LA MIA MAMMA ERA UNA GRANDE DONNA - Associazione di … · 2012-10-12 · Per mia figlia un ricordo...

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LA MIA MAMMA ERA UNA GRANDE DONNA Autobiografia di Bruna Gabrielli a cura di Orianna Montanari

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LA MIA MAMMA ERA UNA

GRANDE DONNA

Autobiografia di Bruna Gabrielli

a cura di Orianna Montanari

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Stampato nel mese di novembre 2012a cura del Servizio Comunicazione del Comune di Reggio Emilia.

Testo e immagini di proprietà degli autori. Vietata la riproduzione e/o diffusione,

anche parziale, a fini commerciali.

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Per mia figlia

un ricordo di mamma e papà

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PREFAZIONE

Sono tanti anni che vedo Bruna, un'amica di mia madre, sua compagna di scuola, cresciuta nello stesso paese.

Passano mesi fra un incontro e un altro, ma è sempre aperta, serena, ospitale.

L'infanzia in montagna, la miseria, il lavoro coronato dal matrimonio con un uomo che l'ha sempre amata e rispettata.

Tanti, tanti anni trascorsi insieme, poi la tragedia della perdita della figlia, seguita pochi anni dopo dalla perdita del marito.

Bruna è una donna forte, che non si fa abbattere dagli eventi, se ne fa una ragione, si appoggia alla Fede e alla volontà del Signore.

Ha voglia di parlare delle sue esperienze di vita ed io ho voglia di ascoltarla.

Reggio Emilia, estate 2012 Orianna Montanari

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La prima casa

Sono nata a Levizzano, che fa parte del comune di Baiso. Sai come è fatta Levizzano; a Lugara c’è una casa che si chiama casa Carrobbio, e li sono nata io, era la casa di mio padre. Vivevamo tutti insieme, poi mio padre si è trovato in difficoltà, eravamo una famiglia numerosa, e allora abbiamo cambiato casa e ci siamo trasferiti a Baiso.

A Baiso la casa era più piccola, vicina a un bosco, ma era comoda e meno costosa da mantenere. Mio padre ha dovuto prendere una casa più piccola, che aveva solo due camere da letto e la cucina, perché doveva darci da mangiare.

C’era la miseria una volta, non era come adesso. Io non ho mai patito la fame, ma la miseria c’era anche a casa mia, bisognava fare economia.

A causa della miseria, non sempre si riusciva ad andare a scuola perché una volta mancavano le scarpe, a volte mancava il vestito. Io ho iniziato a Levizzano, ci sono andata che avevo sette anni, sono stata promossa in seconda che ho frequentato a Baiso, ma non l'ho finita.

Prima di nascere la mia vita è cominciata così

Il mio papà si chiamava Adalgiso ma lo chiamavano Delisio e la mia mamma si chiamava Bernardina, quando si sono sposati erano tutti e due vedovi, il papà aveva due figli, la Giovanna di 15 anni e Nello che aveva due anni. Mia madre aveva la Maria

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che aveva l'età di Nello. La prima figlia era la Gina, che è del '25, io del '27 e poi dopo siamo nati tutti a casa. Da me alle mie sorelle non ci sono due anni, un anno e pochi mesi.

Siamo nati in sette dopo, perché c’è la Gina, io Bruna, l’Ermina mia sorella gemella, l’Alma , Delmo la Rosanna e la Marta, sette, più tre che avevano loro arriviamo a dieci, due li aveva mio padre, uno mia madre, in tutto fanno dieci.

Mia madre mi ha raccontato quello che le è capitato prima della mia nascita. Durante i primi mesi di gravidanza è dovuta andare in ospedale per fare i calcoli alla cistifellea. Ha detto con i dottori che era incinta e loro l’hanno visitata e le hanno risposto che non era vero.

Le hanno fatto un'iniezione per curarla. Quella notte le è apparsa una Signora in fondo al letto, con le mani aperte e su ogni palmo vi era l’immagine di una bambina, la signora le ha sussurrato: “Coraggio”, quindi è sparita.

In quel momento mia madre si è accorta che aveva il letto tutto sporco di sangue, ha chiamato un medico che l’ha rimproverata mostrandole la prova che non era incinta: “Hai detto di essere gravida e non lo sei!”

È rimasta ricoverata per 15 giorni poi è tornata a casa. Dopo circa sei mesi siamo nate in due.

Mio padre ha chiamato i medici che negavano la gravidanza, sono voluti venire a Levizzano per vedere queste bimbe, perché non ci credevano, mia madre era in cinta di due, tre mesi e loro non ci credevano. Uno di questi dottori, in seguito, aveva aperto un ambulatorio a Reggio, in piazza della verdura, e ha

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chiesto a mia sorella Maria: “Ma quelle sue sorelle gemelle, una si è sposata a Reggio, le dica che mi venga a trovare!” ma non ci sono mai andata.

Noi sorelle siamo vissute tutte e due per il primo anno poi ci è venuta la polmonite e mia sorella Erminia è morta; io stavo molto male e mia madre aveva chiesto alla Madonna, Beata Vergine di Rubbiano che se mi avesse fatto la grazia di guarire lei mi avrebbe portato al Santuario in preghiera (a Montefiorino). La Madonna mi ha fatto la grazia e io le sarò sempre devota e riconoscente.

Oratorio della Beata Vergine di Rubbiano (Montefiorino)

Dopo il parto mia madre stava molto male, doveva morire, mio padre è andato da un “medgon”, (un medicastro, una persona senza titolo che curava naturalmente con le erbe).

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Mia madre era a letto da due giorni che non parlava e non mangiava, mio padre è andato da questa persona, che gli ha consegnato un boccettino con dentro un infuso dicendogli che quando sarebbe rientrato a casa sua moglie gli avrebbe chiesto: “Ma in dov siv a stè fin adesa?”, (ma dove siete stato fino ad ora?) perché una volta, marito e moglie si davano del voi.

Mio padre era uscito di casa che mia madre non capiva più nulla, non conosceva più nessuno, è venuto a casa e lei si è girata nel letto e gli ha chiesto: “Ma in dov siv a stè?”, le ha fatto bere un po' dell'infuso preparato e lei ha iniziato a stare meglio, fino a guarire.

