LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il...

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Capitolo primo LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione Il lavoro degli uomini ha sempre rappresentato in ogni epoca e ambiente un’esigenza imprescindibile per la vita sociale, in quanto è strumento indispensabile per il soddisfacimento dei bisogni vitali. Pertanto fin dall’epoca più remota si è avvertita la necessità di riconoscere il giusto valore del lavoro come fattore essenziale di vita e civiltà e di tutelarlo in tutte le sue possibili manifestazioni. Difatti la Carta Costituzionale del 1948 pone il lavoro come “fondamento della Repubblica democratica” (art.1) e successivamente stabilisce che “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il Diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto” (art. 4). Ma è soprattutto il titolo III dedicato ai rapporti economici che circoscrive meglio la garanzia accordata dalla normativa costituzionale al lavoro: la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed 1

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Capitolo primo

LA LIBERTA’ SINDACALE

A) Le fonti

1. La Costituzione

Il lavoro degli uomini ha sempre rappresentato in ogni epoca e

ambiente un’esigenza imprescindibile per la vita sociale, in quanto è

strumento indispensabile per il soddisfacimento dei bisogni vitali.

Pertanto fin dall’epoca più remota si è avvertita la necessità di

riconoscere il giusto valore del lavoro come fattore essenziale di vita

e civiltà e di tutelarlo in tutte le sue possibili manifestazioni.

Difatti la Carta Costituzionale del 1948 pone il lavoro come

“fondamento della Repubblica democratica” (art.1) e

successivamente stabilisce che “la Repubblica riconosce a tutti i

cittadini il Diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono

effettivo questo diritto” (art. 4).

Ma è soprattutto il titolo III dedicato ai rapporti economici che

circoscrive meglio la garanzia accordata dalla normativa

costituzionale al lavoro: la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed

1

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applicazioni (art. 35), il diritto alla giusta retribuzione (art. 36), il

diritto della donna di ottenere parità di condizioni di trattamento

rispetto all’uomo (art. 37) ed, infine, il principio di 1libertà di

organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art.

40).

Quindi si può notare come nel nostro ordinamento democratico, la

possibilità di adoperarsi per la tutela degli interessi concernenti il

mondo del lavoro è attribuita direttamente ai soggetti protagonisti, i

lavoratori, ai quali è riconosciuta la facoltà di coalizzarsi per meglio

difendere i propri diritti nell’esercizio della propria autonomia.

Questo principio si pone in netta contrapposizione con il sistema di

stampo corporativo delineato in epoca fascista, il quale, prevedendo

l’inquadramento delle organizzazioni sindacali nello Stato e

sottoponendolo ad un penetrante controllo, esautorava i soggetti

interessati al conflitto da una concreta e attiva partecipazione.

La legge Rocco del 1926 che regolava la materia sindacale,

prevedeva in primo luogo il riconoscimento giuridico del sindacato a

cui era attribuita la rappresentanza legale della categoria di

riferimento, a condizione che il sindacato raggruppasse almeno il

1 Renato Scognamiglio in “ADL - Argomenti Diritto del Lavoro” – Fascicolo 3^ 2005, Pagg. 667-683

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10%2 della categoria di riferimento e che fosse diretto da uomini “di

sicura fede nazionale”, il che rappresentava una linea di continuità

con l’ideologia del regime.

Tale riconoscimento comportava la possibilità di penetranti controlli

statali nell’attività e nell’organizzazione del sindacato.

Inoltre, in virtù della rappresentanza legale accordata ai sindacati, i

contratti collettivi stipulati da queste organizzazioni erano

obbligatori, quindi valevano come leggi nell’ambito della categoria di

appartenenza.

Si può vedere come la legge Rocco riconosceva la libertà sindacale,

nel senso che poteva esserci una pluralità di associazioni, ma in

realtà si trattava di una libertà fittizia a causa dei limiti derivanti dal

controllo del governo.

Oggi, invece, proprio in ragione del primo comma dell’art. 39 della

Costituzione “l’organizzazione sindacale è libera”, il diritto di

organizzarsi liberamente è concepito come un diritto soggettivo

pubblico di libertà, soprattutto nei confronti dello Stato; al quale è

3inibita la possibilità di compiere atti che possano ledere l’interesse

tutelato.

2 Giuseppe Pera in “Dallo Stato corporativo alla libertà sindacale” di Lauralba Bellardi, Facoltà di Giurisprudenza Università La Sapienza, Roma 2000, Pagg. 13-153 Gino Giugni “Libertà Sindacale” in Digesto Discipline Privatistiche Sezione Commerciale, Utet 1993, Pagg. 19-21

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Alcuni autori definiscono la libertà sindacale anche come libertà

civile cioè, come possibilità per i soggetti privati di ricavarsi una

sfera di autonomia rispetto alla quale lo Stato deve astenersi o tutt’al

più garantire la legalità nell’autoregolamento degli interessi.

Va aggiunto, però, che per il suo contenuto e per le sue implicazioni,

tale libertà può anche essere definita come “libertà politica”, poiché

rappresenta la pretesa alla partecipazione e alla formazione

dell’organizzazione e all’attività dello Stato attraverso l’azione dei

sindacati, come è possibile notare dalle leggi sulla composizione del

Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, e sulla

composizione degli organi collegiali direttivi degli enti previdenziali

e sulla partecipazione dei sindacati agli organi regionali per la

programmazione economica.

2. Le Fonti Internazionali

Ma le garanzie giuridiche della libertà sindacale non si

esauriscono nella Costituzione, dato che è possibile scorgere anche

nelle fonti 4internazionali un cospicuo interesse riservato al principio

della libertà sindacale.

Infatti le Convenzioni n.87 e n. 98 dell’Organizzazione

Internazionale del Lavoro trattano la materia della libertà sindacale

4 Giuseppe Pera “Libertà Sindacale” in Enciclopedia del Diritto - Milano 1974, Pagg.523-526

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sotto due diversi profili. La Convenzione n. 87 approvata nella 31^

sessione nel 1948 è intitolata alla “Libertà Sindacale” mentre la

Convenzione n. 98 approvata nella sessione successiva della

conferenza generale dell’O.I.L. del 1949 è intitolata al “Diritto di

organizzazione e contrattazione collettiva”.

Da una prima analisi della Convenzione n. 87 si può desumere la

piena libertà di lavoratori e datori di lavoro di costituire senza

autorizzazione preventiva da parte dello Stato organizzazioni

sindacali e di aderire alle stesse (art.1), nonché la garanzia che le

organizzazioni di datori o lavoratori siano escluse da provvedimenti

amministrativi di scioglimento o sospensione (art.2).

Viene poi ribadito il principio di necessaria astensione della autorità

pubblica da qualsiasi forma di intervento che possa limitare o

impedire l’esercizio della libertà sindacale (art.3) e nell’articolo

successivo il contenuto della libertà sindacale è precisato nel diritto

delle organizzazioni di elaborare propri statuti, di eleggere i propri

rappresentanti, di organizzare il proprio programma d’azione.

A differenza della Convenzione n. 87 che si occupa della libertà

sindacale rapportandola allo Stato, nella Convenzione n. 98 il

principio della libertà sindacale è visto dalla prospettiva dei rapporti

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intersoggettivi, poiché le forme più evidenti di violazioni della libertà

sindacale si verificano nel rapporto concreto tra lavoratore e datore,

quindi la Convenzione stabilisce che i lavoratori godono di una

adeguata protezione contro qualsiasi atto discriminatorio compiuto

dai datori di lavoro.

Sempre in ambito europeo si può ricordare la “Convenzione per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” del

1950 e ratificata dall’Italia nel 1955, dove è fatto obbligo per gli Stati

firmatari di garantire il diritto di associazione sindacale o ancora la

“Carta sociale europea” del 1961 e ratificata nel 1965 in cui viene

riconosciuto il diritto alla contrattazione collettiva e del diritto di

autotutela, in cui è compreso per la prima volta in una convenzione

internazionale il diritto di sciopero, cosi come sarà affermato

successivamente dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali

e culturali elaborato in ambito ONU nel 1966.

A tutela della libertà affermata, le Convenzioni prevedono dei

meccanismi di controllo: in ambito O.I.L. la Commissione di

investigazione e controllo e il Comitato sulla libertà sindacale,

mentre per la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, è previsto

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un procedimento che pone al suo vertice la Corte europea dei diritti

dell’uomo.

Tuttavia permane il problema della scarsa effettività delle norme

Internazionali, in quanto sono prive di sanzioni effettive o volte solo

ad invalidare atti o negozi compiuti con finalità discriminatorie.

3. La normativa europea

Diversa è, invece, l’incidenza della normativa europea, la quale

essendo caratterizzata dalla recezione immediata nell’ordinamento

interno, garantisce posizioni giuridiche dei singoli individui tutelabili

dinanzi ai giudici nazionali.

Purtroppo bisogna riconoscere che in questa specifica materia la

normativa appare piuttosto generica: l’art. 138. 1. del trattato di Nizza

del 2000 ha affidato alla commissione delle comunità “ il compito di

promuovere la consultazione delle parti sociali a livello comunitario e

prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un

sostegno equilibrato delle parti ”.

Inoltre l’art. 137 al paragrafo 3 stabilisce che il Consiglio su proposta

della Commissione e previa consultazione del Parlamento Europeo

delibera all’unanimità su materie come la sicurezza sociale e la

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protezione dei lavoratori sia sociale che in caso di risoluzione di

contratto di lavoro, ecc.; ma al punto 6 esclude la competenza del

Consiglio per quanto riguarda il diritto di associazione e di sciopero

oltre che per altre materie.

Con la “Carta dei diritti fondamentali” sottoscritta dagli Stati membri

a Nizza nel 2000, ma priva di immediata valore giuridico, è stata

riconosciuta la libertà sindacale (art. 12) ma solo come semplice

libertà di associazione, perché la norma utilizza il termine sindacale

(punto 14) solo ai fini esplicativi ma mira a tutelare la libertà di

associazione in genere.

4. L’art. 14 dello Statuto dei Lavoratori

Nella normativa dell’ordinamento italiano il più “grosso

sostegno” all’affermazione della libertà sindacale è stata la legge

300/70 definita Statuto dei lavoratori.

Nel titolo II che si occupa delle garanzie giuridiche a difesa

dell’esistenza del sindacato, viene sicuramente in rilievo l’art. 14, il

quale afferma espressamente il diritto per tutti i lavoratori di

costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività

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sindacale, aggiungendo un elemento in più, cioè “all’interno dei

luoghi di lavoro”.

Con tale affermazione il legislatore intende ribadire il concetto già

espresso in sede costituzionale, ma soprattutto ne definisce la portata

specificando l’effettività della libertà soprattutto nei confronti del

datore di lavoro; si tratta dell’attività sindacale che si esercita senza la

cooperazione del datore di lavoro e senza l’imposizione di particolari

obblighi se non quelli stabiliti dalla legge.

Ma non significa che l’attività sindacale possa svolgersi in assenza di

normativa legislativa o contrattuale, perché altrimenti si porrebbe in

conflitto con l’esecuzione delle obbligazioni contrattuali.

In ottemperanza agli obblighi derivanti dalla Convenzione O.I.L.n.

98, l’art.17 dello Statuto prevede l’espresso divieto della Costituzione

dei “sindacati di comodo” o “gialli” in quanto costituiscono un modo

per comprimere la genuinità della libertà sindacale.

L’articolo fa riferimento ad una serie complessa di comportamenti

come il finanziamento o il particolare favoreggiamento di un

determinato sindacato, i quali non sono di facile valutazione da parte

di un giudice ma che in sostanza minacciano di inficiare il rapporto

datore / sindacato.

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Purtroppo, però, va notato come in caso di accertamento della

violazione il giudice non potrà ordinare lo scioglimento

dell’associazione, ma solo vietare il comportamento accomodante del

datore di lavoro.

Alla luce di quanto detto fin’ora, si può con serenità affermare che la

libertà sindacale è considerata un diritto a tutti gli effetti, tanto su un

piano internazionale quanto su quello nazionale; inoltre è circondato

da un apparato di garanzie che potremmo definire relativamente

sufficiente in campo internazionale a causa della mancanza di

sanzioni effettive.

Anche a livello comunitario non c’è stato un grandissimo

avanzamento: se consideriamo la Carta dei diritti fondamentali di

Nizza possiamo scorgere nulla più che una dichiarazione, quando

invece ben altro valore avrebbe se fosse stata accettata la proposta di

integrarla nei trattati.

Tuttavia un segnale di positività va riscontrato nella previsione del

trattato dell’istituzione del Comitato economico e sociale e della

possibilità di instaurare un dialogo tra le parti sociali a livello

comunitario, che può anche condurre a relazioni contrattuali,

compresi gli accordi.

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In conclusione va aggiunto che secondo parte della dottrina,

l’esclusione della competenza comunitaria sulla libertà sindacale

sarebbe indice di una cattiva attuazione del principio di sussidarietà,

nel senso che è stato ritenuto sufficiente il riconoscimento della

libertà accordato dagli ordinamenti degli Stati membri.

B) L’art. 39 della Costituzione

1. Il confronto con l’art. 18 della Costituzione

Focalizzando l’attenzione sul “nostro” art. 39 della Costituzione,

in particolare il I° comma, possiamo scorgere immediatamente la

possibilità di un confronto con l’art. 18 della Costituzione, che

garantisce la generica libertà di associazione, ma per fini non vietati

ai singoli dalla legge penale.

Difatti una parte della dottrina ritiene la libertà del cittadino di far

parte o meno di un’associazione sindacale, una specificazione della

generica libertà d’associazione di cui all’art.18.

Mentre una dottrina contrastante, da un’analisi effettuata sul

linguaggio utilizzato, cioè il termine “organizzazione” in luogo di

“associazione” rileverebbe una estensione del concetto tale da

ricomprendere al suo interno anche forme organizzative diverse da

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quella associativa ma comunque sindacale dal punto di vista

funzionale, come le rappresentanze sindacali unitarie.

Inoltre la stessa dottrina evidenzia come la Costituzione sottoponga la

libertà d’associazione ad alcuni limiti riguardo a metodi e fini, a

differenza del fine sindacale che invece è espressamente descritto

come lecito e quindi costituzionalmente protetto.5

Ma superato questo dibattito bisogna porre l’accento sulla portata del

termine “organizzazione”, perché questo termine racchiude in sé il

vero significato del termine sindacato: la Costituzione ha auspicato

che si creasse una spontanea coalizione degli interessi di un

determinato gruppo con la contemporanea sottrazione a singoli

dell’azione individuale, finalizzata alla soddisfazione dell’interesse

stesso, che sarebbe pregiudicata se lasciata alla contrattazione

individuale.

