti quelli che si tro-

vano nelle mie stesse condizioni, disorridere sempre e non abbattersimai, perché la vita è bella; è proprioquando pensi di aver toccato ilfondo e credi che non c’è più nes-suna speranza, che un sorriso puòcambiare le cose. Anche in mo-menti in cui credevo non ci fosseropiù speranze, un pensiero positivomi ha aiutato ad uscirne fuori. Invio un particolare ringrazia-

mento al Professor Biagini e a tutto ilsuo staff. Ancora un grazie partico-lare alla mia famiglia, a mia moglieche è stata vicino a me in ogni at-timo della mia sofferenza, alle miefiglie, alle mie bellissime nipoti e atutti i parenti e gli amici. Grazie di cuore a tutti!!!

P.S. La scorsa estate, insieme amia moglie, siamo tornati a Giulia-nova, dove eravamo soliti fare le no-stre vacanze. Ho guidato io fino aGiulianova ed abbiamo trascorsouna piacevolissima settimana diferie presso l’albergo che già cono-scevamo, insieme a persone simpa-ticissime che sono state molto felicidi rivedermi, anche se in questecondizioni, perché nonostante tutto“Sono ancora in piedi”!!

Otello

cosa giusta da fare sin dal principio,forse non avrei rischiato di morire,non mi avrebbero dovuto operaretutte quelle volte ed io e la mia fa-miglia non avremmo passato 8 mesidi inferno. Successivamente, nelmaggio del 2010, andai a Budrio, inprovincia di Bologna, a fare la visitache in seguito mi avrebbe permessodi mettere la protesi o cosiddetta“gamba finta”. A settembre, quindi,mi ricoverarono un mese per inse-gnarmi a camminare con la protesi,in modo da poter stare in piedi, inequilibrio e in modo anche da po-termi sedere. Tornato a casa iniziai ivari controlli facendo la Tac ogni 3mesi. Le prime TAC andarono bene, ma

dall’ultima risultarono metastasi alpolmone destro: fu un’altra docciafredda! Il 27 gennaio 2012 mi ope-rarono di nuovo all’Ifo, nel repartodi chirurgia toracica; mi misero 27punti. L’operazione, però, andòmolto bene, accusai pochissimi do-lori, quindi dopo 5 giorni mi riman-darono a casa. Nel frattempo, a maggio del

2011, presi addirittura la patente perguidare l’automobile solo con lagamba sinistra. Posso dire che misono ripreso molto bene: sono unapersona autosufficiente, vado in girocon la macchina, vado al bar ascambiare due parole con vecchieconoscenze, aiuto mia moglie nellefaccende di casa, lavando i piatti eaiutandola a cucinare, vado a fare laspesa e accompagno anche le mienipoti per qualsiasi loro esigenza. Il 2 giugno 2012, ho potuto fe-

steggiare con mia moglie 50 anni dimatrimonio insieme!!! E’ stata unafesta bellissima!!! Abbiamo affittato

operato decise di aprire di nuovo laferita e si accorse che avevoun’emorragia interna. L’emoglobinaera scesa a 3 e non avevo più leforze: la situazione era molto grave.Nel frattempo vedevo mia moglieche piangeva. Il dottore le avevadetto che “mi stavano perdendo”.Da lì ricordo solo che mi feceroflebo, trasfusioni, addirittura mi mi-sero una specie di ombrellino allagola per evitare l’embolo, poi piùnulla. Ricordo il buio totale, poi unaluce e mi resi conto di essere ancoravivo. Mi portarono in rianimazioneper circa due giorni e poi di nuovoin reparto. In quel momento, spe-rando che il peggio fosse passato,iniziai a sorridere di nuovo. Dopocirca un mese, ad agosto, mi ripor-tarono di nuovo in sala operatoria,per una medicazione alla ferita.Il 3 ottobre 2009, finalmente, mi

misero in uscita. Il dottore, in ma-niera molto delicata mi fece capireche a breve ci saremmo rivisti: sta-volta per l’amputazione dellagamba! In quel momento scoppiai apiangere. Non ci volevo credere.Ma mia moglie mi rincuorò, dicen-domi che forse avevo capito male.Rimasi casa per 4 mesi. In tutto que-sto tempo feci la fisioterapia, ma eraun’agonia continua, perché la pro-tesi continuava a fare male. Lagamba era come se fosse un pezzodi legno, non riuscivo assolutamentea muoverla, quando dovevo farequalsiasi movimento era un conti-nuo dolore e, per quanto sperassi dipoter rimetterla in movimento,piano piano persi tutte le speranze.In più, dalla ferita usciva sempre