Eravamo al Carrobbio a Levizzano, dopo, piano piano siamo cresciute, ma allora non era come adesso, mia madre andava a lavorare nei campi ad aiutare mio padre. Come tanti uomini dell'epoca lui sapeva lavorare il legno ed aveva costruito un recinto, come i box moderni, dove mia madre ci metteva a sedere quando andava a lavorare e ci diceva “A marcmand, àn movi mia an ragasoli, fin can gnom a cà!” (Mi raccomando, non muovetevi bambine finché non veniamo a casa) andava a lavorare nei campi e ci lasciava.

Mia madre, non per dire, ma era una santa donna. All’epoca noi figli eravamo tutti piccoli; la Giovanna , che aveva 15 anni, per aiutare la famiglia, non è mai stata a casa, andava a servizio presso una famiglia vicino a casa nostra.

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Quando il bimbo parla il grande ha già parlato. È ben chiaro

Mi ricordo che mia madre ci raccontava questa storia. Prima di sposarsi con mio padre era andata a servizio da una signora con la piccola Maria, una mattina Maria aveva fame e mia madre è andata nel pollaio, ha preso un uovo e l'ha dato alla piccina da bere.

Mia madre aveva paura perché non l’aveva chiesto alla padrona, allora le aveva detto: “Dir mia a la padrouna che to dè l'ov!” (non dire alla padrona che ti ho dato l'uovo!)

Quando la padrona è arrivata a casa mia sorella le è andata subito vicino e le ha detto contenta: “Padrouna, me medra la mà de un ov da bever e la mà det ed dir ninto!” (Padrona, mia madre mi ha dato un uovo da bere e mi ha detto di non dire niente!). La padrona c’era rimasta male, aveva detto che la bimba era piccola e se voleva poteva prendere tutte le uova che voleva.

“Quando il bimbo parla il grande ha già parlato”. È ben chiaro.

L'infanzia

All’età di 4/5 anni, come tutti i bambini, si giocava insieme; un giorno siamo andati a giocare io, due miei fratelli e due bambini che abitavano vicino, tutti più grandi di me; loro avevano 6 / 7 anni.

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A circa 500/700 metri da casa vi era una buca piena d’acqua dove veniva lasciata a macerare la canapa.

Io non ricordo se i miei fratelli mi hanno spinta o se sono caduta da sola in questa buca; forse i miei fratelli non se ne sono accorti, oppure sono scappati spaventati, non ricordo.

Ricordo solo di essere rimasta sola, la buca era fonda alcuni metri, mi sono aggrappata alla canapa e mi sono messa ad urlare.

In seguito mia madre mi ha raccontato che lei si trovava in casa a lavorare, ma non si sentiva quieta, era strana, pensava alle figlie, che non fosse successo loro qualcosa, ed è venuta a cercarci. In quel modo mi ha sentita urlare, mi ha vista ed è venuta a salvarmi, senza il suo aiuto, non mi sarei salvata.

A quei tempi, una famiglia doveva produrre da sola quello che le serviva per il proprio sostentamento. Questo comprendeva la semina della canapa per la produzione del filo con il quale, d'inverno, tessere la tela per il fabbisogno familiare e per preparare il corredo delle figlie. Dopo la raccolta la canapa veniva legata in fascine e messa dentro ad una buca d'acqua scavata vicino a una sorgente dove scorreva l'acqua corrente. Veniva coperta con dei sassi perché restasse sempre immersa e lasciata a macerare per un mese o due, fino a quando era pronta. Dopo la tiravano fuori, la mettevano ad asciugare poi la battevano per farle perdere tutti gli scarti inclusa la parte esterna e lasciare la parte interna che veniva lavorata per produrre il filato buono per la tessitura su telaio.

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Quando mi sono sposata avevo le lenzuola fatte da me su questo telaio. Il papà aveva anche le pecore, che venivano portate giù, sul Secchia, dove venivano lavate bene prima di tosarle, la lana prodotta veniva nuovamente lavata, cardata e filata; con le matasse venivano preparati i maglioni, i vestiti di lana per l'inverno e le coperte.

La Signora

All’età di 6/ 7 anni, vivevo ancora nella casa in cui sono nata a Levizzano.

Mi è capitato, più di una volta, sempre nella stessa stanza, di vedere il profilo di una Signora vestita di bianco con il velo in testa, che veniva su dal pavimento della cantina: usciva piano piano con la testa, poi con tutto il corpo per poi sparire nel soffitto. Ne ho parlato con mia madre e lei mi ha detto di chiamarla quando fosse capitato ancora.

La volta successiva l'ho chiamata, erano presenti anche le mie sorelle, sono venute subito, ma non hanno visto nulla, io vedevo la figura che stava uscendo con la testa, ma loro non vedevano nulla, io la vedevo salire e poi scomparire.

Mio fratello mi prendeva in giro: “E, la vest la Madona!”, io non ho mai detto di aver visto la Madonna.

Può essere benissimo, ero una bambina, può essere che abbia idealizzata la figura della Madonna e così l'ho vista, ma non la vedevo tutte le sere o quando volevo io, la vedevo in modo

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casuale, ma sempre in quella stanza e in quella posizione. A me questa figura non va via dalla mente; mi piacerebbe tornare in quella casa per vedere se mi capita ancora la stessa visione perché all’età di 8 anni siamo andati ad abitare in un’altra casa e lì non ci sono più tornata.

La vedevo di fianco, non di fronte. Ma che cos’era? È possibile che fosse un'anima in pena? Ti dirò, a volte, di sera penso a questa figura e recito una preghiera per lei al Signore che la possa perdonare se ha fatto dei peccati, perché possa godere della gloria eterna del Paradiso.

Io le faccio queste cose.

Io credo in Dio, nella Madonna … ci sono le anime che girano, perché ho avuto delle prove che esistono. Una volta mi ero confessata e ho fatto dire delle messe, due di sicuro, per la redenzione di quest'anima. Male non fanno: ci penso più adesso di quando ero una bambina. Allora restavo a guardarla, ma restavo indifferente, la guardavo e basta, non le ho mai chiesto nulla. Ho sempre pensato di fare delle ricerche: vorrei sapere perché vedevo questa donna? perché la vedevo solo io? E sempre nello stesso posto. Mi sembra di vederla anche ora.

La vedevo nella stanza grande che chiamavamo “del lavandino”, sotto alla stanza c'era la cantina e sopra il solaio. La stanza si chiamava così perché ci tenevamo l'acqua da bere, ci tenevamo il secchio con l'acqua pulita che bevevamo con il mestolo.