Tuttavia bisogna riconoscere che titolare del diritto in questione non

è solo la pluralità dei soggetti, ma anche il singolo qualora l’attività

da questo svolta sia funzionale ad una coalizione presenta o futura.

Si può notare come venga in rilievo l’attività posta in essere

dall’organizzazione come se si trattasse di due enti distinti.

5 G. Chiarelli “L’organizzazione sindacale nella Costituzione e nella legge futura” - Dir.Lav. 1998, Pag. 374

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Quindi all’attività sindacale deve essere assegnata, sicuramente una

priorità logica e sistematica nella ricostruzione della fattispecie

sindacale.

Da ciò è possibile affermare che l’ art. 39 contiene in sé anche6

l’enunciazione della libertà dell’azione sindacale, comportando la

giustificazione di determinati tipi di azioni sindacali, nonché la

legittimazione di fenomeni di aggregazione dei lavoratori, diversi

dalla forma associativa, ma comunque definibili sindacali in virtù

della qualificazione dell’attività che esercitano.

Quanto all’aggettivo “sindacale” tradizionalmente la dottrina ricorre

a “nozioni d’esperienza” e lo descrive in termini teolologici o

strutturali.

Secondo l’accezione teolologica è possibile definire come sindacale

“un atto o un’attività diretta all’autotutela di interessi connessi a

relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro”, mentre

secondo il profilo strutturale viene in rilievo anche un’aggregazione

di soggetti, che giustificherebbe la visione di chi interpreta il

fenomeno sindacale come coinvolgente una pluralità di soggetti.

2. La parziale attuazione dell’art. 396 Stefania Scarponi “Rappresentatività e organizzazione sindacale” Padova Cedam 2005, Pagg. 18-24

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Continuando l’analisi dell’art.39, si può sicuramente notare una

sorta di spaccatura ideologica tra il I° comma e i commi successivi, i

quali prevedono che ai sindacati sia imposto l’obbligo della

registrazione; che condizione unica e necessaria perché ciò avvenga è

la democraticità degli statuti (III° comma). Conseguenza della

registrazione è l’acquisto della personalità giuridica, la quale

permette di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia “erga

omnes” per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto

si riferisce (IV° comma).

Tale soluzione fu il frutto del compromesso tra le due fazioni

politiche della Democrazia Cristiana e dei due partiti di sinistra

(P.S.I. e P.C.), i quali al contempo volevano salvare l’impianto di

stampo corporativo, mentre dall’altra parte volevano eliminare ogni

impronta eteronoma dalla compagine sindacale.

La soluzione realizzata dalla Costituzione permetteva l’affermazione

del primato della libertà sindacale, ma allo stesso tempo anche un

minimo intervento statale (la registrazione del sindacato) mediante il

quale, il sindacato avrebbe potuto porre in essere contratti con

validità generale, quindi avente valore di legge.

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Tuttavia a questi commi dell’art. 39 non è mai stata data attuazione,

perché è mancato l’intervento della legislazione ordinaria in tal

senso, se vogliamo escludere il disegno di legge elaborato dal

Ministro del Lavoro, l’On. Rubinacci nel 1951.

Tale progetto giungeva a stabilire un controllo sull’effettività

dell’ordinamento democratico prevedendo addirittura un potere di

revoca delle registrazioni da parte del Ministro qualora l’associazione

registrata avesse commesso “gravi e reiterate violazioni delle norme

statutari tali da menomare l’ordinamento democratico.”

Probabilmente la configurazione del potere in capo al Governo di

revocare la registrazione in base a criteri di non facile interpretazione,

ha spinto i sindacati a rifiutare tale progetto, anche per la necessità di

creare un muro divisorio tra il precedente sistema corporativo,

soggetto ad un penetrante controllo statale, e il nuovo sistema

improntato ad un regime di libertà ad ampio raggio.

Infatti una parte della dottrina, nello studio delle cause della mancata

attuazione della seconda parte dell’art. 39, ha definito il timore del

binomio registrazione = controllo statale, come una delle cause

cosiddette “contingenti”. Sarebbe ricompressa tra queste, anche la

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difficoltà tecnica e politica di verificare effettivamente il numero

degli scritti ai fini delle rappresentanze unitarie.

Infine bisogna ricordare anche che l’opposizione della CISL, dopo la

scissione sindacale del 1948 ebbe una sua importanza.

L’opposizione era causata dalla posizione minoritaria in cui versava

tale sindacato, il quale nel procedimento di contrattazione sarebbe

stato sicuramente più debole nei confronti della C.G.I.L.

Non meno importante fu il cambiamento della dottrina nei confronti

del contratto collettivo erga omnes e della personalità giuridica come

capisaldi dei diritti sindacali.

Tra queste cause che sono definite “storiche”, va annoverato anche, a

partire dagli anni ‘60, l’affermarsi del cosiddetto “sindacalismo di

fatto” dotato di potere contrattuale e politico. 7

In conseguenza della carenza di una legge che meglio specificasse i

contenuti dell’aspetto costituzionale, tuttavia, bisognava ricorrere ad

altri criteri che regolassero il processo di contrattazione.

C) Il problema della rappresentatività

1. Dal sindacato “maggiormente rappresentativo” al sindacato

“comparativamente più rappresentativo”

7 Gino Giugni “Commento sub art. 39 Costituzione” in Commentario della Costituzione di G. Branca, Bologna-Roma 1979, Pagg. 257-260

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L’art. 39 (IV°comma) fa riferimento alle rappresentanze

sindacali unitarie (“….possono, rappresentati unitariamente in

proporzione dei propri iscritti, stipulare contratti collettivi di

lavoro…..per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto

si riferisce”), cioè ad organismi giuridici distinti dai sindacati, pur

facendo parte di essi, attraverso i quali è possibile giungere alla

stipulazione dei contratti collettivi.

Tali rappresentanze sindacali aziendali, secondo l’art. 39 dello

Statuto, dovevano essere costituite ad iniziativa dei lavoratori

nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni

maggiormente rappresentative sul piano nazionale e implicavano un

giudizio di rappresentatività cosiddetta “storica”, perché la storia del

sindacalismo italiano pone alle sua fondamenta la confederazioni.

Le rappresentanze potevano anche essere istituite nell’ambito delle

associazioni firmatarie di contratti collettivi o provinciali di lavoro

applicati nell’area produttiva, in questo caso il legislatore si riferisce

ad un criterio prettamente tecnico che fa riferimento al concetto di

“categoria”.

Da questo enunciato generico la dottrina aveva poi cercato di

individuare degli indici di massima, che nel caso concreto

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individuassero la “maggiore rappresentatività”: la consistenza

numerica degli iscritti, la contemporanea ed equilibrata presenza del

sindacato in un ampio arco di settori produttivi, la presenza su tutto il

territorio nazionale nonché lo svolgimento continuo e sistematico di

attività di contrattazione o genericamente di autotutela.

L’art. 19 dello Statuto è stato ritenuto in contrasto con l’art. 39 I°

comma Costituzione, perché con il suo metodo selettivo

discriminerebbe i sindacati più deboli a vantaggio di quelli

rappresentativi, con la conseguenza di rendere vano il principio di

pluralismo e libertà sindacale, nonché quello di uguaglianza.

D’altra parte, secondo un’opinione diversa, l’art. 19 avrebbe carattere

definitorio, quindi non impedirebbe il diritto di costituire associazioni

o di parteciparvi; al contrario pone dei requisiti di massima che le

organizzazioni devono possedere per accedere ai quei particolari

benefici di cui al titolo III dello Statuto, che richiedono la

collaborazione del datore di lavoro.

Nel 1995 l’art.19 è stato oggetto di due referendum abrogativi, che

sono stati il risultato della crisi del concetto di maggiore

rappresentatività dovuto soprattutto alla frammentazione dei

lavoratori in gruppi spesso in conflitto tra loro, che hanno portato alla

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nascita di organizzazioni sindacali autonome. I due referendum

hanno portato al risultato che tutt’ora il titolo III dello Statuto trova

applicazioni per le rappresentanze costitutive nell’ambito di sindacati

che abbiano stipulato contratti.

Perciò è evidente che la legge promuove l’attività di sindacati che

abbiano già stipulato un contratto, ma non è in grado di agevolare

quelle sigle che ancora non siano firmatarie di contratti.

In ultimo il legislatore ha introdotto il concetto di “sindacato

comparativamente più rappresentativo”: cioè il contratto collettivo

stipulato da sindacati comparativamente più rappresentativi è assunto

dalla legge come produttivo di effetti giuridici da questa determinati.

Ma permane un limite: la comparazione, cioè la misurazione tra tutti i

sindacati che in astratto avrebbero titolo a partecipare alle trattative, è

compiuta sulla base degli indici tradizionali già individuati.

Se la rappresentatività comparata comporta il vantaggio di

rappresentare in maniera più efficiente gli interessi di categoria,8

d’altra parte pone un rischio di un particolarismo professionale tale

da frammentare il sindacato in settori sempre più ristrettivi e specifici

il quale potrebbe essere evitato con una comparazione a livello

nazionale.8 Alessia Muratario “A volte ritornano: l’annoso problema della mancata attuazione dell’art. 39 Cost.” in Il lavoro nella giurisprudenza, Fasc. 11, 2005, Pagg. 1062-1070

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Nel frattempo bisogna però prendere atto di tutto il complesso delle

proteste, che oggi sono guidate dalle sigle autonome e dai nuovi

organismi di base, che possiamo definire come nuovi soggetti

operanti nel microcosmo sindacale, i quali muovono grandi masse di

lavoratori e si oppongono al sistema con la protesta diretta.

Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, credo, che bisognerebbe

bilanciare il principio di pluralismo e libertà sindacale, che comunque

è un principio cardine del nostro ordinamento democratico, con la

necessità impellente di impedire la disgregazione in atto del nostro

sistema sindacale, tradizionalmente a base confederativa, magari con

l’intervento di una legge che ponga la certezza necessaria che è

mancata durante gli ultimi cinquant’anni.

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Capitolo secondo

STORIA DEL SINDACATO

1. Cenni storici: la Rivoluzione Industriale

L’evento che ha stravolto l’assetto produttivo preesistente non

solo in Italia, ma in tutta l’Europa è stato la rivoluzione industriale

che vide i suoi albori in Inghilterra.

Tale avvenimento, modificando radicalmente la coscienza dei

lavoratori, ha dato l’avvio alla nascita di quel fenomeno

associazionistico che diventerà poi il “sindacato”.

Durante la prima metà del 1700 l’Inghilterra aveva una

struttura produttiva caratterizzata prevalentemente dall’agricoltura,

dall’artigianato e dal commercio. Dallo sfruttamento della terra si

ricavavano i mezzi di sostentamento e con l’artigianato si

trasformavano le materie prime in prodotti finiti mediante l’utilizzo

di tecniche tradizionali tramandate da padre in figlio all’interno della

“bottega”. Ma è grazie al commercio che l’Inghilterra, anche con

l’ausilio della sua imponente flotta, pose le fondamenta per una

radicale trasformazione.

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Infatti, dalla seconda metà del 1700 si verifica un mutamento della

struttura produttiva che partendo da un più razionale sfruttamento

della terra, giunge sino ad un diverso modo di intendere il lavoro

artigianale perché nel ciclo produttivo si inserisce il più potente

mezzo mai creato: la macchina.

A partire da questo momento e per tutto l’800 cambiano la quantità e

la qualità dei prodotti industriali ed agricoli, i modi di produzione ma

soprattutto mutano radicalmente le condizioni di vita della maggior

parte della popolazione.

Si assiste al fenomeno dell’esodo dalle campagne per dar vita

all’inurbamento; i mestieri tradizionali come l’artigianato perdono

gradualmente la loro ragione d’esistere, per confluire nell’industria

in qualità di manodopera specializzata; infine i commercianti, a causa

della disponibilità economica e dello spiccato senso del rischio

assumono il ruolo di “imprenditori”.

Il processo di industrializzazione così innescato provoca, come

conseguenza immediata, una situazione di totale dipendenza del

lavoratore dal suo “datore” di lavoro, la quale rende incerta la

situazione occupazionale, perché vincolata all’andamento del

mercato soprattutto nei primi tempi. Senza contare che la concorrenza

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tra i lavoratori, soprattutto nei periodi di scarsa richiesta di

manodopera, provoca come effetto la discesa dei salari a livelli molto

bassi.

Sotto un profilo più strettamente umano si verificano fenomeni come

l’aumento degli infortuni sul posto di lavoro, come anche la

questione relativa alla durata dei turni di lavoro (16 ore giornaliere)

ed a quella non meno importante dell’utilizzo indiscriminato di donne

e bambini anche in lavori pesanti e notturni.

Il concatenarsi di queste situazioni crea il terreno fertile per la nascita

di quel fenomeno associativo che è il sindacato: nei lavoratori, cioè,

nasce la consapevolezza di trovarsi in una situazione di disagio la

quale sviluppa uno spirito di “solidarietà” e la convinzione di poter

porre un freno al potere incondizionato del datore di lavoro.

Non bisogna dimenticare, tuttavia, che il periodo storico in cui nasce

e si sviluppa il sindacato, o per lo meno la sua forma embrionale, è

caratterizzato dalla diffusione dell’ideologia liberale che sotto il

profilo economico auspicava un equilibrio tra forze economiche

basato sul libero gioco della domanda e dell’offerta.

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Mentre sotto un profilo più squisitamente politico si esaltano i diritti

individuali di libertà e si ritiene illegittima ogni attività esterna volta

a ridimensionare le conseguenza del libero arbitrio.

Appare, perciò, evidente che il sindacato al momento della sua

nascita trova una situazione politico-economica molto controversa:

da un lato l’affermarsi dell’ideologia liberale rende illegittimo e

limitativo della libertà individuale del datore di lavoro lo sforzo

dell’associazione sindacale di ottenere condizioni uguali per tutti i

lavoratori di una determinata categoria; dall’altra parte non si può

non menzionare la situazione di totale estraneità del lavoratore delle

dinamiche politiche, in quanto non esisteva il diritto di voto in capo a

questi soggetti.

2. Le funzioni del sindacato

La panoramica storico-sociale fin qui esposta “giustifica” e

chiarisce meglio il significato dell’art. 1 di quella famosa legge “Le

Chapelier”9 votata dalla Francia rivoluzionaria del 1791 “Essendo

l’abolizione di ogni tipo di corporazione dei cittadini di uguale ceto e

mestiere una delle basi fondamentali della costituzione francese, è

9 Gian Primo Cella “Il Sindacato” Editore Laterza, Roma-Bari, 2004 Pag. 1

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vietato ricostruirle di fatto, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivo

ciò avvenga”.

