La maledizione della parola

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La maledizione della paroladi Fritz Mauthner

Centro Internazionale Studi di Estetica

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Il Centro Internazionale Studi di Esteticaè un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il perio-dico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint©

Supplementaè la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti-ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint©. Viene inviata agli stu-diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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22Settembre 2008

Centro Internazionale Studi di Estetica

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Fritz Mauthner, 1849-1923

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Fritz Mauthner

La maledizione della parolaTesti di critica del linguaggio

a cura di Luisa Bertolini

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Il presente volume viene pubblicato col contributo del Miur (prin 2006, respon-sabile scientifico prof. Gianna Gigliotti) – Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di Ricerche Filosofiche.

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Indice

Presentazione: Fritz Mauthner e la maledizione della paroladi Luisa Bertolini

1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner 72. Il linguaggio come metafora 133. Metafora e rappresentazione 234. La teoria della metafora 34Bibliografia 59

La maledizione della parola: Testi di critica del linguaggiodi Fritz Mauthner

Critica del linguaggioPrefazione 77Introduzione 78L’essenza del linguaggio 79Linguaggio e socialismo 90La superstizione della parola 93Pensare e parlare 96Anima e sensi 100L’arte della parola 102La metafora 104

Dizionario di FilosofiaSignificato (Bedeutung) 117Coscienza (Bewusstsein) 120Cosa (Ding) 121Unità (Einheit) 123Conoscere (Erkennen) 129Umorismo (Humor) 132Ridere (Lachen) 140Bello (Schön) 140Verità (Wahrheit) 148Mondo aggettivo 152Mondo sostantivo 154Mondo verbale 155

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Le tre immagini del mondoLe tre nuove categorie 161Dappertutto tre mondi. L’attore 166Epilogo 166

Indice dei nomi 169

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PresentazioneFritz Mauthner e la maledizione della paroladi Luisa Bertolini

1. Linguaggio e metafora in Fritz Mauthner

«Mauthner è del tutto Mauthner, vorrei dire è più di quanto lo sia. È un uomo intelligente e pieno di spirito, ma c’è una stoffa di seta che credo si chiami cangiante. Si presenta molto bene, ma non si sa se sia verde, rossa oppure marrone; Mauthner evoca sempre qualcosa, quando però si vuol dire: “mi permetta”, è già andato via – Mauthner è l’ospite più splendido, ma insieme anche il cameriere più ordinario, quello che ti porta via il piatto proprio quando stai per cominciare». Così lo scrittore berlinese Theodor Fontane ci presenta Fritz Mauthner, cogliendo in pochi tratti il carattere dell’uomo e del pensatore 1: il con-tributo di questo filosofo – per lunghi anni dimenticato e in Italia poco conosciuto 2 – si può riassumere infatti nel lavoro critico contro ogni ovvietà e pregiudizio filosofico e nell’individuazione dell’analisi del lin-guaggio come terreno fondamentale per questa operazione. L’approdo è una posizione radicalmente scettica e nominalistica che sembra esaurirsi nell’osservazione arguta e brillante che svuota ogni cosa di senso e lascia il lettore a mani vuote. Da una più attenta considerazione del percorso intellettuale di questo autore emergono però alcuni nuclei tematici che rivelano maturità teoretica e ritornano nella filosofia contemporanea, mostrando una sua fortuna, per così dire, sotterranea.

Mauthner indica come compito di tutta la sua produzione intellet-tuale la critica del linguaggio e nella ricostruzione posteriore delle sue Erinnerungen 3 afferma di esservi stato in un certo modo predestinato in quanto ebreo nato in una provincia slava dell’Impero austro-unga-rico, dove il tedesco era la lingua degli impiegati, della formazione, della poesia e dei parenti; il ceco la lingua dei contadini e delle donne di servizio, ma anche la lingua storica del regno di Boemia; l’ebraico, la lingua sacra dell’Antico testamento, divenuta il Mauscheldeutsch dei rigattieri ebrei, ma anche talora degli eleganti uomini di commercio 4. In un altro passo lo scrittore attribuisce però il fallimento della scrit-tura poetica proprio a questo, al cattivo tedesco di Praga, il «tedesco cartaceo» 5, troppo artificiale, imposto dal padre, oppure il cosiddetto Kleinseitner Deutsch, il tedesco con influenze austriache, parlato nel suo quartiere, oppure ancora il misto di tedesco e ceco, definito con

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spregio Kuchelbömisch, il ceco della servitù; di qui il rancore, che dure-rà per tutta la vita, per l’assenza di una lingua madre e di un dialetto, mescolato al risentimento per la mancanza di un’educazione religio-sa 6. Orgoglio e rancore insieme caratterizzano del resto tutte le svolte principali della sua vita intellettuale: l’abbandono degli studi per la poesia, la scelta della carriera giornalistica a Berlino, la svolta filosofica e il primo allontanamento dalla città nel quartiere di Grünewald, la fuga da Berlino e gli studi filosofici e scientifici a Freiburg e, infine, la scelta dell’isolamento a Meersburg, sul lago di Costanza.

Mauthner era nato il 22 novembre del 1849 a Horschitz (Horice), una piccola cittadina della Boemia orientale, vicino a Königgrätz e Sadowa, come egli ricorda con una punta di orgoglio nazionalistico te-desco 7, da padre ebreo «non religioso» e da madre «antireligiosa», in una famiglia borghese completamente assimilata che pochi anni dopo, nel 1855, si era trasferita a Praga per dare ai figli un’istruzione adegua-ta. Lo scrittore ricostruisce con astio il periodo della sua formazione e del suo insuccesso scolastico: dalla scuola privata elementare ebraica, la Klippschule (scuola dell’abbiccì), al Piaristengymnasium, scuola cat-tolica, dove metà degli studenti erano ebrei e non mancava qualche protestante, e infine nel Kleinseitner Gymnasium 8, liceo di lingua te-desca. Alle lamentele contro l’astrattezza e la meccanicità degli studi si accompagna l’insofferenza per la preparazione superficiale in tutte e tre le lingue della sua formazione, il tedesco, il ceco e l’ebraico. Il 1866 segna una svolta politica: la vittoria prussiana nella guerra contro l’Au-stria con la battaglia di Sadowa e l’occupazione di Praga provocano nel giovane Mauthner il passaggio da un coscienza genericamente austriaca («non eravamo per la grande Germania» 9; «noi austriaci dovevamo ri-manere i signori della Germania (credevamo di esserlo), per poter poi, in casa, farla finita con i cechi» 10) a un nazionalismo grande-tedesco con tratti talora fanatici e deciso odio anticeco 11. L’acutizzarsi del con-flitto etnico, la progressiva diminuzione della componente tedesca nella Praga della seconda metà dell’Ottocento 12, la rovina finanziaria del padre che muore nel 1874, costituiscono lo sfondo del periodo degli studi universitari in giurisprudenza e del loro abbandono, anche in se-guito a un attacco di emottisi, a favore della poesia. Queste premesse, a cui si aggiunge lo scarso successo letterario, rendono comprensibile la scelta, nel 1876, del trasferimento a Berlino.

Mauthner sceglie Berlino e non Vienna, la città più veloce del mon-do contro la capitale della lentezza: Berlino «la sola capitale tedesca del futuro» 13, centro oltre che della politica e dell’economia, della scienza e della cultura, del giornalismo, delle riviste culturali, della produzio-ne libraria e della critica teatrale. Qui si rivolge a Arthur Levysohn, direttore di uno dei giornali più importanti della città, il “Berliner Ta-geblatt” dell’editore Rudolf Mosse 14. Non trova immediatamente una collocazione fissa, ma dalla metà del 1877 collabora regolarmente per

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sette anni al settimanale “Deutsches Montags-Blatt”, dello stesso edi-tore, come scrittore satirico e critico teatrale. La fama improvvisa gli deriva dalle parodie pubblicate su questo giornale a partire dall’inizio di giugno del 1878, raccolte l’anno dopo in un libro con il titolo Nach berühmte Muster 15, al quale fanno seguito anche alcuni romanzi.

Nell’ambiente culturale berlinese questo signore altissimo e magro, con naso adunco e una lunga barba che lo fa assomigliare a un anti-co profeta 16, sembra a suo agio. La sua figura di intellettuale ebreo assimilato 17 si colloca al centro della vita culturale della capitale 18. Molto ampio è anche lo spettro delle sue conoscenze personali: com-prende nomi come Lou Andreas-Salomé, Else Lasker-Schüler, Oskar Maria Graf, Richard Beer-Hofman, Kurt Hiller, Hermann Hesse, Erich Mühsam, Theodor Fontane, Maximilian Harden, Gerhard Hauptmann, Theodor Mommsen, Walter Rathenau e Franz Oppenheimer 19. Anche sul piano personale questo momento appare sereno, segnato dal matri-monio con Jenny Ehrenberg e dalla nascita dell’unica figlia Grete.

Mauthner non è però soddisfatto di un successo che gli pare troppo effimero e mondano, si lamenta di aver speso tanti anni in un lavoro maledetto e di esserne a ragione stanco. Ma già dal 1891 egli aveva iniziato, la notte, quasi in segreto, un nuovo e imponente lavoro filo-sofico di analisi e di critica del linguaggio. Le radici psicologiche di questa scelta risalgono ancora più indietro (un primo abbozzo, gettato nel fuoco, nel 1873, poi la ripresa segreta del tema e ventisette anni di preparazione, come ci dice Mauthner nella prefazione); decisivo sembra però l’incontro con il giovane scrittore anarchico Gustav Landauer. Nonostante la diversità del carattere e delle opinioni politiche, per molti versi contrapposte 20, Landauer è di stimolo e di concreto aiuto nella stesura dell’opera, soprattutto dopo la morte della moglie di Mauthner nel gennaio del 1896 e l’insorgere di una grave malattia agli occhi. I tre grossi volumi dei Beiträge zu einer Kritik der Sprache verranno pubbli-cati tra il 1901 e il 1902 dall’editore Cotta e ottengono una risonanza maggiore di quanto l’autore lamenti 21, non paragonabile però al suo successo come scrittore satirico.

Per altri versi la critica del linguaggio ha origine proprio nell’attività giornalistica, nell’atto di mimesi dello scrittore di parodie che si na-sconde dietro la maschera del linguaggio altrui, per forzarne i momenti più deboli e rivelarne il pregiudizio; nasce dall’avventarsi contro il lin-guaggio che egli usa quotidianamente con successo, dal voler scavare da autodidatta nella cultura filosofica e scientifica del suo tempo alla ricerca della superstizione della parola, oscillando, come rivela nella prefazione, tra momenti di presunzione e momenti di abbattimento e mortificazione 22.

Il primo volume dei Beiträge prende avvio dall’impossibilità di defi-nire l’essenza del linguaggio che immediatamente si declina nelle diver-se lingue, nei dialetti, nelle lingue particolari, nelle lingue individuali,

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spesso diverse nelle diverse fasi della vita, presente solo nel suono pronunciato che svanisce nell’attimo. Alla mancanza di una definizione analitica suppliscono allora le metafore che si accumulano una sull’altra e che si esauriscono nell’affermazione pragmatica che il linguaggio non è altro che l’uso del linguaggio. Con la metafora eraclitea che raffigura l’incessante mutamento del significato delle parole nell’immagine delle gocce d’acqua della corrente di un fiume Mauthner inizia la disso-luzione di qualsiasi fondamento che assicuri al mondo e al soggetto conoscente una qualsiasi continuità e solidità. Come per il seguace di Eraclito del Teeteto platonico le sostanze si sgretolano nel mutamento e le qualità si presentano solo negli attributi sensibili, nella consapevo-lezza che il compito critico esigerebbe, come pretendeva Socrate 23, un nuovo linguaggio e che il linguaggio a nostra disposizione è appunto il nostro linguaggio.

Il problema diventa ancor più evidente per il linguaggio della psi-cologia cui Mauthner addebita di aver prodotto la duplicazione del mondo in interno ed esterno, linguaggio e pensiero, memoria e co-scienza, e di aver applicato al mondo interno il linguaggio del mondo esterno. Mauthner vi trova tuttavia alcune indicazioni importanti che si concludono nella teoria, se così si può chiamare, dei Zufallssinne, in gran parte ripresa dalla concezione di Ernst Mach, con qualche suggestione ricavata da Schopenhauer e Nietzsche. La tesi consiste nell’affermazione che i nostri organi di senso, costituitisi nel corso di una evoluzione biologica che ha seguito vie traverse e casuali in una storia senza leggi, sono simili a filtri che lasciano passare solo una minima parte delle caratteristiche delle cose, che sono quindi inadat-ti a cogliere l’infinita complessità del reale e sufficienti soltanto allo scopo di orientarsi nel mondo, di sopravvivere e di comunicare. Le rappresentazioni, le immagini che ci facciamo delle cose, si modificano continuamente come in un caleidoscopio e il concetto contenuto nella parola, cerniera provvisoria per un complesso di sensazioni, sorge dalla stratificazione di rappresentazioni simili, ma non identiche, che scivola-no l’una sull’altra senza potersi mai sovrapporre in modo esatto. Mau-thner è però consapevole della provvisorietà di una simile definizione, sa che in questa enunciazione vi sono aspetti metaforici, immagini che inducono all’inganno, come il concetto di immagine, appunto.

Nella disamina delle teorie del linguaggio contemporanee, contenu-ta nel secondo e nel terzo volume, Mauthner accoglie sostanzialmen-te la teoria dei neogrammatici e in particolare di Hermann Paul che aveva accentuato la dissoluzione dell’apriori di una lingua presupposta come unitaria nella comunità dei parlanti che raccontano storie comu-ni. Nonostante alcune critiche che rimangono alla superficie, Mauthner condivide con Paul l’impostazione della ricerca delle condizioni di possibilità dell’accordo linguistico, l’accento posto sull’uso individuale della lingua, sulla discrepanza tra l’utilizzazione della parola da parte

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dell’individuo e quella sancita dall’uso, l’affermazione dell’impossibi-lità di comunicare il contenuto rappresentativo mediante la parola, il ricoscimento del carattere polisemico del linguaggio e dell’inevitabilità del malinteso. La classificazione dei mutamenti linguistici costituisce poi la premessa della teoria della parola come metafora che Mauthner elabora aggiungendovi altre suggestioni provenienti dalla filosofia del linguaggio e dall’estetica.

La pubblicazione dei Beiträge avviene in un periodo della vita di Mauthner di difficoltà e di depressione; nell’ottobre del 1905 si trasfe-risce a Freiburg con l’intenzione di dedicarsi agli studi, lontano dai ru-mori della grande città e dall’attività giornalistica. «A dicembre – scrive Kühn – segue il cane» 24, e nelle lettere agli amici Mauthner riferisce di lunghe passeggiate con il cane nella solitudine e nel dubbio di non riuscire più a vivere. Riprende però lentamente gli studi, frequenta l’università seguendo corsi di matematica e di discipline scientifiche, conosce Hans Vaihinger e per suo tramite entra nella società kantiana, incontra Martin Buber, per il quale scrive la breve monografia divulga-tiva Die Sprache. Ma la novità principale è la frequentazione di Hedwig Straub, scrittrice ebrea e tedesca 25, che aveva studiato filosofia a Zurigo con Avenarius, il teorico relativista dell’esperienza pura 26, e medicina a Parigi e che aveva poi lavorato come medico per dieci anni tra i bedui-ni nel deserto del Sahara. Con l’aiuto della Straub, che diverrà la sua seconda moglie, Mauthner affronta un lavoro nuovo e impegnativo, la stesura di un dizionario dei principali termini filosofici.

Das Wörterbuch der Philosophie, questo Mauthner voleva come ti-tolo, non per vanità, scrive nell’introduzione, ma perché con l’articolo determinativo egli non intendeva il dizionario come unico o migliore, ma il dizionario dei termini che la filosofia ha usato, il dizionario della nostra filosofia. La filosofia, a sua volta, è teoria del conoscere e la teoria del conoscere è critica del linguaggio, rassegnazione scettica di fronte all’impossibilità di conoscere il mondo, che non vuole presentar-si come pura negazione, ma come il nostro miglior sapere. Nel circolo di memoria, pensiero e linguaggio – termini che si sovrappongono e spesso vengono identificati – le parole sono soltanto «i segni per ri-cordare o i nomi per le esperienze senza nome, numerose, troppe per essere senza parole e senza nome» 27. Nel corso di una storia priva di leggi e di direzione le parole migrano assieme agli uomini e alle cose che essi portano con sé e con esse migrano anche i concetti astratti. Egli sceglie allora poco più di duecento parole della filosofia, delle quali non ricostruisce l’etimo alla ricerca di un significato originario, ma ne segue le migrazioni (Wortwanderungen) attraverso le deriva-zioni, i prestiti (Entlehnungen) e i calchi (Lehnübersetzungen). Non quindi un catalogo del mondo, ma un insieme di piccole monografie dei concetti astratti, di concetti morti e di concetti apparenti (Schein-begriffe), ai quali nulla corrisponde nella nostra esperienza. Mauthner li

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chiama concetti «sostantivi», ipostatizzazioni arbitrarie del linguaggio, capaci tuttavia di dare vita a rappresentazioni che diventano motivo dell’agire, pregiudizi in grado di provocare una guerra di religione o la caccia alle streghe. La decostruzione critica assume così anche una dimensione pratica nella consapevolezza della potenza psicologica di tali concetti, delle loro radici nell’essenza stessa del linguaggio: «i con-cetti della filosofia – dato che la filosofia inizia là dove finisce il sapere dell’esperienza – rimangono sospesi nelle più alte regioni tra il pericolo dell’apparenza e il pericolo dell’antica mistica» 28.

La critica del linguaggio della filosofia si esprime già nell’imposta-zione enciclopedica che rifiuta l’ordinamento gerarchico per sostituirlo con il «criterio infantile» dell’ordine alfabetico 29, prende di mira le pa-role più usate, trasforma la domanda sull’essenza nell’indagine sull’uso del nome. Ne risulta una disamina dei problemi più importanti della storia del pensiero che rivela conoscenze amplissime, ma anche conclu-sioni affrettate e soggettive. In ogni caso la materia è più ordinata, le conoscenze scientifiche si sono ampliate anche alle discipline matema-tiche e fisiche, il tono – a parte qualche caso anche clamoroso 30 – più pacato. A questo non è certo estranea la presenza della Straub con la sua personalità delicata e tenace, con le sue conoscenze linguistiche e scientifiche.

Con Hedwig, che sposerà l’anno seguente, si trasferisce nel 1909 a Meersburg sul lago di Costanza in una casa di vetro, la Glaserhäusle, dove trascorre gli ultimi anni dedicandosi a un componimento poetico sulla figura del Buddha, alla mistica e ai quattro volumi dell’opera Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande, pubblicata nel 1920. Anche questo lavoro è concepito come critica del linguaggio e parte dalla disamina dei concetti di Dio, eresia, superstizione, ateismo e di altri termini legati alla storia delle religioni, in particolare della religio-ne cristiana. La ricostruzione della «liberazione dal concetto di Dio» 31 prende in considerazione allora anche le critiche filosofiche, le soluzioni eretiche, le lotte contro il potere della Chiesa. La scepsi conoscitiva e linguistica impedisce una soluzione materialistica e trasforma l’ateismo in una mistica senza Dio, nella quale non vi è nome per un Dio, come non vi sono nomi adeguati per le cose del mondo 32. Ma l’idillio del “Buddha di Meersburg” era già stato avvelenato da alcune polemiche politiche e religiose, ma soprattutto dallo scontro con Landauer per gli articoli nazionalistici che Mauthner aveva scritto all’inizio della guerra mondiale e per il suo giudizio negativo sulla partecipazione dell’amico alla Repubblica dei consigli di Monaco, nella repressione della quale Landauer aveva trovato la morte, assassinato in prigione.

Nel suo ultimo anno di vita Mauthner riassume le sue tesi filosofi-che nello scritto Die drei Bilder der Welt, interrotto dalla morte, il 29 giugno del 1923.

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2. Il linguaggio come metafora

La filosofia di Mauthner non ha propriamente un inizio, e non vor-rebbe averlo, eppure la sua critica del linguaggio prende avvio proprio nel modo più classico, con la citazione dal Vangelo di Giovanni: «in principio era la parola» 33. Con la parola – continua però – gli uomini sono al principio del conoscere e rimangono fermi se restano presso la parola; chi voglia procedere oltre, deve liberarsi dalla parola e dalla su-perstizione della parola, riscattare il mondo dalla tirannia del linguag-gio 34. Sembra un punto di partenza, ma l’autore ci avverte subito che l’espressione «in principio» muta il suo senso appena procediamo oltre nel pronunciare le cinque parole della proposizione «in principio era la parola». Subito dopo, la metafora della scala accresce il disagio del lettore disorientato. I suoi gradini ci incatenano al linguaggio dell’at-timo, di quel determinato gradino che abbiamo toccato anche solo di sfuggita e solo con le punte dei piedi, anche se ci siamo costruiti da noi i gradini per quell’attimo. Del resto non troviamo la scala, perché Mauthner – come farà Wittgenstein – l’ha distrutta: «devo annientare il linguaggio passo dopo passo dietro di me e davanti a me e dentro di me, devo distruggere ogni piolo della scala mentre salgo. Chi vuole seguire, ricostruisca i pioli per poi distruggerli di nuovo» 35.

La circolarità di questo inizio si manifesta nella struttura delle pri-me pagine. In effetti non è questo l’inizio: come ha notato Elisabeth Bredeck, le prime pagine del testo presentano una successione apparen-temente scoordinata di citazioni e annotazioni: prima l’epistola dedica-toria di Descartes dei Principia, a cui seguono, nella seconda edizione, la prefazione con il programma di critica del linguaggio e l’indice, poi le citazioni di Locke, Vico, Hamann, Jacobi e Kleist 36. L’invocazione dello spirito cartesiano si accosta al richiamo all’empirismo e alla tra-dizione asistematica. L’approccio al tema è già decostruzione.

Lo stile della scrittura riflette questa tensione: Mauthner non vuole procedere verso la verità, il linguaggio diventa un mezzo di sperimenta-zione, viene piegato e rotto, alla ricerca di una formulazione libera da norme e pregiudizi 37. È uno stile espressionistico, capace di far sentire davvero la lingua, provocatorio nell’uso compiaciuto degli ossimori 38, scandito dagli scarti e dagli slittamenti improvvisi verso il basso, nella sciatteria ostentata della lingua da mercato. Non sempre il risultato è felice: talora l’autore risolve con arguzia ebraica un intreccio comples-so, altrove si perde in lunghe divagazioni che gli prendono la mano. Rimane l’obiettivo di presentare lo scetticismo linguistico nell’anda-mento stesso della lingua nella quale il significato della parola ripetuta slitta, viene trasposto, diventa ostensione della metafora.

Forse è questa la ragione della sua fortuna tra i letterati e della sfortuna presso i filosofi. Dalle lettere che Mauthner scrive a Hugo von Hofmannsthal, dopo la pubblicazione della Chandos-Brief 39, tra-

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spare l’orgoglio di ritrovare nelle riflessioni del protagonista, lo scrittore classico che si commiata dalla parola, l’eco di molti passaggi della sua critica del linguaggio 40 e l’imbarazzata richiesta di un adeguato rico-noscimento. Nonostante la reticenza del poeta ad ammettere di aver trovato esclusiva ispirazione dalle tesi del filosofo 41 su una problematica d’altronde molto presente nella letteratura austriaca del tempo, sappia-mo che nella sua biblioteca sono presenti il primo e il terzo volume dei Beiträge e che nei fogli del Nachlass Mauthner viene citato più volte 42. Christian Morgenstern, il poeta del grottesco e dell’assurdo, si dichiara invece esplicitamente seguace di Mauthner e attribuisce alla lettura della Kritik der Sprache l’essere venuto in chiaro sull’essenza del linguaggio, giustificazione teorica del suo gioco poetico con la parola 43.

Mauthner è letto anche da Samuel Beckett e James Joyce, quando, tra il 1929 e il ’30 a Parigi, Joyce sta lavorando alla contaminazione linguistica di Finnegans Wake e Beckett cerca nei Beiträge qualcosa che possa servire alla scrittura di Joyce; ne copia su un quaderno – come riferisce a Linda Ben-Zvi – anche un lungo passo sul nominalismo e sulla sua indimostrabilità, sull’inutilità della parola 44. Sempre nell’am-bito della sperimentazione linguistica, ma in un diverso contesto, negli anni sessanta, il viennese Oswald Wiener, nel suo romanzo di decostru-zione, die verbesserung von mitteleuropa, lo cita come provvisorio rife-rimento per una scelta ancor più radicale di rinuncia al linguaggio 45. Infine Jorge Luis Borges afferma di consultare spesso il Wörterbuch der Philosophie di Mauthner e a lui si ispira in alcuni racconti 46.

La diffidenza dell’accademia si conferma invece con il passare degli anni; nonostante l’opinione di Ernst Mach che prevedeva un ricono-scimento, lento ma certo 47, la letteratura critica tarda a prenderlo in considerazione e il suo nome rimane legato alla proposizione 4.0031 del Tractatus logico-philosophicus, nella quale Wittgenstein afferma: «tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. Ma non nel senso di Mauthner». Solo a partire dal saggio di Gershon Weiler del 1958 è iniziato uno stu-dio più attento del suo pensiero; eppure ancora Hans Kühn, il critico che gli dedica il testo analitico più completo, corredato dall’intera bi-bliografia dei suoi scritti, lo intitola Gescheiterte Sprachkritik, il naufra-gio della critica del linguaggio. Gli studi successivi, che prenderemo in considerazione in relazione a problemi specifici, hanno certamente un approccio più cauto, eppure affiora spesso l’idea che Mauthner non sia proprio un filosofo. In un certo senso non lo è, e non ha voluto esserlo. Egli rimane ai margini della tradizione filosofica, scarta problemi, che a noi continuano a parere importanti, con battute di spirito che ci lascia-no stupefatti per la superficialità; in qualche altro passo sembra voler cancellare con un solo gesto di insofferenza l’intero impianto dei temi della Critica della ragion pura e di un secolo successivo di interpretazio-ni. A tutto questo si aggiungono le querimonie sull’accademia che san-no più di risentimento che di consapevolezza. Mauthner propone però

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un cambiamento del punto di vista che richiede un’attenzione inedita alla dimensione empirica del linguaggio. Per questo la sua riduzione della filosofia a critica del linguaggio mantiene una dimensione filosofica e permette di tornare ai temi di prima con uno sguardo diverso: «dopo si ascolta, si pensa, si parla diversamente» 48. Del resto la filosofia non ha mai preteso di fare di più e lo stesso Wittgenstein finirà per fare una critica del linguaggio proprio nel senso di Mauthner 49.

Partiamo allora dall’indicazione di Elisabeth Bredeck che, nel sag-gio sulle metafore del conoscere in Mauthner, suggerisce una lettura, per così dire, non letterale dell’opera: dopo un iniziale approccio ana-litico che cercava nel testo la contraddizione e l’incoerenza, concede una valutazione più indulgente che ci presenta l’unica possibilità di approccio all’opera di Mauthner, la lettura delle sue metafore. Il lavoro della studiosa americana parte dall’analisi della circolarità dell’inizio e finisce con la citazione dantesca dei primi versi del ii canto del Paradi-so che chiude i Beiträge 50: un nuovo gioco sull’inizio e la fine: Dante all’inizio del suo percorso verso la verità garantita da Dio 51, Mauthner davvero alla fine e con il sorriso beffardo di chi dice al lettore che il suo suggerimento a non seguirlo arriva troppo tardi.

La conclusione non è del tutto una sorpresa perché lo stile argo-mentativo di Mauthner procede fin dalle prime pagine nel continuo spostamento del piano del discorso, nella posizione di sempre nuove domande metafisiche che riguardano l’essenza del linguaggio e nello svuotamento delle stesse domande. Così nella prefazione alla seconda edizione dei Beiträge Mauthner definisce come obiettivo principale del suo lavoro filosofico l’indagine sull’«essenza del linguaggio», ma sug-gerisce immediatamente l’impossibilità di una definizione: il linguaggio è un termine generale, astratto, inafferrabile, perché è costituito dalla «massa enorme di tutti i suoni umani [...] detti o scritti dagli uomini per comprendersi in un qualche luogo della terra» 52 e, nello stesso tempo, si presenta soltanto nella singola parola, nel singolo suono che svanisce appena lo si è pronunciato; il linguaggio – concluderà poco più avanti – propriamente non esiste, preso in sé è una «non-cosa senza essenza (ein wesenloses Unding)» 53.

Eppure l’intenzione di lavorare sull’essenza del linguaggio non sem-bra un semplice espediente, perché la critica del linguaggio viene defi-nita come un compito inevitabile. Ma se non è possibile un approccio analitico l’unica strada sembra la metafora e la prima metafora che Mauthner usa nei Beiträge per descrivere il linguaggio è eraclitea: la corrente del fiume rende in immagine il carattere instabile dei signi-ficati; il fiume, paragonato alla singola lingua, muta a sua volta il suo corso con l’andare del tempo. Non soddisfatto del fluire dell’acqua, l’autore accenna alla possibilità di paragonare la lingua a una corrente d’aria e al letto di questa corrente. Ma l’immagine del fiume sugge-risce anche l’inutilità – al fine di coglierne l’essenza – dello studio

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geografico-scientifico che ne ricostruisca il percorso o la costituzione fisico-chimica e richiama la mitologia delle divinità fluviali che rego-lano il flusso dell’acqua. La trinità di pensiero, logica e grammatica, alla quale attribuiamo un valore normativo ed esterno al linguaggio, si nasconde piuttosto dentro di esso 54.

L’impossibilità di definire il linguaggio se non mediante metafore, conduce Mauthner alla tesi che il linguaggio è semplicemente e prag-maticamente l’uso del linguaggio. L’uso suggerisce una nuova metafora: il linguaggio è un gioco di società le cui regole diventano più cogenti quanti più giocatori vi partecipano 55, ma anche la bella immagine del linguaggio come città del socialismo realizzato, nelle condutture della quale scorrono luce e veleno, acqua e sporcizia 56. Di qui si moltipli-cano le metafore della maledizione: il linguaggio è l’ostetrica dalle dita sporche che uccidono la partoriente 57, è la sferza con la quale ognuno è guardiano e schiavo dell’altro, è la scimmia addomesticata del circo che si crede un artista, è la diavolessa che ha promesso all’uomo i frutti dell’albero della conoscenza e in cambio gli ha dato un frutto cancero-geno, parole per cose, etichette per bottiglie vuote 58; il linguaggio è il vecchio frac del signore di Gerlach, rammendato fino a non essere più lo stesso 59, è l’aringa immersa nella soluzione salata del pensiero 60, è il veleno prodotto dall’uomo che gli antichi chiamavano antropotoxina 61. L’accumulo di metafore vecchie e nuove modifica il significato di quelle tradizionali e rivela non solo che il linguaggio non è un catalogo del mondo, ma che alla sua essenza appartiene il malinteso, l’incompren-sione, la sinonimia (in senso aristotelico, per cui il bue e l’uomo, in quanto animali, sono sinonimi) e i più gravi malintesi si manifestano nella morale, nella politica, nel diritto, nella cultura, dove «le parole ridono come a casa propria» 62.

Il crescendo delle metafore ha però anche un senso teoretico, vuole condurci alla tesi che la parola in quanto tale è metafora; essa non ha a che vedere né con il mondo esterno, né con quello interno, è carica solo della sua storia, non evoca immagini, ma «immagini di immagini di immagini» in uno sviluppo senza fine di metafora in metafora 63. Questa autoreferenzialità della parola ha senso soltanto nella poesia, dove la maledizione diventa magia e le parole, che conservano la ric-chezza della metafora originaria, hanno peso – scrive Mauthner citando Maeterlink – grazie al silenzio in cui sono immerse 64. Il silenzio di una mistica senza Dio, che si pone con il sentimento di fronte a una realtà inafferrabile al pensiero, è l’altro esito dello scetticismo linguistico di Mauthner. L’invocazione del silenzio, apparentemente in contraddizione con la scrittura di migliaia e migliaia di pagine, rimane un avvertimento critico: guardando al passato – egli scrive – la critica del linguaggio è scetticismo, guardando al futuro è misticismo 65. La nostra analisi si limita allo sguardo verso il passato.

L’esposizione della tesi che la parola è metafora si trova circa a

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metà del secondo volume dei Beiträge e si colloca dopo la critica alla questione dell’origine del linguaggio. Rovesciando il rapporto trascen-dentale tra Ursprung ed Entstehung, Mauthner rifiuta con decisione la questione delle origini del linguaggio e preferisce parlare di evoluzione della lingua, proponendoci di provare di nuovo con una metafora che prende il concetto nel senso più ovvio e comune e finisce con una nuova domanda su questo senso. La domanda è posta volontariamente in modo banale: qual è il nutrimento che fa crescere il linguaggio? La metafora dell’organismo, già criticata altrove 66, introduce la tesi centrale: il linguaggio, che forse deriva dalle espressioni primordiali dello stupore, della gioia e del dolore, si sviluppa – e questa è per il nostro autore una vera e propria ipotesi – attraverso la metafora: «il linguaggio – scrive – è cresciuto e ancor oggi cresce a partire dal-la memoria umana (e memoria umana è a sua volta solo linguaggio) soltanto mediante la trasposizione (Übertragung, metafeJrein) di una parola definita (fertig) su un’impressione indefinita, mediante confronto dunque, mediante questo atto eterno del à-peu-près, mediante questo infinito circoscrivere e parlar figurato, che costituisce la forza artistica e la debolezza logica del linguaggio» 67.

L’idea del carattere essenzialmente metaforico del linguaggio non è certo una concezione originale di Mauthner; se ne potrebbero cercare le tracce in innumerevoli fili che annodano la storia della filosofia con la rinascita della retorica, con le teorie del conoscere, con le ricerche psicologiche e la nascita della semantica. Le tracce lontane vengono cercate da Mauthner nell’analisi gnoseologica del rapporto tra la pa-rola e la cosa degli empiristi inglesi e nella riflessione sul linguaggio di Vico, Hamann e von Humboldt; gli influssi più diretti si possono individuare invece nel dibattito psicologico e linguistico della fine Ot-tocento. Del resto il carattere originale della posizione di Mauthner non consiste tanto nella elaborazione di una nuova teoria, dato che tutti gli elementi che ne fanno parte si possono rintracciare nei suoi predecessori, ma – come ha notato Weiler – nel sottomettere questi elementi all’idea dominante della critica del linguaggio 68. Questa im-postazione richiede che anche la nostra ricerca debba considerare le tesi dell’autore in continuo dialogo con le posizioni teoriche che egli riprende, critica e decostruisce.

La prima fonte citata dal nostro autore è Locke e più volte egli si ripromette di dedicare un’analisi adeguata al suo libro sul linguaggio, il terzo del Saggio sull’intelligenza umana. Il pensatore inglese non consi-dera però la metafora come uno strumento per comprendere la natura del linguaggio in generale; quando parla della metafora, la considera come un vero e proprio inganno nel suo alludere a incerte somiglian-ze più che analizzare e distinguere 69. Mauthner è interessato però a questo elemento di ambiguità che egli ritrova nel rapporto stabilito da Locke tra parola e idea, nell’affermazione che le parole sono segni

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sensibili per le idee; il che stava a significare che esse non sono segni delle cose e nemmeno delle idee che stanno nella mente dell’altro, che il loro contenuto rappresentativo è del tutto privato: l’esempio di Locke è quello dell’oro, nel quale il bambino vede solo il colore bril-lante, mentre altri possono aggiungervi il peso, la malleabilità e altre caratteristiche. Ma la soggettività della rappresentazione viene argina-ta da Locke con la distinzione tra vari tipi di idee; le idee semplici, corrispondenti alle qualità sensibili, resistono all’albero di Porfirio e alla definizione per via della differenza specifica (non c’è nulla che posso tralasciare dall’idea di bianco e di rosso per farle concordare nel genere “colore”), e in questa loro originarietà possono essere in qualche modo esibite e riprodotte. Nei modi misti invece, come nel caso di “giustizia” o “beatitudine”, abbiamo a che fare con concetti astratti e combinati in modo del tutto arbitrario; nel caso poi delle sostanze egli sembra propenso a considerarle come una collazione di caratteristiche da enumerare 70, difficilmente risolvibile in una chiara determinazione del significato. Nella definizione dell’oro allora l’enu-merazione aggiungerà al colore giallo la duttilità, la fusibilità, la fissità e così via senza pretendere di penetrare nella sua essenza reale che ci rimane sconosciuta. Questa cautela critica è alla base dell’acuta analisi dell’ambiguità e delle oscurità del linguaggio che si accompagna alla consapevolezza della difficoltà di questo compito: «tanto è difficile il-lustrare il vario significato e le molteplici imperfezioni delle parole, quando non abbiamo altro che parole per farlo», una frase che, ab-biamo visto, compare tra le citazioni che introducono la trattazione dell’essenza del linguaggio nel primo volume dei Beiträge 71. In Locke Mauthner trova quindi l’attenzione posta sulla funzione del linguaggio nel processo stesso della conoscenza, l’idea della discrepanza tra con-tenuto rappresentativo e parola e quindi la necessità, nella formazione dei concetti astratti, di far uso di parole provenienti dalle operazioni su cose sensibili trasferendole ai processi del pensiero 72.

Per l’affermazione dell’origine metaforica del linguaggio è poi ancor più pertinente il riferimento a Vico, che egli cita subito dopo 73. Nel pensatore napoletano Mauthner trova prima di tutto un’attenzione alla lingua come documento della storia dell’umanità e al suo legame con la “storia delle cose”, in una prospettiva antirazionalistica, come di-mostra l’altra citazione posta all’inizio dei Beiträge, accanto a quella di Locke: «homo non intelligendo fit omnia». Questa impostazione trova conferma nel racconto metaforico delle origini della storia ideale eterna che fa precedere geneticamente il parlar figurato all’uso dei termini propri: la metafora allora, come «accorciata Favoletta», condensa in un universale fantastico – phantastische Gattungsbegriff, traduce Mauthner – gli eventi della natura e del cielo e li attribuisce all’immagine di una divinità, il nome della quale prende forma dal grido della paura. Tutte le lingue procedono quindi nel dare alle cose inanimate «trasporti del

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corpo animato, e delle sue parti, e degli humani sensi e umane passioni», il che corrisponde a una delle definizioni di Quintiliano 74. Vico pro-cede oltre nell’esame della metonimia, che veste concetti astratti con l’effetto al posto della causa (la morte pallida), e della sineddocche che trasporta la parte al tutto, mentre assegna la figura dell’ironia a tempi più tardi, quelli della riflessione 75.

Mauthner scrive però di essere arrivato a Vico solo in un secondo momento, dopo aver elaborato la propria teoria e attraverso una sug-gestione di Goethe 76; lo considera più un precursore della critica del linguaggio che uno stimolo diretto al proprio lavoro. Del resto l’atten-zione alla funzione della metafora non solo in ambito retorico e poetico, ma come strumento teorico in grado di spiegare aspetti fondamentali dell’evoluzione del linguaggio in generale, era elemento acquisito nel-la filosofia e nella linguistica dell’Ottocento tedesco. Mauthner stesso traccia un filo che collega Vico, Hamann e Herder 77 e, nonostante sia decisamente dalla parte di Herder nel negare l’origine divina del linguaggio 78, rivela una maggiore affinità e simpatia per le affermazioni oracolari del Mago del Nord che aveva letto nelle figure della Bibbia la traduzione del dialetto di Dio nel linguaggio dell’uomo.

Hamann è fonte di ispirazione in primo luogo per lo stile, per il suo lento prendere avvio nel groviglio dei titoli, delle dediche spesso occasionali e incomprensibili, dei motti duplici e triplici 79, per la sua sensibilità per la lingua che accosta la profezia a intermezzi scurrili, per la sua predilezione per la maschera, la parodia e, non ultimo, la metafora. E le metafore che scorrono una sull’altra nell’Aesthetica in nuce dipanano la tesi sull’origine del linguaggio dalla poesia, «lingua materna del genere umano» 80, nel ventaglio delle immagini che dal-la prima parola di Dio, “sia la luce”, alla creazione dell’uomo a sua immagine, proseguono in un crescendo di citazioni che devono esse-re state modello al lavoro di Mauthner. La trasposizione che avviene nel processo metaforico viene spiegata da Hamann con una ulteriore metafora: «pensare è tradurre: da un linguaggio di angeli in un lin-guaggio di uomini, ossia pensieri in parole, fatti in nomi, immagini in segni, che possono essere poetici o kyriologici, storici, o simbolici o geroglifici… e filosofici o caratteristici» 81 e questa stessa esigenza di rendere in immagine, di mettere «mani, piedi, ali» 82 alle astrazioni e alle ipotesi è alla base della metacritica alla Critica della ragion pura dell’amico Kant, che Mauthner cita a più riprese. In questo breve testo Hamann aveva richiamato la tesi di Berkeley, ripresa da Hume, che tutte le idee generali non sono altro che idee particolari congiunte a una certa parola che dà loro un significato più esteso e fa sì, all’occor-renza, che ne richiamino altre individuali simili a loro. Il linguaggio diventava così, come sottolinea Mauthner, primo e ultimo organo e criterio della ragione, senza altra garanzia all’infuori dell’uso e della tradizione 83. Contro l’idolo della pura ragione Hamann richiama la

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priorità genealogica del linguaggio: suoni e lettere sono le pure forme a priori, dalle quali sorge la lingua più antica della musica, come dal ritmo del polso e del respiro la prima misura del tempo e dalle figu-re del disegno e della pittura la determinazione dello spazio 84. Non idee innate, dice, ma certo matrici che vanno a ricomporre la frattura kantiana tra sensibilità e intelletto, facendo scorrere tra l’una e l’altro schiere di intuizioni e di concetti.

Si può quindi considerare Mauthner come il continuatore di questa metacritica della ragione ed egli stesso ha la pretesa di presentare le proprie ricerche come continuazione e completamento dell’impresa del filosofo di Königsberg, come critica della ragione impura – Kritik der unreinen Vernunft, scrive Lüktenhaus a proposito, usando però un’espressione di Gerber 85 – come trasformazione della critica della ragione in critica del linguaggio. Il primo passo in questa direzione è stato fatto, secondo Mauthner, proprio da Kant nella Kritik der Ur-teilskraft, da intendersi come una critica dei concetti e delle parole nell’ambito del bello; «sarebbe stato meglio – scrive – che fosse stato così anche per la ragion pura: avremmo la critica del linguaggio» 86. Certamente la disamina kantiana della forma soggettiva del giudizio estetico, della funzione dell’immaginazione, dell’analogia e delle ipoti-posi simboliche nella terza critica doveva essere importante per Mau-thner, ma egli non entra nel merito.

Le metacritiche di Hamann e Herder costituiscono poi solo una prima tappa di un processo di relativizzazione e di storicizzazione del-l’apriori che prosegue nel corso dell’Ottocento con la «trasposizione del trascendentale dal pensiero al linguaggio» attuata da von Humboldt 87, con la dialettica tra a priori e a posteriori nello spirito dei popoli della Völkerpsychologie di Steinthal e si conclude nell’estrema dinamicizzazione delle analisi dei neogrammatici sull’uso della lingua e lo scarto indi-viduale 88. Mauthner trae le conseguenze di questo percorso e in questo senso lo si può senz’altro considerare, come scrive Lia Formigari, partecipe di un approccio “attualistico” al tema del linguaggio che ha il suo lontano ascendente nel concetto di ejnevrgeia di von Humboldt e nello stesso tempo «il punto di non ritorno» di quella tradizione 89. La ripresa della visione della lingua come «qualcosa di continuamente, in ogni attimo, transeunte», non opera (e[rgon), ma attività (ejnevrgeia), secondo la famosa definizione di von Humboldt 90, avviene infatti solo dal lato della definizione dell’atto individuale del parlare, mentre l’accento posto sulla produttività conoscitiva, sulla creazione della soggettività e la fiducia nella corrispondenza tra rappresentazioni proprie e altrui, fondata sul riferimento alla totalità della lingua, vengono lasciate cadere nella critica antimetafisica. Nello stesso tempo la frattura che si è aperta tra contenuto rappresentativo e parola pronunciata, teorizzata dal principale esponente dei neogrammatici, Hermann Paul, e ripresa da Mauthner, rappresenta davvero un «punto di non ritorno».

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Nella ricostruzione storica delle teorie sul linguaggio del secondo volume dei Beiträge von Humboldt rimane un riferimento molto im-portante e l’ammirazione per la sua presa di posizione politica auten-ticamente liberale e contraria a ogni dispotismo si mescola al consenso per la tesi che le lingue in ultima analisi – con una leggera forzatura di Mauthner – rimangono creazioni dell’individuo 91. A Mauthner piace il carattere asistematico di un pensiero che non perviene a definizioni conclusive, e non tanto perché le consideri ovvie, ma proprio perché non ne viene davvero a capo, forse per il carattere circolare di ogni discorso sul linguaggio. Queste osservazioni rimandano all’impossibilità di cogliere l’essenza del linguaggio se non per mezzo di metafore, alla considerazione della lingua come un tessuto, una «rete di analogie» in cui si è cristallizzata una visione del mondo 92, come un cerchio dal quale è possibile uscire solo passando in un’altra lingua – metafora questa che ritorna nei Beiträge – ma in una visione unitaria, a sua volta resa in metafora con l’immagine del prisma 93.

Mauthner passa invece subito alla critica delle formulazioni, a suo parere oscillanti e contraddittorie, sullo spirito che creerebbe la lingua e sulla lingua che creerebbe lo spirito; ripete l’accusa di Steinthal nei confronti del maestro, di voler cioè dedurre il linguaggio dal pensie-ro, mentre sarebbe più semplice ricavare dal linguaggio le leggi del pensiero. In particolare il nostro autore riprende il concetto di innere Sprachform, che von Humboldt aveva posto a fondamento della diversa attenzione delle lingue ai diversi aspetti delle cose, del prevalere del-la componente intellettiva oppure di quella sintetica, e gli conferisce un senso del tutto diverso ed empirico. Ritiene che questo concetto sia finalistico e contraddittorio, perché assegna una forma a qualcosa di interiore che non può aver forma, indicando talora l’insieme delle idee che fanno riferimento alla lingua, talora l’uso del linguaggio 94. In concreto però il filosofo illuminista, come Mauthner non si fa scrupolo di definire von Humboldt 95, intenderebbe per forma interiore della lingua una cosa diversa a ogni paragrafo: la logica del pensiero come essa si esprime nella grammatica oppure la grammatica astratta come si esprime nelle singole forme linguistiche e qualche volta persino il tertium comparationis che compare alla fantasia nella formazione di nuove parole 96. Non dobbiamo allora prenderlo alla lettera, la forma interna è soltanto la nostra sensibilità (Gefühl) linguistica per la nostra madrelingua che ci fa intendere una parola inesistente come “flierbte” come un imperfetto del verbo altrettanto inesistente “flierben”.

Per dimostrare la sua tesi della parola come metafora, Mauthner at-tinge però al bagaglio delle argomentazioni e degli esempi degli studi di semantica, che non solo avevano individuato nella creazione dell’espres-sione figurata uno dei principali processi che accompagnano il muta-mento semantico, ma ne avevano fornito anche una trattazione analitica. Mauthner conosce e cita numerosi studi di semasiologia, il filone di

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ricerca che nella Germania dell’Ottocento costituisce la premessa della nascita della semantica, disciplina inaugurata dalla pubblicazione, nel 1897 a Parigi, del testo di Michel Bréal Essai de sémantique. Science des significations. Di Bréal cita il detto: «noi siamo, più o meno, dei dizionari viventi della lingua francese» 97, invero per criticarlo subito dopo per la mancanza di un approfondimento psicologico. Ma l’approccio semantico dello studioso francese era vicino alla critica del linguaggio per il concet-to non normativo delle leggi linguistiche che si limitano a rilevare delle regolarità, per la concezione del rapporto tra le parole e le cose e per l’importanza centrale della metafora. La logica del linguaggio è per Bréal una logica di tipo particolare, avanza per tappe, devia, sosta e riparte, procede per analogie e contiene continui riferimenti soggettivi. Bréal dedica poi una particolare attenzione alla metafora, affermando come sia spesso difficile riconoscere le metafore più antiche, ormai scolorite; esse poi non rimangono legate alla lingua in cui nascono, ma viaggiano da un idioma a un altro. Questo contribuisce a dare alla parola un carattere polisemico: il linguaggio designa le cose, ma in modo incom-pleto e inesatto; i sostantivi racchiudono solo quella parte di verità che può essere racchiusa da un nome e che è necessariamente più piccola quanto maggiore è il grado di realtà posseduto dall’oggetto 98. «Il lin-guaggio – conclude con una tesi che Mauthner ripete più volte – può solo restituirci l’eco del nostro stesso pensiero» 99.

Il linguista più vicino a Mauthner è però Hermann Paul: egli lo cita spesso, anche se talora in maniera polemica 100. L’esponente prin-cipale del movimento dei neogrammatici, influenzato dal darwinismo di Spencer, aveva proposto un approccio radicalmente empiristico alla scienza del linguaggio, considerata come disciplina storica, disamina delle espressioni degli uomini nel loro operare concreto. Mauthner in-dica il passo in avanti compiuto da Paul rispetto alla Völkerspychologie nel focalizzare l’interesse sull’individuo, sull’uso linguistico del parlante e sulle condizioni di possibilità di comprensione da parte dell’interlo-cutore, e di giungere così all’idea fondamentale che ogni innovazione fonetica e semantica sia opera dell’individuo 101. Nei Prinzipien der Sprachgeschichte Mauthner poteva trovare un’impostazione psicologica di stampo herbartiano, centrata sul meccanismo, conscio e inconscio, di aggregazione delle rappresentazioni nella mente dell’individuo, e un’indagine sul rapporto tra questo piano, privato e incomunicabile, e l’uso linguistico. La spiegazione storico-genetica dei mutamenti fonetici e semantici, fondata sulla dialettica di significato usuale di un termine e di significato occasionale 102, era basata sul riconoscimento del carattere polisemico di molte parole in uso e sulla necessità quindi di rendere tale significato univoco e concreto allo scopo della comprensione tra parlanti. Queste deviazioni dall’uso comune venivano classificate da Paul secondo gli opposti principî della specializzazione 103 e dell’ampliamento del significato 104, principî ai quali egli aveva aggiunto il trasferimento

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a quanto collegato nello spazio, nel tempo e per causa 105. La metafora diventava allora uno dei mezzi più importanti per la creazione di nomi per complessi rappresentativi per i quali non esistono ancora parole che li designino, ma anche per quelli che già possedevano un nome, costituendo un complesso di immagini sedimentate che caratterizza le differenze di interesse degli individui e dei popoli.

La rassegna dei tipi di metafora di Paul non rappresenta però sol-tanto un fondo di «idee ed esempi» a cui attingere 106: il nuovo rap-porto stabilito dall’analisi dei neogrammatici tra linguistica e psicologia e il riferimento a Herbart impegnano Mauthner a fare i conti con la tradizione degli studi di psicologia 107, aprendo un altro ventaglio di prospettive che richiedono una sintesi.

3. Metafora e rappresentazione

In un primo momento sembra senz’altro di poter definire la con-cezione mauthneriana della metafora con il cattivo attributo di “psico-logica”, riconducendola alla categoria peggiorativa di “psicologismo”, se intendiamo con questo termine la dissoluzione dell’apriori e la sua spiegazione in termini genetici. Lo stesso Mauthner ribadisce più volte di voler ridurre la filosofia a psicologia e per la linguistica afferma che essa costituisce soltanto un capitolo della psicologia 108. Nello stesso tempo però il nostro filosofo afferma che lo psicologismo «sarebbe la verità, se la nostra psiche non dovesse parlare» 109, se la parola potesse, per così dire, assomigliare alla rappresentazione. Ma l’idea della parola come metafora è collegata al suo carattere polisemico, ambiguo, non riconducibile a un concetto definito, ma a una pluralità di rappresen-tazioni; in ogni momento – egli scrive – sono presenti una quantità di rappresentazioni individuali che stanno pronte fuori della «cruna della nostra coscienza» 110 e che passiamo velocemente in rassegna. Alla pa-rola corrisponde la sedimentazione di rappresentazioni simili, mai eguali però, che fluttuano una sull’altra, senza poter combaciare in modo esat-to. Più avanti l’autore tornerà a riflettere sul termine “rappresentazione” che già indicherebbe un’attività spirituale complessa, richiedendo a sua volta la mediazione del linguaggio 111: provvisoriamente possiamo dire allora che la parola evoca un mondo di associazioni, un complesso di sensazioni e di percezioni sensibili. Gli organi di senso a loro volta non sono poi certamente lo specchio del mondo, essi hanno avuto un’evo-luzione casuale, orientata dai criteri dell’economia e del bisogno, costi-tuiscono quindi dei filtri, dei setacci, che lasciano passare soltanto una minima parte delle caratteristiche delle cose 112. Questa selezione è stata essenziale per la vita quotidiana, perché una configurazione più precisa degli organi di senso che ci facesse percepire differenze microscopiche, come ad esempio l’intera variazione delle oscillazioni ondulatorie stu-

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diate dalla fisica nel campo dei suoni e dei colori, non avrebbe reso possibile l’orientamento dell’uomo nel mondo.

Sul piano gnoseologico una conoscenza trasparente del mondo rima-ne impossibile: intelletto e mondo non combaciano, non si adattano l’un l’altro come un guanto alla mano o la mano al guanto (e con questo ro-vesciamento allude alla rivoluzione copernicana di Kant, e – stando alla metafora – non ci è nemmeno dato sapere se nel guanto vi sia davvero una mano 113); il mondo svanisce nell’illusione, dissolto nelle ombre del mito della caverna di Platone e coperto dal velo di Maya delle antiche dottrine dei Veda interpretate da Schopenhauer, coinvolgendo anche il soggetto nel mistero dell’inconoscibile. Ma lo scetticismo radicale, applicato all’ambito del soggetto del conoscere, apre un nuovo piano di indagine per la critica del linguaggio e la seconda parte del primo volume dei Beiträge si presenta come un’acuta disamina delle teorie psicologiche del tempo che ne individua alcune importanti aporie. La duplicazione del mondo attuata dal materialismo, dallo spiritualismo, ma anche dal parallelismo psico-fisico ha, secondo Mauthner, come imme-diata conseguenza l’applicazione al mondo interno dei concetti elaborati per il mondo esterno, con il risultato di costruire enigmi senza soluzione sul rapporto tra anima e corpo e problemi senza senso, come il tentativo di individuare la collocazione dell’anima o la diatriba sull’anima degli animali 114. Allo stesso modo la psicologia fisiologica, che scopre nel cervello i correlati fisici delle associazioni psichiche, non farebbe altro che raddoppiare l’enigma 115, e Fechner, che chiama parallele due cose che invero coincidono, risolverebbe il problema del rapporto tra fisico e psichico soltanto a parole: i pesci – commenta Mauthner con una metafora – vedono la superficie del mare da sotto, gli uccelli dall’alto e in psicologia noi ci troviamo nell’imbarazzante situazione di un uomo che possa guardare solo da un lato lo specchio del mare 116. Anima e corpo sono quindi solo parole, metafore appunto; l’io, con i suoi con-fini incerti e incostanti, illusione delle illusioni 117, la coscienza «vuoto pleonasmo» 118: lo specchio del nostro cervello riflette di volta in volta quello che gli è davanti, ma non si può guardarvi dentro come in uno specchio oculare 119.

Mauthner afferma di aver maturato queste sue convinzioni nel suo periodo di formazione a Praga; fa risalire l’idea della povertà dei nostri cinque sensi, della struttura contingente della sensibilità, alla lettura di Nietzsche (ma su questo più avanti) e sostiene di essere stato stimolato alla critica del linguaggio da una conferenza sul principio di conser-vazione del lavoro che Ernst Mach aveva tenuto a Praga nel 1872. Si tratta invero di una ricostruzione a posteriori 120, ma questo non toglie che si possano rintracciare nelle pagine dei Beiträge molte suggestioni che derivano con evidenza dalla rilettura del lavoro di Mach.

Il testo della prolusione contiene una disamina critica dei concetti fondamentali della fisica considerati secondo il motto «la storia ha fatto

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tutto, la storia può mutare tutto» 121. I concetti, sostiene Mach, sono astrazioni che debbono essere sempre riconducibili ai fenomeni sus-sunti; per alcuni concetti abbiamo scordato il percorso compiuto per raggiungerli e li chiamiamo metafisici 122. La scienza si deve limitare alla connessione più ampia possibile dei fatti, senza cercare di immaginare qualcosa dietro i fenomeni, e deve essere consapevole che quello che li tiene insieme è sempre una forma arbitraria, che varia con il no-stro punto di vista culturale 123. Universalizzare questo punto di vista, come tenta di fare la concezione meccanica del mondo, significa, per Mach, ritornare alla metafisica; la conclusione è kantiana: se il mondo è una macchina, in cui il movimento di certe parti è determinato dal movimento di altre, nulla è però determinato per l’intera macchina 124. Accanto poi al procedimento che collega i fenomeni, la scienza ha anche il compito di scomporre i fatti complessi in fatti più semplici, non ulteriormente scomponibili: questi fatti-base, come egli li chiama, non sono altro che incomprensibilità non abituali ridotte a incompren-sibilità abituali e la scelta di questi fatti-base «è questione di comodità, storia e abitudine» 125. In breve, la conferenza di Praga conteneva tutti i presupposti per una critica del linguaggio della metafisica nella scien-za, come Mauthner riconosce più volte.

La critica al meccanicismo veniva poi confermata dalle ricerche successive dello scienziato sullo spazio e sul tempo della percezione, sui suoni e sui colori, esposte nel libro Die Analyse der Empfindun-gen, la cui prima edizione è del 1886. Nelle Osservazioni preliminari antimetafisiche, che introducono le ricerche fisiologiche, il punto di partenza del nostro conoscere viene descritto fenomenologicamente: «colori, suoni, calore, pressioni, spazi, tempi ecc. sono connessi fra loro in modo molteplice e ad essi sono legati disposizioni, sentimenti e volizioni. Da questo tessuto emerge ciò che è relativamente più stabile e durevole, imprimendosi nella memoria ed esprimendosi nella parola. Come relativamente più durevoli si segnalano innanzitutto complessi coordinati (funzionalmente) nello spazio e nel tempo di colori, suoni, pressioni ecc., i quali proprio perciò assumono nomi specifici e ven-gono indicato come corpi (Körper). Tali complessi non sono affatto persistenti in senso assoluto» 126. In questa formulazione Mach evita l’espressione “complessi di sensazioni”: gli elementi sono sensazioni al livello dell’astrazione, dell’idealizzazione, cioè dell’ordinamento di una serie che permette di renderli oggetto di esperimento 127; essi – scrive Mach – sono sensazioni soltanto sotto un certo rispetto: un colore è un oggetto fisico in relazione alla sorgente di luce, è una sensazione in relazione alla retina 128. I complessi di elementi si compongono poi variamente e possono esigere una descrizione fisica o fisiologica oppure psicologica: in relazione all’elemento ordinatore si danno diverse im-magini del mondo, come dirà Mauthner, oppure reti a diverse maglie, come dirà Wittgenstein.