Di fianco c'era la camera da letto, dove dormiva mia sorella Giovanna, poi c'era la porta e si entrava in questa stanza grande

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dove c'era il lavandino, dove si lavavano i piatti. C'era l'acqua, ma non c'era il rubinetto con l'acqua in casa, come capita ora in tutte le case. Tenevamo i secchi pieni d'acqua che andavamo a prendere al pozzo con i bésel. Sai cos'è il bésel? È un legno lungo circa due metri che portavi sulle spalle e alle sue estremità mettevi i due secchi dell'acqua, oppure i secchi del latte da portare al casello, a seconda della necessità.

In quei tempi c'erano pochi soldi e mio padre, per guadagnare qualcosa, alle volte metteva a disposizione questa stanza per i vicini per ballare in compagnia, con la fisarmonica. Gli chiedevano: “Delisio, ci date la stanza del lavandino per ballare?” e lui prendeva qualche soldo.

La prima occupazione

La mia famiglia era composta da 10 fratelli, tutti sani ed onesti, ci siamo sempre voluti bene. Avevamo due genitori che ci insegnavano tante cose buone come l’onestà e la serietà. Avere fede e credere in Dio, perché è lui che ci guida.

Due cose non ho mai dimenticato: non fare mai ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te e l’altra cosa è che il male è meglio riceverlo che farlo.

Io sono andata a scuola, la prima l’ho fatta a Levizzano e la seconda l’ho frequentata a Baiso, perchè nel frattempo la famiglia si era trasferita. In quel periodo c’era un po’ di miseria e bisognava fare qualche sacrificio, un giorno, un signore che era rimasto vedovo, è venuto alla nostra casa e ha chiesto a mia

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madre se poteva mandare una di noi con lui a fare i lavori di casa. Si girò verso di me e disse: “Quella morettina andrebbe bene” e mia madre mi chiese se volevo andarci. Io dico che sono nata vecchia, ho visto mia mamma speranzosa perché lui aveva detto che le dava qualcosa e lei era contenta perché la famiglia avrebbe guadagnato un po’, così ho accettato il lavoro. Il giorno dopo la mamma è venuta dalla maestra ad avvisarla che sarei andata a lavorare da questo signore, perché una volta non c’era la scuola dell’obbligo.

Mi ricordo, modestamente, che la maestra disse: “Peccato, poteva diventare qualche cosa”, ha detto proprio questa frase perché mi conosceva ed aveva visto che a scuola mi applicavo con buoni risultati.

A otto anni ho abbandonato la scuola per andare a lavorare, e ho continuato fino a quando mi sono sposata, non ho goduto né la fanciullezza né la giovinezza. Andando a servizio da quel signore vivevo con lui, preparavo da mangiare e pulivo la casa, anche se abitava vicino a casa mia alla sera restavo con lui perché ero a servizio.

All’età di 13 anni sono andata alla risaia, poi sono andata a servizio a Milano, a Modena e a Reggio Emilia. A Reggio ho conosciuto Vincenzo, parente dei signori presso i quali lavoravo, un bravo giovane, ci siamo innamorati e ci siamo sposati.

Eravamo abituati che, anche se eri povero, cercavi sempre di mostrarti in ordine quando ti trovavi in un luogo pubblico, in mezzo alla gente del paese. Se ti mancava il vestito o le scarpe

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non andavi a scuola, ma in chiesa dovevi essere ordinata e pulita.

Quando ero giovane e vivevo nella casa in cui mi sono sposata, andavo a messa senza scarpe, non si potevano usare perché si potevano sporcare; andavamo su, dalla casa alla strada e, finito il sentiero, avevamo con noi uno straccio, ci pulivamo i piedi vicino alla chiesa, ci mettevamo le scarpe ed entravamo in chiesa. Quando uscivamo ci toglievamo subito le scarpe, per non rovinarle; ma per tornare a casa il sentiero scendeva, “A tan dev a volta sò” e allora correvi.

D’inverno i piedi si gelavano e quando arrivavi li mettevi nella vampa, mamma mia che male, ti venivano i “martelletti” nei piedi (infilavano i piedi sotto al forno della stufa a legna e nello scaldarsi, con il riattivarsi della circolazione, i piedi facevano un gran male).

All’epoca c'era mio padre che si ingegnava a fare le scarpe, faceva tutto lui. Oppure faceva gli zoccoli: allora ti mettevi le calze con gli zoccoli.

Io tutto quello che ho passato, lo rifarei tutto: in fondo, in fondo rifarei tutto.

La risaia

Ho iniziato ad andare alla risaia che avevo 13 anni, per sette anni a fila. A quei tempi, se lavoravi alle dipendenze, il padrone ti doveva versare i contributi, ma non era come adesso

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che tutto viene registrato con i computer, allora il dipendente doveva avere un libretto del lavoro dove venivano registrate le “marchette” versate, che corrispondevano ai periodi lavorati. Io ce l’avevo perché andavo a servizio e alcuni padroni me le mettevano, altri mi pagavano di più senza effettuare i versamenti ed io ero contenta, i miei avevano sempre bisogno di soldi, li preferivo per poterne portare di più a casa, senza pensare che così facendo non pensavo al mio futuro previdenziale.

Alla risaia non si poteva, dovevi segnare i contributi. In tempo di guerra la Previdenza Sociale ci aveva consegnato il libretto perché il padrone doveva segnare i contributi versati per il periodo lavorato. Quando siamo tornate a casa avevano bombardato il ponte sul Po e, per passare dall’altra parte dovevamo prendere una barca, un barcone; quando io venivo a casa dalla risaia nascondevo i soldi all’interno dei vestiti, l'abito che indossavo aveva una tasca interna che io cucivo, per non perderli e per non farmeli rubare. Quella volta avevo nascosto nei vestiti anche il libretto della Previdenza Sociale, poi, per paura che mi succedesse qualcosa il libretto l’ho tenuto in mano, ma non è vero che mi è caduto in acqua!

Quando si è giovani si è ingenui, ci si sbaglia, i soldi non li ho persi perché li avevo cuciti, ma il libretto non l’ho potuto recuperare. Quando sono arrivata a casa non sono neppure andata alla Previdenza Sociale a dirlo, perché sarei stata rimproverata, ho perso tutti i contributi: 7 anni di risaia e i periodi a servizio, perché non c’era più il libretto.

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Il lavoro a servizio, la lontananza da casa

In seguito ho cominciato ad andare a servizio in vari posti, il lavoro consisteva nell'andare a vivere presso una famiglia ed eri impegnata tutti i giorni da mattina a sera ed eri libera alla domenica pomeriggio. Quando avevi finito di pulire il lavandino, andavi fuori fino alle sette (le 19,00), e per quell’ora dovevi essere a casa per preparare per la cena.

