La memoria di Nedo - editricemonti.it fiano.pdf · vare mia nonna, stravolta da un viaggio...

1
L’intervista sabato 26 gennaio 2013 laRegioneTicino 2 Speciale La giornata della memoria di Erminio Ferrari L’oblio, il passare del tempo ‘che tutto macina’ insidiano il ricordo e la conoscenza della Shoah e quindi di tutti i crimini successivi Incontro con Nedo Fiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz Milano – Nedo Fiano fu arre- stato il 6 febbraio 1944 in via Ca- vour a Firenze. Una pistola pun- tata alla schiena e l’avvertimen- to di non tentare di fuggire. Quando fu in cella, uno dei de- tenuti gli chiese per quale reato era stato messo dentro. «Nessu- no, risposi, è che sono ebreo». E quello gli disse: «Ma lo sai che voi vi ammazzano tutti?». No, Nedo non lo sapeva. Non riusciva neppure a immaginar- lo. «Da bambino ero stato un ba- lilla, figuriamoci, e mi divertivo un mondo con tutte quelle mes- sinscene». Poi, sì, c’erano state le leggi razziali («passavo davanti a una biblioteca nella quale avrei sempre voluto entrare, finché un giorno lessi sulla porta: vietato l’ingresso agli ebrei») ma che il loro esito estremo sarebbe stato Auschwitz, quello no, non riusci- va a concepirlo. Ma quando si trattò di fuggire da casa «trovammo molte porte chiuse. Anche i conoscenti ci re- spingevano. Sapete, dicevano, ab- biamo i ragazzi, e se viene la poli- zia... Finché mio padre trovò un uomo che ci aprì la casa, ringra- ziando dio per poterlo fare. Veni- te, disse, questa è casa vostra». Non bastò. Ad Auschwitz, Nedo arrivò (transitato per il campo italiano di Fossoli) il 23 maggio, per essere privato del nome, al cui posto gli furono ta- tuati una lettera e un numero A 5405. La giubba da Haftling, come venivano denominati i detenuti, ce l’ha ancora, appesa nello stu- dio della sua casa milanese, tra- boccante di libri. La maggior parte dei quali dedicati alla Sho- ah. Lui stesso è autore di tre vo- lumi (Il coraggio di vivere, Il passato ritorna, Berlino-Au- schwitz... Berlino; tutti con l’edi- tore Monti di Saronno) e per anni è stato una voce instanca- bile della memoria: nelle scuole (sarà di nuovo in Ticino, il 7 feb- braio prossimo) nelle istituzio- ni, nei mezzi di informazione. E anche oggi che i ricordi si af- fastellano nel disordine del tem- po che se ne va, la sua faticosa te- stimonianza dà ancora conto di ciò che sta sul crinale tra l’indi- cibile e quanto del male può es- sere invece conosciuto e detto. Se Primo Levi arrivò a soste- nere che veri testimoni dell’abis- so furono solo coloro che non ne fecero ritorno, i sommersi, anche Nedo riconosce che le molte pa- gine pur fondamentali, memora- bili, scritte su quell’evento non riusciranno mai a tradurre «l’angoscia profonda, la paura radicale, l’annullamento del pri- gioniero nel campo di sterminio». Perché questa era la condizio- ne: «Il campo era pervaso dal ter- rore. Una condizione nella quale le stesse persone potevano essere trasformate in ladri, vili, tradito- ri. Posso dire che nel campo c’era- no qua e là degli atti di solidarie- tà, ma pochi. Non parlerei di atti d’eroismo. Ripeto, prevaleva la paura. Una traumatizzata indif- ferenza per la situazione altrui e poi per la propria, anticamera della fine. E sulla solidarietà bi- sogna intendersi: c’era chi solida- rizzava mettendo a rischio la pro- pria vita, chi spendendo un aiuto minimo, ma non si andava oltre. Dal risveglio, alle 4.30 del mat- tino, in poi c’erano pochi ritagli di tempo per parlare o provare ad aiutare un compagno, ma molto rari. Le violazioni della consegna del silenzio sarebbero state puni- te. Il forno era sempre acceso». E la lotta muta, sorda, per so- pravvivere non concedeva spazi all’altruismo, se non a prezzo al- tissimo e talvolta definitivo. Del resto, la condizione degli Häf- tlinge era quella di esseri alla to- tale mercé dei carcerieri, o del caso. Il capriccio di una Ss, un contingente da avviare alla ca- mera a gas ancora incompleto, un inconsapevole appuntamen- to con il destino potevano signifi- care la vita o la morte. «E in ogni caso [e di nuovo tor- na la corrispondenza con la voce di Levi], per avere qualche possi- bilità di sopravvivere, bisognava essere assegnati ad un lavoro in qualche misura privilegiato». Se