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Questo approccio permetteva a Mach di sfuggire alla duplicazione metafisica di soggetto e oggetto, di fenomeno e cosa in sé, di illusione e realtà: la matita immersa nell’acqua, emblema dell’illusione dei sensi, risulta otticamente spezzata, ma tattilmente e metricamente diritta. I complessi, ordinati herbartianamente in modo seriale (ordinamento spaziale e temporale, serie cromatica o tonale), sono poi scomponibili senza il residuo di una cosa in sé: la sostanza, al contrario, non è altro che l’ipostatizzazione di un’entità che viene staccata dalla serie delle sensazioni in base a un’istanza di totalità.

E semplice complesso di elementi risultava anche l’altro polo del conoscere, l’io, che perdeva così la sua identità definita. Mach sancisce in questo modo la fine dell’io, fonte, a suo dire, di tutte le assurdità me-tafisiche, e indica come premessa di questa concezione un’osservazione di Lichtenberg sulla difficoltà di tracciare una netta linea di demarca-zione tra le rappresentazioni che dipendono da noi e quelle che non ne dipendono. Lichtenberg osservava che non si dovrebbe dire “ich denke”, ma piuttosto “es denkt”, allo stesso modo in cui si dice “es blitzt” 129. Riassumendo con un appunto di Mach: «Mondo e io sono più o meno soltanto sintesi (Zusammenfassungen) arbitrarie» 130.

Mach offriva così alla cultura del suo tempo un approccio ai con-cetti di io, cosa, spazio, tempo e causa, che costituì un punto di rife-rimento non solo per scienziati, ma anche per scrittori e letterati: la sua critica al feticismo del linguaggio, alla «superstizione della parola» – come egli si esprime in Erkenntnis und Irrtum, citando l’antropologo Tylor 131 – ritorna in espressioni e in immagini, spesso con richiami espliciti, in tutta la riflessione sulla crisi della parola, sul divario, ormai riconosciuto, tra le parole e le cose, nella dissoluzione e nelle estreme difese dell’io nella letteratura della Vienna dell’inizio del Novecento (basti citare Musil, Hofmannsthal e Weininger). Non stupisce quindi che Mauthner nel periodo della stesura dei Beiträge torni a quella lontana suggestione, legga i libri di Mach e cerchi anche di stabilire un contatto personale con il pensatore moravo 132.

La definizione del rapporto tra fisico e psichico come semplice diversità di rapporti tra elementi che possono essere oggetto di de-scrizione da parte della fisica, della fisiologia oppure della psicologia, l’inutilità di riferirsi a una componente ulteriore che faccia da sostrato ai due ambiti – come ancora il parallelismo tendeva a fare – ritorna nelle analisi gnoseologiche e antropologiche di Mauthner, nell’affer-mazione della diversità solo di grado tra il pensiero animale e quello dell’uomo, nella definizione dell’intelletto come capacità intuitiva che si sviluppa per necessità di sopravvivenza biologica, nella considerazione della memoria non solo come sedimentazione psichica, ma anche ma-teriale delle esperienze in tutte le vie sensibili e motorie 133. Quando Mach paragona l’attività della memoria all’uso di vecchi violini ben suonati e Mauthner si meraviglia di quante tracce mnemoniche debba

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contenere l’ala di un uccello, non si tratta di banali osservazioni ma-terialistiche, ma della considerazione della natura in una prospettiva storica e dell’uomo come parte di essa. Nell’analisi del linguaggio que-sto significa di nuovo partire dalla sua dimensione naturale: Mauthner, come Mach, afferma che si impara a parlare come si impara a respirare e a camminare 134.

Katherine Arens, che ha ampiamente analizzato il debito intellet-tuale di Mauthner nei confronti di Mach, lo riassume nel paradigma del «funzionalismo», nell’affermazione cioè del valore contingente dei modelli teorici che, di volta in volta, si presentano come sistemazio-ni parziali dei dati empirici in funzione di determinati problemi da risolvere 135. Questa impostazione del problema del conoscere non approdava però in Mach a un esito scettico, non alla rassegnazione, alla rinuncia compiaciuta e malinconica dell’Ignorabimus di du Bois-Reymond (e che in alcuni momenti ritroviamo anche in Mauthner), né si presentava come un’incursione dello scienziato nel campo della filosofia che si ripromettesse di risolverne gli enigmi; in Erkenntnis und Irrtum egli si definirà un cacciatore domenicale della filosofia 136: un cacciatore, possiamo dire, capace di muoversi senza assunzioni pre-concette e di colpire nel segno i preconcetti di un’intera tradizione del pensiero.

Anche Mauthner, quando si interroga sulla possibilità di fare della linguistica una scienza, si paragona al viaggiatore che può solo descrive-re i costumi di un popolo, ma egli espande il modello funzionalistico di Mach nella direzione dello scetticismo: il mondo è immagine soggettiva dei nostri Zufallssinne, la scienza non ha alcun fondamento possibile, la logica è vuota tautologia, il soggetto metafisico è ridotto all’io empirico, a sua volta frantumato nell’indeterminatezza dei suoi confini. A questo proposito con un’osservazione simile a quella di Mach e di Lichtenberg, Mauthner sostiene: la mia sensazione “verde”, grün, significa origina-riamente che io vengo begrünt, il prato mi verdeggia, begrünt mich 137. Limitarsi alla descrizione fenomenologica farebbe quindi saltare le ca-tegorie della grammatica; l’autocritica del linguaggio diviene il suicidio del linguaggio.

Il confronto con Mach si fa poi più serrato a partire dal periodo nel quale Mauthner sta ultimando il secondo volume dei Beiträge e appare ancora più chiaramente nel terzo. Oltre alla lettura dell’Analisis, delle Vorlesungen e della Mechanik, Mauthner ha affrontato anche la Wärmelehre (uscita nel 1896) che nell’ultima parte tratta con ampiezza il linguaggio della scienza. L’applicazione del modello biologico darwi-niano allo sviluppo delle idee scientifiche in termini di trasformazione e di adattamento permette a Mach l’approfondimento di alcune riflessioni sulla teoria del conoscere. Si tratta in primo luogo del processo psico-logico dell’associazione, della comparazione come base dell’astrazione: così, ad esempio, i termini indicanti colore, forse nati dall’arte del ta-

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tuaggio che riproduce le tinte dei fiori e dei frutti, divengono autonomi, astratti, vengono intesi senza pensare al loro primitivo riferimento. La formazione del concetto deriva allora dall’individuazione dell’ugua-glianza di una parte di un complesso di sensazioni con una parte di un altro complesso, che permette l’associazione per somiglianza. Ma il passaggio più interessante di questa trattazione, almeno dal punto di vista di Mauthner, è il rapporto che Mach stabilisce tra concetto e intuizione. Il concetto – afferma Mach– è enigmatico: se lo consideria-mo dal punto di vista logico, lo vediamo come il prodotto psichico più preciso e determinato, se ne cerchiamo il contenuto intuitivo, reperiamo soltanto un’immagine confusa. Il procedimento di formazione delle idee viene paragonato alla composizione delle figure della pittura dell’antico Egitto, che non corrispondono a un’unica percezione visiva, ma sono composte di percezioni diverse: la testa e il capo sono rappresentati di profilo, ma la copertura del capo e il petto si vedono di fronte; si tratta di una sorta di percezione intermedia che appunta l’attenzione su alcuni aspetti e ne trascura altri. Nella stessa nota, che rimanda a questa osservazione contenuta in una conferenza, Mach cita Paul Carus che definisce il concetto in analogia alle somiglianze di famiglia che il suocero Hegeler aveva osservato in alcune foto composte da Galton 138. L’immagine è individuale, come le foto dei singoli componenti della famiglia, il concetto non sta in rapporto con una immagine definita, con una rappresentazione finita (fertig), è piuttosto un’indicazione a esaminare alcune caratteristiche della rappresentazione, a individuare le somiglianze di famiglia. Acquisire un concetto significa allora avvia-re un sistema di operazioni che si può apprendere solo nella prassi, nell’esercizio, come ci si deve esercitare per imparare la matematica o una lingua straniera. La definizione del concetto in Mauthner ripren-de allora questa impostazione nell’affermare che il concetto non è in relazione con una determinata rappresentazione, ma con «una catena o un tessuto, una rete o ancor più esattamente un piccolo mondo, un microcosmo di associazioni di idee», un microcosmo «che non è uni-dimensionale come una catena, non bidimensionale come un tessuto o una rete, ma tridimensionale o, in relazione al tempo, quadridimen-sionale come un mondo» 139.

Nel capitolo sul linguaggio della Wärmelehre Mach, riprendendo l’idea del carattere operativo dell’acquisizione del concetto, sostiene che i segni sonori hanno preso senso e significato alla presenza di osservatori comuni e di una comune attività, citando Geiger 140 e Noiré 141, ma que-sti riferimenti non sembrano a Mauthner sufficienti, egli pensa di essere andato più avanti di questi autori nella critica del linguaggio 142.

Nel Wörterbuch der Philosophie (1910) Mauthner continua a fare ri-ferimento al pensiero di Mach in numerose voci e con molte citazioni, lo considera anche una fonte per la sua teoria delle tre immagini del mondo. Ora ha anche a disposizione Erkenntnis und Irrtum (1905), il

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testo epistemologico che riassume e approfondisce i risultati di tutta la riflessione di Mach sulla formazione dei concetti scientifici, sulla loro radice nel precategoriale e nel linguaggio ordinario. La parola viene definita come centro di associazioni, viene indagata nel sua dimensione magica e superstiziosa, nella sua funzione nel processo di astrazione, nei suoi significati mutevoli e nei suoi trasferimenti e, in una nota, troviamo anche il riconoscimento dello stimolo ricevuto dalla lettura degli scritti di Mauthner. In particolare vanno poi segnalate le pagi-ne in cui Mach tratta il concetto di analogia e afferma l’importanza dell’uso euristico delle immagini nella scienza 143.

Mauthner si propone per la filosofia un compito analogo a quello che Mach ha svolto nei confronti dei principali concetti della scienza, ma il diverso punto di vista e la differenza dell’oggetto in questione svelano la dimensione scettica e radicale del progetto del filosofo. L’or-dinamento alfabetico, «triviale» (termine dal paradossale doppio senso: volgare o riferito alla cultura del trivio medievale), «brutale» e «infanti-le», si adatta perfettamente alla dimensione circolare del suo pensiero, alla condensazione in nuclei decentrati dell’argomentazione; non solo, esso rappresenta l’unico ordine possibile che permette i rimandi da un qualsivoglia punto ad un altro e una consultazione semplice. L’enciclo-pedia filosofica che espone lo stato della filosofia sancisce nel contem-po la mancanza del suo fondamento, l’impossibilità di individuare un criterio gerarchico nel nostro conoscere, di mettere ordine nel sape-re; e nell’etimo del termine (e[gkuklo") Mauthner non vuole cogliere l’idea di completezza, ma del girare in cerchio, del mordersi la coda 144. Nella rassegna dei tentativi storici di sistemazione enciclopedica, oltre all’apprezzamento per il dizionario storico e critico di Bayle, «lessico di conversazione di tutti gli spiriti scettici» 145, troviamo una citazione di Stumpf a conferma della provvisorietà e della circolarità del sistema delle scienze: «gli oggetti delle scienze non sono disposti come cerchi concentrici intorno a un unico punto centrale, ma formano parecchie ondate, che si incrociano partendo da punti centrali autonomi» 146.

Al posto di concetti puri, ai quali siano state strappate, derubate per via di astrazione (un calco coniato da Boezio del greco ejx ajfairev-sew", usato da Aristotele e tradotto in un altro contesto da Cicerone con detractio) tutte le caratteristiche concrete, troviamo soltanto le pa-role in uso nella filosofia, parole che sono migrate, sono state trasferite, traslate, assieme alle cose e ai popoli, portando con sé, nelle derivazioni, nei prestiti, nelle traduzioni e nei calchi, molteplici sfumature di senso. Mauthner non crede quindi alla possibilità di una definizione rigorosa dei singoli termini, afferma che una definizione «pulita» sarebbe tauto-logica, illusoria, come la pretesa di calmare la fame con un menù che pone accanto ai nomi francesi la loro traduzione in tedesco 147.

Questo non vale solo per le parole della filosofia, ma in genere per tutte le nostre parole. Possiamo dire che una parola ha significato allo

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stesso modo in cui possiamo dire che una cosa ha delle proprietà, anche se non c’è una cosa al di fuori e accanto alle sue proprietà. Il significato appartiene alla parola, non c’è un significato in sé, un signi-ficato «obiettivo-ideale» – e qui Mauthner scrive frettolosamente, tra parentesi: Husserl; lo possiamo indicare solo pressappoco, ricostruendo la storia della parola, criticando il significato momentaneo, riportando la discussione su quel significato.

L’indeterminatezza dei concetti e delle parole viene descritta con l’aiuto del termine “fringe”, che forse possiamo rendere con “margine” (Saum), “alone” (Hof), e che viene utilizzata da William James per indicare l’imprecisione dei confini della rappresentazione. Mauthner se ne serve indifferentemente per la rappresentazione e per la parola e riprende l’immagine fluida della mente dello psicologo americano che deriva l’orlo sfrangiato delle rappresentazioni dalla successione delle onde delle impressioni che parzialmente si sovrappongono, accostan-dola alla teoria delle onde del linguista Johannes Schmidt.

Per altri versi le parole, tutte le parole, sono già da sempre concetti, a diversi gradi di astrazione, e indicano già da subito di aver perso il ri-ferimento all’intuizione immediata; esse si formano attraverso il processo dell’associazione che non è affatto governato da leggi stabili, sistemate nei paragrafi della teoria psicologica, ma da regolarità (Gesetzmässigkeit e non Notwendigkeit) che mutano da una lingua all’altra dando vita a sfere associative diverse, condizionate dall’uso linguistico. Mauthner non nega che vi siano innumerevoli similarità nelle associazioni, come vi è una sorta di imprecisa comprensione nella prassi del linguaggio; si tratta però di somiglianze, affinità, parentele (ma non di sangue), analo-gie che escludono l’identificazione completa 148. Analogia è addirittura un errore logico che inferisce da proprietà simili conosciute proprietà simili sconosciute, esigenza psicologica di generalizzazione, semplice comparazione che non può essere scambiata con la conclusione logica della proporzione matematica 149. L’applicazione di conclusioni analo-giche inconsce è colpevole della creazione del linguaggio «metaforico, improprio, non scientifico» che abbiamo usato per descrivere in imma-gini l’intera nostra vita interiore e abbiamo poi riportato all’esterno, per penetrare nell’interno delle cose, per spiegarne la loro natura 150.

Viene così ribadita la disgregazione del soggetto e dell’oggetto del conoscere, dell’io e della cosa. Ciò che comunemente chiamiamo cosa (Ding, Sache) non è quindi altro che il machiano complesso di sensa-zioni, e questa cosa è soltanto una rappresentazione astratta (Gedan-kending), una cosa del pensiero. Mauthner precisa che con questo non intende un concetto inventato, uno Scheinbegriff, come potrebbe essere ad esempio l’idea di strega, né un fenomeno o un’apparenza (Erscheinung) nel senso di Berkeley e Kant, e nemmeno una cosa in sé, come continuano a sostenere i neokantiani, ma semplicemente la causa (Ursache) delle sensazioni, aggiungendo subito dopo che lo stesso con-

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cetto di causa è un enigma 151. Se poi una cosa isolata propriamente non esiste, come afferma il nostro autore citando di nuovo Erkenntnis und Irrtum, non esiste nemmeno un io isolato, esso non è che la catena dei vissuti: cosa e io, insomma, sono finzioni provvisorie 152.

Mauthner cerca però di procedere oltre. Mentre Mach in Erken-ntnis und Irrtum articola la sua disamina critica degli strumenti concet-tuali legati alla ricerca scientifica mantenendo le distinzioni e la fiducia nel loro valore conoscitivo, anche se provvisorio, Mauthner opera una riduzione del pensiero a linguaggio, del concetto a parola, della parola a immagine, dell’immagine a immagine di immagine. L’identificazione delle funzioni del pensare e del parlare invero non è completa, perché anche in questo caso si tratta, possiamo dire, di diversi giochi lingui-stici, e dipende dall’estensione che attribuiamo ai due concetti 153, ma questa cautela non viene sempre rispettata e spesso Mauthner ribadisce l’identità di pensiero e linguaggio, la valenza di mera parola del con-cetto, la natura metaforica del concetto stesso.

I diversi punti di vista da cui guardare il mondo – che Mach aveva connesso alla possibilità di combinare in modo diverso il complesso di elementi, ma che aveva sempre ricondotto alla descrizione scientifica – diventano in Mauthner tre categorie grammaticali che egli chiama le tre immagini del mondo. Egli mantiene il termine greco di “categoria”, svuotandone il senso logico e conoscitivo, sulla scia dell’interpretazione grammaticale delle categorie aristoteliche di Trendelenburg: kathgorei'n – scrive – significa semplicemente “asserire”; forse allora sarebbe me-glio usare il termine Aussaglichkeit, o Aussagenmöglichkeit, possibilità di asserire, ma Mauthner si accontenta del linguaggio in uso, consa-pevole di dover lavorare sullo slittamento del significato. Le categorie della grammatica sono dunque: l’aggettivo, il sostantivo e il verbo, ma anche qui non nel senso delle forme grammaticali tradizionali. Si tratta di vere e proprie categorie della grammatica che trasferiscono dalla scienza alla filosofia la concezione machiana dei punti di vista.

Il mondo aggettivo è il mondo delle impressioni sensoriali, dell’espe-rienza immediata, del dato; si presenta frantumato, pointilliert, come un quadro dipinto dai divisionisti, descritto da parole come “blu”, “ru-moroso”, “dolce”, “duro”, ma anche “giusto”, “bello”, che «infilzano l’impressione con la punta dell’ago dell’attimo» 154. Esso ci consegna le proprietà delle cose, senza permetterci di interrogarci su cosa esse siano al di là delle loro proprietà; il suo linguaggio, per essere coerente, do-vrebbe essere costituito appunto di soli aggettivi, come nella grammati-ca dell’emisfero boreale del mondo immaginario di Uqbar nel racconto di Borges, che non dice “luna”, ma una serie di aggettivi accostati.

Il mondo sostantivo dà il nome alla sostanza, integra questo lin-guaggio sensistico con concetti mitologici, inventando gli dei, gli spiriti, le forze, le cause, ma anche le cose, le singole cose, che sono tutte ipo-statizzazioni. Il mondo delle idee platoniche, immagini originarie delle

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cose, smascherate nel loro carattere apparente, irreale, è il paradigma filosofico di questo bisogno umano. L’errore di Platone è allora nella pretesa di farlo valere come l’unica immagine possibile del mondo; esso è invece pura parvenza.

Il mondo verbale congiunge le sensazioni mediante l’attività della memoria e le trasforma nel mondo del divenire, nel mondo fluente di Eraclito, descritto dalle parole come “passare”, “morire”, “godere”, “soffrire”, “causare”, “obbedire”. Nei Beiträge Mauthner aveva asse-gnato a questa categoria il carattere della finalità e dello scopo, nel Wörterbuch limita questa dimensione a una parte dei verbi allo scopo di inserirvi anche quelli che designano mutamenti nella natura. Da no-tare poi che non tutti i verbi appartegono al mondo verbale; l’esempio più pregnante è il caso del verbo essere (sein) che, secondo Mauthner, appartiene evidentemente al mondo sostantivo 155.

Egli conclude poi l’esposizione della voce “verbale Welt”, ultima delle tre nell’ordine alfabetico e nell’ordine della scrittura, assegnando all’estensione dell’aggettivo l’approccio artistico al mondo, all’estensione del sostantivo il mistico, all’estensione del verbale la scienza. Preoccu-pato che questa partizione potesse apparire come una trinità di mondi accostati l’uno all’altro, Mauthner ribadisce che il mondo ci è dato una volta soltanto, ma che questo unico mondo può essere visto come una somma di impressioni sensoriali oppure come un ordinamento di cose oppure come una serie di mutamenti e – così conclude nel suo ultimo scritto Die drei Bilder der Welt – ciascuno di questi mondi costituisce una cosa in sé per gli altri due 156, senza che sia possibile tradurre i tre linguaggi l’uno nell’altro o sovrapporre queste immagini per raggiun-gere una concezione unitaria del mondo.

Nella voce “Als ob” della seconda edizione del dizionario il nome di Mach ricompare tra gli esponenti di quella che egli chiama Philo-sophie der Fiktion, che possiamo tradurre con una leggera forzatura con “filosofia della finzione”, tenendo presente che il ricorso a questo termine con etimo latino indica il carattere creativo e inventivo del conoscere, piuttosto che il travisamento di una verità, peraltro dichia-rata inesistente. La denuncia dell’inganno del linguaggio, che si articola nell’affermazione del carattere illusorio del conoscere e nella negazione dell’esistenza di una cosa in sé che ci assicuri l’omogeneità dei fenome-ni, la conseguente impossibilità di fondare i valori e la radicalità di una religione senza dio sembrano legare insieme i nomi che egli cita: oltre a Mach, Steinthal, Lange, Laas, Vaihinger, Forberg e Nietzsche.

Nel caso di Vaihinger si tratta piuttosto di una conferma che di una fonte 157. Lo studioso di Kant aveva elaborato una filosofia che ha molti punti di contatto con quella del nostro autore: il pensiero umano viene trattato alla stregua dei processi biologici naturali come un insieme di azioni e reazioni dell’animo a carattere finalistico e sog-gette all’evoluzione: il nostro organismo, immerso in un complesso di

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sensazioni contraddittorie e soffocato dalle spire di un mondo esterno a esso ostile, produce e inventa, per sopravvivere, artifici del pensiero che danno vita, accanto all’arte della logica pura, a forme indirette, meno nitide e rigorose, spesso contraddittorie rispetto al dato e in sé stesse, ma di innegabile valore euristico. La scala dell’artificiosità va, come scrive anche Mauthner, dalle finzioni massime della morale alle finzioni minime della scienza, ma l’intero mondo delle nostre rappre-sentazioni è affetto dalla soggettività e non è certo destinato a diventare un’immagine immediata dell’essere.

Particolare interesse è dato alle finzioni simboliche o analogiche, che vengono analizzate con argomenti molto simili alla teoria della me-tafora di Mauthner. In modo affine alla creazione poetica e mitica il procedimento analogico si costituisce nell’appercezione di una nuova intuizione da parte di una funzione rappresentativa nella quale esiste una relazione simile, una proporzione analoga a quella della serie già osservata delle sensazioni 158. Il pensiero elabora cioè simboli o immagi-ni che non intendono riprodurre la realtà al modo di uno specchio, ma introduce in essa forme di comparazione e connessioni che ne intessono i fili dispersi 159.

Vaihinger si rivela vicino a Mauthner anche nell’uso delle metafore che descrivono la funzione provvisoria dei concetti-finzione (non la loro falsità che sarebbe espressa da immagini come gli occhiali colorati o lo specchio deformante, immagine quest’ultima che troviamo invece in Mauthner). Egli sostiene che tutto ciò che incontriamo nella vita quoti-diana e nella scienza e che va sotto il nome di conoscenza è un insieme di gusci vuoti; rovescia così il senso della critica di Herbart all’apriori kantiano come guscio vuoto e afferma la validità puramente strumen-tale di tali gusci, che si rompono quando non servono più, quando il fine viene raggiunto 160. Definisce i concetti anche come «cerniere» che chiudono provvisoriamente la combinazione delle sensazioni 161, oppure come «pezzi di ricambio» del meccanismo del pensiero 162. Un’altra metafora suggerisce l’idea che tra mondo interno e mondo esterno vi sia una zona di permutazione, dove i valori dei due mondi sono illu-soriamente assimilati gli uni a quelli dell’altro, «dove è reso possibile un vivo scambio fra i due e dove la sottile carta-moneta dei pensieri è scambiata nelle pesanti monete della realtà, dove, viceversa, il metallo della realtà viene dato in cambio di quella merce leggera, che ha reso possibile lo scambio. […] Poiché si è posseduta molta carta-moneta falsa, si sono introdotte furtivamente molte idee false, che non pos-sono essere trasformate in valori materiali; non è senz’altro sufficiente tener conto del valore nominale della carta, ma si deve far riferimento all’aggio sull’oro, che essa può fare» 163.

Nonostante quindi le vie del conoscere e quelle dell’essere siano eterogenee, si possono ottenere risultati che permettono di orientar-ci 164. A questo proposito sono interessanti alcune note di Vaihinger

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sul fatto che nel flusso della percezione ricorrano determinate forme strutturali che hanno «una certa, precisa coloritura» che ci permette di fissare gli oggetti come sostanze, come cose con delle proprietà. Non vi sono cose senza proprietà né proprietà senza cose: il concetto di zuc-chero è una finzione, il concetto di bianco è altrettanto una finzione, ma “lo zucchero è bianco” è un fatto. Il complesso qui ricomposto permette in qualche modo il passaggio dal pensiero che sembra opera-re per perifrasi alla prassi della comunicazione che richiede la finzione, l’errore della sostanza. Mauthner preferisce un esempio diverso: “lo zucchero è dolce”; con questo risulta forse più chiara la distinzione tra il riferimento alla sensazione di dolce e la «regola del gioco» del linguaggio che chiama dolce e la sensazione e lo zucchero, mentre nella nostra coscienza non troviamo altro che la sensazione di dolce 165. La conclusione del nostro autore assume anche in questo caso una colo-ritura più scettica, che nega non solo la possibilità della comprensione del mondo, ma anche la sua conoscenza.

4. La teoria della metafora

Nella critica del linguaggio non poteva mancare la disamina della tesi di Aristotele, che Mauthner presenta con l’accusa di voler spiegare il linguaggio figurato della poesia dal punto di vista logico, risolvendo ogni metafora nella proporzione matematica, completa o incompleta. La seduzione poetica consisterebbe allora nel lasciar indovinare uno o due membri, e qui l’autore accenna agli esiti barocchi di questa im-postazione e non risparmia dell’ironia a proposito dell’esempio della coppa come scudo di Dioniso 166. A differenza però di tutti gli altri luoghi nei quali il nostro autore accenna o tratta del filosofo greco e, nonostante la conoscenza superficiale dei suoi testi e della letteratura critica, che gli verrà rimproverata dai recensori del libriccino polemico su Aristotele del 1904 167, qui il nominalista si sofferma sulla teoria aristotelica e prende sul serio la sua analisi concettuale.

Non solo il problema gli appare cruciale per l’esito della sua analisi critica, ma egli ha anche a disposizione una serie di studi filologici e filosofici, apparsi in quegli anni in Germania, che convergono nella tesi del carattere essenzialmente metaforico della parola proprio a parti-re dalla disamina della tesi dello stagirita. Nella lettura di Aristotele Mauthner utilizza ampiamente il testo di Alfred Biese, Die Philosophie des Metaphorischen, che era stato pubblicato nel 1893, e la sua biblio-grafia che comprende il lavoro di Kurt Bruchmann, Psychologischen Studien zur Sprachgeschichte (1888), e l’importante libro sui tropi di Gustav Gerber, Die Sprache als Kunst (1871, seconda edizione 1884), che il nostro autore invero non cita mai, anche se rivela sorprendenti analogie con le sue conclusioni.

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La prima mossa del nostro autore consiste nel sottolineare in Ari-stotele l’uso del termine “metafora” come titolo generale dei tropi. Anche Biese aveva ravvisato in questo un merito del filosofo greco, nell’aver riconosciuto cioè anche nella metonimia e nella sineddocche il momento della Übertragung, del trasferimento. Su questo Mauthner è decisamente d’accordo: Aristotele – scrive – parla greco e per metafora intende “traslato”, non un termine tecnico secondo la classificazione della retorica latina. Il problema è solo apparentemente una questione di termini ed è stato più volte rilevato nella storia della teoria della metafora: l’ambiguità dell’uso aristotelico che chiama “metafora” sia la figura come tale, il tropo, la trasposizione di un termine, sia la me-tafora in senso stretto, la figura retorica della somiglianza, rivela un interesse per il processo stesso della trasposizione e estende l’indagine dal nome a tutte le entità del linguaggio portatrici di senso 168. Tale ampliamento permette di individuare nella teoria aristotelica qualcosa di più dell’analisi di un semplice meccanismo di sostituzione, che è alla base della concezione della metafora come ornamento retorico o poetico, e di coglierne invece una dimensione gnoseologica, di sta-bilirne il valore semantico. Naturalmente le riflessioni novecentesche sulla metafora approfondiranno questo approccio facendo ricorso agli sviluppi della logica e della linguistica, ma molte intuizioni e riflessioni erano già state formulate in queste letture di fine Ottocento. Questa prima affermazione di Mauthner sembra quindi cogliere bene lo spirito dell’indagine di Aristotetele, ponendosi immediatamente sul piano del lovgo" semantico o linguistico 169.

Il punto di partenza di Aristotele era, quindi, la definizione della metafora come ejpiforav, come trasferimento dal linguaggio ordinario, normale, consueto (parola come kuvrion) a un uso sempre più alterato (Morpurgo-Tagliabue scrive: al limite). La traduzione di kuvrion è stata a lungo discussa nella storia dell’interpretazione e la resa con “termine proprio” aveva accentuato l’opposizione con “figurato”, ma nel contesto di una teoria che tende a escludere qualsiasi termine “proprio” il pro-blema di cosa intendesse il filosofo su questo punto non viene nemmeno affrontato. A Mauthner interessa invece il processo di associazione che sta alla base del traslato.

Nella Poetica, però, il criterio della classificazione è, almeno all’ini-zio, quello della sostituzione: l’uso più ordinario è quello di ricorrere a un termine generico per un fatto specifico o di impiegare termini di specie per concetti di genere. Nonostante compaia già qui un processo di confronto logico-intuitivo 170, questo diviene più esplicito con la metafora da specie a specie, come esempio della quale Aristotele cita due versi di Empedocle: «con la spada di bronzo avendogli attinta la vita» (come si attinge da una fonte con una tazza), e «con la tazza di indistruttibile bronzo avendo reciso l’acqua» (come con una spada) 171. Infine la metafora per analogia: si chiamerà perciò la coppa “scudo di

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Dioniso” e lo scudo “coppa di Ares”, oppure: la vecchiezza “sera della vita”; secondo la proporzione tra due rapporti. Questo accostamento è importante – spiega Mauthner – per chiarire la differenza tra la meta-fora che pone il rapporto in modo immediato e la similitudine che si esplicita nel “come”. Vi sono similitudini complesse – continua – che diventano sprone per una fantasia poetica, come quella omerica, che dimenticano il paragone di partenza e procedono oltre, e similitudini in senso stretto; esse si basano su tre termini, come nel caso di “capelli neri come il carbone”, che egli chiama “regola del tre”. Il tertium comparationis è ancora un’altra cosa e si riferisce a un concetto più generale, al colore, nel caso dei capelli e del carbone, all’attributo, nel caso della coppa di Dioniso e dello scudo di Ares.

La metafora quindi, a differenza della similitudine, è un paragone di due rapporti, nel qual viene tralasciato il concetto più comune. Nell’esempio di Mauthner “la prudenza è la madre della saggezza”, la saggezza si rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre; il tertium comparationis è che la madre abbia procreato la figlia. Si potrebbe anche pensare che la figlia sia simile alla madre oppure che sia obbe-diente, ma noi non lo pensiamo. L’autore individua qui un punto es-senziale della teoria aristotelica: la cogenza dell’immagine. Anche Biese sottolinea questo momento dell’immagine e afferma esplicitamente che Aristotele ha riconosciuto l’essenza del metaforico nell’analogia, nella proporzione, nella relazione tra due rapporti offerta all’intuizione e chiama Veranschaulichung questa visualizzazione che egli, come vedre-mo, estenderà a tutti i processi dello spirito umano.

Questa impostazione va quindi molto oltre il criterio della sostitu-zione, della cui insufficienza lo stesso Aristotele si era già reso conto nella Poetica, quando aveva aggiunto una metafora più poetica (detto del sole: «seminando la divina fiamma») e la possibilità di negazione di una proprietà della parola estranea: lo scudo come coppa senza vino (estraneo ad Ares). Ma ciò che più importa è che la posizione di Aristotele si approfondisce nella Retorica, dove l’accento è spostato – seguo la lettura di Morpurgo-Tagliabue – sulla densità del significato, sull’icasticità, sull’evidenza. Ad Aristotele non interessa l’uso ordinario del nome, la catacresi; egli non indaga l’origine del linguaggio nel senso che sarà di Mauthner, ma approfondisce la metafora come ajstei'on, come eloquio eminente, urbano, vivace e arguto. Le metafore sono allora «tanti piccoli veloci sillogismi» 172, sillogismi retorici che egli chiama entimemi 173; nella trattazione della metafora però l’accento è posto non tanto sul contenuto, ma sull’operazione stessa, sulla necessità di una comprensione immediata, facile e veloce 174. L’ordine della nuo-va classificazione dei tipi di metafora risulta allora rovesciato rispetto alla Poetica e il criterio diverso: «le metafore ajstei'a non vengono più presentate come processi sostitutivi di generi e specie, ma come pro-cessi associativi: di concetti, di immagini, di parole» 175. Ne risulta in

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primo luogo la maggior efficacia rispetto alla similitudine che esplicita nel “come” la relazione tra i termini e si prolunga nel paragone. Nel-la nuova rassegna la “metafora-concetto” – corrispondente al quarto tipo della Poetica, l’analogia o proporzione, strutturata per corrispon-denze e antitesi – viene poi distinta da una metafora «più semplice e tuttavia assai felice» 176, la “metafora-immagine”, che naturalmente può addizionarsi alla prima. In questo caso non avviene una semplice sostituzione, e nemmeno si tratta di una similarità indefinita: vengono accostati a sorpresa alcuni aspetti dell’attributo. Essa consiste quindi nel mettere sotto gli occhi (pro; ojmmavtwn poiei'n) le cose in atto, il che può voler dire che esse devono essere viste come presenti o in procinto di accadere, ma può anche significare che esse sono animate, e[myuca, personificate.

A questa estensione del significato corrisponde in Biese l’impor-tanza data alla dimensione del processo metaforico, inteso come «la sintesi dell’interno e dell’esterno, l’interiorizzazione dell’esterno e l’in-carnazione dello spirituale», non solo nel linguaggio, ma in genere in tutta l’attività simbolica 177. La Veranschaulichung diventa presentazione di qualcosa di vivente (o di morto) in atto, animazione dell’inanimato, analogia tra interno ed esterno che ci costringe a trasformare il mo-vimento esterno in un supposto movimento interno allo spirito e a trasferirlo poi alle cose, dando vita alla materia inerte. Sarebbe allora implicita nella teoria aristotelica la possibilità di intendere la metafo-ra come un processo essenziale e necessario dello spirito umano che trasforma la realtà secondo le proprie leggi, facendo principio del co-smo l’unità di psichico e fisico che sente in sé stesso e che trasferisce dall’interno all’esterno, dall’animato al corporeo, dal microcosmo al macrocosmo 178. Così l’assunto di fondo dell’estetica di Vischer che il vedere – qui, il vedere con gli occhi dell’artista – non possa essere se-parato dall’animare, che tutti i mezzi della visualizzazione portino alla personificazione, diviene un criterio generale per affermare il carattere antropomorfico del linguaggio.

Alla base di questa concezione del mondo sta l’idea che il linguaggio sia interamente simbolico: «la parola – scrive Biese – è immagine sen-sibile della vita interiore, copia di ciò che viene sentito, immagine so-nora (Lautbild) dell’immagine della rappresentazione» 179. Subito dopo cita Gerber: «tutte le parole sono immagini sonore (Lautbilder) e sono rispetto al loro significato in sé e dall’inizio dei tropi» 180. Avviene in questo modo un doppio allontanamento dalla cosa: la sensazione non accoglie la cosa, anche se la determinatezza dello stimolo è in contatto con essa, ne è soltanto l’immagine; il suono pronunciato, a sua volta, è immagine sonora della rappresentazione, e un’immagine non è un raddoppiamento dell’originale, ne riproduce solo i tratti essenziali.

Mauthner parla a sua volta della parola come immagine di immagine, come metafora che può condurre solo ad altre metafore. Rimaniamo

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imprigionati all’interno dell’immagine; ciò che noi sappiamo del mondo esterno – scrive Mauthner altrove – è sempre un simbolo, una metafora che non può raggiungere il tertium comparationis, come in un ballo in maschera in una città sconosciuta, riconosciamo di avere davanti delle maschere, ma non chi le indossi (aggiunge: e dobbiamo far attenzione qui anche al significato di “riconoscere”) 181. Nel prendere le distanze dagli altri autori che elaborano un’interpretazione molto vicina alla sua, Mauthner accentua così il carattere scettico della sua posizione. Egli non condivide i presupposti psicologici di Biese che, a suo dire, rimangono legati alla teoria delle facoltà dell’anima, né i suoi esiti ontologici. Non cita però Gerber: forse non coglie nemmeno questo riferimento di Biese, forse non accetta la classificazione dei tropi di Gerber 182, certo non può aderire alla sua concezione schopenhaueriana ed estetica del linguaggio come arte 183. Cita però curiosamente un’affermazione di Kurt Bruch-mann che, dopo il riferimento alla metafora per analogia in Aristotele, conclude: «allora quasi tutto il linguaggio sarebbe analogia o metafora»; Bruchmann aggiunge però: «quest’ultima tesi la sostiene G. Gerber» 184. Mauthner sorvola su quest’ultimo riferimento e, pur apprezzando la spiegazione psicologica di Bruchmann, protesta contro il “quasi”: la reticenza di Bruchmann a considerare il linguaggio come essenzialmente metaforico deriverebbe dal residuo metafisico e teleologico contenuto nel principio di minima misura della forza del suo maestro Avenarius che farebbe ancora uso dei concetti di forza e di intenzione.

La posizione di Mauthner appare più chiara se si considera l’atteg-giamento che egli assume nei confronti di Friedrich Nietzsche, lettore di Gerber, del quale ripete, in Wahrheit und Lüge, con parole identi-che e con gli stessi esempi, la teoria della parola come metafora 185. Mauthner sembra non conoscere questo saggio apparso nel 1896; nei Beiträge le sue citazioni sono tratte quasi tutte dal volume xii delle opere curate da Koegel. Egli però riconosce più volte l’importanza di Nietzsche nella sua formazione in relazione alla concezione evolutiva degli organi di senso, all’idea di una selezione arbitraria dei dati da parte dei sensi, al concetto di caso nello sviluppo della storia e cita un passo di Menschliches, Allzumenschliches, l’aforisma 11, “il linguaggio come presunta scienza”, che – egli afferma – esprime «quasi» un suo pensiero di fondo 186: l’idea di porre con il linguaggio un mondo ac-canto al mondo, l’illusione di avere nel linguaggio la conoscenza del mondo, la fede nella verità trovata, la credenza nell’assolutezza della logica e nella precisione della matematica. Solo oggi – scriveva Niet-zsche – comincia a balenare il dubbio che con la fede nel linguaggio si sia propagato un mostruoso errore, «fortunatamente è troppo tardi perché ciò possa far tornare indietro lo sviluppo della ragione, che poggia su quella fede» 187. Mauthner commenta con un gioco di parole: Nietzsche riveste le parole del linguaggio con i segni della regalità, ma pone nuda sul trono la cosiddetta ragione, cioè il linguaggio stesso 188;

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prosegue poi rimproverando a Nietzsche, troppo pensatore e troppo poeta, di aver limitato la critica del linguaggio all’ambito morale, di non averla estesa al linguaggio come strumento di conoscenza e, infine, di essersi limitato a lamentarne l’inefficacia espressiva, vale a dire l’unica cosa che il linguaggio, a suo dire, sa fare. L’accusa potrebbe apparire ingiustificata anche soltanto alla lettura dei testi citati da Mauthner, dove l’uso «strategico» della metafora rivela l’intenzione decostruttiva della scrittura nella moltiplicazione dei punti di vista, addirittura para-dossale se si ripercorre, sotto la guida della lettura di Sara Kofman, il crescendo delle metafore di Wahrheit und Lüge 189. Mauthner si rende conto che la sua tesi fondamentale deve molto a Nietzsche, ma nell’af-fermare la necessità di tenere rigorosamente distinti il linguaggio come strumento di conoscenza dal linguaggio come strumento artistico 190, il lavoro filosofico dalla poesia, formula un appunto critico importante (un timore che egli nutre forse anche per la propria opera) ricordando come Nietzsche rimanga ingabbiato nell’incantamento del linguaggio.

Mauthner non si è accorto che in Aristotele avrebbe potuto trovare anche qualcosa d’altro. Nei capitoli x e xi della Retorica, alle prese con la classificazione degli ajstei'a, Aristotele aveva individuato infatti, accanto alla metafora concettuale per analogia e alla metafora eidetica, un terzo gruppo di metafore che Morpurgo-Tagliabue chiama “metafo-re verbali”: «un mero scambio di termini, un gioco di parole, che crea sensi e non sensi e provoca sorpresa» 191. La proprietà di questo tipo di metafore è di essere elocuzioni a effetto (ejudokimou'nta) e la capa-cità di sorprendere, implicita in ogni tipo di metafora, prende forma dall’«inganno spiritoso» 192, dall’ajpavth, che non è precisamente una falsità, e implica – come già aveva notato Untersteiner 193 – un piacere, un compiacimento da parte di chi si lascia ingannare. La seduzione deriva dall’equivoco, dal paradosso, dal doppio senso, dall’aforisma, in breve: dal gioco del linguaggio con sé stesso. Morpurgo-Tagliabue ne indica il principio nell’ambiguità verbale, origine di una tradizione estetica e poetica che, attraverso gli asiani, i provenzali, i barocchi, giunge alle poetiche odierne e arriva fino a Finnegans Wake 194.

Mauthner, senza riferirsi alla fonte greca, fa della metafora verbale il perno della sua analisi della parola 195, affermando che alla base di ogni cambiamento di significato sta il Witz, il motto di spirito, l’arguzia 196. L’indicazione della sua pretesa conoscitiva viene giustificata etimologi-camente: Witz – scrive – deriva da wissen e nel medio alto tedesco ha l’esclusivo significato di Verstand e alcune parole composte ne conser-vano ancora il significato: Muttertwitz (senso comune), Aberwitz (follia, mancanza di buon senso), Wahnwitz (follia, assurdità), Vorwitz (sac-centeria). Lutero lo intende così e questa accezione si trova ancora in Lessing e Goethe; solo nel corso del Settecento la parola ha assunto il significato del francese esprit e designa un’attitudine umoristica oppure le sue singole espressioni e nella lingua studentesca si è degradata fino

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a significare “barzelletta” 197. Mauthner ne spiega il significato come capacità di cogliere nessi inediti: «ogni metafora è arguta (witzig). La lingua attualmente parlata da un popolo è la somma di milioni di Wit-ze, è la raccolta delle pointe di milioni di aneddoti, la storia dei quali è andata perduta» 198. Più avanti usa il termine Wippchen, scherzo, sber-leffo, che accentua la mancanza di senso. Se le parole tengono ferme le somiglianze vicine, il mutamento semantico consiste nell’estensione del concetto, metaforica o witzig, alle somiglianze più lontane. E queste somiglianze sono più evidenti a chi ne è estraneo piuttosto che a un conoscitore: per gli europei – commenta – i Cinesi sono tutti uguali, per il cittadino tutte le mucche, per lo straniero tutti i membri di una famiglia 199.

Con questo l’autore non vuole certo darci una legge assoluta e precisa, né sostenere che in tutti i mutamenti semantici sia presente un Witz oppure una componente iperbolica ed esagerata, legata alla trasposizione del concetto e condensata nell’esempio curioso: “wenn Blaubeeren grün sind, sind sie rot” 200. Egli anzi sostiene che il lin-guaggio prende spesso vie secondarie o scorciatoie, che ci fanno con-tinuamente oscillare tra la presenza e l’oblio del significato metaforico: «dietro di noi rovine, davanti a noi costruzioni nuove, con noi la casa in cui dimoriamo; dietro di noi una lingua morta, davanti a noi il sentore di nuovi concetti, con noi un ondeggiare e un intrecciarsi (ein Wogen und Weben) di metafore, che stanno per diventare parole senza senso e quindi utilizzabili» 201.

Nel delineare il processo di progressivo oblio del valore metaforico delle parole Mauthner fa spesso riferimento ai paragrafi sul Witz della Vorschule der Aesthetik di Jean Paul Richter e cita più volte l’afferma-zione che «ciascuna lingua, sotto l’aspetto delle relazioni intellettuali, è un vocabolario di metafore sbiadite» 202. Ma nel nono programma della Vorschule Mauthner ha potuto trovare ancora molto altro: in primo luogo un fondo di idee e di immagini, un’affinità di stile nel pensiero asistematico e nella scrittura che procede senza un preciso ordine di inventario, con giochi di prestigio, ritorni rapsodici e riferimenti a volte oscuri, fitta di dettagli minimi e di giochi linguistici. Ladislao Mittner racconta del suo scrivere a getto continuo, del riempire mi-gliaia di schede su tutto quanto riuscisse a leggere da autodidatta, nel tentativo di prendere possesso di ogni sfumatura del reale, ma la sua scrittura ci fornisce, al posto di un catalogo del mondo, uno schedario impossibile da consultare. In questo specchio frantumato dell’estetica romantica, che affida alle metafore dell’umorismo e del Witz il compito di un’improbabile sintesi, il filosofo della parodia ha reperito gli spunti principali della sua concezione del linguaggio.

Richter parte dalla premessa che definisce l’arguzia nel senso più ampio come «l’arte in sé del paragonare (Vergleichen)» 203: il primo e più facile paragone tra due rappresentazioni è già arguzia, parto mi-

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racoloso (Wunderbegurt) del nostro io creatore, invenzione senza me-diazioni, genialità frammentaria, come aveva scritto Schlegel; scopre rapporti di somiglianza tra grandezze incommensurabili, somiglianze tra il mondo dei corpi e il mondo degli spiriti, l’equazione tra sé e il mondo esterno, pertanto tra due intuizioni. In questo contesto già Richter aveva indicato la parentela tra Witz e wissen, il significato di Witz come genio e aveva elencato i sinonimi nelle diverse lingue: Geist, esprit, spirit, ingeniosus, legando in maniera molto stretta facoltà cono-scitiva ed espressione linguistica 204.

Invero Jean Paul inizia l’esposizione del Witz citando l’antica de-finizione aristotelica secondo la quale l’arguzia sarebbe il potere di trovare somiglianze lontane e la critica come generica e contradditoria in quanto suppone una somiglianza dissimile. L’argomento non sembra peraltro convincente e lascia intravedere una sorta di puntiglio lessi-cale, ma egli procede subito oltre; la natura decostruttiva del suo stile argomentativo gli impedisce di riposare in una determinazione precisa, gli fa pensare subito alla possibilità di un motto di spirito nel quale la somiglianza diventa eguaglianza e l’eguaglianza diventa eguale a sé stessa nel circolo arguto (esempio: limare la lima del critico). Torna poi di nuovo al concetto, riconosce che l’arguzia sa scovare somiglianze che si celano dietro alle dissimiglianze e risolve la definizione con la fa-mosa metafora: l’arguzia in senso stretto è il «prete travestito che sposa tutte le coppie» 205. Non coppie qualsiasi perché la componente este-tica non si presenta in ogni accostamento casuale, essa nasce «grazie alla rapidità dei giochi di prestigio e di parole esibita dal linguaggio, il quale è così abile da riuscire a spacciare somiglianze d’un mezzo, un terzo, un quarto, per vere e proprie eguaglianze grazie a un solo segno e predicato comune» 206. Questa posizione di eguaglianza pren-de il genere per la specie, il tutto per la parte, la causa per l’effetto e viceversa, è – scrive – «una truffa (Volteschlagen) del linguaggio» 207, l’inganno del tropo.

Fin qui eravamo però nell’ambito della trattazione del Witz non figurato (unbildlich), che accosta quindi senza somiglianza di immagine (un esempio dello stesso autore è: “le donne e gli elefanti hanno paura dei topi”), ma in questo capitolo Richter inserisce anche la trattazione della metafora, che egli intende come Witz figurato (bildlich), dove la fantasia ha un ruolo preponderante rispetto all’intelletto, e alla truffa subentra la magia. È stato notato che il passaggio dal motto di spirito alla metafora o addirittura la loro coincidenza non sono spiegati in modo persuasivo, ma è proprio questo scarto argomentativo che serve a Mauthner per connettere metafora e Witz, per riproporre a un nuovo livello l’enigma del linguaggio sospeso tra maledizione e magia. Secon-do Jean Paul le metafore si avvalgono dello stesso potere misterioso che fonde l’anima e il corpo e che permette di riconoscere nei tratti di un volto l’espressione di un sentimento spirituale; egli le chiama «in-

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carnazioni della lingua (Sprachmenschwerdungen)» che in tutti i popoli si corrispondono: «e non vi è nessuno tra essi che chiami l’errore luce e la verità tenebre» 208. Certo, aggiunge, non vi sono segni assoluti, perché ogni segno è a sua volta una cosa e ogni cosa ha un significato e una valenza denotativa, ma l’argomento si conclude in un salto logico con l’immagine dell’isola degli spiriti circondata da un mare straniero che allude all’indicibile.

Accostata a Dio, la metafora viene definita da un crescendo di im-magini: «cintura di Venere», cordone ombelicale che lega lo spirito alla natura, «piccolo fiore poetico», espressione questa che dà origine a una divagazione sul profumo dei fiori, sull’olfatto e il gusto, e si conclude con «un’operazione di cambio»: «com’è bello scoprire dunque che le metafore, queste transustanziazioni dello spirito, sono eguali ai fiori, i quali regalano al corpo una grazia così pittorica, ma anche allo spirito, quasi come colori spirituali, come spiriti in fiore» 209. La metafora è un doppio tropo 210 che può animare il corpo o incarnare lo spirito, è allora la parola primitiva che univa l’io e il mondo, precedente l’espres-sione propria.

La collocazione centrale del Witz nel programma poetologico di Jean Paul e la considerazione della metafora sotto il titolo di bildliche Witz capovolge il rapporto stabilito dalla tradizione tra i due concetti (Kant nell’Anthropologie lo aveva considerato semplice condimento e lo aveva contrapposto alla serietà del giudizio 211), conferisce al Witz la capacità estetica, ma anche cognitiva – che collega acume (Scharfsinn) e profondità di pensiero (Tiefsinn) – di cogliere nella trama del sensibi-le, negli infiniti accostamenti possibili, l’immagine pertinente, il colore giusto: «di solito – scrive – è attraverso la metafora che si trova la via del paragone» 212. La magia della metafora rimanda all’unità originaria di materia e pensiero che perpetua nel linguaggio l’eco delle cose; la sua potenza non deriva da un mondo di idee sovrapposto all’io, «quasi un secondo mondo al di là del primo», un mondo dato «una secon-da volta» (un’espressione che abbiamo trovato anche in Mauthner). La «monade della metafora», come ha scritto Eugenio Spedicato che sottolinea questo riferimento leibniziano 213, esclude materialismo e idealismo, esterno ed interno; le sue capacità combinatorie considera-no reale ogni pensiero e fantasia, così come – afferma Jean Paul – un arcobaleno.

Un’ulteriore conseguenza della trattazione della metafora-Witz in questa parte del Proscholium, è l’accostamento al comico romantico, all’umorismo, definito come sublime alla rovescia, intuizione geniale che avvia nella teoria estetica la riflessione sui modi disarmonici del bello, incapace ormai di trascendersi nel sublime, poiché il sublime stesso non ne rappresenta che un momento, che immediatamente si rovescia nel suo contrario, senza possibilità né di anelito verso l’infi-nito, né di mediazione 214. In questo modo però la riflessione estetica

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di Jean Paul assume un significato metafisico e teologico, come appare dall’affermazione secondo cui, per ogni angelo che ride dell’uomo, c’è un arcangelo che ride di lui, e sopra tutti vi è un Dio che ride di tutto. La poesia deforma il mondo sensibile nello specchio concavo che essa rivolge verso l’idea, lo rende angoloso, allungato e sfilacciato, dipingendolo con i colori della fantasia e dell’arguzia, ma anche la filosofia mescola ragione e follia e il suo emblema è Diogene, che gli antichi chiamavano un Socrate forsennato 215. L’accostamento di ra-gione e passione serve a Richter per scoprire l’essenza dell’umorismo nella sua maschera tragica, che – scrive – egli porta «se non sul volto, nella mano» 216.

Mauthner, che considera Jean Paul più fine come critico che come scrittore di romanzi, riprende la teoria del Witz e dell’umorismo nelle voci del Wörterbuch che trattano questo tema. In particolare nella voce “Humor”, dopo aver ricostruito le «doglie del parto» della parola tede-sca, la storia della traduzione dell’inglese Humour con Laune da parte di Lessing e la successiva correzione, entra nel merito della distinzione di Richter tra umorismo e ironia. Contro la concezione romantica che confondeva i due termini e finiva col ridurre l’umorismo alla sempli-ce figura retorica dell’ironia, che finge di affermare quello che nega, Mauthner afferma, sulla scia di Jean Paul, la centralità di questo tema nella filosofia e il suo legame con il tragico. Non risparmia poi alcune critiche all’autore della Clavis fichtiana per esser rimasto troppo legato ai giochi romantici dell’ironia; lo stesso Goethe, che con la figura di Mefistofele si è molto avvicinato all’umorismo, non ha compreso che «la proprietà dell’umorismo, il riso dell'umorismo, lo può possedere soltanto un uomo; e Mefistofele non è un uomo» 217.

I temi di Jean Paul vengono trattati da Mauthner anche attraverso la lettura più sistematica che ne aveva fatto «l’estetico tedesco per ec-cellenza» 218, Friedrich Theodor Vischer. La sua indagine sul bello 219 si presenta da subito come teoria del sublime e del comico, modi di-sarmonici del bello che ne evidenziano la frattura e la sproporzione. L’impossibilità di trovare una qualsiasi figura genuinamente sublime che non si dissolva nel nulla, intaccata dal comico nelle sue diverse forme del comico ingenuo, del comico dell’intelletto, del Witz, e del comico della ragione, dell’umorismo, viene introdotta dalle metafore dello sgambetto, del naufragio, della bolla di sapone che scoppia. Il procedere hegeliano per triadi è un ordine apparente che nasconde una raffinata sensibilità estetica e una «disperazione speculativa» 220. Invero, per quanto riguarda il tema della metafora come Witz, Vischer rimette in ordine la partizione dell’estetica, sottolineando il carattere di inadeguatezza dell’immagine nel Witz e spostando la disamina della metafora nel capitolo sulla poesia. Quando però delinea i momenti del comico e afferma che l’umorismo giunge al cuore del mondo, cita le metafore di Richter che compendiano la descrizione del sublime rove-

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sciato nelle immagini di Merope, l’uccello che sale in cielo dalla parte della coda, e del saltimbanco che danza sulla testa e beve il nettare dal basso verso l’alto. L’umorismo dissolve allora nella derisione cosmica (un termine di Jean Paul) la stoltezza e la follia del mondo impersonata dalla figura di Don Chisciotte 221.

Mauthner, che apprezza più Vischer per il suo romanzo umoristico Auch Einer che per le sue partizioni sistematiche, traduce nel suo lin-guaggio i tre livelli del comico: il primo gradino, quello dell’umorismo ingenuo, non è – secondo lui – nemmeno umoristico; il secondo è quel-lo che possiamo gustare in Shakespeare, Swift, un po’ meno in Sterne, e anche in Jean Paul e Vischer; il terzo «non è altro che la concezione del mondo del tutto libera della mente veramente filosofica, il sacro riso del filosofo, la superiorità rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare dell’uomo, la rassegnazione di un grande cuore» 222.

L’umorismo resiste alla definizione: ci sono figure umoristiche, non l’umorismo 223; lo stesso Vischer – scrive Mauthner – che afferma come necessario il concetto di umorismo, riconosce che la sua realizzazione rimane un compito, che esso è soltanto «un postulato della teoria» 224. Rimane in ogni caso un termine della modernità: forse lo possedeva Socrate, ma i Greci non conoscevano l’umorismo e uccisero il loro unico umorista 225.

Da questo punto di vista non stupisce che Mauthner non potesse accettare la teoria del riso di Bergson, al quale dedica una specifica voce del Wörterbuch. Si tratta di un articolo nazionalistico e sciovinista, abbozzato nell’aprile e scritto nell’agosto del 1914, all’inizio della gran-de guerra, nel quale Mauthner chiama il filosofo francese – che aveva definito barbari i tedeschi – «sartino volenteroso della moda filosofica parigina» 226, giocoliere dei concetti, esempio della capacità francese (di alcuni francesi, invero: salva Poincaré, Voltaire e Anatole France) di intrattenere senza dire nulla. Ma è il saggio sul riso che più lo indi-spone, forse per la spiegazione del riso come gesto sociale che reprime le eccentricità, certamente per la sua riduzione al piano dell’intelletto, a meccanizzazione della vita, a resistenza della materia nei confronti dello slancio vitale, tutti concetti metafisici, secondo il nostro, che non gli fanno cogliere il tragico nel comico e gli fanno attribuire il comico nel don Chisciotte alla sbadataggine 227.

E il riso del filosofo supera poi, secondo Mauthner, anche l’umori-smo tragico del cavaliere dalla trista figura: il filosofo scettico ride di tutto ciò che vi è di sacro nella vita di tutti giorni, ma sa di appartene-re a questa quotidianità priva di eroi; si allontana dal mondo, ma non diventa un Übermensch 228, si accontenta di indicare il carattere witzig nel nostro linguaggio quotidiano. Lessing aveva usato per definire il Witz la metafora della stoffa cangiante: «una stoffa di cui non si può dire se sia azzurra o rossa, verde o gialla; che è tutte e due, che da questo lato appare così, dall’altro appare in modo diverso; un gioco

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della moda, un divertimento per bambini». Esattamente la stessa me-tafora che Fontane ha usato per descrivere Mauthner 229.

Questo lavoro è stato svolto nell’ambito della Scuola superiore di studi di filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”, dell’Università dell’Aquila e dell’Università della Tuscia-Viterbo.

Ringrazio il prof. Luigi Russo per aver accolto questo studio nella collana da lui diretta.

Ringrazio inoltre la prof. Gianna Gigliotti che ha seguito con rigore e de-licatezza lo svolgersi della ricerca. Un grazie anche al prof. Luigi Perissinotto per avermi suggerito il tema, alla prof. Lia Formigari per alcune importanti indicazioni teoriche sui temi dello psicologismo e della linguistica, al prof. Elio Franzini per i consigli sul taglio della ricerca, al prof. Luigi Ambrosiani per la revisione della traduzione.