In linea di continuità si pongono anche i “Combination Acts”: si

tratta di leggi introdotte in Inghilterra tra il 1799 e il 1800, le quali

riproducono il divieto di costituzione del sindacato e giustificano

l’attività repressiva dell’intervento statale, soprattutto nei confronti

dell’unica arma vincente a disposizione di lavoratori: lo sciopero.

I Combination Acts condannavano a tre mesi di prigione oppure a

due mesi di lavoro duro, ogni lavoratore che si associava ad altri per

ottenere un aumento di paga o una diminuzione di orario, o che

incitava ad abbandonare il lavoro, o che si opponeva a lavorare con

qualsiasi altro lavoratore.

Con il sindacato si afferma perciò “la cittadinanza del lavoro”,

usando un’espressione di Gian Primo Cella, prima ancora che le

costituzioni democratiche ne creino i contorni.

L’associazione sindacale si pone in linea di rottura con le concezioni

individualistiche dell’epoca, proprio perché la realtà, il substrato di

cui si compone è il “gruppo” o la “massa” dei lavoratori; è il prodotto

inaspettato dell’applicazione della legge della domanda e dell’offerta;

è la reazione o la risposta ad un potere incondizionato da parte della

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cosiddetta ”forza lavoro” che era considerata una merce,

inizialmente.

Perciò la funzione primaria del sindacato è sicuramente protettiva; fin

dagli albori una delle sue funzioni è stata quella di protezione del

lavoro in generale e di “porre l’andamento dei salari e delle

condizioni di erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza fra i

lavoratori e tra i datori di lavoro”.

La protezione del lavoratore è realizzata mediante la rappresentanza e

la ricostruzione di una classe sociale che nell’impatto con la

Rivoluzione Industriale aveva perso la sua identità e la certezza del

suo status d’appartenenza. Il compito del sindacato è stato anche

quello di risvegliare le masse dal torpore dell’indigenza e della

confusione, facendo acquisire loro la consapevolezza dell’importanza

di essere parte del sistema produttivo.

Ma la particolarità di questo fenomeno sta nell’essersi creato un suo

spazio preciso tra il lavoratore/cittadino e lo Stato ponendosi come

quel ponte che agli albori del XIX secolo mancava, nonché

nell’essersi occupato degli aspetti più concreti e quotidiani della

realtà del lavoratore, senza sistemi teorici elaborati, riproducendo la

concretezza di quella categoria variegata che è il mondo lavorativo.

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Ciò si evince anche da una famosa affermazione di Simone Weil:10

“…è un movimento popolare, misterioso e..singolare…; ha i suoi

eroi, i suoi martiri e persino i suoi santi, in gran parte sconosciuti…”

Sottolinea come il sindacato sia nato da un’esigenza di protezione del

diritto a vivere una vita dignitosa, principio che in seguito verrà

affermato in tutte le carte costituzionali europee.

Quindi, è come se l’essenza stessa del sindacato, cioè la funzione di

protezione di una delle forme del diritto alla vita, giustifica la sua

esistenza, tanto da divenire in seguito un perno necessario e

fondamentale nell’andamento delle economie di ogni paese.

Difatti il sindacato trarrà la sua piena affermazione in seguito,

nell’epoca dello sviluppo della società pluralista in cui finalmente

troverà la sua giusta collocazione nell’ambito delle relazioni

industriali, in cui il termine “industry” di origine inglese sta ad

indicare tutti i settori dell’attività economica.

Anche John Commons e Selig Perlman appartenenti alla scuola di

pensiero del Wisconsin affermano che la struttura economico sociale

è pluralista; è una struttura che nella risoluzione dei conflitti utilizza

non l’imposizione autoritaria ma il “collective bargaining” 11, cioè la

contrattazione collettiva.10 D. Canciani “Simone Weil. Il coraggio di pensare” – Edizioni Laterza Roma 196611 Selig Perlman “Teoria dell’azione sindacale” Edizioni Lavoro Roma, 1980, Pagg, 14-16

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Nella visione di Perlman12 la contrattazione collettiva non è solo un

mezzo che permette di raggiungere lo scopo dell’elevazione dei salari

e del miglioramento delle condizioni di lavoro, ma anche e

soprattutto il più importante strumento per le classi inferiori di

ottenere sempre più l’allargamento della partecipazione al potere

sociale, come anche il miglioramento delle condizioni di vita e di

libertà.

Commons13 considera, invece, la contrattazione collettiva come

strumento per l’elevazione delle classi lavoratrici caratterizzato da

concretezza e pragmaticità, finalizzato allo scopo di stabilire una

condizione di parità delle classi, in cui ognuno possa ottenere la

propria sfera di sovranità nel rispetto degli interessi morali e materiali

dei suoi membri.

Nonostante abbia menzionato pensatori appartenenti ad una

generazione precedente, vissuti in un contesto storico come quello

del New Deal “roosveltiano”, appare evidente come la logica

sottostante all’azione dei sindacati delle varie esperienze nazionali,

abbia una piattaforma comune: l’interazione del sindacato con gli

12 Selig Perlman “The principle of collective burgaining” in “The Annals of the American Academy of Politic and Social Science” – marzo 193613 J.R.Commons “The economics of collective Action” New York , 1950, Pag. 114

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altri centri del potere, in primo luogo quello statale e quello

imprenditoriale.

Secondo la tripartizione di Sidney e Beatrice Webb14 l’azione

sindacale si dividerebbe in: regolamentazione unilaterale,

contrattazione collettiva ed iniziativa legislativa su pressione

sindacale; tuttavia nell’avanzamento delle relazioni industriali si è

assistito ad un ridimensionamento della barriera che separa la

contrattazione dall’iniziativa legislativa su pressione sindacale.

Soprattutto nell’esperienza italiana, si può parlare di “leggi

contrattate”, perché scaturite dalla pratica della concertazione e dal

coinvolgimento dei sindacati nell’elaborazione e nella gestione delle

politiche economico-sociali.

Tuttavia un simile risultato non si comprenderebbe se non si facesse

accenno alla storia del movimento operaio italiano, caratterizzato

dalla priorità dell’organizzazione politica su quella sindacale.

3. L’esperienza italiana

A causa del tardo sviluppo industriale, l’Italia non ha vissuto un

passaggio graduale dall’artigianato all’industria meccanizzata, in cui

si è affermata in tutti gli stati europei la base delle forme di

14 G. Berta “Democrazia Industriale” Ediesse Roma, 1984

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solidarietà operaia, cioè quella di mestiere, a causa della richiesta di

manodopera altamente qualificata.

Infatti quando agli inizi del ‘900 comincia il processo di

industrializzazione del settentrione, si assiste già al processo di

degradazione delle qualifiche a causa dell’introduzione della

macchina. In secondo luogo il sindacato italiano, alla sua nascita si è

trovato di fronte al problema urgente di “risolvere” la questione

occupazionale, ponendo così in secondo piano l’obiettivo del

miglioramento delle condizioni di lavoro e della protezione delle

categorie specializzate.

Non meno importante è stata la composizione singolare della classe

lavoratrice italiana. Nel 1906, anno in cui si costituì la C.G.I.L.

“Confederazione Generale Italiana del Lavoro” vi era una forte

predominanza della popolazione agricola rispetto a quella addetta

all’industria ed ai servizi.

Questa caratteristica ha influenzato notevolmente lo sviluppo futuro

del movimento del lavoro, soprattutto a causa della stretta dipendenza

dal partito (socialista), che ha determinato una debolezza di fondo del

movimento.

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Tuttavia non si può dimenticare che proprio dal movimento di lotta

agricolo nascono le leghe contadine, che manifestano una eccellente

capacità di lottare per ottenere migliori tariffe, contratti e capitolati

per l’introduzione di nuovi rapporti di lavoro e di conduzione.

Basti pensare che l’Italia nel primo dopoguerra era l’unico paese ad

avere una rete completa di contratti collettivi nell’agricoltura.

Ma la debolezza del sistema sindacale in Italia si farà viva anche in

altri periodi storici non molto lontani: infatti, se si prende in

considerazione il periodo del 1968, indubbiamente si nota il forte

momento di crisi, che poi ha attraversato l’Italia dal punto di vista

sindacale-lavorativo. Sicuramente la divisione sindacale su linee

ideologiche, come anche l’accentramento contrattuale ed

organizzativo sono state solo alcune delle cause di crisi.15

E’ importante ricordare che i sindacati in Italia non si configurano

come associazioni capaci di fornire benefici e vantaggi in capo ai

propri iscritti; non esiste, come nel sindacato britannico, l’istituto del

“closed shop”, quindi gli accordi raggiunti dai sindacati valgono

tanto per gli iscritti, quanto per i non iscritti, in ossequio alla

tradizione comunista-socialista.

15 A.Pizzorno “Conflitti in Europa – Lotte di classe, sindacati e Stato dopo il ‘68” Ethos Libri, Milano 1977, Pagg. 45-50

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E’ evidente che ciò vada a discapito dei tassi di sindacalizzazione,

che nel periodo in questione erano, molto bassi.

Nel quadro storico così delineato, lo Stato ha avuto un ruolo

formalmente neutrale. La politica della “non ingerenza” è in parte

conseguenza della mancata applicazione dei famosi artt. 39 e 40 della

Costituzione e lascia in sospeso la questione della regolamentazione

dei sindacati e dello sciopero.

Lo scarsissimo grado di formalizzazione del sistema costituisce una

delle caratteristiche del sistema di relazioni industriali italiano, e

diverrà uno dei fattori che porterà al mutamento.

Nel ciclo di lotte dal 1960 al 1963 il sindacato non riesce a

raggiungere a pieno i suoi obiettivi, a causa anche del fallimento del

tentativo di penetrare nelle aziende, attraverso la costituzione delle

sezioni sindacali. La ragione è attribuibile al livello estremamente

basso della sindacalizzazione, la quale è alla base del disinteresse dei

lavoratori nei confronti di uno sforzo innovativo che riguarda gli

iscritti e non offre immediatamente alcun vantaggio economico o di

altro genere.

A ciò va aggiunto che, gli stessi sindacati esitano ad affidare a tali

organismi funzioni diverse da quelle organizzative, mentre la parte

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datoriale non ha alcun interesse ad appoggiare organismi poco

rappresentativi dei lavoratori e sostenuti con scarsa convinzione dai

sindacati stessi.

La differenza, quindi, tra il primo ciclo di lotte del 1960-63 e quello

che nasce a partire dal 1968 è costituita da una nuova variabile: la

domanda diffusa, anche se generica, di partecipazione e di controllo

sull’operato dei sindacati da parte dei lavoratori che scendono in

lotta.

Infatti, uno dei risultati principali dei mutamenti indotti dai conflitti,

sarà proprio l’acquisizione di una nuova forma di rappresentanza dei

lavoratori nei luoghi di lavoro.

Essa nasce, non tanto come capacità di penetrazione

dell’organizzazione sindacale dall’esterno nelle fabbriche, quanto

piuttosto come capacità di accogliere e rispondere ad una domanda di

base.

Ma è dopo la metà del 1969 che la diffusione delle lotte aziendali

raggiunge il proprio apice, coinvolgendo anche nuovi strati di operai

con scarsa tradizione sindacale.

Una delle questioni più dibattute è l’istituzione della figura dei

delegati all’interno dei luoghi di lavoro, vista da alcuni come “un

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primo nucleo di potere consiliare”, da altri invece come “un mero

elemento di democratizzazione e di potenziamento del sindacato”.

Non manca anche chi, intravede in questa figura la nascita di

un’autorganizzazione operaia, autonoma dal sindacato, cioè di un

“movimento di delegati”.

Sul volantino distribuito in una fabbrica della Fiat nel giugno 1969 si

poteva leggere: “il delegato operaio è l’operaio più cosciente del

gruppo in cui lavora, che gode della fiducia di tutti i suoi compagni di

lavoro. Non è né preposto né nominato da nessuna organizzazione

esterna alla fabbrica ….è responsabile solo nei confronti degli operai

e di nessun’altro. Deve poter trattare con tutta la gerarchia della

fabbrica…… il suo compito non deve essere quello di trasmettere

alla Commissione Interna i problemi, ma di trattarli fino in fondo. La

sua funzione, inoltre, non deve essere limitata a controllare un solo

aspetto della condizione di lavoro: il delegato operaio deve poter

trattare col padrone tutti i problemi che il collettivo operaio ha.”16

Quindi le federazioni di categoria più coinvolte nella contestazione di

base, come i metalmeccanici, riescono in occasione della

mobilitazione generale per il rinnovo contrattuale a riprendere

l’iniziativa con due nuove proposte, che otterranno un’ampio

16 Citazione in “Classe”, 1970, n. 2, Pag. 247

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consenso: la consultazione della base per la definizione di alcuni

obiettivi della piattaforma contrattuale e la promozione nelle

fabbriche di comitati di attivisti dei reparti, che guidino le lotte in

collegamento con le commissioni interne.

Tale iniziativa offre all’organizzazione sindacale un duplice

vantaggio: da una parte recupera la fiducia degli operai e l’adesione

degli attivisti nuovi, in quelle situazioni in cui la sua credibilità era

apparsa compromessa; d’altra parte permette di generalizzare una

presa e un contatto diretto in molte aziende, in cui non era ancora

giunto il movimento di lotta.

Lo strumento, utilizzato per la riabilitazione dell’organizzazione

sindacale, è stato senza dubbio l’uso dell’assemblea in fabbrica:

finalmente il sindacato infrange il divieto delle direzioni aziendali ad

entrare in fabbrica, quindi i sindacalisti entrano attraverso la porta

principale nella struttura lavorativa, accolti con entusiasmo dagli

operai.

L’assemblea è il luogo per eccellenza del potere operaio, dove

svaniscono le differenze di affiliazione sindacale e si supera il

confine tra iscritti e non, grazie ad una identità comune di interessi.

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Una volta acquisito il diritto di assemblea in fabbrica ed il

riconoscimento di un dato numero di rappresentanti sindacali suoi

luoghi di lavoro, il passo successivo è quello di conciliare la presenza

dei cosiddetti “delegati d’autunno”, i quali godono di un forte

appoggio degli operai perché rappresentano il gruppo di lavoro che li

ha eletti, con i rappresentanti sindacali, i quali invece rappresentano il

sindacato dinanzi alla direzione aziendale e sono in numero

nettamente inferiore ai delegati eletti nell’ ”autunno” del 1969.