I miei compiti cambiavano da posto a posto. C’erano i posti alla buona, dove il padrone aveva un solo domestico e dovevi fare di tutto, c'erano i posti dove c'era la cuoca, la cameriera, chi faceva il bucato. Il lavoro lo trovavi con il passaparola: parlando con le amiche venivi a sapere che qualcuno aveva bisogno. Di solito non lavoravi tutto l'anno: aprile e maggio andavi alla risaia, poi lavoravi un po' ma dovevi tornare a casa per la mietitura e i lavori nei campi, in autunno, finito tutto, tornavi a servizio.

Nel tempo della mietitura mi mettevo d'accordo con mia madre che mi scriveva e diceva che aveva bisogno di me, perché, se non c'era una scusa, una motivazione non sapevo come fare per andare a casa, ci voleva una scusa valida. Non esistevano le ferie. Mia madre mi scriveva che aveva bisogno e la padrona non poteva dire di no, ti doveva dare un periodo per andare a casa e, se perdevi il posto di lavoro, poi ne trovavi un altro.

Io ero molto attaccata ai miei genitori, specialmente a mia madre. Quando andavo a servizio, a Reggio o a Milano, potevo stare via due, massimo tre mesi, ma poi non riuscivo più a restare, dovevo tornare a casa a vedere mia madre. Con la

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solitudine e la lontananza mi assaliva la paura che morisse, avevo paura di non vederla più: non potevo stare lontana da mia madre.

Ero giovane e molto legata alla famiglia e, pur di poter tornare a casa non mi interessava perdere il lavoro, se la mamma non mi scriveva io cercavo una scusa per tornare a casa.

Può sembrare strano, oggigiorno ci sono l’automobile e il telefono: puoi sentire una persona schiacciando un tasto e se voglio tornare nelle case delle frazioni di Baiso, dove sono cresciuta, chiamo la Maura e con un viaggio di un'ora arriviamo. Quando ero a servizio dovevo prendere il treno per arrivare a Reggio, in città c'era la corriera che ti portava fino a Baiso e poi a piedi, con la valigia in mano, fino a casa.

Altre volte da Reggio andavi su in bicicletta. Se volevi notizie da casa, dovevi aspettare una lettera e spesso passavano giorni prima che ne arrivasse una: che gioia quando la ricevevi!

Nelle famiglie a servizio eri sola, lavoravi da mattino a sera e avevi solo la domenica pomeriggio libera. Dovevi stare attenta a come ti comportavi, io ero timida e mia madre mi aveva inculcato dei principi morali molto seri. Non ti potevi incontrare da sola con un ragazzo. Adesso c'è troppa libertà, io non sono stata abituata così, una volta si stava molto attenti ad uscire con le persone, se diventavi una persona “chiacchierata”, finivi sulla bocca di tutti, venivi additata e tenuta a distanza. Era facile essere rovinata.

Uscivi di casa giovane ed eri molto ingenua ed ignorante sui fatti della vita. Io tengo più alla serietà e all’onestà che ai soldi,

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non voglio che si pensi che, solo perché ero lontana da casa, non mi sono comportata bene, ci si sta male.

Bruna è molto seria ed io, per alleggerire la situazione le dico che sono cose passate e che comunque dopo si è unita felicemente, per tanti anni, con Vincenzo, ma per lei sono concetti importanti.

E se uno dice che sono cose passate, che non sono importanti, non è vero, perchè: “A baler insema ai lìnsol ed chieter, as fa prest!” (ballare sulle lenzuola degli altri si fa presto, non si usano riguardi! Intendendo che il corredo, le lenzuola, sono oggetti importanti nella famiglia, bisogna usare riguardo per conservarli bene e, se si usano gli oggetti di altri o se si parla di problemi di altri, si fa presto, ma se sono le tue cose, i tuoi problemi, fai più attenzione, hai più riguardi).

Quando ero a servizio a Reggio alla domenica mi trovavo con mia sorella Maria, l'Olga, una mia amica di Levizzano e altre ragazze e capitava che al pomeriggio andavamo insieme a ballare allo “Zibordi”. Ci divertivamo poche ore e poi si tornava a lavorare. Se volevo andare a casa dovevo invece avere un permesso dalla padrona di alcuni giorni.

Bruna da giovane

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Una volta sono andata alla risaia, quando ho finito sono andata a servizio sopra il Bazar Vampa, da un signore che si chiamava Venturi. Il lavoro alla risaia era malsano e, probabilmente a causa dell'umidità, sono stata male. La Maria, mia sorella, era a servizio da un'altra famiglia. Io e la Maria eravamo quasi sempre insieme. Era un giovedì di festa, mi faceva un gran male la mano e la spalla, e mi girava la testa. Al pomeriggio vado fuori con Maria e mi lamento che sento un gran male, un male! Non ricordo se era l'Ascensione di Nostro Signore, Maria mi dice di prendere un cachet (un analgesico), poi alla sera ci lasciamo, lei va a casa sua e io vado a casa mia, preparo la cena, sparecchio, pulisco le scarpe, faccio tutti i miei lavori soliti e vado a letto. Di notte un male, un male; era caldo, doveva essere giugno, che cosa faccio? Prendo il materasso, c'era una finestra con un balcone nel piano sottostante: butto giù il materasso poi scendo a coricarmi anch'io per vedere se nel fresco stavo meglio e riuscivo a dormire, un po’ stavo meglio, ma continuavo a lamentarmi. La signora ha sentito la confusione ed è venuta a vedere cosa succedeva. Si spaventa perché non mi vede nel letto, la camera è vuota. Quando mi vede e capisce che sto male chiama la Maria poi mi accompagna all'ospedale, che una volta si trovava in centro, di fianco alla Questura. Ho conservato tutte le carte, mi hanno fatto una diagnosi, mi hanno visitato: avevo diritto alla pensione per questo disturbo.

Mi hanno portata all'ospedale, sono stata ricoverata otto giorni, avevo la febbre, ero sempre a letto, mi sono stancata e volevo andare a casa da mia madre, ma i dottori non volevano, mi hanno fatto firmare una dichiarazione, una liberatoria. Quando

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mi hanno lasciato andare a casa mi avevano dato una fascia di lana rosa, con la quale ho tenuto coperto la spalla, il braccio e la mano, l'ho tenuta due, tre giorni, poi il male e la febbre mi sono passati. Ero andata a Baiso, stavo meglio e sono andata a mietere a Levizzano, perché il male mi era passato. In seguito, nel 1981, sono andata alla Previdenza Sociale e mi hanno detto che se, a suo tempo, facevo domanda di pensione per invalidità, probabilmente mi sarebbe stata assegnata, ma non la feci.