Ringrazio infine il prof. Alessandro Cavagna per i suggerimenti sullo stile dati con autorevole leggerezza. Un grazie infine a mia figlia Maddalena.

Dedico questo studio al mio amico Ugo Ischia perché, credo, gli sarebbe piaciuto, e ne avrebbe riso.

1 Lettera a Otto Brahm, 3 dicembre 1893, in Fontane 1910, pp. 312-13.2 Pochi sono gli studi dedicati a questo autore in Italia: Albertazzi 1986 e Mastroddi

2002. Alcuni passi dei Beiträge sono stati tradotti in italiano da Michela Mastroddi nel sito di “Dialegesthai”. Recentemente sono stati tradotti da Luciano Franceschetti anche i primi due volumi dell’Ateismo e la sua storia in Occidente per il sito dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.

3 Un’analisi dettagliata dell’attendibilità della ricostruzione autobiografica degli anni praghesi nelle Erinnerungen – iniziate nel 1913, ma pubblicate dopo la guerra, nel 1918 – si trova in Kühn 1975 che percorre analiticamente tutte le fasi della vita e del lavoro letterario e filosofico di Mauthner. Per il periodo di Praga cfr. anche Ravy 2004.

4 Mauthner 1918, pp. 32-33. Mauschel significa ebreo, giudeo in senso spregiativo.5 Mauthner 1918, p. 49.6 Ritchie Robertson attribuisce a Mauthner l’origine del “mito” del cattivo tedesco di

Praga; lo spiega come purismo linguistico oscurantista che si collega all’esaltazione dei dialetti tedeschi del mondo contadino e alla polemica contro il linguaggio del giornalismo, espressione della modernità giudaica; cfr. Robertson 2004.

7 Per un approfondimento del contrasto tra l’origine ebraica e la scelta nazionalistica cfr. Goldwasser 2004 e Robertson 2004.

8 Kleinseite è il nome tedesco di Mala Strana.9 Mauthner 1918, p. 72.10 Ivi, p. 73.11 L’uso del termine “ceco” anziché “boemo” ha una connotazione storico-politica: “boemo”

comprende il riferimento alle due lingue, “ceco” ha una connotazione esclusivamente etnico-linguistica; cfr. Ravy 2004, n. 20, p. 27.

12 Nel 1857 la popolazione della capitale boema era: 33,37% tedeschi, 55,92% boemi; nel 1869, 17,91% tedeschi, 81,50% boemi, nel 1900 la percentuale dei tedeschi scende a 7,46; cfr. Ravy 2004, p. 38, n. 45. Sugli ebrei a Praga nella seconda metà dell’Ottocento cfr. anche Le Rider 1994: all’inizio dell’Ottocento Praga sembra una città tedesca, parlano ceco solo i domestici e gli artigiani. Un secolo più tardi la parte tedesca è in netta diminuzione e nel 1900 il 40% della popolazione tedesca, ridotta al 7,5%, è costituita in gran parte da ebrei. Un numero crescente di ebrei si dichiara di lingua ceca, anche se continua a mandare i figli alla scuola tedesca. Anche la vita culturale vede ora una forte presenza ceca.

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13 Così si esprime Mauthner in un articolo di giornale del 1878, citato in Thunecke 2004, p. 83.

14 In un manoscritto datato 9 novembre 1922 (Zu Lebenserinnerungen ii) Mauthner ri-corda il redattore capo e il suo editore con giudizi taglienti sulla loro preparazione culturale; cfr. Betz - Thunecke 1984.

15 Il primo volume, con 17 parodie di scrittori e autori noti, raggiunge la diciottesima edizione già nel 1879, il secondo, scritto sull’onda del successo, arriva alla tredicesima edizio-edizio-ne dopo tre anni, nel 1902 esce il volume che contiene tutte le 22 satire. Nel 1923, anno della morte dell’autore, le edizioni sono circa cinquanta, cfr. Schneider 2004, pp. 105-06.

16 Bab, citato in Kühn 1975, n. 213, p. 175.17 Il conflitto tra il sentimento di identità ebraica e identità culturale tedesca è analizzato in

Weiler 1963 e Goldwasser 2004. Mauthner non nega la sua identità ebraica, la riconosce anzi come «ein Duktus im Gehirn», un ductus nel suo cervello (lettera a Landauer del 10 ottobre 1913), non tanto eredità biologica, ma caratteristica dello stile e richiamo alla tradizione intel-lettuale ebraica scettica ed eretica, costituisce insomma «un pezzo della sua critica» (Goldwas-ser 2004, p. 61). In un articolo, apparso postumo sul “Menorah Journal” nel febbraio del 1924, Mauthner si esprime però cautamente sulla connessione tra scetticismo e tradizione ebraica; richiama Spinoza, critico invero, ma non scettico, e Maimon, troppo minuzioso però e micro-scopico nell’argomentare; riconosce che forse vi è qualcosa di comune tra l’ebreo e la scepsi: forse proprio questa passione per l’argomentare atomistico che si arresta di fronte al sistema ma – conclude – tutto questo è comune anche a Nietzsche, più scettico di qualsiasi ebreo, e allo «scaldo» Ibsen che predica la menzogna (il testo si trova in Betz-Thunecke 1989).

18 Collabora anche con “Allgemeine Zeitung”, “Kölnische Zeitung”, “Schorer’s Famili-Famili-enblatt” e “Die Nation”, dirige dall’ottobre del 1889 la rivista “Deutschland” che confluirà (finisce per essere scritta quasi interamente da lui) alla fine dell’anno successivo nel “Magazin für Literatur”; cfr. Betz-Thunecke 1984-1985.

19 Cfr. Deft 1994 e Arens 2001. Per ricostruire il periodo berlinese sono particolarmente interessanti le lettere di Fontane: possediamo solo le lettere di Fontane a Mauthner, quasi nessuna di Mauthner a Fontane; datano dal 20 dicembre 1888 al 6 dicembre 1898 e riguar-dano le reciproche recensioni e la collaborazione alla rivista “Deutschland”. Gli argomenti del confronto sono i temi principali della cultura e della politica, le pubblicazioni, il teatro, le dimissioni di Bismarck, le critiche di Harden a Guglielmo ii, la riflessione insomma sul linguaggio della letteratura e della critica (un esempio interessante sono le considerazioni di Fontane sui discorsi del Kaiser come manipolazioni del linguaggio e della logica; cfr. Betz-Thunecke 1985, n. 293, p. 23). Emerge un giudizio accorto di Fontane sulla scrittura letteraria dell’amico, del quale apprezza lo stile scoppiettante e la forza satirica (in particolare in Xanthippe), ma ne rileva il pericolo di innescare una bomba che poi viene scagliata nella direzione sbagliata (lettera n. 9). Positive sono anche le recensioni da parte di Mauthner che pubblica l’anteprima di Stine di Fontane sulla rivista, ma le osservazioni critiche, spesso su elementi secondari (ad esempio l’uso dei nomi veri delle ditte berlinesi), sembrano celare un certo rancore che si esprimerà più esplicito nei ricordi più tardi. Le ultime lettere accennano ai mali del vecchio letterato e alla malattia agli occhi di Mauthner che ormai ha deciso di abbandonare l’impegno letterario e dedicarsi alla filosofia: «Ja die Philosophie!», commenta Fontane, e spera non si tratti di etica (che gli ebrei – come egli scrive altrove – sanno ben trattare solo per secondi fini, lettera n. 60 e note); cfr. Betz - Thunecke 1984-1985.

20 Hanna Deft suggerisce che il ricorso all’epistolario (anche nei periodi in cui i due non erano lontani e le lettere erano premessa dei colloqui diretti) fosse anche la condizione – per la mediazione della scrittura che evitava il confronto verbale e diretto – di questa lunga amicizia tra personalità così diverse: lo scettico melanconico e il visionario passionale, il sostenitore di Bismarck e l’anarchico, il fautore dell’assimilazione ebraica e il sionista della cultura, lo storico dell’ateismo e il rivoluzionario; cfr. Deft 1994, p. xiv.

21 Cfr. Kühn 1975, pp. 323-24.22 B i, p. xv. Le abbreviazioni usate indicano: B – Beiträge zu einer Kritik der Sprache,

Mauthner 1999; W – Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Mauthner 1997; 3BW – Die drei Bilder der Welt: Ein Sprachkritischer Versuch, Mauthner 1925; tra parentesi è indicato il numero della pagina della traduzione italiana.

23 Platone, Teeteto, 183b.24 Kühn 1975, p. 230.25 Maria Hedwig Luitgardis Straub (Emmendingen nel Baden-Würtenberg 1872 - Meers-

burg 1945); pseudonimo: Harriet Straub, scrittrice e giornalista.

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26 Richard Avenarius (Parigi 1843 - Zurigo 1896) è, con Mach, un esponente del-l’empiriocriticismo; è un filosofo relativista e radicale, che elabora una concezione funzionalistica di un sapere senza fondamenti. A Hedwig Straub e a Mauthner doveva senz’altro piacere la proposta di Avenarius di attenersi al punto di vista del filosofo greco che si reca al mercato non per vendere o per comperare, ma per contemplarne l’andirivieni. Ma non solo questo: Avenarius prendeva le mosse dall’assunzione del concetto di esperienza in senso molto largo, come l’insieme di asserzioni (Aussagen) degli individui sul loro ambiente, per poi procedere a una critica analitica; cfr. Avenarius 2004, pp. 3-5 (pp. 7-8). L’intendere l’esperienza in senso lato come “esperienza asserita” poneva sullo stesso piano la credenza superstiziosa, l’osservazione scientifica e la teoria filosofica, rivelando la relatività di molti concetti. Il procedimento di purificazione dell’esperienza doveva allora ricomporre una visione del mondo antecedente alle partizioni speculative che separano psichico e fisico. Mauthner nei Beiträge lo aveva citato più volte accanto a Mach e aveva notato il carattere passionale che sottendeva all’esposizione troppo astratta della sua teoria del conoscere; cfr. B I, p. 338.

27 W i, p. xvi.28 Ivi, p. cxxx.29 Ivi, p. 386.30 Un esempio la voce, piena di offese scioviniste, dedicata a Bergson, W i, p. 162 ss.31 Mauthner 1989, p. v (p. i).32 Cfr. Spörl 1997, p. 50 e Kühn 1975, p. 251 e p. 91 ss.33 L’eco del Faust di Goethe che protesta contro la sterilità della parola lascia intendere

il primato conferito all’azione: «im Anfang war die Tat», aveva concluso il mago, stanco delle astrattezze della cultura, ma in Mauthner si conclude ancora più radicalmente: «in principio era la parola, e Dio era una parola (Im Anfang war das Wort, und Gott war ein Wort)» (W ii, p. 19); per una bella analisi delle numerose ricorrenze di questa citazione in Mauthner e per un confronto con la concezione del linguaggio di Goethe cfr. Lüktenhaus 2004.

34 B i, p. 1 (p. 78).35 Ivi, pp. 1-2 (pp. 78-79) .36 Nella lettera a Elisabetta del Palatinato, in apertura dei Principia, Descartes accosta

al proposito di un filosofare con discorsi semplici e chiari, di dire solo ciò che è certo per esperienza o per ragione, una nota di leggerezza, dato che il libro non dovrà essere letto e compreso da un qualche vecchio gimnosofista, ma da una giovane e bella principessa (Weiler pensa si tratti di una dedica a Clara Levysohn); Locke: «tanto è difficile illustrare il vario significato e le molteplici imperfezioni delle parole, quando non abbiamo che parole per farlo»; Vico: «homo non intelligendo fit omnia»; Hamann a Jacobi: «capisci allora il mio principio del linguaggio della ragione, che cerco cioè di trasformare, con Lutero, tutta la filosofia in una grammatica?»; nella successiva lunga citazione di Jacobi la storia della filoso-fia viene descritta come un dramma nel quale ragione e linguaggio giocano il ruolo dei due Menecmi di Plauto e, uscita dalla catastrofe con Kant, non è ancora critica del linguaggio; Kleist: «l’idea viene nel parlare».

37 Katherine Arens, con queste stesse motivazioni, definisce lo stile di Mauthner “im-pressionistico”, pittura delle sensazioni soggettive che mutano a ogni nuovo punto di vista e distruggono la consistenza della cosa in sé. In questo senso la definizione di ‘espressionismo’ non mi sembra contrapposta; cfr. Arens 1984, cap. i.

38 Per fare soltanto un esempio, Mauthner definisce la sua concezione con le parole se-guenti: un misticismo saldo e vicino alla terra insieme a una scepsi distaccata e serenamente celeste (B I, p. XV).

39 I primi contatti tra Mauthner e Hugo von Hofmannsthal (Vienna 1874 - Rodaun 1929) risalgono al 1892, ma lo scambio epistolare inizia dopo l’ottobre del 1902, dopo la pubblica-zione della Lettera, e si conclude nel 1912 per una serie di incomprensioni.

40 Hugo von Hofmannsthal 1980; cfr. il capitolo “La ruggine dei segni. Hofmannsthal e la Lettera di Lord Chandos” in Magris 1984.

41 Il poeta aveva risposto: «i miei pensieri hanno preso una strada simile, talvolta entu-siasmati, altre volte angosciati dalla metaforicità del linguaggio», lettera a Mauthner del 3 novembre 1902 (Stern 1978).

42 Al di là dell’inutile questione della priorità, altri passi del Nachlass, riportati da Stern, mostrano espliciti riferimenti di Hofmannsthal alla critica del linguaggio di Mauthner; un esempio soltanto: «il libro di Mauthner è ora qui come un grido… moriamo e non arriviamo ad alcun risultato» (non datato).

43 Christian Morgenstern (Monaco di Baviera 1871 - Merano 1914) ottenne la fama con

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i Galgenlieder (Canti patibolari), pubblicati nel 1905. Al cinquantasettesimo compleanno di Mauthner, il 22 novembre del 1907, gli dedica questo breve scherzo: «Aus dem Anzeigenteil einer Tageszeitung des Jahres 2407 | Vorankündigung | 22. November Fritzmauthnertag 22. November | Spectaculum grande | Großes Wörterschießen! Preise bis zu 1000 M! | Mit-telpunkt der Veranstaltung | Zehnmaliges Erschießen des Wortes | “Weltgeschichte” | Durch je zehn Scarfschützen | Zehn deutscher Stämme. | Erinnerungszeichen! | Kaltes Buffet! | Schießplatz Neu-Kaputt. Vis à vis dem Luftschiffhafen | Das Festkomité | Der Vereinigung zur ordnungsmässigen Erschießung | verurteilter Wörter». (Dagli annunci di un quotidiano dell’anno 2407 | preavviso | 22 novembre giornata di Fritz Mauthner 22 novembre | Spectacu-lum grande | grande esercitazione di tiro alle parole! | prezzi fino a 1000 marchi | centro della manifestazione: | fucilazione per dieci volte della parola | Weltgeschichte (storia del mondo) | da parte di ben dieci tiratori scelti | di dieci stirpi germaniche. | Cotillons! | Buffet freddo! | Piazza del tiro Nuovo kaputt. Vis à vis all’aeroporto. | Il comitato per i festeggiamenti | dell’unione per la fucilazione regolare delle parole condannate); Wiener 1972, p. cxxiii.

44 Sono le pp. 617-18, B iii, cf. Ben-Zvi 1980, Ben-Zvi 1984, pp. 65-88. Lernout riferisce del diverso approccio di Joyce e di Beckett al testo di Mauthner: Joyce legge il primo volume dei Beiträge, o almeno le prime cento pagine, allo scopo di ricavarne espressioni e intuizioni da riutilizzare; Beckett è più interessato all’impianto teorico complessivo della critica del lin-guaggio e alla sua coerenza; cfr. Lernout 1994, p. 26. Rimane però importante la consonanza di alcuni motivi in Joyce e in Beckett e sono i temi che Umberto Eco individua nella sua interpretazione di Finnegans Wake: la forzatura dei limiti del linguaggio nelle metamorfosi continue che dissolvono la fissità delle parole, il richiamo agli archetipi e al ritmo ciclico della storia di Vico, il gioco del calembour che si sostituisce all’ordine categoriale; cfr. Eco 1966, cap. iii. Beckett riassume questi temi nel saggio Dante… Bruno. Vico... Joyce cogliendo l’elemento centrale della poetica del Work in progress: «la scrittura di Joyce non è su qual-cosa: è quel qualcosa», «quando il senso è sonno, le parole vanno a dormire, […] quando il senso sta danzando le parole danzano» (Beckett 1929). Per il richiamo di Beckett ai temi dei Beiträge cfr. anche Skerl 1974.

45 Oswald Wiener (Vienna 1935), cibernetico, matematico, filosofo e letterato, scrive: «guardai verso l’alto e vidi una nuvola innaturale fatta di parole nella quale stava scritto a lettere di fiamma: fmauthner beiträge 3auflage p176ff bis seite 232 erster band! Ho sentito subito da dove provenisse il vento….» (le pagine citate indicano il capitolo “Denken un Sprechen”; Wiener 1985).

46 In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius (Finzioni) Borges, spiato da uno specchio, racconta di una teoria degli specchi intesi come oggetti abominevoli, al pari della copula, perché moltiplicano il numero degli uomini. La ricerca della fonte della bizzarra tesi riconduce a una fantastica dottrina gnostica riportata da una sola copia di un’enciclopedia nell’articolo dedicato all’im-maginario paese asiatico di Uqbar e confermata dal ritrovamento fortuito dell’undicesimo volume della storia di quella civiltà. La cultura di questo pianeta si rivela berkeleyana: l’essere del mondo viene identificato con il percipi, esso non è un insieme di oggetti nello spazio, ma una serie eterogenea di atti indipendenti collocati nel tempo. Gli idiomi della regione australe rimandano a una congetturale Ursprache, nella quale non esistono sostantivi, ma solo forme verbali (non c’è luna, ma lunare, luneggiare); in quella dell’emisfero boreale vi sono solo aggettivi e il sostantivo si forma per accumulazione di aggettivi (luna diventa, ad esempio, aereo-chiaro sopra scuro-rotondo). In questo caso si tratta di un oggetto reale, ma la letteratura è piena di oggetti ideali alla Meinong e vi sono poemi costituiti di una sola parola, corrispondente a un solo oggetto, l’oggetto poetico creato dall’autore. La scienza fondamentale è naturalmente la psicologia che studia il meccanismo delle rappresentazioni che dissolve il perdurare delle sostanze nel tempo e la connessione causale degli eventi: «la percezione di una fumata all’orizzonte, e poi del campo incendiato, e poi della sigaretta mal spenta che provocò l’incendio, è considerato come un esempio di associazione di idee». La conseguenza è l’invalidazione delle scienze e il moltiplicarsi di sistemi che non cercano la verità, ma la sorpresa, dato che la filosofia può essere solo gioco dialettico, filosofia della fin-zione, Philosophie des Als Ob. La relatività dei sistemi si basa sull’impossibilità di identificare con un nome il sussistere di una cosa: ogni sostantivo ha solo carattere metaforico e la storia delle nove monete perdute e ritrovate diventa simile al caso di nove uomini che in nove notti successive dovrebbero provare il medesimo dolore. Il processo di generalizzazione rivela più somiglianze che identità e moltiplica gli oggetti reali fino alla scoperta di oggetti secondari, gli «hrönir», duplicazioni all’infinito delle cose primitive. Un solo esempio, ma si potrebbero analizzare anche altri racconti; cfr. Dapía 1993.

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47 Lettera di Mach a Mauthner del 24 dicembre 1901, in Haller-Stadler 1988, p. 235. 48 Weiler 1986, p. xvi. 49 Nella letteratura critica il riferimento di Wittgenstein a Mauther è stato già ampiamente

analizzato (cfr. in particolare Weiler 1970 e Leinfellner 1969). Accomuna i due autori (mi riferisco soprattutto al secondo Wittgenstein) la concezione immanente del linguaggio secondo la quale esso non è governato da strutture formali esterne e precostituite: grammatica e logica si nascondono nel linguaggio; non vi è in esso un’essenza che ne costituisca propriamente il mistero; non vi è un’immagine mentale specchio di un oggetto, il mondo non è dato due volte; nemmeno si tratta di dubitare seriamente dell’esistenza degli oggetti del mondo; non vi è un esterno e un interno; rimanere dentro il linguaggio non significa impossibilità di parlare delle sensazioni e dei sentimenti, significa invece saper distinguere dentro il linguag-gio, far vedere dove non funziona; il linguaggio è semplicemente il suo uso, è una forma di vita; la sua indagine impone un approccio asistematico, il vagare di un viandante, l’album di schizzi; bisogna sempre tenersi liberi dalla filosofia, saper smettere di fare filosofia e, infine, riconoscere l’indicibile, il mistico. Spesso simili sono anche le metafore e qualche volta si avverte in Wittgenstein l’eco di qualche espressione, del tono di Mauthner.

50 Bredeck 1992, p. 126.51 «O voi che siete in piccioletta barca, | desiderosi d’ascoltar, seguiti | dietro al mio legno

che cantando varca, | tornate a riveder li vostri liti: | non vi mettete in pelago, ché forse, | perdendo me, rimarreste smarriti. | L’acqua ch’io prendo già mai non si scorse.»

52 B i, p. 5 (p. 81).53 Ivi, p. 181 (p. 99).54 Ivi, p. 11 (p. 85).55 Ivi, p. 26 (p. 91).56 Ivi, p. 27 (p. 93).57 Ivi, p. 28.58 Ivi, pp. 86-87.59 Ivi, pp. 53-54: si riferisce a un racconto di Wilhelm von Merckels.60 Ivi, p. 176 (p. 96).61 Ibidem.62 Ivi, p. 66.63 Ivi, p. 115 (p. 104).64 Ivi, p. 119.65 A iv, p. 447; cfr. Bredeck 1992, p. 117.66 B i, p. 28.67 B ii, p. 451 (p. 105).68 Weiler 1970, p. 1.69 Locke 2007, L II, cap. xi, § 2; L iii, cap. x, § 34.70 Locke 2007, L iii, cap. xi, § 22.71 Ivi, L iii, cap. vi, § 19.72 Ivi, L iii, cap. i, § 5.73 Aveva a disposizione la traduzione della Scienza Nuova di Wilhelm Ernst Weber del

1822.74 Inst. viii, VI, 9.75 Vico 2004, pp. 155-5676 Nel diario del 5 marzo 1787 del Viaggio in Italia Goethe annota di aver ricevuto da

Filangieri la Scienza nuova come se fosse una reliquia: ne dà una rapida scorsa e velocemente ne deduce che Vico potesse essere una sorta di patriarca per gli italiani alla maniera di Ha-mann per i tedeschi; cfr. Goethe 1993, pp. 207-08 (pp. 212-13).

77 B ii, p. 480: sicuramente Hamann ha letto Vico, forse anche Herder lo ha letto – sos-tiene Mauthner. In effetti, nelle lettere a Herder, Hamann scrive di aver iniziato a fatica la lettura della Scienza Nuova e accenna alla dipintura, cfr. Marienberg 2006, p. 7s.

78 Mauthner rimprovera a Herder di aver successivamente abbandonato questa tesi, espo-sta nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache del 1772, e afferma che quanto Herder scrive di importante nella Metakritik contro Kant deriva in realtà da Hamann; cfr. B ii, pp. 45-47. La Metacritica di Herder rappresentava però, in un certo senso, un rovesciamento della tesi di Hamann: come spiega Ilaria Tani, la radice ultima dell’unificazione tra sensibi-lità e intelletto rimandava in Hamann al linguaggio come emanazione della parola creatrice di Dio, mentre il carattere impuro e storicamente condizionato della ragione di Herder si fondava sull’autonoma capacità degli organi di senso di procedere a un’unificazione sintetica

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(senza ricorso all’apriori) che lasciava nella parola un residuo iconico, garanzia del legame con l’esperienza; cfr. Tani 1993.

79 Mittner 1964, i, p. 302.80 Hamann 1952, p. 197 (p. 113).81 Ivi, p. 199 (p. 115).82 Ivi, p. 208 (p. 126).83 Ivi, p. 283; B I, p. 334.84 Ivi, p. 286.85 Lüktenhaus 1999, p. x; Gerber 1961, Vorwort alla seconda edizione del 1884.86 B i, p. 32.87 Formigari 1988, p. 63.88 Anna Morpurgo Davies accenna a questo filo che collega Hermann Paul a Steinthal e

Humboldt; cfr. Morpurgo Davies 1996, p. 336.89 Formigari 2001, p. 238.90 Humboldt 1960, § 8.91 B ii, p. 56.92 Cfr. Di Cesare 2000, pp. li ss.93 Di Cesare spiega la metafora del prisma come capacità di dare valore alla diversità

senza perdere il riferimento unitario: «per Locke – osserva – il linguaggio è un mezzo ottico che falsifica gli oggetti, per Leibniz è lo specchio meraviglioso dello spirito umano, per Humboldt è un prisma capace di rifrangere il mondo con angolazioni sempre nuove»; segue la citazione dall’Essai sur les langues du nouveau Continent del 1812: «le lingue assomigliano nel loro insieme a un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un colore diversamente sfumato» (Di Cesare 2000, p. xlviii).

94 B ii, p. 59.95 Sulla collocazione storica di von Humboldt tra Settecento e Ottocento, tra illuminismo

e idealismo tedesco, sull’eredità che riceve dal passato e sulla sua influenza nell’Ottocento e nel Novecento e sulle diverse e opposte risposte, cfr. Morpurgo Davies 1996, pp. 147-48.

96 Cfr. B ii, p. 59.97 Ivi, p. 67.98 Bréal 1897, cap. xviii.99 Ibidem.100 Mauthner osserva che in un passaggio Paul sembra pensare alla possibilità di comu-

nicare il contenuto delle rappresentazioni mediante la trasformazione di associazioni rappre-sentative indirette in dirette: con queste parole, scrive Mauthner, non riesco a pensare a nulla; cfr. B ii, p. 73. Nonostante questa critica, peraltro forzata, Paul rimane il punto di riferimento di Mauthner, mentre gli altri esponenti del movimento dei neogrammatici vengono liquidati velocemente con l’accusa di voler stabilire delle precise leggi fonetiche per puro fanatismo scientista e gusto per lo specialismo.

101 Cfr. B ii, p. 73.102 «Intenderemo dunque con significato usuale l’intero contenuto rappresentativo che

per i membri di una comunità linguistica si lega a una parola, con significato occasionale quel contenuto rappresentativo che il parlante lega alla parola nel pronunciarla e che si aspetta che anche l’ascoltatore vi leghi»; Paul 1960, p. 75 (p. 61).

103 Esempio: Schirm (= che ripara) diventa “parapioggia”, “parasole”; Paul 1960, pp. 87-88 (p. 74).

104 Esempio: fertig (= pronto per il viaggio) diventa “pronto”, “finito”; Paul 1960, p. 91 (p. 79).

105 Paul analizza le metafore basate sulla somiglianza dell’aspetto esteriore (esempio: Kopf, detto dell’insalata), sull’identità della funzione (Haupt = capo, capo di una famiglia, di una stirpe, di una congiura; anche nei composti: Hauptsache..), sul trasferimento delle espressioni spaziali alla dimensione temporale (lang), a quella psichica (non-spaziale; ein Gedanke geht mir im Kopfe herum), da un senso all’altro (süss, anche per l’olfatto e per l’udito) e sull’abi-tudine a intendere i processi delle realtà inanimate in analogia con i processi della propria attività (schreiende Farben); Paul 1960, p. 95 ss. (p. 84 ss.).

106 B ii, p. 260: «Hermann Paul, der mir Idee und Beispiele bietet». Per altri versi il linguista non considera la metafora come titolo generale per tutti i tropi della retorica antica e rimane lontano dall’esito scettico del nostro autore.

107 Per la particolare collocazione della psicologia in Hermann Paul cfr. Morpurgo Davies 1996. L’autrice spiega la posizione di Delbrück, indifferente nell’adottare la teoria psicologica

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di Steinthal e di Wundt, e quella di Paul, per il quale l’adozione di un modello psicologico fu motivo di ripensamenti profondi. Paul si riferisce, attraverso Steinthal, all’associazionismo di Herbart, ma l’impossibilità di comunicare il contenuto delle rappresentazioni in quanto tale richiede, a suo parere, un atto di ricreazione nell’ascoltatore. Se quindi la psicologia è scienza che analizza il meccanismo delle rappresentazioni, la linguistica dovrà tener conto dell’elemento storico, culturale e sociale (non semplicemente diacronico). «L’assunto implicito – conclude Anna Morpurgo Davies – è, ancora una volta, che la scienza del linguaggio non è semplicemente una parte della psicologia» (p. 340). Cfr. anche Graffi 1991, pp. 56 ss.

108 B ii, p. 8.109 W iii, p. 169.110 B i, p. 113 (p. 103).111 B iii, pp. 263 ss.112 Cfr. B i, p. 343: la metafora del setaccio prevede anche la possibilità di invertire l’oro

con la sabbia: dipende dal valore che attribuiamo all’oro.113 Ivi, p. 327 (pp. 100-01).114 Cfr. ivi, pp. 262 ss.115 Cfr. ivi, p. 238. 116 Cfr. ivi, pp. 250-51.117 Cfr. ivi, p. 277.118 B i, p. 666.119 Cfr. ivi, p. 668. 120 In un articolo nel “Zukunft” del 2 aprile 1904 Mauthner aveva indicato Otto Ludwig,

Nietzsche e Bismarck come le tre figure più importanti per l’origine delle sue riflessioni critiche sul linguaggio, ma nelle Erinnerungen afferma di voler aggiungere il nome di Mach, il cui influsso, anche se dimenticato, deve essere stato importante. È – a suo dire – lo stesso Mach (attorno al 1895) a ricordare il giovane Mauthner che, dopo una conferenza sulla fisica a Praga nel 1872, gli chiede di potergli presentare alcune riflessioni scritte e che gli fa leggere Die Geschichte und die Würzel des Satzes der Erhaltung der Arbeit (Mauthner 1918, p. 210). La memoria (Mach 1872) è riprodotta in Mach 1969; si tratta di un discorso tenuto il 15 novembre 1871 alla Società reale boema e pubblicato nel 1872. In quel periodo (dal 1867 al 1895) Mach insegnava fisica sperimentale nella capitale boema.

121 Mach 1872, p. 3 (p. 49). Lo scienziato formula qui una critica esplicita alla concezione meccanicistica, riproposta da Helmholtz nel 1847 nell’autorevole memoria Über die Erhaltung der Kraft. Alla concezione dello scienziato prussiano, che riconduceva le leggi empiriche, scoperte per i fenomeni elettrici, magnetici e termici, al principio di conservazione della forza e alle formule di Lagrange, rinnovando il principîo seicentesco della riduzione della fisica alla meccanica, Mach opponeva una distinzione analitica tra la formulazione matematica e l’idea dell’impossibilità del perpetuum mobile (impossibilità di creare lavoro dal nulla). Il principio, nella seconda formulazione, non sarebbe allora così nuovo, come vorrebbe Helmholtz, ma starebbe alla base di qualsiasi ricerca scientifica e, in particolare, dello straordinario sviluppo della meccanica nel Seicento. L’estensione del principio meccanico della conservazione della forza a principio generale della scienza e la sua identificazione con l’esclusione del perpetuum mobile avrebbero allora solo il valore di un’estensione analogica. Mach, consapevole della provvisorietà dei concetti scientifici, ridefinisce spazio, tempo e causa in termini funzionali e relativi l’uno all’altro. Cfr. Gargani 1982, p. xv ss.

122 Cfr. Mach 1872, p. 2 (p. 48).123 Ivi, p. 26 (p. 76).124 Ivi, p. 36 (p. 87).125 Ivi, p. 33 (p. 83).126 Mach 1991a, pp. 1-2 (pp. 37-38).127 Cfr. D’Elia 1977, p. 13. 128 Cfr. Mach 1991a, p. 13 (p. 47).129 Lichtenberg 1907, p. 232, Mach 1991a, p. 23 (p. 56). 130 Notizbuch 23, 26 gennaio 1881, in Haller-Stadler 1988, p. 178: «Die ganze Welt ist nur

ein Ding. Welt und Ich sind nur mehr oder weniger willkürliche Zusammenfassungen».131 Mach 1917, p. 90 (p. 90, ma ho modificato lievemente la traduzione).132 L’epistolario pubblicato contiene una missiva di Mach del 1889 che declina l’invito

a collaborare alla rivista “Deutschland” e uno scambio di lettere e di libri nel 1895: Mach spedisce il testo della conferenza Die Geschichte und die Wurzel des Satzes von der Erhaltung der Arbeit e Die Mechanik in ihrer Entwickelung historisch-kritisch dargestellt, Mauthner ri-

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cambia con Lügenohr, Fabeln und Gedichte in Prosa. Uno scambio più intenso di lettere e di testi data dal dicembre del 1901 e prosegue fino alla malattia di Mach, testimoniando di almeno due incontri. Lo scienziato moravo apprezza non solo la critica del linguaggio di Mauthner, ma anche la sua vena satirica: a proposito dei Totengespräche dice addirittura di essersi divertito più che con Luciano, Voltaire e Heine, cfr. la lettera di Mach del 16 marzo 1906, in Haller-Stadler 1988, p. 240.

133 È un concetto che Mach riprende da Hering, cfr. B i, p. 453.134 Mach 1917, p. 132 (p. 130) e B i, p. 15. Lo ripete anche Wittgenstein nelle Philoso-

phische Untersuchungen nell’osservazione 25. Aldo Gargani ha ricondotto l’idea del linguaggio come forma di vita di Wittgenstein a questa concezione del carattere naturale del linguaggio di Mach, sottolineandone il carattere antirazionalistico. In questo contesto riporta anche la tesi di Mauthner sull’apriorità relativa dei nostri concetti e sulla mancanza di un loro fondamento teorico in quanto fenomeni della vita; egli accenna anche alla funzione del caso nella selezione dei dati empirici da parte dei Zufallssinne; cfr. Gargani 1992, p. 107 ss.

135 Mach avrebbe applicato alle idee della scienza i concetti evoluzionistici di adattamento e di analogia che i linguisti – i neogrammatici, in particolare, secondo la Arens – avevano elaborato per spiegare l’evoluzione della lingua come rapporto tra norma e innovazione; cfr. Arens 1984, cap. iii

136 Mach 1917, p. 7 (p. xxxvi).137 B i, p. 299.138 Mach 1896a, p. 419.139 B iii, p. 263.140 Mach, 1896a, pp. 411-12. Lazarus Geiger (Frankfurt a. M. 1829-1870) in Ursprung

und Entwickelung der menschlichen Sprache und Vernunft (il primo volume era stato pubbli-cato nel 1868; il secondo è frammentario e postumo) definisce la sua ricerca come «critica empirica della ragione umana» (p. 101). Il carattere empirico consiste nella ricerca etimologica sulle parole che, come fossili, ci rivelano la relatività del sistema dei concetti del mondo primi-tivo (esempio la mancanza del blu nel mondo greco), nella radicale convinzione dell’identità di linguaggio e pensiero; cfr. Geiger 1868. Mauthner, che spesso sorvola sulla differenza tra linguaggio e pensiero, precisa qui che questa identità non è assoluta; essa somiglia piuttosto ai differenti punti di vista che producono le due immagini dello stereoscopio; Geiger avrebbe anche un’eccessiva venerazione per la ragione che, nella sua teoria, emerge dal linguaggio come una potenza di più alto grado; cfr. B ii, 661.

141 Ludwig Noiré (Mainz 1829-1889) in Logos. Ursprung und Wesen der Begriffe (1885) ha elaborato una concezione del linguaggio a partire da una lettura trascendentalista della volon-tà di Schopenhauer (cfr. Cloeren 1988, cap. xv). Ne risulta il carattere intenzionale dell’atto linguistico e la centralità della metafora: «tutto il linguaggio è metafora» (p. 274), esso nasce dalla metafora originaria che trasferisce il gesto in suono, individuando l’agire umano comune come presupposto del linguaggio. In questo testo Mach ha trovato conferma della sua idea di relatività di tutti i concetti e del carattere metaforico di molti concetti della scienza (cfr. Noiré, p. 287), oltre a rinvenire alcune osservazioni particolari come l’idea dell’origine dei nomi dei colori dalla pratica del tatuaggio (ivi, p. 260). Mauthner lo accusa invece di essere wortgläubig, di credere alle parole, come dire: sulla parola.

142 Cfr. lettera a Mach del 14 febbraio 1902, in Haller - Stadler 1988, p. 237.143 Mach 1917, p. 220 ss. (p. 216 ss.).144 W i, p. 380.145 Ivi, p. 382.146 Ivi, pp. 391-92, Stumpf 1907, p. 88 (p. 205); per altri versi Stumpf ha una concezione

molto diversa del concetto e dell’astrazione, contro Mach.147 Ivi, p. 266.148 Cfr. le voci Ähnlichkeit, Affinität e Analogie in W i.149 Cfr. W i, p. 45.150 Cfr. ivi, pp. 47-48.151 Cfr. ivi, p. 296 (p. 122).152 Cfr. ivi, p. 299 (p. 123). La voce cogito sviluppa di nuovo questa tesi nella critica all’ego

cartesiano con il richiamo a Lichtenberg.153 Cfr. B i, p. 220.154 W i, p. 18.155 Cfr. W iii, p. 361.156 3BW, p. 136.

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157 Mauthner conosce personalmente Hans Vaihinger nel 1905, quando, appena dopo il trasferimento a Freiburg, entra a far parte della Kantgesellschaft e viene appunto in contatto con il suo fondatore, con il quale intrattiene una corrispondenza che si infittisce attorno al 1911, anno della pubblicazione della Philosophie des Als ob. Kühn suggerisce che forse pro-prio l’uscita del Wörterbuch abbia incoraggiato Vaihinger alla pubblicazione del suo scritto giovanile. In ogni caso il nostro autore recensisce nel 1913 il testo dello studioso di Kant, inserisce nella seconda edizione del dizionario la voce “als ob” e richiama più volte la disa-mina dell’amico sui concetti-finzione nelle scienze, nell’etica e nella religione. A differenza di Mauthner però, Vaihinger prende le mosse da una conoscenza profonda dei testi kantiani; egli è infatti più conosciuto per i due volumi del Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, pubblicati nel 1881 e nel 1892, e per essere stato editore dal 1896 della rivista “Kant-Studien”. Il commentario si ferma all’Estetica trascendentale (della quale disseziona ogni passo senza sorvolare su nessuna delle difficoltà interpretative), forse perché il passaggio alla Logica e, in particolare alla Dialettica, alla logica dell’illusione (des Scheins), l’incontro con l’espressione kantiana del “come se”, aveva ricondotto il filologo ai temi studiati negli anni della tesi con Laas, a quesiti più urgenti dal punto di vista teoretico, alla concezione cioè delle idee della ragione come semplici «finzioni euristiche».

158 Vaihinger 1986, p. 40.159 In questo capitolo Vaihinger fa rientrare anche le categorie, estendendo l’affermazione

kantiana dell’assoluta inconcepibilità e conoscibilità del mondo dalla dialettica all’analitica, dalla pretesa di totalità all’applicazione della singola categoria. L’intero sistema kantiano degli apriori viene così interpretato come un insieme di finzioni, che vanno dallo spazio, concetto non solo soggettivo, ma pieno di contraddizioni, alla sostanza e alla causa, fino alla cosa in sé. La divisione tra cose in sé, cioè oggetti, e altre cose in sé, cioè soggetti, è una finzione originaria: dal punto di vista di Vaihinger, non vi è alcun assoluto, alcuna cosa in sé, alcun soggetto, alcun oggetto. L’errore di Kant consiste nel non essersi attenuto alla convinzione, espressa più chiaramente nella prima edizione della Critica, che la cosa in sé fosse una «mera idea», un concetto limite, esattamente nel senso in cui si parla di limiti nella matematica, un concetto immaginario, un simbolo necessario per il calcolo, come già Maimon aveva notato. Finzione e non ipotesi, vero e proprio concetto contraddittorio, supposto nella piena coscienza della sua impossibilità, la cosa in sé è un concetto necessario alla filosofia, come l’immaginario alla matematica; dobbiamo considerare l’essere reale come se vi fossero delle cose in sé che hanno effetto su di noi e che si perturbano reciprocamente.

160 Vaihinger 1986, p. 52 (pp. 48-49).161 Ivi, p. 176 (p. 106).162 Ivi, p. 179 (p. 110).163 Ivi, p. 291 (p. 149). L’analisi linguistica della finzione rivela poi la differenza del “come

se” dalla semplice comparazione: il “come” è modificato dal “se”, dal “quando” (ob nell’alto medioevo equivale a wenn); non si tratta nemmeno di un’analogia reale: nel “quando” vi è la supposizione di una condizione e, più precisamente, di una condizione considerata impos-sibile. Gli esempi sono i seguenti: quando vi fossero gli infinitesimali, allora la linea curva sarebbe composta da essi; quando vi fossero gli atomi, allora la materia sarebbe formata da loro; quando l’egoismo fosse l’unica motivazione della condotta umana, allora se ne potreb-bero dedurre i rapporti sociali. Nella proposizione condizionale è qui espresso un irreale o impossibile; ciò nondimeno si possono dedurre delle conseguenze e la supposizione viene mantenuta come formalmente valida. Ma ancora di più, tra il “come” e il “se”, tra il “come” e il “quando”, vi è un’ulteriore proposizione sottintesa, come si può vedere dall’esempio: la materia data a noi empiricamente deve essere considerata come sarebbe da trattare qualora constasse di infinitesimi. In tal modo è espressa chiaramente la necessità (o la possibilità o la realtà) di una sussunzione sotto una supposizione impossibile o irreale. Insomma la formula grammaticale della finzione è la stessa per l’errore e può essere la stessa per l’ipotesi; essa rivela una fondamentale equivocità del linguaggio.

164 Per Vaihinger il mondo non è il fine del pensiero, il fine è la condotta etica che si ispira all’imperativo categorico, inteso a sua volta alla luce della finzione: ci si deve compor-tare, come se la legge morale fosse data all’uomo da un legislatore divino e non perché vi è un dio che legifera, cfr. Vaihinger 1986, parte terza, A, cap. v.

165 B i, p. 35 ss.166 B ii, p. 457 (p. 108).167 Cfr. Kühn 1975, pp. 232-33. Mauthner ha una pessima opinione di Aristotele: gli de-

dica un libriccino, pubblicato nel 1904 nella collana “Die Literatur”, edita da Georg Brandes.

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La presentazione tipografica di gusto liberty, le illustrazioni di animali immaginari, a indicare il carattere fantastico della classificazione aristotelica della natura e due riproduzioni di Ari-stoteles und Phyllis di Hans Baldung Grien, nelle quali Fillide, l’amica di Alessandro, munita di frusta sta a cavalcioni sulla schiena del filosofo innamorato, rispecchiano lo stile leggero e polemico dell’esposizione. In questo testo Mauthner non salva quasi nulla del pensiero aristotelico, lo considera una testa mediocre, schiavo di un linguaggio che insieme dovrebbe assicurare la verità della logica e la menzogna del disputare sofistico, che procede come un gioco di parole (wortspielerisch), fondato su sottigliezze orientali, talmudiche (p. 53), amante della classificazione libresca, bibliofilo, senza occhio per la natura che osserva «come un pe-scatore, un cacciatore, un indovino» (p. 16). Da notare: si tratta dell’unico libro di Mauthner tradotto in inglese.

168 Lo nota, tra gli altri, Ricoeur 1975, cap. i.169 In questo senso la disamina del linguaggio, esposta nella Poetica e nella Retorica, si

distingue dalle osservazioni contenute nel De interpretazione, che si incentrano sul carattere apofantico, assertivo del logos (a differenza dell’approccio apodittico, che si basa sul pre-supposto dell’essere reale, l’apofantico si applicava all’analisi del vero e del falso senza far riferimento all’essere reale), per l’individuazione di un nuovo piano dell’analisi che Morpurgo-Tagliabue ha definito come propriamente semantico. Esso individua un nuovo punto di vista che consiste «nell’esibire ogni contenuto di coscienza, prescindendo dalle modalità della loro presentazione» (Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 102). Non vi sarebbe allora contrapposizione tra discorso apofantico e discorso semantico, ma individuazione di due diversi piani del logos: il discorso semantico riguarda sia l’apofantico delle asserzioni, sia il non-apofantico. Detto altrimenti anche la preghiera, ad esempio, può essere considerata dal punto di vista semantico; cfr. Morpurgo-Tagliabue 1967, cap. iii, § 9.

170 Galvano Della Volpe esamina attentamente anche il primo tipo di metafora (la sosti-tuzione di un termine specifico con uno generico) come possibile metafora viva, derivata da un confronto logico-intuitivo. L’esempio è il “ristare” della nave al posto di “ormeggiare”, paragonato al “ristare del carro” sulle ruote e al “ristare dell’uomo” sulle gambe; il che met-terebbe a confronto altre specie del genere “ristare” e fornirebbe una sorta di definizione «concretissima». L’autore individua anche nell’esempio aristotelico del secondo tipo (che sostituisce la specie al genere) la presenza dell’immagine: al posto di “molte” Omero scrive “mille e mille” e rimanda al gesto del contare. Questa attenzione deriva dalla concezione più generale di Della Volpe che individua nella metafora un elemento conoscitivo, mentra gli autori che la considerano soltanto dal punto di vista icastico e intuitivo tendono a non prendere in considerazione i primi due tipi della classificazione aristotelica che, a parer loro, producono soltanto metafore spente. Cfr. Della Volpe 1954, p. 132 ss.

171 Aristotele, Poetica, 1457b. La traduzione è di Morpurgo-Tagliabue.172 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.173 Nella letteratura critica il procedimento dell’entimema è stato definito come «sillo-

gismo imperfetto», sillogismo imperfetto nell’espressione, «incidente di linguaggio», «scar-to», ragionamento tronco che lascia al pubblico il gusto del completamento, facendo leva sull’emozione con il ricorso all’armamentario dei luoghi comuni della topica retorica e dei luoghi specifici della disciplina in questione. Invero Aristotele all’inizio della Retorica aveva ricondotto il procedimento dell’entimema alla stessa facoltà che presiede all’elaborazione dei sillogismi logici con la consapevolezza che nel primo caso le premesse non possono essere necessarie, data la materia deliberativa, epidittica e giudiziaria dell’argomentare: «è funzione della stessa facoltà scorgere il vero e ciò che è simile al vero, e nel contempo gli uomini hanno una sufficiente disposizione naturale per il vero e nella maggior parte dei casi colgono la verità. Pertanto, un’abile disposizione a mirare al probabile è propria di una persona che è altrettanto abile nel mirare alla verità», Aristotele, Retorica, 1354b.

174 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 244.175 Ivi, p. 249.176 Ivi, p. 252.177 Biese 1893, p. 3.178 Cfr. Biese 1893, p. 6.179 Biese 1893, p. 22.180 Gerber 1961, p. 309.181 B i, p. 339.182 La sineddocche si colloca sul piano dei concetti sensibili, la metafora tra il sensi-

bile e non sensibile, la metonimia nell’ambito del sovrasensibile, cfr. Gerber 1961, p. 355.

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183 Lo sappiamo bene dal suo paragone con la città: il linguaggio – egli scrive – non è un’opera d’arte, non solo perché non è opera di un singolo, ma perché è cresciuto in modo convulso, «il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su finestra, abitazione su abitazione, casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto è inscatolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso tubi e fossi»; segue subito dopo la metafora della maledizione sui tubi del gas, B i, p. 27 (p. 92).

184 Bruchmann 1888, p. 187.185 Cfr. Meijers-Stingelin 1988, un articolo che riporta tutti i passi ricopiati o ripresi quasi

alla lettera da Nietzsche.186 B i, p. 367.187 Nietzsche 2004a, p. 453 (p. 21).188 B i, p. 368.189 Nietzsche 2004b. La Kofman invero ritiene che l’uso della metafora e la riflessione

sulla metafora nei primi scritti di Nietzsche siano ancora legati a una concezione metafisica che rimanda a un’essenza del linguaggio, a un possibile linguaggio proprio, mentre negli scritti successivi a Wahrheit und Lüge il termine “metafora” verrà sostituito con quello di interpretazione. Questa tesi non impedisce alla Kofman di leggere in modo magistrale le me-tafore architettoniche dell’alveare, della torre, della piramide, del colombario romano e della tela di ragno, rivelandone la molteplicità di sensi; cfr. Kofman 1972. Per quanto riguarda la riflessione di Nietzsche sulla metafora, abbiamo oggi a disposizione anche le note di Nietzsche sul linguaggio e sulla retorica degli anni 1872-1874, vale a dire i corsi sulla grammatica latina, sull’eloquenza greca e sulla retorica antica, vero e proprio laboratorio di riflessione sullo stile. Nelle Vorlesungen über lateinische Grammatik (1869-1870) si occupa anche dell’origine del linguaggio ripercorrendo le principali teorie filosofiche e sottolineando l’importanza di Kant, il quale riconosce che le più profonde conoscenze filosofiche giacciono già pronte nel linguaggio («ein großer Teil, viell. der größte Teil von dem Geschäfte der Vernunft besteht in Zergliederungen der Begriffe die er schon in sich vorfindet»; Nietzsche 1993, p. 185). A Kant si richiama anche nel sostenere che il linguaggio è prodotto dell’istinto: non nel senso di un meccanismo esteriore, ma del nocciolo interno dell’essere, conforme a leggi, ma senza coscienza. Nella Geschichte der griechische Beredsamkeit (1872-1873) il filo della ricostruzione storica è, invece, nella contrapposizione tra il fascino dei discorsi istrionici e drammatici degli oratori come Gorgia e Crizia e la correttezza spenta dei discorsi scritti condotti con acribia; cfr. Nietzsche 1995, pp. 367ss. Dei discorsi scritti si occupa nella Darstellung der antike Rhetorik (1874) e, in un passo sul rapporto del retorico con il linguaggio, scrive: retorico è un attore, un libro, uno stile con cosciente uso dei mezzi tecnici. Non naturale quindi: ma – si chiede – cosa significa naturale? Noi lavoriamo sullo scritto, ma è chiaro che la retorica sviluppa mezzi che sono insiti nel linguaggio. Non esiste un “naturale” non retorico del linguaggio. L’uomo che forma il linguaggio non afferra le cose, ma stimoli, non riproduce sensazioni, ma riproduzioni (Abbildungen) di sensazioni, immagini. Come si può rappresen-tare un atto spirituale con un’immagine sonora (Tonbild)? Non sono le cose a entrare nella coscienza, ma il modo in cui noi ci rapportiamo ad esse, il piqanovn. La sensazione coglie un aspetto. La lingua è retorica, vuole la dovxa, non l’ejpisthvmh. Tutte le parole – conclude – sono tropi: sinneddoche, metafora e metonimia. Gli esempi sono quelli di Gerber, citato esplicitamente. Non c’è un proprio del linguaggio, ciò che decide è l’uso. Cita anche Jean Paul sul linguaggio come raccolta di metafore scolorite; cfr. Nietzsche 1995, p. 425 ss. A questo periodo risale anche la traduzione della Retorica di Aristotele. Nietzsche traduce quasi interamente il primo libro (capp. 1-13 su 15), poi passa al terzo (capp. 1-4, fino al capitolo sulla metafora). In particolare colpisce in quest’ultima l’aderenza al testo e la scelta delle parole più semplici e appropriate etimologicamente. Per fare solo un esempio, l’incipit: «Die Kunst zu reden läuft der Kunst zu unterreden zur Seite» (l’arte del parlare corre parallela all’arte di dialogare; Nietzsche 1995, p. 533).

190 B i, p. 367.191 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 287.192 Ivi, p. 288.193 Untersteiner 1996, p. 172 s.194 Morpurgo-Tagliabue 1967, p. 318.195 Il Witz è il filo conduttore del suo percorso intellettuale dalla parodia alla filosofia.

Kühn e Spörl hanno richiamato l’attenzione anche su una serie di articoli apparsi anonimi tra il 1893 e il 1897 nella rivista berlinese “Das Magazin für Literatur” sotto il titolo Aus der Mappe eines lachenden Philosophen senza attribuirli con sicurezza al nostro, ma indicandone

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molte affinità teoriche. Forse – scrive Spörl – si tratta di una prova generale prima della pubblicazione dei Beiträge: il “filosofo che ride” vede nel dubbio l’inizio di tutta la filosofia, in particolare nel dubbio sul linguaggio; cfr. Spörl 1997, p. 50 ss., e Kühn 1975, p. 91 ss.

196 In un saggio sulla teoria del Witz in Jean Paul Richter, Fabrizio Cambi scrive a questo proposito: «è opportuno rilevare preliminarmente la difficoltà di tradurre con una chiave univoca il termine Witz sia perché radicato in un esteso arco temporale con un vastissimo ed eterogeneo ventaglio di posizioni e di proposte interpretative, sia perché si rivela di pro-blematica definizione nel pur circoscritto impianto teorico jeanpauliano. Nella Vorschule col termine Witz Jean Paul intende una tecnica e un gioco linguistici che sul piano lessicale e retorico si traducono nel motto di spirito, nella battuta satirica, nell’enunciato epigramma-tico, espressione della facoltà razionale e al tempo stesso creativa dell’arguzia (Witz=Geist); Cambi 1993, p. 6.

197 W i, p. 574.198 B ii, p. 487.199 Ivi, p. 488.200 Ivi, p. 492.201 Ivi, p. 495.202 «Daher ist die Sprache in Rücksicht geistiger Beziehungen ein Wörtebuch erblasster

Metapher»; Richter 1963, p. 184 (p. 183). Cambi traduce in modo più letterale: «per questo ogni linguaggio riguardo a relazioni spirituali è un dizionario di metafore impallidite»; Cambi 1993, n. 30, p. 23.

203 Richter 1963, p. 171 (p. 170).204 Fabrizio Cambi nota che Jean Paul propone qui in rapida sequenza l’etimologia del

termine Witz, sorvolando sulla radice indogermanica vid, sul sanscrito veda, da cui in greco (v)idea e in latino videre; si limita a far risalire l’etimo all’antico alto tedesco wizzi con cui già si indicava un Wissen (ingenium). In questo modo passa sotto silenzio il mutamento di significato in “idea spiritosa”, determinatosi in area inglese, e accentua il legame tra il Witz come facoltà razionale e geniale e la sua espressione letteraria e comunicativa. La compo-nente pragmatica recupera, secondo Cambi, anche l’inglese wit e la tradizione erasmiana; cfr. Cambi 1993, p. 9 ss.

205 Richter 1963, p. 173 (p. 172).206 Ivi, p. 174 (p. 173).207 Ivi, p. 179 (p.178). Volteschlagen letteralmente indica, tra l’altro, la mossa con una

carta truccata.208 Ivi, p. 182 (p. 181).209 Ivi, p. 184 (p. 182).210 Cambi 1993, p. 23.211 Kant 1917, pp. 221-23 (pp. 109-111: nella traduzione italiana Witz viene reso con

“ingegno”, “spirito”). Mentre in Kant il Witz è capacità dell’intelletto, in Schlegel e Jean Paul discende dalla facoltà dell’immaginazione e diventa prerogativa del genio, cfr. Cambi 1993.

212 Richter 1963, p. 186 (p. 184).213 Spedicato 1994, p. 90.214 Gianni Carchia, nei capitoli sull’umorismo di Retorica del sublime, ha delineato que-

sto processo di secolarizzazione del sublime in Hegel, Jean Paul, Vischer e Pirandello, cfr. Carchia 1990.

215 Richter 1963, p. 140 (p. 145).216 Ivi, p. 129 (p. 136).217 W ii, p. 115 (p. 139).218 Definizione ironica di Benedetto Croce, Croce 1965, p. 374.219 Interessanti sono anche le osservazioni di Vischer sul linguaggio: per questo autore la

parola è generalizzazione, non presenta l’individuale, dimenticando l’originario carattere di immagine. Il linguaggio usa le parole come concetti, ma l’astrazione delle parole non è qual-cosa di assoluto; la Einbildungskraft la accompagna e l’immagine del genere oscilla intorno al concetto (umschwebt), Vischer 1996, p. 8.

220 Cfr. Tavani 2000, p. 13.221 Vischer 1967, p. 209 (p. 150).222 W ii, p. 110 (p. 136).223 Lo dirà anche Croce, riprendendo Baldensperger, un seguace di Bergson. Ma l’impos-

sibilità della definizione ha in Croce un senso diverso e si ricollega al suo tentativo di ricon-durre tutti i concetti dell’estetica a quello di “espressione”. Cfr. Pirandello 1986, p. 131 ss.

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224 W ii, p. 111 (p. 137).225 Ibidem.226 W i, p. 162.227 Ivi, p. 170.228 W ii, p. 113 (p. 138).229 Lessing 1985, p. 330.

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Bibliografia

Testi di Mauthner

Gli scritti di Mauthner sono in gran parte disponibili in rete. In austrian literature online, oltre a testi letterari, si trova l’edizione dei Beiträge del 1901-1902, in textlog.de (Historische Texte & Wörterbücher) la seconda edizione degli anni 1906-1913, in zeno.org il Wörterbuch del 1923. Altri testi letterari sono reperibili in Projekt Gutenberg-DE.

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(1880) Nach berühmten Mustern: Parodistische Studien; Neue Folge, Frobeen, Bern - Leipzig.

(1880) Von armen Franischko: kleine Abenteur eines Kesselflickers, Frobeen, Bern - Leipzig.

(1882) Der neue Ahasver: Roman aus Jung-Berlin, Minden, Dre-sden - Leipzig.

(1884) Xanthippe, Minden, Dresden - Leipzig.(1886-1890) Berlin W., Bd. 1-3, Minden, Dresden - Leipzig.(1887) Der letzte Deutsche von Blatna: Erzählung aus Böhmen, Min-

den, Dresden - Leipzig.(1887) Von Keller zu Zola: Kritische Aufsätze, Heine, Berlin.(1888) Schmock oder die litterarische Karriere der Gegenwart: Satire,

Lehmann, Berlin.(1892) Lügenohr: Fabel und Gedichte in Prosa, Cotta, Stuttgart.(1892) Hypatia: Roman aus dem Altertum, Cotta, Stuttgart.(1901-1902) Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Bd. 1-3, Cotta,

Stuttgart - Berlin.(1904) Aristoteles: ein unhistorischer Essay, Bard und Marquardt,

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La maledizione della parolaTesti di critica del linguaggiodi Fritz Mauthner

La traduzione che segue è una scelta antologica di testi di Mauthner che affrontano i temi della critica del linguaggio, della teoria della parola come me-tafora e delle “tre immagini del mondo”. I passi sono tratti dai Beiträge zu einer Kritik der Sprache del 1906-1913 (B), dal Wörterbuch der Philosophie: Neue Beiträge zu einer Kritik der Sprache del 1923-1924 (W) e da Die drei Bilder der Welt: Ein Sprachkritischer Versuch (3BW), edito da Monty Jacobs nel 1925.

