La narrazione nella relazione educativa: un percorso …...11Ci riferiamo ad alcune caratteristiche...

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1 La narrazione nella relazione educativa: un percorso di senso e di metodo Micaela Castiglioni 1.Mi racconti una storia… ? La narrazione ci appartiene fin dagli albori della storia dell’umanità, è connaturata al genere umano e alle sue manifestazioni e produzioni culturali, nonché forme letterarie o pre-letterarie.“La stessa scrittura non può fare a meno dell’oralità” (Ong, 1986,p.26). E’ ormai consolidato come “(…) il linguaggio” sia “(…) lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza e con cui (…) costituiamo la <<realtà>>” (Bruner, 2003, p.76). E’ per questo che la nostra quotidianità è intrisa di narrazione e prende forma attraverso la narrazione 1 . Narriamo a noi stessi e agli altri che ci circondano -più spesso i nostri famigliari e gli amici- gli impegni della nostra giornata; narriamo e ci narriamo nei luoghi di lavoro, di studio, in famiglia, negli spazi dedicati al tempo libero 2 . Narriamo i nostri momenti tristi, le nostre difficoltà, i nostri problemi e le nostre esperienze dolorose, ma narriamo anche le soluzioni trovate, la fine di un dolore, ciò che ci soddisfa, i nostri desideri e i nostri progetti. Solitamente non narriamo la normalità (Vittori, 1996: 17). Certo, abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti, esperienza che, al contrario del narrarci, non è così abituale nell’arco della nostra giornata. Questo qualcuno, è il “testimone”, ossia colui che svolge, più o meno con esplicita consapevolezza, il compito particolarmente significativo “(…) di restituirci la nostra storia, di narrarcela di nuovo, arricchita dall’accumulo delle sue conoscenze” (Jedlowski, 2000: 119). Le narrazioni inoltre, il più delle volte, ci affascinano e ci incuriosiscono. Quando ci capita di ascoltare qualcuno, la cui loquela rilassata, avvolgente, abitata da immagini ed emozioni, sembra un racconto, o qualcuno che è in grado di spiegarci qualcosa -anche di difficile- come se fosse un racconto, ne rimaniamo quasi rapiti e ci piacerebbe che continuasse (Vittori, 1996: 17). “Il modo di raccontare qualifica il racconto stesso (…)” (Vittori (1996: 17). 1 Si consideri in modo particolare l’ampia riflessione di Demetrio sul tema della narrazione di tipo autobiografico. Si tengano presente inoltre (Cavarero, 1997; Jedlowski, 2000; Nanni, 1996; Smorti, 1994; Vittori, 1996 ) autori ai quali ci siamo riferiti in questo contributo. 2 Come da precedente nota.

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La narrazione nella relazione educativa: un percorso di senso e di metodo

Micaela Castiglioni

1.Mi racconti una storia… ?

La narrazione ci appartiene fin dagli albori della storia dell’umanità, è connaturata al genere umano e alle sue manifestazioni e produzioni culturali, nonché forme letterarie o pre-letterarie.“La stessa scrittura non può fare a meno dell’oralità” (Ong, 1986,p.26). E’ ormai consolidato come “(…) il linguaggio” sia “(…) lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza e con cui (…) costituiamo la <<realtà>>” (Bruner, 2003, p.76). E’ per questo che la nostra quotidianità è intrisa di narrazione e prende forma attraverso la narrazione1. Narriamo a noi stessi e agli altri che ci circondano -più spesso i nostri famigliari e gli amici- gli impegni della nostra giornata; narriamo e ci narriamo nei luoghi di lavoro, di studio, in famiglia, negli spazi dedicati al tempo libero2. Narriamo i nostri momenti tristi, le nostre difficoltà, i nostri problemi e le nostre esperienze dolorose, ma narriamo anche le soluzioni trovate, la fine di un dolore, ciò che ci soddisfa, i nostri desideri e i nostri progetti. Solitamente non narriamo la normalità (Vittori, 1996: 17). Certo, abbiamo bisogno di qualcuno che ci ascolti, esperienza che, al contrario del narrarci, non è così abituale nell’arco della nostra giornata. Questo qualcuno, è il “testimone”, ossia colui che svolge, più o meno con esplicita consapevolezza, il compito particolarmente significativo “(…) di restituirci la nostra storia, di narrarcela di nuovo, arricchita dall’accumulo delle sue conoscenze” (Jedlowski, 2000: 119).Le narrazioni inoltre, il più delle volte, ci affascinano e ci incuriosiscono. Quando ci capita di ascoltare qualcuno, la cui loquela rilassata, avvolgente, abitata da immagini ed emozioni, sembra un racconto, o qualcuno che è in grado di spiegarci qualcosa -anche di difficile- come se fosse un racconto, ne rimaniamo quasi rapiti e ci piacerebbe che continuasse (Vittori, 1996: 17). “Il modo di raccontare qualifica il racconto stesso (…)” (Vittori (1996: 17).

1Si consideri in modo particolare l’ampia riflessione di Demetrio sul tema della narrazione di tipo autobiografico. Si tengano presente inoltre (Cavarero, 1997; Jedlowski, 2000; Nanni, 1996; Smorti, 1994; Vittori, 1996 ) autori ai quali ci siamo riferiti in questo contributo.

2Come da precedente nota.

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Un po’ come accade ai bambini e come ci è successo durante la nostra infanzia. Sappiamo bene, infatti, come ai piccoli piaccia ascoltare le storie, generalmente nel silenzio di casa, prima di addormentarsi o nella scuola dell’infanzia.3 Le narrazioni che fanno da sfondo all’addormentamento introducono una stabile, prevedibile e accogliente routine in una giornata, che oggigiorno, può essere frammentata anche per un bimbo piccolo, sono un appuntamento rassicurante con chi si prende cura del bambino, infondono fiducia, sono bonificanti e lenitive, proprio per lo schema narrativo attorno al quale si snodano. Ci sono dei personaggi, avvengono delle azioni, c’è un eroe che supera delle prove, aiutato a volte da interventi magici4. Le paure ci sono, sono legittime ma si possono affrontare e anche superare da soli o con l’aiuto di chi si prende cura di noi, le fatiche e gli imprevisti non mancano, il non conosciuto c’è, ma c’è spazio anche per ciò che pensiamo e sentiamo in comune con gli altri, e che ci fa sentire meno soli5.E’ anche vero, d’altra parte, che i bambini più grandi per età, sono più coinvolti da quei racconti che sono meno prevedibili e che contengono più colpi di scena, perché più capaci di tollerare emotivamente l’incertezza e di darsi spiegazioni rispetto a eventi, situazioni, e comportamenti che possono cambiare all’improvviso. Anche in questo caso, tuttavia, l’impianto narrativo, con le sue regole e caratteristiche riesce contemporaneamente a meravigliare, a spiazzare e a contenere, pur sempre all’interno di una relazione educativa o di cura percepita come significativa e di riferimento (Smorti, 1994; Vittori, 1996: 17)6. Conferire una “forma narrativa” a ciò che accade, attraverso l’azione, propria di chi ci narra una storia, all’interno di un clima e di una relazione che ci fa sentire accolti, ci permette fin da quando si è piccoli, di dare una forma, almeno momentanea, agli eventi e alle situazioni (Bruner, 2003; Jedwloski, 2000; Smorti, 1994; Vittori, 1996). Inoltre, riportare l’esperienza all’interno di

3Relativamente alla nostra articolazione espositiva si cfr., (Jedlowski, 2000: 127-133; Vittori, 1996: 17).

4Per quanto riguarda lo sviluppo tematico della riflessione qui condotta, si prendano in considerazione (Jedlowski, 2000: 127-133; Vittori, 1996: 17). Si veda inoltre (Smorti, 1994). Rispetto alla centralità dello schema narrativo, il riferimento è d’obbligo alla riflessione di Propp, tra i maggiori esponenti del formalismo russo, le cui teorie sono riprese in modo approfondito da (Smorti, 1994).

5Si cfr., la nota sopra.

6Si considerino gli studi di Propp, richiamati da (Smorti, 1994). Relativamente alla connessione tra narrazione e relazione in cui essa si situa e prende forma, rimandiamo a (Jedlowski, 2000: 21; 25).

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una “trama” narrativa7 implica l’attivazione di un “(…) processo in gran parte sociale, che rende possibile la condivisione a livello collettivo del nostro racconto in modo da diventare patrimonio comune e non solo individuale” (Vittori, 1996: 17).La narrazione in modo particolare quando è situata nella relazione con l’altro, ma anche quando, in età più adulta, è monologo con se stessi, ci permette di “avere esperienza”, per cui è “nel linguaggio” (Jedlowski, 2002: 40-41), capace di ri-orientare l’esperienza, ri-significandola (Jedlowski, 2002: 41), che possiamo trovare l’antidoto a quella rischiosa e poco generativa situazione esistenziale di chiusura cognitiva ed emotiva verso se stessi e gli altri, che è poi chiusura verso “altre” interpretazioni dell’esistenza e della nostra vita, comprese le relazioni che sviluppiamo con gli altri (Jedlowski, 2000: 120). La narrazione mette al centro della relazione, tra cui quella educativa, la personale e altrui esperienza, la rende visibile a se stessi e agli altri, la “fa parlare”, la “fa dialogare” con le altre esperienze narrate, la valorizza, può contribuire a modificarla e a ri-vivificarla, ridimensionando il rischio, per cui “La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza” (Jedlowski, 2002: 40)8. Situazione di “noia”, ci verrebbe da dire, o di sterilità della “curiosità” verso l’altro, non poi così insolita nei vissuti degli studenti e forse anche degli insegnanti nelle aule delle nostre scuole, forse poco “narrativamente orientate”.

2.Non tutto è narrazione

A questo punto della nostra riflessione -prima di addentrarci nel tema del rapporto tra narrazione e relazione educativa- ci sembra giunto il momento di introdurre una distinzione tra “storia”, “racconto” e “narrazione”, termini che abbiamo usato indistintamente e che, al contrario, necessitano di alcuni importanti distinguo (Jedlowski, 2000: 7-19)9.Parlare di “storia” implica necessariamente l’individuazione di “un qualcosa”, reale o immaginario, a partire “dal quale” e “attorno al quale” si articola e si

7La dimensione della trama narrativa è di fondamentale importanza, soprattutto, se la narrazione è messa al centro dell’esperienza formativa e didattica. Essa è presa in considerazione dagli autori, fin qui, già citati. Si tratta di un motivo particolarmente approfondito nell’ampia riflessione di Ricoeur. Si tenga presente inoltre (Brooks, 1995). (Gli autori sono richiamati da (Jedwloski, 2000)).