sangue, ed era evidente che c’eraun’infezione. Mia figlia si rivolseanche ad un infettivologo, che miprescrisse cinque antibiotici algiorno, da prendere senza nem-meno una protezione per lo sto-maco. Fu una settimana d’inferno!Digiuno, vomito, dolori e nausee.Dalla disperazione non li presi piùdi mia volontà. Furono 4 mesi da di-menticare. Il 13 gennaio 2010, andai a fare

una visita di controllo dal ProfessorBiagini. Non potrò mai dimenticareil momento in cui il professore midisse: “Ceracchi, è pronto per l’am-putazione?” Rimasi di strucco. E ilprofessore, rivolgendosi a mia figliale disse: “Papà ancora non èpronto…” Tornato a casa, mi resi conto che

non ce la facevo davvero più e cheogni speranza di riuscire a muoveredi nuovo la gamba era diventataormai vana: vi erano solo il dolore,l’infezione che non smetteva più diperdere liquido, i mesi passati a lettosenza potermi muovere… Così, conun dolore immenso nel cuore, de-cisi di farmi amputare la gamba. Il 16 febbraio 2010, dopo 8 mesi

di agonia e sofferenza, persi la miagamba. Quando mi risvegliai dal-l’operazione fu un grande shock: untrauma indescrivibile, un senso divuoto guardando verso il basso… lamia gamba non c’era più. Contemporaneamente, però, fu

una grande liberazione, come to-gliersi un peso, per me e per la miafamiglia, che aveva assistito alla miasofferenza. Il dolore era stato tantoe non so quanto sarei andato avantiin quel modo. Ad un certo punto miresi conto che forse sarebbe stata la

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l'operazione: quando vedi che iltuo "io" giace ancora tra le strade diquesta terra! Perché l'importante èesser vivi, poi il resto, come cantavail Califfo "è noia!" Arrivò quel fati-dico martedì dell'operazione. L'in-tervento duró 12 lunghisime ore,andò a buon fine. Rimasi in ospe-dale di 18 giorni, durante i quali vifu un via vai di parenti e conoscenti.E' bellissimo quando chi vuoi piùbene ti sta accanto constantementee, infatti, il vero amore lo si vede nelmomento del bisogno: i fiori e lerose sono l'effimera espressione delsenso della vita.L’esame istologicoe altre indagini seguite all'opera-zione permisero di indivuare benela mia patologia: condrosorcomaperiferico emibacino sinistro(branca ileo-pubica). L'equipe me-dica-ospedaliera è stata molto rigo-rosa nei miei confronti e quindi, unringraziamento speciale va ai me-dici, agli infermieri e agli operatorisocio sanitari dell'IFO. Per quantoattiene me, il 27 novembre 2013,feci una visita di controllo, sempreall'IFO, e il medico mi disse che po-tevo già iniziare a muovermi, ov-viamente con l'aiuto dellestampelle. Sembrò come mettereper la prima volta piede sulla luna!Un passo veramente emozionanteper tornare alla vita d'ogni giorno.Certamente do il tempo al tempo,per riprendermi nel miglior deimodi possibili. E sento che il futuroporterá notevoli cambiamenti nellamia vita che affronteró con senti-menti nuovi e giovani.

Clementina

l’Icot non seppero dare un nome edun cognome alla mia malforma-zione ossea. Così, ci indirizzaronodal prof. Biagini del Reparto di Or-topedia oncologica dell’Istituto Na-zionale dei Tumori Regina Elena diRoma. Qui, dopo ripetuti accerta-menti clinici, finalmente diedero unnome al mio problema. Si trattavadi una sottoforma di Sarcoma nondel tutto identificata, su cui anda-vano fatte altre indagini. Il professorBiagini, senza giri di parole, midisse che sarei stata operata entro laprima meta di ottobre 2013. Entrai in sala operatoria l´8 otto-

bre. Io ero arrivata quattro giorniprima in ospedale. Furono giorniterribili, di crescente preoccupa-zione e paura. Se anche mi sforzavodi pensare positivamente, ero terro-rizzata dall’idea di non poter piúcamminare come prima o, peggiodi dover affrontare il resto della vitasu una sedia a rotelle. A volte erofuriosa e mi sfogavo con mio ma-rito, cosicché lui mi tranquillizzava,dicendomi: "vedrai, che starai benee un giorno, quando tornerai allatua vita di sempre, ti sentirai megliodi adesso!" Quel contrastare le miepaure mi dava la speranza di cre-dere che un giorno sarebbe stato dinuovo "di blu dipinto di blu e felicedi stare quassù!". Insomma, quandoti trovi in quei nel letto dell’ospe-dale sei preda di tante emozioni e,anche se sei forte, non sai control-larle perché ti fai prendere dal pa-nico e dal nero che vedi davanti aituoi occhi. L'emozione più bella,però, è sicuramente quella dopo