La maledizione della parola, Der Fluch der Sprache, è il titolo di un paragrafo dei Beiträge (B i, p. 86).

All’inizio di ogni sezione è stato indicato il volume dell’opera, mentre nel testo i numeri tra parentesi tonde indicano la pagina dell’edizione tedesca. È stato uniformato l’uso del corsivo per i termini stranieri e per alcune parole che sono oggetto di analisi; sono state lasciate nel testo le citazioni fatte dall’auto-re, completandole in nota dove è stato possibile, segnalando il testo al quale Mauthner ha fatto riferimento o, in assenza di indicazioni, facendo riferimento a testi reperibili oppure a edizioni critiche. Il termine Sprache è stato tradotto con lingua o con linguaggio secondo il contesto. [NdC]

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Critica del linguaggio(dai Beiträge zu einer Kritik der Sprache)

Prefazione [alla seconda edizione]

(B i, x) Certo non sono un esperto nelle molte scienze alle qua-li devo ricorrere per fondare ed esemplificare i miei pensieri. Non sono un esperto in tutti questi ambiti: logica, matematica, meccanica, acustica, ottica, astronomia, biologia delle piante, fisiologia animale, storia, psicologia, grammatica, indianistica, romanistica, germanistica, slavistica, ecc. ecc. Molti anni fa ho fatto un calcolo approssimativo. Per il mio lavoro avrei avuto bisogno di conoscenze tratte da 50-60 discipline, nelle quali è attualmente spezzettata la conoscenza del mon-do. Per ciascuna di queste discipline una mente capace ha bisogno di almeno 5 anni anche solo per impadronirsi delle linee di fondo del sapere specialistico. Avrei dovuto allora lavorare senza sosta per circa 300 anni, prima di poter iniziare a mettere per iscritto le mie proprie idee, poiché i miei pensieri hanno la scomodità di non trattare la co-noscenza del mondo attraverso il microscopio delle singole discipline. Non sono pigro. Ci avrei messo volentieri i 300 anni, visto che non si usa tener conto della misura della vita umana in un compito di tale grandezza. Però mi son detto: è il destino delle discipline scientifiche – eccetto poche – che persino i loro principî e verità non arrivino ai 300 anni, che quindi dopo un lavoro di 300 anni sarei stato esperto solo nella disciplina studiata da ultimo, un dilettante nelle discipline nelle quali lo studio era rimasto indietro di 10 o 20 anni, un ignorante in tutte le altre. Così dovetti decidermi a rinunciare alla specializza-zione in tutte le scienze che potevano aiutare il mio lavoro; mi dovetti accontentare in tre volte nove 1 pesanti anni di impadronirmi solo di quante nozioni, in tutte queste discipline ausiliarie, mi sembrassero necessarie all’adempimento del mio compito.

(xi) Il mio compito. Ne avevo uno. Io non sono uno specialista. Un compito grande e nuovo, che si è posto da sé: la critica del linguaggio. E nella mia risposta 2 salgo di nuovo un po’ più in alto e voglio essere del tutto serio. Se volevo sviluppare ed esporre la mia idea che la co-noscenza del mondo attraverso il linguaggio fosse impossibile, che non vi fosse una scienza del mondo, che il linguaggio fosse uno strumento inservibile per la conoscenza, – se volevo sviluppare ed esporre questi

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pensieri in modo creativo e convincente, chiaro e vivo, libero dalla logica e dai giochi di parole, allora dovevo, come critico del linguag-gio, conoscere proprio questo linguaggio nei suoi alti e bassi, essere in grado di stare a sentire quello che dice il popolo 3 e poter seguire i ricercatori nelle loro lotte sui concetti scientifici. In tutti i campi del lavoro scientifico dovetti imparare a capire i principî del lavoro, del metodo, la logica specifica o il linguaggio. E forse nessuno dei piccoli carrettieri di un qualsiasi ambito di lavoro specifico, nella sua sensazio-ne di essere simile a Dio, ha provato così forte come me la sensazione che i principî e il linguaggio specifico di ogni disciplina non si possano comprendere del tutto senza dissodare l’intero campo di lavoro, che è un campo di detriti. Senza più ridere, nella rassegnazione più amara, mi dovevo dire ogni giorno che non stavo fermo volentieri ai principî, che volentieri sarei stato costretto ad andare oltre, a fare qualcosa di più di una semplice passeggiata tra le scienze. Ma non potevo indugiare, se volevo compiere il mio lavoro. Non potevo indugiare da specialista in nessuna disciplina. Non devo render conto se questo mi sia riuscito semplice o difficile.

Introduzione

(1) “In principio era la parola”. Con la parola gli uomini sono al principio della conoscenza del mondo e rimangono fermi se restano presso la parola. Chi vuole procedere oltre, anche di un solo minusco-lo passo, per il quale può portare avanti il lavoro intellettuale di tutta una vita, deve liberarsi dalla parola e dalla superstizione della parola, deve tentare di riscattare il suo mondo dalla tirannia del linguaggio.

Qui nessuna prospettiva è d’aiuto, nessun ateismo critico-linguistico. Nell’aria non c’è nessun appiglio. Si deve salire per gradini e ogni gra-dino è un nuovo inganno, perché esso non si libra liberamente. Anche se ogni gradino fosse così basso e chi salisse vi si arrestasse solo di sfuggita, lo toccasse solo con le punte dei piedi: nell’attimo del contatto anch’egli non si librerebbe liberamente, resterebbe incatenato al lin-guaggio di questo attimo, di questo gradino. Anche se si fosse costruito da sé gradino e linguaggio per quest’attimo.

Nel corso del lavoro durato anni è stato ogni volta vittima di un autoinganno chi si è voluto far carico della liberazione dal linguaggio, sperando di portare a termine un’opera regolare e graduale. Non è un uomo libero colui che ancora si definisce ateo, oppositore di colui che egli nega. Non può compiere l’opera della liberazione dal linguaggio chi inizia a scrivere un libro con fame, con amore e con vanità della parola nella lingua di ieri, di oggi o di domani, nella lingua irrigidita di un de-terminato fisso gradino. Se voglio salire nella critica del linguaggio, che è l’occupazione più importante dell’umanità pensante, devo annientare

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il linguaggio passo dopo passo dietro di me e (2) davanti a me e dentro di me, devo distruggere ogni piolo della scala mentre salgo. Chi vuole seguire, ricostruisca i pioli per poi distruggerli di nuovo.

La rinuncia all’autoiganno sta nella prospettiva di scrivere un libro contro il linguaggio in un linguaggo irrigidito. Perché il linguaggio è vivo e non rimane immutato dall’inizio di una frase fino alla sua fine. “In principio era la parola”; qui, nel pronunciare la quinta parola, la prima parola “in principio” muta già il suo senso.

Così deve maturare la decisione o di pubblicare questo frammento come frammento o di consegnare il tutto al redentore più radicale, il fuoco. Il fuoco avrebbe portato la quiete. L’uomo tuttavia, finché vive, è come il linguaggio vivente e, perché parla, crede di avere qualcosa da dire.

Quello che uccide le cimici, uccide anche il pope. […]

L’essenza del linguaggio

(3) Nell’accingermi a dare una critica del linguaggio umano – pro-prio perché l’oggetto della mia ricerca è designato con lo strumento della ricerca stessa, cioè con la parola “linguaggio” – devo vagliare i concetti con maggior precisione di quanto accada altrove. Sul concetto di “critica” non devo certo fermarmi a lungo. Critica significa fin dai tempi antichi l’attività dell’intelletto umano di dividere o di distingue-re; l’osservazione attenta di due fatti simili deve di necessità condurre a prestare attenzione alle loro caratteristiche distintive, se la differenza è abbastanza grande per i nostri organi; poiché non ci sono fatti identici. Chi promette allora la critica di un fenomeno, non promette niente di più e niente di meno di un’osservazione scrupolosa o di un’indagine di questo fenomeno. Questo lo può fare ciascuno in buona coscienza, e il risultato della sua ricerca non dipende poi dalla sua volontà, ma dalla realtà osservata e dalla acutezza dei suoi organi di senso.

“Il” linguaggio – Ma che cos’è il linguaggio che mi sono proposto di esaminare attentamente e che ho promesso ai lettori? Non voglio prestare attenzione, come il compilatore di un vocabolario, alle singole parole di una determinata lingua; non voglio, come un grammatico, raggruppare le differenti forme di una singola lingua; non voglio nem-meno scrivere la storia di una singola lingua e tantomeno la storia di una famiglia linguistica, come si è posta come compito inattuabile la linguistica comparata prima per la nostra “famiglia linguistica” e poi per tutte le lingue della terra. Io voglio indagare chiaramente ciò che è comune alle lingue degli uomini, ciò che si potrebbe graziosamente chiamare in modo astratto l’essenza del linguaggio. (4) È subito evi-dente che “linguaggio” in questo senso significa qualcosa di totalmente

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diverso da “una lingua” o “le lingue”, per cui si potrebbe pur sempre all’occorrenza pensare a qualcosa di reale, anche se questo reale, poi-ché è un suono fugace, possa a stento essere annoverato tra le cose materiali. Ma quale reale sarebbe infine qualcosa di più che una forma fugace? Su questo punto non mi lascio andare a nessuna sofisticheria. Se si sono definiti i monumenti architettonici e i resti pietrificati del mondo originario come un linguaggio con il quale la preistoria del-la cultura o della natura parla a noi, in questo caso si tratta solo di un’espressione metaforica. Se richiamiamo alla memoria i geroglifici e i caratteri cuneiformi, con i quali un qualche antico popolo cerca di parlare con noi solo attraverso segni scritti, quindi soltanto mediante segni visibili, allora alla base di ognuna di queste lingue, nel caso in cui esse venissero effettivamente decifrate, vi sarebbe una lingua parlata. Anche il linguaggio visibile delle dita dei nostri sordomuti è ben solo una fissazione, resa visibile e adattata alle relazioni, di un linguaggio del popolo e rimanda a una lingua parlata al modo stesso della nostra abituale scrittura. Altra è l’idea - cosa che non esclude certo l’affinità dei fatti - che noi, uomini che viviamo tra i libri, possiamo andare tanto avanti nell’esercizio incessante della lettura fino a escludere la lingua parlata dalla nostra coscienza; anche nella lettura degli uomini che vivono tra i libri lavora tuttavia in modo inconscio il cosiddetto centro del linguaggio sonoro.

Le singole lingue sono dunque raggruppamenti eccezionalmente complicati di suoni mediante i quali i gruppi umani si comprendono. Ma cos’è “il linguaggio” con cui ho a che fare? Qual è l’essenza del linguaggio? In che rapporto è “il linguaggio” con le lingue?

La risposta più semplice sarebbe: “il linguaggio” non esiste; la pa-rola è un’astrazione così pallida che difficilmente gli corrisponde ormai qualcosa di reale. E se il linguaggio umano fosse affidabile come “stru-mento” del conoscere, se lo fosse in particolare anche la mia madre-lingua, (5) dovrei rinunciare fin dall’inizio al tentativo di questa critica, perché allora l’oggetto della ricerca sarebbe un astratto, un concetto irreale e inafferrabile. Con ciò mi trovo davanti al primo spiacevole dilemma. Solo se il linguaggio umano e in particolare la mia madrelin-gua non sono né affidabili né logici, solo allora potrò scoprire dietro l’estremo astratto “il linguaggio” ancora qualcosa di reale; allora però, per l’inaffidabilità dello strumento, non potrò eseguire la ricerca così a fondo come vorrei. In ogni caso, poiché di fatto non scrivo queste frasi introduttive all’inizio delle mie osservazioni, ma in seguito a fati-che durate anni, so già che questo spiacevole dilemma mi perseguiterà passo dopo passo.

Quale senso abbia l’astratto “il linguaggio” diverrà un po’ più chiaro quando avremo esperito quanto astratto e irreale sia proprio ciò che per il momento in buona coscienza abbiamo assunto come un qualcosa di reale: le singole lingue. Cosa sono poi queste singole lingue che costi-

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tuiscono l’oggetto della scienza del linguaggio, quella giovane scienza che quest’anno 4 ha compiuto 80 anni? Se si pensa che questa scienza si è prefissata di selezionare le diverse lingue degli uomini secondo le stirpi, i popoli e poi di nuovo secondo i dialetti e via dicendo, bisogna riconoscere che la scienza del linguaggio possa prendere le mosse solo provvisoriamente e con riserva dalle singole lingue. Il suo oggetto è piuttosto la massa enorme di tutti i suoni umani che mai siano stati detti o scritti dagli uomini per comprendersi in un qualche luogo della terra. La scienza del linguaggio si è prefissata di ordinare questo fondo enorme secondo parole e modi di formazione e, successivamente o precedente-mente, secondo una più vicina o lontana “parentela”. La delimitazione usuale secondo le lingue dei popoli e i dialetti serve, come detto, solo a un orientamento provvisorio. Un giorno si potrebbe scoprire che la lingua degli antichi indiani sia un “parente” stretto della nostra; (6) si potrebbe scoprire che il dialetto basso tedesco è più lontano dall’alto tedesco di quanto creda l’abitante del Mecklenburg che parla il suo dialetto basso tedesco. Nell’ambito delle lingue dell’Est asiatico queste sorprese sono evento quotidiano.

Lingue individuali – Da questa situazione della scienza del linguaggio appare chiaro che le sue singole lingue non sono unità così chiaramente definibili come ben si potrebbe credere. In realtà anche il concetto di lingua singola è soltanto un’astrazione per la gran quantità di somiglian-ze, anzi di somiglianze molto grandi presenti nelle lingue individuali di un gruppo umano, il cosiddetto popolo. «Natura sane nationes non creat sed individua» (Spinoza, Tract. Theol.-pol., xvii 5). Questo vale per il diritto, la legge e i costumi come per la lingua. Dobbiamo subito prendere atto di ciò che in seguito risulterà più trasparente, e cioè che la lingua individuale di un uomo non è mai perfettamente uguale a quella di un altro e che uno stesso uomo non parla la medesima lingua nelle diverse età della vita, anche se si fa astrazione dalle particolarità della sua lingua infantile. Non si possono non vedere, se si fa un po’ di attenzione, le diseguaglianze delle lingue individuali. Ogni scrittore che abbia carattere si riconosce per la sua individuale e caratteristica lingua. Anche a una distanza di cento passi. Come il quadro di un pittore che abbia carattere. Chi non abbia un suo proprio stile, non è uno scrittore nato. Solo Dio (nella Bibbia) non ha un proprio stile. Spinoza ci ha detto ridendo (Spinoza, Tract. Theol.-pol., ii 6): «Deum nullum habere stylum peculiarem dicendi, sed tantum pro eruditione et capacitate Prophetae eatenus esse elegantem, compendiosum, severum, rudem, prolixum et obscurum». Come un giornalista che vuole piacere al suo pubblico. Solo in un grande scrittore è particolarmente evidente il fenomeno della lingua individuale. Ma anche la differenza della lingua di un individuo nei diversi periodi della sua vita è maggiore di quanto si vorrebbe credere. Si può presumere in generale che il singolo uomo

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segua grosso modo l’evoluzione della lingua del tempo che ha vissuto, anche se (7) molte abitudini della sua giovinezza gli rimarranno così impresse come nella lontananza le abitudini del suo dialetto di casa. Si provi a immaginare un tedesco nato nello stesso anno di Walter von der Vogelweide e che oggi, a poco più di 700 anni di età, viva ancora in piena freschezza di spirito e corpo. Alcune feconde utili ipotesi scien-tifiche dei nostri linguisti presuppongono ancor più fantasia. Noi oggi capiamo le poesie di Walther solo con l’aiuto di un lessico di tedesco alto-medievale, e lo stesso Walther potrebbe capire i nostri romanzi e articoli di giornale solo dopo studi faticosi (perché dovrebbe per di più imparare molti fatti); allo stesso modo sostengo: il mio uomo di sette-cento anni parlerebbe grosso modo la lingua dei nostri giorni, sarebbe divertito dalle abitudini del diciottesimo secolo nella lettura ad esempio di Lessing, ma avrebbe le nostre stesse difficoltà a leggere senza ausilio scientifico il suo compagno di gioventù Walther. Se si incontrasse con Walther, non si comprenderebbero l’un l’altro.

Il letto del fiume del linguaggio – Possiamo quindi dire che le lingue individuali, di cui suole occuparsi la scienza del linguaggio come fosse-ro cose reali, assomigliano a correnti, nelle quali in ogni singolo punto la goccia d’acqua viene nel tempo continuamente sciolta da altre gocce d’acqua e stando nello spazio in mezzo ad altre gocce d’acqua vi scorre dentro. L’antico detto greco “non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume” vale anche per il linguaggio. Le sue parole e le sue forme sono incessantemente mutate. Se il nostro Helm 7 deriva veramente dall’antico indiano çarman (gotico hilms), il cambiamento si è prodotto del tutto gradualmente in un impercettibile sfumatura del suono; ma quanto più insignificanti siano i cambiamenti di suono da stirpe a stir-pe, quanto più ogni stirpe crede e spera di consegnare pura la parola ereditata, tanto più incessante deve essere il flusso di questi cambia-menti perché da çarman venga Helm. Qui cento anni significano così poco che Helm, ad esempio, era ancora del tutto adeguato, (8) quando gli organizzatori delle forze armate prussiane reintrodussero la parola (insieme alla cosa) all’inizio del xix secolo, dopo che per circa due-cento anni era rimasta reclusa in un ambito puramente storico-poetico. Anche i mulini del linguaggio macinano lentamente, ma con sicurezza. Allora ogni goccia che segue – per rimanere all’immagine della corren-te – è così simile a quella che la precede che nessun microscopio riesce a individuarla; eppure non è escluso che l’acqua di una corrente nel corso dei secoli non modifichi le parti dissolte in essa, perché si sono esauriti dei depositi di minerali lungo il suo corso o perché è inondata più velocemente una qualche montagna per via del diboscamento o perché vi sono stati cambiamenti nel terreno, ecc. Quello che per la corrente è una possibilità o una probabilità poco notata, è realtà certa per la lingua. Le lingue cambiano incessantemente il significato delle

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loro parole e nell’immensa circolazione dell’ultimo secolo, nel grande spreco di nuovi concetti, la lingua riesce a mala pena a venire incontro ai bisogni del cambiamento di significato. Per esempio, il cambiamento di significato delle parole nell’ambito dell’ampio gruppo dei concetti che riguardano le ferrovie non si è compiuto completamente. Si pensi a Platz in Platzkarte 8. Oppure al concetto di Stunde dei berlinesi (“Nach Hamburg sind es vier Stunden” 9) e degli abitanti di montagna (“Gute vier Stund’ bis hinauf” 10). Per altri versi ha luogo incessantemente il mutamento del suono, che può essere ricondotto principalmente all’unica necessità della funzionalità fisiologica. Eppure, se è general-mente riconosciuto che il mutamento del suono viene attuato in gran parte per risparmiar lavoro agli organi fonatori, anche il mutamento delle forme di costruzione, che finisce con l’allargare ed estendere innovativamente le analogie (per esempio in tedesco la sostituzione della coniugazione forte con quella debole, come backte 11 invece di buk, in maniera analoga nel linguaggio infantile: trinkte 12 invece di trank), è una comodità per le vie nervose. Esempi sono quasi inutili. In tedesco la strana parola tardo latina paraveredus (9) è diventata alla fine Pferd 13, che inoltre viene spesso pronunciata Ferd, così che nella futura ortografia la p forse verrà abbandonata. La parola greca ejlehmosuvnh (tedesco Almosen) è diventata l’inglese alms, che viene pronunciato ams. Qualche volta possiamo osservare al lavoro questo segreto operare per una pronuncia più comoda. Così ancor oggi ogni maestro e studente di paese scrive sehen e gehen 14. Attori, predicatori e loro pari si sforzano di pronunciare chiaramente la e muta. Ma nella lingua parlata questa e muta, che nel gotico è una a (saihwan), non viene più pronunciata e i maestri di lingua sono in imbarazzo su quale sia la regola da formulare. Ancora pochi anni fa un linguista scriveva che omettere questa e nella sillaba finale en (gesehn) fosse volgare. Da allora ho visto spesso questa omissione.

Ora il cambiamento delle parole nel tempo è già più variegato e più fine di quanto finora siano state contrassegnate le differenze delle gocce d’acqua che si susseguono l’una dopo l’altra, così anche la dif-ferenza delle gocce d’acqua, che scorrono a fianco l’una dell’altra nel letto del fiume, non è poi così grande come quella delle lingue indivi-duali tra connazionali. Se si è confrontata la singola lingua con il fiume che eternamente muta, bisogna pur dire che la corrente della lingua è più lenta, eppure nella lingua – e qui sta il punto – l’inafferrabilità e la fuggevolezza del singolo momento mi sembra ancora più grande. Faremmo un passo avanti se potessimo paragonarla a una corrente d’aria regolare e a un letto di questa corrente d’aria. Se allora non si vuole riconoscere nella singola lingua un astratto irreale non rimarrà altro che confrontare la singola lingua con il letto stesso del fiume, con la forma che rimane eguale a sé stessa, poiché il letto del fiume si modifica in modo sufficientemente lento.

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Ora, se non mi sono posto il compito di seguire la forma e la storia delle singole lingue, ma quello di osservare ciò che in esse è comune, devo scoprire le loro affinità. Se non vi è altra somiglianza tra le sin-gole lingue che quella che sta nella definizione che esse servono alla comprensione tra gli uomini, in questo caso la mia ricerca arriverà pre-sto alle fine oppure non darà alcun risultato positivo. (10) Servirebbe però a distruggere alcune superstizioni che grammatica e logica hanno intrecciato al linguaggio. Ma io spero di poter fare ancora un piccolo passo più in là. Se si confrontano tra loro le singole lingue allo stesso modo in cui la descrizione della terra confronta tra loro i singoli letti dei fiumi, in base alla loro posizione, alle loro linee e simili, mi pare possa soltanto venirne fuori una scienza inutile. Però sarebbe anche possibile, con attenzione molto precisa e completa conoscenza di tutte le circostanze concomitanti, descrivere fin nei dettagli ogni singolo letto di fiume come effetto della propria massa d’acqua. Le note proprietà fisiche e chimiche dell’acqua sono le sole cause del letto attuale che poi certo insegnano di nuovo la strada alle nuove masse d’acqua. Que-sti insegnamenti sono a buon mercato come le more. Ogni pecoraio lo capisce e lo sa anche senza essere interrogato. Tuttavia c’era un tempo nel quale l’umanità spinta da un intenso bisogno di mitologia si imma-ginò un qualche dio, un’immagine maschile o femminile, seduto alla sorgente del fiume, il quale dio con nascoste intenzioni faceva fluire molta o poca acqua, acqua calda o fredda, acqua buona o cattiva nel letto del fiume o dalla sorgente. Uno strascico di questa mitologia lo troviamo ancor oggi in espressioni come il padre Reno oppure anche nelle ridicole figure femminili che, con improbabili brocche greche nelle mani, rappresentano fiumi tedeschi su ridicoli monumenti. Lo abbiamo fatto in buona fede, dice la gente a mo’ di scusa.

Mitologia nel linguaggio – Nelle scienze dello spirito tuttavia, special-mente nelle intuizioni del linguaggio umano, questo bisogno di mito-logia è ancora fortemente presente. E mi sembra proprio una forma di mitologia quello che pensano del linguaggio non solo i preti e il volgo, (11) quello che i linguisti copiano l’uno dall’altro, cioè che il linguaggio sia uno strumento del nostro pensiero (uno strumento mirabile per giunta). Secondo questa idea, ancor oggi unanimamente condivisa, nel letto del fiume del linguaggio siede una divinità – una figura maschile o femminile – il cosiddetto pensiero, che regna sul linguaggio umano con i suggerimenti di una divinità affine, la logica, e con l’aiuto di una terza divinità, la grammatica. Il risultato della mia ricerca di cui andrei più orgoglioso sarebbe riuscire a convincere gli uomini dell’irrealtà e della pochezza di questa trinità; servire divinità irreali richiede sempre sacrifici, quindi è sempre nocivo.

Ritengo che “il linguaggio”, il linguaggio in generale o l’essenza del linguaggio, a una considerazione più attenta, non ne vorrà più

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sapere della sovranità del pensiero, della logica e della grammatica. “Il linguaggio” si rivelerà in gran parte un vuoto astratto; dove invece noteremo effettive somiglianze tra le singole lingue, che sono anch’esse astrazioni, dove il linguaggio diverrà per noi una designazione per un atto effettivo dell’agire umano, non avremo alcuna necessità di risalire al pensiero, alla logica, alla grammatica quale origine. Piuttosto sco-priremo che pensiero, logica e grammatica sono aspetti del linguaggio che in un certo senso si nascondono nel linguaggio e vengono sco-vati da oziosi fanatici dell’ordine. Così in natura non c’è altro blu di quello dei fenomeni blu. Sarebbe così anche se la lingua non si fosse data la pena di astrarre l’aggettivo blu. Allo stesso modo l’elettricità c’era prima che la si scoprisse, rendeva cioè i suoi effetti percepibili ai nostri sensi. Come ci sono nella natura tutti gli elementi che ancora non conosciamo.

La formazione del linguaggio – (12) Alla fine però anche questa critica vorrà soltanto quello che ogni scienza del linguaggio ha voluto da sempre: spiegare il fenomeno del linguaggio.

Spiegare il linguaggio! Anche i Greci cercavano ingenuamente qual-cosa di simile quando discutevano se il linguaggio fosse sorto per na-tura o mediante un legislatore. L’origine da un legislatore deve essere stata la risposta più antica, quella teologica. Questa risposta poi venne data dai meno dogmatici Greci in modo un po’ più razionale rispetto ai cristiani del medioevo; i Greci pensavano pressappoco a un legislatore umano, a un eroe, a un inventore, come in genere onoravano tra gli dei gli inventori delle principali attività culturali. Sono da preferire ai cristiani anche per aver pensato nel linguaggio a qualcosa di più con-creto, cioè alla propria lingua nazionale, al greco. I cristiani – per com-prendere sotto questo nome i popoli del nuovo sviluppo dell’Occidente – raggiunsero molto presto la coscienza che ci fossero molte lingue e di pari dignità e concepirono dapprima “il linguaggio” come un astratto, in modo che contenesse pressappoco il senso di “facoltà di parlare”, visto che si parlava di Dio che ha dato agli uomini il linguaggio. Questa idea, che per noi è quasi mostruosa, si trova ancora del tutto intatta e pretesca nel resoconto, per altri versi eccellente, dei risultati ottenuti fino a oggi dalla linguistica, nelle lezioni di Whitney. Qui si dice (Die Sprachwissenschaft, rivisto da Jolly, 1874, p. 555 15): «l’origine divina del linguaggio è da mantenere nel senso in cui la natura degli uomini è in generale dono di Dio insieme con tutti i doni innati e acquisiti». Questi complimenti per il buon Dio possono essere ipocrisie consapevoli (con questo non vorrei prestar fede volentieri a passi simili dell’Einleitung in die vergleichende Religionswissenschaft di Max Müller 16); ma possono anche essere cortesie inconsce, adattamento alla comunità popolare; e allora appartengono anch’esse all’ambito del mutamento semantico.

(13) Dobbiamo guardarci naturalmente dal credere che tutte queste

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proposizioni, domande e risposte abbiano avuto lo stesso significato in tutti i tempi. All’evoluzione della lingua appartiene, come condizione secondaria concomitante, che le parole subiscano un cambiamento di significato anche là dove noi non lo sappiamo. E dove lo sappiamo non siamo sempre coscienti del cambiamento.

Così i Greci hanno certo collegato al pensiero che un legislatore avesse creato il linguaggio, l’idea infantile che questo legislatore abbia creato l’unica lingua corretta, ovviamente quella greca. Non solo un cavallo si chiamava i{ppo", era anche un i{ppo". In questo i cristiani li superarono di nuovo poiché nella loro dottrina dell’origine divina del linguaggio era certo insita l’idea di una certa arbitarietà. La volontà di Dio è eo ipso caso. Fu volere di Dio che ci fossero più lingue; eppure vi furono più lingue di pari dignità. L’arroganza nazionalistica dovette essere originariamente estranea al cristianesimo internazionalista. Alla trovata stravagante di dedurre etimologicamente le lingue dall’ebraico si pervenne solo più tardi, per via filologica. Non si trattava di un dogma teologico.

fuvsei – Nel momento in cui si oppose alla tesi che il linguaggio fosse sorto qevsei (mediante un legislatore) la nuova teoria che esso fosse sor-to fuvsei, a concetti ingenui erano mescolati pensieri corretti. Sarebbe quindi del tutto falso credere i seguaci di Eraclito capaci di elabora-re l’idea attuale di uno sviluppo naturale del linguaggio. Riusciamo a mala pena a immedesimarci nel cervello di coloro che negavano la creazione artificiale del linguaggio senza sospettare l’elemento incoscio del processo e che per di più facevano sorgere dalla natura una lingua “giusta”. Coloro che insegnavano la nascita fuvsei, si interrogavano pur sempre sull’origine della lingua greca. Anche i nostri linguisti insegnano lo sviluppo per via naturale; ma essi conoscono dai tempi di Leibniz l’inconscio dell’attività umana che (14) produce tale effetto e accettano le singole lingue come dati di fatto. La loro domanda non riguarda più l’origine dell’unica lingua giusta, e nemmeno l’origine del linguaggio in generale. La loro domanda è del tutto circoscritta e suona pressappoco così: attraverso quale evoluzione storica si è giunti a che noi (ad esem-pio gli abitanti di una zona dell’Altmarkt) parliamo come parliamo, a che invece gli attuali bantù parlino come parlano.

Alla domanda si riesce a rispondere solo in parte; risalendo ora a due o tre, ora a cinquanta fino a cento generazioni. Vi sono lingue giovani e vecchie, come vi sono famiglie che sanno ancora al massimo come si chiamasse il nonno e cosa facesse, e altre, più orgogliose, che possiedono ancora notizie dei loro avi. Dietro questi testimoniati svilup-pi sta sempre però la paleontologia del linguaggio. E la domanda della linguistica moderna è così limitata perché si accontenta di notizie così scarse e accetta senza curarsene le vaghe ipotesi che hanno il compito di chiarire la preistoria.

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Gli antichi non potevano quindi intendere come noi l’astratto “il linguaggio” perché non riuscivano a pensare al di là della loro lingua nazionale (oltre la quale i Romani coltivavano anche il greco), ma non potevano nemmeno comprendere il concreto nel linguaggio come i no-stri ricercatori che si sono spinti effettivamente fino alla massima con-cretezza, quasi fino alle onde acustiche. In quanto movimento dell’aria, il suono della lingua non viene certo determinato matematicamente, ma sicuramente compreso sul piano fisico.

Ma l’idolatria è innata all’uomo. Egli cerca continuamente di saltare al di là delle generazioni che conosce, che possono andare da tre a cento, di risalire fino a quelle innumerevoli che non conosce, egli si interroga sempre di nuovo sull’origine “del”linguaggio. Ma poiché, se è un avveduto linguista, non potrebbe certo interrogarsi sull’origine di una stirpe attualmente parlante, poiché la domanda (15) sull’origine ad esempio delle radici sanscrite con cui le nostre lingue indoeuropee devono aver cominciato, suona davvero come uno scherzo infantile, ogni ricerca sull’origine della lingua non è allora più un’occupazione che abbia a che fare con un qualcosa di concreto, ma – ciò che non è ancora entrato in testa – è un ritorno all’astratto: “la” lingua. In que-sto senso “la lingua” è pressappoco lo stesso di ciò che la precedente psicologia ha chiamato “la facoltà linguistica”. Quindi la domanda sull’origine della lingua, il che significa sulle prime attività della facoltà linguistica, sarebbe la stessa della domanda sull’origine della facoltà linguistica. Il che pare un assurdo.

La facoltà del linguaggio – Sembra soltanto. Dobbiamo considerare an-che il linguaggio tra le altre attività umane allo stesso modo del cam-minare, del respirare. Per il biologo è un’idea sensata non che l’uomo cammini, perché ha gambe, ma che abbia gambe perché cammina; non che l’uomo respiri, perché ha i polmoni, ma che abbia un polmone perché respira.

Più correttamente: lo sviluppo di uno strumento e la crescita dell’at-tività procedono parallelamente. Se consideriamo ora lo strumento re-ale del linguaggio (con strumento linguistico intendo oltre all’apparato acustico, anche tutti i muscoli e i nervi che ne sono al servizio o al comando) come espressione fattuale di una facoltà linguistica immagi-naria, è certo possibile che lo sviluppo del linguaggio umano sia andato di pari passo con lo sviluppo degli organi linguistici dell’uomo.

Se ci atteniamo rigorosamente a questa idea, vediamo chiaramente che – per quanti infiniti luoghi del tempo possiamo percorrere all’in-dietro alla ricerca dell’origine del linguaggio – non raggiungiamo mai un punto in cui dovremmo abbandonare l’idea del suono linguistico concreto, in cui dovremmo interrogarci sull’origine dell’astratto, del linguaggio.

Mi sembra che il valore di questo punto di vista risieda nella pos-

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sibilità di eliminare alcune astrazioni dall’uso scientifico (16). Locu-zioni quali “facoltà linguistica” o “il dono del linguaggio” diventano definitivamente superflue, se viene chiaramente riconosciuto che l’uso linguistico, vale a dire l’esercizio dell’attività linguistica, ha sviluppato per primo lo strumento linguistico. Si troverà allora assurdo il concetto di una “facoltà linguistica” come si trova assurda l’idea di una partico-lare “facoltà motoria” o di una particolare “facoltà respiratoria”. Certo vi è maggiore comodità nello spontaneo muoversi dell’animale rispetto al sostare in attesa delle piante; ma lo strumento del movimento si è sviluppato col muoversi. Allo stesso modo respirare con i polmoni è probabilmente più confortevole che prendere l’aria nell’acqua come fanno i branchiati; ma nessun uomo potrà sorvolare sullo “sviluppo” graduale di questo “dono”, perché ogni rana ne offre un esempio.

Camminare e parlare – La somiglianza tra il camminare, o altre azioni, e il parlare diverrebbe più evidente se fin d’ora, con una prospettiva più precisa, potessimo sempre sostituire l’astratto «linguaggio» con il termine «parlare», che designa un’attività.

Il nostro punto di vista ha inoltre il merito di far perdere l’antico senso alla domanda sull’origine “del” linguaggio. L’origine deve essere posta sempre più indietro e la ricerca sulle radici sanscrite decade a una storia linguistica del giorno prima. Quando anche io – seguendo l’invincibile uso linguistico – parlo di un’origine del linguaggio, non penso con questo a un’origine effettiva che non riusciamo ad avvicinare, ma a un punto del corso della corrente situato chissà dove all’indietro, a un punto di quiete, che esiste però solo nella mia rappresentazione.

I movimenti finalistici, che noi riassumiamo nel nome linguaggio o meglio nel verbo “parlare” (ogni verbo è un concetto ordinatore dal punto di vista umano in vista di un fine), hanno un loro percorso generale che dal movimento inconscio passa attraverso il volere conscio e ritorna all’inconscio, e sicuramente sia nell’evoluzione generale della lingua come nella lingua (17) dell’individuo. Le espressioni di dolo-re e di felicità continuano a non provenire dal volere cosciente; non provengono, per applicare un uso linguistico degli psicologi francesi, dalla volonté. Nei bambini imparare a parlare e imparare a camminare sono ugualmente legati alla coscienza; dobbiamo allora ritenere che anche nello sviluppo genetico della lingua ogni arricchimento, ogni nuova sottile metafora sia stata connessa alla coscienza. Alla fine però ogni lingua abituale diventa tanto automatica che al profano riesce ini-zialmente difficile vedere solo nei movimenti la realtà della lingua. In fondo egli nota solo i risultati dei movimenti, i suoni, non i movimenti stessi. Il parlare o il pensare, ogni conoscere, rimangono sempre legati al volere conscio o inconscio, perché ogni conoscere ha la sua origine ultima nell’attenzione suscitata dall’interesse individuale e nell’atten-zione ereditata dall’interesse dei predecessori.

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Se gli uomini non avessero imparato a parlare, e uno solo di loro parlasse, sarebbe naturale per un osservatore interpretare il fenomeno come una successione di movimenti e difficilmente gli verrebbe in mente di dare a questi movimenti un nome comune. Così, un bambi-no posto di fronte a un bue che muggisce, percepisce chiaramente la fatica dell’animale. Al contrario i movimenti linguistici di un individuo che fosse il solo a parlare tra simili privi di linguaggio non sarebbero affatto linguaggio. Così non si può proprio immaginare un unico uomo che parli tra compagni senza linguaggio, come un dio parlante che per primo doni agli uomini il linguaggio. Oppure sarebbe come l’abbonato di una estesa catena telefonica che non avesse un secondo abbonato. I suoi movimenti finalistici non sarebbero linguaggio. I suoi movimenti finalistici diverrebbero linguaggio solo attraverso la caratteristica, che va oltre l’individuo e la realtà, di essere uguali in un gruppo di uo-mini, di essere perciò comprensibili, di essere utili. Solo come fattore sociale la lingua, che prima dell’invenzione (18) dell’arte della stampa non era neppure raccolta in un vocabolario, diviene qualcosa di rea-le. Il linguaggio è una realtà sociale; a prescindere da questa, è solo un’astrazione da determinati movimenti.

Non ho bisogno di aggiungere che gli usuali concetti di volizione e di volere sono a loro volta astrazioni alle quali non corrisponde nul-la di reale. Così ogni movimento della lingua si riconduce alla fine a un impulso alla comunicazione che andrebbe ottimamente aggiunto all’impulso a respirare, all’impulso ad alimentarsi (del quale l’impulso a respirare sarebbe solo una sottospecie), all’impulso sessuale (di cui l’impulso al nutrimento sarebbe solo un servitore), all’impulso al gioco e all’impulso alla percezione. L’impulso alla percezione si potrebbe allo stesso modo dividere in impulso alla visione, impulso a udire ecc. Ma tutti questi impulsi derivano solo dall’impulso umano a classificare, il quale è degno di quelli, il che significa per l’economia della memoria umana; nella realtà psicologica può anche non esserci alcun impulso al di fuori della volontà individuale di vivere, per la quale poi si trova naturalmente la designazione di impulso alla sopravvivenza.

Da nessuna parte la lingua materna – Non ci sono due uomini che par-lino la stessa lingua. Nei momenti di malumore più profondo, ognuno avrà pensato almeno una volta che nessun altro possa comprendere la sua lingua. Metaforicamente ognuno afferra questa proposizione. Tut-tavia non si concede facilmente che essa contenga una verità scientifica obiettiva. Una verità che si potrebbe esprimere anche così: ciascuno «domina» un frammento diverso della madrelingua comune. Scegliere quest’ultima parola mi riesce difficile. Capita quotidianamente infatti di comprendere una porzione più grande della nostra madrelingua e di riuscire a parlarne una più piccola; come del resto si comprende in genere un dialetto vicino, ma si riesce a parlare solo il proprio.

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Alla base di questa riflessione sta il concetto di una lingua comune a un popolo, (19) la madrelingua. Ma dove questa lingua è realtà? dove mai? non nel singolo. Perché chi comprende solo una parte del patri-monio di parole e di forme, usa solo una piccolissima parte di quello che comprende. Non nei libri. Perché altrimenti non ci sarebbe stata nessuna lingua prima dell’invenzione della scrittura. Dappertutto nei libri c’è, al massimo, una raccolta di parole e regole, e le letterature che casualmente si sono sviluppate; non c’è mai però neppure la possibilità di raccogliere una lingua. Dov’è dunque realtà l’astratto “linguaggio”? Nell’aria. Nel popolo, tra gli uomini.

Nessuno può vantarsi di conoscere anche solo la propria lingua. Jacob Grimm non ha sempre osservato le sue proprie regole. Un Goe-Goe-the usa alcune parole con incertezza, fa “errori linguistici”. In breve, nessuno conosce tanto precisamente la lingua tedesca da essere sicuro di ogni forma d’uso, da non trovare ogni tanto parole che non ha mai usato, mai sentito o letto. […]

Linguaggio e socialismo

Il linguaggio e il suo uso – (24) Ma questo è proprio lo straordinario gioco di prestigio del linguaggio, cioè che il fondamento e il segno della sua miserabile povertà vengono ritenuti enorme ricchezza, e ritenuti a ragione dalle masse degli uomini e dagli uomini di massa: perché il linguaggio è un oggetto d’uso che guadagna valore con l’estendersi dell’uso. È facile chiarire il prodigio. Tutti gli altri oggetti d’uso ven-gono completamente consumati dall’uso, come gli alimenti, oppure logorati, come gli strumenti e le macchine. Se il linguaggio fosse uno strumento, verrebbe anch’esso logorato o consumato. Soltanto però le parole vengono consumate, logorate, messe da parte, svalutate. Ma in questo modo acquistano valore per le masse. Il linguaggio non è però un oggetto dell’uso, nemmeno uno strumento, non è affatto un ogget-to, non è niente altro che il suo uso. Linguaggio è uso del linguaggio. Allora, che l’uso aumenti con l’uso non costituisce più un prodigio.

Questo fatto, che non poteva certo passare del tutto inosservato, ha subito a partire da Hegel tali tentativi di distorsione che si è annoverato il linguaggio, insieme con l’arte, la religione e le istituzioni statali, tra le creazioni del cosiddetto spirito oggettivo. Propriamente spirito è il soggettivo nell’uomo: nel momento in cui ora lo si scaraventa fuori dal singolo uomo e lo si chiama oggettivo, ci si costruisce un nuovo dio, con cui i socialdemocratici dovrebbero trovarsi d’accordo. Questo spiri-to poi pensa vuole e fa quello che la massa pensa vuole e fa. In verità il fatto che si presenta con parole così altisonanti come spirito oggettivo, non è altro che la dipendenza del singolo uomo dal linguaggio che egli ha ereditato dalle masse dei suoi antenati che sono succedute le une

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alle altre, e che ha valore d’uso per lui proprio perché è una proprietà comune di tutti i compagni del popolo. Gli oggetti d’uso rimangono inalterati (25) quando non vengono consumati dall’uso degli uomini o dall’uso involontario degli agenti naturali. Il linguaggio per contro senza uso muore, poiché non è un oggetto d’uso, ma esso stesso uso. Allora è di decisiva importanza che tutte le parti della lingua siano sempre in uso in qualche luogo tra il popolo. Il singolo uomo non usa forse per anni solo la decima parte delle parole che il linguaggio gli mette a disposizione e solo una minima parte delle combinazioni di queste parole? Il singolo, come si è detto, non domina la sua madrelingua. Altrove è certo in uso un altro decimo e di tanto in tanto colpiscono l’orecchio del singolo uomo tanti centri di associazione linguistica dei decimi non usati che alla fine una parte molto più ampia dell’intera lingua è continuamente a disposizione nell’esercizio passivo.

Linguaggio, una regola del gioco – Il comunismo è potuto divenire realtà sul piano del linguaggio, poiché il linguaggio non è qualcosa di cui ci si possa impossessare; il possesso comune è possibile senza inconvenienti, poiché il linguaggio non è niente altro che l’affinità o la volgare comunanza 17 della concezione del mondo. Le masse degli uomini e gli uomini di massa si rallegrano stupiti di tale possesso e non sospettano che si tratti di un’illusione. Anche luce e aria sono in comune, ma esse sono qualcosa, e ogni raggio di calore, ogni atomo d’aria che qualcuno consuma viene sottratto a un altro. Luce e aria sono pur sempre valori. Il cittadino li deve pagare cari. Il linguaggio è un valore solo apparente, come una regola del gioco che diventa tanto più cogente quanti più giocatori vi si sottomettono, una regola però che non vuole né cambiare, né comprendere il mondo della realtà. Nel gioco di società del linguaggio, che si estende a tutto il mondo e quasi lo domina, il singolo è contento di pensare assieme a milioni di perso-ne seguendo le stesse regole, quando impara ad esempio a rispondere ai vecchi enigmi ripetendo la nuova risposta “progresso”, quando la parola “naturalismo” è diventata di moda, oppure quando le parole “libertà”, “progresso” lo eccitano e lo dominano. La storia viene fatta da nature forti che in questo gioco di società mondiale gridano le pa-role alle masse degli uomini. (26) Queste nature forti vanno bene per il mondo. La storia spirituale viene fatta da uomini eccezionali che non vanno bene per il mondo, i quali, discostandosi dal gioco, considerano il mondo diversamente da come lo hanno considerato le masse dei predecessori e da come la lingua ereditata pretende, da uomini che, senza eredità e origine, credono di conoscere il mondo in modo nuovo e possono a mala pena ammettere che anch’essi, con il sacrificio della propria vita, non hanno escogitato che piccole modifiche delle regole del gioco per il gioco di società del mondo. Li si possono considerare come variazioni casuali che rompono la rigida ereditarietà della specie

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e forse possono contribuire a un lieve cambiamento della specie. Essi non sanno che farsene della proprietà comune del linguaggio, e la società, ciò che è comune, non sa che farsene di loro.

Il linguaggio, non un’opera d’arte – Si è chiamato così spesso il linguag-gio una meravigliosa opera d’arte che la maggioranza degli uomini ha considerato davvero questa massa nebulosa e fluttuante, che confluisce in un concetto confuso, come un’opera d’arte. Solo che la stessa opera uno l’ha considerata una distesa erbosa, un secondo un tempio antico, un terzo il ritratto del nonno.

Il linguaggio non può essere un’opera d’arte già per il fatto che non è la creazione di un singolo. Come abbiamo già detto, io non posso veramente rappresentarmelo, ma posso pensare a parole che l’umanità abbia vissuto per migliaia di anni senza parole e senza concetti, senza dubbi e senza menzogne come il mondo animale, e poi all’improvviso sia nato un uomo gigantesco, un uomo grande come una catasta tra uomini alti un cubito. E costui sarebbe stato un poeta. Perché il lin-guaggio non fu mai un’opera d’arte, ma pur sempre il mezzo artistico della poesia. Egli avrebbe, per sé e del tutto da solo, come se avesse voluto scaricare la tensione in un tuono, desiderato con ardore, in-ventato e completato il linguaggio. Allora sarebbe diventato un’opera d’arte. L’opera di un Uno. Anche un monologo però. Gli uomini alti un cubito non lo avrebbero capito. Il linguaggio nato dal bisogno di scaricare un tuono sarebbe potuto essere un’opera d’arte. Il linguag-gio nato da un istinto ordinario della comunicazione è un brutto (27) lavoro di fabbrica, raffazzonato da miliardi di lavoratori a giornata.

Il linguaggio non può essere un’opera d’arte perché un singolo non può averlo creato, e non è neanche un’opera d’arte perché non è stato creato per un bisogno grande di un uomo grande come una catasta, ma per i piccoli bisogni di tutti. Il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su finestra, abitazione su abitazione, casa su casa, strada su strada, quartiere su quartiere, e tutto è insca-tolato in qualcos’altro, legato all’altro, spalmato sull’altro, attraverso tubi e fossi, e se gli si pone davanti uno zulù e gli si dice che quella è un opera d’arte, allora quell’asino ci crede, eppure a casa ha la sua capanna, rotonda e libera.

Volgarità del linguaggio – Se però il linguaggio non è un’opera d’arte, proprio per questo è fino a oggi l’unica istituzione della società che effettivamente si fonda su basi socialistiche. Davvero la città, come il linguaggio, ha i suoi tubi del gas che portano luce avvelenata in tutte le stanze, i tubi di piombo che portano un’acqua infetta in tutte le cucine, le condutture che fanno gorgogliare vivacemente sotto terra la sporcizia di milioni di uomini in bella simmetria con la vita di superfi-cie verso nuovi territori dell’umanità a venire, le marcite. Ma caligine,

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acqua putrida e letame non sono ancora dappertutto bene comune. L’esattore delle tasse regola il rubinetto e pretende denaro. Per questo il linguaggio è una cosa ancor più divertente. Per dirla chiara: nei suoi tubi arrugginiti scorrono insieme luce e veleno, acqua pura e contagio e schizzano fuori dalle giunture gratis e dappertutto in mezzo agli uo-mini; l’intera società non è altro che un’enorme opera idraulica gratuita costruita per questo miscuglio; ogni singolo è un doccione, e di bocca in bocca la sorgente torbida si vomita addosso e si mischia gravida e contagiosa, ma infruttuosa e infame, e per questo non c’è proprietà e nemmeno diritto e nemmeno potere. Il linguaggio è un bene comune. Tutto appartiene a tutti, tutti ci fanno il bagno, tutti lo respirano, e tutti lo producono da sé.

(28) Gli utopisti sperano e insegnano che un giorno l’intera natura diventerà comune così come lo è il linguaggio, solo quando ogni pro-prietà sarà comune e a buon mercato come il linguaggio. […]

La superstizione della parola

(158) Platone e altri buoni filosofi del Medioevo si richiamano spes-so ai versi di Omero, come se il poeta fosse un’autorità per il mondo reale. Quei versi non sono per loro citazioni ornamentali, né sostegno morale delle loro argomentazioni, ma sono davvero qualcosa come prin-cipî dottrinali. Oggi siamo diventati più raffinati. Ma le parole che il popolo ha escogitato per necessità o per superstizione vengono sempre ancora trattate come se l’esistenza di una parola fosse una dimostrazio-ne per la realtà di quello che designa.

Il termine comunissimo “significare (bedeuten)” ci pare una paro-dia dello sviluppo del linguaggio. Dal significato originario “produrre qualcosa mediante un’indicazione (Hindeutung)”, ad esempio indicare (bedeuten) a qualcuno di fare qualcosa, è diventato con il tempo una designazione per tutti i casi in cui si indica qualcosa d’altro, di estra-neo, di impreciso. Il linguaggio si è sviluppato mediante metafore, così che una parola finisce col significare qualcosa d’altro da quello che significa. Adesso per “significativo (bedeutend)” si intende importante; ancora Goethe, che amava molto il termine, intende per bedeutend qualcosa come tipico, caratteristico. Sarebbe bene circoscrivere que-sto termine abusato alla spiegazione delle metafore; ad esempio nella proposizione “lei contava diciassette primavere”, “primavera” significa anni.

La superstizione umana possedeva però in “significare” una parola perfetta per questo suo indicare un segno in un evento futuro o in un fatto nascosto; e poiché aveva la parola, la usava. Allora dietro ai fenomeni della natura si nascose la potenza degli dei che rendevano noto il futuro e l’occulto con segni e prodigi, così come i sacerdoti

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rivelano con parole il futuro e l’occulto. Allora ci si chiese: cosa signi-fica questo terremoto? Cosa significa questo mostro? Cosa significa questa cometa?

(159) Oggi si è fatta tremenda chiarezza e si sono consegnati ter-remoti, mostri e comete alla scienza. Ma se si trova da qualche parte nell’uso linguistico una parola, ormai debole e vecchia, che non si comprende più, si chiede allora con la stessa superstizione: cosa si-gnifica anima? cosa significa ragione? cosa significa materia? Quando la geologia insegnava ancora che Dio aveva creato le rocce e insieme aveva subito impresso i calchi di piante e animali, ci si chiedeva: cosa significano questi prodigi della natura? Ora i calchi di piante e animali si spiegano con la formazione della terra e con la storia dell’evoluzione delle specie e si chiede: cosa significa evoluzione?

“rebus” – La maggioranza degli uomini soffre della debolezza di cre-dere che, perché c’è una parola, la parola deve esserci per qualcosa; perché c’è una parola, alla parola deve corrispondere qualcosa di reale. Come se ogni disgregazione in una pietra debba essere il calco di una pianta! Oppure come se una linea scarabocchiata per caso da un pazzo debba sempre essere un rebus con una soluzione.

La lingua viene usata in generale proprio così. Non solo la gente comune e chi – come si dice – abbia anche solo una mezza cultura acchiappa al volo parole nuove e straniere che non comprende, per ricamare il suo modello di chiacchiera con smancerie o con affettazio-ne, ma anche dotti e ricercatori e pensatori hanno da sempre cavillato su testi antichi in disfacimento per sciogliere enigmi che vi avevano messo dentro loro. Si è creduto seriamente di trovare e di risolvere rebus nei disegni di singoli fiori come negli scheletri di teste di pesce. Questi erano però passatempi per metà coscienti. Si sono volute spie-gare le linee decorative dell’antica America con l’aiuto dei caratteri ebraici. Queste erano pazzie. Si è voluto da sempre applicare – e lo si fa ancora – il pensiero più intenso di uomini vivi, cioè le associazioni delle loro esperienze vive, a resti di parole di generazioni morte che si perdono nella lontananza del tempo, si sono voluti da sempre con-vertire in nuovo alimento gli escrementi degli antichi con l’aiuto di succhi gastrici di organi viventi. E qui non si fa (160) nient’altro che voler risolvere senz’altro un rebus che non lo è, oppure del quale non si capisce la lingua. Come ad esempio quando ricercatori in tutto e per tutto moderni continuano a cercare di definire l’anima, lo scopo, l’organismo, la vita, la morte oppure anche il linguaggio, le categorie, le radici, semplicemente perché esistono le parole.

Deve essere un perfetto folle chi ha inserito il giocattolo dei rebus nelle nostre riviste di passatempi. Certo sarebbe bello parlare con i fatti invece che con le parole, rebus invece che verbis. Ma il suggeritore di rebus semplifica soltanto la comoda scrittura delle lettere. Io credo

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seriamente che siano malati di spirito quelli che compongono i nostri orrendi rebus (eccetto gli scherzi); e che siano solo bambini quelli che – per antica consuetudine – si occupano delle opere di questi pazzi.

Feticismo del linguaggio – Nelle scienze il feticismo delle parole viene praticato molto di più che nell’uso linguistico comune; come anche il teologo che costruisce un sistema dal fantasma della superstizione popolare, o che lo porta avanti, pratica un feticismo peggiore del sem-plice contadino che semplicemente crede al fantasma.

Noi siamo portati più facilmente a ritenere i teologi del Medioevo o i teologi degli antropofagi come teorici di un sapere morto, come lo sono del resto anche i professori attuali di teologia; vediamo anche chiaramente che nella storia delle scienze si sono praticate mistifica-zione e idolatria con concetti che oggi sono invecchiati, ma non siamo disposti ad accettare con facilità lo stesso per i concetti più elevati della scienza del momento. Eppure la personificazione e la deificazione è oggi la stessa dei tempi antichi. Le singole “forze” giocano oggi lo stesso ruolo delle qualitates occultae di un tempo. E anche se gli stu-diosi ci sbattono il naso, negano l’errore della personificazione e così continuano a pensare, appena si credono non osservati, nello stesso modo infantile. Per il medico le singole (161) malattie sono forze per-sonali, nonostante Virchow, personificazioni che egli combatte. Per lo scienziato della natura le specie diventano personificazioni, nonostante Darwin, anche se non lo si vuol riconoscere. L’errore diventa ancor più visibile laddove la percezione di sé esprime in maniera incontrollabile le rappresentazioni di fondo. La psicologia pullula di personificazioni. Ad esempio all’anima umana vengono attribuite tre personificazioni: l’intelletto, la ragione e la fantasia. Neppure teste altrimenti libere – che nell’introduzione o nel capitolo finale o in un qualche altro luogo appropriato esprimono il loro miglior punto di vista – riescono facil-mente a liberarsi dall’immagine che ognuna di queste tre sottodivinità presieda a una determinata attività dell’anima come il presidente di una sezione ministeriale. È esattamente lo stesso processo per cui i Greci deificarono per i grandi ambiti del vivere determinate divinità protettrici e poi per le sezioni più piccole personificarono ninfe speciali come le driadi e le oreadi.

Il concetto di un dio panteistico non è per nulla più metaforico del concetto di un dio monoteistico o politeistico. Così nella vita del popolo il concetto di sovranità si è impersonato dapprima nel capo della stirpe, poi nel re della comunità popolare, poi nell’insieme dello stesso popolo; la sovranità non era però altro che il bisogno di tutti di proteggersi dalla bestialità del singolo. Patriarchia, monarchia e demo-crazia (panarchia) furono forme diverse dello stesso bisogno. Il grande errore dell’anarchismo sta nel non vedere la bestialità degli uomini, nel negare il bisogno della costrizione, nel credere di aver superato questo

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bisogno per aver scosso i fondamenti logici e la legittimità delle singole forme di potere. Nelle prime democrazie (panarchie) moderne venne in voga anche il panteismo sistematico. […]

Pensare e parlare

(176) Il più grave ostacolo alla conoscenza della verità è che gli uomini tutti credono di pensare, mentre parlano soltanto, ma anche che i teorici del pensiero e gli psicologi parlano tutti quanti di un pensiero per il quale il parlare dovrebbe essere nel migliore dei casi lo strumento. Oppure la veste. Ma questo non è vero; non c’è pensare senza parlare, cioè senza parole. O meglio: non c’è proprio un pen-sare, c’è solo il parlare. Il pensare è il parlare valutato al suo prezzo di mercato.

Se solo potessi dire forte abbastanza come sono comuni le parole di tutti i giorni, le parole della lingua comune tra uomini comuni! Le parole sono aringhe sotto sale, merce vecchia conservata. Chi crede di pensare ha fame di comunicazione, e per questo gli piace la vecchia merce conservata sotto sale. E se si vuole, si può mettere a confronto il pensiero con la soluzione salata delle aringhe, che bagna tanto meglio la roba conservata quanta meno merce c’è ancora nell’estensione e nel concetto del grosso barile; la soluzione, in sé senza valore e senza for-za, considera sé stessa come la cosa principale – e in essa i garzoni di bottega e le cuoche e altri uomini pensanti rimestano con dita sporche per acchiappare una misera aringa e poi leccar via dalle dita il liqui-do, per poter dire in tono solenne con slancio 18 e serietà da bottega: questo sa di sale, questo è il pensare. E gli uomini che parlano sono il sale della terra.

Peggio ancora che con l’estetica del pensare va con l’etica. La me-dicina più antica, che ancora non sapeva degli effetti dell’acido car-bonico espirato, attribuiva la pericolosità dell’accalcarsi degli uomini a un veleno, l’antropotoxina. La vera antropotoxina o veleno umano è il parlare.

Non si dà un pensare al di là del parlare, una logica al di là della teoria del linguaggio, un logos al di là delle parole, idee al di là delle cose, come non esiste una forza vitale al di sopra del vivente, un calore al di sopra della sensazione di calore, (177) la caninità al di sopra dei cani. E chi trova diletto in parole astratte, può sempre parlare di una facoltà del parlare che porta al parlare. Il suo sapere ne guadagnerà tanto quanto il sapere che gli animali si muovono liberamente perché sono mobili. Oppure meglio ancora: che gli animali si muovono libe-ramente per rendere possibile la motilità. Gli uomini parlano perché (essi pensano) possiedono la facoltà di parlare. Gli uomini parlano per mostrare la loro facoltà di parlare (per poter pensare).