8Laddove, l’autore cita W.Benjamin e il suo Narratore.

9Le dimensioni inserite qui di seguito, riguardanti la nozione di “storia”, “racconto” e “narrazione”, vanno ricondotte a (Jedwloski, 2000: 13; 21; 25).

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sviluppa la storia stessa. Essa porta con sé inevitabilmente il suo ’”oggetto”. Spesso ci rivolgiamo al nostro interlocutore chiedendogli di che cosa parli la storia, quale sia il tema che essa tratta.Il “racconto” è la modalità attraverso la quale la storia viene esplicitata all’esterno. Abbiamo a che fare con più modi di raccontare una storia, a seconda che sia affidata all’oralità o alla scrittura o ad altri mezzi espressivi e di comunicazione. La “narrazione” -alla quale ci siamo più spesso riferiti- è “l’atto del raccontare (…)”, che riguarda almeno due interlocutori coinvolti all’interno di una “relazione”, la quale rende possibile la narrazione stessa, ma che quest’ultima, d’altra parte, è in grado di potenziare, alimentare, problematizzare e negoziare, in ogni modo, rendere più complessa nella direzione di un maggior coinvolgimento e di una più intensa profondità e ricchezza di pluralità di prospettive, non sempre coincidenti, e per questo, in alcune situazioni, modificabili10.Se la “storia” “esiste” “nel racconto”, la “narrazione” è ciò che conferisce “trama” alla storia, e in fondo potenzia quella del racconto (Jedwloski, 2000: 14-16). E’ solo in presenza della “narrazione-trama” sottesa da un “pensiero in movimento”, che per questo collega e ri-collega tra loro i fatti, le situazioni, i comportamenti, le azioni, le varie temporalità, i punti di vista, ecc.,11 che ci sentiamo coinvolti come ascoltatori, -a questo punto-, attenti e in posizione di indagine, se non di vera e propria ricerca di senso o meglio di molteplicità di significati.A generarsi tramite la narrazione condivisa nella relazione, è uno spazio e un tempo di sospensione, di attesa… (Jedwloski, 2000: 17-21)12, che dal punto di vista educativo si traduce nel poter fare esperienza con continuità, di un contesto didattico e di una relazione di insegnamento-apprendimento orientati a rispettare la singolarità di ogni studente all’interno del gruppo classe, e a sviluppare e potenziare in chi apprende atteggiamenti di vitale creatività, “fluidità” e “mobilità del pensiero”, premessa indispensabile se il docente è veramente interessato a promuovere competenze relazionali e sociali, in ciò profondamente convinto che questa sia una tra le cruciali funzioni svolte dalla scuola, come luogo di formazione e di crescita globale e profonda dell’individuo.

10Si veda la precedente nota.

11Ci riferiamo ad alcune caratteristiche del pensiero narrativo. Per un approfondimento di tali dimensioni si rimanda a (Smorti, 1994). Si vedano inoltre (Castiglioni, 2008: 107-123; Formenti, 1998). Rispetto alla finalità della trama, così intesa, il riferimento va a (Jedlowski, 2000: 15-20; Smorti, 1994).

12Motivo sul quale si sofferma (Cavarero, 1997: 159, citata anche da (Jedwloski, 2000)).

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D’altronde, per riprendere il motivo dell’attesa narrativa, fa presente Jedlowski come sia proprio il “desiderio” “della fine” della narrazione, ciò che la sorregge e la alimenta, tenendola in vita e impegnando paradossalmente chi narra a vivificarla continuamente13. Esigenza e, al tempo stesso, finalità irrinunciabili, come vedremo più avanti, per un “docente narrativo”14. Di qui, il passo è breve per il riferimento alle Mille e una notte15. Che cosa rende possibile il posticipare, di notte in notte, la morte di Sheherazade?16. L’appuntamento del sultano costantemente rinnovato con una storia narrata da chi è sapiente nell’ “arte” del narrare (Cavarero, 1997: 158; Jedwloski, 2000), e che per questo lascia fluire e moltiplicarsi la narrazione stessa (Cavarero, 1997: 156-160). Essa: “(…) non solo ferma la morte, ma guadagna il tempo per generare vita” (Cavarero, 1997: 159). Potremmo dire, che l’univocità definitiva e rigida del significato non può interessare alla narrazione e al pensiero che la regge: ciò costituirebbe, infatti, la sua morte. A morire sarebbero anche gli interlocutori coinvolti (Cavarero, 1997; Jedwloski, 2000). In fondo, anche a scuola si può simbolicamente morire, perdendo il contatto con la complessità costantemente in movimento e proliferante dell’esperienza educativa e, potremmo dire, della vita dei singoli, dentro e fuori la scuola (Massa, 1997), laddove la narrazione e le dimensioni di crescita e realizzative di sé, e di sé con gli altri, che essa veicola, non abbiano cittadinanza o abbiano una “cittadinanza” quasi “clandestina”. La narrazione ci invita a essere individui adulti meno centrati su di sé, meno preoccupati “di sé”, e “per sé”, meno protesi verso il centro della scena -compresa quella educativa e didattica- meno difesi, dentro la classe, dietro il proprio ruolo professionale di insegnanti: il sultano delle Mille e una notte -possiamo pensare, prendendo spunto dal racconto arabo e, al tempo stesso, andando oltre, e forzandolo anche un pò- che si collochi, in un certo senso, tramite l’effetto della narrazione, dentro una relazione che processualmente si snoda all’interno di una reciprocità, dove ognuno “necessita” dell’altro. La narrazione ci stimola a essere più democratici, mette in gioco la dimensione dell’”umilità”, per cui se la parola “umile” rimanda

13(Jedwloski, 2000: 20), laddove cita la riflessione di (Brooks, 1995), che abbiamo inserito.

14Riferiamo alla figura del docente la “definizione” che (Smorti, 1994) attribuisce al bambino, “caratterizzato”, appunto, come “narrativo”.

15Il rimando va a (Cavarero, 1997; Jedwloski, 2000).

16Ci chiediamo ciò, con (Jedlowski, 2000: 18-21; Cavarero, 1997: 159-165). (Il punto di vista dell’autrice è ripreso da (Jedlowski, 2000)).

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etimologicamente al termine “humus”, ossia terra (Mottana, 2000:89)17, la pratica della narrazione è fertile “esperienza di discesa” verso l’altro”18, che può trovarsi momentaneamente in una “posizione più in basso”19, in una situazione provvisoria di maggiore fragilità, di dipendenza, di minore competenza, sapere o esperienza, comunque, di differenza da noi stessi, a volte, una diversità di punti di vista e di “opzioni di mondo”, che ha ragioni molteplici e che, se accolta in modo pensato e valorizzata responsabilmente, può contribuire alla crescita e alla maturazione di ognuno di noi.Non dimentichiamo che “(…) i racconti più interessanti sono quelli che si sporgono oltre i confini del gruppo. Quando i membri di una cerchia sociale entrano in contatto con quelli di un’altra cerchia, i racconti che ne riporteranno saranno dapprima intrisi di stupore e di “etnocentrismo”, ma, più il contatto si farà intenso o frequente, più questi racconti tenderanno a incorporare in sé elementi del punto di vista di entrambe le cerchie. Esprimeranno così il formarsi di un tessuto narrativo originale che può illuminare di luce nuova tanto le regole e i comportamenti di un gruppo quanto quelli dell’altro” (Jedwloski, 2000: 79). Anche in classe, allora, gli studenti e gli insegnanti sono portatori di molteplici “mondi” di formazione, sociali, familiari, culturali, generazionali, ecc., che la narrazione può mettere in dialogo, generando altre e differenti narrazioni che potevano sembrarci lontane, non appartenerci e per questo poco condivisibili, se non del tutto.

3.La narrazione e le sue caratteristiche

Facciamo ora, un ulteriore passo indietro per comprendere soltanto alcune tra le caratteristiche fondamentali della narrazione, che riteniamo di cruciale importanza ai fini della riflessione che stiamo conducendo. S o t t o l i n e a B r u n e r c o m e l a n a r r a z i o n e i m p l i c h i l a “soggettivizzazione”dell’esperienza, per cui ogni individuo narra e si narra a partire dalle rappresentazioni di cui è portatore, culturalmente, socialmente e - potremmo dire- autobiograficamente collocate (Bruner, 2003: 33; Smorti, 1994).

17Estendiamo alla relazione educativa “narrativamente orientata”, quanto (Mottana, 2000) all’interno di una prospettiva junghiana, mette in connessione alla pratica educativa e di insegnamento contrassegnata da un’”autentica” “accettazione dell’altro”, che implica un procedimento di “sottrazione” di sé .

18Si veda la precedente nota.

19Si cfr., sopra.

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Del resto, la narrazione come “soggettivizzazione” di un fatto, di un evento, ecc., è “(…) una rappresentazione delle cose che, lungi dal configurarsi come la visione di una realtà senza tempo da parte di un occhio onnisciente, avviene attraverso il filtro della coscienza dei personaggi” (Bruner, 2003: 33). Ne consegue che essa non può essere svincolata dal preciso “punto di vista” di chi la produce (Smorti, 1994:79, Bruner, 2003) che, quando è implicito, va a costituire le “presupposizioni” (Bruner, 2003: 33), o riferimenti impliciti di ciò che viene narrato. In questo senso, la narrazione è creativamente soggetta a una “componibilità ermeneutica” (Smorti, 1994:79)20, o possibilità in divenire di molteplici interpretazioni, che viene a coincidere con la ormai ben nota “coniugazione della realtà al congiuntivo”, secondo la concettualizzazione di Bruner (2003: 45). Dentro la narrazione c’è il nostro mondo, i valori in cui crediamo, i nostri disvalori, e “(…) il mondo viene visto (…) attraverso una molteplicità di prismi, ciascuno dei quali ne coglie una parte” (Bruner, 2003: 33). Di qui, il carattere “pluralmente prospettico” della narrazione (Bruner, 2003: 33). A proposito di ciò, è sicuramente suggestiva e disvelatrice la conversazione che avviene tra Marco Polo e Kublai Kan, nelle Città Invisibili di Calvino21:

-Sire, ormai ti ho parlato di tutte le città che conosco.-Ne resta una di cui non mi parli mai.Marco Polo chinò il capo.-Venezia, -disse il Kan.Marco sorrise. –E di che altro credevi che ti parlassi?L’imperatore non battè ciglio.- Eppure non ti ho mai sentito far il suo nome.E Polo: -Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.-Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti dire di quelle.E di Venezia, quando ti chiedo di Venezia.Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia.