"Le piccole cose son quelle piùvere: le vivi, le senti, e tu ognigiorno ti renderai conto che sei vivoa dispetto del tempo, quelle coseche hai dentro le avrai al tuo fiancoe non le abbandoni più!" (Nek - Eda qui)Dal giorno in cui sono nata sino

al 2009, anno in cui partoriì il mioultimogenito, la mia vita e´ tra-scorsa nel miglior dei modi. Fortu-natamente, ho avuto anche lapossibilitá di autorealizzarmi spo-sandomi e dando alla luce quattromeravigliose creature. Alcuni mesidopo la nascita di Luigi, l'ultimodelle mie quattro "stelle polari", co-minciai a sentire l'osso della cosciasinistra ingrossarsi sempre più versol’ interno. Però, visto che non micausava alcun dolore non presi nes-

suna decisione al riguardo. Cosípassarano anni, la protuberanzacresceva, ma io continuai a esclu-dere la possibilitá di consultare unmedico perche´ avvertivo il fastidiosolo nel momento in cui la cosciasinistra si appoggiava alla destra.Finché, dietro pressione di mio ma-rito, decidemmo di andare da unmedico di Villa Literno, un paesedella provincia di Caserta, il quale,mi sottopose a svariati esami, fra cuiuna Tac, ma non riusciendo a fareuna diagnosi, ci consiglió di rivol-gerci al piú presto presso strutturespecializzate, a Latina, Bologna,Milano, poiché quelle del territoriocampano non erano all'altezza. Nelmomento in cui nominò i nomi diqueste tre città, mi venne un colpo,perché non potevo "emigrare" cosìlontano per via della mia famiglia!Così con mio marito decidemmo diaffidarci all’Icot di Latina, il centroortopedico più vicino alla nostraabitazione. Ma anche i medici del-

La vita è la cosa più bella che ho

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di Clementina Zagaria

Sento che ilfuturo porterá

notevolicambiamenti

nella mia vita cheaffronteró

con sentimentinuovi e giovani.

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prima volta che siamo state in-sieme, e facciamo una mezza spe-cie di festa. Una volta, prima delmio intervento, ci hanno ancherimproverate per il troppo baccano. La sera prima dell’intervento ero

molto preoccupata e Giada, con lamadre Selina mi hanno molto tiratasu di morale. L’operazione è andatabene, la rimozione dell’osso è statasemplice e pulita, la chemio è riu-scita a accerchiare la massa, chenon ha infettato i muscoli, i lega-menti o le altre ossa. Così hannoestirpato il cancro dal mio corpo,per sempre. Come ha detto il dot-tor Salducca, che mi ha operato, siopera non solo con le mani, maanche con il cuore. Adesso ho ricominciato le che-

mio, e sto risorgendo dalle cenericome la fenici: ho ricominciato acamminare e procedo nel piega-mento del ginocchio. Dopo tuttoquesto ho capito, che anche a do-dici anni, la vita è delicata e diffi-cile, ma meravigliosa. Che bisognaapprezzare le piccole cose che cioffre con gioia e che, soprattutto, èfatta di tanti piccoli traguardi, cheportano ad uno più grande. Ma lafelicità non la si trova nel tra-guardo, quanto piuttosto nel per-corso e io la sto ancora cercando.

Anna Chiara

cielo e l’avrei reputato normale.Capii quando il prof disse che do-vevo mettere un gesso per la sicu-rezza dell’osso. Miimmobilizzarono in un pesantegesso, da sotto il piede fin sul petto.Dover dipendere completamentedagli altri, per qualsiasi banalissimasciocchezza, è davvero brutto. Cominciai a fare le chemio nel

mese di gennaio. Ero davvero giù.Il mio morale era sottoterra, conti-nuavo a chiedermi perché una si-mile sfortuna fosse capitata a me.Ogni volta che andavo in ospedaleper i lunghi ricoveri, ero costretta achiamare l’ambulanza, e non vi stoneanche a dire quanto fosse orribileessere portata giù dalle scale dicasa in barella e poi caricata sul let-tino dell’ambulanza, con tutti gliscossoni e il traffico. Ma ora bastacose negative, perché ci sonoanche aspetti positivi in questa “av-ventura”: ho conosciuto bellissimepersone come Samantha, Sara,Claudia. Giada e Selina, gli infer-mieri Pietro, Imma e Alessandra, epoi tutti gli infermieri e il personale.