di privilegio si può parlare per quello che toccò a Nedo. ‘Vidi arrivare mia nonna e svenni’ «Eravamo da poco arrivati ad Auschwitz, quando, allineati in una baracca, ci fu chiesto da un ufficiale Ss chi sapeva parlare te- desco. Alcuni si fecero avanti, ma furono respinti. Poi toccò a me. Conoscevo quella lingua, avendo- la appresa dal mio amatissimo nonno. L’ufficiale mi chiese da dove venivo; e io, in ottimo tede- sco, risposi: da Firenze. Caro ami- co, disse quello, è la città più bella che conosca: arte, belle donne». E a Nedo, divenuto interprete, venne affidato un posto “privile- giato” nell’Aufräumenskom- mando, quella cenciosa squadra di detenuti incaricati di “acco- gliere” i deportati scaricati sulla Rampa dai treni piombati in ar- rivo da tutta Europa. «Il nostro kommando era com- posto da una ventina di persone. Eravamo tutti stravolti nel vede- re in quale stato arrivavano sulla Rampa vecchi, malati, bambini, immediatamente avviati alle ca- mere a gas, senza assolutamente potere far niente. Non potevamo parlare: le Ss correvano da una parte all’altra del convoglio, con i loro cani al guinzaglio. Ricordo bene quando vidi arri- vare mia nonna, stravolta da un viaggio spaventoso, incredula, ignara di dove si trovava e per- ché. Vedendola mi sono precipita- to verso di lei, ma poi sono svenu- to, e i miei compagni mi hanno nascosto in qualche modo. Ho ri- schiato di finire con lei nel forno». A lungo, Nedo ha portato in sé la lacerazione di quella situazio- ne. Un sentimento velenoso di colpevolezza, per essere stato impiegato, obbligato, nel funzio- namento del meccanismo di sterminio. Infamia nell’infamia: fare della vittima un “colpevo- le”, o far sì che tale si sentisse. Questo il “privilegio” toccato a Nedo, leggere negli occhi di quelle persone lo sgomento, la sorpresa più dolora, l’intuizione animale, forse, della morte vici- na. E non poter rispondere se non con il silenzio e la coscienza che la loro sarebbe stata presto la propria. «Volevano sapere dove erano arrivati, che cosa gli avrebbero fatto, sfiniti e impauriti dopo un viaggio infernale. Non potevamo rispondere se non a monosillabi. Non potevano allacciare un di- scorso, ma qualcosa scappava. Nessuno di noi, tuttavia, aveva il coraggio di dire: qui ammazzano la gente. Cercavamo di tranquil- lizzarli. Come si può dire a una persona: verrete gasati e bruciati nell’arco di 24 ore? Un giorno giunse un convoglio dal quale scese il segretario della comunità ebraica di Firenze Bru- no Coen. Mi riconobbe e mi chiese: Nedo, che cosa ci fanno ora? Io gli risposi: andrete alla doccia. E in- vece andavano a morire. Ma come potevo dirgli la verità? Avrà vissuto forse altre quattro ore dopo quel rapido dialogo, e spero che perlomeno in quelle poche ore non sia stato travolto dall’ango- scia. Non fu un atto di eroismo, ma di solidarietà in un quadro di violenza, paura, morte. Ancora oggi non so se accusarmi per quella bugia o assolvermi». L’unico sentimento era il terrore Categorie che rimandano a colpa e innocenza, a bene e male, a Dio o nulla. Nedo, lei era cre- dente, allora? C’era spazio per una qualsivoglia fede nel cam- po? «Il solo sentimento era il terro- re, la sola speranza era quella di salvarsi. Eravamo tutti terroriz- zati. C’era posto per il male e mol- to poco per il bene. Vorrei poter dire che c’era an- che spazio per la fiducia nell’aiu- to di dio; ma nella realtà era av- venuta una demolizione totale anche dei sentimenti religiosi, delle manifestazioni di umanità. La paura se li era portati via». Sopravvivere, dice sovente Nedo. Nel campo, certo, ma “dopo”? Sopravvivere a quel passaggio estremo si è rivelato impossibile anche per figure che pure erano riuscite a rielaborare anche attraverso la scrittura un’esperienza tanto radicale. Capaci di riflessioni universali, guide per l’umanità succeduta alla Shoah, a distanza di anni dall’uscita dal campo di stermi- nio si sono uccisi Primo Levi, Jean Amery, le cui opere sono patrimonio del nostro tempo e del prossimo. «Li ha uccisi – ri- flette Nedo – il veleno che si è in- trodotto in noi e che in qualcuno ha continuato ad agire troppo a lungo. Qualcun altro si è salva- to». Sommersi e salvati, anche “dopo”. Perché per tutti il “ritorno” è stato