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L’errore è nato proprio dal fatto che si è attribuito al pensare, alla facoltà di parlare (Sprachigkeit) – come a tutti gli altri termini che in tedesco finiscono in -heiten, -keiten e -schaften – un certo ché di fanta-smatico, di divino, di sovrumano, come ficcare un diadema su un corpo senza testa. In questo caso allora le -eiten, -keiten e -schaften, e con loro naturalmente il pensiero, dovrebbero essere qualcosa di ultra decoroso. Ma di solito il parlare è in tutta evidenza un cicaleccio, nei casi miglio-ri un comando da cameriere, una chiacchiera. Allora dietro il parlare sciocco ci deve essere il pensare, l’astratto acefalo con il diadema del re. Suona terribilmente raffinato: il pensare. Chi pensa, parla. E viceversa: chi parla, pensa. Se ne deve desumere come sia comune il pensare.

L’identità di pensare e parlare dev’essere un tesi molto antica, se già l’asserzione di Platone che il pensare è un parlare interiore conteneva un giudizio su due concetti definiti in modo chiaro; infatti non se ne viene a capo con la relativa qualità del parlare ad alta o a bassa voce, tanto meno da quando sono stati segnalati sentimenti motorii nel par-lare muto o nel pensare articolato. L’identificazione di pensare e par-lare è però sempre un’idea così arrischiata che anche in questo libro, ogni volta che il pensare è stato identificato con il parlare, la voce della coscienza linguistica ha poi subito messo in guardia di fronte a questa identità. La critica del linguaggio è suicida, perché la critica scaturisce dalla ragione, dunque dal linguaggio. Già nel 1784 19 Hamann scriveva (178) a Herder: «Anche se io avessi l’eloquenza di Demostene, non dovrei che ripetere tre volte una sola parola: ragione è linguaggio – lovgo". Rosicchio questo osso con midollo e lo rosicchierò fino alla morte». Non è semplice modestia se qui Hamann parla del suo “osso con midollo”, e poi di nuovo del suo “letamaio” (in contrapposizione al “giardino delle delizie” di Herder; con l’osso midollare pensa certa-mente anche all’os médullaire del Prologo al Gargantua e, in aggiunta, al cane filosofico di Platone). È di più. La critica del linguaggio è più sospetta di ogni altra disciplina scientifica. Lo strumento, il linguag-gio, si ribella, vuole intervenire. Anche nella proposizione: ragione è linguaggio. La cosa è così difficile perché anche oggi non possediamo ancora una chiara definizione né del parlare né del pensare. L’incer-tezza sull’essenza del linguaggio potrebbe ancora andare, perché se non altro per gli scopi pratici si ha all’incirca una rappresentazione nell’usare la parola “linguaggio”. L’essenza del pensiero è invece così inafferrabile che ogni volta ci si rappresenta qualcosa di diverso, a seconda che si dia al pensiero questo e quel predicato. Se si dice “il pensare è linguaggio”, nel pensare ci si rappresenta proprio subito, o lo si anticipa immediatamente, proprio il parlare.

Per un certo tempo ho pensato di risolvere il problema accostando i termini: il linguaggio sarebbe identico alla ragione, ma non all’intel-letto. Con questo avevo in mente la distinzione usuale nella forma più completa e decisa datagli da Schopenhauer. La spiegazione dà l’im-

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pressione che la ragione sia un pensiero in concetti o in parole: tanto più se la ragione viene derivata dal sentire (vernehmen) e sentire=udire pare chiaramente indicare il comprendere attraverso la comunicazione linguistica. Ma sentire (vernehmen) nella lingua più antica non signi-ficava niente altro che il percepire (Wahrnehmen), cosicché la bella etimologia ci lascia in asso.

Ragione e intelletto – Atteniamoci nondimeno alla comoda distinzione, che certo non è l’uso linguistico generale, ma lo è di molti pensatori, (179) cioè alla distinzione seguente: la ragione comprende le attività mentali che si realizzano in concetti o parole, l’intelletto le attività mentali che hanno come fine di volta in volta l’orientamento nel mon-do della realtà attuale o nel presente attuale; sembra così possibile, a un primo sguardo, identificare ragione e linguaggio, e lasciar invece lavorare l’intelletto senza linguaggio. Si sarebbe ottenuta o avviata così una bella definizione, se solo le cose stessero in modo così semplice.

Ma in questa distinzione tra ragione e intelletto interviene purtrop-po l’antico pregiudizio delle facoltà dell’anima personificate. Se si vuole rendere in immagine l’intera distinzione, in un qualche posto del ca-stello siede lo spirito umano come padrone, e ragione e intelletto sono tutti e due suoi ministri, per il mondo esterno e per quello interno. Se si riconosce poi lo spirito, insieme a ragione e intelletto, come qualcosa di divenuto (meglio: come parola che designa un divenire eterno, come la storia designa ciò che eternamente avviene), come una parola per le combinazioni in evoluzione di dati ricavati dai sensi in evoluzione, allora le competenze di ambedue queste facoltà dell’anima si spostano in modo davvero strano.

Si può poi sempre identificare con il linguaggio l’attività mentale in parole o concetti, ma se avremo riconosciuto il linguaggio come la memoria dell’umanità, la ragione in questo senso non sarà niente altro che l’applicazione della memoria individuale, che ha ereditato e acquisito la memoria dell’umanità. La fisiologia, anche la più recente, ci pianta in asso. Si è definita la memoria, intesa qui come memoria individuale acquisita, come la disposizione di determinate parti ner-vose a rievocare le impressioni sensibili che sono state percepite. La coscienza ereditata deve allora essere un tipo di disposizione che però, ritornando al nucleo dell’ovulo umano, deve basarsi su un’altra succes-sione ereditaria rispetto alla memoria individuale ereditata. Come che sia, nessun uomo avrebbe raccolto da solo esperienze sufficienti (180) a partire dalle quali costruire l’enorme impalcatura della sua lingua materna (nelle classificazioni latenti della quale è insita a priori tutta la sua conoscenza del mondo e tutto il suo concludere, dunque tutto il suo pensare); la parte di gran lunga maggiore della sua lingua, quella che egli ritiene memoria acquisita, egli l’ha ereditata; per questo l’uomo qualunque usa la sua lingua in maniera così priva di pensiero; e per

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nulla vale più che per il linguaggio il detto “quello che hai ereditato da tuo padre, acquistalo per possederlo”. C’è nell’uso del linguaggio una massa spropositata di beni ereditati, non acquisiti, non vagliati, che vengono usati sulla fiducia. Si potrebbe esprimere tutto questo anche con una facezia storico-filosofica: che l’uomo pensante dovrebbe utilizzare solo concetti acquisiti, che egli però inconsciamente esprime molto più spesso concetti innati. Naturalmente non penso con questo ai concetti innati della più antica psicologia, ma a ciò che, nel nostro linguaggio quotidiano, è insito nelle classificazioni e nelle astrazioni ere-ditate, non vagliate. Chi lo abbia chiaro non dubiterà che noi, fossimo anche dottori in filosofia, usiamo parole come pianta, animale, cielo, luce, parlare, pensare, ragione, intelletto, vita, morte, salute, malattia e così via, proprio allo stesso modo in cui il pulcino appena uscito dall’uovo becca il seme, come il merlo costruisce il suo nido. Le attività mentali degli animali classificate come inferiori all’intelletto umano le chiamiamo istinto; le attività mentali in parole, classificate come atti-vità superiori dell’intelletto umano, le chiamiamo ragione. Ma già a un primo approccio abbiamo imparato che in questa ragione è insita una massa di attività mentali ereditate, non acquisite individualmente, non vagliate, quindi istintive. Non mi si obietti ora di nuovo che la lingua è ancora qualcosa di diverso dalle sue parti, che l’astratto “linguaggio” è qualcosa al di fuori delle parole. Se si tolgono via da un edificio tutte le pietre e tutto il resto del materiale, può rimanere un’immagine mnemonica, ma l’edificio non c’è più. Il linguaggio (181) in sé è una non-cosa senza essenza (ein wesenloses Unding 20) e può sempre ancora, se diverte qualcuno, essere posto come uguale al pensiero.

Pensare senza parlare – Ora però si effettuano molto spesso operazioni intellettuali senza l’intervento del linguaggio e sono tuttavia operazioni mentali. Quando un ingegnere deve costruire un ponte di cento metri, usa certo abitualmente il linguaggio, ma solo finché formule e simili facilitano il lavoro. Se avesse a disposizione travi della lunghezza ne-cessaria e una forza fisica adeguata, lavorerebbe in silenzio, in un senso diverso rispetto agli osservatori. E di fatto la vera e propria costruzione del ponte si realizza benissimo ancora senza parole, le ordinazioni alle singole fabbriche richiedono tutt’al più un paio di espressioni tecniche e di cifre. Questo è lavoro dell’intelletto. Se un uomo oppure un cane saltano un fosso, misurano la distanza senza parole, il che è ancora lavoro dell’intelletto. Se l’uomo o il cane vedono una fragola o una lepre al di là del fosso, e così hanno solo interpretato una modifica-zione sulla loro retina e l’hanno proiettatata al di là del fosso, quello che li attira è di nuovo lavoro dell’intelletto. Tutte le attività mentali dell’intelletto si riducono a quest’ultimo tipo di lavoro intellettuale, all’interpretare le impressioni dei sensi (anche il semplice vedere, sen-tire, ecc. è, come ora sappiamo, lavoro dell’intelletto, un interpretare

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stimoli, che diventano sensazioni solo attraverso l’intelletto). Questa attività non è però niente altro che una ereditata capacità di adat-tamento dell’individuo agli stimoli esterni, a ciò che noi chiamiamo realtà. Senza concetti o parole non se la cava né l’uomo né il cane. Rapporti di grandezza e immagini mentali sono rappresentazioni ere-ditate, e in essi ci manca la coscienza di parole e concetti, solo perché queste attività intellettuali sono state esercitate all’infinito, da quando esistono organismi sulla terra, e perché queste attività in questo modo sono diventate automatiche. C’è soltanto una rappresentazione che è stata ancor più esercitata, che è diventata nostra solo attraverso innu-merevoli esperimenti (182): la più alta rappresentazione che costruisce il mondo, il mondo della realtà là fuori. Questa rappresentazione ci risulta comicamente indimostrabile, perché incessantemente dimostra-ta. Ogni volta che mangiamo, dimostriamo che il mondo esterno può diventare mondo interno. L’attività dell’intelletto ci sembra priva di concetti, perché non c’è sguardo e movimento delle dita senza che si metta in pratica il concetto di spazio ecc. Se il fosso che un uomo deve saltare è largo un metro, cioè non più largo del passo umano che egli ha praticato da sempre, l’uomo salta al di là senza pensarci; il suo in-telletto lavora automaticamente. Se il fosso ha una larghezza inusuale, l’uomo ci pensa prima di saltare, e il cane forse abbaia. Se la distanza è addirittura di cento metri e l’ingegnere non è così esercitato per questa larghezza da compiere automaticamente il salto, allora l’intelletto non lavora più in silenzio: l’ingegnere pensa e scrive cifre.

Soltanto la natura non ha nessun intelletto, nessuna ragione, nessuna lingua. Chi potesse prendere la natura come maestra, sarebbe saggio senza linguaggio. «Natura – dice Spinoza nel Tractatus teologico-politi-cus, i 21 – nobis dictat, non quidem verbis, sed modo longe excellen-tiore». Noi però non possiamo scrivere quello che la natura ci detta.

Anima e sensi

Zufallssinne – (327) Forse riusciamo a fare un passo avanti oltre la tautologia se ci serviamo del concetto che ci è proprio, quello di sensi accidentali. Forse su questa strada impariamo quello che nel migliore dei casi possiamo farcene del concetto di anima.

Il nostro nuovo concetto di “sensi accidentali” si contrappone alla concezione, assunta inconsapevolmente sia dai filosofi che dagli uomini più semplici, che da un lato vi sia il mondo, dall’altro lato l’uomo con organi adeguati per l’insieme dei fenomeni del mondo. In questa rap-presentazione la cultura filosofica non cambia granché. Che il contadino riconosca che il guanto si adatta alla mano, oppure che Kant riconosca che la mano (il mondo dei fenomeni) si adatta nel guanto (l’intelletto), dal nostro punto di vista è indifferente. Kant pensa, proprio come il

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contadino, che intelletto e mondo sono fatti l’uno per l’altro come il guscio per la chiocciola, come (328) i rispettivi organi genitali di una specie animale, come la scimitarra curva e la guaina curva. A mio pa-rere le dispute metafisiche vecchie di millenni su come sia da spiegare l’accordo tra mondo esterno e vita interiore, a mio parere gli enormi errori metafisici, da quando esistono il teismo, l’occasionalismo e il dar-winismo, dipendono dal fatto che nessuno vuole accorgersi della natura dei sensi accidentali, dal fatto che nessuno finora si è mai accorto di quanto poco il mondo e i nostri poveri cinque sensi siano adatti l’uno agli altri, di come piuttosto gli organismi abbiano sviluppato questi disperati cinque sensi nei loro bisogni vitali, per adattare sé, cioè la loro vita e quella della loro prole, alla vita che li circonda. Il mondo esterno è un oceano di realtà e di possibilità, di elementi e di forze, forse di possibilità divenute reali. Cosa ne sappiamo? I nostri sensi non bastano per una qualche conoscenza della realtà nemmeno nell’ambito della semplice chimica fatta in casa. A malapena distinguiamo l’arsenico dallo zucchero senza ricorrere allo stratagemma di far giocare un orga-no di senso contro l’altro. Mediante questo e altri stratagemmi siamo arrivati a distinguere all’incirca ottanta elementi; noi ci rendiamo conto della brutale assurdità di questa cifra e non sappiamo come cavarcela e che pesci pigliare quando all’improvviso un inglese astutamente scopre nell’estensione più ampia di tutte le sostanze, nell’aria, nuovi elementi. Dunque nemmeno per la spigolosa sfacciataggine (die Eckigkeit und Dreckigkeit) dell’atomismo chimico bastano i nostri sensi. Nemmeno per le forze! Secondo l’attuale concezione dei fisici qui fuori ci sono ovunque oscillazioni, dappertutto, all’infinito. Se i nostri sensi doves-sero farcela e se si dovessero prendere alla lettera queste oscillazioni, come dovrebbe apparire una pallina d’aria della grandezza di una goc-cia di rugiada? Nello stesso tempo, più fortemente o più debolmente, in essa dovrebbero oscillare ogni calore, ogni luce, ogni suono che da un qualunque punto o sulla terra o sull’ultima stella della via lattea tracci la sua onda; e dovrebbe continuare a oscillare fino all’infinito (329) ogni suono, ogni colore, ogni processo di riscaldamento e ogni scarica elettrica, che in un qualche tempo in un qualche punto della terra o in qualche punto della via lattea abbia dato inizio al cerchio della sua onda imperitura. Le oscillazioni, che in una particella d’aria si incrociano in modo caotico e pur armonioso, quando in una sala da concerto l’orchestra intera fa risuonare un accordo complicato con tutti i suoi suoni e gli armonici di tutti gli strumenti, questo andirivieni di onde, indistricabile da qualsiasi formula matematica, lo si potrebbe dire la quiete più assoluta in confronto all’incrocio cosmico delle onde di ogni pallina d’aria della grandezza di una goccia di rugiada. Ma cosa percepiscono i nostri sensi in questa infinità di supposte oscilla-zioni? Non sappiamo nulla ad esempio delle oscillazioni intermedie tra le oscillazioni dei suoni e quelle sensibili del calore che riempiono il

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mondo. I nostri sensi casualmente non hanno avuto interesse ad adat-tarsi a queste oscillazioni.

L’arte della parola

Poesia e concetti – (B i, 111) Se si chiede a uno scolaro o a un maestro di scuola cosa sia un concetto, risponderà pressappoco così: una rap-presentazione generale che viene “astratta” dalle singole rappresenta-zioni. Noi abbiamo – secondo questi maestri di scuola – innumerevoli rappresentazioni singole di alberi, conosciamo abeti, querce, (112) noci ecc, conosciamo tante specie di abeti, di ogni tipo innumerevoli indi-vidui. Togliamo ora da queste immagini – secondo la dottrina corrente – l’elemento accidentale: la grandezza, il colore, la forma delle foglie ecc. e otteniamo così la rappresentazione generale, il concetto.

Che non succeda così nella nostra testa, lo ha già sostenuto il fan-tastico Berkeley contro Locke, e invero molto rigorosamente. Egli non potrebbe rappresentarsi un triangolo che non abbia una forma deter-minata, che non sia acuto, retto o scaleno.

Che le nostre rappresentazioni generali o concetti si formino me-diante astrazioni lo si può far credere alla gente per gusci vuoti come: virtù, immortalità e simili. Appena però vi è un riscontro con il mondo reale, dovrebbe sembrare evidente, senza bisogno di dimostrarlo, che propriamente non ci sono rappresentazioni generali, che nella nostra memoria ci sono solo indistinte rappresentazioni simili, che scorrono una nell’altra, che stanno come scorta dietro i concetti e dalle quali la fantasia trae fuori di continuo quelle che adopera in quel momento o che l’associazione inconscia le procura.

Con questo non si deve dimenticare che solo in pochi ritengono anche necessario nell’uso della parola rifornire tutte le volte il singolo concetto o la parola con la scorta delle rappresentazioni e, in que-sto modo, renderle o mantenerle vitali. Il comune lettore di romanzi (come lo scrittore pasticcione) non si rappresenta nulla con una frase come: “i cavalli trottavano attraverso il prato”, e quando egli crede tuttavia di capire le parole a lui ben note, avviene che la scorta delle rappresentazioni sta dietro i concetti, proprio come la melodia infinita dell’orchestra wagneriana dietro le parole cantate, e che inconsciamen-te un qualche cosa di nebuloso si presenta insieme in cavallo, trottare, prato. Di qui derivano le molte frasi sciocche da romanzo che fanno lo spasso del “Kladderadatsch” 22. «Ella coprì il suo volto con entrambe le mani e allungò verso il conte la destra aristocraticamente fine». Lo scrittore pasticcione lo può scrivere solo perché egli usa il concetto senza rappresentazione. (113) E in questo egli è ancora più ricco di fantasia del suo lettore, di Tizio e di Caio.

Così senza rappresentazione usa la scienza le sue parole, solo che

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essa le applica con una fiducia spensierata come segni matematici inal-terati. “Il cavallo è un mammifero” vien detto quasi senza alcuna rap-presentazione 23.

Va così nell’uso comune dei chiacchieroni e dei dotti. Accade diver-samente quando la ricerca linguistica o un imbarazzo ci costringono a far cadere una luce abbagliante su un concetto o su una parola; sentia-mo allora come una quantità di rappresentazioni individuali si ammassi davanti alla cruna della nostra coscienza, pronta a passarci attraverso e a far rivivere il concetto. Possiamo poi rappresentare molte cose una dopo l’altra e abbiamo l’autoillusione di una rappresentazione generale.

Poiché ora però il ricordo di una singola rappresentazione ben si sbiadisce e sfuma, ma non può mai davvero in senso proprio connet-terla con un’altra, sembra addirittura impossibile che si dia una vera e propria rappresentazione o concetto generale. Cos’è allora ciò che pure ben conosciamo come rappresentazione generale o concetto, come parola fuori di noi?

Una mescolanza, come del resto si trova nel sogno, e che è possibi-le nella veglia solo per il concorso della cosiddetta fantasia, la fantasia poetica, che certo è così simile al sogno. Senza questo concorso non sarebbe stato possibile nessun linguaggio, nessun concetto singolo. Fu un genio poetico colui che per primo nei tempi più antichi riuscì a fissare le sue singole rappresentazioni di abeti, querce ecc. mediante il segno sonoro albero, e di nuovo oggi solo un modo della fantasia poetica collega ancora rappresentazioni vivaci alla parola albero.

Con questo si accorda bene la mia teoria, cioè che il linguaggio si è formato mediante metafore e cresce mediante metafore, se la fantasia poetica deve continuamente integrare e far rivivere le parole.

Poesia e metafora – (114) […] Il lettore che non ha letto la mia opera per la seconda volta – è un libro vuoto quello che non bisogna leggere due volte – non saprà ancora molto del concetto dei sensi accidentali. Ma avrà accettato con favore come già si possa spiegare, senza allonta-narsi dal punto di vista di Lessing, la collocazione eminente della poesia nei confronti di tutte le altre arti possibili e la menzogna della soprav-valutazione del dramma. Ora però verremo a conoscenza di ciò che fa di nuovo vacillare ogni teoria delle arti, che cioè i nostri cinque sensi sono sensi accidentali e il nostro linguaggio, formatosi dai ricordi di que-sti sensi accidentali ed estesosi mediante conquiste metaforiche a tutto il conoscibile, non sono mai in grado di dare l’intuizione della realtà.

L’idea, per il momento ancora paradossale, che i nostri sensi siano sensi accidentali, fa risaltare ancor più chiaramente il valore più elevato della parola poetica. Come la parola o il concetto riassumono dapprima in modo sostantivo le diverse qualità che i singoli sensi hanno percepito come effetti ad esempio dell’usignolo, per così dire in modo preistorico, sì certo, preumano; come la parola usignolo rende per la fantasia più

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del ricordo di una di quelle osservazioni che l’hanno suscitata, allo stesso modo la poesia produce più di qualsiasi altra arte, sì, più della somma di tutte le altre arti. L’intera nostra conoscenza del mondo non si è formata dalla deduzione, ma dall’induzione, da un’induzione in-completa, ed è solo utilizzando campioni tratti dal mondo della realtà che abbiamo composto l’immagine del mondo; allo stesso modo, l’arte della parola unifica i dati dei sensi accidentali in un’immagine che, me-diante il suo accordo con sé stessa, cioè mediante la possibilità della sua ripetizione non contraddittoria, sembra qualcosa più che un caso.

Parole senza intuizione – Ma questa elevata attività dell’arte della paro-la, che come immagine del mondo reale finora supera ancora tutti i ten-tativi di una conoscenza scientifica, (115) ha i suoi limiti nella capacità del linguaggio di dare delle intuizioni. Non solo la vecchia estetica, da Aristotele a Lessing, sperò mediante le parole di poter imitare la natura; il termine “imitazione” non lo si usa più, ma nessun poeta o studioso di estetica dubita che le immagini del mondo reale si possano chiara-mente suscitare mediante parole. Vischer dice invero: «chi basa l’arte sull’imitazione, la considera un gioco» (iii, 93) 24; poi gioca un po’ con la parola “gioco”. Ma noi abbiamo appreso che le parole non danno immagini e non suscitano immagini, ma solo immagini di immagini di immagini. Nella vita pratica, di fronte al cameriere, ce la caviamo così bene con le parole del linguaggio che sorvoliamo d’abitudine su come il linguaggio sia incapace di raggiungere i suoi fini ultimi. Ogni singola parola è pregna della sua propria storia, ogni singola parola porta in sé uno sviluppo infinito di metafora in metafora. Di fronte al cumulo chiassoso di visioni, chi usa la parola, non sarebbe nemmeno in grado di arrivare a parlare, se solo gli fosse presente anche una minima parte di questo sviluppo metaforico; se però di nuovo questo non gli è più presente, egli usa ogni singola parola soltanto nel suo valore quotidiano convenzionale, come gettoni, e con questi gettoni dà solo un valore immaginario, non dà mai intuizioni.

La metafora

(B ii, 450) Sull’origine del linguaggio qualcosa di attendibile, fon-dato sull’esperienza, non lo si può ovviamente sapere. L’induzione è allora esclusa. La deduzione da concetti porta solo a tautologie.

Se dunque, ciononostante, vogliamo rappresentarci l’origine del linguaggio, dobbiamo farlo metaforicamente, con delle immagini, e vi guadagneremo qualcosa di più che con sottili asserzioni. Voglio prov-visoriamente prendere i concetti fondamentali nel loro senso comune e sperare che alla fine di questa riflessione dobbiamo di nuovo porre un punto interrogativo su questo senso comune.

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La crescita del linguaggio – Quello che costituisce la crescita (conserva-zione e riproduzione) degli organismi deve ben aver dato origine alla sua formazione. Detto in immagini: nutrizione è crescita. E posso divertirmi a immaginare che la derivazione del regno animale da quello vegetale sia avvenuta quando un che di simile a un organismo parassita (vege-tale) per fame e invidia si sia rivoltato, abbia trattenuto il nutrimento circondandolo, formando quindi uno stomaco e poi sia stato costretto a spinger fuori da sé degli arti per procurare a questo stomaco il nutri-mento che non poteva più succhiare da parassita. E ancor prima la vita potrebbe essersi divisa dalla materia inerte quando a una molecola più capace si avvicinò del nutrimento. So che questa finzione non spiega nulla; la “capacità” della molecola rimanda a sua volta alla questione dell’origine della vita. Ma certamente la questione viene semplificata dall’immagine. Allora cos’è che costituisce la crescita della lingua? Qual è il nutrimento spirituale della lingua?

mediante trasposizione – Se distinguo in maniera del tutto netta tra la crescita repentina delle nostre conoscenze della realtà (che sono osservazioni delle cose e sempre precedono il linguaggio, la (451) loro parola) e la crescita organica del linguaggio stesso, cioè quella delle leg-gi di natura, dei concetti, delle inferenze, in breve del chiacchiericcio umano, allora giungo all’idea che il linguaggio è cresciuto e ancor oggi cresce a partire dalla memoria umana (e la memoria umana è a sua volta solo linguaggio) soltanto mediante la trasposizione (metafevrein) di una parola definita (fertig) su un’impressione indefinita, mediante il confronto dunque, mediante questo atto eterno del à-peu-près, me-diante questo infinito circoscrivere e parlare figurato, che costituisce la forza artistica e la debolezza logica del linguaggio. I due o cento “significati” di una parola o di un concetto sono altrettante metafore o immagini e, dato che oggi non conosciamo assolutamente il significato originario di nessuna parola, dato che la prima etimologia si colloca in-finiti anni addietro rispetto alla nostra conoscenza di questo significato, allora nessuna parola ha mai altro significato che quello metaforico.

Siamo così abituati a questo uso che non lo sentiamo mai come una mancanza quando denominiamo con immagini persino i concetti più impellenti, quelli che devono avere anche gli animali, utilizzando termini contrastanti tratti da ambiti quasi contrapposti. Quando in una lingua straniera dobbiamo formare una perifrasi anche soltanto per una parola rara, ci vergognamo e lo sentiamo come un’incapacità. Ma non lo avvertiamo come metafora, non ci vergognamo affatto, quando definiamo il tempo con espressioni spaziali (lungo, breve), quando de-finiamo l’altezza del suono con concetti spaziali o di colore (profondo, chiaro); lo vediamo bene nelle nostre lingue obsolete.

La nostra lingua cresce mediante metafore. E si può dire davvero che ogni metafora viene dapprima usata consciamente e poi è entrata

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ad arricchire l’organismo del linguaggio, quando non la si avverte più come metafora.

Così sarebbe allora una pura supposizione che la metafora, che determina la crescita del linguaggio, ne abbia causato anche l’origine. A questo proposito non riesco per ora (452) a pensare ancora nulla. Si ha una qualche impressione, ma è ancora chiacchiera. La tesi che la metafora abbia creato il linguaggio diventa però pensabile, compren-sibile, davvero illuminante, se io ora ripeto che la metafora opera una mediazione tra i concetti di spazio, tempo e suono.

Metafore naturali dello spazio – Chi in un paese straniero, del quale non conosce la lingua, vuole dire “grande”, aprirà molto le braccia; questo è un gesto del tutto naturale. (È naturale che l’animale non lo abbia.) Chi vuol dire “piccolo” avvicinerà i palmi delle mani. Cosa succederebbe allora, se anche l’intero apparato vocale partecipasse alla gesticolazione? Cosa, se glottide e bocca si rinserrassero, dicendo poi “i”, per imitare un piccolo spazio, glottide e bocca si aprissero, facen-do “o”, per imitare uno spazio grande? Cosa, se questo fosse già una metafora? Se poi il suono venisse trasposto dallo spazio al tempo, ai colori, ecc.? Ammetto che con questa ipotesi sembra davvero di aver ottenuto qualcosa per la questione dell’origine del linguaggio.

E seppure a Platone non sia certo venuta in mente una simile inter-pretazione della sua onomatopea (formazione delle parole), si potrebbe a buon diritto chiamare onomatopea una metafora originaria. Infatti le nostre presunte imitazioni, per quanto appartengano al linguaggio ef-fettivo e non siano degli scherzi, non sono imitazioni pappagallesche di suoni naturali articolati e classificati in consonanti e vocali, ma imitazioni metaforiche (per es. di melodie mediante sillabe), che ci sono divenute così abituali che noi sentiamo trasposta nella natura (hineinhören) la no-stra onomatopea metaforica. Il cuculo non canta “c” o qualcosa di simile a “c”, non “u” o qualcosa di simile a “u”. E tuttavia noi lo sentiamo cantare cu-cù e crediamo di imitare con il suo nome il suo richiamo.

Ora però devo stare attento a non diventare io stesso un servitore del linguaggio e credere di aver spiegato con la metafora della metafo-ra qualcosa di reale. È una parola (453) che ho fatto crescere mediante la mia osservazione ipotetica. Questo è tutto. E di nuovo non tutto.

Dev’esserci tuttavia dietro lo spazio del nostro linguaggio qualcosa di nascosto nel mondo reale, apparentato allo spazio, se l’apparato fonatorio, quando vuole rendere in immagine rappresentazioni spa-ziali, diventa esso stesso immagine spaziale. E così può esserci dietro l’istinto verso metafore così audaci (come la trasposizione dallo spazio al tempo, dal colore al suono) una cogenza che sta nei rapporti non svelati del mondo reale. Il linguaggio è metafora; ma la metafora copre in qualche modo il mondo.

In questa idea dell’origine del linguaggio nulla cambia se pensiamo

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che mai un singolo uomo può aver creato in sé il linguaggio, che il linguaggio è essenzialmente qualcosa di intersoggettivo, un prodotto sociale, che il monologo è qualcosa di malato. Al contrario: così come la perifrasi (in una lingua parlata male) diventa necessaria solo quando si viene in contatto con una nazione straniera, così la metafora della lingua originaria, l’onomatopea originaria, la mimesi metaforica mediante il suono, può essere sorta proprio anche per l’esigenza di comunicare re-ciprocamente, in un tempo in cui ognuno era straniero tra stranieri. […]

Max Müller – (455) Max Müller arriva abbastanza vicino alla convin-zione che ogni mutamento di significato sia metaforico. Ma si preclude la via distinguendo nettamente tra due tipi di metafora, tra metafora poetica e metafora radicale, e così non si accorge di non avere il diritto di parlare di un’immagine per la cosiddetta metafora radicale, se non fosse esistita psicologicamente, in un qualche momento del mutamento semantico, una metafora poetica. Egli non considera come solo l’uso frequente della metafora poetica l’abbia resa così impoetica, così auto-matica, che infine sembrò presente alla coscienza linguistica il semplice mutamento semantico. A questo proposito già il vecchio Quintiliano sapeva considerare più correttamente l’origine del mutamento seman-tico dalla metafora; ed è ben questo il senso della sua sorprendente proposizione (Libro ix, 3, all’inizio: «Si antiquum sermonem nostro comparemus, paene iam quidquid loquimur figura est»).

Queste idee dell’importanza della metafora per la storia del linguag-gio, anzi dell’identità della metafora con il mutamento semantico, si era già consolidata in me, quando fui stimolato da uno scrittore che mi era fino ad allora sconosciuto a inseguire oltre questo pensiero. Fino ad allora la mia guida era stato Locke, la cui teoria del passaggio da signifi-cati concreti ad astratti in fondo spiegava soltanto meglio l’antica parola di Quintiliano. Bastò semplicemente tralasciare il paene per riconoscere il dominio assoluto della metafora nel mutamento semantico. Con ciò l’attività di creazione graduale del linguaggio apparve graziosamente come una creazione poetica, come ciò che anche in ogni singolo caso può avere un ulteriore valore.

Vico – Allora la mia attenzione fu attirata da una parola di Goethe su Vico e ora mi getto con grandi attese sulla sua opera senza mai rimanerne deluso. (456) Quest’uomo straordinario è ingiustamente se-midimenticato. Per dire subito l’ultima cosa che devo al pensare fino in fondo le sue idee: ogni formazione linguistica non può essere niente altro che un mutamento semantico metaforico, perché il concetto di metafora non è in fondo niente altro che un’espressione tradizionale, che ci deriva dalle scuole di retorica, insopportabilmente pedante, per l’essenziale nella nostra vita spirituale, per quello per cui noi abbiamo la nuova espressione associazione di idee. […]

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Jean Paul – Prima però di tentare di fondare l’essenza psicologica della metafora, vorrei ancora riportare quello che il nostro immaginifico Jean Paul ha espresso in modo così squisito sul significato linguistico della metafora: «Come nello scrivere l’ideografia anticipò la scrittura alfa-betica, così nel parlare la metafora, adatta a designare rapporti e non oggetti, fu la parola primitiva, che lentamente finì per scolorarsi, sino a diventare espressione propria. L’animazione e l’incarnazione mediante tropi costituivano ancora un’unità in quel tempo in cui l’io e il mon-do erano ancora fusi insieme. Perciò ciascuna lingua, sotto l’aspetto delle relazioni intellettuali, è un vocabolario di metafore sbiadite» 25. Jean Paul era imparentato con il nostro Hamann, come Hamann con Vico. E già Hamann aveva predicato (Aesthetica in nuce 26): «L’intero tesoro della conoscenza umana e della beatitudine consiste in imma-gini». Il suo Bacone, e quello di Vico, aveva detto: «ut hieroglyphica literis, sic parabolae argumentis antiquiores». Il devoto Hamann si era riservato la possibilità di mescolare conoscenza e beatitudine; ma per la questione della teoria della conoscenza, cioè per il lato psicologico della questione, Jean Paul, Vico e Bacone non avevano un’idea chiara. Wilhelm Wundt ha collegato molto bene (in tutti e due i primi volumi della sua Völkerpsychologie) la metafora con il gesto sonoro, meno bene con il mutamento semantico. Ernst Elster (Prinzipien der Litera-turwissenschaft 27) ha un po’ raffinato la poetica della metafora. Alfred Biese ha scandagliato più a fondo e ha scritto una Philosophie des Metaphorischen davvero degna di essere letta. (457) Ma anche Biese, al quale devo abbastanza materiale, non penetra al centro del problema della teoria della conoscenza.

Aristotele – Il concetto di metafora, come viene spiegato nelle nostre scuole, risale ad Aristotele. Così da duemila anni la metafora passa per la trasposizione (conscia) di una denominazione che propriamente significa qualcos’altro, sia essa la trasposizione dal concetto più vasto al più ristretto, o dal concetto più ristretto al più vasto. L’intenzione di questa definizione è di spiegare in senso logico il linguaggio im-maginifico della poesia. Questa intenzione e quindi la limitazione alla metafora artistica risulta chiaramente dal modo in cui Aristotele cerca di risolvere ogni metafora in una proporzione matematica completa o incompleta. Ad esempio la coppa di Dioniso sta a questo dio come lo scudo sta al dio Ares; si potrebbero quindi scambiare l’uno con l’altro i termini della proporzione in maniera del tutto meccanica e dire in modo arguto che la coppa sia lo scudo di Dioniso (il che sarebbe pur sempre spiritoso) o che lo scudo sia la coppa di Ares (il che sarebbe davvero insulso). Un altro esempio: la vecchiaia: la vita = la sera : il giorno; dopo di che si può dire che la vecchiaia è la sera della vita o che la sera è la vecchiaia del giorno. Il fascino di questa manie-ra poetica di esprimersi (che del resto ha imperversato malamente al

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tempo di Shakespeare, in particolare come marinismo, gongorismo, eufuismo o come “estilo culto” in Inghilterra, Italia e Spagna, persino negli scritti dei maestri, e che oggi ridiviene pericolosa come art pour l’art) consiste naturalmente nel tralasciare, nel lasciar indovinare uno dei quattro termini della proporzione. Dove la comparazione è ancor più semplice da indovinare, vengono subito tralasciati due termini; Aristotele porta l’esempio dello spargersi (secondo l’immagine del se-minatore) dei raggi del sole.

L’idea di Aristotele di chiarire la metafora con la proporzione ma-tematica non ha nulla a che fare con il processo o la condizione psico-logica, quale (458) si rivelerà a noi la metafora; nondimeno la trovata rimane ingegnosa. Ci può aiutare a distinguere il concetto di metafora, apparentemente così ben conosciuto, dai numerosissimi concetti attigui. Ci sono infatti – con questo rimango provvisoriamente nell’ambito della poetica – paragoni nei quali si giunge a qualcosa di più e a qualcosa di meno che ai quattro termini di una proporzione. Se il paragone è più complicato, esso può estendersi a un tipo di similitudini che sono cono-sciute in particolare come similitudine omeriche, nelle quali però certo la fantasia del poeta suole dimenticare l’attività di comparazione e cavalca una tratta più in là montando un cavallo nuovo; se invece la similitudine non contiene nemmeno indirettamente quei quattro termini, al posto della proporzione sta, per così dire, una regola del tre (capelli neri come il carbone), allora la si chiama una similitudine in senso stretto. Devo essere un po’ pedante prima di proseguire; lo richiede l’occuparsi di antiche definizioni. Vorrei notare infatti che il famoso tertium compara-tionis non è né la regola del tre né uno dei tre o quattro termini nella proporzione; è sempre un concetto più alto (il colore nel caso dei capelli e del carbone, l’attributo nel caso in cui venga paragonata la coppa di Dioniso con lo scudo di Ares). Dove la metafora (come specifica Vischer iii, p. 1221 28) è più poetica della similitudine è nel lasciar indovinare il segno di paragone: «il “come” o il “quasi” è un prendere le distanze da una supposta prosa, cioè dal confondere immagine e contenuto; e proprio per questo motivo precipita in essa ».

La similitudine – Nella similitudine (in senso stretto) è molto facile dimostrare che il processo psicologico porta all’evoluzione del linguag-gio. È probabile che le stesse designazioni di colore più antiche, e che a noi appaiono senza possibilità di paragone, fossero dapprima delle similitudini; in parole come il tedesco lila (in francese il lillà, mentre il tedesco violett è il francese la violetta) la similitudine è chiara; nelle designazioni dei colori di moda (rosso ruggine, verde reseda, color “torre Eiffel” e simili) non si può nemmeno dire con sicurezza se sia ancora (459) presente una similitudine cosciente o già un nuovo con-cetto di colore.

La metafora è quindi, a differenza della similitudine a tre termini in

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senso stretto, il tipico paragone di due rapporti, nel quale è divenuto abituale lasciare inespresso il concetto più comune. Nella proposizione “la prudenza è la madre della saggezza” ognuno capisce: la saggezza si rapporta alla prudenza, come la figlia alla madre. Il tertium compara-tionis – tanto per non rinunciare alla pedanteria – è qui che la madre abbia generato la figlia. Si potrebbe anche pensare che la figlia sia simile alla madre, che la figlia sia obbediente nei confronti della ma-dre; ma il mondo della realtà nella nostra anima non ci lascia proprio pensare a un tale non-senso. Se noi udiamo i tre concetti “prudenza, madre e saggezza”, l’associazione del pensiero getta un ponte tra loro soltanto nel concetto del generare, non nel concetto dell’ubbidienza. Impareremo presto come sia importante anche per la metafora questa necessità, questa cogenza della connessione di immagini.

Tropi – Ancora una cosa. Se qui applico il termine metafora, abbastan-za in accordo con la spiegazione di Aristotele (il quale parlava greco; per lui dunque la parola metafora, trasposizione, non era ancora un termine tecnico straniero), all’intero gruppo delle immagini cosiddette poetiche o ai tropi, sono d’accordo con il più recente uso linguistico che non sa più molto che farsene delle distinzioni della retorica an-tica. Mi sembra evidente che un grande numero delle specie, in cui tradizionalmente sono ripartiti i tropi, cada comunque sotto l’antico concetto della metafora, cioè dello scambio dei concetti di due oggetti confrontati. Su questo si potrebbe scrivere un saggio inutile: come gli antichi maestri della retorica hanno utilizzato le sterili categorie logiche per ricavare tali sottospecie. Ancora Salomon Maimon ha pensato a un simile sistema dei tropi, che sarebbe diventato simile (o uguale?) al sistema (460) delle categorie (Lebensgeschichte, ii, p. 261 29). Lascerò volentieri a qualcun altro il compito di scrivere questo saggio e mi limiterò a fornire solo alcuni esempi. Se si scambiano tra loro specie e genere, la parte e il tutto (lei aveva vissuto 15 primavere), questo si chiama sineddoche, se si scambiano causa ed effetto (egli è un grosso sacco di denaro), si chiama metonimia, se si paragona l’animato con l’inanimato (il piede del monte), si chiama personificazione; ma non appartiene proprio più al nostro stile di pensiero fare simili distinzioni scolastiche. Ci accontentiamo del fatto che alla base di tutti questi modi di dire sta il processo psicologico della comparazione; e l’uomo ha bisogno di accontentarsi, non di pensare oltre.

Ci sono alcuni altri tropi che a prima vista non sembrano ricon-ducibili al concetto del paragone metaforico, per es. l’iperbole e l’iro-nia. Ma sembra soltanto. Finché rimaniamo nell’ambito della poetica, l’intenzione di ogni espressione figurata di questo tipo è certamente quella di rafforzare l’intuibilità. Se qualcuno dice primavera al posto di anno, sacco di denaro al posto di uomo ricco o piede del monte (che già è diventato lingua, per la quale non abbiamo quindi più nessuna

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espressione propria), egli vuole solo illuminare con più forza la rappre-sentazione, e questo comporta sempre una forma di ingrandimento. In ogni metafora c’è qualcosa di iperbolico. E l’ironia raggiunge lo stesso scopo in una piccola perifrasi, quando ad es. chiama il Chimborasso un nano, e così, acuendo la contraddizione, rende particolarmente evi-dente la grandezza del monte. Ora, che mi si conceda o meno questa spiegazione dell’iperbole, io uso tuttavia la parola metafora nel senso del tropo o del paragone figurato in generale, la qual cosa è mio dirit-to, avendolo detto esplicitamente. […]

Metafora e Witz – (487) Ogni metafora è arguta (witzig). La lingua attualmente parlata da un popolo è la somma di milioni di arguzie (Witze), è la raccolta delle pointe di milioni di aneddoti, la storia dei quali è andata perduta. A questo riguardo dobbiamo pensare che gli uomini del periodo della creazione del linguaggio fossero più divertenti (488) degli attuali buffoni che vivono delle loro arguzie. Si potrebbe persino sostenere in generale che l’uomo è tanto più arguto, quanto più è ignorante, il che non contraddice certo l’essenza dell’arguzia. L’arguzia scorge somiglianze lontane. Le somiglianze vicine si possono fissare subito con concetti o parole. Il mutamento semantico consiste nella conquista di queste parole, nell’estensione metaforica o arguta del concetto alle somiglianze più lontane. E queste più lontane somiglian-ze colpiscono, si sa, piuttosto l’estraneo che il conoscitore. L’europeo trova simili tra loro tutti i cinesi, il cittadino tutte le mucche, l’estraneo tutti i membri di una famiglia. L’ignoranza rende spassoso (witzig). La non conoscenza trova velocemente le somiglianze. Ne ho esperienza anche in me stesso: mi colpiscono somiglianze nelle melodie in cui il musicista sa che sono stato ingannato dalla casuale somiglianza di due toni collegati.

Non mi si torni a dire che ogni singola arguzia, ogni singola me-tafora è stata necessaria nella storia del mutamento semantico, perché quindi dev’esserci sotto una legge. Anche il corso di un ruscello è neces-sario nel senso che ogni più piccola goccia d’acqua obbedisce alla legge di gravità e quindi il ruscello, la somma delle sue gocce, deve seguire questo corso e nessun altro. Si può pur sempre definire secondo legge la gravità, ma il corso del ruscello rimane casuale, proprio in relazione alla forza di gravità. Mi devo guardare continuamente dal confondere la necessità con la legalità. E la storia del mutamento semantico è anche molto più irregolare: essa somiglia piuttosto alla figura che l’acqua ver-sata disegna su una tavola. Anche in questo caso ogni goccia obbedisce alla legge di gravità, ciononostante la figura è casuale.

E se riflettiamo su quale enorme mutamento semantico sia presente nelle parti del discorso non indipendenti, per esempio nelle flessioni e nelle preposizioni, con quale audacia metaforica la nostra forma del genitivo o la nostra preposizione “in” designa, tastando attorno a sé,

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le relazioni più distanti, (489) riconosceremo allora, anche a partire da qui, la casualità non solo della materia della lingua, ma anche della forma della lingua.

Ampliamento metaforico – Secondo il nostro modo di esprimerci il mutamento semantico delle parole riguarda molto spesso solo l’am-pliamento dei concetti. Solo nel suo risultato ultimo chiamiamo infat-ti il restringimento un mutamento; il processo stesso è la perdita di un gruppo di altri significati. L’ampliamento però consiste di regola nell’applicazione metaforica, nella limitazione di un nuovo contenuto. Questo rapporto diventa molto chiaro in una parola relativamente nuo-va come ala. Il significato dell’ala come ala di uccello (propriamente non così semplice dal punto di vista etimologico) è presente a noi tutti; non è quindi per niente difficile mostrare al mugnaio che parla delle ali del suo mulino a vento, all’ufficiale che parla delle ali della sua armata, al signore che parla delle ali del suo castello, che si intende in senso metaforico la parte laterale del mulino, dell’armata, della casa, come un’ala di uccello è la parte laterale del corpo dell’uccello. Anche una mente semplice arriverà da sé a comprendere che Flügel (ala, piano-forte a coda) ha ricevuto il suo nome dalla somiglianza con un’ala di uccello triangolare e arcuata.

In connessione con ampliamenti di questo tipo succede poi che venga affermato solo l’ambito che è stato conquistato e che il possesso antico vada perduto, dove poi – quando la connessione non è chiara – sembra esserci un puro mutamento semantico senza ampliamento. In francese e in italiano l’espressione antica per Kopf (capo, chef) è diventata così abituale nel suo significato metaforico di “guida”, che quella originaria è andata perduta; e tralasciando quanti miseri anni prima lo stesso significato originario possa essere stato una metafora. Lo sostituì testa, tête, così come Topf (pentola), il che era però una metafora molto comune, finché non è diventata così generale che ha cessato di essere comune. In tedesco non è molto diverso. (488) Haupt (sì, certo un prestito dal latino caput, nonostante la sua formazione anomala) viene usato per testa quasi solo da rimatori senza gusto. Kopf è di nuovo una pura metafora, certo per la somiglianza del cranio con una coppa (lat. cuppa). Se Kopf dovesse lentamente restringersi, in una nuova metafora, al significato di intelletto, potrebbe forse venire in auge (come pentola e coppa) una delle parole ora già popolari o solo gergali come zucca, melone ecc., per designare la parte più nobile del corpo. In svedese testa si dice panna, pentola.

Il mutamento semantico per ampliamento del concetto porta anche a un fenomeno che i linguisti e i profani hanno spesso già notato, senza che se ne sia riconosciuto il suo carattere metaforico. Si è detto spesso che il significato delle parole sbiadisce, che esse perdono la loro precisa definizione e quindi il loro antico valore – proprio come la moneta

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spicciola. Certo, con ciò esse ampliano di solito il loro concetto, il loro ambito di validità; in questo modo divengono però solo più utilizzabili, non di maggior valore. Gli esempi sono quasi superflui; per lo più si cer-ca l’origine di gene e del tedesco sich genieren (imbarazzarsi) nell’ebraico Gehenna (inferno) passando attraverso le pene dell’inferno e il martirio per arrivare alla costrizione e al disturbo, fino all’insignificante imbaraz-zo, che è per noi il significato di questa parola straniera. L’abitudine di certe cerchie di applicare a banalità ora questa ora quella parola enorme offre esempi meno convincenti, ma più quotidiani; così vengono a galla improvvisamente parole come gigantesco, colossale, spaventoso, dette a proposito delle cose più ridicole, per scomparire subito di nuovo da questo gergo e far posto ad altre novità. Non sempre scompaiono. La nostra parola di comodo sehr (molto) si è formata allo stesso modo. Si è formata da una parola che significava doloroso, veemente, violento e va confrontata con l’inglese sore. Nel dialetto viene usato così arg (originariamente: cattivo, di poco valore) nel senso di sehr. […]

Le metafore vanno e vengono – (495) Si può dire che il mutamento semantico delle parole non è compiuto fintanto che l’uso metaforico è avvertito come tale. L’uso metaforico è solo l’impalcatura per la nuova costruzione. È questo oscillare della nostra memoria tra uso conscio e inconscio di metafore a fare una grande differenza tra buoni e cattivi scrittori, tra poeti e non poeti, e si può dire che nell’enorme costru-zione della memoria umana, come si presenta in ciò che chiamiamo astrattamente la lingua di un popolo, si può sempre solo abitare in un luogo di confine. Dietro di noi rovine, davanti a noi costruzioni nuo-ve, con noi la casa in cui dimoriamo; dietro di noi una lingua morta, davanti a noi il sentore di nuovi concetti, con noi un ondeggiare e un intrecciarsi (ein Wogen und Weben) di metafore, che stanno per diventare parole senza senso e quindi utilizzabili. Se facciamo bene attenzione, in molti ambiti linguistici si fanno ancora sentire le tracce di antiche metafore. Non si può più risvegliare la metafora nelle forme pure delle parole, nelle sillabe di derivazione, la si può tutt’al più anco-ra dimostrare. In parole come il latino: amabo (forse: ama-fuo), gotico: habaida (haben tat ich), francese: dirai (dire-ai) la composizione di due parole la si può ancora rintracciare storicamente; ma il cammino sul quale questi concetti, certo in un primo tempo grossolani, dell’”esser fatto”, del “fare”, dell’”avere” si avvicinavano, in una qualche ardita iperbole, ai verbi, il cammino sul quale queste parole si univano alla rappresentazione di un concetto temporale, persero la loro intuibilità, persero il tratto iperbolico, il cammino sul quale poi la parola, diven-tata un semplice strumento, fu imitata analogicamente, finché essa finì come sillaba formale grammaticale e morì, questo cammino non lo si può più ricostruire; si può solo profetizzare che queste parole, una vol-ta in fiore, dopo aver percorso un tale mutamento semantico, in futuro

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spariranno dalla lingua, come le desinenze latine sono scomparse dal francese, quelle germaniche dall’inglese, a parte alcuni residui; poi le lingue avranno bisogno di nuove forme e parole che un tempo erano in fiore deperiranno in questa loro funzione. Succede con le parole come con le generazioni degli uomini: qui e là si estinguono delle fa-miglie, ma la stirpe umana diventa sempre più grande; infatti da ogni parte emergono nuove stirpi e nuovi individui, e proprio ciò che vale per le parole più forti che nullifichiamo usandole come desinenze, vale anche per il diverso impiego formale delle parole.

Nel tedesco è andata perduta la declinazione antica, non in modo così completo come nell’inglese e nel francese, certo però in maniera abbastanza rilevante. Al posto delle antiche forme dei casi dovettero entrare in uso nuove preposizioni, e dovettero prestarsi a questo parole sature. Anche qui ondeggia e si intreccia nella lingua una confusione di utilizzo conscio e inconscio di tali parole. In dank o kraft (grazie a questa legge, in forza di questa legge) si ha ancora coscienza dell’uso figurato; in mit (con), durch (mediante) non più da lungo tempo. Nes-sun tedesco sente più che lo strumento, per mezzo (durch) del quale, con (mit) il quale viene compiuta un’azione, sta in mezzo tra colui che compie l’azione e l’atto, che l’atto passa attraverso lo strumento, che lo strumento sta nel mezzo. Il francese che usa puisque nel senso di perché difficilmente ha la sensazione di ripetere così una metafora che cerca di rispondere alla domanda forse più difficile di tutta la filoso-fia, ponendo la successione nel tempo come una successione causale, la sensazione (497) che in puisque (latino postquam) la congiunzione temporale dopo che è diventata il causale perché. A questo proposito non dovremmo dimenticarci che il viennese fa sorridere il tedesco del nord quando usa, come il francese, nachdem (dopo che) nel senso di perché. Oltre a questo forse ci viene in mente che anche il nostro weil non si è formato in altro modo che come un’antica trasformazione di Weile, che altro non vuol dire che tempo, forse anche riposo.

“Wippchen” – L’antica parola Wippchen (Hermann Paul la spiega con Faxen, buffoneria), da quando fu chiamato così il corrispondente di guerra di un giornale umoristico, è passata a designare gli accostamenti ridicoli, preferiti nelle sue notizie, delle vignette di protesta.

Ci vuole molto spirito (Witz) ed esercizio per accumulare questo tipo di scherzi. Stettenheim, il virtuoso del gioco di parole, ha perfe-zionato questo passatempo, facendone la sua specialità, ma nelle sue mani il gioco è diventato quasi meccanico, così che il suo seguace Alexander Moszkowski nello stesso spirito è riuscito a essere molto più incisivo. Lavorando in questo vasto campo, tutti e due avrebbero però ragione di stupirsi che le loro allegre violazioni del linguaggio ci aiutano a penetrare più a fondo da un nuovo lato nell’essenza del linguaggio. Anche dei professori potrebbero stupirsene. Potrebbero.

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Nessun linguaggio senza Wippchen – A Stettenheim non sarebbe venuto in mente di elaborare questa contraffazione e spingerla fino in fondo, se non l’avesse trovata molto spesso in articoli considerati seri. L’ironica rubrica delle lettere del “Kladderadatsch” brulica di Wippchen, che sono stati perpetrati inconsciamente da giornalisti frettolosi. Spesso an-che dai migliori scrittori si può sentir dire che nessuno è sicuro di non aver scritto qualche volta qualcosa di simile. Ma qui per me si tratta di stabilire che piccoli Wippchen inconsci, che per questo possono anche non avere un effetto comico e che quasi sempre vengono ignorati, sono (498) fenomeni di ogni giorno; forse finiremo addirittura con il dubita-re che non sia possibile una lingua senza Wippchen nascosti.

Se consideriamo solo in generale il processo psicologico dal punto di vista che ho esposto qui a proposito dello sviluppo del linguaggio umano, questo triste risultato emerge subito logicamente e scientifi-camente. E se per questo dovessi dare a credere più che persuadere, potrei accontentarmi, come altri scrittori di libri, della logica e della scienza. Sappiamo infatti che tutte le parole del nostro linguaggio sono giunte al loro significato mediante applicazione figurata. Ogni parola ritorna ora naturalmente in ogni suo significato a un’altra rappresenta-zione figurata. Non si può certo tralasciare il fatto che già nell’accosta-mento banale di due parole risulta una commistione di due immagini divergenti. Prendiamo un esempio qualsiasi, più è semplice e meglio è. Se la parola del sanscrito per la nostra parola da esso derivata (?) Tochter (figlia) proviene davvero dalla rappresentazione di una mun-gitrice (forse perché il compito di mungere spettava come privilegio alla figlia di casa), quando l’immagine della mungitrice viveva ancora nella coscienza della lingua, ci doveva essere un Wippchen ogni volta che si diceva: la mungitrice fa il fuoco o ricama o partorisce. Con que-sto tralascio del tutto il fatto che il far fuoco, il ricamare, il partorire ritornino a loro volta ad altre rappresentazioni figurate. Certo oggi lo dicono solo i filologi che la nostra Tochter (allo stesso modo lo slavo dcera) era collegata un tempo con l’immagine della mungitrice. Con questo la possibilità di avvertire il Wippchen è scomparsa. Ma non si può negare allora che dietro a quasi tutte le connessioni di parole della lingua siano nascosti questi antichissimi Wippchen. Addirittura si deve ritenere un caso più raro se capita che le immagini di due parole collegate combacino. Come se ad esempio quando qualcuno dice che la Tochter (499) gli ha dato da bere del latte. Eppure mi si deve con-cedere che nella frase c’è qualcosa che suona originario, patriarcale. L’insieme dell’immagine ha qualcosa di intimamente vero.

Contaminazione – I cultori della scienza del linguaggio non si stupiran-no di apprendere di essere stati loro a formulare la teoria dei Wippchen quando applicarono a certe formazioni linguistiche basate sull’errore l’espressione dotta contaminazione. Contaminazione significa propria-

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mente contagio. Nella linguistica, spiega Hermann Paul, la contami-nazione è il processo «per cui due forme di espressione sinonimiche si introducono contemporaneamente nella coscienza, così che nessuna delle due si realizza in modo puro, ma si costituisce una nuova forma, nella quale si mescolano elementi dell’una con quelli dell’altra».

1 [Gli ultimi nove anni sono quelli della stesura dell’opera, ma il numero nove sembra contenere anche suggestioni sacre, Cfr. Ludger Lüktenhaus, Einleitung des Herausgeber, B i, p. ix, n. 1]

2 [Sta rispondendo alle critiche di incompetenza.]3 [«Dem Volke aufs Maul sehen können», l’espressione è di Lutero e riguarda i criteri

per la traduzione della Bibbia.]4 [1896.]5 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, Hamburgi, apud Henricum Kühnrat,

1670, p. 217.]6 [Ivi, p. 34.]7 [Elmo.]8 [Platz, luogo, posto, diventa posto a sedere in Platzkarte, biglietto di prenotazione.]9 [“Per Hamburg ci vogliono quattro ore”]10 [“Buone quattro ore fin su”.]11 [Imperfetto di backen, cuocere al forno.]12 [Imperfetto di trinken, bere.] 13 [Cavallo.]14 [Vedere e andare.]15 [William Dwight Whitney, Die Sprachwissenschaft: Vorlesungen über vergleichende Sprach-

forschung, bearb. u. erw. von Julius Jolly, Ackermann, München 1874 (Olms, Hildesheim - New York 1974)].

16 [Friedrich Max Müller, Einleitung in die vergleichende Religionswissenschaft, Trübner, Strassburg 1874.]

17 [Gemeinsamkeit = comunanza, Gemeinheit = volgarità: gemein = comune, volgare.]18 [In tedesco Ladenschwung è sinonimo di Ladenschwengel, garzone.]19 [Lettera dell’8 agosto.]20 [Unding si usa in tedesco anche nel senso: non è cosa, è una follia, una chimera.]21 [Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus, cit., p. 16.]22 [Settimanale satirico berlinese, 1848-1944.]23 [Diversa la rappresentazione per la parola tedesca: Säugetier, animale che succhia, viene

allattato.]24 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, Mäcken, Reutlingen-Leipzig

1846-1858 (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, iii, p. 108).]25 [Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, in Sämtliche Werke, Abt. i, V Bd., hg. von

Norbert Miller, Hanser, München 1963, p. 184.]26 [Johann Georg Hamann, Aesthetica in nuce, in Sämtliche Werke, Verlag Herder, Wien,

ii, p. 197.]27 [Verlag von Max Niemeyer, Halle, 1911.]28 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., vi, p. 75).]29 [Salomon Maimon, Lebensgeschichte, hg. von Karl Philipp Moritz, ii, Vieweg, Berlin

1793.]