Di quanti impliciti, chiediamoci, sono portatori gli studenti e gli insegnanti, che “per-formano” la narrazione di sé e dell’esperienza, compresa quella educativa e didattica, e che, al tempo stesso, proprio attraverso la narrazione, possono diventare oggetto di consapevolezza, migliorando e arricchendo la relazione di insegnamento-apprendimento con gli insegnanti, adulti di riferimento, e tra gli stessi studenti. Ciò, ancor più quando nelle nostre classi, il vicino di banco proviene da appartenenze geografiche, culturali o

20Si tenga presente come le caratteristiche qui richiamate, riguardanti la narrazione, siano applicate, come si è già avuto modo di sottolineare, anche al pensiero narrativo che la sottende (Smorti, 1994).

21Citato in (Bruner, 2003:45-46).

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famigliari, che possono essere anche molto diver se. Dove i bambini e i ragazzi forse sono anche desiderosi di non essere soltanto vicini di banco.Un’ulteriore caratteristica della narrazione, che di fatto è una conseguenza delle sue specificità sopra richiamate, è il suo costituirsi attorno a dimensioni e componenti di “linearità” “prevedibile”, di “canonicità” (ok) consolidata e legittimata, ma anche di “trasgressione” “imprevista” e innovativa di tutto ciò (Bruner, 1991; 2003; Smorti, 1994: 79, 83, 1997: 3-45). Bruner si riferisce a questo procedere narrativo con il termine di “violazione della canonicità” (Bruner, 1991; 2003; Smorti, 1994: 79; 83, 1997: 3-45). Fino a un certo punto, e per un certo lasso di tempo, anche lungo, la nostra narrazione si è articolata e si è sviluppata seguendo un certo schema o “copione” (Smorti, 1994: 82-83), poi all’improvviso, il più delle volte per l’incontro con altre narrazioni (Bruner, 1991; 1992; 2003; Jedwloski, 2000; Smorti, 1994), o per l’assunzione di uno sguardo che la personale esperienza di vita può aver modificato, ci permettiamo di introdurre delle modifiche, se non una vera e propria svolta, in quella narrazione nella quale ci siamo sempre rispecchiati e che credevamo appartenerci.22 Stimolandoci in questa operazione, la narrazione ci invita non senza fatica, “(…) a spostarsi dal piano obiettivo delle azioni al piano soggettivo della coscienza” (Smorti: 1994: 83). Qui sta il potenziale portato formativo e accrescitivo della narrazione, considerata all’interno di una relazione educativa significativa: le arroganti certezze vacillano, i dubbi si fanno avanti, gli sguardi propri e altrui incominciano a intersecarsi e a trovare possibili e sensate ragioni di convergenza, i punti di vista sclerotizzati, a volte, interiorizzati senza sapere come -quasi per automatismo generazionale, culturale, famigliare, ecc.-, ritrovano una più intima e personale creatività. A realizzarsi “nello” e “tramite” lo spazio narrativo è il ri-conoscimento di sé, e il reciproco ri-conoscersi. E’ così che “(…) l’inerzia mentale” viene un po’ meno, “(…) e soprattutto, la paura di farci coinvolgere” (Jedwloski, 2000: 143). Come potrebbe essere diversamente ? Se “le storie degli altri ci aprono alla coscienza di questo mondo: ci riguardano, perché gli altri ci riguardano “ (Jedwloski, 2000:143).

4.Pensare narrativamente fin da piccoli

A questo punto non dobbiamo dimenticare, anche se per brevi cenni, che la narrazione è sottesa e, al tempo stesso, attiva un particolare tipo di pensiero che è quello narrativo. Per cui collocare l’esperienza educativa e didattica all’interno di una matrice narrativa implica necessariamente sviluppare un

22Rimandiamo a (Bruner, 1991; 1992; 2003; Jedwloski, 2000; Smorti, 1994).

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procedere del pensiero narrativamente orientato che ha delle inevitabili e cruciali ricadute sulla crescita e sulla formazione individuale, sullo sviluppo di competenze sociali e sull’intenzionalità della relazione educativa stessa23. Ci poniamo in continuità con Grazzani, laddove l’autrice sottolinea come la narrazione “(…) è intesa, in sostanza come un modo di pensare, di creare significati che permettano di collegare il proprio Sé ai mondi possibili che verranno incontrati al di fuori dell’esperienza scolastica”, e aggiungiamo noi, dentro l’esperienza scolastica24. E se, la narrazione, o il pensare narrativamente se stessi, se stessi con gli altri (studenti-coetanei, o docenti), e se stessi in rapporto all’esperienza apprenditiva, può contribuire in modo fertile “(…) a costruire una versione del mondo in cui i ragazzi possano immaginare (…) un posto per sé” (Grazzani, 1999: 48)25; allora, il procedere educativo, orientato narrativamente, aiuta nella costruzione di un contesto di apprendimento rassicurante (Bruner, 1973: 101). Si tratta di una premessa assolutamente necessaria perché i ragazzi possano “(…) esprimere un’idea molto soggettiva, per accostare un compito come un problema dove si inventa una risposta piuttosto che trovarne una nel libro o sulla lavagna” (Bruner, 1973: 101). Abbiamo a che fare con una possibilità accrescitiva e formativa ancora più urgente, quando in classe gli studenti appartengono a culture altre, anche molto diverse tra loro, dove il rischio di imbattersi, di fare proprie e di riconoscersi in risposte “troppo” culturalmente determinate e accreditate definitivamente è a portata di mano.Cerchiamo di comprendere più da vicino, a questo punto, il pensiero narrativo, seguendo la riflessione di Smorti (1994: 77-137). Si tratta di un pensiero fluido e in “curioso movimento”, sicuramente attento al passato e ai significati che esso porta con sé, ma altrettanto aperto alla possibilità di ri-visitare e ri-comprendere le “stratificazioni di senso”, in quanto portatore di un’”intenzionalità” sempre “contestualizzata” e orientata a farsi carico di “visioni complessive”, che mettono in gioco necessariamente l’”interdipendenza parte-tutto”26. E’ un pensiero “linguisticamente sintagmatico”, “nel senso che l’asse del suo linguaggio è orizzontale e riguarda tutte le possibili opzioni sintattiche per concatenare le parole o le frasi tra loro”, per questo esso “costruisce storie”,

23Più autori, alcuni tra i quali qui richiamati, si soffermano sul rapporto tra pensiero narrativo, narrazione e relazione educativa. In particolare, si consideri l’ampia riflessione di Bruner.

24In sintonia comunque con (Grazzani, 1999: 48) la quale riprende, relativamente a tale aspetto, il punto di vista di Bruner.

25Con una nostra piccola variazione espositiva rispetto all’autrice.

26Si tengano presente inoltre (Castiglioni, 2008; Formenti, 1998).

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preoccupato di cogliere democraticamente la molteplice e fertile diramazione dei significati che si generano in ogni singola esperienza (Smorti, 1994: 92-93) 27 .Sappiamo molto bene, come fin da piccoli, la procedura narrativa del nostro pensiero sia co-presente a quella di tipo paradigmatico, per cui in alcune situazioni, messi davanti a certi compiti o difficoltà, in relazione ad alcuni interlocutori, ecc., usiamo un ragionamento narrativo, mentre in altri contesti, e relativamente ad altre esperienze, può risultare più funzionale la logica paradigmatica, così come possiamo fare riferimento contemporaneamente a entrambe (Smorti, 1994: 177-186). A tal proposito, Smorti -in base a ricerche svolte con campioni di bambini, di età compresa tra i 5 e gli 11 anni, alle prese con attività di classificazione/collezione di oggetti, di “gioco” e di interazione-, introduce la nozione di bambini “narrativi” e bambini “logici” ” (Smorti, 1994: 177-186). Chi sono i bambini “narrativi”, o meglio, quali strategie cognitive utilizzano e quali comportamenti assumono ? Senza dubbio sono bambini che di più, rispetto a quelli “logici,” si “divertono” “con il pensiero”, seguendo sì, un “canovaccio” di ragionamento, che si “attiene ad una struttura di realtà” (Smorti, 1994: 183), ma al tempo stesso, capaci e interessati a sovvertire ciò che è ritenuto scontato, perchè pensato in maniera solita, alla ricerca narrativa di “combinazioni di oggetti”, e pertanto, di idee meno familiari e tradizionali, ma pur sempre “verosimili” (Smorti, 1994: 183-184).28 Laddove, al contrario, i bambini “logici” sembrano fare più fatica a emanciparsi in modo creativo e innovativo da quanto rientra nello “stabilito”, secondo regolarità e “logica coerenza”, se non con-fermata appropriatezza, in base a usi e abitudini consolidate29.Sembra inoltre che i bambini “narrativi” siano più facilitati a entrare in relazione con gli altri bambini, anche quando sono portatori di differenti punti di vista. Afferma Smorti “(…) quando era il soggetto “logico” ad esprimere il proprio disaccordo30, questi lo argomentava assai meno di quanto non facesse il soggetto “narrativo”. Quest’ultimo sembrava più consapevole della differenza esistente tra i punti di vista e della non completa ovvietà del proprio, tanto che si sforzava di giustificarlo” (Smorti, 1994: 185).

27Con l’introduzione di una piccola modifica espositiva.

28Per l’intera dimensione concettuale, qui richiamata, si è fatto riferimento a (Smorti, 1994: 177-186). (Si è apportata una leggera variazione espositiva rispetto all’autore).

29Come da precedente nota.

30Riferendosi ai contesti di ricerca in cui sono stati coinvolti i bambini.

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A questo punto ci chiediamo, ma il “bambino “narrativo” che c’è in ognuno di noi”, che fine ha fatto ? Perché proprio la scuola soprattutto dalle secondarie di primo grado a quelle di secondo grado, sembra dimenticarsi di lui ? Perché, noi adulti-insegnanti rischiamo di lasciarlo sullo sfondo ? Perché - unendoci alla domanda sollevata da Bruner - “(…) i ragazzi a scuola impegnano gran parte del tempo in un notevole sforzo per capire che cosa vuole l’insegnante, e di solito per giungere alla conclusione che vuole ordine o vuole che si ricordino o facciano cose ad un certo momento e in un certo modo” ? (Bruner, 1973: 101). Con il rischio che tale scelta educativa contribuisca a creare formae mentis rigide che prendono le distanze dal ri-pensare e ri-elaborare soggettivamente i saperi e i contenuti trasmessi, così come i punti di vista interiorizzati, e già fatti propri da altri31. Premessa, che facilmente porta al disinteresse per la scoperta dell’altro, rispetto a noi, che è poi disinteresse verso la “ricerca di sé”. Nella migliore delle ipotesi. Esiste infatti uno stretto e importante nesso tra pensiero narrativo, narrazione e costruzione di sé, o del sé, appunto “narrativo”, dinamicamente re-interpretabile e per questo, più flessibilmente e socialmente aperto -come ci ricorda Bruner- alle “narrazioni” di cui gli altri sono portatori32.