una prova durissima. «Io sono stato fortunato – si com- muove Nedo. – Ero il solo soprav- vissuto della mia famiglia, ma riuscii a trovare un’ancora di sal- vezza nell’amore della ragazza che sarebbe diventata mia moglie Rirì». “Prima”, tuttavia c’era stato un episodio che per Nedo non è facile raccontare. Avvicina drammaticamente, pericolosa- mente le figure della vittima e del carnefice. Rende ambigua- mente incerto discernere tra colpa individuale e colpa collet- tiva. Germaine Tillon, nel suo fondamentale Ravensbrück qua- si si rimproverava di aver pensa- to ai “tedeschi” come popolo col- pevole (“di aver fatto delle distin- zioni: ‘loro’ hanno fatto questo, ‘noi’ non lo faremmo”). E anche Nedo riconosce che sì, talvolta si ritrova a pensare in quei termini ai “tedeschi”, e se ne dispiace. Ma la storia è un’altra: quando il campo di Auschwitz fu smantel- lato, i prigionieri (quelli che ce la fecero) vennero trasferiti nel la- ger di Buchenwald, e fu lì che Nedo venne liberato dagli ame- ricani. «Ero ridotto malissimo e mi misero in una specie di ambu- latorio ( per la prima volta ritro- vavo delle lenzuola sotto di me) affidato alle cure di un ufficiale medico tedesco della Wehrmacht, prigioniero a sua volta degli americani. Quell’uomo seppe da me che ero reduce da Auschwitz, mi curò con una dedizione incre- dibile. Poteva sembrare affetto. Mi faceva bene, nonostante fosse tedesco. Non so se era in buona fede o stava soltanto cercando di salvarsi. Ma di sicuro si sentiva in colpa nei miei confronti. Non sapevo che cosa pensare, ma quando lo trasferirono ci abbrac- ciammo, ricordo bene i suoi ca- pelli bianchi e il desiderio che sempre mi è rimasto di poterlo in- contrare un giorno». E non è che la ricostruzione di una persona sia una cosa sem- plice come a raccontarla. Al contrario: moltissimi sopravvis- suti scelsero (o non furono capa- ci di uscirne) il silenzio, per non venire ogni volta scagliati al fondo del pozzo. Molti attesero decenni prima di “ricordare” in pubblico, tanta era la paura di rivivere ciò che avrebbero rac- contato. Nedo no. «Al contrario, ho do- vuto raccontare, parlare da subi- to. Faceva paura a me stesso ciò che avevo dentro. Ho sempre pen- sato che parlarne mi avrebbe aiu- tato a liberarmene. Ed è stato così, benché non del tutto: il vuoto che l’esperienza del campo di ster- minio ha scavato dentro la mia persona, quello resta, resterà sempre». Ma il silenzio di molti super- stiti nasceva anche da un timore preciso, quello di non essere creduti. Non vi crederanno, av- vertivano le Ss del campo. E la pur vaga possibilità che avesse- ro ragione bastò a chiudere la bocca a molti che pure avrebbe- ro parlato. Lei, Nedo, non ha mai temuto di non essere creduto? «Non l’ho temuto, l’ho dato per scontato. Ho conosciuto cose talmente spaven- tose, che ho sempre messo in conto che qualcuno potesse non credere al nostro racconto, potesse non capirlo». ‘Il tempo macina tutto’ Ed è probabilmente questa la chiave della memoria resa pub- blica: l’affidarsi a una voce e fi- darsi di quanto quella voce rac- conta. Ed è la sua vulnerabilità: credute o no le voci si esaurisco- no. I documenti, si dice, restano, e fondano la storia di un evento. La storia,la scienza storica, può essere un argine all’oblio? «Sto- ria e memoria – corregge Nedo – hanno marciato insieme, anche alimentandosi a vicenda. Ma vede, il tempo macina tutto». E allora perché una “Giornata della memoria”? Non rischia di essere un monumento e perciò di conoscere la sorte dei monu- menti: appena inaugurati servo- no a ricordare, poi a scattare fo- tografie ai loro piedi, infine a es- sere vilipesi? «Sono certo che avverrà così. È la forza del tempo: travolge tutto. Non c’è cosa che sia rimasta in- toccata dal tempo. C’è una lettera- tura dedicata alla Shoah, c’è sta- ta una cinematografia, si fa tea- tro. Malgrado ciò, so che tutto può andare perso». “Può”, non “deve”. Quando, tornato a Firenze con indosso la giubba di Haftling, Nedo trovò il coraggio di salire nella casa di famiglia, la trovò svuotata di tutto. V’era rimasta solo una scarpa, marrone, di suo fratello. Una matricola al posto del nome M. ALBONICO Rirì e Nedo S. SLAVAZZA La memoria di Nedo 260113_02_Speciale 28.01.13 14:57 Pagina 1