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Dizionario di Filosofia(voci dal Wörterbuch der Philosophie)

Significato (Bedeutung)(W i, 146) Non potè sfuggire all’attenzione dei grammatici che le

parole della loro disciplina, le parole della lingua ordinaria hanno un contenuto, un senso, un significato; allo stesso modo non potè sfuggire all’attenzione dei logici che il contenuto dei loro concetti e i significati delle loro proposizioni sono legati al linguaggio umano. La conseguen-za dell’una e dell’altra attenzione fu che davvero presto comparve la distinzione tra la parola (la proposizione) e il suo significato. Come tra il parlare e il pensare. Questa era una distinzione morta, una proce-dura anatomica, finché non si notò esplicitamente che anche la parola viva ha un significato.

Le parole morte si trovano soltanto sul tavolo anatomico degli stu-diosi di etimologia e nei dizionari. Poi anche nei cattivi libri. Nella lingua viva non si può staccare la parola dal suo significato come non si può staccare un organismo dalla sua “anima”; chi si accorgesse che proprio non esiste un’anima particolare al di fuori della lingua, sarebbe propenso a definire il significato l’anima delle parole.

Una parola che non avesse significato non sarebbe una parola del linguaggio, come la maggior parte delle parole di un papagallo non sono ancora parole del linguaggio.

Ora, ogni lettore avveduto di dizionari deve essersi accorto che in un lungo articolo di un dizionario serio si trovano molti significati della parola, ma non si trova mai il significato; quanto più un dizionario è piccolo e misero, tanto più si limita a indicare in modo falso e fuor-viante un’unica traduzione, il significato. (147) Lo sforzo di rendere ogni parola di una lingua con una parola dell’altra – che è un errore evidente negli strumenti più miseri impiegati per l’apprendimento o per l’uso pratico di una lingua straniera, e che nei viaggi in paesi stra-nieri diventa la fonte di confusioni infinite e spesso spassose – proprio questo sforzo era fino a poco tempo fa l’ideale dei lessici filosofici e in generale dell’uso filosofico delle parole. L’adepto della filosofia incap-pava a ogni passo, durante il suo viaggio nel paese straniero del pen-siero astratto, in parole straniere e ne cercava la spiegazione dapprima in un dizionario delle parole straniere della filosofia; qui imparava velo-

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cemente in modo sicuro il significato di tutti i termini tecnici filosofici. Man mano che invecchiava, quanto più diligentemente si dedicava alla storia della filosofia, leggendo cioè le opere originali dei pensatori più significativi di tutti i tempi, gli doveva diventare sempre più chiaro che i termini tecnici della filosofia (accanto alle loro traduzioni e so-stituzioni) non hanno un unico vero, immutabile significato, che non c’è proprio il significato accanto ai significati. I dizionari filosofici più nuovi, quello tedesco di Eisler e quello inglese di Baldwin – e qui vor-rei ringraziare tutti e due per le innumerevoli indicazioni bibliografiche – hanno compreso che si può conoscere il significato di un termine solo dalla storia del termine, e arricchiscono questa storia reperendo materiali dovunque; invero tutti e due i lessici si preoccupano troppo spesso di fissare oltre a ciò anche il significato, come se ci fosse ancora una volta un qualche concetto al di fuori della sua storia. Quello che si può notare a proposito del significato attuale della parola lo si può definire solo à peu près, tracciando una linea risultante dalle direzioni presenti, in lotta tra loro, e decidendo di attenersi a questa risultante per la concezione del mondo del presente o perfino per la concezione del mondo definitiva; anche il significato attuale di tutte le parole è divenuto storicamente. Il dizionario della filosofia, che non ha osato chiamarsi un dizionario filosofico, può aggiungere a ogni saggio di una storia della parola (148) anche una critica al significato del momento o ai significati in conflitto.

Da questo si vede che cosa si ottiene quando nelle più moderne esposizioni della logica il discorso verte su un significato in sé, su un significato obiettivo-ideale (Husserl). Ma a dire il vero anche qui vi è al fondo una differenza che, se fosse stata chiara, avrebbe dovuto metter fine all’inutile ricerca del significato. Penso alla differenza tra concetto e significato.

Di una parola si può dire cha ha significato; come si può dire di una cosa che ha delle proprietà, anche se la cosa non è nulla al di fuori e accanto alle sue proprietà. Così anche la parola non è più una possibile parte costitutiva del linguaggio se le si toglie il suo significato. Il significato può essere giusto oppure sbagliato, chiaro oppure oscu-ro, usuale oppure occasionale, preso in generale oppure limitato a un ambito ristretto, può appartenere al linguaggio comune o del mestiere: il significato appartiene sempre indissolubilmente alla parola e nella psicologia reale del pensiero non lo si può separare dalla parola. Il significato è un puro concetto psicologico.

Il concetto ha un significato solo nella logica. Non è corretto dire: la parola ha un concetto. Il concetto non è una proprietà della parola, è invece la parola stessa, nel momento in cui con essa si eseguono delle operazioni logiche.

Non saprei dire chi abbia coniato per primo la parola tedesca Be-deutung (significato) in questo senso psicologico; quando si dice che

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qualcosa di irreale, ad esempio un sogno, bedeute (significhi) qualcosa di reale, bisogna prima deuten (interpretare) il sogno perché esso abbia un senso; così bedeuten viene ancora usato molto spesso, e fu usato in tempi più antichi, per ‘interpretare’, per l’interpretazione (Auslegen) di parole della propria lingua in relazione a parole straniere o oscure o equivoche. Per questa ragione sarebbe molto seducente derivare la parola primitiva deuten, come la parola deutsch, dall’antico alto te-desco diot (popolo), (149) così che deuten potesse significare: render popolare, comprensibile. Deutsch era già in gotico = pagano, popola-resco; Lutero poteva tradurre bavrbaro" con undeutsch (non tedesco), nel senso di undeutlich (non chiaro). (Nelle scuole ebraiche si usa molto spesso, come ho avuto modo di imparare, la domanda: “Was ist taitsch?” nel senso di “che cosa significa?”) Se si considera però originale il significato attuale di deuten, cioè indicare, dare un segno, deiknuvnai, allora Bedeutung potrebbe (non posso dimostrarlo) essere un’antica traduzione di connotatio, parola usuale nel Medioevo e di-venuta di recente un termine inglese con Mill. Non è giusto tradurre l’inglese connotation con il tedesco Mitbezeichnung (connotazione) o Nebenbedeutung (significato secondario); il suffisso be (antico alto te-desco bi = nuovo alto tedesco bei) in Bezeichnung (designazione), in Bedeutung rende già sufficientemente il suffisso latino con e lo ha già tradotto; connotation nel senso di Mill vuole esprimere propriamente solo il contenuto semantico di una parola, ma, accanto a questo, anche il contenuto in opposizione al contesto logico; non ci dobbiamo più preoccupare di ciò che, con meticolosa distinzione, esprimeva conno-tatio nell’uso linguistico degli scolastici.

Sul mutamento semantico ho già parlato esaurientemente (B ii, pp. 248ss.); sarebbero ora da confrontare i Prinzipien der Sprachgeschichte di Paul (terza edizione, p. 67 1) e l’Essai de Sémantique di Bréal. Tutti e due questi ricercatori si erano evidentemente stancati di indagare oltre sul mutamento fonico secondo presunte leggi; Bréal esprime que-sta sensazione in maniera graziosa nelle Idée de ce travail: «Si l’on se born aux changements des voyelles et des consonnes, on réduit cette étude aux proportions d’une branche secondaire de l’acoustique et de la physiologie; si l’on se contente d’énumérer les pertes subies par le mécanisme grammatical, on donne l’illusion d’un édifice qui tombe en ruines» 2. Il più rigoroso Paul, che non possiede orecchio meno fine dello studioso francese per la forma interna della lingua, tiene in mag-gior conto il contesto delle scienze in questione, si accontenta anche della designazione tradizionale del mutamento semantico; io non oso decidere se sia meglio che la nuova disciplina (150) debba chiamarsi semantica o semasiologia; in qualsiasi modo la si chiami, la nuova di-sciplina, più feconda della teoria del mutamento fonico, potrebbe dare i contributi più validi alla storia del pensiero umano.

La teoria inglese del significato (significs) non è davvero molto lon-

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tana dalla critica del linguaggio. Distingue con precisione tra significato usuale (l’uso linguistico dominante), significato individuale (l’intenzione del parlante o dello scrittore nell’uso di una parola) e il significato del valore di una rappresentazione. In quest’ultimo senso bedeutend è stata una parola molto amata dall’ultimo Goethe; già Jacob Grimm ha registrato con amore e delicatezza questo uso individuale: «Goethe usa la parola troppo spesso, come se essa non fosse passata dalla rappre-sentazione più vivace di colui che ti adora, di colui che ti fa presagire, senza che tu te ne renda conto, anche senza esagerare, in quella più astratta di ciò è importante, decisivo, eccezionale, grande» 3; e Grimm nota già che nel linguaggio comune unbedeutend (= insignifiant) pre-cede questo bedeutend (significans).

Coscienza (Bewusstsein)(174) Il sostantivo “coscienza” non esprime proprio null’altro che

la somma di quelle attività interne che con un’altra parola chiamiamo la nostra vita spirituale. Ci sono parole-somma (Summenworte), come appunto “vita”, che hanno diritto di esistenza nel linguaggio scientifico; a queste parole utilizzabili non appartiene “coscienza”, e io cercherò di mostrare il difetto del concetto di coscienza che lo differenzia dal concetto di vita. Ora la parola “coscienza” è ancora più inutilizzabile di altre parole-somma sostantive dello stesso tipo, poiché il suo contenuto coincide del tutto con quello di altre parole, dalle quali la superstizione della parola degli psicologi vorrebbe di nuovo distinguerla. È talmente chiaro che da circa cent’anni nel linguaggio comune si dice “spirito”, “spirituale” là dove la scienza parla di espressioni della coscienza. Meno chiaro è purtroppo che anche i concetti di “io”, “memoria”, “linguag-gio” sono solo sinonimi di coscienza. Se però il sentimento dell’io è un’illusione, se il sentimento dell’io è solo il sentimento vissuto di aver ricordi, sentimento che noi chiamiamo individuale, perché non c’è un altro tipo di ricordi, se – detto altrimenti – l’enigma della personalità è tutt’uno con l’enigma della memoria; se inoltre la nostra vita, diciamo, animale, il nostro corpo ereditato e le sue funzioni, sono tutt’uno con la memoria degli organismi; se infine la nostra vita spirituale o il nostro linguaggio sono tutt’uno con i ricordi ereditati del nostro popolo e di nuovo dell’umanità: con ciò l’identificazione di coscienza e memoria, personalità e linguaggio non è invero dimostrata logicamente; tuttavia questa idea inusuale si avvicina alla spiegazione.

Anche senza ricondurre la coscienza all’attività della memoria, la parola “coscienza” dopo più di duemila anni di servizio (la sua storia (175) va dai neoplatonici fin oltre Wolff, che coniò il termine tedesco) è in procinto di essere licenziata; la nuova psicologia non la ama e non trova più alcuna differenza tra “cosciente” e “psichico”; solo gli herbartiani, e agli herbartiani appartiene anche Wundt, si trascinano ancora avanti con la parola divenuta superflua e si danno pena di ri-

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empire la vecchia forma linguistica con nuove rappresentazioni. Così arrangiata, essa è finita nella raccolta dei concetti filosofici dismessi come un animale imbalsamato: paglia nella pelle graziosa.

Mi si potrebbe obiettare: se coscienza vuol dire lo stesso che vita spirituale o psichica, e se questa vita interna, o come altro la si voglia chiamare, è anche una realtà, anzi persino la realtà più certa e forse l’unica, il modo di dirla non importa e si potrebbe lasciare in vita la parola antica, ripulita dalla polvere scolastica. Ma “vita spirituale” è evidentemente un’espressione figurata e dà una falsa immagine della rappresentazione. La falsità invero, che si nasconde in tutti questi so-stantivi astratti, è comune al concetto di vita e di coscienza: non c’è una vita, un’altra volta, accanto alle espressioni della vita, non c’è una coscienza, un’altra volta, accanto agli atti della coscienza. Tutti i so-stantivi astratti danno l’illusione a un critico del linguaggio, che fosse giovane e forte abbastanza, di poter spazzar via con una scopa di ferro i sostantivi astratti in una grande riforma del linguaggio. I sostantivi concreti dovremo ben tenerceli finché vogliamo conservare il credo mistico nella realtà dell’amato mondo.

Cosa (Ding)(295) Abbiamo imparato a riconoscere che la totalità delle cose,

che la si sia chiamata materia (Materie) o anche sostanza (Stoff), è una rappresentazione o, con altro termine, un’astrazione (Gedankending). «Quello che noi chiamiamo materia è un determinato complesso di sensazioni conforme a leggi» (Mach). Non è così semplice riconosce-re che questa critica del concetto generale di sostanza vale anche per quella che viene comunemente chiamata cosa (Ding), una singola cosa, un oggetto, una cosa (Sache). Verremo a sapere ancor più precisamente che Ding e Sache sono due calchi che provengono dall’uso giuridico dei Latini e in origine significavano l’oggetto controverso di un processo, che al contrario Gegenstand è un calco di obstantia (objectivum), che proviene dalla filosofia e che, nel suo significato, già (296) alludeva in modo oscuro a questioni di teoria del conoscere: Gegenstand è ciò che sta di fronte all’io, la rappresentazione del quale deriva insieme da qualcosa di esterno alla ragione umana e dall’impiego della ragione. Tutte queste espressioni vengono usate nel linguaggio comune senza particolari distinzioni per le singolarità del reale, per le piccole e grandi realtà, per le quali il realismo ingenuo nemmeno cerca una spiegazione, ma che di una spiegazione hanno davvero molto bisogno. Poiché tutte queste cose non sono invero reali, sono piuttosto le cause di una metà del nostro mondo reale, quello esterno. Una mela non è che la causa delle sensazioni: rotondo, rosso, dolce, ecc.; e non c’è una seconda volta accanto alle sensazioni, delle quali è causa; non c’è poi un’altra volta ancora. In questo senso tutte le cose sono soltanto astrazioni, soltanto rappresentazioni. E qui ci si deve guardare dallo scambiare

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rappresentazione (Vorstellung) e apparenza (Erscheinung). Apparenze (nel senso di Berkeley e Kant) sono anche le sensazioni aggettive date immediatamente; queste però non sono astrazioni, non rappresentazio-ni; esse sono sì già in qualche modo elaborate dall’apparato centrale del nostro cervello, nel momento in cui arrivano alla coscienza, ma le sen-sazioni non sono ancora elaborate dalla ragione o dal linguaggio, non sono ancora astrazioni o rappresentazioni, come lo sono le cose. Non sappiamo dire delle cose più di questo, che cioè tutte le cose sono solo astrazioni. La teoria del conoscere, che applica alle cose la proposizione di Mach: «quello che chiamiamo una cosa è un determinato complesso, conforme a leggi, di sensazioni connesse tra loro», si distingue solo per un particolare dal realismo ingenuo che crede di percepire sensibilmen-te proprio le cose, solo per questo: che essa vede un problema dove il cosiddetto sano buonsenso non vede nulla e non cerca nulla. Tutti gli enigmi dei concetti di causa, sostanza, legge, unità si nascondono dietro il fatto che si è costretti ad assumere un determinato complesso conforme a legge (297) che i nostri sensi non rivelano e che per questo apre la strada alla seduzione del sensismo.

Kant, e ancor più chiaramente i neokantiani, hanno indagato il rap-porto tra le sensazioni e le loro cause, il rapporto tra il mondo agget-tivo e il mondo causale o verbale; i neokantiani hanno conservato la terminologia di Kant e, in maniera completamente sbagliata, chiamano cose in sé le cause della sensazione aggettiva; recentemente credono di aver riconosciuto le vere cose in sé nelle energie. Le energie però non sono affatto cose, anche se sono oggetti del pensiero. Le cose appartengono al mondo sostantivo, anche se sono tutte solo astrazio-ni. Mi pare allora – e da qui vorrei prendere le mosse – che, secondo questa concezione, non abbia nessun senso che qualcuno si interroghi sulla cosa in sé dell’astrazione; sarebbe come se si volesse decidere di designare proprio le sensazioni aggettive come cose in sé relative delle astrazioni sostantive, il che è abbastanza paradossale.

Ovviamente non intendo per astrazioni degli pseudoconcetti; infatti questi (strega, miracolo) si segnalano per il fatto che a loro nel mondo sensibile non corrisponde nulla. All’idea che tutte le cose siano solo astrazioni ci si abitua meglio con concetti come: ombra, fiamma, vento, tuono. Il tuono non esiste una seconda volta, sostantivamente, accanto alle nostre sensazioni di tuono; la fiamma non esiste una seconda volta, oltre e accanto agli effetti, come causa dei quali noi la proiettiamo, la ipostatizziamo o come dir si voglia; esattamente allo stesso modo la mela non c’è due volte, una volta nel mondo aggettivo e una volta in quello sostantivo. Noi sorridiamo con superiorità del bambino, cui era stato promesso un viaggio, il quale lontano da casa, dopo aver visto nuove montagne e laghi e boschi, chiede: “allora – ma dov’è il viag-gio?”. Noi siamo infantili allo stesso modo quando chiediamo al fisico: “allora – ma dov’è la mela, la mela in sé? La mela accanto (298) e al di

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fuori delle sue qualità?” Pretendiamo due volte la mela che la natura nonostante la sua onnipotenza ci può dare soltanto una volta.

Così arrivo a un nuovo paradosso, che però può sembrare qualcosa di strano solo dal punto di vista del realismo ingenuo, non invece se-condo la concezione del mondo che ha imparato qualcosa da Hume: le nostre rappresentazioni di un’astrazione (di un ens rationis) sono molto più chiare delle nostre rappresentazioni di una cosa corporea. Ho detto poc’anzi che le nostre impressioni sensibili sono le cose in sé relative, che non ha nessun senso cercare ancora una volta e in aggiunta cose in sé dietro le cose reali, e dover credere alla loro esistenza. Ho chiamato cose in sé relative le sensazioni; qualcosa di assoluto non c’è.

Tutte le cose corporee o i corpi sono appunto già rappresentazioni. Soltanto che le astrazioni non ci inducono dapprima a cercare dietro di esse una seconda esistenza, mentre i corpi danno sempre di nuovo adito a questa doppia visione, non appena rifiutiamo di accontentarci del sensismo. E questo non lo possiamo evitare, perché l’assunzione di un mondo reale dietro le impressioni sensibili è un istinto dell’in-telletto umano.

È la stessa difficoltà che si presenta per il sentimento dell’io, che crede esserci, accanto e al di fuori della catena continua dei nostri vissuti, ancora un io a parte che tiene insieme questa catena. Proprio la stessa difficoltà. La durata è per noi il contrassegno dell’io. La durata è per noi il contrassegno delle cose. Inconsciamente, spinti da un istinto, poniamo un io qualsiasi nelle cose; introiezione la si è chiamata; ne era a conoscenza già Hume, molto prima che Avenarius coniasse questa brutta parola. L’idea è stata espressa nel modo migliore da Mach (Er-kenntnis und Irrtum, p. 15 4); egli considera la cosa e l’io problemi fittizi: «rimane il fatto che non esiste, in senso stretto, una cosa isolata. Solo se si considerano in modo preferenziale dipendenze più forti e vistose, e si trascurano (299) quelle più deboli, che si notano meno, ci è consentita, a un livello provvisorio di indagine, la finzione di cose isolate. Anche l’antitesi tra io e mondo si basa sulla stessa distinzione in gradi delle differenze. Non c’è un io isolato, come non c’è una cosa isolata. Cosa e io sono finzioni provvisorie dello stesso tipo».

Unità (Einheit)(360) Nella mia Kritik der Sprache (B iii, p. 142 ss.) ho già richia-

mato l’attenzione sulle difficoltà del concetto di unità. Né le unità, con le quali lo scolaro oggi crede di dover lavorare, né l’unità logica tra il concetto che sussume e quello sussunto, nemmeno infine l’unità psicologica della cosiddetta autocoscienza, (361) sono così semplici da definire, come credono gli scolari, i logici e gli psicologi; e queste applicazioni della parola si lasciano ancor meno chiaramente inquadra-re in un unico concetto di unità. (Nel suo piccolo scritto Rüge einer merkwürdigen Sprachverwirrung unter den Weltweisen, 1809 5, Carl Le-

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onhard Reinhold ha richiamato l’attenzione sulla confusione tra unità e connessione [Zusammenhang] negli epigoni di Kant, ma senza interesse per la storia delle parole e nel suo tipico modo incerto di andare a tastoni). In tedesco Einheit, per quanto possa suonare sorprendente, è entrata nell’uso comune solo nel xviii secolo. Adelung la considera an-cora come un neologismo del tutto inusuale: «La proprietà per cui una cosa è una; la proprietà per cui una cosa in determinate circostanze rimane la stessa; la proprietà per cui più cose […] costituiscono solo uno e proprio lo stesso essere» (Trinità); «la proprietà per cui una cosa è indivisibile» (monas). Si deve qui notare che cosa è andato perso per il nostro senso della lingua: una proprietà; soltanto nel contare, secondo Adelung, l’unità designa la cosa stessa, fintanto che essa è una; poi, come cosa, essa ha un plurale. Adelung non conosce ancora le unità plurali, per es., nel dramma le unità di luogo ecc. «Unità, un sostantivo dei nuovi filosofi, ricavato dal numerale uno, che esprime il latino unitas» 6. Quindi Adelung sentiva ancora in Einheit il calco di unitas. Dei tentativi più antichi di rendere unitas con una radice e un suffisso tedeschi, nella lingua è rimasto solo Einigkeit (unità), ma non nel senso di Einstimmgkeit (accordo), ma nel termine tecnico Dreieingkeit (trinità). Così la lingua conservatrice della fede può dire ancor oggi per l’Uno o l’unico Dio der einige Gott.

Einigkeit era un modo di aggirare il problema, propriamente un calco di una unicitas non più esistente; poiché Einigkeit connette il suffisso keit (derivato da heit) a ein trasfomato nell’aggettivo einig, così che il suono k deriva due volte dalla sillaba finale -ig. I nuovi filosofi di Adelung (362) erano Leibniz e Wolff. Leibniz fu colui che per primo usò la parola Einheit per unité e la parola monadi per le sue Einheiten. Il neologismo Einheit è passato dal tedesco con lieve modifica all’olandese, allo svedese e al danese e, almeno nell’olandese, viene sentito come germanismo.

Che Einheit sia un calco di unitas per il mio lettore non occorre dirlo e nemmeno dimostrarlo. Che il latino unitas fosse un calco del greco monav", suonerà ancora più strano, eppure è essenziale alla parola latina e alla greca, come originariamente a quella tedesca, che essa si-gnifichi la proprietà dell’essere uno; non può non dare nell’occhio che unitas fosse usato in senso metaforico per Einigkeit, non ancora monav"; che monav" designasse ancora l’unità sul dado, unitas non più. Una proposizione come «mundi, quae nunc partes sunt, aliquando unitas fuit» (Giustino, ii, i, 14) esprime con parole latine uno stato d’animo greco. Spingendomi ancora più in là, mi chiedo come i Greci siano giunti al loro termine astratto monav" senza effettuare un calco. Riflettia-mo solo su questo: movno" non significa in greco uno (ei|"), ma unico; in ogni caso le due parole si convertono l’una nell’altra: Platone dice ora monav" ora eJnav". Al tardo neoplatonismo non posso fare riferimento. L’antico significato di movno", solo, solitario, che ritorna curiosamente

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nell’uso di Einigkeit in Kaisersberg, ha dato vita a un’intera famiglia di vocaboli (es. monasthvrion). In altre formazioni del greco monov" significa sempre solo oppure unico. Fino a che non mi si indica il passo in cui un pensatore greco ha formato, in modo autonomo e consapevole, a partire da questo movno" con la sillaba finale -a", il concetto dell’unità matematica o logica, io continuo a credere al calco della parola greca da una fonte orientale o egizia.

Prima di andare avanti o di tornare indietro, vorrei richiamare l’at-tenzione su come un certo senso della lingua poli-storico cooperi all’in-ternazionalità, sì all’intertemporalità (363) delle nostre scienze. C’è un sistema filosofico che si chiama dottrina delle monadi, perché tutto ciò che è composto alla fine di un possibile processo di divisione viene ricondotto alle parti semplici, dando a queste il nome di monadi. Nel Medioevo si sarebbe giustamente potuto dire unità o unicità. Ma se Leibniz, al posto di monadi, avesse detto “unità” (il che era assoluta-mente lo stesso), ben difficilmente la dottrina che le unità siano semplici avrebbe ottenuto tutta questa fama.

Littré indica dodici gruppi di significato della parola unité; ma an-che il suo acume positivistico naufraga davanti al compito di collegare logicamente questi gruppi. (1) L’unità come elemento del numero, (2) l’unità che è posta a fondamento del confronto di qualsivoglia grandez-za fisica, (3) le monadi semplici o sostanze di Leibniz, (4) gli atomi o le molecole della chimica, (5) la proprietà dell’indiviso, che mette insieme l’unità di Dio e l’unità ad esempio di una specie animale, (6) l’unità dell’individuo, (7) l’unità del carattere, (8) le cosiddette tre unità di Aristotele (le unità di azione, di luogo e di tempo, uno slogan che ha dominato tanto a lungo nel dramma francese, che il plurale “le tre unità” è divenuto un concetto unitario quasi come i nostri “dieci co-mandamenti”; Voltaire parla spesso delle tre unità); (9) l’unità del tipo nell’anatomia comparata, (10) l’unità della materia che sta alla base del materialismo moderno, (11) l’unità della malattia o dell’immagine della malattia nella patologia; (12) la cosiddetta unità tattica dell’arte della guerra, il battaglione, lo squadrone e la batteria. Sarebbe una perdita di tempo già solo criticare l’ordinamento logico di questa analisi. Ma gli esempi della prima sezione mostrano come sia potuta andare di nuovo persa l’antichissima e giusta idea di Euclide, che cioè l’unità o l’uno sia il fondamento del contare, ma non esso stesso un numero. Nientedimeno che Pascal, pensatore e matematico, dice (Geom. I 7): «l’unico motivo (363) per non attribuire l’unità ai numeri è questo: Euclide e i primi aritmetici dovevano dare più proprietà che fossero proprie a tutti i numeri, fuorché all’unità; ora, per non dover ripetere che tale e talaltra condizione di ogni numero, all’infuori dell’unità, era soddisfatta, esclusero piuttosto l’unità dal concetto di numero, con la libertà, che ciascuno ha, di dare delle definizioni».

La causa del disordine che si presenta in quasi tutte le trattazioni

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del concetto di unità sta nel fatto che il concetto di unità passa subito da due scienze tra loro inconciliabili all’uso linguistico generale o in ogni caso superficiale. Ed è certo del tutto diverso se l’uso metaforico del concetto di unità parte dall’unità numerica della matematica o dalla cosidetta unità dell’autocoscienza, e quindi da una psicologia, che farebbe del cosiddetto io il punto di partenza e la fonte di tutti gli altri concetti di unità. A questo si aggiunge ancora la logica formale, che vorrebbe ricondurre a un solo concetto le unità aritmetiche, cioè le unità di misura poste di volta in volta arbitrariamente, e le unità or-ganiche, quindi le unità collegate, mediante un qualche io individuale anche se sbiadito. Questo concetto presenterebbe l’ulteriore difficoltà di tener separati le parole o i concetti di unità e semplicità e in questo caso non c’è possibilità di mettere ordine nell’uso linguistico.

A meno che non ristabiliamo nel nostro uso linguistico o nel senso interno della lingua quello che dal tempo di Adelung è andato perduto: il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità logica e concet-tuale e il carattere non qualitativo (Nichteigenschaftlichkeit) dell’unità numerica. E qui scopriamo, forse con nostra sorpresa, che possiamo afferrare facilmente e definire il concetto astratto di unità, che sem-bra essere uno dei concetti più generali e più difficili, che persino gli animali lo possono afferrare vagamente meglio del concetto di unità numerico, l’uno, apparentemente così infantilmente semplice.

Il concetto astratto di unità, che per primo stabilisce il concetto di cosa (365) nel sostantivo, il concetto di fine nel verbo, la connessione di causa ed effetto nella meccanica, è capace di un’estensione generale così vasta, da poter essere esteso a ogni numero o gruppo di numeri maggiore. La data di oggi, 4.12.1907, la si può comprendere come unità; in questo senso 2, 3, ecc. sono unità. Questo concetto di unità certo il mio cane non lo possiede. Ma l’unità del concetto di cosa deve essergli comprensibile, perché altrimenti non riconoscerebbe i singoli uomini e le singole cose. Lui non può pensare o scrivere in modo discorsivo e scolastico con Leibniz «ce qui n’est pas véritablement un être, n’est non plus véritablement un être», ma per il mio cane io sono primariamente un uomo, perché sono un uomo. Deve aver per-cepito la mia astratta unità, mentre la mia unità numerica non riesce a contarla.

Devo qui parzialmente correggere l’affermazione che l’unità non sia ancora un numero e che il primo numero sia il due. Solo l’unità astratta che deve essere stata precedente a ogni contare, ovviamente a ogni pensare o parlare, non è ancora un numero; un numero diventa però naturalmente l’unità numerica, perché appartiene al sistema numerico, ma solo dopo che un sistema numerico è stato completato. Altrimenti non potremmo contare con l’uno. Possiamo contare certamente anche con lo zero e con il differenziale; ma lo zero e il differenziale scompaio-no, devono scomparire di nuovo, prima di esprimere il risultato esatto;

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l’uno rimane esatto nel risultato. 1+1 è esattamente 2 (1+1 = 2), 1² = 1: l’unità astratta giunge a espressione solo nella denominazione. Se nell’ultima uguaglianza ho avuto in mente 1 cm, il risultato è 1 cm ¤, se pongo al suo posto 10 mm, devo calcolare 1² = 10² = 100 e 1 ¤cm = 100 ¤ mm. Voglio mostrare con un esempio, se possibile ancora più elementare, come si distinguano il concetto astratto di unità e quello numerico. Se di notte sento il campanile battere l’una o le cinque, vuol dire che è stato necessario lo sviluppo culturale di secoli perché io fossi in grado di collegare al numero dei colpi (366) il concetto di questo numero e quanto richiamano uno o cinque rintocchi; il sistema nume-rico dovette prima essere diventato un’abitudine meccanica, un’abitu-dine proprio dei bambini piccoli dei popoli acculturati, perché io possa contare come uno il primo rintocco dopo la mezzanotte e collegargli la rappresentazione corrispondente, e non bisogna nemmeno dimenticare che la suddivisione del giorno in 24 ore, e poi la numerazione per due volte da uno a dodici, è un ulteriore accomodamento arbitrario. Si può ammaestrare un cane, un cavallo, a distinguere i colpi da uno a dodici; ma gli animali non hanno il nostro sistema numerico, essi non sanno che si può andare avanti a contare così, non hanno l’unità numerica; a prescindere del tutto dal fatto che sarebbe difficile far loro apprendere le associazioni di pensiero del nostro confrontare le ore e sarebbe diffi-cile che essi potessero distinguere le otto di mattina dalle otto di sera. Tuttavia il cane deve pur percepire l’unità astratta di un colpo, perché altrimenti non avrebbe percepito il colpo come un rumore individuale che per esempio lo induce ad abbaiare. Potrei anche dire così: la via verso l’unità numerica scende in basso a partire dai numeri più alti; la via dell’unità astratta sale al sistema numerico. Il cane non possiede il nostro sistema numerico e non può mai raggiungere l’unità numerica, l’uno; il cane però possiede il concetto astratto di unità, l’unità della cosa, ma non raggiunge per questo il sistema numerico, perché ha pur sempre meno capacità spirituali dell’uomo. E perché in origine è stato comunque un enorme passo avanti passare dall’unità della cosa al con-tare le cose. In breve: se noi poniamo l’unità numerica, già esercitiamo (ben lontani dall’eseguire il più semplice atto di pensiero) un’arte, la scienza applicata dell’aritmetica, il cui esercizio ci è divenuto tanto abi-tuale nel far di conto, come avviene da circa 600 anni, che riteniamo scienza applicata l’applicazione dei concetti più semplici.

(367) Ma non è così. E ora, alla fine, comprenderemo perché i numeri non sono mai parole come le altre parole, perché i numeri propriamente cadono fuori dall’architettura della grammatica. I numeri si collegano nel discorso ai sostantivi, come se fossero i loro aggettivi; essi non hanno però niente a che fare con il mondo delle parole che indicano delle qualità, con le Eigenschaftswörtern, come noi interpre-tiamo in tedesco la categoria di aggettivo. Nella forma grammaticale e anche nell’applicazione metaforica i pronomi possessivi e gli ordinali

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rientrano grammaticalmente negli aggettivi. Il mio secondo fratello ag-giunge al nome “fratello” due aggettivi che aiutano a determinare in modo inequivocabile un individuo. Soggettivo è mio tanto quanto un aggettivo come buono; ancor più soggettiva è proprio la determinazio-ne il secondo. Ma se dico io ho quattro fratelli, al mio giudizio soprag-giunge immediatamente, forse in modo deittico, un nuovo elemento reale, che è altrettanto importante come un qualsiasi sostantivo, verbo o aggettivo, ma che, nonostante questo, rimane senza forma in senso grammaticale. Nella maggior parte delle lingue. Spesso solo i primi tre numeri – in tedesco fino a circa 150 anni fa – hanno la declinazione del nome; al nominativo e all’accusativo (prima anche al genitivo e al dativo) venivano persino distinti i tre generi: zween, zwo e zwei; solo a partire da Adelung si è imposta la forma del neutro, dopo che persino Goethe e Schiller avevano scambiato le forme. Crederei che questo carattere aggettivo dei primi numeri non derivi semplicemente dal fat-to che vengono usati particolarmente spesso; forse ha contribuito la formazione analogica del linguaggio infantile, forse la circostanza, che si colloca a un livello più profondo, che tutti i numeri molto piccoli si possono percepire con uno sguardo, di colpo, senza contare, e quindi i numeri molto piccoli possono essere afferrati senza usare l’aritmetica, davvero quasi come aggettivi o come impressioni sensoriali.

Così l’analisi grammaticale toglie senza misericordia il concetto astratto di unità – e quanto gli consegue nelle applicazioni logiche, psicologiche (368) e metafisiche – dal concetto di unità numerica e dopo una simile considerazione può sembrare un caso che si possano esprimere con la stessa parola le più alte essenzialità di ogni genere e il numero più piccolo. Ma tutti e due i concetti si avvicinano nuo-vamente quando tentiamo di forzare le categorie della grammatica. Io ho sostenuto (cfr. in particolare B iii, p. 94 ss.), e lo ritengo uno dei risultati più fruttuosi della critica del linguaggio, la tesi che l’ag-gettivo, che Aristotele non poteva ancora registrare, è la parte del discorso originaria e iniziale (visto che abbiamo già dovuto spezzetta-re la lingua nelle parti del discorso), la tesi che tutti i dati dei nostri organi di senso, quindi il fondamento di tutto ciò che è nel nostro intelletto, quindi nel nostro pensiero, ha propriamente e del tutto in senso proprio natura qualitativa, è aggettivo. La realtà naturale non si preoccupa certo del linguaggio umano né tantomeno delle parti gram-maticali del discorso; ma se potessimo comprendere la realtà naturale immeditamente senza parole, se possedessimo delle tenaglie adeguate per questa comprensione, allora dovrebbero essere tenaglie aggettive. D’altronde l’intelletto umano si sforza da secoli di spiegare la realtà naturale, dal punto in cui deve sospendere la descrizione, con l’ipotesi di unità infinitamente piccole, uguali o disuguali. Appartiene all’unità già presso gli scolastici il fatto di essere indivisibile, indivisibile nella meccanica o nel pensiero. Ora, per me, da questo punto di vista, il

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più esterno, è del tutto indifferente rappresentarsi queste unità come cieche o vedenti, con o senza finestre, come monadi o come atomi; nella storia della filosofia di fatto lottano da millenni la dottrina delle monadi e la dottrina atomistica, senza che mai un pensatore abbia sa-puto dire cosa fossero le monadi, cosa fossero gli atomi, a parte il fatto di essere unità. Oggi, nonostante Leibniz, Fechner e Hartmann, siamo immersi fin sopra i capelli nell’atomistica; domani tornerà di moda una nuova monadologia. Sarebbe possibile un’unificazione delle due ipotesi solo se si appianasse l’opposizione che ho appena indicato. In tutte le monadi qualificate (Dio come monas (369) monadum lo si trova più di mille anni prima di Leibniz, in Sinesio, l’amico cristiano di Ipazia) c’è la qualità piuttosto che l’unità astratta, negli atomi non qualificabili c’è la mancanza di qualità piuttosto che l’unità numerica. Se non fosse altro che un caso relativo della storia delle parole ad aver legato in un incantesimo i due i concetti così distanti di unità, noi potremmo comprendere il carattere qualitativo (Eigenschaftlichkeit) dell’unità nu-merica, l’uno, e con questo la proprietà dei numeri in generale; allora avremmo sciolto l’enigma del mondo. Fino alla prossima e migliore posizione del problema. Temo però che il concetto di unità, quello numerico come quello astratto, corrisponda solo a un bisogno umano, alla povertà del linguaggio umano, che non sia natura, e se dovessimo riuscire a sciogliere questo enigma e unificare il concetto astratto di unità con il concetto numerico di unità, ci sarebbe ancora una volta soltanto una nuova filosofia, che si chiamerebbe una nuova spiegazione del mondo, ci sarebbe ancora una volta soltanto un nuovo libro con nuove sequenze di parole. E, dato che persino il riso è soltanto umano, la natura non potrebbe nemmeno riderci su.

Il concetto di unità, in tutte le lingue colte, è un concetto numerico, è l’unità numerica. Esso può essere sorto, non etimologicamente, ma psicologicamente, dall’unità dell’autocoscienza, dall’atto della memoria individuale, atto che ci rispecchia il fenomeno primordiale dell’unità, il sentimento umano dell’io. Questo concetto psichico di unità venne poi trasferito agli esseri organici, alle specie, a unità casuali o storiche, come potremo vedere meglio nella nostra ricerca sul concetto di forma, vedere cioè che il linguaggio è ciò che non può comprendere in altro modo il mondo della realtà e il mondo interno, se non cercando di ordinare secondo unità, forme o concetti ciò che o la memoria della specie ha già ordinato davvero o che l’interesse umano vuole ordinare per potergli dare un nome.

È stata una fortuna che l’uno o l’unità (370) sia l’unico degli innu-merevoli numeri a essere un concetto, una parola come altre parole.

Conoscere (Erkennen)(441) Non sarebbe onesto se in questo piccolo saggio volessi segui-

re il concetto nel suo passaggio dal significato sensibile a quello sovra-

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sensibile, se volessi prendere le mosse dal significato più decisamente sensibile, perché nel linguaggio del tedesco biblico vuol dire lo stesso che consumare il coito; tuttavia non è ancora chiarita la questione se erkennen abbia un’antichissima connessione con zeugen (generare) (come assume Grimm) oppure se il senso di copulare sia un calco (al di là del latino e del greco) dall’ebraico 8. La parola, presa nel signifi-cato corrente di riconoscere, ha pur sempre un contenuto puramente sensibile; si riconosce qualcosa che prima si è visto o sentito, in una sua caratteristica sensibile. Nell’uso odierno del linguaggio (in passato kennen coincideva del tutto con erkennen) il processo molto più co-sciente dell’Erkennen si distingue dal processo inconscio del kennen per il fatto che il prefisso er (secondo Paul) designa veramente un pro-cesso momentaneo (442) e precisamente insieme l’evento e il risultato; si potrebbe anche dire: in kennen sta più un ricordo in potentia, in erkennen più un ricordo in actu.

Il processo che avviene in un uomo quando riconosce un fenomeno sensibile dovrebbe spiegarlo la psicologia, in particolare la psicologia fi-siologica. Un termine usato da Ziehen, che voleva ricondurre il perdura-re di una impressione alla sintonizzazione di determinate cellule corticali del cervello, fa graziosamente pensare al paragone con il telegrafo senza fili, nel quale vengono prodotti dei segnali solo quando l’apparecchio ricevente viene sintonizzato su una determinata lunghezza d’onda. Ma se si osserva bene, questo tentativo di spiegazione è solo un’immagine. Del resto sono soltanto immagini anche le ricerche meno stimolanti che negano nell’oggetto conosciuto una qualità conoscitiva obiettiva e ammettono solo un sentimento conoscitivo soggettivo. Inoltre, dato che dovrebbe esserci prima una spiegazione della formazione dei concetti, e la psicologia fallisce già ai primi passi, possiamo trarne la conclusione che la sola psicologia importante, quella del pensiero, non esiste proprio. Questo di passaggio; volevo soltanto richiamare l’attenzione sul fatto che il concetto di erkennen, anche nel suo significato più semplice, ci è noto solo mediante l’introspezione, quindi superficialmente.

L’uso linguistico attuale, specie negli scritti di carattere spirituale, utilizza il termine per indicare un’esperienza mentale più intensa. Già nella traduzione della Bibbia di Lutero erkennen (Vulgata, intelligere) viene paragonato una volta al vedere e al sentire senza i sensi (Marco, iv, 12); ancora in Kant erkennen non è propriamente un’espressione tecnica della filosofia, ma viene usato senza precisione per “intuire”, ”capire”, “comprendere”. Probabilmente non sbaglio nell’osservare che la prima parola che ne deriva, Erkenntnis, ma ancor più le nuove forme più nobili Erkenntnistheorie e Erkenntniskritik, ci costringono a scorgere nella parola base erkennen un’attività eccezionale della no-stra facoltà di pensare. (443) Come in ogni verbo anche in erkennen è nascosto uno scopo. Ci stiamo abituando sempre più a esprimere con l’espressione fondamentale Erkenntnistheorie l’unico scopo di tutta la

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scienza e di tutta la filosofia; ci consideriamo dal punto di vista della conoscenza (wir sehen uns nach Erkenntnis), abbiamo cioè il deside-rio di imparare a conoscere il mondo che ci circonda nel suo essere e di comprenderlo nel suo divenire. L’essere del mondo crediamo di poterlo ancora sapere (wissen), il divenire del mondo lo dobbiamo conoscere (erkennen). Secondo l’attuale uso linguistico il sapere è di-ventato così quasi una condizione del conoscere. Non ho bisogno di aggiungere che questo rapporto dei due concetti, sapere e conoscere, è sottoposto alla storia contingente delle mode linguistiche; altre lingue colte hanno sviluppato la relativa opposizione in modo un po’ diverso, così che sarebbe impreciso tradurre in francese o in inglese quello che ho formulato fin qui a proposito del termine tedesco.

La piccola opposizione è relativa, anche perché – se mi si concede la tendenza che si è affermata nell’uso linguistico contemporaneo – la scienza del mondo progredisce sempre più e si arresta proprio là dove comincia il desiderio di conoscere. Sappiamo molto (molto più che nel Medioevo) del mondo reale nello spazio, del mondo aggettivo dei sen-si. Lo chiamiamo una crescita del sapere, se si tratta di fare, mediante concetti via via sempre più elevati, un catalogo del mondo molto asi-stematico ed eternamente lontano dall’ideale. Se un tale catalogo del mondo fosse poi possibile, sarebbe un’unità solo apparente del sapere nel concetto più alto e più vuoto, nel concetto di essere. Soltanto una tale unità del sapere anche solo nel mondo aggettivo si chiamerebbe conoscenza secondo l’uso linguistico in evoluzione.

Anche del mondo verbale o del mondo del divenire abbiamo dav-vero un cumulo di conoscenze incommensurabilmente più grande ri-spetto al Medioevo, ma anche qui siamo molto lontani da un’unità del sapere storico proprio (444) allo stesso modo che nel mondo aggettivo dei sensi. L’invidiabile monismo, invidiabile per il suo accontentarsi di sé, per essere l’ultima parola dello spirito umano, dovrebbe pro-prio teorizzare un’unità più alta rispetto alla conoscenza del mondo aggettiva e verbale, un’unità più alta del mondo topografico e storico, del mondo dello spazio e del mondo del tempo. Ma il monismo ha una pericolosa somiglianza con una istituzione religiosa per il fatto di essere di nuovo solamente un’aspirazione verso il limite del sapere e non una rivelazione credibile; infatti, se non altro per amore di un vero metodo critico, non avremmo avuto bisogno di una parola nuova. I grandi pensatori e i grandi ricercatori ai quali si richiama volentieri il monismo non erano monisti.

Io penso allora che l’attuale tendenza dell’uso linguistico porterà a intendere con conoscenza un’aspirazione che dovrebbe raggiungere, ai limiti del sapere relativo, un sapere assoluto.

Una conoscenza in questo senso, una conoscenza assoluta è impos-sibile, perché ogni conoscenza ritorna alla fine alla conoscenza sensibile e i nostri sensi accidentali sono troppo rozzi anche solo per permettere

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nel mondo sensibile un conoscere definitivo, una conoscenza che giun-ga al fondamento ultimo. Il microscopio non ci mostra mai la natura del sangue o l’attività dei nervi fino alle cause ultime. Per una cono-scenza assoluta dell’organismo ci vorrebbe di più, cioè la conoscenza quasi inimmaginabile dei processi vitali che fanno agire il sangue sulle vie nervose e i nervi sulle vie del sangue. E questo in innumerevoli casi. Non possiamo penetrare nella natura fino ai fondamenti ultimi, per non parlare poi delle connessioni e tessiture dei fondamenti ultimi. Arriviamo così a una confessione umiliante dove un po’ di humour può produrre una svolta. Conoscenza dei fondamenti ultimi è solo una parola del desiderio. L’altra parola del desiderio, Dio, è altret-tanto un’espressione per la causa ultima di tutto ciò che è avvenuto in natura. (445) Uno scolastico devoto del Medioevo potrebbe essere soddisfatto di questo risultato, che quindi la parola Dio e la parola conoscenza significhino pressappoco la stessa disposizione dell’uomo che si eleva. Soltanto che non sarebbe soddisfatto dell’affermazione che tutte due le parole siano povere allo stesso modo.

Umorismo (Humor)(W ii, 104) È un concetto così nuovo che fino a ora non si è riu-

sciti a darne una definizione. Né i primi inventori inglesi della cosa, né i Tedeschi, che l’hanno imitata e migliorata, sono riusciti a penetrare l’essenza dell’umorismo. Persino per i Francesi, che della parola hanno preso a prestito la forma dagli Inglesi, la cosa rimane ancor oggi una creazione straniera; per questa hanno cominciato a usare la parola inglese humour e impiegano la parola quasi esclusivamente per l’umo-rismo inglese e per quello tedesco, per quanto lo siano riusciti a com-prendere; gli Italiani, il cui umore corrisponde esattamente al francese humeur, hanno introdotto per questo termine la parola umorismo.

Il termine Humor è nuovo ed è nazional-germanico. Ci si è inutil-mente sforzati di scoprire nei Greci e nei Romani qualcosa che cor-rispondesse al nostro umorismo. E va forse imputato a questi sforzi che siano fallite le definizioni dell’estetica filosofica (proprio nei nostri migliori umoristi e nei migliori teorici dell’umorismo, in Jean Paul e Vischer).

Su questo punto vorrei richiamare qui l’attenzione soltanto di sfug-gita. Si è voluto spiegare l’umorismo come un concetto subordinato del comico, perché l’umorismo riesce a suscitare il sorriso e il riso, e perché il riso veniva suscitato negli antichi unicamente e soltanto me-diante il comico. La letteratura comica dei Greci e dei Romani è assai ricca; il genio comico di Aristofane nel suo genere non è stato mai superato; ma di quello che noi chiamiamo umorismo nei comici anti-chi non se ne trova (105) nemmeno un barlume. Piuttosto si possono rintracciare tratti umoristici in alcuni caratteri realistici dei tragici. Ci troviamo qui di fronte a uno dei molti casi nei quali l’antichità, model-

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lo a quanto si dice del nostro mondo spirituale, era troppo semplice, troppo poco complicata, troppo lineare, per poter anche solo presagire i nostri più moderni stati d’animo e concetti.

La connessione pedante al concetto di comico è sbagliata proprio perché l’umorismo è esattamente vicino al comico come al pathos, il contrario del comico. Si pensi al ridere fino alle lacrime che l’umo-re porta nel suo blasone. E non è un caso che nel momento in cui gli Inglesi hanno preso coscienza del significato del loro umorismo, in Francia un’infelice imitazione portava alla commedia lacrimevole. Larmoyant, malinconico, sentimentale, umoristico, tutti questi concetti erano ancora estranei ai Greci e ai Romani.

La storia della parola parte dalla Grecia, passa per Roma, per la Francia e l’Inghilterra e arriva in Germania; passa però anche attra-verso diverse discipline scientifiche. La psicologia medica dell’antichità introdusse l’idea di quattro fluidi, dei quattro humores, la corretta me-scolanza o dosaggio (temperamentum) dei quali è necessaria alla salute. Anche alla salute dell’anima, al buon umore (gute Stimmung); e così ora il temperamentum, ora gli humores divennero in psicologia l’espres-sione per ciò che siamo soliti chiamare, a conclusione della storia di un’altra parola, il carattere; in questo significato si trova molto spesso il francese humeur. Nella realistica e individualistica Inghilterra la parola, nella forma humour, è diventata una parola di moda per le tendenze individuali dei tipi originali, per le stranezze del comportamento, per quello che gli Inglesi chiamano altrimenti fancy, whim; nei poeti della commedia, come Ben Johnson e anche Shakespeare, la parola viene spesso usata, perché si voleva metterla in ridicolo. Quando poi Shake-speare attraverso la traduzione di Schlegel divenne quasi un classico tedesco, la parola Humor, della quale non si notò l’uso ironico, da noi passò (106) a indicare la stranezza comica di un carattere individuale; e poiché i romantici vi ricavarono a ragione relazioni con la loro po-esia trascendentale o la loro ironia romantica, l’estetica filosofica del tempo si impadronì del concetto di umorismo; si credette di analizzare l’umorismo di Shakespeare, ma si giunse a un nuovo ideale tedesco di umorismo, per il quale non vi era alcun esempio nella storia del con-cetto. Vorrei però subito notare che gli humores della psicologia medica adesso ci sembrano infantili, perché la patologia umorale, che era in vigore un secolo e mezzo fa, attualmente o al momento è sostituita da un’altra teoria, la patologia cellulare; e vorrei notare che l’humeur della precedente psicologia appartiene oggi già alla psicologia popolare, che è tenuta meno in considerazione, perché la parola di moda temperamento (che certamente appartiene al gruppo degli humeurs) è stata sostituita dalla parola di moda carattere, che gode di una sempre più alta consi-derazione, perché questa estetica filosofica è up to date.

Per la storia decisiva della parola in Inghilterra e in Germania è importante un passo dell’Essay of dramatic poesy di Dryden (1668) e

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la traduzione che di questo passo ha dato il giovane Lessing nel saggio xiii della sua Biblioteca teatrale. Questo saggio xiii è certo tutto dello stesso Lessing, anche se quanto precede dovette essere di Nicolai. Il giovane Lessing allora premette: «ricordo anche che, quando voglio tradurre la parola, rendo Humour con Laune, perché non credo che si troverà qualcosa di più adatto in tutta la lingua tedesca». Dopo questa spiegazione egli fa dire a Dryden: «Lo Humor è la stravaganza ridicola nei rapporti per cui un uomo si distingue da tutti gli altri. Gli antichi hanno molto poco di questo nelle loro commedie; infatti il geloi'on del-la commedia greca antica, di cui Aristofane era l’esponente principale, non aveva lo scopo di imitare un determinato uomo, quanto piuttosto di far ridere il popolo con un colpo di scena insolito (107) che aveva in sé per lo più qualcosa di innaturale o di osceno 9. […] Successivamente, nella commedia moderna i poeti cercarono di esprimere l’h\qo" degli uomini, come nelle loro tragedie il pavqo". Solo che questo h\qo" conte-neva semplicemente il carattere generale degli uomini e i loro costumi come essi si presentano: vecchi, amanti, servitori, cortigiane, scrocconi e altre persone di questo tipo, come le troviamo nelle loro commedie […] ma per quanto riguarda i Francesi, sebbene essi abbiano la pa-rola humeur nella loro lingua, ne fanno un uso assai parco nelle loro commedie e nelle farse, che altro non sono che cattive imitazioni del geloi'on o del ridicolo della commedia antica. Del tutto diverso negli Inglesi, che intendono per umorismo una qualche abitudine, passione o tendenza licenziosa che, come già detto, è propria di una persona che con questa stranezza si distingue subito da tutte le altre. Se questo umorismo viene rappresentato in maniera vivace e naturale, suscita per lo più il piacere maligno che si tradisce nel riso, che del resto tutte le deviazioni dall’ordinario sono in grado di suscitare molto efficacemente. Ma in questo modo il riso è solo casuale, dipende dal fatto che le per-sone rappresentate siano stravaganti o bizzarre; il piacere al contrario gli è essenziale come lo è ogni imitazione della natura. Allora il genio proprio e la più grande maestria del nostro Ben Johnson consistono nella descrizione di questo umorismo o buon umore che egli aveva notato in certe determinate persone» 10.

Si noti quanto poco questa esposizione corrisponda al nostro con-cetto di umorismo; il riso dev’essere solo casuale, dipendere solo dai caratteri strani e buffoneschi, quindi dalla materia, mentre noi nell’umo-rismo pensiamo prima di tutto alla forma soggettiva (108) dell’attività poetica; il ragionamento di Dryden corrisponde piuttosto abbastanza precisamente a ciò che chiamiamo realismo o naturalismo del dramma; e l’inglese ha proprio ragione quando contrappone alla commedia fran-cese la nuova e nazionale esigenza di rappresentare in modo naturale i caratteri specifici.

Il Lessing maturo della Hamburgischen Dramaturgie è tornato anco-ra una volta sulla storia della parola (1768), nel saggio 93, in una nota

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che si ricollega sia a Dryden che a Ben Johnson: «la parola Humor era tornata di moda e venne abusata nella maniera più ridicola». Egli cita un passo di Ben Johnson:

As when some one peculiar qualityDoth so possess a Man, that it doth drawAll his affects, his spirits, and his powersIn their construction, all to run one way,This may be truly said to be a humour.

(«Quando una qualche peculiare qualità di un uomo lo possiede in modo tale da coinvolgere nella sua tutte le sue passioni, i suoi spiriti e le sue forze, da incanalarle tutte in una sola via, questo lo si può veramente chiamare umorismo») […] «L’umorismo, che noi ora consi-deriamo così eccellente negli Inglesi, era allora in loro in gran parte af-fettazione e in particolare il rendere ridicola questa affettazione descrive l’umorismo di Ben Johnson. […] Ne ho raccolto diligentemente degli esempi (Lessing pensa di individualizzare l’arte degli antichi), esempi che desideravo anche solo poter mettere in ordine per rivedere con l’occasione un errore che è diventato abbastanza generale. Ho tradotto cioè – ed è ora quasi comune – umorismo con Laune (buon umore) e credo consapevolmente di essere stato il primo ad averlo tradotto così. Ho sbagliato e desidererei che non mi avessero seguito. Credo infatti di poter dimostrare in modo inconfutabile che umorismo e Laune sono cose del tutto diverse e, in determinate condizioni, del tutto opposte. Laune può diventare umorismo (109), ma l’umorismo, al di fuori di questo unico caso, non è mai Laune. Avrei dovuto indagare meglio la derivazione della nostra parola tedesca e il suo uso comune e rifletterci meglio. Ho concluso troppo in fretta che, dato che Laune esprime il francese humeur, potesse esprimere anche l’inglese humour; ma i Francesi stessi non possono tradurre humour con humeur» 11; penso di sapere come Lessing sia giunto a questa correzione. Tra il 1758 e il 1768 cade la pubblicazione di una lettera di Voltaire all’Abbé d’Olivet, il cancelliere dell’Accademia francese. Voltaire lamenta che la lingua francese sia impoverita dalla massa di libri inutili, che abbia perso le belle espressioni che in inglese si sarebbero mantenute, come désap-pointé e partie. A proposito del nostro tema scrive (20 agosto 1761): «Je trouve, par exemple, plusieurs mots qui ont vieilli parmi nous, qui sont même entièrement oubliés, et dont nos voisins les Anglais se servent heureusement. Ils ont un terme pour signifier cette plaisanterie, ce vrai cornique, cette gaieté, cette urbanité, ces saillies qui échappent à un homme sans qu’il s’en doute; et ils rendent cette idée par le mot humeur, humour, qu’ils prononcent yumour; et ils croient qu’ils ont seul cette humeur, que les autres nations n’ont point de terme pour exprimer ce caractère d’esprit. Cependant, c’est un ancien mot de no-tre langue, employé en ce sens dans plusieurs comédies de Corneille.

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Au reste, quand je dis que cette humeur est une éspèce d’urbanité, je parle à un homme instruit, qui sait que nous avons appliqué mal à propos le mot d’urbanité à la politesse, et qu’urbanitas signifiait à Rome precisément ce qu’humour signifie chez les Anglais.»