5.L’”insegnante narrativo”

A questo punto della nostra riflessione, avvicinandoci sempre più alla questione della centralità della narrazione a scuola e delle sue implicazioni sulla relazione educativa, è inevitabile chiedersi se si possa parlare di “insegnante narrativo”33, provando al contempo a domandarsi “chi sia”. Cerchiamo di avvicinarlo e di conoscerlo più da vicino, tramite le parole di Sandro Onofri, insegnante di liceo in un quartiere piuttosto degradato di Roma, laddove nel suo diario, in data 10 febbraio, scrive:

“Quelli che di questi tempi, con gli scrutini, non fanno che interrogare e interrogare. Quelli che tanto non serve a niente (…) Quelli che io, con questi studenti qua, posso concedere al massimo un cinque (…). Quelli che, ma questi sono bestie, cosa gli vuoi dare ? Quelli che la scuola sarebbe così bella se solo non ci fossero i ragazzi. Quelli che noi, che facciamo i professori, lo

31In sintonia con (Grazzani, 1999: 50).

32 Per un approfondimento di tale tema si rimanda all’intera riflessione di Bruner e al testo di (Smorti, 1997).

33Da qui, in poi, riferendoci all’”insegnante narrativo”, non useremo più le virgolette.

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facciamo per una vocazione (…). Quelli che senta, Preside, lei deve prendere provvedimenti con questa classe qui (…). Quelli che a me, mi mancano solo due anni per la pensione (….). Quelli che, io sono un professore serio, i miei voti vanno dal due al cinque (…). Quelli che abbiamo studiato tanto, e guarda come ci ritroviamo. (…) Quelli che tanto puoi insegnargli quello che ti pare, questi, quando escono da qui, che ti credi che gli resta ? (…) Quelli che basta, basta fare gli psicologi, qui chi non fa non merita (…). Quelli che io non ero così. Quelli che, invece no, questo ragazzo è proprio educato, buono, non disturba mai, sta zitto zitto: sette ! Quelli che è tutta fatica sprecata (…). Quelli che queste giovani generazioni, senza valori, senza più padri (…). Quelli che i genitori sono peggio dei figli. Quelli che per questi qui, quello che so basta e avanza. Quelli che guardano quelli che, e pensano: questi, beati loro, questi non hanno ancora capito” (Onofri, 2000: 150-151).34

Bene, l’insegnante narrativo, è quello che “guarda” gli altri colleghi, “quelli beati”, con quel pizzico di ironia, che come gli studiosi della resilienza ci ricordano, aiuta ad affrontare l’eccesso di impegno, in particolare emotivo, se non il vero e proprio stress, della nostra quotidianità (Vanistendael, 2005).Non è un martire, immolato sulla cattedra, non è onnipotente, non fa del suo lavoro una missione, non è naturalmente “portato” per l’insegnamento. E’ un insegnante, “professionista dell’educazione” (Riva, 2008), che sceglie di “essere narrativo” personalmente e in classe, e che assume con consapevolezza la centralità dello “sguardo narrativo” ai saperi e alla relazione educativa di insegnamento-apprendimento, all’interno di un progetto formativo e didattico, pensato e proposto con continuità e coerenza rivisitabile di significato35. E’ un docente che si fa carico della fatica di “essere narrativo”, “atteggiamento mentale” e “relazionale”, che prima di tutto gli richiede di lasciarsi coinvolgere e di mettersi in gioco criticamente con i suoi riferimenti culturali e valoriali, con le sue “visioni di mondo”, direbbe la fenomenologia, con i suoi saperi, le sue opzioni didattiche, i suoi vissuti e le modalità di relazione e di significazione che gli appartengono. D’altronde, “un buon insegnante è sempre un po’ antropologo” (Sclavi, 2003: 100), e “(…) mette sempre l’interculturalità fra sé e i suoi studenti” (Sclavi, 2003: 109). E la narrazione non può che potenziare questi atteggiamenti e queste opzioni educative Potremmo dire che l’insegnante narrativo è impegnato in un costante lavoro di riflessione su di sé, sulla propria identità professionale e sulla propria pratica educativa messa in atto quotidianamente (Mortari, 2003; Riva, 2008; Shon,

34Il corsivo è nostro.

35Si tenga presente l’orientamento della “pedagogia narrativa” (Mantegazza, 1996; Nanni, 1996; et.al.,).

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1993). Processo di cui apprezza più i guadagni che i costi, perché costituisce la premessa e lo sfondo che gli permette di problematizzare e di ri-trovare il senso più profondo del proprio agire educativo e didattico, attento in ciò, al senso che viene dato dagli studenti all’esperienza educativa in cui sono coinvolti (Mortari, 2003). E’ un professionista che non smette di “prendersi cura” del senso del lavoro educativo e del suo specifico lavoro educativo, proprio per stare meglio e per lavorare meglio con gli studenti, mentre i colleghi, “quelli beati” -per dirla con Onofri (2000: 151), - sembrano stare male a scuola e con i ragazzi, perché vivono costantemente l’esperienza, a dir poco frustrante, del venir meno del senso del proprio agire educativo e didattico. Questione questa, sempre più cruciale, in uno scenario istituzionale come quello attuale che sicuramente non sostiene la motivazione e l’investimento dei docenti, se teniamo presente come l’intero sistema formativo rischi di essere dolorosamente svuotato di un progetto e di una progettualità culturale, formativa ed educativa, più ampi e profondi (Riva, 2008). Per usare un termine che Munari riferisce al ricercatore-formatore, ci viene da dire che l’insegnante narrativo sia un insegnante “epico” 36 , (Munari, 1993: 84-91), o meglio, abbia un “rapporto” “epico” “con la conoscenza”37 (Munari, 1993: 87-91), o disciplina che insegna, e con l’esperienza educativa stessa. Ripercorriamo allora la riflessione dell’autore, laddove scrive “(…) chi si avvicina alla conoscenza come un esploratore si accinge a partire per un viaggio avventuroso e pieno di imprevisti, dove tutto e anche il contrario di tutto può ugualmente succedere, dove bussole e compassi sono strumenti certo utili ma dei quali non ci si può sempre fidare, dove tutto quindi riposa

36Il “termine epico”, applicato al ricercatore (e che, noi estendiamo alla figura dell’insegnante), è derivato da Munari da (Elkana, 1981), come indicato dall’autore. La questione del “rapporto con il sapere” è di cruciale importanza nella riflessione di Munari all’interno del testo indicato. All’opposto del “ricercatore epico” -sempre seguendo il punto di vista di Munari (1993: 84-87), che, a sua volta, riprende, come si è appena detto, la prospettiva di Elkana (1981)- si colloca il “ricercatore tragico”, che per la modalità di “rapporto che ha con il sapere”, possiamo paragonare al ricercatore di tipo quantitativo preoccupato di arrivare a “spiegazioni” esaustive, definitive e generalizzabili, completamente affidato alla precisione dei propri “strumenti” e attento ad eliminare, il più possibile, quelle variabili che ritiene creino disordine nel percorso conoscitivo e di ricerca (in continuità con (Munari, 1991: 84-87). Se manteniamo il parallelismo con l’identità del docente, possiamo sicuramente riconoscere come le aule scolastiche non siano immuni da qualche “docente tragico”, che ha una rappresentazione dell’apprendimento, del proprio ruolo, della relazione con gli studenti, ecc., piuttosto simile a quella del “ricercatore tragico”. Il “docente tragico” trasmette verticalmente il suo sapere attraverso la lezione, applica strumenti e metodologie didattiche, sostituendole, di volta in volta, è eccessivamente preoccupato di valutare l’apprendimento e, tutto sommato, è più contento se gli studenti in classe sono silenti e prendono gli appunti della sua lezione.

37Come da precedente nota.

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sulle sue spalle e dove il senso del cammino non ha senso se non dopo averlo percorso. Questo rapporto con il sapere, che chiameremo (….), “epico”38, non si sente messo in pericolo dalla scoperta della complessità, anzi, ne è stimolato ed entusiasmato” (Munari, 1993: 85).Non si orienta in questo modo anche l’insegnante narrativo ? Egli possiede dei saperi, è un esperto della sua disciplina, è competente rispetto agli strumenti, ai metodi e alle tecniche per insegnare tali conoscenze, ma è altrettanto consapevole che tutto ciò non basta per muoversi nella complessità e problematicità di relazioni e di narrazioni che si sviluppano in un’aula scolastica (Massa, 1997; Riva, 2008). Egli sa bene infatti come la relazione a scuola si giochi a più livelli, c’è la relazione tra il docente e gli studenti, quella tra i pari, la relazione con i saperi, che chiama in causa l’insegnante e i ragazzi, la relazione che ognuno -docente e studente- sviluppa e ha sviluppato con l’esperienza di insegnamento e di apprendimento, la relazione quindi con i propri vissuti interiori -che non può escludere l’insegnante, e che l’esperienza educativa attuale attiva e riattiva- (Blandino, Granieri, 1995; Cerioli, 1997; Dallari, 2000; Massa, 1997; Riva, 2008), così come, la relazione con la propria storia di vita che per ognuno di noi è intrisa di differenti appartenenze culturali, generazionali, famigliari, potremmo dire, autobiografiche (Formenti, Gamelli, 1998). Di fronte a tutto ciò, l’insegnante narrativo sa che la scuola, l’esperienza educativa e didattica, e quindi la relazione educativa “non è una semplice questione di ordine e di disciplina, di autoritarismo o di permissività. E’qualcosa di più essenziale (…). Qualcosa che riguarda l’assetto interno degli insegnanti e dei ragazzi a partire da un insieme di regole che rendano possibili i ruoli reciproci. La messa in scena di uno sfondo integratore e di un gioco relazionale funzionali alla comunicazione didattica, nell’ambito di una più ampia esperienza formativa” (Massa, 1997: 85)39. Lungo questa direzione, “(…) la cultura scolastica non è quella dei programmi di studio. E’ una produzione di un universo di scambi simbolici e culturali entro le maglie della sua struttura organizzativa, è sistema procedurale capace di produrre mondi vitali” (Massa, 1997: 87), che possono correre il rischio, di diventare “mondi di espropriazione” (Massa, 1997: 87)40, sia per gli insegnanti che per gli studenti, quando a scuola le cose non vanno molto bene.