Transcript of La memoria di Nedo - editricemonti.it fiano.pdf · vare mia nonna, stravolta da un viaggio...

L’intervistasabato 26 gennaio 2013 laRegioneTicino 2SpecialeLa giornatadella memoria

di Erminio Ferrari

L’oblio, il passare del tempo ‘che tutto macina’insidiano il ricordo e la conoscenza della Shoahe quindi di tutti i crimini successiviIncontro con Nedo Fiano, sopravvissutoal campo di sterminio di Auschwitz

Milano – Nedo Fiano fu arre-stato il 6 febbraio 1944 in via Ca-vour a Firenze. Una pistola pun-tata alla schiena e l’avvertimen-to di non tentare di fuggire.

Quando fu in cella, uno dei de-tenuti gli chiese per quale reatoera stato messo dentro. «Nessu-no, risposi, è che sono ebreo». Equello gli disse: «Ma lo sai che voivi ammazzano tutti?».

No, Nedo non lo sapeva. Nonriusciva neppure a immaginar-lo. «Da bambino ero stato un ba-lilla, figuriamoci, e mi divertivoun mondo con tutte quelle mes-sinscene». Poi, sì, c’erano state leleggi razziali («passavo davantia una biblioteca nella quale avreisempre voluto entrare, finché ungiorno lessi sulla porta: vietatol’ingresso agli ebrei») ma che illoro esito estremo sarebbe statoAuschwitz, quello no, non riusci-va a concepirlo.

Ma quando si trattò di fuggireda casa «trovammo molte portechiuse. Anche i conoscenti ci re-spingevano. Sapete, dicevano, ab-biamo i ragazzi, e se viene la poli-zia... Finché mio padre trovò unuomo che ci aprì la casa, ringra-ziando dio per poterlo fare. Veni-te, disse, questa è casa vostra».

Non bastò. Ad Auschwitz,Nedo arrivò (transitato per ilcampo italiano di Fossoli) il 23maggio, per essere privato delnome, al cui posto gli furono ta-tuati una lettera e un numero A5405.