Bruna mi mostra una fotocopia di un certificato dove viene dichiarato che l'8 giugno del 1946 veniva ricoverata all'Ospedale di Reggio Emilia per essere curata per reumatismo poliarticolare acuto su braccio spalla e mano, il 14 giugno aveva firmato per potersi allontanare spontaneamente nonostante il parere contrario del medico curante.

La guerra

Durante la guerra io ero a casa, sono andata anche alla risaia, ma principalmente ero a casa. Noi abbiamo risentito della guerra perché abitavamo in una casa isolata, c'erano i partigiani ed i fascisti che giravano e combattevano.

A volte arrivavano dei partigiani che cercavano di nascondersi, dai tedeschi, ricordo tanti episodi che quando mi vengono in mente sto ancora male.

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Su a Baiso, sulla strada principale, c'era una casa dove viveva una famiglia che gestiva una trattoria, avevano due figli maschi, uno era a casa quando i tedeschi vennero su da Roteglia per fare i rastrellamenti, cercare gli uomini. Quando venivano avvistati qualcuno partiva davanti a loro per avvisare la gente che abitava lungo la strada per dar tempo agli uomini di nascondersi. In questa trattoria viveva questo giovane e lui, insieme ad un amico erano scappati dietro al cimitero. Il cimitero era distante dalla strada principale e lì sono rimasti nascosti. Sono passate tre o quattro camionette, loro le hanno viste, poi non passava più nessuno e così sono usciti per tornare alla loro casa. All'improvviso è arrivata un'altra camionetta, arretrata rispetto alle prime. Si sono buttati subito nel fossato che costeggiava la strada, non avendo altro posto dove nascondersi, ma sono stati visti e i tedeschi, con la mitraglietta, li hanno ucciso tutti e due. I genitori avevano chiuso la trattoria per paura e quando hanno riaperto la porta d'ingresso si sono trovati davanti agli occhi il corpo del figlio morto, Renzo si chiamava.

In zona c'erano anche i partigiani, che di solito giravano nei boschi, per nascondersi e per salvarsi. Una volta un partigiano, poverino correva verso di noi, era armato, era vestito in uniforme, mi ricordo che mia madre gli aveva dato un vestito di mio fratello.

(probabilmente si tratta di un soldato scappato dal fronte, che si trovava sull'Alto Appennino al confine con la Toscana, che si doveva togliere la divisa, per nascondersi meglio, o di un militare in fuga dopo l'8 settembre).

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Vicino a casa c'era una buca, scavata nel terreno, piena d'acqua che veniva usata come abbeveratoio per le mucche. Mio padre aveva preso i vestiti e la mitragliatrice del ragazzo, li aveva legati e li aveva messi dentro a questa buca d'acqua, con sopra dei piastroni per non farli emergere. Li ha nascosti perché se i tedeschi li avessero scoperti, ci sarebbero state delle rappresaglie. nei nostri confronti.

In seguito, alcuni giorni dopo, è venuto un vicino a chiamare mio padre: “Delisio, Delisio, i tedeschi cercano persone che li aiutino a trasportare le bestie!” Durante la guerra, dopo l'armistizio, i tedeschi sequestravano il bestiame ai contadini poi cercavano qualcuno per portare gli animali presso i centri abitati maggiori. Quella volta dovevano andare a Sassuolo. Giannetto, così si chiamava, era più giovane di mio padre; si accordarono per trovarsi il mattino successivo nel posto dove i tedeschi avevano radunato le mucche e i buoi che avevano raccolto. Quando sono arrivati a Sassuolo, le persone più anziane sono state lasciate libere di tornare a casa, mentre i giovani sono stati trattenuti, come è successo con questo amico di mio padre. In seguito sono stati portati in campo di concentramento, vicino a Modena. (probabilmente a Fossoli, vicino a Carpi). Questo ragazzo è andato via con il vestito da lavoro che aveva indosso, senza nulla; alla fine è riuscito a tornare a casa, con la barba lunga, sporco, magro, poverino! È riuscito a scappare ed è tornato a casa a piedi.

Gli animali venivano portati via per alimentare le truppe tedesche; mio padre e i suoi amici pensavano che, se avessero aiutato i tedeschi a portare le bestie nei centri di raccolta, gli avrebbero lasciate le proprie. Invece, dopo che mi padre è

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partito per Sassuolo, un'altra colonna di tedeschi è passata e ha portato via le bestie rimaste, ha portato via anche le nostre bestie. Facevano i rastrellamenti e portavano via gli uomini e gli animali che trovavano.

C'era il figlio della famiglia che abitava lì da noi che si era nascosto sotto alla massa del letame. Eravamo contadini insieme e avevamo due masse, una di fianco all'altra: fra queste due avevano ricavato uno spazio con delle assi sulle quali avevano messo un po' di letame e lui si era nascosto sotto. Non l'hanno trovato! I tedeschi: “Via, via! Prendere mucche!”. Mia madre poverina a piangere: “Ho i bambini piccoli, mangiamo con il latte che produciamo”. A forza di piangere alla fine gliene hanno lasciata una. Poi hanno preso me, mia sorella la Gina e altre ragazze perché di uomini non ce n'erano più. Quella volta le bestie sono state portate a Viano. Prima del paese ci siamo fermati a mangiare presso una famiglia del posto. Avevano chiamato dentro i tedeschi e volevano che ci andassimo anche noi, ma mia sorella Gina, furba lei, mentre i tedeschi mangiavano, mollava le mucche. Le avevano legate e lei è riuscita a slegarne qualcuna, delle nostre e anche di altri contadini; poche, ma qualche bestia l'abbiamo salvata. Due o tre, non ricordo.

Una volta mi ricordo che eravamo andate a Baiso a prendere qualcosa da mangiare, era Febbraio, era nevicato da poco e sulla montagna c'era una bella sponda innevata, candida, sopra la strada che veniva su da Reggio. In lontananza, in cima alla sponda, vedo alcuni partigiani che passano; all'improvviso vedo arrivare dalla strada una camionetta di tedeschi che li hanno visti e hanno cominciato a mitragliare: tatatatatata. Li

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hanno uccisi tutti. Ce n'erano cinque o sei di questi ragazzi, tutti giovani, me li ricordo ancora. Hanno cominciato a rotolare giù dalla riva, pieni di sangue, sulla neve bianca.