Si crea una situazione di iniziale titubanza dei sindacati minoritari,

che temono di non essere sufficientemente rappresentati, in seguito

all’elezioni informali di “autunno” in cui era risultata potenziata la

C.G.I.L. Inoltre la stessa C.G.I.L. teme che si crei un organismo

molto fluido e poco legato all’organizzazione. D’altra parte, a favore

dei delegati, si schierano i teorici della sinistra sindacale e quelle

fazioni del sindacato che hanno come immediato obiettivo quello del

rinnovamento organizzativo totale.

Nell’ottica di questi soggetti i delegati rappresentano la via per la

costruzione di un sindacato nuovo, unitario, costruito a partire

dall’appoggio della base.

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Un teorico della sinistra sindacale ha così definito il delegato: “E’

espressione del gruppo operaio, omogeneo, cioè corrisponde

all’organizzazione del padrone, rovesciata.” 17

Nonostante numerosi dubbi, le categorie industriali sindacalmente

più forti decidono di portare avanti la sperimentazione delle strutture

di base e cominciano ad affrontare, a livello di fabbrica, i molti

problemi che ne derivano, come le garanzie di tutela dei sindacati

minoritari, le strategie nei confronti delle direzioni aziendali che non

intendono riconoscere i delegati o ancora la necessità di costituire

un’ambito istituzionale per la definizione ed il coordinamento della

politica sindacale in fabbrica.

Sicuramente tra le cause che hanno spinto il sindacato a continuare

l’esperienza dei delegati c’è un forte entusiasmo di base sfruttato ai

fini del processo di riunificazione sindacale. Si verifica un aumento

delle iscrizioni, la penetrazione nelle piccole e medie aziende in tutto

il territorio nazionale, nonché l’estensione della presa dei sindacati in

settori, come quello del pubblico impiego, dov’era più diffuso il

sindacalismo autonomo.

E’ interessante notare come l’aumento delle iscrizioni non sia

direttamente proporzionale all’importanza della base ideologica del 17 S. Garavini “Strutture dell’autonomia operaia sul luogo di lavoro” in Quaderni di Rassegna Sindacale, 1969, numero 24, Pag. 21

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sindacato; in secondo luogo come vi sia una omogeneizzazione dei

livelli di sindacalizzazione, sia tra zone geografiche sia tra aziende di

diverse dimensioni.

Un’altra causa che ha dato la spinta all’esperienza dei delegati, è stata

la consapevolezza delle federazioni di categoria più dinamiche che

l’unico modo di affrontare il problema dell’esistenza di attivisti

operai, in una fase di forte espansione del sindacato, sia quella di dar

loro cittadinanza nel nucleo dell’organizzazione, accogliendoli come

strutture di base del sindacato nuovo dilatando al massimo

l’accezione di rappresentanti sindacali.

Nel biennio 1970-1971 le tre confederazioni dei metalmeccanici

(CGIL – CISL – UIL) “istituzionalizzano” la scelta dei consigli di

fabbrica e decidono l’eliminazione delle strutture precedenti; fissano

i compiti, funzioni e modalità di elezione delle nuove strutture. Come

conseguenza, questa scelta comporta lo sforzo di far accettare tali

strutture alle controparti datoriali, come soggetti abilitati alla

contrattazione.

Tale problema, in alcuni casi sarà risolto da alcune federazioni di

categoria, con il riconoscimento dei consigli come rappresentanza del

sindacato in fabbrica in occasione dei rinnovi contrattuali di

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categoria; altre federazioni, invece, perseguono la via del

“riconoscimento di fatto”, nella ricerca di un compromesso con le

direzioni aziendali più propense ad accettare la presenza di una

struttura più stabile e soggetta al controllo del sindacato, ma al

contempo articolata e ramificata sui luoghi di lavoro.

Anche dal punto di vista statale, negli anni ’70, si intravede una

svolta in senso positivo per le relazioni industriali: dato inconfutabile

è lo “Statuto dei lavoratori” introdotto con legge 300/70 e non molti

anni più tardi la modifica della disciplina del processo del lavoro.

Oltre all’intervento legislativo si assiste ad una maggiore presenza

dello Stato nei conflitti di lavoro con forme di intervento sia a livello

centrale che a livello locale; si può affermare perciò che il ruolo dello

Stato da neutrale diventi propositivo.

Analizzando gli anni ’70, appare evidente la contrazione del sistema

economico italiano causato dalla crisi del petrolio nel 1973 e

dall’affacciarsi sul mercato mondiali di nuovi paesi industrializzati.

A differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Germania, i quali

riusciranno a conservare in attivo la propria bilancia dei pagamenti, a

causa dell’alto sviluppo tecnologico ed industriale, ciò non accade in

Italia, dove si arriva a comprimere le attività produttive. Nonostante

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una serie di interventi pubblici a carattere sociale (la legge sul

divorzio, sull’aborto, la riforma del diritto di famiglia, il sistema

pensionistico nazionale), dal punto di vista economico si ha una

significativa regressione con una grave crisi sia nel settore industriale

che in quello agricolo.

La forte inflazione, la riduzione del potere di acquisto dei salari,

l’insufficienza delle infrastrutture insieme alla crisi petrolifera

aggravano notevolmente la situazione nel nostro Paese.

Basti pensare che il tasso di occupazione negli anni che vanno dal

1973 al 1979 diminuisce dello 0,3% nel settore industriale, mentre in

quello agricolo la situazione è peggiore.

La conseguenza di una simile condizione è stato l’avvio di una

grande stagione di lotte operaie e studentesche che hanno visto il loro

culmine nel movimento del 1977, degli studenti e delle nuove figure

marginali e precarie del mondo del lavoro.

Dal punto di vista politico, l’atteggiamento moderato del P.C.I.

facilita l’avvicinamento del partito al governo, di conseguenza anche

il sindacato assume una linea più morbida; tanto che nell’Assemblea

dei Delegati Confederati del 1977, le Confederazioni dichiarano non

solo di essere disposte a contenere le richieste salariali ma anche di

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accettare una maggiore mobilità operaia in relazione all’esigenze di

ristrutturazione dell’industria.

Ma la lotta più ardua per il sindacato è quella di fronteggiare

l’estrema pratica di contestazione, cioè la lotta armata che dalle

fabbriche coinvolgerà ampie fasce di proletariato.

E’ un proletariato composto di manodopera precaria e non occupata,

legato spesso al lavoro nero che paga l’assenza di uno strumento di

tutela, a causa della latitanza dei partiti e dei sindacati, i quali non

tutelano, per concezione propria, i non occupati o disoccupati.

L’assenza di un organismo di tutela di queste classi rappresenterà

un’ulteriore stimolo al consolidamento dell’esperienze sindacali di

base della fine degli anni ’70.

Sul finire del decennio 1960/1970, il sindacalismo italiano registra

una frattura insanabile con il movimento operaio, secondo

un’escalation che va dal consolidarsi dell’esperienza della lotta

armata di fabbrica alla svolta dell’EUR, fino al rapimento ed

all’uccisione dell’Onorevole Moro.

L’aumento delle politiche repressive fu immediato: dall’uso punitivo

della cassa integrazione alle denunce verso chi partecipava a cortei

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interni o picchettaggi, dai licenziamenti disciplinari alla sospensione

del salario a quanti avevano partecipato a varie forme di protesta.

Il conflitto permanente diviene una costante anche nei presunti

periodi di tregua post-contrattuale in cui si vedono contrapposte la

CGIL, la CISL e la UIL, ma sempre al fianco della sinistra operaia.

Tuttavia questa fazione è in crisi, perché è forte tra i lavoratori il

senso di sfiducia verso il sindacato confederale ed il senso di

inadeguatezza delle alternative sindacali, tanto che si arriverà ad una

scissione della sinistra operaia dal movimento di Lotta Continua e di

Autonomia Operaia.

Nonostante le difficoltà oggettive e soggettive del sistema italiano nel

periodo che va dal 1963 al 1980, l’andamento economico è superiore

alla media di altri paesi come Germania e Francia, tuttavia non si

riesce ad occupare tutta la forza lavoro; anzi la disoccupazione cresce

lentamente (dal 3,9% del 1963 al 7,6% del 1980).

Il sindacato vive un momento di perdita della democrazia interna,

fino al baratto degli interessi dei lavoratori con quelli del sindacato.

La conseguenza più ovvia sarà la perdita del consenso che si

registrerà nelle maggiori confederazioni.

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In seguito alla “svolta dell’EUR”, il sindacato cerca di trovare un

punto di accordo con il governo discutendo non più di

programmazione e riforme, ma di compressione del costo del lavoro

mentre la classe imprenditoriale cerca di far regredire sensibilmente

le conquiste dei lavoratori, ottenute con gran sacrificio fino agli anni

’70, attraverso il rifiuto di attivare le procedure di rinnovo dei

contratti e con la disdetta della scala mobile.

La sinistra storica politica sceglie il consociativismo contro il

conflitto sociale, i sindacati confederali scelgono la politica dei

redditi e la concertazione contro le conquiste e l’autonomia del

movimento dei lavoratori, ma nasce e si sviluppa un nuovo e

conflittuale sindacalismo di base.

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Capitolo terzo

LA CONCERTAZIONE

1. Il primo esperimento: l’accordo interconfederale sul costo del

lavoro del 1977.

L’analisi storica e sociale prospettata nei capitoli precedenti

mette in luce due elementi fondamentali: da un lato, si può osservare,

come gli eventi avvenuti in Italia a ridosso degli ultimi dieci anni

(dall’autunno caldo del 1969-70 ai licenziamenti F.I.A.T nel 1980)

avessero precipitato il paese in una grave crisi economica e sociale;

dall’altro si evidenzia una forte crisi del sindacato, soprattutto a

livello confederale, come struttura in grado di tutelare e difendere gli

interessi di larghe fasce di lavoratori.

Solo se si tiene presente ciò, è possibile comprendere come mai,

sul piano politico, si sia sviluppata la prassi per cui il potere statale

non sovrappone autoritativamente l’interesse pubblico a quelli

collettivamente gestiti dai sindacati, nell’esercizio della libertà di cui

all’art 39 Cost., ma tende a coinvolgere i più importanti interessi

organizzati nelle scelte di politica economica e sociale, al fine di

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assicurare il consenso necessario a garantire l’effettività dei

provvedimenti che quegli interessi devono realizzare.18 Quindi

finalmente si compie il passo definitivo e più importante per

l’organizzazione sindacale: questa concorre con l’autorità di governo

e con le contrapposte organizzazioni dei datori di lavoro alla

formazione delle scelte da cui dipende la realizzazione dell’interesse

pubblico all’economia, attraverso un metodo di condivisione con le

forze sociali degli obiettivi e degli strumenti necessari al suo

perseguimento.

Qualche autore in passato, ha definito questa prassi o metodo politico

come neocorporativismo, quasi attribuendo a questo termine un

giudizio di disvalore per il richiamo scontato all’esperienza vissuta

dall’Italia dello stato corporativo. Invece, in questo caso, il termine in

questione sta solo ad indicare un modello di composizione degli

interessi e di negoziazione trilaterale tra: Stato, sindacati dei

lavoratori e associazioni di imprenditori in un contesto di assoluta e

perdurante democrazia.

Altri autori, come Giugni o Ghera, descrivono questo modello

derivato dalle esperienze social-democratiche nordiche e centro-

europee con il nome di concertazione sociale; anche se l’esperienza

18 M. Persiani “Diritto Sindacale” X Edizione, Cedam Padova 2005, Pagg. 63-66

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italiana si discosta da quella nord-europea per il minor grado di

istituzionalizzazione del rapporto di cooperazione tra pubblici poteri

ed interessi organizzati.

Una prima forma embrionale di concertazione è ravvisabile già negli

anni settanta, quando però lo Stato giocava solo un ruolo esterno al

negoziato vero e proprio gestito dalle parti sociali e portato a

conclusione mediante lo strumento dell’accordo collettivo

interconfederale.

In particolare l’accordo interconfederale sul costo del lavoro del

26 gennaio 1977 proponeva obiettivi come il contenimento del costo

globale del lavoro, l’aumento della produttività, la creazione di

condizioni per nuovi investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno in

ambito occupazionale.19

La contropartita era rappresentata dal sacrificio richiesto al sindacato,

consistente nell’accettazione degli effetti negativi dovuti al processo

di riconversione produttiva nel settore industriale.

Già in questo primo esperimento di pratica concertativa, si può

scorgere l’elemento che caratterizzerà l’azione futura: cioè lo

scambio tra sacrifici immediati e benefici futuri ottenibili mediante la

realizzazione di politiche economiche espansive.

19 Edoardo Ghera in “Scritti in memoria di Massimo D’Antona” Milano 2004, Pag. 1847

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Inoltre pur non essendo la partecipazione dello Stato ancora

formalizzata, essa è sollecitata dalle parti sociali esplicitamente

attraverso la richiesta di un provvedimento legislativo di ricezione dei

contenuti negoziali, realizzatosi con la Legge 31 marzo 1977 n.91 ,la

quale tra l’altro ha eliminato le cosiddette “scale mobili anomale”.

Si evince una netta richiesta di un ruolo diverso del potere statale,

fino a quel momento di sola mediazione, al fine di prendere parte nel

processo di contrattazione.

2. Il Protocollo Scotti del 1983

Negli anni ottanta si può scorgere il primo esempio compiuto

di accordo tripolare nato in seguito alla situazione di incertezza

venutasi a creare in seguito al rifiuto della Confindustria di negoziare

i rinnovi dei contratti collettivi di categoria scaduti senza una

preventiva revisione del sistema di scala mobile. 20

E’ il Protocollo Scotti del 22 gennaio 1983 il primo vero esempio di

protocollo d’intesa tra governo e parti sociali, in cui la teoria dello

scambio politico trova la piena affermazione.

Nell’intento di ridurre il tasso d’inflazione e di affrontare il problema

dell’occupazione, il governo si impegna ad intervenire in ambiti 20 Giorgio Grezzi “Accordi Interconfederali e Protocolli d’intesa” in Enciclopedia del Diritto aggiornamento III, Giuffrè, Milano, 1999, Pagg. 1-9

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come il prelievo fiscale sul reddito, gli assegni familiari, le tariffe, i

prezzi amministrati, i ticket sanitari, in modo da incidere sulla

distribuzione del reddito.