La giubba da Haftling, comevenivano denominati i detenuti,ce l’ha ancora, appesa nello stu-dio della sua casa milanese, tra-boccante di libri. La maggiorparte dei quali dedicati alla Sho-ah. Lui stesso è autore di tre vo-lumi (Il coraggio di vivere, Ilpassato ritorna, Berlino-Au-schwitz... Berlino; tutti con l’edi-tore Monti di Saronno) e peranni è stato una voce instanca-bile della memoria: nelle scuole(sarà di nuovo in Ticino, il 7 feb-braio prossimo) nelle istituzio-ni, nei mezzi di informazione.

E anche oggi che i ricordi si af-fastellano nel disordine del tem-po che se ne va, la sua faticosa te-stimonianza dà ancora conto diciò che sta sul crinale tra l’indi-cibile e quanto del male può es-sere invece conosciuto e detto.

Se Primo Levi arrivò a soste-nere che veri testimoni dell’abis-so furono solo coloro che non nefecero ritorno, i sommersi, ancheNedo riconosce che le molte pa-gine pur fondamentali, memora-bili, scritte su quell’evento nonriusciranno mai a tradurre«l’angoscia profonda, la pauraradicale, l’annullamento del pri-gioniero nel campo di sterminio».

Perché questa era la condizio-ne: «Il campo era pervaso dal ter-rore. Una condizione nella qualele stesse persone potevano esseretrasformate in ladri, vili, tradito-ri. Posso dire che nel campo c’era-no qua e là degli atti di solidarie-tà, ma pochi. Non parlerei di attid’eroismo. Ripeto, prevaleva lapaura. Una traumatizzata indif-ferenza per la situazione altrui epoi per la propria, anticameradella fine. E sulla solidarietà bi-sogna intendersi: c’era chi solida-rizzava mettendo a rischio la pro-pria vita, chi spendendo un aiutominimo, ma non si andava oltre.

Dal risveglio, alle 4.30 del mat-tino, in poi c’erano pochi ritaglidi tempo per parlare o provare adaiutare un compagno, ma moltorari. Le violazioni della consegnadel silenzio sarebbero state puni-te. Il forno era sempre acceso».

E la lotta muta, sorda, per so-pravvivere non concedeva spaziall’altruismo, se non a prezzo al-tissimo e talvolta definitivo. Delresto, la condizione degli Häf-tlinge era quella di esseri alla to-tale mercé dei carcerieri, o delcaso. Il capriccio di una Ss, uncontingente da avviare alla ca-

mera a gas ancora incompleto,un inconsapevole appuntamen-to con il destino potevano signifi-care la vita o la morte.

«E in ogni caso [e di nuovo tor-na la corrispondenza con la vocedi Levi], per avere qualche possi-bilità di sopravvivere, bisognavaessere assegnati ad un lavoro inqualche misura privilegiato». Sedi privilegio si può parlare perquello che toccò a Nedo.

‘Vidi arrivare mia nonnae svenni’

«Eravamo da poco arrivati adAuschwitz, quando, allineati inuna baracca, ci fu chiesto da unufficiale Ss chi sapeva parlare te-desco. Alcuni si fecero avanti, mafurono respinti. Poi toccò a me.Conoscevo quella lingua, avendo-la appresa dal mio amatissimononno. L’ufficiale mi chiese dadove venivo; e io, in ottimo tede-sco, risposi: da Firenze. Caro ami-co, disse quello, è la città più bellache conosca: arte, belle donne».

E a Nedo, divenuto interprete,venne affidato un posto “privile-giato” nell’Aufräumenskom-mando, quella cenciosa squadradi detenuti incaricati di “acco-gliere” i deportati scaricati sullaRampa dai treni piombati in ar-rivo da tutta Europa.

«Il nostro kommando era com-posto da una ventina di persone.Eravamo tutti stravolti nel vede-re in quale stato arrivavano sullaRampa vecchi, malati, bambini,immediatamente avviati alle ca-mere a gas, senza assolutamente

potere far niente. Non potevamoparlare: le Ss correvano da unaparte all’altra del convoglio, con iloro cani al guinzaglio.