Quante cose abbiamo visto!

Quella volta io non ero in pericolo, perché ero lontana, stavo tornando a casa. Loro erano dalla parte di Reggio e io ero dalla parte di Roteglia, sono tornata a casa di corsa.

A Baiso c'era la chiesa vecchia, la nuova è stata costruita dopo la guerra. Una volta a Baiso c'è stata una grande battaglia fra partigiani e tedeschi, alla fine hanno portato i morti e i feriti dentro alla chiesa, che orrore!

Che lavoro brutto è stata la guerra, non l'auguro a nessuno.

Una volta noi siamo scappati, pensa che abitavamo in un posto che era proprio in mezzo ai boschi, là in fondo. Una sera siamo scappati anche noi e siamo andati a piedi verso San Romano, in posti che tu non conosci. Eravamo andati a dormire là perché durante la notte c'era stata una battaglia fra partigiani e tedeschi e allora era pericoloso restare li. È stata quella volta che hanno messo i morti nella chiesa vecchia, perché al mattino erano andati a prendere i morti ed i feriti. Quando i tedeschi prendevano i partigiani, li uccidevano e poi li seppellivano a fior di terra. C'era un bosco e, se passavi di lì, mentre camminavi sentivi crack crack, con il peso del corpo la terra si abbassava e rompevi quello che c'era sotto.

La guerra era proprio una brutta cosa.

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I tedeschi alle volte prendevano le donne, ci facevano i suoi comodi e poi ci tagliavano i capelli. Le ragazze venivano rovinate, subivano violenze.

Gli inizi con Vincenzo

Sono venuta a Reggio a lavorare dalla famiglia Masini, a servizio, loro erano parenti di Vincenzo. Vincenzo veniva presso questa famiglia per fare dei lavori di manutenzione. Era un operaio delle Reggiane e arrotondava lo stipendio con dei lavoretti: riparava la caldaia del riscaldamento, tagliava la siepe, curava il giardino. Ci siamo conosciuti e abbiamo iniziato a morosare. La padrona ci conosceva bene, lui era un grand'uomo, buono e paziente e io ero

molto timida e chiusa.

Vincenzo abitava in città e mi veniva a trovare a Baiso in bicicletta, “Quando l'amore c'è la gamba la tira al pè” (se c'è l'amore non senti la fatica e vai dove ti dice il cuore). Io mi

Vincenzo da militare

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sono sposata a Baiso, per arrivare alla nostra casa bisognava scendere e percorrere un lungo carradone; Vincenzo mi veniva a trovare in bicicletta, una volta, mentre tornava sulla strada principale, di sera, non ricordo l'ora, ha trovato quattro ragazzi che lo aspettavano, lo hanno fermato e gli hanno chiesto: “Bè, a'gh gniv mia dai ragàsi so a Res ?” (non ci sono delle ragazze giù a Reggio?) perchè non volevano che venisse a prendere una ragazza del paese. Vincenzo ha tenuto stretto il manubrio della bicicletta e si è allontanato il più presto possibile, non voleva litigare, inoltre era solo contro quattro giovani. Erano tutti ragazzi che io conoscevo, a 20 anni anche io facevo la mia figura, e poi, come si dice? “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace !” non è vero?

Il matrimonio

Mi sono sposata a 21 anni non ancora compiuti, il mio compleanno è in aprile e io mi sono sposata in febbraio. Dopo il matrimonio non sono più andata a servizio come prima, facevo solo delle ore. Dopo sposata sono andata ad abitare su in solaio, non avevamo camera, non avevamo nulla. Non ti dico il mio matrimonio! È venuto mio fratello a trovarmi, appena sposata, e piangeva, e io gli dicevo non piangere: ero sposata e lui rispondeva che piangeva nel vedere come ero messa, come ero sistemata.

Ma adesso te lo racconto bene come è stato il mio matrimonio.

Ci siamo sposati a Baiso. Mia madre era brava a far da mangiare così il pranzo l'abbiamo fatto a casa mia, tutti cibi

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buoni, dai cappelletti alla carne. Quando mi sono sposata non sono andata dalla parrucchiera, ma volevo fare lo stesso bella figura e alla sera mi ero lavata la testa, poi avevo preso delle foglie di frumentone per arricciare i capelli. Allora c'erano i materassi imbottiti con le foglie di frumentone, ne avevo preso un po' e vi avevo arrotolato i capelli. Al mattino, tolto il tutto, avevo i capelli arricciati, con la permanente.

Volevo fare bella figura con i parenti, ma non c'erano i soldi per dipingere le pareti di casa, allora alla sera ho incartata tutta la stanza con dei giornali vecchi, non c'era altro, ma era abbastanza, e alla fine sono andata a letto che sarà stata mezzanotte.

Al mattino è arrivato Vincenzo, sua sorella, una sua cugina e un suo amico, i suoi genitori non sono venuti, ma neppure i miei sono venuti a messa, non usava quella volta.

C'erano tutti i parenti, saremmo stati venti, trenta persone, non ricordo, tutti parenti. C'era mio fratello che mi ha fatto da testimone, mia sorella più vecchia mi ha fatto la “flepà”, mi ha seguito per tutta il giorno e mi aveva preparato la torta.

(la flepà era la donna che doveva seguire la sposa durante la cerimonia ed istruire la giovane su come sarebbe stata in futuro la vita di coppia)

Mi ricordo quando Vincenzo è arrivato giù con sua sorella, la cugina e l'amico. Aveva lasciato l'auto su in paese ed è venuto giù a piedi, perché l'auto non passava. Vengono giù, io ero già vestita, ero tutta pronta e mia sorella mi dice: “Tè sta ferma li, non ti muovere”, poi ha preso dei fogli e li ha tagliati in piccoli

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pezzi, facendo dei coriandoli, ha fatto un bel secchio di cartine piccole. Quando è arrivato Vincenzo la casa era tutta chiusa, avevamo chiuso le finestre, la porta, tutto. Arriva Vincenzo con questi parenti e bussa alla porta, e mia sorella: “Chi è? Chi è?”, “Ma son Vincenzo!”, “Che cosa vuole?”, “Sono venuto a prendere la Bruna per andarci a sposare” e mia sorella rispose “Ma chi è la Bruna? Chi conosce la Bruna?” Avevano preso un po' paura, perché sai, fare degli scherzi così a persone che non se lo aspettano! Loro erano tutti davanti alla porta che aspettavamo, allora mia sorella dice: “Qui non c'è nessuna Bruna! non so chi siate, andatevene via! io ho da fare e devo buttare questo secchio d'acqua!” Apre la porta, prende il secchio pieno di coriandoli e glielo butta contro, mentre loro scappano da tutte le parti. Avevano preso paura. Poi dopo invece è andato tutto bene, siamo usciti tutti ben vestiti e siamo andati su davanti alla chiesa.