D’altra parte però, la contropartita e’ costituita dal vincolo a

contenere l’incremento medio annuo del costo del lavoro entro tassi

d’inflazione programmati, come anche dalla determinazione di “tetti”

agli aumenti salariali e dalla riduzione degli orari di lavoro.

Inoltre introduce elementi che toccano il tema della riforma della

contrattazione collettiva: la clausola che introduce il principio di non

sovrapposizione della contrattazione aziendale sulle materie già

definite ad altri livelli e la clausola relativa alla composizione in sede

aziendale della microconflittualità, come strumento procedurale di

prevenzione del ricorso al conflitto.

3. “L’accordo di San Valentino” del 1984.

La stabilità del Protocollo Scotti e’ stata impedita dall’assenza

delle condizioni politiche sufficienti; il riferimento è alla

conflittualità presente all’interno della maggioranza di governo, alla

mancanza, a livello sindacale, di un sistema di relazioni industriali in

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grado di produrre norme ed infine all’incertezza delle regole

concernenti la rappresentanza sindacale.

Sembra, quindi, più facilmente spiegabile il fallimento della

rinegoziazione dell’anno successivo, che si conclude con un accordo

a cui la C.G.I.L. rifiuta di prendere parte. Il c.d. “Accordo di S.

Valentino”, stipulato nel febbraio del 1984, mette in luce tutti i limiti

della politica concertativa nella risoluzione delle problematiche

economiche e del lavoro.

Anche questo accordo firmato però solo dalle altre due

confederazioni principali (C.I.S.L. e U.I.L.) aveva l’obiettivo di

fissare un limite massimo alla possibilità di scatti della scala mobile

entro un anno. L’impossibilità di ottenere un consenso unanime da

parte dell’organizzazione sindacale si traduce nell’adozione di un atto

di autorità da parte del governo, nella forma del d.l. del 15 febbraio

1984 n. 10 convertito poi in L. 12 giugno 1984 n. 219.

La Corte Costituzionale, poi con sentenza n. 34 del febbraio 1985,

respingerà l’eccezione di illegittimità del decreto, affermando la

competenza del legislatore ordinario a disciplinare i profili distributivi

del rapporto lavorativo e negando agli accordi tra governo e parti

sociali la valenza erga omnes tipica dei contratti collettivi.

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4. L’accordo interconfederale del 1986

In seguito all’esito negativo del referendum abrogativo del

giugno 1985 si otterrà la salvezza del contenuto dell’accordo dell’ ‘84,

ma allo stesso tempo si creerà una stasi del procedimento concertativo

inteso come rapporto paritario tra pubblici poteri ed organizzazioni di

interessi a difesa del lavoro. In realtà la concertazione con tutti i

sindacati non è mai venuta meno negli anni successivi al 1984, a

riprova del fatto che così come il Governo non può fare a meno di

accumulare consensi sociali, anche i sindacati non possono fare a

meno di un certo grado di negoziato pubblico con il Governo.

Un esempio di quanto appena affermato è dato dalle vicende che nel

1986 portano all’introduzione, sia pur provvisoria, di un nuovo

sistema di scala mobile.

Nello specifico, il Governo assume l’iniziativa di estendere al settore

privato l’intesa intercompartimentale del 1985, sul nuovo sistema di

indicizzazione delle retribuzioni nel pubblico impiego. Questa volta le

parti sociali non sottoscrivono un nuovo testo che faccia da

riferimento per il legislatore, ma si limitano ad enunciare delle

dichiarazioni unilaterali di gradimento, che restano tra loro separate e

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hanno solo lo scopo di informare la pubblica opinione

dell’accettazione del nuovo meccanismo di indicizzazione dei salari.

Al contempo, nella seconda metà degli anni ottanta si assiste ad una

ripresa della contrattazione interconfederale coadiuvata dall’intervento

pubblico non formalizzato.

Si pensi all’accordo interconfederale dell’8 maggio 1986, in cui le

parti individuano come obiettivi comuni il rientro dall’inflazione e

l’adozione di politiche rivolte ad incentivare la l’occupazione,

mediante il coordinamento delle relazioni industriali a vari livelli e il

conferimento delle dinamiche del costo del lavoro.

Anche gli accordi interconfederali sul funzionamento del mercato del

lavoro, come quello in materia di contratti di formazione e lavoro, a

tempo parziale e a termine del 1988 siglato con la Confindustria,

evidenziano una sorta di continuità di rapporti di collaborazione

informali tra Governo e parti sociali.

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5. Il Protocollo d’intesa del 1993.

Nel corso degli anni novanta la concertazione riacquisterà

vitalità in occasione dell’episodio più significativo della storia sociale

ed istituzionale della consultazione tra Esecutivo e grandi

organizzazioni di interessi nel nostro paese: il Protocollo d’intesa

sottoscritto dalle parti il 23 luglio 1993. Esso è il risultato di un

graduale procedimento, la cui prima tappa è costituita dalla “intesa-

quadro” del 1° marzo del 1991. Attraverso questo accordo

“endosindacale”, le organizzazioni impostano i propri rapporti

secondo precise regole procedimentali e prevedono una nuova

disciplina per l’elezione delle rappresentanze sindacali unitarie.

Successivamente il Protocollo del 31 luglio 1992 pone fine all’annosa

questione del sistema di indicizzazione dei salari, senza però

prevedere nessuno strumento di adeguamento e tutela di quest’ultimi

contro gli effetti dell’inflazione.

Lo stesso documento introduce una moratoria della contrattazione

aziendale: cioè la sospensione per la durata del biennio successivo

“dei negoziati a livello di impresa, fatte salve le procedure relative a

crisi e ristrutturazioni aziendali, dai quali negoziati possano derivare

incrementi retributivi per le imprese”.

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Si può notare, come in questo caso, non si sia realizzato un vero e

proprio scambio politico, perché il sindacato otterrà come

contropartita più consistente l’impegno del Governo a varare una

riforma della struttura contrattuale su due livelli negoziali e non

sovrapposti per materia.

Inoltre vi è la previsione della indennità di vacanza contrattuale,

strumento definito “di parziale difesa del potere d’acquisto dei salari

per i tempi di prolungata discontinuità contrattuale, che valga anche

come incentivo al normale svolgimento delle trattative”.

Le premesse enunciate nel Protocollo del 1992 saranno attuate nel

luglio dell’anno successivo, quando finalmente prende forma il

Protocollo d’intesa del 23 luglio 1993.

Questo negozio trilaterale stabilisce quasi un codice di regole della

concertazione, al punto da essere definita da alcuni autori, tra cui il

Carinci, come la costituzione materiale delle relazioni industriali.

Gli obiettivi che le parti si propongono di ottenere attengono alla

politica dei redditi, all’occupazione, agli assetti contrattuali, alle

politiche del lavoro e al sostegno del sistema produttivo.

Il confronto deve svilupparsi nell’arco di due sessioni annuali “in

tempi coerenti con i processi decisionali in materia di politica

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economica, in modo da tener conto dell’esito del confronto

nell’esercizio dei propri poteri e delle proprie responsabilità”.

Durante la prima sessione da tenersi tra maggio e giugno, prima della

presentazione del Documento di programmazione economico-

finanziaria alle Camere, saranno definiti gli “obiettivi comuni sui tassi

d’inflazione programmati, sulla crescita del P.I.L. e sull’occupazione”.

Inoltre “il Governo predisporrà un rapporto annuale sull’occupazione

corredato di dati aggiornati per settori ed aree geografiche, nel quale

saranno indicati gli effetti sull’occupazione del complesso delle

politiche di bilancio, dei redditi e monetarie, nonché dei

comportamenti dei soggetti privati”; in base a tali dati il Governo

“sottoporrà alle parti le misure rientranti nelle sue responsabilità,

capaci di consolidare o allargare la base occupazionale”.

Nella seconda sessione di settembre “nell’ambito degli aspetti attuativi

della politica di bilancio, da trasporre nella legge finanziaria, saranno

definite le misure applicative degli strumenti di attuazione della

politica dei redditi, individuando le coerenze dei comportamenti delle

parti nell’ambito dell’autonomo esercizio delle rispettive

responsabilità”.

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Attraverso questo documento programmatico le parti sociali si

impegnano a ridisegnare i contorni della concertazione e pongono le

fondamenta per la realizzazione degli obiettivi che intendono

perseguire; a ben vedere, infatti, la politica dei redditi e il riassetto dei

livelli di contrattazione collettiva si intrecciano, configurandosi come

dipendenti.

La politica dei redditi è finalizzata a conseguire “una crescente equità

nella distribuzione del reddito” attraverso il contenimento

dell’inflazione e dei redditi nominali, nell’ottica dell’inserimento

dell’Italia all’interno dell’Unione Europea; ma un simile obiettivo di

contenimento dei salari, che provoca sacrifici soprattutto a carico dei

soggetti rappresentati dai sindacati, può essere realizzato solo a patto

che vi sia la coerenza dei comportamenti delle parti sociali, ottenibile

attraverso la riforma del sistema contrattuale.

A tal fine il Protocollo prevede:

1) un contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria;

2) un secondo livello di contrattazione aziendale o

alternativamente territoriale, laddove previsto, secondo l’attuale

prassi nell’ambito di specifici settori.

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Va evidenziato che “la contrattazione aziendale riguarda materie e

istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli retributivi propri del

C.C.N.L.”.

Inoltre nell’intento di evitare ritardi nella rinegoziazione dei contratti

nazionali di categoria, l’accordo prevede la istituzione della c.d.

indennità di vacanza contrattuale.

Essa si applica dopo un periodo di tre mesi dalla data di scadenza del

C.C.N.L., ai lavoratori dipendenti; è qualificata come elemento

provvisorio della retribuzione, il cui importo è pari “al 30% del tasso

d’inflazione programmato” con possibilità di crescita fino al 50%

dell’inflazione, nel caso che il ritardo superi i sei mesi.

Con riguardo ai contenuti e agli obiettivi dell’accordo mi sembra

opportuno osservare che in realtà la politica dei redditi si risolve

inevitabilmente solo in una disciplina delle retribuzioni, per la

difficoltà di poter intervenire con vincoli e controlli sulle altre

categorie di reddito.

Di conseguenza il c.d. scambio reciproco tra sacrifici (richiesti al

sindacato) e benefici non ha effetti immediati: o meglio, i sacrifici

sono richiesti nell’immediato e si traducono nella caduta dei livelli

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retributivi ed occupazionali, mentre i vantaggi sono eventuali e visibili

solo nel lungo termine.

Perciò è possibile attribuire quasi una funzione compensativa

all’impegno assunto dal Governo in vista della promozione delle

politiche del lavoro e di sostegno al sistema produttivo.

A proposito delle politiche del lavoro, il Governo si impegna a

modificare, mediante la promozione di un disegno di legge, il quadro

normativo in tema di gestione del mercato del lavoro e delle crisi

occupazionali. Non mancano le disposizioni anche in materia di

occupazione giovanile (contratto di apprendistato e di formazione

lavoro) e di potenziamento dell’occupazione femminile. Infatti

“saranno definite le azioni positive per le pari opportunità uomo-

donna che considerino l’occupazione femminile come una priorità nei

progetti e negli interventi, attraverso la piena applicazione delle leggi

n.125 e n. 215, un ampliamento del loro finanziamento, una loro

integrazione con altri strumenti legislativi e contrattuali, con

particolare riferimento alla politica attiva del lavoro.”.

Il sostegno al sistema produttivo contempla in primo luogo la ricerca e

l’innovazione tecnologica, perché “una più intensa ricerca scientifica,

una più estesa innovazione tecnologica ed una più efficace

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sperimentazione dei nuovi processi e prodotti saranno in grado di

assicurare il mantenimento nel tempo della capacità competitiva

dinamica dell’industria italiana”.

E’ menzionato anche l’obiettivo dell’innovazione tecnologica nelle

attività di servizio, commerciali ed agricole.

Non meno importanza riveste l’istruzione come anche la formazione

professionale: infatti le parti condividono l’obiettivo di una

modernizzazione e riqualificazione dell’istruzione e dei sistemi

formativi finalizzati all’arricchimento delle competenze di base e

professionali e al miglioramento della competitività del sistema

produttivo e della qualità dei servizi.

La realizzazione di tali obiettivi è possibile con un raccordo

sistematico tra il mondo dell’istruzione e del lavoro e il

coordinamento interistituzionale tra i soggetti protagonisti del sistema

formativo, nonché con l’elevazione dell’obbligo scolastico a 16 anni e

con la previsione di un piano straordinario di riqualificazione e

aggiornamento del personale.

Oltre a questi obiettivi di larga veduta, il Protocollo affronta anche la

questione delle rappresentanze sindacali: ”al fine di una migliore

regolamentazione del risistema di relazioni industriali e contrattuali le

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organizzazioni sindacali dei lavoratori concordano come

rappresentanza sindacale aziendale unitarie nelle singole unità

produttive quella disciplinata dall’intesa quadro tra C.G.I.L., C.I.S.L.

e U.I.L. sulle Rappresentanze Sindacali Unitarie sottoscritta in data 1

marzo 1991”.

Di conseguenza per assicurare il giusto raccordo tra le organizzazioni

stipulanti i contratti nazionali e le rappresentanze aziendali titolari

delle deleghe assegnati dai contratti medesimi, si prevede che la

composizione delle rappresentanze derivi per i due terzi dall’elezione

da parte di tutti i lavoratori e per un terzo dalla designazione o

dall’elezione da parte delle organizzazioni stipulanti i C.C.N.L., che

hanno presentato liste, in proporzione ad i voti ottenuti.

La questione delle rappresentanze sindacali unitarie impone la

trattazione del “problema della rappresentatività”, la quale si intreccia

strettamente con la concertazione perché, come già si è detto in

precedenza, quest’ultima è un metodo, una prassi politica che nasce

svincolata da qualsiasi incardinamento legale.

Di conseguenza la “condicio sine qua non” per la realizzazione degli

obiettivi prefissati è il comportamento uniforme e il consenso da parte

di tutti gli attori in gioco.

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Soprattutto per le organizzazioni sindacali, questo diviene il nodo su

cui si innescherà la questione della “crisi della nozione della maggiore

rappresentatività”, poiché ammessi al tavolo della concertazione sono

solo i sindacati maggiormente rappresentativi. In realtà però nel

Protocollo del 1993 il governo coinvolge nella trattativa una trentina

di associazioni sindacali delle due parti (sindacali ed imprenditoriali),

tanto da far parlare di catch-all government: ossia un governo che

tende a recuperare, a vantaggio degli obiettivi conseguiti, una

frammentazione rappresentativa che contrasta con le esigenze della

concertazione.21

Bisogna ricordare che in passato né la legge nazionale, né le leggi

regionali prevedevano i criteri in presenza dei quali si potesse

conferire tale denominazione ad una organizzazione sindacale.