38Si cfr., la nota n.36.

39Applichiamo all’opzione educativa di tipo narrativo, quanto l’autore riferisce a una riflessione più globale e ampia sulla scuola e sull’esperienza educativa. (Si cfr., anche (Riva, 2008)).

40Si è apportata una lieve variazione espositiva rispetto all’autore. (Si cfr., sempre (Riva 2008)).

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Di che cosa si preoccupa allora l’insegnante narrativo ? Potremmo dire, di tante dimensioni che hanno a che fare con l’esperienza educativa e didattica, soffermarci sulle quali meriterebbe uno spazio ben più ampio. Sicuramente, ci preme sottolineare come sia attento a muoversi da una premessa epistemologica e procedurale, di fondamentale importanza, ossia la costruzione di uno “sfondo narrativo-di ricerca”41, che renda possibile e significativa l’esperienza apprenditiva.Il docente che si colloca nella prospettiva narrativa, pertanto, non “spiega” la lezione ma la “narra”42, e fa in modo che anche i ragazzi apprendano a narrare i contenuti didattici. La prospettiva cambia. Al “modello esplicativo” dove “tutto è già previsto, le domande e le risposte, il punto di partenza e il punto di arrivo” (Nanni, 1996: 51), si sostituisce il “modello esplorativo”43, dove i saperi suscitano pensieri, riflessioni, “dubbi creativi”, vengono co-costruiti, incrociati, problematizzati, rivisitati, messi in relazione a sé e al proprio mondo interiore (Formenti, Gamelli, 1998; Munari, 1993; Nanni, 1996; Sclavi, 2003). Per cui i tanti e differenti punti di vista, di cui ognuno è portatore, sono considerati una ricchezza all’interno della classe, gli impliciti cognitivi, emotivi, valoriali, ecc., connessi alla propria storia formativa, di crescita, di appartenenza culturale, generazionale, ecc., piano piano, possono trovare legittimità, diventando più espliciti, per cui, i docenti e gli studenti possono incamminarsi lungo il percorso, sicuramente non facile, del reciproco riconoscimento (Sini, 1999) della co-costruzione di significati da dare all’esperienza educativa/didattica, della negoziazione di punti di vista, “intrisi di sé” e del “proprio mondo” (Formenti, Gamelli, 1998). Un processo che richiede la disponibilità e la capacità di tollerare l’”incertezza” di un viaggio dentro la conoscenza e dentro di sé, come dovrebbe essere il viaggio apprenditivo che si compie a scuola (Formenti, Gamelli, 1998; Munari, 1993; Sclavi, 2003).

41Si consideri, a proposito della costruzione dello “sfondo”, la riflessione di (Massa, 1997), che si è appena presa in considerazione. Si veda inoltre (Nanni, 1996: 51). Tutto ciò, in continuità, ci preme ribadirlo, con il punto di vista di Bruner sul quale ci siamo già soffermati.

42In sintonia con (Nanni, 2003: 51).

43Estendiamo all’insegnante narrativo e all’esperienza educativa e didattica di “tipo narrativo”, quanto (Sclavi, 2003: 99) considera come dimensione irrinunciabili dell’”ascolto attivo”, che tra l’altro, è imprescindibile per il “nostro insegnante”. Si cfr., quanto l’autrice sottolinea relativamente agli atteggiamenti degli insegnanti (2003: 110-111). Si tenga sempre presente inoltre il punto di vista di Munari sul “procedere epico” del ricercatore-formatore che si è applicato all’insegnante narrativo (si cfr., la nota n.36). Irrinuciabile il riferimento all’intera prospettiva bruneriana.

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Per cui, “(…) è del tutto falso credere che la narrazione, a scuola44, sia la via facile e che la spiegazione sia invece la via difficile” (Nanni, 1996: 51). Tra l’altro, anche chi, tra gli insegnanti la pensasse in questo modo, rischierebbe di fare “troppa fatica, per nulla”, se teniamo presente come “(…) i nostri ragazzi si sentono spesso già stanchi e annoiati prima ancora di incominciare il cammino di una pseudo-ricerca” (Nanni, 1996: 51) ), come è quello dell’eccesso della “lezione-spiegazione” (Nanni, 1996: 51).Lungo questa direzione, l’insegnante narrativo è convinto che sia irrinunciabile la ricomposizione di insegnamento-apprendimento-formazione-educazione (Massa, 1997; Quaglino, 2005; Riva, 2008). Egli non è un anacronistico e insensato rivoluzionario che vuole eliminare i “contenuti”45 apprenditivi, ma è attento alla “forma” con cui propone i saperi ai ragazzi, per cui, ancora una volta, è attento a “costruire” un’esperienza apprenditiva dentro un contesto narrativo e relazionale aperto a “una pluralità di prospettive”. E’ un “esploratore di mondi possibili”, e accompagna gli studenti ad essere tali. E’attento alle sue “emozioni”, quando insegna, e alle emozioni degli studenti quando imparano, fa anche uno sforzo con la memoria, di ri-visitazione delle emozioni provate da studente, per ri-trovare possibili connessioni, o differenze, con le storie dei propri studenti (Formenti, Gamelli, 1998). Può essere, che più di una volta, esca dalla sua classe sentendosi serenamente “goffo”, perché ha accolto e valorizzato gli “incidenti di percorso” e gli “imbarazzi”, che si sono generati dentro la relazione educativa: sa che è tramite essi che, docenti e studenti possono contribuire insieme alla crescita in profondità dell’accadere educativo e didattico, che è poi crescita di sé, a più livelli, cognitivo, emotivo, formativo, apprenditivo, ecc.,.46 Sicuramente starebbe al gioco, e si metterebbe in gioco, qualora si trovasse protagonista di uno dei dialoghi metalogici di Bateson47:

“Una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: <<I padri sanno sempre più cose dei figli ?>> e il padre rispose: <<Sì>>. Poi il ragazzino chiese: <<Papà, chi ha inventato la macchina a vapore ?>> e il

44L’aggiunta è nostra, anche se in continuità con il punto di vista dell’autore.

45Le dimensioni riferite al procedere dell’insegnante narrativo, qui richiamate vanno ricondotte alla riflessione di Sclavi (2003: 99), che, come si è già sottolineato nella nota n.43, le attribuisce all’”ascolto attivo”, messo in contrapposizione all’”ascolto passivo”. (Ci poniamo in sintonia con gli autori già citati in questo paragrafo).

46In continuità,con (Formenti, 1998; Munari, 1993; Sclavi, 2003: 99; 110-111).

47Citato in (Onofri, 2000: 46).

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padre:<<James Watt>>. E allora il figlio gli ribattè:<<Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt ? >>48.

5.1.Per una relazione educativa narrativamente orientata Quanto abbiamo sottolineato rispetto all’identità professionale del docente narrativo, quali implicazioni ha sulla relazione educativa ? Crediamo, di avere in parte, già avvicinato questo motivo, almeno trasversalmente, anche se ci preme addentrarci, ancora un po’, sul rapporto tra narrazione e relazione educativa, per comprendere meglio che cosa si possa intendere per relazione educativa “narrativamente orientata”.L’insegnante che mette al centro della lezione, la narrazione (Nanni, 1996: 51), che “accompagna narrativamente” gli studenti ai saperi e all’esperienza educativa, attento a cercare di tradurre la vicenda scolastica in vicenda, condivisa con i coetanei, di crescita cognitiva, emotiva e relazionale, s’impegna, lui, per primo, nella co-costruzione di una “relazione educativa-narrativa”, sicuramente all’insegna della reciprocità, tra sé e gli studenti -cosa nota alla pedagogia fenomenologica49- dove la sua autorevolezza, o maggiore esperienza, se non maggiore conoscenza o padronanza del proprio mondo interiore, risiede proprio nella disponibilità e nella capacità di accogliere i vari punti di vista degli studenti che possono essere anche molto differenti dai propri, “im-prevedibili”, se non “pro-vocatori” o “urticanti”, proprio perché diversi (Sclavi, 2003: 63; 99; 110-111; Munari, 1993; Formenti, 1998).Tale apertura all’ascolto e al reciproco riconoscimento cercherà di potenziarla anche tra i ragazzi.. In che modo ? Ancora una volta, la ricetta non c’è, lo sappiamo bene. Sicuramente, però, muoversi lungo questa direzione, implica accompagnare, sostenere e legittimare gli studenti, proprio tramite la narrazione, a intraprendere la “via” del “pensare” e del “pensare insieme”, operazione nella quale si implica l’insegnante stesso.50 Sappiamo bene infatti come la “narrazione” sia “un’operazione cognitiva” (Jedwloski, 2000: 112), sicuramente complessa, che oltrepassa il momento della descrizione di qualcosa per introdurre quello dell’”interpretazione”, della “ricerca di senso” e della sua possibile “ri-elaborazione” (Castiglioni, 2008; Formenti, 1998). “Narrare” è

48Si veda sopra.

49Del resto, la prospettiva fenomenologica è uno tra gli antefatti epistemologici della narrazione e dello sguardo narrativo alla formazione.

50In modo coerente con un contesto di apprendimento narrativo-di ricerca (Bruner, 1973; Nanni, 1996).