All'interno c'era un mio nipote, figlio della Giovanna, che aveva 12 anni e guai per me, mi era molto attaccato. Quando il parroco recita la frase di rito: “C'è qualcosa che impedisce questo matrimonio?” lui salta su e dice: “Zia ditegli di no, zia, ditegli di no!” e mi tirava il cappotto.

Ci siamo sposati, siamo usciti, c'era un nostro amico che suonava la fisarmonica, poi siamo andati a casa dove la mia mamma aveva preparato un bel pranzetto. Abbiamo mangiato e alla sera siamo andati a casa di Vincenzo. Arriviamo davanti a casa sua, in macchina, in via Pariati, lui mi fa scendere, io ero scalza, avevo le scarpe nuove, ma dato che ero abituata ad andare scalza, mi facevano male i piedi. Vincenzo fa scendere tutti e poi andiamo dentro, mi lascia li, e allora io mi metto le

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scarpe e vado fuori e sento mia nonna (mia suocera) che prende mio marito e piangendo dice: “Non sei più il mio bambino, non sei più il mio ragazzo!”, io ho sentito e le ho detto: “No, lo è ancora, anzi, adesso ha anche una bimba,!” che sono poi io, e lì abbiamo riso.

Entriamo in casa e ci mettiamo a mangiare con loro. Mentre siamo lì arriva una sua ex, che guai per Vincenzo, batte alla finestra, eravamo a piano terra. Sapevo che era la sua ex, e allora le dicono: “Vieni dentro, vieni dentro”. Avevamo una cucinina piccola, eravamo in pochi: c'era mia sorella, la Gina e mia sorella la Giovanna, quella che aveva fatto la flepà, e poi c'erano due o tre parenti di lui e questa signorina si mette in piedi vicino alla stufa. Mi alzo anch'io per salutarla, ma non mi ha salutato. Le hanno dato un bicchiere di spumante, ma non ha preso niente, è partita ed è andata. Mi è dispiaciuto, ma è una ruota che va così, Vincenzo ha scelto me. La vedo ancora adesso, dal dottore.

Quando mi sono sposata non sono rimasta a Reggio subito, non avevo niente, non avevo neppure la stanza nel solaio, abbiamo dormito due sere sotto ai portici a San Pietro, non ricordo come si chiamava la locanda. Uno sporco che non ti dico, si vede che davano in affitto le stanze agli sposi. Se ci penso mi viene male.

Vincenzo e la sua famiglia abitavano in una casa composta da due appartamenti divisi da una scala: l'altra famiglia viveva in un bell'appartamento con la cucina, due camere, la sala. I miei suoceri avevano solo la cucina sotto e una camerina sopra. Ho detto a Vincenzo di pulire il solaio con una scopa e dipingere le

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pareti con un po' di bianco. C'era un finestrino basso così, dove non passava neanche una testa, era un sottotetto, ma una volta era così per tutti.

Avevamo un letto che ci avevano regalato perché il falegname aveva sbagliato la testata, l'avevano girata dietro invece che davanti. Avevamo quello lì e due materassini di piuma, che perdevano la piuma.

Eravamo due cuori e una capanna, non avevamo nulla.

Le figlie

Io come matrimonio non mi lamento, la miseria non ci pesava perché allora c'erano molte persone nelle nostre condizioni, eravamo tutti così. Al mondo son più le cose brutte delle belle che si passano. Posso dire che io, durante la mia esistenza, non ho goduto di molte gioie nella vita. I momenti più belli sono quelli che ho vissuto con le mie figlie.

La Maura è nata nel '49, a Reggio, all'ospedale. È stata un'esperienza meravigliosa.

Silvana e Maura

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La nascita di un figlio è la cosa più bella della vita, quello sì. Poi è arrivata la Silvana. Sì è stato molto bello, ho dei bei ricordi, le figlie sono state meravigliose. Ringrazio il Signore che mi ha dato due figlie sane, anche se poi una se l'è presa a sé, si vede che ne aveva bisogno.

In questo appartamento sono arrivata nel '55, sono stata in famiglia dal '49 al '55, sei anni, e poi mi sono trasferita qua. Abitavamo in via Pariati, da lì andavo a servizio a ore, partivo al mattino e tornavo a sera. Lasciavo le bambine a mia suocera, che abitava al piano di sotto, aveva un cucinino come questo e avevano una camerina dove dormivano i genitori di Vincenzo con sua sorella. Noi abitavamo sopra, in soffitta. Lei poverina è morta nel 1981, con un tumore. Aveva 47 anni, andava a Modena a curarsi l'hanno curata con la chemioterapia, mi ricordo che quando partiva andavo in bicicletta in stazione e prendevo la corriera o il treno per accompagnarla e venivo a casa il giorno dopo. Quando le facevano la chemio, lei stava molto male e ci voleva qualcuno vicino.

Anche quando sono nate la Maura e la Silvana siamo stati tutti insieme lì, siamo venuti via che la Maura aveva sei anni e la Silvana ne aveva due. Sono venuta qui, in questa casa, che pensavo di essere in una reggia. Avevo messo la stufa a legna, e una mattina ho acceso la stufa, ho preparato il caffè e latte per le bimbe. Avevo messo la Silvana a sedere lì di fianco alla tavola, lei si è rovesciata la tazza piena di latte sulla gambina, ho preso la bicicletta e sono corsa col la bimba in spalla, sono andata alla fermata dell'autobus e ho portato la bimba all'ospedale in centro a Reggio. Quella volta lì è stato molto brutto, ho provato a levarle il pigiama, ma staccavo anche la

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pelle, allora mi sono fermata e l'ho portata via con il pigiama. Era aprile, era fresco, ma non era freddo, l'ho presa com'era e sono corsa all'ospedale. Non avevo ancora il fornello a gas, perché là in quel solaio non avevo nulla, poi , quando mi sono trasferita, sono andata da Bizzocchi ed ho preso un fornello con la bombola, che mi tenevo tanto di buono, l'avevo preso a rate, mentre per scaldare avevamo una stufa a legna.