In tal senso esercitava una funzione suppletiva la giurisprudenza, la

quale considerava come indici di maggiore rappresentatività la

consistenza numerica, l’equilibrata presenza di un ampio arco di

settori produttivi, un’organizzazione estesa a tutto il territorio

nazionale, nonché l’effettiva partecipazione alla contrattazione

collettiva. In quest’ottica erano considerate maggiormente

21 Lauralba Bellardi “Concertazione e contrattazione” Cacucci, Bari, 1999, Pagg. 72-82

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rappresentative le tre maggiori confederazioni (C.G.I.L., C.I.S.L.,

U.I.L.) e le associazioni di categoria a queste affiliate.

Ma a causa della presenza delle confederazioni c.d. “autonome”, che

avevano ottenuto tale qualificazione, si era verificata una perdita di

efficacia selettiva di tale criterio, con conseguenze pesanti per le

relazioni negoziali.

Infatti l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori riconosceva e promuoveva

le associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente

rappresentative sul piano nazionale e quelle firmatarie di contratti

collettive nazionali o provinciali di lavoro applicati nell’unità

produttiva, perché in grado di garantire la stabilità e l’affidabilità del

sistema di relazioni industriali.

Per contro veniva contestata la posizione di favoritismo accreditata a

tali associazioni, perché in tal modo erano sottratte alla verifica di

effettiva rappresentatività.

Ma l’intervento della Corte Costituzionale circa la verifica del criterio

della “maggiore rappresentatività” aveva sancito l’infondatezza delle

contestazioni.

Con la prima sentenza del 1974 affermava che il criterio in questione

non contrastava ne’ con il principio di eguaglianza ex art. 3 della

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Costituzione, né con l’art. 39 sulla libertà sindacale, in quanto i

requisiti richiesti tenevano conto della forza rappresentativa posseduta

dal sindacato; inoltre i requisiti in questione “non sono attribuibili né

dal legislatore, né da altre autorità, né possono sorgere

arbitrariamente, ma sono sempre direttamente conseguibili e

realizzabili da ogni organizzazione sindacale”.22

Nella sentenza dell’88, inoltre, veniva ribadita la coerenza del criterio

in questione con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 della Cost.,

essendo diretto a favorire l’azione di quelle organizzazioni sindacali

portatrici di interessi di larghe collettività e capaci di interpretare, in

modo equilibrato e complessivo, le esigenze di progresso del mondo

del lavoro, sfuggendo a logiche microcorporative o, addirittura,

meramente agitatorie”.

Tuttavia gli eventi susseguitisi nel corso degli anni ottanta (dalle crisi

economiche alla nascita delle qualificazioni lavorative nuove) hanno

portato la stessa Corte Costituzionale a riconsiderare la portata

dell’art.19, tanto che nella sentenza del 1990 afferma la necessità di

cercare “nuove regole ispirate alla valorizzazione dell’effettivo

consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra

lavoratori e sindacato.”

22 Gino Giugni “Diritto Sindacale” Cacucci, Bari, 2002, Pagg. 69-70

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Le indicazioni offerte dalla Corte sono state recepite dalle

organizzazioni sindacali e dal legislatore, il quale ha elaborato una

nuova nozione di sindacato “comparativamente più rappresentativo”,

che assume importanza nelle ipotesi in cui il legislatore delega

specifiche funzioni alla contrattazione collettiva. Ciò significa che

trovano applicazione i contratti collettivi stipulati dai sindacati che,

paragonati agli altri, risultano più rappresentativi secondo gli indici

della consistenza numerica, diffusione territoriale, partecipazione

effettiva alla contrattazione collettiva con carattere di continuità e

sistematicità.

Anche le parti sociali, consapevoli della necessità di un intervento

organico in materia, hanno previsto con l’accordo interconfederale

del dicembre 1993 l’istituzione di rappresentanze unitarie direttamente

elette da tutti i lavoratori in azienda, il che ha rappresentato un fattore

di grande importanza ai fini della concertazione.

Inoltre si è reso necessario lo svolgimento di un referendum di

iniziativa popolare nel 1995, al fine di adeguare la nozione del criterio

di sindacato maggiormente rappresentativo coerentemente con

l’evoluzione dei tempi.

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Bisogna notare che anche a livello europeo si è posto un problema in

ordine alla rappresentatività, dal momento che anche nel contesto

dell’Unione Europea essa costituisce un fattore imprescindibile per

una concertazione preservata da derive in senso eccessivamente

istituzionalizzate o da esiti reazionari.

E’ utile ricordare che la concertazione “europea” oltre che a

differenziarsi per il tipo di tematiche che affronta, si discosta dai

modelli nazionali perchè si svolge direttamente tra le parti sociali,

senza coinvolgere il potere esecutivo in qualità di terzo attore; ma

soprattutto perché e’ diverso il contesto istituzionale in ordine al

Parlamento, così come anche il contesto sindacale, in quanto privo di

capacità conflittuale direttamente esprimibile a livello sopranazionale.

Tuttavia la situazione potrebbe essere suscettibile di mutamento in

seguito al riconoscimento del diritto di sciopero tra i diritti accordati

nella “Carta di Nizza”.

La giurisprudenza comunitaria, al fine di verificare la rappresentatività

delle parti sociali soprattutto in fase di consultazione, ha elaborato la

nozione di “rappresentatività cumulativamente sufficiente”.

Anche in questo caso si fa perno sulla dimensione organizzativa, cioè

la caratteristica interprofessionale e il possesso di strutture

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organizzative che consentano di partecipare in modo efficace al

processo di consultazione. Inoltre è necessario che si tratti di

organizzazioni riconosciute come facenti parte integrante delle

strutture delle Parti Sociali degli Stati membri, nonché di essere

possibilmente rappresentative di tutti gli Stati membri.23

Tuttavia il requisito della “rappresentatività cumulativa sufficiente”

appare convincente, se lo si interpreta come formula che richiede di

vagliare la capacità rappresentativa delle coalizioni; mentre non

sembra adeguato se riferito alla singole organizzazioni perché

premierebbe esclusivamente quelle a carattere interprofessionale

generale, risultando poco adeguato in caso di accordi di tipo settoriale.

6. Il Patto del lavoro del 1996

Le altre due esperienze di concertazione realizzatesi in Italia

successivamente al Protocollo del 1993, sono il Patto per il lavoro

del 24 settembre 1996 e successivamente nel 1998, il Patto sociale

per lo sviluppo e l’occupazione.

Il Patto del 1996 e’ sottoscritto dalle parti sociali e dal neo-Governo di

centro-sinistra ed ha come obiettivo quello di adeguare le strutture

23 Stefania Scarponi “Rappresentatività e organizzazione sindacale” Padova, Cedam, 2005, Pagg. 293-294

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Page 66: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

sociali ed economiche del paese agli obiettivi di modernizzazione e di

ri-assorbimento del preoccupante livello di disoccupazione.

L’accordo ispirandosi ai modelli precedenti propone una vasta

gamma di modelli e strumenti che hanno come collante tra loro, il

ruolo attivo esercitato dal Governo.

Come nel Protocollo del ‘93, l’attenzione è puntata soprattutto sul

processo formativo che punta al riordino dell’ordinamento scolastico e

degli studi; focalizza l’importanza della ricerca e dell’innovazione e

riprende il tema del mercato del lavoro (prevede tra l’altro la riforma

del contratto di apprendistato e di formazione e lavoro).

In particolare si ripropongono elementi di disciplina del lavoro

interinale e del part-time, ma soprattutto dei lavori c.d.”socialmente

utili”, bisognosi di una nuova regolamentazione.

Infine si conferma la tendenza verso una revisione delle strutture

amministrative di governo del mercato del lavoro, attraverso il

decentramento istituzionale e la liberalizzazione dei servizi d’impiego.

7. Il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del 1998

Il Patto del 1998, chiamato anche Patto di Natale, “accentua la

tendenza verso l’istituzionalizzazione degli accordi triangolari e tende

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alla trasformazione della prassi della concertazione in metodo per la

formazione delle decisioni e delle politiche pubbliche, vincolante per

Governo e parti sociali”.

Una delle innovazioni più interessanti che riguardano quest’accordo è

costituita dall’intenzione degli attori in questione, di associare il

metodo concertativo con il rafforzamento dei pubblici poteri

decentrati, nella prospettiva dell’introduzione del federalismo. Infatti

da un lato pone come oggetto di concertazione territoriale l’esercizio

di compiti e funzioni devoluti agli organi locali, dall’altro stabilisce

che gli accordi di concertazione coinvolgano i livelli di governo

locale.

Nel testo dell’accordo e’ stabilito che il Governo si è impegnato “a

promuovere un apposito protocollo, sottoscritto dalle istanze

rappresentative delle Regioni, delle Province e dei Comuni e delle

parti sociali, nel quale dovranno essere concordate le forme e i modi

di partecipazione delle istituzioni regionali e locali alla concertazione

nazionale e all’attuazione, a livello locale, degli obiettivi del Patto e

degli impegni successivamente assunti in sede di concertazione

nazionale, nonché i principi e le materie della concertazione

territoriale negli ambiti di competenza dei governi locali”.

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Page 68: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

A testimonianza della volontà di creare una struttura di concertazione

ordinata su due piani (nazionale e territoriale) e orientata al

raggiungimento di risultati efficaci sul piano dell’occupazione e dello

sviluppo sociale, c’e’ la sottoscrizione del patto, oltre che dal Governo

centrale, anche da parte della Conferenza dei Presidenti delle Regioni,

dall’Unione delle Province Italiane (UPI) e dall’Associazione

Nazionale Comuni Italiani (ANCI).

In secondo luogo il Patto prevede una sorta di differenziazione di

procedure da adottare relativamente alle materie oggetto di

discussione.24

Mentre per le materie relative alla politica sociale, che comportano un

impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, e’ previsto che il

governo proceda alla consultazione delle parti sociali, riservando però

a sé stesso la decisione politica finale.

Per le materie che incidono direttamente sui rapporti tra imprese, loro

dipendenti e rispettive organizzazioni di rappresentanza che non

comportino un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato, e’

prevista una fase iniziale di confronto preventivo tra governo e parti

sociali sugli obiettivi generali e successivamente la conclusione di un

negoziato bilaterale. In tal caso il governo si impegna ad assicurare 24 Franco Caringi “Concertazione e rappresentatività a proposito di due recenti testi” in Il Lavoro nelle Pubbliche Amministrazioni, anno I, 1998, Pagg. 1023-1024

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Page 69: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

una costante informazione e adeguate forme di coinvolgimento delle

rappresentanze parlamentari della maggioranza e dell’opposizione in

ogni fase della concertazione, in modo da promuovere, nel rispetto

delle prerogative del Parlamento, la convergenza tra i risultati della

concertazione e la produzione legislativa.

Si realizza un doppio percorso di concertazione tra governo e parti

sociali che vede da un lato, la consultazione obbligatoria ma non

vincolante e, dall’altro lato, la legislazione negoziata. Ma da un punto

di vista più generale, si realizza una sorta di istituzionalizzazione della

concertazione, che pone al centro di tutto il rapporto trilaterale tra

Stato e parti sociali, inteso come sistema di reciproci obblighi e diritti

di consultazione e riconosciuto come fattore di collegamento tra i due

ordinamenti: statuale ed intersindacale.

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Capitolo quarto

LA CONCERTAZIONE TERRITORIALE

1. Gli interventi normativi in ambito regionale

Se il Protocollo del 1993 ha posto le fondamenta della

concertazione, delineando strutture ed obiettivi, il Patto di Natale del

1998 è stato lo spartiacque nella istituzionalizzazione della

concertazione a livello regionale, evidenziando potenzialità e possibili

sviluppi futuri.

L’aspetto più innovativo è certamente costituito dalla possibilità

che gli accordi di concertazione coinvolgano anche i diversi livelli di

governo locale; difatti, nel Patto, il Governo si impegna a promuovere

un apposito protocollo sottoscritto dalle istanze rappresentative di

Regioni, Province e Comuni e parti sociali “per concordare i principi e

le materie della concertazione territoriale negli ambiti di competenza

dei Governi locali”.

Il Patto mira ad attuare una nuova politica dei redditi e soprattutto a

predisporre nuovi strumenti per garantire la crescita occupazione,

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Page 71: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

cercando di coinvolgere i livelli istituzionali e locali, per creare una

sinergia tra territorio-istituzioni-parti sociali.

Il potenziamento del ruolo degli enti locali è ascrivibile nel processo

di decentramento amministrativo attuato in Italia con la legge

Bassanini n. 59/1997 che ha attribuito molta importanza al principio di

sussidiarietà orizzontale e verticale ed alla semplificazione

amministrativa.

Infatti, il principio di sussidiarietà (art. 4 com.3 lett.a), ribadito anche

dalla nuova legge costituzionale, indica nel Comune l’istituzione

titolare dell’azione amministrativa e rafforza il ruolo della Regione,

quale Istituzione titolare della programmazione economica e sociale.

In questo modo si è passati alla predisposizione di documenti di

bilancio nei quali gli obiettivi da raggiungere sono quantificati in

termini finanziari, con la precisa indicazione delle fonti di

approvvigionamento, della destinazione delle singole voci di spesa, e

delle modalità attraverso le quali erogare le risorse disponibili.25

Di conseguenza si è creato un nuovo assetto istituzionale centrato

sulla programmazione regionale che ha messo in luce nuovi ed

articolati modelli di concertazione a livello territoriale (per es. i Patti

25 C.N.E.L. “I patti sociali e le esperienze della concertazione locale per lo sviluppo e l’occupazione nelle regioni italiane” 2004, Pag. 2

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per l’occupazione, i Patti per lo sviluppo, i Protocolli d’intesa)

sottoscritti dalle Forze sociali e dalle Amministrazioni locali.

L’apice del percorso avviato con la legge Bassanini è stato raggiunto

nel 2001 con la riforma in senso federalista del titolo V, Parte Seconda

della Costituzione che ha completato la nuova fisionomia degli Enti

locali. Con la modifica degli artt. 117 e 119, infatti, è stata

costituzionalizzata l’autonomia finanziaria delle Regioni, cioè, la

potestà di stabilire e di gestire in modo autonomo le risorse finanziarie

di cui necessitano per la realizzazione delle funzioni loro affidate.