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“pensare” (Jedwloski, 2000: 112) e “pensare” è fondamentalmente “mettere insieme” (Formenti, 1998)51. Che cosa, ci chiediamo ? I nostri punti di vista, i nostri vissuti, le nostre esperienze, i tempi della nostra vita, la nostra storia con le procedure di significazione e del “sentire”, che più ci appartengono, l’esperienza vissuta con la riflessione, “ciò che è esplicito” e “quello che è implicito”, ecc. (Castiglioni, 2008; Formenti, 1998; Jedwloski, 2000)52.Ed è proprio attraverso questo “mettere insieme narrativamente” o “pensare narrativamente”, insieme, che si può potenzialmente e gradualmente aprire, in classe, uno spazio e un tempo per la co-costruzione di “nuove”, “ulteriori” e “creative” ipotesi di pensiero. Premessa fondamentale per la “(…) formazione nei ragazzi di una identità aperta, dialogica, sufficientemente forte e sicura per vincere la tentazione del ripiegamento nel dogmatismo e nel fondamentalismo” (Nanni, 1996: 51), che si gioca a più livelli, non solo quello che a che fare con l’appartenenza culturale, e che, non poche volte, ha alla sua radice, una “stratificazione” di “molteplici impliciti”.Non dimentichiamoci, d’altronde, che proprio l’incontro tra gli insegnanti e gli studenti e l’incontro degli studenti con le pratiche educative e di apprendimento è una progressiva esperienza educativa e formativa di “svelamento” dell’”implicito” (Sini, 1999: 64), che necessita della narrazione.Si chiede Sini: “cos’è (…) il processo educativo, e come si deve affrontare la relazione educativa ? (…) Lo studente53 (…) è diverso da noi, gene razionalmente, per appartenenza culturale, famigliare, ecc.54, vive altrimenti i suoi contesti di senso, viene da altre pratiche di sapere implicito. Noi gli dobbiamo mostrare che questo passaggio di contenuti che mutano e che sono illuminazioni a loro modo celanti un implicito, non valgono tanto o soltanto per i loro contenuti, ma perché sono luoghi attraverso i quali, entro i quali, a partire dai quali, possiamo riflettere sulla cecità dei nostri saperi e cogliere così il senso della nostra esperienza” (Sini, 1999: 64), compresa quella educativa, nella direzione di una formazione più complessa dei ragazzi.

6.Narrare e narrarsi: alcune attenzioni metodologiche

Arrivati a questo punto della nostra riflessione, ci chiediamo che cosa possa facilitare la narrazione a scuola ? Che cosa possa stimolare la ri-narrazione di

51In continuità con la lezione fenomenologica-esistenzialista.

52Come da precedente nota.

53Con una piccola modifica a livello espositivo.

54L’aggiunta è nostra.

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una o più sequenze filmiche -come nella sperimentazione presa in esame in questo testo- in modo che si possa generare in classe un’esperienza “conversazionale apprenditiva” ? Un’esperienza educativa basata sul confronto reciproco e una pratica didattica che sia percorso di ricerca e co-costruzione di senso?Come ben sanno gli insegnanti non esiste una ricetta per tutto ciò. E, per fortuna. Se potessimo contare infatti su una sorta di “vademecum” per una “pedagogia narrativa” a scuola (Mantegazza, 1996), saremmo molto distanti da una prospettiva formativa e didattica orientata narrativamente, che privilegia la contestualizzazione e la flessibilità dinamica, pur sempre rigorosa, di ogni proposta e intervento educativi.Sicuramente possiamo tenere conto dell’incidenza, non deterministica, di alcune variabili55 sullo sviluppo di “modelli narrativi” e di “competenze narrative”, in ognuno di noi.Prima di tutto, i dati di alcune ricerche prese in esame da Smorti -che hanno coinvolto bambini, adolescenti e adulti, appartenenti anche ad altre culture- confermano come l’elaborazione di “modelli narrativi” appartenga a tutte le culture, proprio come modalità tramite la quale si realizza lo “sviluppo cognitivo” degli individui (Smorti, 1997: 123)56.Sempre seguendo tali orientamenti di ricerca possiamo segnalare come “nella nostra cultura, questi modelli (…), sembrano andare incontro, con l’età, ad interessanti e piuttosto sistematiche riorganizzazioni” (Smorti, 1997: 123). Se ne deduce “(…) l’ipotesi che questi modelli siano sottoposti a cambiamenti evolutivi anche nelle altre culture, sebbene altrove i generi adulti possano essere completamente differenti dai nostri. In tutte le culture noi dovremmo aspettarci delle edizioni –chiaramente riconoscibili come infantili ed adulte- di una stessa “storia” “. Inoltre, queste “trasformazioni evolutive” dei “modelli narrativi” è realistico che siano “molto diverse” all’interno di ogni singola cultura (Smorti, 1997: 123-124).57 Lungo questa direzione d’indagine, vengono sollevati tre fondamentali interrogativi che ci limitiamo soltanto a segnalare:

55Ci preme sottolineare come il riferimento ad alcune di queste variabili non abbia, in questa sede, alcuna pretesa esaustiva. L’ulteriore approfondimento di tali dimensioni esulerebbe dal fuoco d’ indagine di questo contributo. Ci sembra comunque importante introdurre, seppur molto sinteticamente, tali temi proprio per ribadire l’importanza della contestualizzazione, a più livelli, della narrazione in modo particolare quando essa, nei suoi vari linguaggi e strumenti, è al centro dell’esperienza educativa, didattica e apprenditiva.

56Gli esiti delle ricerche, ai quali si riferisce l’autore, qui brevemente richiamati, vanno ricondotti a (Feldman; Bruner; Kalmar; Renderer, 1997: 123-124).

57Si è introdotta una leggera variazione espositiva.

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a) in che modo i gruppi umani, in quanto facenti parte della loro cultura, costruiscono i loro modelli narrativi ?

b) qual è la forma che questi modelli assumono nelle varie culture ?

c) in che modo i membri di una cultura acquisiscono forme narrative e come cambia il loro modo di comprenderle nel corso dello sviluppo ?

Se i fattori di appartenenza culturale e di differenza di età sembrano comprensibilmente da mettersi in relazione con il prendere forma e il diversificarsi dei “modelli narrativi” -dato sicuramente importante e da tener presente in modo particolare per un docente che si colloca in una “matrice educativa narrativa”- anche il contesto famigliare e la personale storia di crescita e di formazione possono incidere sullo sviluppo di “competenze narrative”, soprattutto se il riferimento va alla narrazione autobiografica, con una differenza “al femminile” e “al maschile” (Smorti, 1997: 133-151). 58 Sembra infatti che “(…) il senso dell’autobiografia si sviluppi fino dalle più precoci relazioni genitore-bambino“ (Smorti, 1997: 133). Per cui, “(…) le madri che si impegnano in un’attività più elaborata hanno bambini che si impegnano anch’essi in un’attività di ricordo più elaborata in età successiva” (Smorti, 1997: 150-151). E’ anche vero, d’altronde, che “(…) le madri ricordano in modo diverso a seconda che questa attività venga svolta con le femmine o con i maschi. Le madri sono sia più elaborative sia più valutative con le figlie che con i figli e, alla fine degli anni prescolari, le bambine posseggono molti più elementi di informazione sulle proprie esperienze passate rispetto ai bambini. Questi risultati fanno nascere l’ipotesi che, (…) le femmine possono costruire modi di comprensione del proprio passato più elaborativi, più raffinati e più legati alle relazioni interpersonali” (Smorti, 1997: 151). Alle dimensioni che abbiamo fin qui considerato, si aggiunga l’esperienza scolastica di ognuno di noi che può avere rafforzato, o viceversa, indebolito lo sviluppo della “funzione narrativa”.

Dopo questi brevi cenni relativi alle variabili culturali e contestuali, facciamo un passo indietro, per comprendere ulteriore aspetti che possono stimolare e potenziare la narrazione all’interno della relazione educativa e di apprendimento. Ritorniamo allora alle sezioni della scuola dell’infanzia:“Il momento della narrazione –racconto personale o fiaba che sia- è sempre un momento di grande intimità: dei bambini tra loro e tra i bambini e l’adulto.

58L’autore riporta quanto emerso dalle ricerche svolte da (Haden; Fivush; Reese, 1997).

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Il contesto e il luogo che accoglie questa esperienza devono favorire il nascere e il crescere di questa intimità: devono accoglierla, proteggerla, mantenerne il segreto, ridarle appuntamento. Il luogo in cui questo avviene dovrebbe essere, se possibile, sempre lo stesso: un luogo-nido nato proprio per accogliere e contenere le nostre parole.Uno spazio sacro, possibilmente un cerchio (…). Uno spazio “bianco e nero” perché tutti i colori vi possano abitare (…).Uno spazio in cui stare comodi… perché le parole abbiano tutto il tempo necessario a dirsi, perché niente disturbi il piacere di accoglierle e riceverle “ (Di Capita, 1996: 149).

Ora, in questo testo non facciamo riferimento ai piccoli della scuola dell’infanzia, ma alcune attenzioni metodologiche sono sicuramente trasferibili nei contesti scolastici ed extrascolastici frequentati da studenti preadolescenti, adolescenti e perfino adulti, come è stato nel caso della sperimentazione al centro di questo libro. Di fondamentale importanza infatti è la “cre-azione del contesto”, o del “ setting” in cui si situa e prende forma la narrazione a scuola (Formenti, 1998). Ma che cos’è il contesto o setting di narrazione ? Potremmo dire che è costituito dalle relazioni che si sviluppano tra gli studenti, e tra questi e i docenti, dalle relazioni che gli insegnanti e gli studenti stabiliscono con il sapere e le discipline (Munari, 1993), oltre ad essere rappresentato dall’intreccio dello “spazio educativo” e del “tempo educativo”59. Per cui, mettere la narrazione al centro dell’esperienza educativa e didattica significa mettere al centro dell’attenzione e del lavoro educativo/didattico, la complessità di “relazioni” che si generano in aula (Massa, 1997), la configurazione dello “spazio” e la “gestione del tempo”. A generarsi è una continua e processuale interconnessione tra queste dimensioni, capace di ri-generare il senso delle narrazioni e delle relazioni prodotte.Per quanto riguarda la dimensione dello spazio, è cosa nota, come il confronto e lo scambio narrativo, nonché la problematizzazione di qualcosa, nel nostro caso, l’oggetto apprenditivo, “dentro” e “tramite” la narrazione, siano dimensioni facilitate da una configurazione dello spazio dell’aula che renda possibile la co-costruzione circolare dei saperi e delle rispettive rappresentazioni e idee, quelle dell’insegnante e quelle degli studenti

59Per certi aspetti, la nozione di contesto educativo così intesa, è assimilabile alla dimensione del dispositivo pedagogico alla quale si riferisce (Massa, 1997).