Ho presentato in maniera esauriente le doglie del parto della parola tedesca, dell’uso linguistico tedesco, perché essa ha acquisito un così alto credito proprio a partire dall’estetica tedesca che sempre vuol es-sere metafisica del bello. Persino i due eccellenti umoristi, Jean Paul e Vischer, che hanno scritto sull’umorismo tutto quello che vale la pena di leggere, si sono sentiti in dovere di entrare nel merito di tutto (110) l’armamentario filosofico. Jean Paul parla di una totalità dell’umorismo, di un finito applicato all’infinito, e con tutta la sua arguzia non ha reso teoricamente comprensibile l’umorismo come ha fatto attraverso alcu-ne figure umoristiche dei suoi romanzi. Vischer, che ha fatto seguire abbastanza tardi alla sua teoria l’esempio del suo delizioso romanzo umoristico 12, si è affaticato invano ad applicare il modello di Hegel al concetto di umorismo; egli stesso deve essere scoppiato in una ri-sata umoristica liberatoria, quando da vecchio signore, ha riaperto la sua Aesthetik ai paragrafi 205-22. Mi è sempre sembrato che Vischer abbia costruito con le sue astrazioni esangui una definizione piuttosto di filosofia che di umorismo. Mi sono molto sforzato di tradurre la metafisica di Vischer nella lingua di un uomo non del tutto incapace di apprezzare i componimenti umoristici; ho anche cercato di tradurre i tre gradi dell’umorismo in ricordi artistici: il primo grado o l’umori-smo ingenuo non è ancora proprio umorismo; il secondo o l’umorismo sguaiato corrisponde pressappoco a quello che possiamo gustare proprio come umorismo in Shakespeare e Swift, in minor misura in Sterne, in Jean Paul e Vischer. Ma cos’è l’umorismo del terzo grado, l’umorismo in senso proprio, quello grande e libero? Temo davvero che l’umorismo libero non sia niente altro che la concezione del mondo del tutto libera della mente veramente filosofica, il sacro riso del filosofo, la superiorità rispetto a tutto l’affannarsi e il pensare dell’uomo, la rassegnazione di un grande cuore; e tutta (111) questa grandezza la possiamo sentire e apprezzare come umorismo solo quando il filosofo è per caso anche uno scrittore umoristico e utilizza a tal fine l’umorismo del primo e del secondo grado (Witz, Laune, ironia, baldanza, malinconia) per rappre-sentare la sua concezione del mondo in un personaggio umoristico. Non si può definire l’umorismo, perché non esiste umorismo nel mondo so-stantivo, né come cosa reale, né come astrazione; c’è umorismo solo nel mondo aggettivo; ci sono pensatori con humour (anche tra uomini del tutto sobri; umoristi lo diventano solo quando scrivono libri); ci sono figure umoristiche, umoristiche per l’osservatore o per il lettore. Trovo una involontaria confessione di questo fatto, che cioè la definizione di umorismo proprio non esista, nello stesso Vischer (ivi, p. 472 13): «il concetto di questo umorismo (dell’umorismo libero, dell’umorismo al

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più alto grado) è necessario, la sua realizzazione rimane un compito». Si potrebbe dire la stessa cosa per molti bei concetti. Dio, libertà, feli-cità sono necessari; la loro realizzazione rimane un compito; il che non esclude che esistano uomini (relativamente) santi, felici, liberi. Anche l’umorismo del più alto grado è solo un postulato della teoria.

Ho altre eresie sul cuore.Non è vero che i Greci abbiano già conosciuto qualcosa come l’umo-

rismo. A questo proposito si cita sempre Aristofane, a suo modo certo insuperabile. Ma tutti i suoi talenti – arguzia (Witz), satira e ironia – non cambiano il fatto che egli non ha mai creato una figura umoristi-ca; il significato più profondo rende più pregevole il Witz, ma non lo trasforma in umorismo. Ci fu forse una volta un greco che possedeva umorismo: Socrate; ma i Greci non compresero l’umorismo e uccisero il loro unico umorista.

Non è vero che il grande umorismo sia una scoperta dello spirito germanico. Shakespeare fu certamente un pensatore con dello humour; ma egli solo occasionalmente ha prestato alle sue figure tratti umoristici; umoristico al grado più alto (112) era Amleto, eppure il suo poeta volle chiaramente creare una figura tragica; e anche Amleto diventa umoristi-co solo dove egli, il disperato, rimane fedele in maniera ridicola (witzig) al suo ruolo. Swift nel suo Gulliver è sempre witzig; umoristico soltanto dove come narratore esce dal ruolo. C’è un’unica figura umoristica che corrisponde interamente alla definizione del grande umorismo, e que-sta figura non è germanica: don Chisciotte; Cervantes voleva scrivere un’allegra parodia; ma don Chisciotte, il suo eroe comico, era buono, nobile, valoroso, saggio, era un uomo eccellente; lo scrittore si affezionò al suo eroe comico, e solo allora il Don Chisciotte divenne il capolavo-ro dell’umorismo (soprattutto nella seconda parte, nell’ira consapevole contro la comicità del meschino prosecutore, Avellaneda). L’umorismo non è mai un’astrazione. Non credo di contraddirmi se ciononostante ora cerco un’altra parola per umorismo, se cerco di trovare un nome per quello che i Tedeschi pressappoco intendono quando, dal tempo dei loro romantici, parlano di umorismo. Intendono la maniera mi-gliore del ridere, il sacro riso, il riso di chi ha superato il mondo e che ridendo ha superato anche sé stesso. Si sente spesso dire che l’uomo si distingue dall’animale per il ridere, che l’uomo è l’animale che ride; e Schopenhauer ha costruito su questo la sua teoria del ridicolo: ne sarebbe l’origine la sussunzione inaspettata di un oggetto sotto un con-cetto eterogeneo. Io vorrei sapere dove si nasconde questa sussunzione quando un intero circo ride del volto stupido di Hanswurst preso a schiaffi. C’è un ridere così comune che si avrebbe quasi la voglia di chiamarlo un ridere animale. Il ridere può raffinarsi in un ridere su scherzi via via sempre migliori dell’arguzia spiritosa, dei motti di spirito artistici. Il ridere su una sorpresa musicale di Haydn è già molto vicino al ridere che io ho in mente, ma è ancora felicità. Il sentimento che è

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stato chiamato in modo così stucchevole dolore cosmico (Weltschmerz) quando è diventato una maniera (113) e una smorfia, per il suo sacro riso il sentimento del superamento del mondo non ha nemmeno bi-sogno di una pausa, come Haydn; il sentimento del superamento del mondo ride nel modo più sacro della quotidianità alla quale appartiene consapevolmente anche colui che ride. Chi non sa di appartenervi, chi si ritiene un oltreuomo, non conosce ancora il sacro riso, non è ancora un filosofo, è forse una figura tragico-umoristica del più alto grado, il nuovo Don Chisciotte.

La parola umorismo con la quale si è indicato questo sacro riso si è ridotta molto male. Non solo ai nostri tempi, in cui gli editori di piatto ciarpame possono definire sé stessi umoristi e definire racconti umoristici le loro merci, proprio il piatto ciarpame. Già Jean Paul ha parlato dei cosiddetti umoristi che non saprebbero che rivelare il loro divertito sentirsi a proprio agio. E con questo Jean Paul non pensava ancora agli scarabocchi della comicità più volgare che oggigiorno ci viene imbandita sotto il titolo di racconti umoristici; egli pensava a scritti comici di medio valore che al suo tempo erano molto stimati e che ancor oggi sono citati con onore nella storia della letteratura.

Jean Paul, che come critico, non sempre come scrittore, possede-va un gusto straordinariamente fine, aveva dovuto difendersi da una concezione dell’umorismo diventata dominante tra i romantici: dalla confusione tra umorismo e ironia. Jean Paul, il più soggettivista di tutti i narratori, dovette fare una fatica particolare per liberarsi dal soggetti-vismo dogmatico di Fichte; altrettanta fatica per superare il romantici-smo dogmatico. Jean Paul fu davvero quello di cui i leader romantici si vantavano solo con parole forbite, un educatore alla vita; l’educazione romantica all’arte non gli bastava. Che il più alto punto di vista della considerazione del mondo si chiamasse umorismo o ironia, in ogni caso egli mirava alla cosa in sé: seriamente, non per gioco. «Critici e cani non fiutano rose e fiori puzzolenti, (114) ma amici e nemici» (Vorschule der Aesthetik, p. 307 14). Egli vide la distanza tra il modello dell’ironia romantica e il genio ironico. «Il Gulliver di Swift – nello stile meno, nello spirito più umoristico della sua favola – sta alto sulla rupe Tar-pea dalla quale questo spirito fa precipitare il genere umano» (cit., p. 240 15). Chi apprezzava così tanto uno Swift, non poteva accontentarsi del giochetto romantico dell’ironia.

Ironia (eijrwneiva = finzione) è notoriamente il nome di una figura retorica; questa figura consiste nel fatto che il parlante chiede con particolare insistenza il giudizio all’ascoltatore affermando il contrario; l’ascoltatore deve trovare da sé ciò che si intende e in questo modo viene reso più attento che non mediante l’esposizione diretta della ve-rità. È chiaro, anche senza la mia pedante spiegazione, che la figura dell’ironia designa solo la forma di un pensiero, non il pensiero stesso. Il più saggio dei Greci, Socrate, aveva esercitato l’ironia per educare

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al pensiero i suoi giovani amici; ma qualsiasi sciocco è ironico quando con un tempo da lupi parla di bel tempo, quando chiama bella ragaz-za una prostituta brutta e ripugnante. È chiaro allora che i romantici scambiarono la forma con la cosa, il gioco dell’ironia con la serietà della riflessione, quando identificarono schematicamente la loro ironia con l’umorismo, quando (Friedrich Schlegel) definirono l’ironia lo stato d’animo «che guarda al di là di tutto, si innalza infinitamente sopra tutto ciò che è condizionato, anche al di sopra della propria arte, virtù o genialità». Nei protoromantici non si trova nemmeno un barlume di quello che chiamiamo umorismo; nemmeno negli attuali neoromantici. Per questo uno spirito così penetrante come Novalis potè identificare in un unico e medesimo respiro l’ironia romantica e l’umorismo. Per dimostrarlo mi basta riportare due frasi di un frammento dal Blüten-staub (115) (Schriften, ed. da Minor, ii, p. 117 16), da lui stesso pubbli-cato. «Quello che Friedrich Schlegel caratterizza in modo così acuto come ironia, a mio parere, non è niente altro che la conseguenza, il carattere dell’accortezza, la vera presenza di spirito. L’ironia di Schlegel mi sembra essere l’umorismo autentico […] L’umorismo è un atteggia-mento di maniera assunto arbitrariamente. L’arbitrario è quello che vi è di piccante». Si potrebbe ridere: il superamento del mondo, il supe-ramento del proprio pensiero e del proprio sentimento, l’oltrefilosofia, è diventata una maniera di scuola.

Ho creduto di dover mostrare l’illusione dei Romantici, la loro con-fusione tra umorismo e ironia, per far ora comprendere i motti di Goe-Goe-the sull’umorismo, che raramente sono stati citati. Goethe aveva a suo tempo mantenuto la parola tramandata nell’antico significato inglese, nel senso di meraviglia; così usa il termine ancora in Dichtung und Wahrheit, quando racconta dello Humor audace delle sue ragazzate. Poi l’uomo maturo conobbe il concetto nel travisamento dei romantici. E vanno contro questo travisamento frasi come (Sprüche in Prosa, 108 17): «non c’è nulla di volgare in ciò che, espresso nella distorsione di una smorfia, sembri umoristico»; poi: «l’umorismo è uno degli elementi del genio, ma appena prevale, ne è solo un surrogato; accompagna l’arte decadente, la distrugge, infine la annienta» (701 18). Si confronti anche quello che egli (456) adduce contro i tormenti psicologici degli «ipocondriaci, umoristi e Heautontimorumenoi» 19.

E Goethe, che si è liberato dei propri tormenti ipocondriaci con la creazione del Werther, ha tuttavia creato anche Mefistofele, che si avvicina abbastanza all’ideale di una figura umoristica. Quel poco che ancora ci manca non può essere la superiorità spirituale, dato che Goethe era saggio. Non può essere la bontà d’animo, che non deve mancare nel poeta umoristico, dato che Goethe era buono. Ma la pro-prietà dell’umorismo, il riso dell’umorismo lo può possedere soltanto un uomo; e Mefistofele non è un uomo, (116) è soltanto l’ironia per-sonificata. È l’apice dell’ironia, quello che i romantici una generazione

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dopo esigevano come qualcosa di nuovo. Inoltre Goethe era troppo concreto per spendersi nel soggettivismo dell’umorismo; infine, troppo egoista per amare una delle sue figure fino all’umorismo.

Ridere (Lachen)(269) Il muscolo che provoca nel volto umano segnatamente l’espres-

sione mimica del ridere con il sollevare il labbro superiore è lo zygo-maticus major e non il risorius; ciononostante quest’ultimo muscolo ha mantenuto il suo simpatico nome e può continuare a portarlo, perché è bene se il nome antico viene mantenuto a ricordo di antiche rap-presentazioni. Ricordo il particolare anche solo perché questo termine sbagliato mi sembra essere un analogo degli sforzi senza fine di trarre conclusioni dalla somiglianza dei movimenti espressivi che denominia-mo ridere e sorridere, di connettere indissolubilmente l’umorismo con il ridicolo (das Lächerliche, geloi'on). In genere il sorriso viene spiegato come un riso indebolito anche da quei ricercatori che (come Hecker) hanno spiegato molto bene il riso come l’effetto di un solletico interiore, per così dire di un solletico dovuto allo scambio veloce di rappresen-tazioni messe a confronto. Certo, il sorriso può anche essere un riso indebolito; nel malato che è troppo debole per attivare con sufficiente vivacità il gioco dei muscoli; in chi è triste, se ad esempio la giovane madre, nel dolore che prova subito dopo la morte dello sposo, riesce appena a sorridere allo scherzo del bimbo, scherzo per il quale avrebbe altrimenti riso forte.

Ma c’è anche un sorridere diverso da quello che può essere provo-cato in ogni uomo da un oggetto adeguato, ma soltanto in un soggetto particolare, e che può essere provocato quasi da ogni osservazione, non solo da un’arguzia: penso al sorriso di superiorità dell’umorismo filosofico. Forse si imparerà a riconoscere che i movimenti espressivi mimici hanno anche questa somiglianza con le parole del linguaggio umano: non si possono tradurre sempre in modo univoco. Si sa che le combinazioni non sono così semplici, come credeva la mimica antica. Lo sguardo penetrante, il pianto e la stessa espressione del disprezzo e dell’amarezza possono mettere in gioco i muscoli che provocano il sorriso. Amarezza e disprezzo devono essere superati se si (270) deve poter parlare della concezione del mondo dell’umorismo più libero; ma riso, amarezza, disprezzo possono giocare in qualche modo agli angoli della bocca, se il volto mostra un’espressione umoristica. Con il ridicolo, il geloi'on, non ha molto a che vedere né la storia della parola Humor né il concetto troppo dilatato che ora (invero solo in Germania) viene collegato alla parola; non più che il musculus risorius con il risus.

Bello (Schön)(W iii, 75) Omero e Sofocle, Fidia e Raffaello, Dante e Shakespe-

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are, Leonardo da Vinci e Sebastian Bach hanno creato opere che an-cor oggi troviamo belle; hanno creato senza l’estetica, senza nemmeno sapere che un giorno ci sarebbe stata una scienza del bello; molto prima della scoperta dell’estetica Greci e Romani, Inglesi e Tedeschi avevano nella loro lingua parole che esprimevano la sensazione (76): questo mi piace. Omero diceva kalov" di uomini e volentieri di donne, di manzi e di cani, di vestiti e di armi, ma anche nel senso di buono o di appropriato, di venti, di discorsi; conosceva anche il sostantivo kavllo", soltanto che gli interpreti discutono se questo kavllo" fosse la bellezza personificata, che veniva messa addosso agli uomini come un vestito, o se fosse semplicemente un mezzo ornamentale. I Latini dicevano pulcher di giovani e di ragazze, di case e di città, però usava-no la parola anche laddove noi diciamo bello, beato, nobile ecc. delle cose spirituali; pulcher viene fatto derivare da fulgere (risplendere). Ora però presso i Latini era molto popolare anche un’altra parola: bellus (da benulus da bonus), che corrisponde al tedesco hübsch (grazioso), niedlich (carino) o all’obsoleto artig (garbato). Da bellus e dal volgare bellitas derivano le parole romanze bello, beau, beauté, belâtre con tutte le loro famiglie, e gli Inglesi vi ricavarono il loro beautiful (da beauty), pressappoco come diciamo stilvoll (in perfetto stile) di un mobile. Le lingue germaniche possedevano una parola che in inglese è stata sostituita da beautiful (anche sheen è obsoleto, vale a dire è ancora in uso nella lingua poetica), ma che nell’olandese e nell’alto tedesco è fin troppo usata: schön (bello). L’etimo è incerto; il gotico skauns traduce in combinazione il greco morfhv, ma non dobbiamo sorvolare sul fatto che non sappiamo se i due passi principali (Filippesi, 2,6; 3,21) si rife-riscano alla bellezza del Cristo trasfigurato o già alla successiva figura teologica. La derivazione da schauen (guardare) non è convincente; se si dovesse accettare nuovamente la derivazione da scheinen (sembrare) (nonostante Skeat, ii, p. 58 20 rifiuti ogni connessione con to shine), non si potrebbe pensare a un calco di pulcher (da fulgere); rimane strano che (secondo Bréal) anche kalov" debba aver avuto il significato fondamentale di chiaro. Ed è anche strano che il nostro schon, l’avver-bio antico di schön, venisse spesso usato in passato e venga usato oggi come il latino belle e bene nel senso di recte, gut, wohl (bene).

L’aggettivo bello (e naturalmente i suoi corrispondenti) (77) espri-me in tutte le lingue una sensazione che conosciamo bene; e anche se non è riferito in primo luogo al piacere sessuale, come più volte è stato ammesso (da Erasmus Darwin, da Charles Darwin, da Wilhelm Scherer), come pure era costume in Grecia intagliare il nome dell’ama-to sul tronco di un albero e scriverci sotto oJ kalov" oppure hJ kalhv, poté designare tra gli uomini più semplici un’impressione piacevole. Il predicato bello appartenne da sempre ai giudizi di valore naturali; nel mondo dell’esperienza umana, nel mondo aggettivo, ci sono stati fenomeni belli: uomini belli, animali belli, suppellettili belle, e alla fine

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si fece la scoperta che anche il paesaggio poteva essere definito bello. Ma gli uomini impararono con il tempo a trasferire i fenomeni belli nel mondo verbale, nel mondo dell’agire, dal momento in cui essi produs-sero qualcosa di bello. Essi scoprirono le arti. Ultimamente gli artisti amano definirsi i creatori par excellence. E le arti si ostinano da secoli, senza che ve ne sia bisogno, a cercare la bellezza anche nel mondo sostantivo e in quello metafisico. La Germania può vantarsi di aver indagato e definito per prima l’essenza della bellezza. Scientificamente. Come se le parole kavllo", pulchritudo, bellezza, beauty, Schönheit non fossero già in uso prima. Si attribuì il termine astratto “bellezza” a donne e anche a uomini, animali, piante; si scrissero trattati sulla bel-lezza e si cominciò persino a riflettere sul concetto. Il vecchio Walch (Philosophisches Lexicon 21) già richiamava l’attenzione sui «differenti» modi di usare la parola; la si può applicare alle sensazioni, in cui «il concetto e il gusto degli uomini sono così differenti l’uno dall’altro»; […] «posti davanti all’altro, bisogna contemplare la bellezza come essa sia effettivamente in una cosa»; la bellezza non sarebbe una chime-ra, una cosa che consiste soltanto nell’immaginazione, ma qualcosa di reale, un ordine e un’armonia composta di pezzi molteplici. Questa annotazione precede (78) una dissertazione nella quale il famoso Bau-mgarten formulò l’esigenza di una scienza specifica, di una scienza del bello (1735), e la pubblicazione «di valore epocale» della prima parte dell’opera stessa, l’Aesthetica di Baumgarten, che non ha ancora smesso di provocare conseguenze fatali.

L’onesta Aesthetica di Baumgarten, per il contenuto, non va essen-zialmente oltre il suo tempo; Gottsched e Bülfinger avevano trattato il bello in maniera già sufficientemente razionalistica e Breitinger aveva tentato di istituire una dottrina del buon gusto come “logica della facoltà dell’immaginazione”; nuovo in Baumgarten è davvero soltanto il nome che egli dà alla dottrina del gusto: aijsqavnomai = percepire (wahrnehmen), appercepire (apperzepieren), aijsqhtav" = percepibile, sensibile, ta; aijsqhtikav = ciò che è percepibile, il mondo sensibile. Così con aijsqhtikhv potè essere definita la dottrina della percezione sensibi-le. La bellezza però è perfectio cognitionis sensitivae qua talis; il gusto è judicium sensuum; così aijsqhtikhv potrebbe chiamarsi la dottrina del bello par excellence. Per noi il padre o meglio il padrino dell’estetica moderna è semplicemente indigeribile per lo sforzo di istituire il bello in parallelo con il vero e di ricondurre le verità estetiche sotto il con-cetto di probabilità, perché esse non sono né interamente vere né inte-ramente false: «est ergo veritas aesthetica, a potiori dicta verisimilitudo, ille veritatis gradus, qui, etiamsi non evectus sit ad completam certi-tudinem tamen nihil contineat falsitatis observabilis» (Aesth. § 483 22). Baumgarten non si è liberato dalla paura che gli si potesse obiettare, a lui professore di filosofia teoretica e morale, di aver consigliato, con l’elogio del bello, la menzogna.

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Ma la forma conchiusa della nuova disciplina la dobbiamo allo spirito sistematico tedesco e Kant – che in genere nei suoi scritti pre-critici spesso ha preso come fondamento delle sue lezioni i libri di Baumgarten – dopo alcune oscillazioni, ha ripreso il concetto di este-tica e lo ha introdotto con tutto il suo credito nelle scienze filosofiche. (79) Conviene sottolineare che Kant in un primo momento rifiutò con energia il nome “estetica”. Come è noto, egli chiama la prima parte della sua opera principale “estetica trascendentale”, vale a dire «una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità». E poiché la parola era stata limitata erroneamente alla sensibilità del bello proprio con Baumgarten, aggiunge in una nota tagliente (prima Critica della ragion pura, p. 21 23): «i Tedeschi sono i soli, che si servono ora della parola “estetica”, per designare con essa ciò che gli altri chiamano critica del gusto. Questa denominazione si fonda sulla falsa speranza, concepita dall’eccellente pensatore analitico Baumgarten, di sottoporre la valu-tazione critica del bello a principi di ragione e di innalzare a scienza le regole di tale valutazione. Questo sforzo tuttavia è vano. Difatti le regole o i criteri suddetti, riguardo alle loro fonti, sono semplicemente empirici e non potranno quindi mai servire come leggi a priori, secon-do le quali dovrebbe regolarsi il nostro giudizio di gusto; quest’ultimo, piuttosto, costituisce la vera e propria pietra di paragone per l’esattezza delle prime. Per questa ragione, è consigliabile lasciar di nuovo cadere questa denominazione e tenerla in serbo per quella dottrina che sia vera scienza (in tal modo ci si accosterebbe anche più da vicino al linguaggio e al significato degli antichi, presso i quali la partizione della conoscenza in aijsqhta; kai; nohtav era assai famosa)». Così Kant tratta la sua potente teoria dello spazio e del tempo nel capitolo “esteti-ca”, che ora si chiamerebbe piuttosto “fenomenologia”. Nella seconda edizione della Critica della ragion pura la protesta contro il termine “estetica”’ è già molto attutita; solo le fonti «principali» si chiamano ancora empiriche, le regole non possono mai servire a «determinate» leggi a priori, la denominazione la si dovrebbe o lasciar cadere oppure prenderla in parte in senso trascendentale, in parte in senso psicolo-gico. Questa correzione dell’anno 1787 è doppiamente interessante (cfr. l’edizione dell’Accademia, vol. v, Introduzione di Windelband, p. 515 s. 24): Kant si era rappacificato con il termine “estetica”, era già dell’idea di introdurre nel suo sistema trascendentale la dottrina del bello (il lettore confronti la Lettera a Reinhold del 28 dicembre 1787, che è molto umana (80) e dimostra chiaramente la dipendenza di Kant dall’architettonica del proprio sistema, poiché gli vengono delle spiegazioni «che non si aspettava» e prevede già per la Pasqua successiva il suo manoscritto sull’estetica con il titolo di Critica del gusto), ma non aveva ancora aderito all’idea fatale che vi siano anche giudizi estetici a priori, che l’estetica vada oltre la psicologia. Quando egli nel 1790 pubblica la sua Kritik der Urteilskraft (le parole del titolo

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sono scelte palesemente per ricondurre sotto un concetto, senza appa-rente violenza, il sentimento soggettivo del bello e la dottrina di una oggettiva finalità della natura; qui noi trattiamo propriamente qualche aspetto della prima parte, la Critica del giudizio estetico), usa l’agget-tivo estetico quasi solo come lo usiamo comunemente, parla di giudizi estetici, del valore estetico delle belle arti e di idee estetiche. Quasi. Kant ha definito bene e in maniera rigorosa tutti questi concetti. In Kant il concetto non era così scialbo come viene usato oggi (estetico è diventato quasi un sinonimo di bello e la recente designazione esteta, divenuta internazionale per tramite dell’Inghilterra, vuole estendere la parola perfino all’insieme della condotta di vita); il concetto dovette prima diventare una parola di moda; e lo divenne solo con l’allievo di Kant, Schiller.

Almeno per la Germania Schiller ha sulla coscienza l’abuso delle parole estetica e bellezza. Non sono serviti a salvarlo nemmeno le sue aspirazioni di filosofia dell’arte. Esse cadono nella grande pausa impro-duttiva tra i drammi giovanili, geniali e immaturi, e le opere consape-volmente classicheggianti che hanno dominato il gusto tedesco per due intere generazioni. Schiller ha presentato tre volte la sua estetica: nelle conferenze, nelle lettere Über die ästhetische Erziehung des Menschen e infine nei frammenti che scrisse a Körner per il grande progetto di un’estetica, Kallias oder über die Schönheit. Schiller era ancora in tutto più dipendente da Kant di quanto egli stesso credesse e ammettesse. Occasionalmente (81) aveva scherzato (Hempels Schillerausgabe, Bd. xv, p. 690 25) sui «poveri pasticcioni che rimestavano nella filosofia kantiana»; ma anche lui è un kantiano non indipendente e maneggia i concetti kantiani in maniera filosoficamente incerta, anche se con un’abi-lità così sorprendente che il pubblico letterario del tempo pensò che Kant fosse stato migliorato da Schiller. «La bellezza non è niente altro che la libertà nel fenomeno. – Un’azione libera è una bella azione se coincidono autonomia dell’animo e autonomia nel fenomeno. – La bel-lezza è la natura nel suo essere conforme all’arte». Il grande passo che Kant aveva fatto oltre Baumgarten consisteva nella liberazione di ciò che è estetico da ciò che è logico, nella liberazione del concetto di bellezza dal concetto di perfezione. Kant distingue tra bellezza libera (pulchri-tudo vaga) e bellezza puramente aderente (pulchritudo adhaerens); solo la bellezza libera è del tutto pura e – Schiller formula con irritazione questo pensiero – un arabesco o qualcosa di simile, considerato come bellezza, è più puro della più alta bellezza dell’uomo. Schiller rifiuta questa feconda osservazione di Kant: «in realtà mi pare che essa fallisca completamente il concetto della bellezza» (p. 683). Schiller non ha certo criticato il fatto che Kant, in fondo un estraneo all’arte, abbia scelto tra gli altri un esempio mostruoso a sostegno della sua tesi, il fatto che egli annoveri «l’intera musica senza testo» in questi arabeschi. La violenta lotta di Kant per incorporare la dottrina del bello nel suo sistema tra-

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scendentale è rimasta per Schiller un qualcosa di estraneo. Ancora nel 1792 Schiller vede Kant fermo al 1787, quando voleva ripartire il ter-mine “estetica” tra la metafisica e la psicologia. Molto inferiore rispetto a Kant, Schiller vuole andare al di là della psicologia, non dal punto di vista della teoria del conoscere, ma solo in modo fuorviante; vuole scoprire la bellezza sostantiva dietro il sentimento aggettivo del bello. Egli scrive a Körner (xv, p. 646): «io credo di aver scoperto il concetto oggettivo del bello, che si qualifica eo ipso anche come principio del gusto e che Kant dispera di trovare». (82) Ebbene sì: «la bellezza è la libertà nel fenomeno».

La differenza essenziale tra Schiller e Goethe si manifesta in modo chiaro nel fatto che Goethe, che invece ha riflettuto veramente sull’arte, non è mai diventato uno scrittore di filosofia dell’arte; le sue innume-revoli esternazioni occasionali non passano mai dal mondo aggettivo del bello al mondo sostantivo e metafisico della bellezza astratta. Per questo Goethe non aveva alcuna considerazione per l’attività artistica in quanto tale, egli vedeva la «nullità» nelle opere dei piccoli talen-ti. «Il gusto non lo si può proprio formare nella mediocrità, ma solo nell’eccellenza» (Gespräche v, p. 35 26). Goethe era superiore a Kant e a Schiller nel fatto che, senza limitarsi alla poesia, aveva studiato a fondo le arti figurative e l’architettura ed era pervenuto con passione ad alcune «opinioni» anche nella musica, che gli era estranea.

Kant si era occupato molto della poesia più antica, mentre ebbe a mala pena l’occasione di lasciar agire su di sé la grande musica o addirittura le opere delle arti figurative. Così egli creò la sua estetica dal profondo dell’animo e dai libri e non fu per niente cosciente della mancanza di esperienza. Tuttavia, senza uscire da Königsberg, ha an-che tenuto spesso lezioni sull’antropologia e, in questo caso, in maniera del tutto ingenua, ha detto della sua città natale che la sua grandezza e la sua posizione privilegiata potevano sostituire tutte le altre fonti an-tropologiche: «Una grande città, centro di uno Stato, dove si trovano i consigli locali di governo, che possiede un’università (per la cultura scientifica) ed è anche sede di commercio marittimo, che per mezzo di fiumi favorisce il traffico dall’interno e coi paesi finitimi e lontani di diverse lingue e costumi, una tal città, come è per esempio Königsberg sul Pregel, può esser presa come sede adatta per l’ampliamento della conoscenza dell’uomo e per la conoscenza del mondo, la quale vi può essere acquistata anche senza viaggiare» (83) (Anthropologie, Vorrede, p. vii 27). Allo stesso modo Königsberg dovette ben sostituire in lui anche l’esperienza estetica.

Le cose non andarono diversamente per Schiller, nel momento in cui prese a scrivere la sua grande estetica. Burke, Sulzer, Webb, Mengs, Winckelmann, Home, Batteux, Wood, Mendelssohn accanto a cinque o sei cattivi compendi li possiede già; ma egli desidera da Körner (lettera dell’11 gennaio 1793) ancora più libri, sempre soltanto libri. Anche i

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pittori italiani li vuole conoscere dalle incisioni. Anche sull’architettura desiderava persino troppo volentieri un buon libro. «Dubito di potermi fare delle idee sulla musica, poiché il mio orecchio è troppo vecchio; tuttavia non temo che la mia teoria della bellezza possa far naufragio nell’arte musicale».

Non si obietti che non si può pretendere da nessuno che vivesse alla fine del Settecento la competenza che oggi si pretende con diritto da ogni professore di storia dell’arte e da ogni miglior critico d’arte. Qui non si tratta certo della storia dell’arte, ma dell’estetica, della teoria del bello. Si dovevano indagare i sentimenti estetici e a questo ufficio si dedicarono uomini che confrontarono le grandi opere stru-mentali di Bach e di Mozart con gli arabeschi, che non avevano mai visto un quadro originale di Raffaello o di Rembrandt e che affronta-vano perfino la poesia con le vecchie regole. Non è strano che da que-sto studio concettuale dell’arte scaturisse il nuovo dogma: l’essenziale dell’oggetto artistico è di non suscitare interesse.

Questa dottrina, che io sappia, è stata elaborata per la prima volta da Burke, l’originale inglese, che aveva chiaramente ricavato dai qua-dri dei pittori suoi contemporanei il suo grazioso ideale di bellezza. Non si dimentichi che poco prima (1745) Hogarth aveva sbalordito il mondo con la scoperta della curva della bellezza. Anche Burke aveva la sua morbida curva della bellezza; secondo lui le proprietà naturali di un bell’oggetto sono: (1) proporzionata piccolezza; (2) levigatezza; (3) diversa direzione delle parti; […] (5) fine costruzione, (6) colori vivaci (84), che però non devono essere troppo stridenti; (7) se tuttavia ci dev’essere un colore stridente, deve venir mitigato da altri. Burke ora dice – Schiller rende così la frase: «la bellezza suscita inclinazione senza desiderio di possesso».

A questo pensiero è già stata data la forma da Kant e poi in modo molto più brillante da Schopenhauer; il pieno godimento del bene e del piacevole sarebbe connesso all’interesse; invece il pieno godimento che definisce il giudizio estetico sarebbe privo di ogni interesse; il giu-dizio estetico sarebbe del tutto disinteressato, mentre l’oggetto di un simile giudizio sarebbe molto interessante. Già questo modo di parlare, che ancora domina l’estetica delle nostre scuole, contiene l’esagerazio-ne, la menzogna, alla quale dovette portare la nuova disciplina, perché essa aveva sostantivato l’oggetto di tutte le sue ricerche, la bellezza. Finché la bellezza era una qualità nei fenomeni, una qualità in certa misura obiettiva, una forza delle opere belle che desta in noi il compia-cimento estetico, si poteva almeno dire di questa cosa inesistente che essa non avesse alcuna relazione con il nostro interesse o con la nostra volontà. Prima però che ci fosse una scienza estetica – invero anche da quando c’è – c’era solo un sentimento che determinati fenomeni suscitano in noi e che dipende proprio dal nostro interesse. Anche se bello non deve aver designato originariamente e da principio ciò che

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appare piacevole nell’altro sesso (dove certo non è del tutto da esclu-dere presso i non-esteti il desiderio del possesso brutale), certo però l’aggettivo bello è stato esteso progressivamente dai fenomeni corporei alle opere d’arte, e queste opere d’arte le vogliamo sentire o vedere, facendo del tutto astrazione dal fatto che non siamo sempre dei barba-ri che vorrebbero anche possedere queste opere d’arte. L’errore nella famosa mancanza di interesse del piacere umano mi sembra stare nel fatto che nell’interesse si sia pensato a un interesse dei cinque sensi, all’utilità per il singolo uomo o per l’umanità, al fatto che (85) non si sia considerato quanto profondamente dipendano dalla volontà umana tutti i giudizi di valore, ai quali appartengono anche i giudizi estetici.

La menzogna della mancanza di interesse nell’interesse artistico – di cui si chiacchiera – diventa chiarissima quando si pensa ai filosofi che hanno fatto un ulteriore passo avanti e, in modo del tutto conseguente, hanno chiamato il godimento estetico privo di passione. Solo uno scrit-tore d’arte che non avesse mai esperito la sensazione del bello, potrebbe spingersi così lontano. Possono esserci delle persone che proprio non conoscono un’eccitazione più forte e passionale di quella che è connes-sa all’udire una sinfonia di Beethoven, l’ottava per esempio, al primo sguardo sulla Madonna Sistina, alla prima lettura del Faust. Tutto viene sconvolto, le fondamenta della volontà che la coscienza non raggiunge. Odio e amore sono eccitati, si è spinti all’azione e questo gli scrittori d’arte lo chiamano mancanza di interesse, mancanza d’affetto.

Tra i miei esempi della forza eccitatrice delle arti può far eccezione la musica, poiché la musica agisce in modo immediato sul sentimento. Allora però la musica dovrebbe essere esclusa dall’ambito dell’arte “di-sinteressata”, il che non si può tuttavia pensare seriamente. Lo stesso Hanslick, famoso estetico musicale, del quale ora piace negare i meriti a causa del suo odio contro Wagner, lo si intende male se si ritiene la sua teoria del “bello musicale” come una estetica formale pura. Anch’egli dà contenuto alla musica, solo che il contenuto ha da essere musicale. «In confronto all’arabesco la musica è in realtà un’immagine, tale che il suo oggetto non può essere racchiuso in parole ed esaurito dai concetti. In musica c’è senso e continuità, ma intesi in senso musicale; essa è un linguaggio che noi parliamo e comprendiamo, ma che non siamo in grado di tradurre» (p. 79 28). Non c’è nella musica alcuna contrap-posizione tra forma e contenuto. «A che cosa si vuole dare il nome di contenuto? Ai suoni stessi? Certo, ma essi hanno già una forma. Che cosa chiameremo forma? (86) Ancora una volta i suoni stessi, ma in quanto sono una forma compiuta» (p. 213 29). All’esercizio di un se-colo di estetica scientifica che, non contento di indagare il sentimento aggettivo del bello, ha voluto scoprire nelle opere d’arte e persino nella natura la bellezza obiettiva, sostantiva, a questo esercizio, ufficioso e quindi spesso ipocrita, è riuscito di degradare il bello. L’arte o la bel-lezza obiettiva venne sopravvalutata e considerata una divinità; tutti gli

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artisti “creatori” (avrei quasi detto alla berlinese Künstlehr) divennero sacerdoti dell’arte. Nessuna meraviglia che questa gente proveniente dal mondo verbale (pittore, scultore, poeta, compositore sono nomina agentis) si sia subito messa insieme in una casta di sacerdoti che salva-guarda gli interessi di casta al servizio della sua arte disinteressata! Che miracolo che, dopo le chiacchiere di maniera sul significato dell’arte, ogni Künstlehr si ritenga o si dichiari un superuomo e pretenda decime, da omuncoli e donnine! E il bello aggettivo, l’unico vero in questo mondo, è diventato allora una merce, una merce di scambio dei sacer-doti dell’arte. Anche qui il sacerdote digerisce il cibo che i fedeli hanno portato da mangiare al dio.

Verità (Wahrheit)(409) La scepsi è dubbio. Chi crede, crede a una verità. La verità

personificata, la verità eterna, la stabilis veritas, perché è già di per sé Dio, sta davanti al credente (410) Agostino in modo quasi grottesco. Erit veritas etiamsi mundus intereat. Se la verità attenga alle cose o al pensiero umano, alle nostre rappresentazioni o ai nostri giudizi, su questo si è filosofato all’infinito. Tutti i logici hanno limitato il concetto di verità al pensiero o al giudizio: Aristotele, Tommaso, Descartes, ma anche Hobbes.

Ora che ci avviciniamo alla fine della ricerca e che la parola verità non costituisce più per noi un feticcio, possiamo entrare con serenità nel merito della disputa antica. Chi colloca la verità nelle cose, presta fede ai suoi sensi; nel momento in cui crede due volte alle sue impressioni sen-soriali, le pone due volte, una volta dal lato del soggetto e una volta da quello dell’oggetto, ne deduce l’accordo tra apparenza e realtà e chiama verità il fatto che cose identiche siano identiche. Chi pone la verità nel suo giudizio, conferisce al concetto di verità un contenuto, se possibile, ancora minore: in primo luogo egli giudica (ovviamente in modo corret-to, vale a dire: secondo la sua miglior consapevolezza logica), poi crede alla correttezza dei suoi corretti giudizi e chiama questa sua credenza verità. Hobbes, che io ho collocato tra i pensatori che ponevano la verità soltanto nel giudizio, ha già tratto le conseguenze di questa posizione. Noi non conosciamo altri giudizi che quelli linguistici; quindi vero e falso sono attributi del discorso, delle parole, di una proposizione. E una proposizione è vera, se il predicato contiene in sé il soggetto. Non credo di travisare la posizione del potente Hobbes, se la espongo nel modo seguente: solo le proposizioni tautologiche sono vere.

Ci sono sempre stati dei dogmatici, uomini che credettero solo al Dio onnisciente e infinitamente buono che non avrebbe potuto in-gannarci nella fede nella sua verità, oppure uomini che credettero in un sistema rigido. Ci sono sempre stati gli spiriti liberi, gli eretici in religione e in filosofia, gli scettici, che applicarono l’idea che tutta la nostra conoscenza è relativa anche al concetto del conoscere più alto,

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alla verità. Herbart («noi (411) viviamo nelle relazioni e non abbiamo bisogno di altro»), Spencer («noi pensiamo nelle relazioni») si sono spaventati proprio della parola eretica relatività; essi non negano affat-to l’assoluto, il reale, esso è per noi semplicemente unknowable. Non sappiamo proprio niente altro che relazioni, perché il nostro sapere è esso stesso solo una relazione, un rapporto dell’io con l’altro. Solo un logico logicista (Stocklogiker) come Husserl può volerlo negare: «ciò che è vero, è assoluto, è vero in sé». In fondo del tutto corretto: si dovrebbe solo chiamare vero il vero assoluto, quindi non usare proprio la parola vero.

Questo relativismo del concetto di verità lo ha espresso bene Goe-Goe-the in tutta la sua saggezza: «se io conosco il mio rapporto con me stesso e con il mondo esterno, lo chiamo verità. E così ciascuno può avere la sua verità ed è comunque sempre la stessa». Oltre a questo Goethe ha anche affermato chiaramente che il concetto di verità ade-risce alle parole (Spr. i. Pr. 51 30): «l’errore si ripete continuamente nell’azione, per questo non ci si deve stancare di ripetere il vero nelle parole». Sarebbe utile se il più saggio dei Tedeschi venisse citato più spesso di quanto accade nelle diatribe filosofiche.

Il timore del relativismo deriva propriamente dal fatto che i dog-matici assumono verità eterne, assolute non solo nell’ambito del co-noscere, ma anche all’interno del santuario della morale. Se anche le verità morali venivano dichiarate relative, allora anche il mondo doveva cadere a pezzi. Allora la menzogna e il diavolo non erano più neri. Allora la menzogna non era più peccato, e all’umanità veniva strappato via ogni valore. Il giudizio di valore sul concetto di verità, la mescolan-za internazionale di verità e di veridicità agivano di comune accordo, quando ci si spaventava di fronte alla difesa antimorale della menzogna di Nietzsche. Di fronte alla dottrina di Nietzsche: che l’errore sia il principio che mantiene in vita.

Le declamazioni contro la menzogna come vero e proprio vizio diabolico sono state da sempre comuni ai teologi cristiani (nonostante il Vangelo di Giovanni, 7, 8 ss.); in ambito filosofico Kant (412) ha cercato per primo di fondare questa ripugnanza di fronte alla menzo-gna nella facoltà del linguaggio dell’uomo «in modo piatto, infantile e senza gusto» (secondo le parole di Schopenhauer); questa ripugnanza incondizionata si baserebbe però «sull’affezione o sul pregiudizio»; è noto che Schopenhauer approva la menzogna almeno laddove sarebbe permessa come legittima difesa. Anche Bacone, il fine conoscitore degli uomini, è un difensore della menzogna; nel suo saggio Della verità egli paragona la verità a una perla cha fa la sua miglior figura di giorno, ma non raggiunge mai il prezzo di un diamante che si lascia osservare al meglio al bagliore di una candela; la mendace mascherata del mondo; la mescolanza con la menzogna e l’inganno sarebbe simile all’aggiun-ta di metallo comune nelle monete d’oro e d’argento, aggiunta che

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solo rende il metallo adatto alla lavorazione. Spessissimo la menzogna viene giustificata o addirittura lodata dai poeti che certo a essa sono i più vicini; non è mai stato detto qualcosa di più benigno di quello che viene detto da Grillparzer alla fine della sua commedia satirica, condensato di umanità e saggezza, Weh dem, der lügt: «La mala erba (la menzogna), a quel che vedo, non si estirpa. | Ed è fortuna se poi vi cresce sopra il grano» 31.

Non è mai stato detto qualcosa di più terribile di quello che viene detto da Ibsen nell’Anatra selvatica: il medico Relling salva le persone che gli sono care conservando in loro la menzogna vitale, il principio stimolante, il cauterio che mette loro sulla nuca. Così una menzogna vitale è lo scherzo che egli ha escogitato per mantenere l’uomo in vita: «se all’uomo medio si toglie la menzogna vitale, gli si toglie contem-poraneamente anche la felicità. [...] Non usi la parola straniera ideali; poiché l’abbiamo già la nostra buona parola menzogne» 32.

Ibsen conservò la parola, e la menzogna vitale che la conservava corrisponde sorprendentemente bene al pensiero di Nietzsche sull’uti-lità biologica dell’errore. È difficile, come sempre in Nietzsche, far fun-zionare questo pensiero in modo netto e chiaro. Non perché Nietzsche non abbia lasciato un sistema, nemmeno perché sia stato uno scrittore di aforismi. È proprio di Nietzsche la splendida affermazione: «la vo-lontà di sistema è una mancanza di onestà» 33. Gli aforismi sono sempre mezze verità; poiché (413) però non abbiamo mai la verità intera, la metà diventa più dell’intero. Anche la mania, spinta fino al patologico, di passare con le stampelle del linguaggio da antitesi di giochi linguistici a paradossi che eccedono se stessi può solo raramente intorbidire il piacere limpido per la personalità scettica di Nietzsche. Ma l’interesse passionale di Nietzsche per il pensiero in tutte le sue “poesie concet-tuali” riguarda la vita, riguarda l’inversione dei valori della vita; egli ha portato avanti ricerche nell’ambito della teoria del conoscere solo accidentalmente, ed era così poco contento di queste irruzioni, di questi fuochi d’artificio o di questi lampi di genio, che quasi non li pubblicò mai, che non ci mostrò mai l’impalcatura del suo filosofare, abbastanza non-tedesco, visto che il più grande filosofo tedesco è diventato famoso soprattutto grazie all’impalcatura con cui schiaccia spesso sé stesso e noi. L’ideale tedesco dell’intellettuale sarebbe di lasciare stare l’impalca-tura attorno a ogni duomo per tempi infiniti. Nietzsche ha pensato solo di rado in modo concluso, ma la profanazione pietosa di cadaveri lo ha buttato sul mercato, e ora si cerca di ricostruire la teoria del conoscere di Nietzsche solo dai volumi disordinati del Nachlass.

Errore e menzogna diventano per Nietzsche concetti interscambiabili perché egli, in questo “non-tedesco” e di nuovo il più tedesco dei Te-deschi, non era un commerciante del negozio del pensiero speculativo, ma soffriva troppo profondamente per il suo pensiero che egli sentiva profondamente. Come si può continuare a vivere, se si è penetrati con

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lo sguardo nella menzogna vitale? Se si sgomitolano le illusioni che man-tengono in vita? Nella risposta a questa domanda faustiana sta tutto il Nietzsche, malato affascinante. La massa crede alle illusioni, quindi non si lascia disturbare. Il pensatore che è giunto dietro il segreto dell’er-rore vitale o della menzogna vitale, affonda, se è un codardo. Solo il più forte, il povero Nietzsche malato, sopporta la verità che non ci sia nessuna verità.

«La falsità di un giudizio non è per noi ancora, per noi, un’obiezio-ne contro di esso […]. La questione è fino a che punto questo giudi-zio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (414) […] sono per noi i più indi-spensabili, […] che rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita» 34. La verità ha un valore morale, la non-verità ne ha uno biologico. Essere conforme al vero (wahrhaft) significa «dire menzogne in gruppo». Diciamo veri gli errori che sono diventati carne. Nietzsche chiama vero ciò che ci è utile, come l’uma-nità fin dai tempi dell’origine ha chiamato buono ciò che gli era utile. Con la stessa sequenza di parole i pragmatisti intendono qualcosa di diverso. Nietzsche ha potuto ripetere contro il concetto di verità quello che sempre Spinoza aveva enunciato contro il concetto di bene. Basta una sola considerazione per dargli ragione: l’umanità non ha mai pos-seduto la verità fin dal suo esistere e tuttavia ha continuato a vivere. Solo che è di nuovo un gioco con le parole chiamare con il termine della negazione e dell’insulto, errore o menzogna, il positivo, che solo può essere ciò che mantiene in vita, perché non lo conosciamo 35. Ciò che è unknowable, è unknowable, che lo si celebri come l’assoluto o lo si designi senza rispetto come errore. La voce inglese agnosticism non è poi così male.

In riferimento al linguaggio Richter, invero in modo infelice, nel suo libro – che peraltro vale la pena di leggere per il suo grande valore – ha classificato l’agnosticismo individualistico di Nietzsche come scetticismo biologico; Nietzsche valuta verità ed errore dal punto di vista biologico; “scetticismo biologico” ricorda un po’ la caserma dell’artiglieria a ca-vallo (me la ricorda anche lo “scetticismo linguistico” con cui Richter onora anche le mie idee, Richter, ii, p. 453 36). Nietzsche non voleva, come Hume, essere chiamato scettico. Gli scettici greci che coerente-mente definirono impossibile ogni giudizio, non avrebbero nemmeno potuto vivere, se fossero stati del tutto coerenti. L’asino di Buridano, che a causa della mancanza di libertà del volere, del volere umano (avrei detto io), deve morire di fame tra due fascine di fieno esattamen-te uguali, sembra un asino più intelligente rispetto all’asino scettico che non può mangiare la sua unica fascina, perché dubita della realtà del fieno, e non sa nemmeno se sia un asino e se possa davvero mangiare. Allo stesso modo avrebbe dovuto far morire di fame l’umanità questo

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asino scettico, se essa avesse vissuto secondo la teoria scettica, l’unica verità. Nietzsche, appassionato della vita, non volle essere un tal scetti-co, certo nemmeno uno scettico biologico. Si può chiamare la sua teoria “relativismo individualistico”, se proprio la si vuol classificare: «ciò che mi manda in rovina per me non è vero, cioè è una relazione falsa del mio essere con altre cose. Infatti c’è solo una verità individuale – una relazione assoluta è un non senso». Non possediamo allora nessuna verità che sia assoluta, dobbiamo accontentarci delle opinioni, della credenza (Glauben) che ci viene incontro come surrogato della verità per la terza volta.

Il linguaggio si stanca a forza di dimenarsi pietosamente con tali concetti. Vero dovrebbe essere ciò che corrisponde alla realtà. Chiamia-mo credenza il nostro rapporto con le rappresentazioni o con i giudizi, quando li consideriamo veri, cioè quando non sappiamo che sono veri, quando quindi non li consideriamo veri. Sarebbe molto meglio (416) optare per la rassegnazione, entrare nell’ordine degli Ent-sagenden di Goethe.

La lingua tedesca ha formulato una volta un Witz pazzesco e ha tolto la pelle al concetto di verità. Un’asserzione di verità era nel me-dio alto tedesco allwaere (antico alto tedesco alawâr = verissimus). Quando non si sentì più la sua origine, ne venne fuori per mutamen-to fonetico alber, da Gottsched e Gellert albern. Noi sappiamo cosa significa ora questo antico alwaere. Lutero traduce: ein Alber gläubt alles (uno sciocco crede a tutto, Spr. Sal. 14, 1537).

Mondo aggettivo(W i, 17) Il termine grammaticale adjektivum è notoriamente la

traduzione del greco ejpivqeton; è anche noto che Aristotele – che in ogni caso non era un grammatico – non aveva alcuna idea della cate-goria dell’aggettivo, che per lui ejpivqeton consisteva nel caso speciale dell’epitheton ornans poetico. In seguito, con ejpivqeton i grammatici greci continuavano a pensare in primo luogo a elogio o biasimo, ma aggiunsero lentamente alle proprietà dell’anima e del corpo altre parole qualitative.

Se mai i Greci fossero stati portati alla ricerca gnoseologica, come fondatore della logica Aristotele avrebbe comunque dovuto prendere in considerazione anche il significato grammaticale dell’aggettivo.

Nella mia Kritik der Sprache (B ii, p. 94 s.) ho cercato di mostrare che l’aggettivo nella storia della grammatica è la parte del discorso più giovane, ma nella storia dell’intelletto la più antica. Cosa sia una cosa me lo dicono le sue proprietà, al di fuori di esse la domanda è metafisica. «La costituzione della corporeità a partire dalle qualità si completa a livello prelinguistico; anche la scimmia, quando mangia una mela, probabilmente mette insieme a partire dalle qualità di liscio, dol-ce, rosso, pesante, ecc. l’ipotesi della cosa-mela» 38. Il mondo aggettivo

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è l’unico mondo a noi accessibile mediante le impressioni sensoriali; il mondo sostantivo è lo stesso mondo dato ancora una volta, concepito sotto l’ipotesi della cosalità.

Non credo di avere la tendenza a costringere le mie osservazioni in un sistema. Ma l’applicazione di una concezione del mondo – che ci terrà occupati ancora per molto – al concetto di appercezione mi trae fuori dall’isolamento nominalistico. Il linguaggio umano, che si costituisce attraverso l’appercezione ed è costituito dall’appercezione, ha formato da sempre tre categorie, con l’aiuto delle quali cercava di comprendere il mondo: l’aggettivo, il verbo e il sostantivo. Mi sembra ora possibile (18) ripartire ancora una volta in queste tre categorie, in modo diverso da come è stato fatto finora, il processo interno delle appercezioni che nel loro insieme costituiscono il pensiero.

C’è un mondo aggettivo, l’unico mondo del quale facciamo espe-rienza in modo immediato attraverso i sensi; tutte le nostre sensazioni, tutti i nostri dati dei sensi sono aggettivi; aggettive sono inoltre anche tutte le nostre sensazioni dell’anima, i nostri giudizi di valore, tutto ciò che chiamiamo giusto, buono, bello ecc. Questo mondo aggettivo si frantuma in singole impressioni, non si costituisce in forme unitarie, lo si potrebbe chiamare un mondo a puntini (pointilliert).

Se vogliamo congiungere i punti in unità, se vogliamo dirigere l’at-tenzione su delle unità (con questo non bisogna dimenticare che l’atten-zione viene stimolata da unità o forme misteriose nelle cose), dobbiamo considerare, cioè pensare, cioè rivolgere la capacità di appercepire alle impressioni dei sensi. La congiunzione delle sensazioni in unità median-te l’attività della memoria la si potrebbe chiamare il mondo verbale (un po’ più audace dell’espressione mondo aggettivo di poco fa). Oppure, mettendo sullo stesso piano attività ed efficacia, il mondo causale. Il mondo a puntini delle impressioni passive dei sensi si trasforma me-diante l’operare dell’appercezione nel mondo in divenire, nella trama del mondo, in ciò che fluisce.

Le masse delle appercezioni o il pensare non sono in questione pri-ma che il pensare sia giunto alla parola. Abbiamo parole per il mondo aggettivo (blu, rumoroso, dolce, duro, giusto, bello), ma tutte queste parole infilzano l’impressione con la punta dell’ago del momento e non ci lasciano scorgere o addirittura descrivere la cosiddetta totalità. Il mondo aggettivo è il mondo dell’animale. Il mondo verbale vi si ag-giunge e ha designazioni per il divenire e il trascorrere, per il godere e il soffrire, per il cambiare e il rimanere, per il causare e l’obbedire. Il mondo verbale lo si può descrivere. Tuttavia l’impertinente parola umana lo vorrebbe anche spiegare. Vorrebbe trovare un’espressione non solo per le sensazioni del momento e per i mutamenti (19) nello spazio, ma anche per l’essente, per ciò che permane nel tempo, per le sostanze. E la parola impertinente si crea (solo per sé, la parola per la parola) il mondo sostantivo, il mondo delle cose e delle forze, il mondo

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degli dei e degli spiriti, un mondo del quale la memoria dell’umanità non sapeva nulla prima che la parola se lo fosse procurato. E poiché il mondo sostantivo gode della più alta considerazione tra il popolo e parimenti da sempre è stato, presso “i muti del cielo”, presso i più profondi pensatori o i mistici, il mondo della nostalgia, così non avrei nulla in contrario se si volesse chiamare il mondo sostantivo del tutto irreale: il mondo mistico.

Mondo sostantivo(W ii, 262) Abbiamo conosciuto l’unico mondo della nostra espe-

rienza, il mondo reale, il mondo del sensismo, come quel mondo per la descrizione del quale il linguaggio ha a disposizione i suoi aggettivi; abbiamo supposto che l’aggettivo sia davvero la più giovane parte del discorso della grammatica, ma la più antica parte del discorso nella storia dell’intelletto. Abbiamo già spiegato là che il linguaggio ha creato a suo uso e consumo il mondo sostantivo, il mondo degli dei e degli spiriti, il mondo delle cose e delle forze. Il mondo sostantivo è il mondo mitologico.

Questa rappresentazione sarebbe una banalità se si pensasse soltan-to che i sostantivi astratti, con cui una ragione sincera non sa pensare nulla, appartengono a un mondo mitologico. No. Non solo gli dei e gli spiriti sono mitologici, ma anche le forze apparentemente ben co-nosciute della fisica e della biologia sono cause mitologiche; anche le cose stesse, le cose singole della nostra esperienza aggettiva sono solo simboli nei quali riassumiamo le cause mitologiche dei loro effetti ag-gettivi. Per i sostantivi astratti la spiegazione è ancora più semplice.

Le lingue germaniche hanno più delle altre la tendenza a designare le cose astratte, quelle cose delle quali sappiamo ancor meno rispetto alle cose corporee, con parole doppie che, per il mio senso della lingua, hanno in sé qualcosa di pleonastico. Freundschaft (amicizia) non dice, nella mia relazione con N., niente (263) di più del fatto che noi siamo Freunde (amici); l’attuale suffisso -schaft era originariamente lo stesso che “stato” e venne poi a designare un concetto collettivo. Bürgerschaft (cittadini), Judenschaft (ebrei) non dicono niente di più che Bürger (cit-tadini), Juden (ebrei); Wissenschaft (scienza), lo zainetto pieno di sapere, niente di più di wissen (sapere). Anche il suffisso -heit era una paro-la autonoma e designava una condizione; Freiheit (libertà), Gleichheit (uguaglianza) non dicono niente di più di frei (libero), gleich (uguale); -heit però, come -schaft, ha assunto il significato di un collettivo, e Chri-stenheit (cristianità) non dice niente di più di Christen (cristiani); certa-mente solo un turco che parla tedesco direbbe Christenschaft; infine si mette -heit in modo del tutto pleonastico in Gottheit (divinità), Schönheit (bellezza). Anche -tum era una parola autonoma; se diciamo Eigentum (proprietà), non pensiamo niente di più che con l’aggettivo eigen (pro-prio), che è propriamente il participio di un antico verbo dimenticato

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eigan, che significa besessen (posseduto), in contrapposizione a una cosa senza padrone; soltanto il capriccio dell’uso linguistico distingue tra Eigentum, Eigenheit e Eigenschaft; un tempo si diceva mein Eigen dove ora diciamo mein Eigentum.

È poi solo un caso della storia della lingua che le cose concrete non abbiano forme così forzate delle parole. Che non diciamo Pferdeding (cosa-cavallo), Apfelding (cosa-mela) per Pferd, per Apfel o forse Pfer-detum, Apfelheit; il francese maison è derivato dall’altrettanto astratto latino mansio, luogo nel quale si rimane. In un certo senso i sostantivi più concreti sono pseudoconcetti proprio come i mostri concettuali più astratti della scolastica.

Se per una temeraria formazione analogica non ci fossimo abituati ad attribuire quasi a ogni sostantivo le stesse categorie del caso, del numero e persino del genere, riconosceremmo subito in queste catego-rie l’artificiosità, l’irrealtà della formazione del sostantivo. Avvertirem-mo subito che i sostantivi astratti non possono avere alcun rapporto di declinazione tra loro, alcun rapporto numerico in relazione a noi e davvero nessuna somiglianza con le differenze di genere degli animali. L’artificiosità della distinzione di genere (264) è evidente anche nella maggior parte dei sostantivi concreti; la declinazione dei sostantivi con-creti – come da tempo ha dimostrato la linguistica – si è però formata solo metaforicamente secondo l’immagine di alcuni rapporti spaziali e simula soltanto una conoscenza di relazioni delle quali possiamo asserire qualcosa sempre soltanto in immagine; anche il numero dei sostantivi concreti non è nel mondo dell’esperienza, non è nella singola cosa reale, non è mai un effetto delle cose su di noi, ma è solo nel mondo verbale, nel bisogno di ordine dell’uomo. I numeri infatti non sono percezioni, non sono modi aggettivi.