Infatti, l’art. 119 dispone che “i Comuni, le Province, le Città

Metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di

spesa………hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi

ed entrate propri in armonia con la Costituzione e secondo i principi di

coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”.

Inoltre, il II comma dell’art. 117 nel delimitare le materie di

legislazione concorrente individua, tra le altre, “i rapporti

internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con

l’estero, tutela e sicurezza del lavoro”, stabilendo che in tali casi,

spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la

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Page 73: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione

dello Stato.

In tal modo sono state poste al centro della programmazione per lo

sviluppo le Regioni, le quali non sono più soggetti che operano con

finanza derivata, mediante trasferimenti vincolati, ma assumono il

ruolo di protagonisti sia in termini di articolazione della spesa

pubblica, che in quanto al prelievo fiscale, anche se in un contesto di

subordinazione agli obiettivi ed alle decisioni prese a livello nazionale

di concerto con l’Unione Europea.

Bisogna tener presente che dopo l’entrata dell’Italia nell’U.M.E., la

politica dei redditi ha assunto una rilevanza nettamente superiore a

quella avuta fino agli anni novanta, perché in primo luogo non è più

possibile attuare politiche di equilibrio nella bilancia dei pagamenti

mediante manovre del tasso di cambio; con la conseguenza che non

disponendo più di tale strumento di politica economica, non è

possibile adottarlo per gli altri obiettivi nazionali.

In secondo luogo, dal momento che il tasso d’inflazione è regolato

dalla Banca Centrale Europea attraverso la politica monetaria, l’unico

strumento di cui dispongono gli Stati membri per regolare eventuali

divergenze è costituito dalla politica fiscale. Essa, perciò, è il perno

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Page 74: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

attorno al quale ruota la politica di sviluppo del reddito e

dell’occupazione, nonché del mantenimento dei livelli programmati

del tasso di inflazione.

In questo contesto particolarmente impegnativo per l’Italia (in quanto

il Paese deve ancora rientrare nei parametri indicati a livello

comunitario per il rapporto debito pubblico/PIL), il ruolo delle

Regioni è stato fortemente ampliato, perché sono state rese partecipi

della politica dei redditi nazionali, attraverso la definizione di

strumenti giuridici ed economici come i patti sociali per lo sviluppo e

l’occupazione a livello regionale e provinciale.

2. Il contesto europeo

Tra gli obiettivi dell’Unione Europea, soprattutto negli ultimi

anni è stata attribuita notevole importanza alla crescita

dell’occupazione ed una maggiore autonomia regionale finalizzata sia

alla coesione economica e sociale come garanzia di stabilità europea,

sia all’incremento del tasso di crescita dell’Unione ed alla sua

competitività in ambito mondiale.

Gli strumenti finanziari individuati dall’Unione per il perseguimento

di tale scopo sono i Fondi Strutturali, che sono finalizzati a ridurre il

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divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni, nonché a favorire la

crescita armoniosa, equilibrata e duratura delle attività economiche, lo

sviluppo dell’occupazione e delle risorse umane, la tutela ed il

miglioramento dell’ambiente, l’eliminazione delle ineguaglianze e la

promozione della parità tra uomini e donne (art. 2 Trattato Istitutivo

dell’Unione Europea).

Nel 1999 il Consiglio e la Commissione Europea hanno adottato nuovi

regolamenti in materia di fondi: uno per la gestione complessiva ed

uno per ciascun fondo. Coerentemente è stato necessario coordinare le

azioni dei fondi con le politiche europee come la Strategia Europea

per l’occupazione (SEO), le politiche economiche e sociali degli Stati

membri e le rispettive politiche regionali.

Il Regolamento (C.E.) n. 1260/99 ha introdotto criteri come la

maggiore concentrazione delle risorse, il decentramento, il

rafforzamento del partenariato, la ridefinizione dei compiti della

Commissione e delle Autorità nazionali e delle rispettive

responsabilità, nonché la ricerca di una maggiore efficacia e di

controlli più significativi.

In particolare il Regolamento individua nella concertazione decentrata

e nel partenariato gli strumenti necessari per risolvere il diffuso

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problema della disoccupazione e per far diventare i territori

protagonisti delle politiche di sviluppo e crescita economica mediante

la collaborazione di parti sociali, istituzioni ed autonomie locali.

Se nel primo periodo di programmazione dei Fondi Strutturali

(1994-1999), la normativa del Quadro Comunitario di Sostegno

(QCS) prevedeva la “partecipazione” delle autorità competenti a

livello regionale, locale e nazionale, con la nuova programmazione

per il 2000-2006 l’ambito si amplia alle autorità regionali e locali,

nonché alle parti economiche e sociali; infatti, in Agenda 2000 viene

ribadita la necessità di politiche di programmazione regionale per

attuare la coesione economica e sociale in Europa.

Anche nel contesto del Consiglio Europeo di Lisbona, svoltosi nel

2000 si è rafforzato il ruolo delle istituzioni locali di concerto con le

forze sociali. Si è evidenziato che l’occupazione a livello locale e

regionale debba essere sostenuta attraverso una nuova strategia ed una

coerente utilizzazione dei Fondi Strutturali, in quanto strumenti

finalizzati all’assistenza dei soggetti locali, per l’adozione di iniziative

a favore dell’occupazione.

Compito delle Regioni è l’adozione di misure innovative di natura

amministrativa e legislativa per la semplificazione dei procedimenti,

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Page 77: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

nonché la predisposizione di misure volte a valutare l’attuazione degli

interventi ed a monitorarli, nell’ottica del perseguimento degli

obiettivi individuati in sede di programmazione delle risorse

comunitarie.

Infatti, le Regioni hanno dovuto adottare strumenti di

programmazione di medio periodo come il DOCUP (Documento di

Programmazione) e i POR (Programmi Operativi Regionali) sottoposti

ad approvazione comunitaria.

Anche il Consiglio Europeo di Laeken del 2001 ha riproposto il tema

del dialogo sociale con l’obiettivo di sviluppare con le parti sociali un

programma pluriennale finalizzato alla concertazione trilaterale in

materia di sviluppo ed occupazione.

Infine, nella Strategia Europea per l’occupazione elaborata nel 2003, è

stata sottolineata la necessità e l’impegno di promuovere la

cooperazione con le parti sociali a livello nazionale, settoriale,

regionale, locale e d’impresa.

Quindi, dall’analisi svolta nell’ambito delle politiche comunitarie si

evince la propensione verso strumenti come la concertazione

decentrata e la programmazione negoziata per la risoluzione di

problematiche occupazionali, radicate in territori caratterizzati da

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conflittualità politica o dalla mancanza di collaborazione tra istituzioni

pubbliche e private.

Occorre, a questo punto, verificare come siano stati attuati, a livello

nazionale, i principi espressi in ambito europeo.

3. La programmazione negoziata

In Italia il processo di coinvolgimento delle componenti sociali

nei sistemi locali di regolazione dello sviluppo ha avuto una prima

definizione compiuta con la legge 662/96 (tralasciando interventi

come la L. 317/91, la L. 488/92, D.M. 21/4/93 e la L.341/95) collegata

alla Finanziaria per il 1997. L’art. 2 comma 203 chiarisce e regola gli

interventi in tema di programmazione negoziata, promuovendo una

forma di sviluppo dal basso (definita bottom-up) su temi di rilievo

politico-economico generale.

La programmazione negoziata è la forma di concertazione e di

regolazione concordata tra soggetti pubblici a vari livelli istituzionali

o tra uno o più soggetti pubblici competenti e le varie parti private

interessate all’attuazione di misure predefinite, che devono

comprendere interventi diversi riferibili ad uno specifico obiettivo

prioritario di sviluppo.

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Con la Delibera del C.I.P.E. (Comitato Interministeriale per

Programmazione Economica) del 21/3/1997 (“Disciplina della

programmazione negoziata”) si giunge con maggior compiutezza ad

una definizione normativa degli strumenti che è possibile utilizzare,

individuando i soggetti coinvolti, gli obiettivi perseguiti, i livelli

istituzionali di controllo e di regolazione.

I principali strumenti individuati nella L. 662 del 1996 sono:

a) l’intesa istituzionale di programma

b) l’accordo di Programma-quadro

c) il contratto di programma

d) il patto territoriale

e) il contratto d’area

L’intesa istituzionale di programma è definita dalla Delibera come lo

strumento attraverso il quale Governo e Giunta Regionale o

Provinciale definiscono gli obiettivi da conseguire ed i settori nei quali

canalizzare l’azione congiunta per favorire lo sviluppo in coerenza

con la prospettiva di una progressiva trasformazione dello Stato in

senso federalista.

Ogni intesa deve specificare i programmi di intervento nei settori di

interesse comune, gli accordi di programma quadro da stipulare, i

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criteri, i tempi ed i modi per la sottoscrizione dei singoli accordi di

programma quadro e le modalità di verifica periodica di

aggiornamento e degli obiettivi generali.

L’Accordo di Programma quadro è l’accordo con gli Enti locali e gli

altri soggetti pubblici e privati, promosso da Governo e Giunte

Regionali e Provinciali “in attuazione di una intesa istituzionale di

programma per la definizione di un programma esecutivo di interventi

di interesse comune o funzionalmente collegati”.

Esso deve indicare, oltre le attività e gli interventi da realizzare, anche

i soggetti responsabili, le eventuali conferenze di servizi e convenzioni

necessarie, i procedimenti di conciliazione o definizione di conflitti tra

i soggetti partecipanti all’accordo, le risorse finanziarie occorrenti e le

procedure ed i soggetti responsabili per il monitoraggio e la verifica

dei risultati.

Per completezza va specificato che il “Contratto di Programma” è

stipulato tra l’amministrazione statale competente, grandi imprese,

consorzi di medie e piccole imprese e rappresentanze di distretti

industriali per la realizzazione di interventi oggetto di

programmazione negoziata.

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Il Contratto d’area è uno dei più nuovi strumenti operativi della

programmazione negoziata; secondo la Delibera esso è “espressione

del principio di partenariato sociale e costituisce lo strumento

operativo funzionale alla realizzazione di un ambiente economico

favorevole all’attrazione di nuove iniziative imprenditoriali ed alla

creazione di nuova occupazione nei settori dell’industria,

agroindustria, produzione di energia termica o elettrica da bio-masse,

servizi e turismo attraverso condizioni di massima flessibilità

amministrativa.”. Soggetti coinvolti in tale progetto sono le

amministrazioni “anche locali”, le rappresentanze dei lavoratori e dei

datori di lavoro per la realizzazione di azioni finalizzate ad accelerare

lo sviluppo ed a creare nuova occupazione in territori circoscritti

nell’ambito delle aree specificamente identificate per la loro

condizione di crisi occupazionale e di sviluppo industriale.

Emerge chiaramente come tale strumento sia finalizzato alla soluzione

di problematiche occupazionali che insidiano aree particolarmente

sottomesse a fenomeni di deindustrializzazione o di riconversione

produttiva. Diversamente dal Patto territoriale che può essere stipulato

in tutte le aree riconosciute depresse ai sensi del D.M. n.527/1955 e

classificate come aree obiettivo 1, 2 e 5b dal Regolamento CEE n.

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2052 del 1988, il Contratto d’area è rivolto in modo specifico alle aree

interessate da gravi crisi occupazionali. Di conseguenza per i contratti

d’area i contributi previsti sono cumulabili con altre agevolazioni

finanziarie, comprese quelle derivanti da un Patto e quindi superano il

vincolo posto dall’Unione Europea agli aiuti alle imprese, in virtù

della particolare condizione economico-sociale di tali zone.26

Va aggiunto, infine, che mentre il Patto territoriale può coinvolgere

un’area molto ampia, il contratto è incentrato su aree di crisi di

estensione limitata, composte da pochi Comuni limitrofi o focalizzate

su un Comune leader in crisi produttivo-settoriale.

Tra gli strumenti di programmazione negoziata, lo strumento che

prefigura il modello di regolazione sociale dello sviluppo locale è

senza dubbio l’istituto del Patto territoriale.

Esso è l’accordo promosso dagli enti locali, dalle parti sociali o da

altri soggetti pubblici o privati “relativo all’attuazione di un

programma di interventi caratterizzato da specifici obiettivi di

promozione dello sviluppo locale in ambito sub-regionale compatibili

con uno sviluppo ecosostenibile”.

26 Francesco Losurdo “Programmazione negoziata e regolazione sociale dello sviluppo locale. Patti territoriali e contratti d’area” in Sviluppo, territori e Patti a cura di F. Botta, Università degli Studi di Bari – Dipartimento per lo studio delle società mediterranee, Cacucci, Bari, 1998 Pagg. 95-113

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Obiettivo del Patto territoriale è dare visibilità al sistema di relazioni

intercorrente tra imprese, lavoratori e istituzioni operanti all’interno di

sistemi produttivi territoriali, evidenziando come la concertazione

possa permettere il dialogo tra soggetti pubblici e privati che mai

prima si erano confrontati, se non in clima di contrapposizione

d’interessi.

Ai sensi della Delibera i Patti territoriali possono essere attivati in

tutto il territorio nazionale, anche se va chiarito che le specifiche

risorse destinate dal C.I.P.E. sono utilizzabili per i Patti “attivabili

nelle aree depresse”, cioè “quelle ammissibili agli interventi dei Fondi

Strutturali, obiettivi 1 (Regioni in ritardo di sviluppo), 2 (aree colpite

dal declino industriale) e 5b (zone rurali), nonché quelle rientranti

nelle fattispecie dell’art. 92 par. 3 lett. c del Trattato di Roma.”

4. L’attuazione degli strumenti di programmazione negoziata

L’eterogeneità, che caratterizza l’ Italia dal punto di vista

economico e sociale, ha fortemente caratterizzato l’applicazione e la

concreta attuazione degli strumenti di programmazione negoziata

quanto ai tempi ed alle modalità.

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Il periodo di sottoscrizione degli accordi assume rilevanza, dal

momento che con la riforma del 2001 sono state attribuite alle Regioni

maggiori competenze legislative e di programmazione; di

conseguenza gli accordi stipulati oltre tale data risultano essere

sicuramente più strutturati.

L’analisi svolta dal C.N.E.L. ha evidenziato la possibilità di

suddividere le Regioni in tre sistemi caratterizzati dal livello di

concertazione in esso operato. A tal fine si possono riconoscere:

sistemi “altamente” strutturati, “debolmente strutturati” e

“completamente destrutturati”.