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(Formenti, Gamelli, 1998; Iori, 1996; Massa, 1997)60, che solo in questo modo possono mantenere “viva” la “narrazione e se stessi”61.Il “tempo narrativo”, di conseguenza, non potrà che essere un tempo contrassegnato da continuità, quantitativamente e qualitativamente progettato con la finalità di facilitare e rendere sensato il percorso-processo di narrazione attivato, che inevitabilmente passa attraverso momenti di comprensione, esplicitazione, ri-costruzione, negoziazione, ri-elaborazione e interiorizzazione di significati, che devono poter includere i “tempi personali” di ognuno, all’interno del gruppo classe. Potremmo dire che si tratta di un tempo, abbastanza dilatato, comunque non “frettoloso, che si fa carico dello sviluppo personale e critico degli studenti all’interno della vicenda apprenditiva, intrapresa62. Non si può narrare qualcosa, narrando di sé, in uno “scampolo” di tempo, ritagliato, qua e là, quasi furtivamente, dentro la programmazione didattica e la lezione.Se queste, che abbiamo sinteticamente richiamato sono attenzioni metodologiche di centrale importanza, senza dubbio irrinunciabile, per la costruzione di un contesto “apprenditivo-narrativo” è la “cura dell’ascolto” (Formenti, 2003)63.Si tratta per l’insegnante di accompagnare i ragazzi, e gli adulti –compreso se stesso- ad “imparare ad ascoltarsi” tra sé e sé, e reciprocamente. Operazione, questa, non facile e così immediata (Formenti, Gamelli, 1998; Formenti, 2003; Kanizsa, 1993). “L’ascolto”, dentro e fuori la scuola- non è “(…) un dato di partenza, un automatismo (…), una competenza acquisita una volta per tutte” (Formenti, 2003: 254), soprattutto, ai giorni nostri, in cui ascoltarsi è cosa poco praticata e familiare (Kanizsa, 1993). Esso implica un’esperienza ben più complessa, e per questo, accrescitiva, ossia, la co-costruzione graduale di “(…) una pratica umana (…) di inter-azione (…)” che permetta -nel nostro caso, agli studenti,

60E’ inevitabile -come si è già sottolineato nella precedente nota- il rimando al dispositivo pedagogico (Massa, 1997). Per un approfondimento della questione dello spazio, da un punto di vista pedagogico orientato fenomeno logicamente, si tenga presente (Iori, 1996).

61Si consideri, a tal riguardo, quanto si è già detto, tramite il riferimento a (Cavarero, 1997; Jedwloski, 2000).

62Rispetto alla dimensione del “tempo educativo” si faccia sempre riferimento a (Iori, 2006). Più autori sottolineano la centralità del rapporto tra tempo e narrazione nei contesti educativi, tra i quali, (Demetrio, 2003; Formenti, 1998; Zannini, 2008). Si cfr, anche (Kanizsa, 1993).

63L’autrice, nel suo contributo, parla di “ascolto che cura”, mettendo al centro della sua riflessione i contesti di cura, secondo un’opzione, comunque, “ampia” del concetto di cura. Di seguito, abbiamo applicato alcuni suoi temi e motivi all’ascolto in contesti “didattici-narrativi”, che per certi aspetti, possono anche essere “attenti alla cura” di “chi li abita”, se per cura s’intende lo sviluppo globale, l’autoformazione e il potenziamento del pensiero critico e della responsabilità nei soggetti, bambini, adolescenti e adulti.

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tra loro, e nella relazione con l’insegnante- di “(...) dare senso all’esperienza, ovvero di <<liberare il senso dell’esperienza>>, che stanno “vedendo-narrando”64 , co-costruendo e ri-costruendo.“L’ascolto”, necessario a una pratica didattica ed educativa, realisticamente relazionale65 -come quella che mette al centro la narrazione- “è un fare-insieme, così come la narrazione è un fare-insieme (…)” (Formenti, 2003: 260), è “un ascolto che moltiplica e valorizza le prospettive, generando processi morfogenetici (…)” (Formenti, 2003: 261), che mettono in gioco, se stessi, la propria identità, i propri valori, le proprie emozioni, i propri schemi di riferimento culturali, le personali rappresentazioni e le proprie strategie cognitive, ecc.,. “E’ sempre la relazione, quindi, che ci informa sull’ascolto (…)” (Formenti, 2003: 275), come d’altronde, “prendersi cura dell’ascolto” in classe, significa “prendersi cura delle relazioni” che si possono sviluppare.Risultano allora di fondamentale importanza, per l’insegnante e gli studenti, tre, fra le “sette regole” alla base, di quella che Sclavi definisce “l’arte di ascoltare” (Sclavi, 2003: 63), che ci piace riprendere:

-“quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista”;

-“se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione, almeno provvisoriamente66, e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva”;

-“le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale (…)” (Sclavi, 2003: 63).

Lo “sguardo narrativo” all’esperienza didattica ed educativa richiede, pertanto, all’insegnante e agli studenti di diventare “buoni ascoltatori”, ossia “esploratori di mondi possibili”, che “non hanno fretta di arrivare a delle conclusioni (…)” (Sclavi, 2003: 63)67, formulando magari giudizi affrettati,

64Se pensiamo al “lavoro narrativo” “tramite” e “attorno” alla sequenza filmica, come nel caso della sperimentazione riportata in questo testo.

65Secondo l’opzione della pedagogia fenomenologica.

66L’aggiunta è nostra.

67Si tratta di altre “due regole” individuate da (Sclavi, 2003), per un “buon ascolto, che riferiamo, in modo più specifico –come si è già indicato- alla relazione educativa, “narrativamente orientata”. (Si è inserita una piccola variazione espositiva rispetto all’autrice). Si cfr., anche (Sclavi, 2003: 110-111).

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sottesi non poche volte, da pre-giudizi di cui si può essere non consapevoli, e che necessitano di “essere sospesi” e “problematizzati”, come ci insegna la lezione fenomenologica. Operazione che si rende ancora più urgente, se ci ricordiamo che in classe, sono molti gli aspetti di “differenza”, che possono generare uno “sguardo pre-giudicato”: la differenza anagrafica e generazionale, tra i docenti e gli studenti, quella di appartenenza di genere, geografica, culturale, e familiare, ecc.,.All’”insegnante narrativo” è richiesto quindi di diventare sempre più competente nell’”arte della narrazione”, come la definisce Cavarero (1997: 158). Competenza che implica un’attenzione alle proprie modalità e interventi comunicativi, che sappiamo passare attraverso il verbale e il non verbale, al tipo di domande che più spesso utilizza, al rispetto delle pause e dei silenzi dei ragazzi (Castiglioni, 1999; Formenti, 2003; Kanizsa, 1993)68, soprattutto, se adolescenti, alle prese ancora di più, dei bambini e degli adulti, con il pudore della narrazione di sé69.L’insegnante che è impegnato nella co-costruzione di un contesto apprenditivo-narrativo che fa leva sulla possibilità che gli studenti possano narrare, raccontare di sé, far emergere “punti di vista consolidati”, “incertezze” e “nuove ipotesi di senso” (Formenti, Gamelli, 1998; Formenti, 1998), potenziando in loro la disponibilità all’ascolto e al confronto reciproco (Formenti, 1998; Zannini, 2008), cerca, lui stesso, di astenersi il più possibile da valutazioni (Formenti, 1998; Kanizsa, 1993), e di alimentare la conversazione “riprendendo” e “riformulando” quanto narrano i ragazzi (Kanizsa, 1993)70, stimolando in essi competenze “meta-riflessive” sulle narrazioni prodotte (Castiglioni, 2008; Formenti, 1998) che non dimentichiamoci, hanno la finalità di far emergere e di costruire (o ri-costruire) saperi e apprendimenti (Formenti, 1998).

7.Ri-narriamo la sequenza di film

68Per un approfondimento di tali aspetti della conversazione in classe, si veda in modo particolare (Kanizsa, 1993).

69Sicuramente interessante la sperimentazione in classe di una sorta di laboratorio di narrazione e scrittura di sé che viene restituita da (Tomba, 2003), che prende in considerazione, almeno trasversalmente, le “sensibilità”, facilitanti la narrazione da parte degli adolescenti all’interno del gruppo-classe.

70Laddove l’autrice riprende i “movimenti” tipicamente rogersiani.

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Riportiamo di seguito un’ipotesi di ri-narrazione della sequenza filmica,71 che può essere rivolta agli studenti72 secondo le attenzioni metodologiche sulle quali ci siamo già in parte soffermati. Si tratta della sequenza “Sentirsi diversi”73, che Bargellini e Cantù (2007) hanno tratto dal film Basta guardare il cielo74. Qual è la trama del film ? E’ la storia di Maxwell Kane. Un preadolescente di 13 anni e l’aspetto di un gigante. Max è lento a scuola, ha poco coraggio e non riesce ad adattarsi. Abita con gli anziani nonni perché il padre è in carcere e sua madre è morta75.Ecco lo spezzone76:

Max- Se hai tredici anni e sembri gozzilla ti becchi occhiate e battute.

(Max Cammina per la città)A volte ho l’impressione di essere scambiato per uno della famiglia Adams.

(Alla fermata dell’autobus si siede su una panchina piena di stracci sulla quale sta dormendo un barbone)Barbone- Vattene! Che cosa vuoi? Lasciaci dormire…E bussa alla porta prima di entrare! Sparisci!Max- Scusi…

(Arriva una banda di ragazzini alla fermata) Max- A quelli della banda dei randagi piaceva far casino.…Il loro capo era Blade. Si vantava di essere stato tre mesi in un riformatorio.

71La sequenza si trova nel dvd “Crescere”, Cap. Identità in crescita, n.2.

72Si tratta di una sequenza che, secondo le modalità di lavoro qui evidenziate, è stata proposta, da chi scrive, a un gruppo di educatori, nell’ambito del seminario di formazione-Progetto Culture in Comune “Il cinema: uno strumento per il dialogo interculturale”. Fondazione Ismu. (L’argomento del seminario riguardava appunto la narrazione nella relazione educativa).

73Come da titolo attribuito da (Bargellini, Cantù, 2007), autrici del Kit multimediale. Viaggi nelle storie. Frammenti di cinema per narrare.

74BASTA GUARDARE IL CIELO (The Mighty, Usa, 1998, col, 100’) di Peter Chelsom.

75Come da nota introduttiva delle autrici, alla trascrizione del dialogo della sequenza.

76Si veda la nota n.73.

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(La banda e Max salgono sull’autobus. Il “capo” si siede di fianco a Max) Capo- Ma che bel posticino per sedersi...

Un ragazzo della banda- Ehi, guardate uno scimmione con le cuffie…Come sei riuscito? Come hai fatto a farti bocciare due volte di seguito? Ce l’ha messa proprio tutta!

La banda (in coro)- L’assassino, l’assassino ha per figlio un maialino.

Capo- Basta, basta…la gente ti guarda e ride o si gira da un’altra parte. Non hai amici, non hai nessuno…sei un rifiuto umano amico…ma noi vogliamo essere tuoi amici…si ci farebbero comodo i tuoi muscoli, scommetto che nessuno ti può fermare…come quel bestione di tuo padre.