Ricordo bene quando vidi arri-vare mia nonna, stravolta da unviaggio spaventoso, incredula,ignara di dove si trovava e per-ché. Vedendola mi sono precipita-to verso di lei, ma poi sono svenu-to, e i miei compagni mi hannonascosto in qualche modo. Ho ri-schiato di finire con lei nel forno».

A lungo, Nedo ha portato in séla lacerazione di quella situazio-ne. Un sentimento velenoso dicolpevolezza, per essere statoimpiegato, obbligato, nel funzio-namento del meccanismo disterminio. Infamia nell’infamia:fare della vittima un “colpevo-le”, o far sì che tale si sentisse.

Questo il “privilegio” toccatoa Nedo, leggere negli occhi diquelle persone lo sgomento, lasorpresa più dolora, l’intuizioneanimale, forse, della morte vici-na. E non poter rispondere senon con il silenzio e la coscienzache la loro sarebbe stata prestola propria.

«Volevano sapere dove eranoarrivati, che cosa gli avrebberofatto, sfiniti e impauriti dopo unviaggio infernale. Non potevamorispondere se non a monosillabi.Non potevano allacciare un di-scorso, ma qualcosa scappava.Nessuno di noi, tuttavia, aveva ilcoraggio di dire: qui ammazzanola gente. Cercavamo di tranquil-lizzarli. Come si può dire a unapersona: verrete gasati e bruciatinell’arco di 24 ore?

Un giorno giunse un convogliodal quale scese il segretario dellacomunità ebraica di Firenze Bru-no Coen. Mi riconobbe e mi chiese:Nedo, che cosa ci fanno ora? Io glirisposi: andrete alla doccia. E in-vece andavano a morire. Macome potevo dirgli la verità? Avràvissuto forse altre quattro oredopo quel rapido dialogo, e speroche perlomeno in quelle poche orenon sia stato travolto dall’ango-scia. Non fu un atto di eroismo,ma di solidarietà in un quadro diviolenza, paura, morte. Ancoraoggi non so se accusarmi perquella bugia o assolvermi».

L’unico sentimentoera il terrore

Categorie che rimandano acolpa e innocenza, a bene e male,a Dio o nulla. Nedo, lei era cre-dente, allora? C’era spazio peruna qualsivoglia fede nel cam-po?

«Il solo sentimento era il terro-re, la sola speranza era quella disalvarsi. Eravamo tutti terroriz-zati. C’era posto per il male e mol-to poco per il bene.

Vorrei poter dire che c’era an-che spazio per la fiducia nell’aiu-to di dio; ma nella realtà era av-venuta una demolizione totaleanche dei sentimenti religiosi,delle manifestazioni di umanità.La paura se li era portati via».

Sopravvivere, dice soventeNedo. Nel campo, certo, ma“dopo”? Sopravvivere a quelpassaggio estremo si è rivelatoimpossibile anche per figure chepure erano riuscite a rielaborareanche attraverso la scritturaun’esperienza tanto radicale.Capaci di riflessioni universali,guide per l’umanità succedutaalla Shoah, a distanza di annidall’uscita dal campo di stermi-nio si sono uccisi Primo Levi,Jean Amery, le cui opere sonopatrimonio del nostro tempo edel prossimo. «Li ha uccisi – ri-flette Nedo – il veleno che si è in-trodotto in noi e che in qualcunoha continuato ad agire troppo alungo. Qualcun altro si è salva-to». Sommersi e salvati, anche“dopo”.

Perché per tutti il “ritorno” èstato una prova durissima. «Iosono stato fortunato – si com-muove Nedo. – Ero il solo soprav-vissuto della mia famiglia, ma

riuscii a trovare un’ancora di sal-vezza nell’amore della ragazzache sarebbe diventata mia moglieRirì».