L’intelletto umano che, seguendo un istinto remoto, certamento ere-ditato dall’animale, concepisce le cause comuni delle impressioni agget-tive come sostantivi, simula quindi un mondo sostantivo proprio con gli stessi mezzi con i quali lo scherzo ottico dei fisici simula per noi la presenza di un corpo mediante specchi disposti abilmente e lenti scelte in modo appropriato. Ho già detto da qualche parte che potremmo credere a ragione di percepire una mela se un un giocoliere sovrumano potesse simulare per noi la forma, il colore, la consistenza, il gusto e il profumo di una mela. Solo che noi ci saziamo con la cosiddetta mela reale che possiamo digerire; ma anche questo dipende di nuovo dagli effetti aggettivi della mela reale, effetti che un giocoliere ancor più sovrumano potrebbe simulare.

Mondo verbale(W iii, 359) i. Nel nostro pensiero o nel nostro linguaggio, accanto

al mondo aggettivo, l’unico vero mondo dell’esperienza o del sensismo, c’è anche un mondo sostantivo (360) dell’essere o dello spazio, che

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abbiamo conosciuto come il mondo mitologico e (a un livello più alto) come il mondo della mistica; c’è poi però anche un mondo verbale, il mondo del divenire. Lo spazio è la condizione del mondo sostantivo, il tempo è la condizione del mondo verbale. Spazio e tempo si distin-guono essenzialmente per il fatto che lo spazio viene consumato solo in relazione a un determinato tempo, il tempo invece viene sempre consumato quasi come una forza, appena accade qualcosa. Nell’abisso del concetto di causa mi sembra di intravedere la possibilità di dire che spazio e tempo siano le condizioni dell’esperienza, che lo spazio sia la condizione dell’essere, il tempo la condizione del divenire, ma che in nessuno di questi casi si possano chiamare cause lo spazio e il tempo.

Kant ha aggirato la difficoltà, che Hume non aveva proprio notato, assegnando al soggetto lo spazio e il tempo come forme dell’intuizione, togliendoli alle cose in sé, che egli riteneva proprio le cose-cause origi-narie (Ur-sachen). Ma almeno il tempo, come condizione del divenire, non lo si può staccare né dal soggetto né dall’oggetto, a meno che non lo si pensi misticamente del tutto inesistente. Il mondo verbale non vede altro che il modo dell’interazione, quello che noi chiamiamo le re-lazioni delle cose con noi e le relazioni delle cose tra di loro. Il divenire e il trascorrere, cioè il mondo oggettivo, liberato dalla superstizione del realismo ingenuo, è oggetto del mondo verbale: l’aver effetto; ma anche l’aver effetto su di noi, che viene immediatamente colto come mondo aggettivo, appartiene anch’esso – appena lo abbiamo riconosciuto come un aver effetto – al mondo verbale. Il sapere di un mondo aggettivo, il formare dei concetti, il pensare o il parlare sono verbali.

Il concetto più generale per questo divenire, per questo flusso delle cose, sarebbe il concetto di movimento. E qui l’espressione mondo verbale non sembra del tutto appropriata, perché i verbi non designa-no sempre attività o movimenti o mutamenti in generale, ma spesso (almeno ora) (361) stati di quiete. Ho detto: “almeno ora”, perché non si può del tutto escludere la supposizione che originariamente i nostri termini che indicano tempo e attività designassero di regola un’attivi-tà di carattere sensibile, anche se non posso ammettere l’assunzione ulteriore di tutti i sanscritisti che tutte le cosiddette radici linguistiche siano sempre state all’origine concetti di attività.

Non voglio nemmeno negare che nell’espressione mondo verbale (per il mondo del divenire e del nostro sapere del divenire) siano conte-nuti alcuni errori minimali. I termini che designano propriamente delle attività a cui ho pensato in un primo tempo nella teoria dello scopo nel verbo (B iii, p. 59), non hanno, nella psicologia del linguaggio, esattamente lo stesso carattere dei verbi che designano un’attività della natura fisica: un movimento per es. dell’acqua, del suono, della luce o del calore; dal suo punto di vista, la grammatica distingue poi verbi transitivi e intransitivi, oggettivi e soggettivi. Tuttavia alla fine credo

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che in tutte le nostre lingue i verbi, che esprimono attività spirituali o persino stati di quiete, siano solo creazioni analogiche secondo la forma e la forma linguistica interna dei verbi; le desinenze verbali ricordava-no che il soggetto faceva qualcosa, che combinava qualcosa. E questa rappresentazione confusa noi la colleghiamo ancor sempre con tutti i verbi (Zeitwörter).

Non la colleghiamo però con il verbo più generale, quindi quello più vuoto di tutti i verbi, con il concetto di essere. Ancora una volta non posso negare che mi provoca un imbarazzo linguistico il fatto che questo verbo generalissimo non possa essere inserito nel mondo verba-le e sia invece proprio un sinonimo del mondo sostantivo. Posso solo ricorrere all’uso linguistico: noi trasferiamo le cause del mondo agget-tivo nei sostantivi di cui esprimiamo la realtà o l’essere solo quando crediamo di sapere qualcosa delle relazioni di queste ipostasi cosali.

(362) ii. Naturalmente la divisione dei tre mondi secondo le parti del discorso più importanti della grammatica la si deve intendere solo cum grano salis. L’indeterminatezza del senso grammaticale (cfr. B iii, p. 1 s.) si rivela chiaramente soprattutto nel fatto che non possiamo dire esattamente cosa siano un aggettivo, un sostantivo, un verbo; la logica, vale a dire la logica scolastica, è certo derivata dalla grammatica attraverso una non chiarezza di Aristotele, diventata storica, ma con questo la grammatica non è diventata logica. All’ideale dei concetti logici corrispondono solo i sostantivi, in quanto designano individui e poi concetti di genere più generali e sempre più generali. Gli aggettivi sono da sempre determinazioni di impressioni sensibili o di sensazioni, ma nella logica scolastica si devono usare ancor sempre come predicati di giudizi e di conclusioni di implicazione. Nel senso della logica di implicazione i verbi non sono poi per nulla concetti, essi non designa-no concettualmente, come abbiamo visto (B iii, p. 59), la somma di percezioni uguali o simili, essi piuttosto riuniscono insieme una somma di modificazioni progressive sotto un concetto di fine. Nella dottrina della deduzione della logica scolastica si può usare in modo preciso come copula propriamente solo il concetto di essere; e questo concetto conviene, come abbiamo appena visto, piuttosto al mondo sostantivo che a quello verbale.

Così ho anche ammesso l’errore di forma della mia divisione in tre del mondo del linguaggio: che cioè si possa percepire in modo imme-diato uno scopo nel verbo solo nelle parole che indicano attività sensi-bili, in maniera più chiara in assoluto nei verbi oggettivi, il cui oggetto sostantivo è soltanto una ripetizione tautologica dello scopo nel verbo, ad esempio: scavare uno scavo, costruire una costruzione, ecc.

Non nascondo che nella mia teoria dello scopo nel verbo ci sia l’er-rore di una generalizzazione. Questo stesso errore però lo hanno fatto prima di me le nostre lingue, formando, per l’analogia con i verbi di sensazione, una quantità (363) di verbi, nei quali un tale fine evidente

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non lo si poteva sentire immediatamente o non lo si poteva sentire per nulla. Voglio tentare di difendere il concetto di scopo nel verbo per alcuni grandi gruppi. Le attività sensibili dell’uomo sono espresse da verbi che riassumono in uno scopo innumerevoli mutamenti microscopi-ci parziali oppure deducono l’insieme dei mutamenti da una cosiddetta causa finale; secondo l’uso scientifico del linguaggio i mutamenti nella natura extraumana, dei quali sappiamo qualcosa in quanto relazioni reciproche tra le cose, non ritornano a cause finali, ma a cosiddette cause efficienti. Crediamo però di aver imparato dalla nostra critica del linguaggio che tutte le forze, anche quelle della natura inorganica, sono forze che hanno una direzione, che esse si sottraggono al concetto di causalità, che il concetto di direzione sarebbe utilizzabile in questo senso, utilizzabile provvisoriamente, come il concetto più generale, a lungo cercato, per le antiche cause originarie e per le antiche cause finali. La nostalgia del nostro tempo, che è stanco della concezione meccanicistica del mondo, scivola volentieri – senza aver rielaborato il concetto di direzione – verso la concezione del panpsichismo che non vorrebbe più considerare teleologia e causalità come termini in contrasto. Per una simile concezione non mi sembra assurdo, anzi mi sembra necessario, nel verbo, trasferire lo scopo, dai verbi che indicano attività sensibili anche a quelli, innumerevoli, che designano un qualche effetto reciproco delle cose, che designano le relazioni reciproche dei sostantivi. Avrei potuto parlare, in maniera più pregnante e più corri-spondente a questa spiegazione, piuttosto che di uno scopo nel verbo, di una direzione nel verbo; ma è una buona prova per le nuove idee se esse si possono esprimere in parole semplici; e poi dodici anni fa non ero ancora venuto a capo del concetto di direzione.

Si può interpretare un altro grande gruppo di verbi estendendo a essi il concetto di iterativo; essi sono molto più diffusi che da noi nelle lingue antiche, poi nel turco e in molte (364) lingue africane. Qui molte o moltissime azioni parziali vengono riunite in un concetto verbale che certo non sempre esprime una azione complessiva conforme a scopo, ma spesso un’attività biologica dell’organismo, quindi teleologicamente utile (respirare, digerire). In moltissimi casi i verbi di stato che non designano alcun movimento hanno un senso imparentato con quello dei verbi iterativi. Certo a molti verbi di stato sta alla base unico e solo il concetto di tempo; una connessione con gli iterativi non sarebbe quasi applicabile senza costruzione. Ma in questo contesto mi posso accon-tentare del fatto che i verbi si chiamano tutti in tedesco Zeitwörter e non ho bisogno di arrabbattarmi a mettere ordine nella confusione che la formazione analogica e la grammatica ha portato nella classificazione dei verbi delle nostre lingue più conosciute – i verbi dei “selvaggi” non si possono spesso classificare “all’indoeuropea”.

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1 [Niemeyer, Halle 1898.]2 [Michel Bréal, Essai de sémantique. Science des significations, Hachette, Paris 1897, p.

1 (Saggio di semantica, trad. it. di Arturo Martone, Liguori, Napoli 1990, p. 3).]3 [Jacob Grimm, Wilhelm Grimm, Deutsches Wörterbuch, Hirzel, Leipzig 1854-1960,

i, Sp. 1227.]4 [Barth, Leipzig 1906 (p. 16).]5 [Industrie-Comptoir, Weimar.]6 [Johann Christoph Adelung, Grammatisch-kritisches Wörterbuch der Hochdeutschen

Mundart, Breitkopf und Compagnie, Leipzig 1793-1801.]7 [Blaise Pascal, De l’esprit géométrique, éditions eBook France, p. 13.]8 Non ho dubbi che il significato di copulare sia un calco limitato al linguaggio biblico,

forse in ebraico un eufemismo castigato. La parola ebraica jada è interessante anche da un altro punto di vista. Gli antichi ebrei possedevano tre parole distinte per il percepire con la vista, con l’udito e con il gusto; tutte e tre le parole potevano designare metaforicamente una conoscenza (Erkennen) spirituale; ma solo “jada”, la percezione mediante la vista, venne trasferita al coito.

9 L’esempio di Socrate, come Aristofane lo portò in scena, non mi sembra scelto feli-cemente; egli e Cleone corrispondevano secondo l’idea degli ateniesi proprio all’umorismo come lo intese Dryden e come ancora lo concepì Lessing.

10 [Gotthold Ephraim Lessing, Von Johann Dryden und dessen dramatischen Werken, Thetralische Bibliothek, 4. Stück, in Werke und Briefe, hg. von Wilfried Barner et al., v, hg. von Gunter E. Grimm, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt a. M., 1997, pp. 175-77.]

11 [Gotthold Ephraim Lessing, Hamburgische Dramaturgie, in Werke und Briefe, hg. von Wilfried Barner et al., vi, hg. von Klaus Bohnen, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main, 1985, p. 643.]

12 Auch Einer è un modello esemplare per una nuova teoria (i, p. 448). Dall’Aesthetik di Vischer: «La personalità umoristica non ha bisogno […] di essere un Falstaff del tutto sregolato. Catarro e occhi di gallina gli bastano per rendere una natura infinitamente infelice, come richiede l’umorismo; infatti essa deve sentire l’organizzazione spirituale, il che vuol dire: essere impedita nell’adempimento dei fini più puri, disturbata nei momenti più belli, dal tossi-re, soffiarsi il naso, sputare, starnutire e zoppicare. Essa è in questo così sensibile come carne nuda in una ferita, è un uovo sgusciato» [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit. (Georg Olms Verlag, Hildesheim - Zürich - New York 1996, i, pp. 486-87)].

13 [Theodor Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, cit., i, pp. 486-87.]14 [Jean Paul Richter, Vorschule der Aesthetik, cit., p. 153.]15 [Ivi, p. 126.]16 [Novalis, Blüthenstaub, in Schriften, hg. von Paul Kluckhohn u. Richard Samuel, Ko-

hlhammer, Stuttgart 1981, ii, pp. 425-27.]17 [Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, hg. von Harald Fricke, in Sämtliche

Werke, Briefe, Tagebücher und Gespräche, hg. von Friedmar Apel et al., Deutsche Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1993, xiii, p. 13.]

18 [Ivi, p. 334.]19 [Ivi, pp. 157-58.]20 [Walter W. Skeat, An Etymological Dictionary of the English Language, 1835-1912, The

Clarendon Press, Oxford.]21 [Johann Georg Walch, Philosophisches Lexicon, Gleditsch, Leipzig 1726.]22 [Alexander Gottlieb Baumgarten, Aesthetica, Frankfurt am Oder 1750-1758 (L’Estetica,

trad. it a cura di Salvatore Tedesco, Aesthetica, Palermo, 2000).]23 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (1. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke, hg.

von der Königlich Preussischen Akademie, Georg Reimer, Bd. iv, Berlin 1903, p. 30 (Critica della ragion pura, trad. it. a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1995, pp. 76-77).]

24 [Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft (2. Aufl.), in Kant’s gesammelte Werke, cit., Bd. v, Berlin 1911 (Critica della ragion pura, trad. it. cit. pp. 775-77).]

25 [Friedrich Schiller, Kallias oder über Schönheit, in Werke, Bd. xv, Hempel, Berlin 1870.]26 [Si tratta del colloquio con Johann Peter Eckermann del 26 febbraio 1824.] 27 [Immanuel Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in Kant’s gesammelte Werke,

cit., Bd. vii, Berlin 1917, pp. 120-21 (Antropologia pragmatica, trad. it. di Giovanni Vidari e Augusto Guerra, Laterza, Roma - Bari 1985, p. 4.]

28 [Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, Barth, Leipzig 1891 (Il Bello musicale, trad. it. di Leonardo Distaso, Aesthetica, Palermo 2001, p. 65).]

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29 [Eduard Hanslick, Vom Musikalisch-Schön, cit. (p. 115).] Con non poca sorpresa e gioia ho trovato nel mio connazionale Hanslick anche la distinzione tra mondo sostantivo e mondo aggettivo, naturalmente senza le connesse riflessioni critiche.

30 [Johann Wolfgang von Goethe, Sprüche in Prosa, cit., p. 31.]31 [Franz Grillparzer, Weh dem, der lügt, in Dramatische Werke, Bergland Verlag, Wien

1961, iii, p. 96 (Guai a dire bugie!, trad. it. di Cesare De Marchi, Greco & Greco editori, Milano 1991, p. 146.]

32 [Cfr. Henrik Ibsen, Die Wildente, in Dramen, Artemis & Winkler, Düsseldorf - Zürich, deutsche Übersetzung von Christian Morgenstern et al., p. 456 (L’anitra selvatica, in Teatro, trad. it. di Alda Castagnoli Manghi e Hanne Coletti Grünbaum, Utet, Torino 1982, pp. 195-96; ho modificato lievemente la traduzione italiana).]

33 [Friedrich Nietzsche, Götzen-Dämmerung, in Sämmtliche Werke, hg. von Giorgio Colli und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, vi, (Crepuscolo degli idoli, trad. it. di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1983, p. 28).]

34 [Friedrich Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse, in Sämmtliche Werke, hg. von Gior-gio Colli und Mazzino Montinari, de Gruyter, Berlin, v, p. 18 (Al di là del bene e del male, trad. it. di Ferruccio Masini, nota introduttiva di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1983, pp. 9-10).]

35 Un detto molto citato di Schiller va bene qui tutt’al più come ornamento: «Solo l’er-rore è la vita, | e il sapere è la morte». Questi versi si trovano nella poesia Kassandra, sono drammaticamente introiettati nell’anima della profetessa e intendono propriamente il sapere profetico del destino futuro; questo stato d’animo viene espressa dallo scolaro di Kant in ma-niera ancor più incisiva nei versi: «tu (il dio) mi hai dato il futuro, | ma ti prendesti l’attimo». Certo Schiller generalizza lo stato d’animo di Cassandra: ogni sapere rende infelici. «Giova alzare il velo?» «Chi si rallegra della vita se ha guardato nel suo fondo?». Nonostante questo c’è un’ulteriore distanza tra il paradosso di Nietzsche dell’utilità biologica e la poetica antitesi di Schiller. Per un motivo molto semplice. Schiller non intende per nulla l’errore, l’opposizione alla verità. Egli intende il non-sapere, in contrapposizione al sapere. Egli ha soltanto messo errore – direi con il cappello in mano – al posto di non-sapere per via del ritmo fastidioso. E come punizione e perché quasi richiede l’opposizione a errore, il passo viene spesso citato in modo errato, da Fontane, da Raoul Richter: «Solo l’errore è la vita, | e la verità è la morte».

36 [Raoul Richter, Friedrich Nietzsche: sein Leben und sein Werk, 15 Vorlesungen, Dürr, Leipzig 1903.]

37 [Martin Luther, Sprüche Salomonis.]38 B ii, p. 94 s.

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Le tre immagini del mondo(da Die drei Bilder der Welt)

Le tre nuove categorie(3BW, 1) Il nostro mondo c’è una volta soltanto, ma noi non pos-

siamo vederlo in una sola volta. Del resto anche il sole c’è soltanto una volta nel nostro sistema planetario, ma noi non possiamo proprio vederlo direttamente e a occhio nudo, ma solo mediatamente, nei suoi effetti, come causa di fenomeni del tutto diversi, che sono poi stati classificati nella nostra conoscenza della luce, del calore e dell’elet-tricità. Inoltre possiamo guardare il sole solo nell’immagine o in im-magini. Quando con un’osservazione eccezionale vediamo un doppio arcobaleno lunare, abbiamo davanti a noi tre immagini del sole per lo meno simili nella loro essenza; invece i fenomeni della luce, del calo-re e dell’elettricità non li designamo volentieri come immagini, simili nella loro essenza, dell’unico sole; abbiamo avuto bisogno di un tempo infinito per scoprire alcune relazioni tra questi tre fenomeni naturali. Il “mondo”, parola con la quale cerchiamo ora di abbracciare il tutto in una volta – che ne abbiamo o non ne abbiamo ora conoscenza – è però un complesso di fenomeni ancora più grande e più aggrovigliato rispetto al sole, e allora (2) avremo bisogno di un tempo ancora più lungo per giungere alle relazioni segrete delle immagini che ci si of-frono al posto del mondo stesso.

Non abbiamo altra immagine del mondo che quella del linguaggio; non sappiamo nulla del mondo, né per noi stessi né per comunicarlo ad altri, se non ciò che si lascia dire in una qualche lingua umana. Una lingua propria, una sorta di lingua sovrumana, la natura non ce l’ha, la natura è muta, solo l’uomo può dire qualcosa su di sé e sulla natura, sul mondo.

Già anni fa, nel mio Wörterbuch der Philosophie, ho tentato di mo-strare, brevemente e in modo per me insoddisfacente, che vi sono tre diversi punti di vista per raggiungere un’immagine dell’unico mon-do, che noi ci disegnamo un’immagine aggettiva, una sostantiva e una verbale del mondo, ciascuna separata dall’altra. Ora voglio tentare la disamina delle condizioni e delle particolarità di queste tre immagini. Innanzi tutto voglio porre la questione – senza promettere di riuscire a dare una risposta univoca – se sarà mai possibile tradurre l’uno nell’al-tro i tre linguaggi nei quali queste tre immagini si formeranno davanti

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a noi; sovrapporre queste tre immagini in modo tale che ne possa sca-turire un’immagine unitaria e corretta di un unico mondo. Chiamerò di regola i tre punti di vista (3) le tre categorie della conoscenza del mondo, anche se non mi piace il gergo inutile degli eruditi; ho però motivi sufficienti per usare il concetto ingrigito di “categoria” nel suo significato originario. Ho imparato da Trendelenburg 1 che Aristotele – diciamo così – prese le mosse dal ricercare una tavola dei più alti concetti metafisici e, quando enunciò la sua tavola delle categorie, che ha avuto tanta influenza, trovò soltanto i concetti grammaticali fino allora sconosciuti. Anche l’uso logico delle categorie in Aristotele è, più di quanto egli supponesse, un’analisi della proposizione semplice; nota bene: della proposizione greca. Le categorie di Aristotele, al raf-finamento e al miglioramento delle quali hanno dedicato molta fatica le teste migliori fino a Kant, non sono niente di più e niente di meno che le più alte determinazioni concettuali che si possono esprimere come predicato di una qualche cosa. Che proprio Aristotele abbia scompaginato tutta intera la sua tavola con la sua prima categoria, che poi le casualità della grammatica greca abbiano provocato guasti ancora peggiori, questo va al di là del nostro discorso. Basta dire: kathgorei'n non significa in Aristotele assolutamente nulla di più che “asserire (aussagen)”, kathgorivai e kathgorhvmata (praedicamenta) nulla di più che “asserzioni (Aussagen)”, nel migliore dei casi “possibilità di asserzione”. (4) Naturalmente i Greci dell’epoca successiva, gli arabi e gli scolastici non avrebbero potuto mettere assieme intere biblioteche su questi semplici concetti, se dietro alle “asserzioni” non fosse stato nascosto ogni sorta di enigma della grammatica, della logica e dell’on-tologia: tutti gli enigmi del linguaggio appunto. “Categoria” divenne un terminus technicus – e rimase un’espressione tecnica – da quando la parola non significò più ogni asserzione possibile, ma solo l’asserzione predicativa di uno dei concetti più alti. In questo senso la “categoria” appartiene al più antico patrimonio linguistico della filosofia. Ora, poi-ché non mi aspetto nessun vantaggio per la conoscenza del mondo né dall’antica tavola delle categorie, né da una qualsiasi nuova tavola, né dalle categorie grammaticali, né da quelle logiche, poiché credo di aver smascherato l’influsso dannoso della grammatica e della logica, poiché inoltre un termine logorato viene reso quanto meno innocuo se gli si fa compiere un mutamento di significato e gli si toglie il significato logorato, per questo voglio chiamare le tre possibilità di asserzione, su cui si basano le tre sole possibili immagini del mondo, appunto le tre categorie. Alla fine della ricerca sapremo che anche in questo caso si tratta di scoperte o di invenzioni linguistiche, che le tre categorie, o punti di vista o possibilità di asserzione, (5) conducono all’esigenza di costituire per la comprensione del mondo aggettivo, di quello sostan-tivo e di quello verbale ogni volta un nuovo strumento, ogni volta una nuova lingua. Se fossi un purista della lingua, avrei certo potuto dire

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“asseribilità” (Aussäglichkeiten) al posto di “categorie”; ma nessuno protesterà sulla antica cattiva parola, mentre della nuova buona parola si sarebbe inorriditi.

Provvisoriamente voglio tentare di mostrare la differenza della mia nuova dottrina delle categorie da quella antica solo in un unico punto. Le antiche tavole delle categorie, per quanto fossero diverse tra loro, credevano alla possibilità di conoscere il mondo attraverso il linguaggio, credevano a una logica interna del linguaggio umano, credevano alla possibilità di penetrare con l’aiuto del linguaggio umano (hoministisch) la natura non umana. Singoli pensatori hanno ben riconosciuto che le lingue nazionali esistenti non corrispondono all’ideale di uno strumen-to di conoscenza; allora si sperò in una lingua filosofica che dovesse eliminare le mancanze delle lingue costituitesi storicamente; ma tutti i filosofi furono invero razionalisti proprio nella speranza di istituire, con lo strumento del linguaggio umano, che l’intelletto umano comune ha creato, un’immagine assolutamente simile al mondo. So bene di aver apportato ancora una volta un cambiamento di significato al termine “razionalismo” (6); proprio il critico del linguaggio peraltro viene biasi-mato o lodato per il dovere o il diritto di usare in modo un po’ diverso da quello tradizionale ogni concetto del suo linguaggio scientifico; del resto proprio la necessità di esaminare l’accordo di ogni parola traman-data con la cosa (con la lingua) dimostra a sua volta la necessità della critica del linguaggio. Razionalistica mi sembra allora ogni tipo di filo-sofia – sia che essa ritenga sé stessa teologica, idealistica, materialistica o critica – che non abbia abbandonato il pregiudizio di possedere nella lingua umana un’immagine della natura, di poter istituire mediante il linguaggio umano un’immagine della natura; il pregiudizio del linguag-gio può essere superato solo riconoscendo che parlare e pensare sono un’unica e identica attività dell’uomo e non che il linguaggio – come si suole dire – sia uno strumento del pensiero; riconoscendo che ragio-ne (ratio) e linguaggio sono concetti intercambiabili. Il seguace della critica del linguaggio non si stupirà allora che anche il pregiudizio religioso, ad esempio la fede nel migliore dei mondi, sia soltanto un caso particolare del pregiudizio generale del linguaggio; (7) si aggiunge semplicemente al dominio divino, che ha creato il mondo e l’uomo e il linguaggio, anche la pretesa, propriamente una pretesa etica, che il linguaggio, un qualsiasi linguaggio preso a caso e contingente, debba corrispondere alla natura, debba essere utilizzabile come un’immagine simile alla natura. […]

(11) La filosofia ingenua del linguaggio umano – è evidente – ha da sempre cercato di integrare i concetti sensistici o aggettivi con grosso-lane rappresentazioni sostantive e verbali; tutte le nostre lingue comuni formano in questo modo un miscuglio delle mie tre categorie o mondi; la lingua aggettiva comune pullula di sostantivi e di verbi. Ma anche le due uniche possibili concezioni del mondo, sovrasensibili e sovraag-

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gettive, hanno trovato già molto presto il loro unilaterale ritrattista, il mondo sostantivo in Platone, il mondo verbale, che avrà influenza solo molto più tardi, in Eraclito; non ho qui l’intenzione (12) di esporre la storia della filosofia e voglio limitarmi a stabilire una connessione tra ciascuna delle mie categorie e questi famosi sistemi, non per richia-marmi all’autorità di Platone o di Eraclito, ma soltanto per mettere in guardia dal pericolo della parzialità dell’immagine del mondo sostantiva e di quella verbale.

Platone – non importa sotto quali influssi – voleva inoltrarsi al di là delle percezioni sensibili, senza oggetto e irreali, inesistenti, verso la conoscenza dell’essere, e inventò il mondo sostantivo: le idee divennero per lui le immagini originarie delle cose del mondo sensibile, smasche-rate nel loro non essere. Ma per il fatto che queste idee erano allo stes-so tempo una sorta di causa delle singole cose percepibili sensibilmente, egli confuse di nuovo, certo senza accorgersene, il mondo sostantivo con quello verbale. Egli incorse già duemila anni prima nell’errore certo inevitabile che Kant avrebbe ripetuto nel fare della cosa in sé la causa del fenomeno; ma poiché questo smarrimento del platonismo non ebbe conseguenze negative e non ne poteva avere prima che ci si dedicasse alle nuove scienze della natura, mi limito a questo accenno. Più impor-tante e più istruttivo per il mio scopo può essere richiamare il fatto che il platonismo (13) venga a coincidere davvero proprio con l’idealismo, che attribuisce un essere solo alle idee e non alle cose sensibili, ma che anche l’opposto dell’idealismo, il realismo, imparentato con il sensismo, possa sorgere dall’idealismo, nel momento in cui vengono assunti vari livelli e gradi di idee, nel momento in cui alle specie e alle sottospecie e infine anche alle singole cose vengono assegnate, pressappoco come angeli custodi, idee particolari, nel momento in cui – e Platone come tutti i Greci non era uno spirito critico – a ogni concetto di genere, e con ciò a ogni cosa, proprietà e relazione possibili vengano ascritte idee particolari. Sembra che Platone stesso in tarda età abbia solennemente celebrato la propria dottrina delle idee e abbia voluto intendere come idee solo le idee portatrici di valore; alle sue riflessioni originarie si avvicina molto la distinzione tra idee e fenomeni, tra mondo sostantivo e mondo aggettivo, ma è anche molto vicino il pericolo di ravvisare in ogni singola cosa reale la copia di un’immagine originaria, l’ei[dwlon di un’idea.

Quanto anche Platone fosse lontano dal formulare coscientemente con la sua dottrina delle idee una delle tre possibili categorie della comprensione del mondo, di comprendere il mondo sostantivo come una delle tre immagini parziali del mondo, lo si capisce ancor più chia-ramente dal fatto che (14) nel Medioevo la grande contesa tra il rea-lismo della parola (da non confondere con il realismo gnoseologico o ingenuo appena citato) e il nominalismo potevano ricollegarsi alle idee o ai concetti-genere di Platone. So bene che l’intera disputa divenne

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così violenta dapprima per via delle ricerche linguistiche e logiche a cui posero mano Aristotele e i suoi seguaci e infine solo a causa delle coercizioni della teologia cristiana, ma la disputa ruotava pur sempre solo attorno alla domanda: le idee o concetti di genere hanno una più alta realtà o non hanno punto realtà?

All’interno della Scolastica i nominalisti – considerati dal punto di vista dello sviluppo spirituale umano – furono i sostenitori dell’illumi-nismo e furono precursori del moderno psicologismo e della critica del linguaggio, i realisti della parola furono i sostenitori di un sapere teolo-gico apparente, di un pregiudizio del sovrannaturale. Così ci siamo abi-tuati a considerare le parti in lotta, certo non del tutto a torto. Chi ora però prenda in considerazione la possibilità di dividere la comprensione del mondo nelle tre immagini parziali, per poi riunificarle laddove sia possibile, si pone un’aspettativa più alta persino di quella dello sviluppo spirituale umano, e non può prender partito unilateralmente né per i realisti della parola né per i nominalisti. (15) Ogni filosofia, fino a questa formulazione provvisoriamente ultima della domanda da parte della cri-tica del linguaggio, è, come si è detto, razionalismo o dipendenza dalla parola. Razionalisti nel senso dell’illuminismo erano naturalmente i no-minalisti, che riconobbero così presto i concetti di genere, e con ciò tutti i sostantivi, come prodotti del cervello umano; razionalisti, pressappoco nel senso di Hegel, erano però anche i realisti della parola che vollero ignorare i fenomeni del mondo sensibile o aggettivo e si costruirono al di là del mondo terreno un mondo sostantivo nel quale i concetti o le idee si muovevano secondo leggi proprie, noncuranti delle proprietà sensibili dei loro fenomeni corporei. Questi realisti della parola poterono ritenersi i veri discepoli di Platone, tanto più in buona coscienza perché l’assunzione di un mondo delle idee incorporeo era espressa nello stesso Platone in modo estremamente confuso; l’identificazione del mondo delle idee e del mondo dello spirito è un’aggiunta molto posteriore; il regno delle idee, almeno nella disposizione originaria, non comprende soltanto le idee più generali, più alte e portatrici di valore (del bello, del buono), ma anche le immagini originarie sostantive di ogni fenomeno, anche se esso sia brutto o volgare; il regno delle idee divenne allora il rifugio degli artisti o degli uomini pii che non volevano sporcarsi le mani con i fenomeni del mondo sensibile, (16) del mondo aggettivo. Un cristiano certamente Platone non lo era stato, ma un artista e un mistico lo fu. A questo proposito è di una certa importanza – e non vi è certo pericolo di sopravvalutarlo – il fatto che l’unico grande mistico tedesco, Meister Eckhart, l’ardente cercatore di Dio ed eretico, che ha fecondato con i suoi pensieri lo sviluppo spirituale della teologia e della filosofia, non fosse un illuminista, non un nominalista, ma un sostenitore del realismo della parola – come più tardi Wiclef e Hus – e in più un discepolo fedele del maestro dell’ordine, san Tommaso; per Meister Eckhart il mondo sostantivo era più vero del mondo aggettivo

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– anche se non lo espresse in questi termini –, la realtà ideale più vera della comune realtà corporea, la conoscenza era il vero essere, tanto che – non credo di giocare con la parola – persino la mistica più pura fu un segreto razionalismo. Infatti i realisti della parola non potevano considerare il loro mondo sostantivo come una delle tre immagini che a pari diritto rappresentano il mondo, perché nella loro litigiosa limi-tatezza lo consideravano come il mondo più bello e più vero; perché persino Meister Eckhart vide nella “natura naturata”, quella che cade sotto i sensi o aggettiva, quasi uno scarto della “natura innaturata”, del più alto sostantivo, dell’unico essere, di Dio. (17) Lo ripeto: non ho sco-modato Platone per cucire una vecchia toppa su un vestito nuovo, ma davvero per mostrare, accostando la mia categora sostantiva alla dottrina sorprendentemente longeva delle idee, come persino questo maestro di un mondo apparentemente sostantivo non pensasse di presentare la sua inaudita concezione del mondo come una semplice immagine del mondo o come un’immagine accanto ad altre due immagini del mondo dello stesso valore, egualmente simili ed egualmente dissimili. […]

Dappertutto tre mondi. L’attore(166) Egli è un artista. Si è calato per settimane in un ruolo. E ora

si trasforma tutte le volte che sta sul palcoscenico, dalle sette alle dieci: egli dà ciò che è più profondo, egli è il meglio. Un povero diavolo, quando non è un dio creatore. Inavvicinabile. Uno spirito libero.

Anche se è un dio, nelle pause e – scorno e cruccio! – anche in momenti di lavoro disturbanti e disturbati, uno schiavo senza libertà. Schiavo della plebe e della sua professione. Gli batteranno le mani? A lui più che agli altri? O meno? Gli verrà dato il suggerimento come lo può aspettare? Funziona il trucco come lo voleva lui? Non si nota che si finge più giovane di quello che è? Più giovane? Secondo quale calendario?

È un pover’uomo. Dopo le dieci. Quando arriva a casa. Dai suoi cari o dalla moglie invecchiata o dai bambini pieni di pretese. Conti. Fatture. Fame. Anche sete. Torna allora a casa? Oppure è il suo ruolo la sua casa? Oppure è la scena la sua casa?

Quale di questi mondi è il suo vero mondo?

Epilogo(167) Mi restano ancora da cercare alcune povere parole a proposito

di una nostalgia che non può essere un compito, a proposito di un desiderio che non posso né mettere in dubbio né credere di soddisfa-re, a proposito dell’istanza di unire in una le tre immagini del mondo. Nessuna delle tre immagini può essere giusta, perché ciascuna è gravata dalla maledizione del suo specifico linguaggio figurato; forse l’unificazio-ne non sarà possibile, perché un’unificazione dei tre linguaggi – almeno finora – non è stata altrimenti possibile che in una delle nostre lingue

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comuni, che appunto sono ancora più inadeguate alla conoscenza del mondo rispetto ai linguaggi parziali, da me pensati nello spirito, delle tre sole possibili visioni del mondo. Un paragone potrebbe aiutarmi a chiarire l’incapacità del pensiero umano ad affrontare un tale ultimo compito. Si è tentato di inventare fotografie con i cosiddetti colori na-turali. Si sono assunti con straodinaria arroganza tre colori fondamen-tali, dalla mescolanza dei quali si deve poter ricavare qualsiasi colore dell’esperienza; poi con l’aiuto di filtri colorati si sono realizzate tre di-verse fotografie dello stesso oggetto, ciascuna per ognuno dei tre colori fondamentali; e infine si è cercato di ottenere, sovrapponendo le tre im-magini parziali, i colori naturali. Il risultato fu grazioso e sorprendente; tuttavia non si può parlare seriamente di fotografie in colori naturali. In primo luogo questi signori devono riconoscere spontaneamente di non poter utilizzare nella colorazione nel processo di stampa i colori puri fondamentali dello spettro, ma solo i colori sporchi dei corpi chimici. Ma l’errore proprio del procedimento sta ancora più a fondo: anche i filtri colorati che vengono usati per le immagini parziali sono scelti a seconda del senso accidentale del colore di determinati uomini e non assicurano in nessun modo che le immagini parziali corrispondano ai colori fondamentali ideati. Non ho bisogno di spiegare che parimenti i filtri dell’intelletto umano non sono sufficientemente sovrumani per formare in una precisa selezione uno dei tre linguaggi parziali e che dunque una sovrapposizione dei tre linguaggi figurati non potrebbe produrre un’immagine naturale unitaria dell’unico mondo.

Nell’impulso invincibile di ritornare al di là della divisione neces-saria delle tre immagini al loro congiungimento, all’unica immagine dell’unico mondo, in un momento favorevole mi sembrò percorribile un’altra via (169), la cui descrizione, per la breve durata del momento favorevole, non sembrò un semplice paragone. Quello che io cercai di comprendere in un faticoso lavoro intellettuale, la spaccatura delle categorie umane e la loro ripartizione nei tre linguaggi delle tre imma-gini del mondo sole possibili, questo prima non lo ha visto o avvertito nessuna ricerca conoscitiva, mentre da sempre è stato gioiosamente praticato dagli artisti. Voglio subito ammettere che le tre arti, che ora voglio porre in relazione con le mie tre categorie, sono scelte con un certo arbitrio, non si distinguono con un rigore così esclusivo e non si completano come le tre categorie. Ma il confronto può non essere inutile.

Dappertutto dove regna l’arte vera – forse essa stessa ideale irrag-giungibile al quale i più grandi possono solo avvicinarsi – un genio comprende l’unico mondo senza concetti, senza linguaggio. Forse anche nel vero pensiero – della cosiddetta filosofia – ci sono tali ore solen-ni del comprendere senza parole. Ore mattutine del risveglio, quando improvvisamente cade il velo del giorno e in una notte chiara come il giorno è aperto l’accesso al segreto dell’Uno-tutto. L’accesso si chiude

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di nuovo appena il ricercatore tenta il primo passo sulla via intravista. Il chiarore si oscura di nuovo appena egli apre gli occhi. (170) La com-prensione si disgrega appena egli vuole incantarla per sé o per altri in concetti o parole.

L’Uno-tutto era annodato soltanto nell’io silente; alle prime parole ad alta voce precipita ogni unità, anche quella dell’io. Niente si lascia più dire.

1 [Adolf Trendelenburg, Geschichte der Kategorienlehre, Bethge, Berlin 1846, p. 2 ss.]

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Indice dei nomi

Aarsleff, H., 64.Abel, G., 62.Adelung, J. C., 124, 128.Agrippa von Nettesheim, H. C., 59,

60.Albertazzi, L., 45, 61.Alighieri, D., 15, 140.Amicone, A P., 67.Andreas-Salomé, L., 9.Ansell-Pearson, K. J., 61.Arens, K., 27, 46, 47, 52, 61, 62.Aristofane, 132, 134, 137, 159.Aristotele, 29, 34-36, 38, 39, 53- 55,

59, 62, 71, 104, 108-110, 125, 128, 148, 152, 157, 162, 165.

Arnaud, E., 64.Avellaneda, A. F. de, 137.Avenarius, R., 11, 38, 47, 62, 123.

Bab, J., 46.Bach, J. S., 141, 146.Bachelard, G., 62.Bachmann, J., 65.Bachmann M., 65.Bacone, F., 108, 149.Bahr, H., 63.Baldung Grien, H., 54Baldwin, J. M., 118.Barth, P., 62.Barthes, R., 62.Batteux, C., 145.Baumgarten, A. G., 142-144, 159.Bayle, P., 29.Beckett, S., 14, 48, 69, 72.Beer-Hofman, R., 9.Beethoven, L. van, 147.Behler, E., 62.Benincà, P., 62.Ben-Zvi, L., 14, 48, 62, 63.

Beradt, M., 63 .Bergson, H., 44, 47, 56, 63, 72.Berkeley, G., 19, 30, 102, 122.Berlage, A., 63.Berlin, I., 63.Bertinetto, P. M., 67.Betz, F., 46, 63.Biese, A., 34-38, 54, 63, 108.Bismarck, O. von, 46, 51.Black, M., 63.Blackmore, J., 63.Bloch-Zavfřel, L., 63.Blumenberg, H., 63.Boezio, S., 29.Bohnen, K., 69.Bois-Reymond, E. du, 27.Bolzano, B., 68.Bongioanni, A., 69.Borges, J. L., 14, 31, 48, 63, 65.Bornmann, F., 71.Brahm, O., 45.Brandes, G., 53.Bréal, M., 22, 63, 119, 141.Bredeck, E., 13, 15, 49, 63, 64.Breitinger, J. J., 142.Brentano, F., 61.Briosi, S., 64.Broch, H., 64.Bruchmann, K., 34, 38, 55, 64.Buber, M., 11.Bülfinger, G. B., 142.Buridano, G., 151.Burke, E., 145, 146.

Cambi, F., 56, 64.Cantelli, M., 64.Carchia, G., 56, 64.Carpitella, M., 71.Carus, P., 28.

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Cassirer, E., 64.Castagnoli Manghi, A., 160.Castellani, E., 66.Cervantes, M. de, 137.Cicero, V., 69.Cicerone, M. T., 29.Cleone, 159.Cloeren, H., 52, 64.Coletti Grünbaum, H., 160.Colli, G., 71, 159, 160.Conte, A. G., 74.Cossmann, P. N., 64.Crizia, 55.Croce, B., 56, 64, 66.Cubeddu, I., 67.

D’Amico, M. G., 69.D’Angelo, P., 64.D’Elia, A., 51, 64.D’Olivet, P. J. T., 135.Dapìa, S. G., 48, 65.Darwin, C., 95, 141.Darwin E., 141.De Lorenzo, G., 72.De Man, P., 65.De Marchi, C., 160.Deft, A., 46, 65.Delbrück, B., 50.Della Volpe, G., 54, 65.Demostene, 97.Deridda, J., 65.Descartes, R., 13, 47, 148.Di Cesare, D., 50, 65, 67.Distaso, L. 159.Dorati, M., 62.Dryden, J., 133-135, 159.

Eckermann, J. P.,159.Eckhart, J., 165, 166.Eco, U., 48, 65.Ehrenberg, J., 9.Eisen, W., 65.Eisendle, H., 65.Eisler, R., 118.Elisabetta di Boemia, 47.Emanuele, P., 69.Empedocle, 35.Eraclito, 10, 32, 86, 164.Eschenbacher, W., 65.Euclide, 125.

Fabbri, P. 62.

Fano, V., 73.Fechner, G. T., 24.Fichte, J. G., 138.Fidia, 140.Filangieri, G., 49.Fontane, T., 7, 9, 45, 46, 63, 65, 68,

160.Forberg, F. K., 32.Formigari, L., 20, 50, 65, 67.France, A, 44.Franceschetti, L., 45.Franzini, E., 65.Freud, S., 66.Fuchs, G., 65.Füzesi, N., 65.

Gabriel, G., 66.Galton, F., 28.Gardini, N., 63.Gargani, A., 51, 52, 66, 70.Garroni, E., 66, 67.Geiger, L., 28, 52, 66.Gellert, J. C., 152.Genette, G., 66.Gerber, G., 20, 34, 37, 38, 50, 54, 55,

66, 70, 73.Gessinger, J., 64.Giacomini, U., 67.Gigliotti, G., 66.Giovanni, ev.,13, 149.Giustino, M. G., 124.Gloy, K., 65.Goethe, J. W. von, 19, 39, 43, 47, 49,

66, 90, 93, 107, 120, 128, 139, 140, 145, 149, 159, 160.

Goldwasser, J., 45, 46, 66.Gombocz, W. L., 74.Gorgia, 55.Gottsched, J. C., 142, 152.Graf, O. M., 9.Graffi, G., 51, 66.Grampa, G., 72.Grillparzer, F., 150, 160.Grimm, 90, 120, 130.Gruppe, O. F. , 60.Grzybowski, W., 66.Guerra, A., 67, 159.Guglielmi, G., 66.Guglielmino, S., 71.Guglielmo II, 46.Gustafsson, L.,66.Guzzardi, L., 70.

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Haller, R., 49, 51, 52, 66, 74.Hamann, J. G., 13, 17, 19, 20, 47, 49,

50, 63, 66, 67, 70, 97, 108, 116.Hanslick, E., 147, 159, 160.Harden, M., 9, 46.Härting, P., 60.Hauptmann, G., 9.Haydn, J., 137, 138.Hecker, E., 140.Hegel, G. W. F., 56, 66, 90, 136, 165.Hegeler, E. C., 28.Heine, H, 52.Helmholtz, H. von, 51.Henne, H., 67.Henry, A., 67.Herbart, J. F., 23, 33, 51, 148.Herder, J. G., 19, 20, 49, 67, 73, 97.Hering, E., 52.Herzog W., 69.Hesse, H., 9.Hiller, K., 9.Hirsch, R., 67.Hobbes, T., 148.Hofmannsthal, H. von, 13, 26, 47,

67.Hogarth, W., 146.Hohenegger, H., 67.Home, H., 145.Humboldt, W. von, 17, 20, 21, 50, 65,

67.Hume, D., 19, 123, 151, 156.Husserl, E., 30, 118, 149.

Ibsen, H., 46, 150, 160.Irmscher, H. D., 67.

Jacobi, F. H., 13, 47.Jacobs, M., 60.James, W., 30.Janik, A, 67.Johnson, A. B., 66.Johnson, B., 134, 135.Johnson, M., 68.Johnston, W., 67.Jolly, J., 116.Joyce, J., 14, 48, 69.Jung, J., 65.

Kaiser, C., 67, 69.Kaisersberg, J. G. von, 125.Kampits, P., 67.

Kant, I, 19, 20, 24, 30, 32, 42, 47, 49, 53, 55, 56, 67, 74, 100, 122, 124, 130, 143-146, 149, 156, 159, 162, 164.

Kappstein, T., 68.Kierkegaard, T., 72.Kleist, H. von, 13, 47.Knobloch, C., 68.Koegel, F., 38.Kofman, S., 39, 55, 68.Körner, C. G., 144, 145.Kraus, K., 73.Krieg, M., 68.Kühn, J., 11, 14, 45-47, 53, 55, 56,

68.Kühtmann, A., 68.Kurzreiter, M., 68.Küsgen, F. L., 68.Kutter, U., 68.

Laas, E., 32, 53.Lacoue-Labarthe, P., 68, 71.Lagrange, J. L., 51.Lakoff, G., 68.Landauer, G., 9, 12, 46, 61, 68.Lange, F. A, 32, 61, 72.Lanza, D., 62.Lasker-Schüler, E., 9.Le Rider, J., 45, 68.Leibniz, G., 50, 86, 124, 125.Leinfellner, E., 62, 64, 66, 68, 69, 71-

74.Leonardo, 141.Lernout, G., 48, 69.Lessing, G. E., 39, 43, 44, 57, 69, 82,

103, 104, 134, 135, 159.Levisohn A., 8.Levisohn C., 47.Lichtenberg, G. C., 26, 27, 51, 52,

69.Liede, A., 69.Lindau, H., 69.Littré, E., 125.Lo Piparo, F., 69.Locke, J., 13, 17, 18, 47, 49, 50, 69,

102, 107.Lofrida, M., 65.Longobardi, G., 62.Lorusso, A. M., 65, 69, 70.Lucentini, F., 63.Luciano, 52.Ludwig, O., 51.

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Lüktenhaus, L., 20, 47, 50, 61, 69, 116.

Lutero, M., 39, 47, 116, 119, 130, 152, 160.

Macchia R., 63.Mach, E., 10, 14, 24-29, 31, 32, 47,

49, 51, 52, 60, 62-64, 66, 69, 70, 73, 121-123.

Maeterlink, M., 16.Magris, C., 47, 67, 70.Maimon, S., 46, 53, 110, 116.Manetti, G., 70.Marco, ev.,130.Marienberg, S., 49, 70.Marinelli, M. C., 68.Marmo, C., 65.Martone, A., 63, 159.Masini, F., 160.Mastroddi, M., 45, 70.McGuiness, B., 74.Meijers, A., 55, 70.Meinong, A., 48.Melandri, E., 63.Mendelssohn, M.,145.Mengs, A, R., 145.Merckels, W. von, 49.Meschiari, A., 70.Mill, J. S., 119.Miller, N., 72.Mittner, L., 40, 50, 70.Mommsen, T., 9.Mongré (Hausdorf F.), 70.Montanari, F., 62.Montefusco Calboli, L., 70.Montinari, M., 71, 160.Morgenstern, C., 14, 47, 160.Morpurgo Davies, A., 50, 51, 70.Morpurgo-Tagliabue, G., 35, 36, 39,

54, 55, 70.Mortara Garavelli, B., 70.Mosse, R., 8.Moszkowski, A., 115.Mozart, W. A., 146.Mühsam, E., 9.Müller M., 70, 85, 107, 116.Müller-Lauter, W., 62, 71.Musil, R., 26.

Nancy, J.-L., 71.Nautz, J., 68, 71.Nehrlich, B., 71.

Nietzsche, F., 10, 24, 32, 38, 39, 46, 51, 55, 61- 63, 65- 68, 70-73, 149-152, 160.

Noiré, L., 28, 52, 71.Novalis, 159.Nyíri, J. C., 68.

Ogden, C. K., 71.Omero, 93, 140, 141.Oppenheimer, F., 9.

Pagliaro, A, 71.Pascal, B., 125, 159.Paul, H., 10, 20, 22, 23, 50, 51, 56, 71,

72, 114, 116, 119, 130.Pautrat, B., 71.Pavolini, L., 71.Perissinotto, L., 71.Pestalozzi, K., 71.Pinotti, A., 71, 74.Pirandello, L., 56, 71, 72.Pizer, J., 71.Placido, B., 63, 72.Platone, 24, 32, 46, 93, 97, 164, 165.Plauto, T. M., 47.Pniower, O., 65.Poincaré, H., 44.Porfirio, 18.Proust, M., 65.Pupi, A., 67, 71.

Quintiliano, M. F., 19, 107.

Raffaello Sanzio, 140, 146.Rahden, W. von, 64.Rapp, C., 62.Rathenau, W., 9.Ravy, G., 45, 71.Reale, A., 71, 72.Reinhold, K. L., 124, 143.Rembrandt, 146.Richards, I. A., 71, 72.Richter, J. P., 40-44, 55, 56, 64, 72,

108, 116, 132, 136, 138, 159.Richter R., 151, 160.Ricoeur, P., 54, 72.Rilke, R. M., 65.Robertson, R., 45, 72.Rossi, D., 64.Rousseau, J.-J., 65.

Saccone, E., 65.

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Salaquarda, J., 62, 72.Santulli, F., 72.Sauerland, K., 66.Savj-Lopez, P., 72.Scherer, W., 141.Schiller, F., 128, 144-146, 159, 160.Schlegel, F., 41, 56, 133, 139.Schleichert, H., 64, 66, 68, 69, 72, 74.Schlenther, P., 65.Schmidt, J., 30, 60.Schneider, G., 46, 72.Schoeller, B., 67.Schopenhauer, A., 10, 24, 52, 72, 137,

146, 149.Schulte, J., 74.Serzisko, F., 72.Shakespeare, W., 44, 109, 133, 136,

137, 140.Silvestri Stevan, G., 62.Skeat, W. W., 141, 159.Skerl, J., 48, 72.Socrate, 10, 137, 138, 159.Sofocle, 140.Sosio, L., 70.Spedicato, E., 42, 56, 72.Spencer, H., 22, 149.Spinicci, P., 72.Spinoza, B., 46, 59, 60, 63, 81, 100,

116.Spitzer, L., 73.Spörl, U., 47, 55, 56, 73.Stadler, F., 49, 51, 52, 66.Steinthal, H., 21, 32, 50, 51.Stern, M., 47, 60, 73.Sterne, L., 136.Stettenheim, J., 115.Stingelin, M., 55, 70.Straub, H., 11, 12, 46, 47, 60, 69.Stumpf, C., 29, 52, 73.Sulzer, J. G., 145.Swift, J., 44, 136-138.

Tani, I., 49, 50, 67, 73.Tavani, E., 56, 73, 74.Thalken, M., 73.Thiele, J., 69, 73.

Thunecke, J., 46, 62, 63, 66, 68, 69, 71- 73.

Tommaso, 148, 165.Toulmin, S., 67.Trendelenburg, F. A, 31, 162, 168.Trotta, G., 73.Tylor, E. B., 26.

Ullman, B., 73.Untersteiner, M., 55, 73.

Vahrenkamp, R., 68, 69, 71.Vaihinger, H., 11, 32, 33, 53, 73.Vasoli, C., 72.Venturelli, A., 72.Verdino, A., 62.Vertone, S., 64.Vico, G., 13, 17-19, 47, 49, 70, 107,

108.Vidari, G., 67, 159.Vidusso Feriani, M., 67.Violi, P., 68.Virchow, R., 95.Vischer, F. T., 37, 43, 44, 56, 73, 74,

104, 109, 116, 132, 136, 159.Vogelweide, W. von, 82.Voltaggio, F., 73.Voltaire, 44, 52, 125, 135.

Wagner, R., 147.Walch, J. G., 142, 1159.Weber, W. E., 49.Weiler, G., 14, 17, 46, 47, 49, 74.Weininger, O., 26.Whitney, W. D., 85, 116.Wiener, O., 14, 48, 74.Winckelmann, J. J., 145.Windelband, W., 143.Wittgenstein, L., 13, 14, 25, 52, 67, 68,

70, 71, 74.Wolff, C., 120, 124.Wolters, G., 70.Wundt, W., 51, 108, 120.

Zecchi, L., 66.Ziehen, G. T., 130.

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1 Breitinger e l’estetica dell’Illuminismo tedesco, di S. Tedesco2 Il corpo dello stile: Storia dell’arte come storia dell’estetica a partire da Semper,

Riegl, Wölfflin, di A. Pinotti3 Georges Bataille e l’estetica del male, di M. B. Ponti4 L’altro sapere: Bello, Arte, Immagine in Leon Battista Alberti, di E. Di Stefano5 Tre saggi di estetica, di E. Migliorini6 L’estetica di Baumgarten, di S. Tedesco7 Le forme dell’apparire: Estetica, ermeneutica ed umanesimo nel pensiero di Ernesto

Grassi, di R. Messori8 Gian Vincenzo Gravina e l’estetica del delirio, di R. Lo Bianco9 La nuova estetica italiana, a cura di L. Russo10 Husserl e l’immagine, di C. Calì11 Il Gusto nell’estetica del Settecento, di G. Morpurgo-Tagliabue12 Arte e Idea: Francisco de Hollanda e l’estetica del Cinquecento, di E. Di Stefano13 Pœta quasi creator: Estetica e poesia in Mathias Casimir Sarbiewski, di A. Li Vigni14 Rudolf Arnheim: Arte e percezione visiva, a cura di L. Pizzo Russo15 Jean-Bapiste Du Bos e l’estetica dello spettatore, a cura di L. Russo16 Il metodo e la storia, di S. Tedesco17 Implexe, fare, vedere: L’estetica nei Cahiers di Paul Valéry, di E. Crescimanno18 Arte ed estetica in Nelson Goodman, di L. Marchetti19 Attraverso l’immagine: In ricordo di Cesare Brandi, a cura di L. Russo20 Prima dell’età dell’arte: Hans Belting e l’immagine medievale, di L. Vargiu21 Esperienza estetica: A partire da John Dewey, a cura di L. Russo22 La maledizione della parola, di F. Mauthner

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SupplementaCollana editoriale del Centro Internazionale Studi di EsteticaPresso il Dipartimento fieri dell’Università degli Studi di PalermoViale delle Scienze, Edificio 12, I-90128 PalermoFono +39 91 6560274 – Fax +39 91 6560287E-Mail <[email protected]> – Web Address <http://unipa.it/~estetica>Progetto Grafico di Ino Chisesi & Associati, MilanoStampato in Palermo dalla Tipolitografia Luxograph s.r.l.Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868Associato all’Unione Stampa Periodica Italianaissn 0393-8522Direttore responsabile Luigi Russo

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The Curse of the Word

Fritz Mauthner was a German-speaking Jewish-Bohemian writer and eccentric intellectual active in Berlin between the end of the nineteenth and the beginning of the twentieth century. His cri-tique of language is based on the assumption that the word as such is a metaphor, a transposition of definite terms on indefinite impressions, and that it is enclosed within an image that can only refer to other images. This skeptical conclusion finds confirmation through a comparison with a variety of traditions of thought.This volume by Luisa Bertolini ([email protected]) presents, for the first time in Italian translation, a wide selection of Mauthner’s work, and reconstructs Mauthner’s sustained critical dialogue with authors who have theorised the metaphorical character of lan-guage. Mauthner’s thesis brings together a variety of philosophical approaches: Vico’s narration of the origins, the empiricist critique of abstraction, Herder’s and Hamman’s metacritique of reason, von Humboldt’s and Steinthal’s dynamic interpretation of Kant’s a priori, Hermann Paul’s research on semantic change, Ernst Mach’s functionalist conception of the “I” and the “thing” and his theory of the concept as a system of operations, as well as Vaihinger’s philosophy of pretence.Mauthner’s reading of Aristotle’s theory of metaphor through Biese and Bruchmann, and in ways that parallel the approach of Gerber and Nietzsche, enables a close examination of the met-aphor based on analogy and of the metaphor-image, while his analysis of verbal metaphors (according to Morpurgo-Tagliabue’s classification) intersects with Jean Paul Richter’s and Theodor Vischer’s. The verbal metaphor is pivotal to Mauthner’s thesis that semantic change is essentially based on Witz, on the wit that dis-closes remote similarities. The critique of language expresses itself in the humour of the philosopher, who is amused by everything that is held sacred in daily life but also knows that he belongs to this daily life without heroes. His expressionist style of writing reflects, in the circularity of an approach that never grasps the object in question, his asystematic thought and relativistic results. It does not come as a surprise, then, that Mauthner’s fame is greater among writers (for example, Joyce and Borges, to mention just two) than among philosophers. The exception is Wittgenstein, who, notwithstanding his quotation in Tractatus, ends up articulat-ing a critique of language quite akin to Mauthner’s.

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