Ho rafforzato mol-tissimo il rapportocon i miei genitorie con mia sorellaGaia. Adesso ognivolta che capita diessere ricoveratainsieme a Giada,ci facciamo por-tare la pizza inospedale, come la

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Caro lettore, Vorrei iniziare a raccontarti la

mia esperienza premettendo che lasto ancora vivendo, nel bene e nelmale. Mi chiamo Anna Chiara e ho12 anni, e se devo dirla tutta sonoun po’ risentita di essermi amma-lata, di cancro a questa età, poi. Madel resto non ci si può fare niente,no? Come per molti di noi tutto èiniziato con dei lievi ma insistentidolori alla gamba destra, nella zonadel ginocchio. Lì per lì non ci preoccupammo,

ma dopo un mese, mia madre de-cise di portarmi a fare una visita daun’osteopata. Lei subito capì chec’era qualcosa di extra osseo, e al-

lora dopo vari controlli senza ri-sposte precise ci siamo trovati a va-gare per i corridoi del Regina Elena,alla ricerca dell’ortopedico, il dot-tor Favale. Osservando la mia la-stra, subito constatò che c’eraqualcosa che non andava, qualcosadi strano, e ci chiese di tornare duegiorni dopo, per fare una biopsiaossea. Era il primo giorno delle va-

canze di Natale. Il 24 dicembre labiopsia venne eseguita dal dottorFavale e dal dottor Salducca.Quando la mia oncologa, la dotto-ressa Ferraresi, mi comunicò cheavevo un “Osteosarcoma di altogrado al femore distale destro” eche necessitavo di sei cicli di che-mio pre-operatori, un intervento ealtri cicli post-operatori, non rea-lizzai subito. Era come vivere inuna realtà parallela; potevano co-minciare a cadere caramelle dal

Il mio traguardo? La felicitàdi Anna Chiara Tatto

Mi chiamo AnnaChiara e ho 12 anni,e se devo dirla tuttasono un po’ risentitadi essermi ammalata,

di cancro a questa età, poi

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Venti anni fa, quando sono stata operata agli Istituti OrtopediciRizzoli di Bologna, ho conosciuto Anna Antenucci l’assistentesociale del Centro Tumori, una persona speciale che ha capitoper prima quanto è importante per un malato oncologico, la condivisione con qualcuno che ci è già passato ed è guarito!Quando gli ex pazienti andavano per i controlli in ambulatorio, liprelevava e li portava in reparto per farli conoscere alle personericoverate che dovevano subire interventi particolarmentedemolitivi e pericolosi, lo ha fatto molte volte anche con me.Ora è andata in pensione, anche se persone così non dovrebberomai andarci, perché sono troppo utili e insostituibili!In questa sede sento il dovere e il piacere di ringraziarla con tuttoil cuore perché è appunto grazie a lei che il Prof. Biagini hacapito quanto fosse necessario che nascesse una associazione dipazienti come la nostra nel suo reparto.Né io né lui ci siamo inventati nulla, l’importanza del serviziodella nostra associazione in reparto, ce lo ha insegnato solo esoltanto lei, Anna Antenucci.

Il PresidenteMonica Morelli

Grazie Anna

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Presidente Monica Morelli cell. 333 71 55 926Vice presidente Anna Borioni cell. 347 14 09 887Segreteria Stefania Ristucci cell. 338 59 48 449Tesoreria Francesco Minorenti cell. 338 97 07 300Consigliere Berardino Chirico cell. 320 15 08 854

Web site: www.rukije.org mail: [email protected]

Sede legale: Via Fontanelle di Sant'Apollaria, 1600039 - Zagarolo (Roma)

Associazione pazienti oncologici dell’apparato muscolo scheletrico

DONA IL TUO 5 PER MILLEIndica questo codice fiscale nella categoria Ricerca Sanitaria e ricordati di firmare!

10819891002L’adesione all’associazione prevede una quota associativaannuale di 15 euro.

In caso si voglia sostenere Rukije Un Raggio di Sole onlus èpossibile farlo utilizzando le seguenti coordinate bancarie

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Ringraziamenti

Non sarebbe stato possibile scrivere e dare alle stampe queste storiesenza tutte quelle persone che ci hanno aiutato e incoraggiato a farlo.Si ringrazianoAlessandro Zanardi per le emozionanti parole della sua prefazione.l'Italian Sarcoma Group nella persona del Presidente dott. Piero Picci,

per l'apprezzamento dimostrato verso il nostro lavoro e per il generosocontributo alle spese di stampa.l'Istituto Nazionale Tumori Regina Elena che accoglie la nostra attività

di volontariatoInfine il nostro sentito ringraziamento va al Prof. Roberto Biagini pri-

mario del reparto di ortopedia oncologica e a tutto il suo staff medico einfermieristico per l'attenzione, l'ascolto e la pazienza che ci riservanoogni giorno.

www.ifo.it

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Prima ristampa ottobre 2014 Progetto grafico e impaginazione Francesco Minorenti

Stampa: Tipografia Ambrosini Gianfrancozona industriale Campo Morino - 01021 Acquapendente (VT)