“Prima”, tuttavia c’era statoun episodio che per Nedo non èfacile raccontare. Avvicinadrammaticamente, pericolosa-mente le figure della vittima edel carnefice. Rende ambigua-mente incerto discernere tracolpa individuale e colpa collet-tiva. Germaine Tillon, nel suofondamentale Ravensbrück qua-si si rimproverava di aver pensa-to ai “tedeschi” come popolo col-pevole (“di aver fatto delle distin-zioni: ‘loro’ hanno fatto questo,‘noi’ non lo faremmo”). E ancheNedo riconosce che sì, talvolta siritrova a pensare in quei terminiai “tedeschi”, e se ne dispiace.Ma la storia è un’altra: quando ilcampo di Auschwitz fu smantel-lato, i prigionieri (quelli che ce lafecero) vennero trasferiti nel la-ger di Buchenwald, e fu lì cheNedo venne liberato dagli ame-ricani. «Ero ridotto malissimo emi misero in una specie di ambu-latorio (per la prima volta ritro-vavo delle lenzuola sotto di me)affidato alle cure di un ufficialemedico tedesco della Wehrmacht,prigioniero a sua volta degliamericani. Quell’uomo seppe dame che ero reduce da Auschwitz,mi curò con una dedizione incre-dibile. Poteva sembrare affetto.Mi faceva bene, nonostante fossetedesco. Non so se era in buonafede o stava soltanto cercando disalvarsi. Ma di sicuro si sentivain colpa nei miei confronti. Nonsapevo che cosa pensare, maquando lo trasferirono ci abbrac-ciammo, ricordo bene i suoi ca-pelli bianchi e il desiderio chesempre mi è rimasto di poterlo in-contrare un giorno».

E non è che la ricostruzione diuna persona sia una cosa sem-plice come a raccontarla. Alcontrario: moltissimi sopravvis-suti scelsero (o non furono capa-ci di uscirne) il silenzio, per nonvenire ogni volta scagliati alfondo del pozzo. Molti atteserodecenni prima di “ricordare” inpubblico, tanta era la paura dirivivere ciò che avrebbero rac-contato.

Nedo no. «Al contrario, ho do-vuto raccontare, parlare da subi-to. Faceva paura a me stesso ciòche avevo dentro. Ho sempre pen-

sato che parlarne mi avrebbe aiu-tato a liberarmene. Ed è statocosì, benché non del tutto: il vuotoche l’esperienza del campo di ster-minio ha scavato dentro la miapersona, quello resta, resteràsempre».

Ma il silenzio di molti super-stiti nasceva anche da un timorepreciso, quello di non esserecreduti. Non vi crederanno, av-vertivano le Ss del campo. E lapur vaga possibilità che avesse-ro ragione bastò a chiudere labocca a molti che pure avrebbe-ro parlato.

Lei, Nedo, non ha mai temutodi non essere creduto? «Non l’hotemuto, l’ho dato per scontato. Hoconosciuto cose talmente spaven-tose, che ho sempre messo in contoche qualcuno potesse non credereal nostro racconto, potesse noncapirlo».

‘Il tempomacina tutto’

Ed è probabilmente questa lachiave della memoria resa pub-blica: l’affidarsi a una voce e fi-darsi di quanto quella voce rac-conta. Ed è la sua vulnerabilità:credute o no le voci si esaurisco-no. I documenti, si dice, restano,e fondano la storia di un evento.La storia,la scienza storica, puòessere un argine all’oblio? «Sto-ria e memoria – corregge Nedo –hanno marciato insieme, anchealimentandosi a vicenda. Mavede, il tempo macina tutto».

E allora perché una “Giornatadella memoria”? Non rischia diessere un monumento e perciòdi conoscere la sorte dei monu-menti: appena inaugurati servo-no a ricordare, poi a scattare fo-tografie ai loro piedi, infine a es-sere vilipesi?

«Sono certo che avverrà così. Èla forza del tempo: travolge tutto.Non c’è cosa che sia rimasta in-toccata dal tempo. C’è una lettera-tura dedicata alla Shoah, c’è sta-ta una cinematografia, si fa tea-tro. Malgrado ciò, so che tutto puòandare perso».

“Può”, non “deve”.Quando, tornato a Firenze con

indosso la giubba di Haftling,Nedo trovò il coraggio di salirenella casa di famiglia, la trovòsvuotata di tutto. V’era rimastasolo una scarpa, marrone, di suofratello.

Una matricola al posto del nome

M. A

LBON

ICO

Rirì e Nedo

S. S

LAVA

ZZA

La memoriadi Nedo

260113_02_Speciale 28.01.13 14:57 Pagina 1