Vincenzo e Bruna

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La fede

La fede è stata quella che mi ha aiutato più di tutti, io vado avanti con lei, è il Signore che ha chiamato la Silvana lassù con lui, io ho sofferto tanto e mi dispiace che non passa mai, ma con l’aiuto del Signore e la fede ho la speranza che un giorno ci rivedremo in Paradiso, se non avessi la fede a sorreggermi, non so che cosa farei.

Qui ho la mia Maura che con i suoi figli, Francesco e la Rita mi vogliono molto bene e sono rispettosi, anch’io voglio molto bene a tutti loro e adesso è arrivato un angioletto, il piccolo Matteo, è un tesoro di bimbo e io gli voglio molto bene.

Al funerale di Silvana l'impresario mi ha consegnato una preghiera molto bella. Se hai letto questo brano, la Silvana ha detto che mi aspetta vicino a lei, per andare a bere alla fontana assieme. Vincenzo l'ha già raggiunta.

Alla sera ascolto il rosario, c'è il canale 2000 ed io ascolto il rosario, lo trasmettono alle sei e alle otto, me lo gusto tanto, mi sembra di ricordare quando ero bambina e mia mamma diceva il rosario a casa. La mamma ci preparava al catechismo, noi non andavamo al catechismo, non avevamo i vestiti, le scarpe, però quando c'era l'esame, quelli che avevano frequentato il catechismo in parrocchia dal prete, non rispondevano bene come noi.

Mia madre era una santa donna, ci insegnava delle cose che non ti so spiegare.

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Il rosario lo dicevamo alla sera dopo cena, prima di andare a letto, mi sembra di vedermi, tutti attorno a questo fuoco, c'eravamo in tanti, ci mettevamo lì in ginocchio (all'epoca in cucina c'era il fuoco del camino, la stufa a legna arriverà dopo).

Quando c'era il temporale la mia mamma prendeva l'ulivo, il sale, la paletta con le brace e le metteva un po' fuori dalla porta, faceva il segno della croce e noi tutti in ginocchio a recitare il padre nostro e le preghiere per scongiurare il brutto tempo, il temporale.

Mia madre aveva delle cose, che io non te lo so spiegare. Ci insegnava l'educazione, a noi bambine specialmente, non fatevi toccare dai ragazzi, non fatevi baciare, ci insegnava queste cose. E mia madre è stata una gran donna. Quando è morta, dopo alcuni giorni ho incontrato il parroco di San Romano, Don Calistro che mi ha detto: “Non pianga sua madre, era una santa donna, è già in Paradiso!” Spero che sia vero perché lo meritava, una donna mai arrabbiata, serena, sempre paziente con noi.

Alle volte andava in giro a cercare da mangiare, non sempre ce n'era. Una volta aveva messo sul fuoco una pentola di sassi, a bollire, e noi sentivamo il rumore dell'acqua che cuoceva, e ci aveva detto: “A mar cmand, ragasol, mi raccomando bambini, non aprite la pentola, fin che non vengo a casa io la pentola deve restare chiusa!” Noi eravamo tranquilli perché sul fuoco la cena si preparava mentre lei usciva e andava a cercare della pasta, del riso, oppure trovava delle uova, portava una gallina, qualche cosa da mangiare.

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Era una donna che ci sapeva fare e anche nei momenti più difficili ci sapeva tenere con serenità, senza angosciarsi o trasmetterci le sue difficoltà.

Un giorno, girando in un mercatino, ho trovato questo quadretto. Non è di valore o particolarmente bello, ma mi ricorda la mia infanzia, la mamma che lavora a casa, il fuoco: l'ho messo in sala. Questi sono ricordi e valori che ti aiutano ad andare avanti, che mi fanno forza. Non come adesso, la gioventù di adesso ha troppo e non sa fare sacrifici; ne hanno, ne spendono, si trovano un attimino in difficoltà, che cosa fanno? Figli che uccidono i genitori per cento euro.

Ripensando a tutte le cose che ho raccontato, a quello che abbiamo passato ed ai sacrifici che abbiamo dovuto sostenere,

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vedendo la società come è adesso, devo dire che non sono tranquilla. Adesso non è un bel periodo, non ce la vedo chiara, perché devi sapere che, dal brutto andare al bello, si fa bene, ma dal bello andare al brutto, deve essere una cosa tremenda, non so cosa succederà.

Una preghiera per chi resta

Se tu conoscessi il mistero immenso del cielo dove ora vivo

Se tu potessi vedere questi orizzonti senza fine e

lo splendore di questa luce Tu non piangeresti

Mi è rimasto l’affetto per te e una tenerezza che

tu non hai mai conosciuto

Io vivo nella serena attesa del tuo arrivo e tu pensami felice

Pensa a queste meravigliose cose dove non esiste

la morte e dove insieme ci disseteremo alla fonte

della gioia dell’amore.

Non piangere se veramente mi ami

testo consegnato a Bruna in occasione del funerale di Silvana (liberamente tratto dal testamento di Sant’Agostino)

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POSTFAZIONE

Questa esperienza per me è stata molto piacevole, un salto nel passato e un ricordo della casa di mia nonna, quante somiglianze!

Ascoltando i suoi racconti ricordavo la mia infanzia quando andavo a trovare la nonna in montagna, la semplicità di quel mondo contadino ti dava una libertà e una serenità, in parte idealizzata, ma che difficilmente è stata successivamente raggiunta.

Anche nella miseria, se c'è l'amore e l'accordo in famiglia, le difficoltà si superano. Inaspettato e bellissimo il ritratto della mamma che riesce a nascondere le difficoltà della famiglia ai figli, con una fantasia ed un'inventiva meravigliosi.

Con i suoi racconti di vita quotidiana emerge comunque come le esigenze della famiglia superano quelle dell'individuo, mentre oggi, troppe volte, capita il contrario, le esigenze dell'individuo sciolgono una famiglia, che si compone con sempre maggiori difficoltà.

Grande tristezza nell'ascoltare le fatiche e i lavori sopportati, ma soprattutto per le perdite subite, e rispetto delle idee di Bruna, dei suoi valori e delle sue convinzioni che l'aiutano ad andare avanti.

Reggio Emilia, estate 2012 Orianna Montanari

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