La banda (in coro)- Ohhhh (Max suona per scendere). L’assassino, l’assassino ha per figlio un maialino. L’assassino, l’assassino ha per figlio un maialino.

(Max è sotto il letto nella sua stanza e pensa) Max- C’è un posto dove a volte va la mia testa…È un posto fresco dove la luce è soffusa ed io ondeggio come una nuvola…anzi, sono una nuvola…come quelle che si vedono in cielo in un giorno di vento. Uno non deve pensare a niente. Non è niente. Non è nessuno.

In una prima fase, il brano estrapolato dal film può essere proposto ai ragazzi senza l’audio, in modo da essere meno condizionati nell’iniziale avvicinamento, “ascolto” e comprensione del testo filmico, dalla “narrazione parlata e udita” che, come ogni forma di linguaggio, veicola sempre precisi punti di vista e “contestuali” interpretazioni. Si darà quindi parola al gruppo-classe (eventualmente suddiviso in sotto-gruppi, di cinque/sei studenti), chiedendo, con uno stimolo piuttosto ampio di avvio e di apertura della narrazione77, “che cosa narri” la sequenza: una sorta di comprensione e restituzione della trama, attraverso l’individuazione di parole-chiave che ricostruiscano i nuclei tematici centrali della storia. Dopo di chè, lo spezzone filmico viene rivisto nella seconda fase, subito successiva, con l’accompagnamento dell’audio, in modo che tramite il confronto tra la “prima” e la “seconda” comprensione, gli studenti siano

77Per gli aspetti metodologici che possono facilitare la conversazione si è fatto riferimento in modo particolare a (Kanizsa, 1993; Mantovani, 1995). Si tengano presenti inoltre (Castiglioni, 1999; Zannini, 2008).

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sempre più consapevoli di come la narrazione sia qualcosa di “localizzato”, che inevitabilmente risente dei nostri impliciti personali, emotivi, culturali, educativi, famigliari, ecc.,. La terza fase di lavoro è quella più complessa e articolata, e richiede un tempo “sufficientemente sensato”,78 che permetta di attraversare tre “approfondimenti narrativi”: la produzione del “ testo nel testo”, del “testo sul testo” e del “testo contro il testo.79

A tal proposito, con una finalità semplicemente esemplificativa –pur sempre rivisitabile- riportiamo di seguito le domande-stimolo (Zannini, 2008: 166), che potrebbero orientare la ri-presa e la ri-formulazione della narrazione filmica, secondo una possibile “ri-scrittura” del “copione”,80 che “metta in gioco” la propria “immaginazione” (Zannini, 2008) intesa come produzione di differenti e ulteriori punti di vista, che è poi arricchimento e problematizzazione delle “ipotesi di senso” (Zannini, 2008), che incide necessariamente sulla crescita dei singoli studenti e dell’intero gruppo-classe, potenziando atteggiamenti di reciproco confronto e di reciproca negoziazione

78Distribuito anche in più momenti, purchè abbastanza ravvicinati per non indebolire la continuità e la significatività dell’esperienza attivata. E’ importante anche la possibilità, come si è già sottolineato, di un tempo ampio e “rilassato” che permetta lo sviluppo di processi auto-riflessivi, interpretativi e meta-interpretativi sulle ri-narrazioni (orali o scritte), prodotte dai ragazzi, in modo da salvaguardare la valenza auto-formativa e auto-apprenditiva dell’attività narrativa e conversazionale proposta (Castiglioni, 2008; Formenti, 1998; Zannini, 2008; et.al.,.).

79Utilizziamo tre dimensioni alle quali si riferisce (Zannini, 2008: 165-166). L’autrice, a sua volta, riadatta lo strumento –da noi ripreso, qui di seguito, e rivisitato più a livello espositivo, ma anche, aggiungendo ulteriori stimoli di contenuto, e togliendone altri, poco pertinenti rispetto al nostro contesto di utilizzo - da (Sakalys, 2002). Si tratta di uno strumento, come indica (Zannini, 2008: 165-166), orientato a “sviluppare capacità interpretative nei percorsi di medical humanities”. Abbiamo a che fare, seguendo la sua riflessione, con una modalità di lavoro, appunto narrativa, che si può applicare ai testi scritti, messi a punto dagli operatori in ambito medico e sanitario, relativi alla narrazione della propria esperienza professionale e di cura. Ci sembra che questi stimoli orientativi, di “ri-presa narrativa e di ri-elaborazione auto e meta-riflessiva”, si possano applicare in tutti quei contesti educativi che privilegiano l’orientamento narrativo e quindi una relazione educativa di tipo narrativo, così come l’utilizzo della narrazione e di uno “sguardo di ricerca” sulla narrazione realizzata, a scopi didattici e di auto-formazione (Castiglioni, 2008; Formnenti, 1998; Zannini, 2008; et.al.,.). Del resto, la medicina narrativa, come più autori sottolineano, è strettamente collegata alla prospettiva dell’educazione terapeutica e quindi alla valorizzazione delle dimensioni auto-educative nell’intervento medico e di cura. Così come, il contesto educativo può essere inteso come “luogo di cura”, se per cura intendiamo, in termini heideggeriani, lo sviluppo di “consapevolezza”, di “coscienza critica” e di “responsabilità verso se stessi e verso gli altri” (Demetrio, 2000; Castiglioni, 2008; Mortari, 2002; Palmieri).

80Dimensione concettuale introdotta da (Bruner (2003: 45) e riferita alla narrazione. Si cfr., anche (Smorti, 1994).

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di “posizioni” (Bruner, 2003; Smorti, 1994), spesso sottese da “pre-supposti” costruiti nel corso dell’esperienza, che la narrazione condivisa, con la presenza dell’insegnante di riferimento, può portare alla luce e contribuire a rendere più duttili e dinamici (Bruner, 2003, Jedwloski, 2000; Smorti, 1994, Zannini, 2008).Ricordiamoci quanto scrive Bruner “(…) la ragione dell’importanza che io ho assegnato alle dimensioni della relatività e della “congiuntività” (…) nella comprensione di un racconto (…) lungi dal darci delle certezze relative al mondo così com’è, riguardano le mutevoli prospettive che possiamo mettere a punto per rendere comprensibile l’esperienza (…)“ (Bruner, 2003: 47), in modo che essa -aggiungiamo noi- come singoli individui in continua, contestuale e dinamica relazione con gli altri, ci corrisponda, individualmente e collettivamente, sempre di più, e ci risulti meno “imposta” e “subita” in base a norme e convenzioni di appartenenza geografica, sociale e culturale, ecc., non “ri-comprese”, diversificate e arricchite a partire dalla personale e reale esperienza81.

Ecco, le domande stimolo82:

81Suggestiva a tal riguardo, la riflessione di (Bruner, 2003: 47): “(…) io vado oltre Barthes: secondo me il dono che un grande scrittore può fare a chi lo legge è di renderlo uno scrittore migliore”.

82Si veda, a tal proposito, quanto si è già sottolineato nella nota n.79 (Nel nostro caso, la griglia è applicata al testo filmico).A seconda dell’età dei ragazzi, o anche degli adulti coinvolti, delle caratteristiche del gruppo classe, della familiarità degli studenti con alcune modalità espressive, della disciplina insegnata dal docente, del tempo a disposizione, ecc., la ri-narrazione del testo filmico può essere affidata alla scrittura, alla sola oralità (preferibilmente registrata per poter essere ripresa), all’alternanza di scrittura e oralità, all’utilizzo del fumetto, all’uso del collage con immagini o fotografie,ecc.,.

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Primo approfondimento

Attività di comprensione83

Il testo nel testo

Domande-stimolo

-Che cosa succede in questa breve storia? Provate a raccontarla come se doveste fare un riassunto a qualche amico o famigliare che non ha visto questo spezzone di film;

-Secondo voi, ci sono dei personaggi in primo piano ? Quali ?

-Vi sembra che alcuni personaggi siano meno al centro della scena ?

-Si potrebbe fare qualcosa per dare più luce ai personaggi più periferici ? Vi viene in mente qualche strategia efficace ?

-Vi sembra che i personaggi siano cambiati nel corso della narrazione ? (Come, perché…) Qualcuno, o qualcosa, li ha aiutati a cambiare ?

-Come ri-raccontereste questa storia ?

-Provate a ri-raccontare questa storia secondo il punto di vista di altri: potrebbero essere dei vostri amici-coetanei, i vostri famigliari, i vostri insegnanti o educatori di riferimento84;

83L’autrice si riferisce alla “capacità di lettura”.

84Per esempio, rispetto al brano filmico qui preso in considerazione, si può chiedere ai ragazzi di ri-narrarlo secondo il punto di vista di Max, del gruppo di bulli, dei nonni di Max, di suo padre, dei genitori dei ragazzi bulli, dei docenti, dei clochard, dell’autista dell’autobus, ecc., o di personaggi non previsti nella trama del film. (L’attività è stata così proposta durante il seminario di formazione, condotto da chi scrive, e al quale si è fatto riferimento alla nota n.72). Si tratta di una modalità di ri-narrazione che può essere condotta tramite l’utilizzo della scrittura o di altri linguaggi, finalizzata a potenziare il “decentramento del punto di vista” e quindi ulteriori “possibilità interpretative” (Cocever, Chiantera, 1996; Formenti, 1998; Zannini, 2008).

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-Se la storia la ri-raccontassero i personaggi del film, presenti anche indirettamente, cambierebbe qualcosa? 85

-Cambiereste il finale della storia ? Come ?

Secondo approfondimento Attività di interpretazione

Il testo sul testo

Domande-stimolo

-Che significato/i ha questa storia ?

-Che cosa ci comunica ?

-Che cosa avete sentito ?

-Che cosa avete pensato ?

-Trovate qualche somiglianza con qualche vostra personale esperienza ?

-Vi sembra che le vostre precedenti esperienze, più o meno simili, influiscano sul modo in cui avete reagito alla storia ?

-Questa storia vi sembra vi abbia permesso di conoscervi meglio o in modo diverso ?

Terzo approfondimento

Attività di analisi critica

Un testo contro il testo

Domande-stimolo

-Quali temi/problemi fa emergere questa storia ?

85Come da precedente nota.

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-Voi cosa ne pensate di questa storia ? Corrisponde alla vostra visione e alle vostre emozioni ?

NOI, ADESSO CHE “STORIA” STIAMO RACCONTANDO ?86

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86Si tratta di una sollecitazione narrativa che deriviamo da (Zannini, 2008: 167) e che abbiamo inserito come domanda conclusiva della griglia. (Il carattere maiuscolo è nostro).

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