Nella prima categoria rientrano quelle Regioni che hanno

sottoscritto di comune accordo con le Forze sociali e le Autonomie

Funzionali “Patti sociali per lo sviluppo e l’occupazione” e Protocolli

d’intesa, attraverso i quali si propongono di raggiungere obiettivi di

crescita ed occupazione, mediante la cooperazione e la

predisposizione delle risorse disponili. Il confronto tra le parti avviene

all’interno di Tavoli territoriali per materie di interesse generale, o di

Tavoli specializzati per materie di tipo settoriale, ma di interesse per

l’intera economia regionale.

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La Lombardia è stata una delle prime Regioni a predisporre un Patto

sociale altamente strutturato, prima della riforma del 2001. La

complessità si evince dal tipo di obiettivi perseguiti, dalla

predisposizione delle azioni strategiche e dalle modalità di confronto.

Anche Abruzzo e Umbria hanno sottoscritto accordi sufficientemente

strutturati, come anche la Valle d’Aosta, regione in cui la

concertazione ha assunto un ruolo importante per la promozione dello

sviluppo economico, favorendo comportamenti cooperativi di attori

pubblici e privati.

Esempi più recenti sono rintracciabili anche nel Lazio, che pur

non aveva forti tradizioni concertative, nonché nell’Emilia Romagna

che nel 2004 ha siglato un Patto per lo sviluppo in linea con gli

orientamenti espressi dal Consiglio di Lisbona.

Tuttavia anche i sistemi altamente strutturati presentano delle

problematiche nell’attuazione dei Patti, dovute per lo più all’eccessiva

frammentazione nella definizione degli obiettivi, alla difficoltà di

dialogo tra soggetti pubblici e privati, alla poca efficacia degli

strumenti di monitoraggio del Patto.

I sistemi “debolmente strutturati” comprendono Regioni in cui non

sono stati sottoscritti veri e propri Patti per lo sviluppo e

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l’occupazione attraverso i quali definire obiettivi e modalità del

confronto in tema di programmazione regionale; tuttavia si può

riscontrare la presenza di Protocolli d’Intesa, che sebbene meno

strutturati rispetto ai Patti per lo sviluppo, permettono il confronto su

temi di rilevanza sociale ed economica. Esempi di questo genere sono

presenti in Liguria, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.

Nella categoria dei sistemi debolmente strutturati sono ricompresse

anche quelle regioni in cui si è utilizzato il partenariato economico-

sociale per creare il confronto tra le parti, soprattutto nei procedimenti

di attuazione degli strumenti di programmazione negoziata e nelle

procedure di erogazione dei fondi comunitari. Infatti a causa dei

Regolamenti fissati dalla C.E. e all’esistenza di costanti controlli da

parte dei Comitati di sorveglianza, l’attività di concertazione tra le

parti è sempre presente sul territorio, almeno a livello formale.

Per esempio, nel Meridione e particolarmente nella Puglia, esiste un

buon livello di concertazione limitatamente a quei settori che

usufruiscono di aiuti comunitari, mentre è pressoché carente in tutti gli

altri settori.

Si è potuta ampliamente riscontrare una netta differenza di approccio e

di iter procedurale tra i patti nazionali e quelli europei. I primi, avviati

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Page 87: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

in un clima di incertezza e instabilità dovuta alla carenza di riferimenti

normativi, sono stati costruiti a fatica sia sotto il profilo del progetto

imprenditoriale, che per il processo di concertazione. Invece i patti

“europei”, sottoposti a procedure ed a tempi definiti a priori

dall’Unione Europea, hanno sperimentato un processo di costruzione

progettuale più lineare e compatto, anche se non sono mancate

incertezze e slittamenti temporali. Conseguenze di questa

differenziazione (patto nazionale/europeo) sono rintracciabili anche

nella qualità della concertazione locale: episodica e strettamente

finalizzata al patto negli accordi nazionali, più sofisticata e sistematica

nei patti europei.

5. La Puglia

Con la fine dell’intervento straordinario nel 1992 si chiude

formalmente la stagione delle politiche legislative, degli strumenti e

delle risorse straordinarie per lo sviluppo del Me4zzogiorno e per il

riequilibrio regionale Nord-Sud. La liquidazione della Cassa per il

Mezzogiorno pone fine al sistema basato sulla figura protagonista del

“Governo centrale, che definiva scelte, finalità, caratteristiche,

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Page 88: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

modalità, entità, dislocazione nel territorio dell’intervento pubblico di

sostegno al Sud e i trasferimenti monetari di ingenti risorse”. 27

Tali fattori hanno “costretto” al cambiamento: le amministrazioni

locali hanno dovuto ripensare e soprattutto riformulare i processi di

sviluppo locale, rivalutando l’importanza delle strategie di

radicamento territoriale. Non bisogna dimenticare che la Puglia

presenta dinamiche economiche consistenti in alcune sue parti, mentre

altre sono di assoluta debolezza; di conseguenza necessita di un

coordinamento della programmazione dal basso, che si ponga come

motore verso lo sviluppo regionale e proiettato in ambito nazionale ed

europeo.

Tra gli strumenti di programmazione negoziata, il patto territoriale ha

registrato maggiore diffusione in Puglia, in termini di proposizione.

Esso rappresenta lo strumento più significativo del partenariato sociale

perché può attivare un programma di interventi nell’ambito

industriale, agroindustriale, turistico e nel comparto infrastrutturale. Il

patto territoriale è incentrato sulla definizione ed individuazione di

una strategia concertata e consensuale dello sviluppo del sistema

locale da parte dei diversi soggetti. La mobilitazione di tali attori ha

27 Roberto DI Gioacchino “Patti a rapporto. Indagine sui patti territoriali” Ediesse Roma, 2001, Pagg 13-16

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Page 89: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

condotto alla predisposizione nell’ambito della regione Puglia dei

seguenti Patti Territoriali:

• Nord Barese Ofantino

• Patto Territoriale Taranto

• Sistema Murgiano

• Patto Territoriale per l’Area di crisi di Brindisi

• Patto Territoriale per la Provincia di Lecce

• Patto Territoriale di Bisceglie, Bitonto, Giovinazzo, Molfetta,

Ruvo di Puglia e Terlizzi

• Patto Territoriale di Bari

• Patto Territoriale di Foggia

• Patto Territoriale di Martina Franca

• Patto Territoriale di Monopoli

• Patto Territoriale del Fortore

• Patto per l’area messapica.

Alcuni di questi patti rientrano tra i dodici Patti nazionali chiamati

di “prima generazione”, perché approvati prima della citata delibera

CIPE del 1997; sono state le esperienze che hanno fatto “da cavia”

alla sperimentazione pattizia, dal momento che non potendo essere

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Page 90: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

ancorate a norme di riferimento, hanno usufruito solo della

“promozione spontanea” guidata dal C.N.E.L.

Significative sono state le esperienze di Taranto e di Castellaneta-

Martina Franca, le quali, oltre la logica della filiera agro-alimentare,

hanno messo in luce l’importanza strategica che poteva assumere

l’affermazione dell’industria agro-alimentare, in un contesto dove il

sistema delle produzioni continua a premiare regioni come la

Campania e l’Emilia Romagna.

Partendo dall’analisi dei Patti realizzati in queste zone il primo

elemento che si può evidenziare consiste nella molteplicità dei

soggetti coinvolti. Per esempio, il Patto territoriale per l’agricoltura ed

il turismo rurale della Fascia Orientale della Provincia di Taranto è

stato sottoscritto da un numero consistente di Comuni (Taranto,

Manduria, Grottaglie, Monteiasi, S.Giorgio Ionico, Carosino,

Monteparano, S.Marzano, Roccaforzata, Pulsano, Lizzano, Leporano,

Sava……..ecc..), dalla Provincia, dalla Regione. Inoltre si nota una

forte presenza di organizzazioni professionali agricole ed

imprenditoriali (CIA, Confagricoltura, Coldiretti, Confcooperative,

Ascom), nonché delle organizzazioni sindacali (C.G.I.L., C.I.S.L.,

U.I.L., FLAI-CGIL, UILA-UIL, ALPA-CGIL, UGC-CISL, UIMEC-

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Page 91: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

UIL), della Camera di Commercio e del Gruppo di Azione Locale

“Comprensorio Rurale Ionico Sava”.

Ogni soggetto firmatario si assume impegni finalizzati a rimuovere gli

ostacoli che intralciano il normale iter burocratico: il Comune, la

Provincia si propongono di rendere più celere il rilascio di pareri,

autorizzazioni, assensi, nulla-osta da parte di enti ed uffici competenti

finalizzati alla realizzazione d’interventi pubblici e privati previsti dal

Patto territoriale attraverso l’attivazione dello strumento della

Conferenza di servizi, la quale “sarà ritenuta permanente finchè i

Comuni della Fascia Orientale della Provincia di Taranto non avranno

attuato l’intero programma del Patto”.

La Regione, invece, ha il compito di promuovere il Patto in tutte le

sedi istituzionali e di inserirlo tra le azioni e le iniziative dei

programmi regionali.

D’altra parte le organizzazioni sindacali intendono offrire il proprio

contributo alla realizzazione di obiettivi di consolidamento ed

ampliamento della base occupazionale.

Infatti, in un contesto di precisi progetti imprenditoriali e di corrette

relazioni sindacali, le organizzazioni cercano di utilizzare tutti gli

strumenti di flessibilità contrattuale e di temporaneo contenimento del

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Page 92: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

costo del lavoro al fine di realizzare un ambiente economico

favorevole all’attuazione di nuove iniziative per creare occupazione.

Il Tavolo di concertazione si propone di realizzare interventi che

attengono in ordine di priorità all’agricoltura (con riferimento alla

produzione primaria ed alla trasformazione dei prodotti effettuata

dalle aziende agricole) all’agriturismo, all’industria alimentare, alla

promozione di prodotti e di servizi offerti alle associazioni di

produttori dalle cooperative e dai consorzi.

I Patti di “seconda generazione” sono stati approvati con bando del

30/11/1998 e del 10/04/1999; essi hanno potuto fare riferimento a

norme e criteri stabili, nonché alla guida istituzionale del Dipartimento

per le politiche di sviluppo e coesione del Ministero del Tesoro.

Osservando ancora il contesto ionico, si possono segnalare i Patti

Agricoli di seconda generazione di Manduria con 22 progetti

finanziati e 5 infrastrutture proposte, e di Mottola-Comunità Montana

Murgia Tarantina con 98 progetti approvati.

Inoltre nella logica della valorizzazione dei prodotti agricoli e del

territorio ha preso avvio l’esperienza dei G.A.L. (Gruppi di Azione

Locale) dell’area orientale comprendente S.Giorgio/Manduria e

dell’area occidentale Massafra/Palagiano finanziati dal progetto

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Page 93: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

LEADER II (Liasion entre actions developpement de l’economie

rurale).

L’iniziativa LEADER II nasce in ambito europeo ed ha l’obiettivo di

affrontare le problematiche che insistono sulle zone rurali,

minacciandone il futuro: l’invecchiamento della popolazione, l’esodo

rurale, il calo dell’occupazione.

Questo progetto si è sviluppato in due fasi definite LEADER I e II,

entrambe finalizzate al coinvolgimento degli operatori locali,

all’apertura delle zone rurali ad altri territori mediante lo scambio ed il

trasferimento di esperienze.

Il completamento dell’iniziativa LEADER è stato realizzato con la

creazione di una nuova fase definita LEADER + (Plus), la quale si

propone di incoraggiare ed avviare gli operatori rurali a riflettere sulla

potenzialità del territorio in una prospettiva a lungo termine.

In Puglia un esempio di tale iniziativa è costituito dal progetto

“VALLE dei TRULLI”. Esso ha coinvolto i territori dei comuni di

Alberobello, Cisternino, Locorotondo e Martina Franca, caratterizzati

da strutture architettoniche definite trulli e da un insieme di masserie

che costituiscono una risorsa di grande pregio per la nostra regione da

utilizzare con razionalità. E’ interessante notare che anche in questa

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Page 94: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

esperienza le organizzazioni sindacali (FLAI, FISBA, UILTA di

Taranto) e le organizzazioni provinciali (CIA, Coldiretti e UPA di

Taranto) si sono impegnate in iniziative volte a coinvolgere le parti

sociali e le associazioni ambientaliste, mediante richieste alle

istituzioni di tavoli di concertazione allo scopo di individuare percorsi

comuni che abbiano ad oggetto la promozione dell’iniziativa.

In conclusione, mi sembra doveroso accennare che la Regione Puglia,

nel rendere concrete le premesse indicate a livello europeo circa la

necessità di monitorare l’andamento dei Patti, ha predisposto una

legge nel 2006 allo scopo di regolarizzare l’attività dei lavoratori

dipendenti impegnati in progetti finanziati a qualsiasi titolo dalla

Regione.

La legge n. 28/2006 “Disciplina in materia di contrasto al lavoro non

regolare” approvata dal Consiglio regionale pugliese è stata la prima

in Italia ad occuparsi del problema ed a predisporre uno strumento

legale in tal senso. L’articolo 2 stabilisce, infatti, che “nei

provvedimenti di concessione di benefici accordati a qualsiasi titolo

dalla Regione Puglia, in via diretta o indiretta, ai sensi delle vigenti

leggi regionali, a favore di datori di lavoro, imprenditori e non

imprenditori,……nei bandi per l’erogazione da parte della Regione

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Page 95: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

Puglia….di fondi comunitari, nazionali e regionali deve essere inserita

la clausola esplicita determinante l’obbligo per il beneficiario,

appaltatore o sub appaltatore di applicare o di far applicare nei

confronti dei lavoratori dipendenti o, nel caso di cooperative, dei soci,

quale che sia la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro

intercorrente, contratti collettivi nazionali e territoriali del settore di

appartenenza, stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e

dalle associazioni dei datori di lavoro comparativamente più

rappresentative sul piano nazionale.”

La dimostrazione del rispetto di quanto stabilito all’articolo 2 è la

condizione per l’accesso a qualsiasi beneficio economico e normativo,

per la partecipazione a bandi o a gare d’appalto e per il godimento di

erogazioni da parte della Regione Puglia a qualsiasi titolo.

Infine si può constatare che anche in questo contesto si prevede la

promozione della redazione di protocolli d’intesa tra le Pubbliche

Amministrazioni presenti sul territorio regionale e le organizzazioni

sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano

regionale,nei quali la committenza pubblica assuma quale criterio per

gli appalti di opere, servizi e forniture la previa quantificazione degli

oneri di personale,nel rispetto delle leggi in materia di lavoro e dei

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Page 96: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

contratti collettivi nazionali e territoriali del settore di appartenenza,

stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dalle

associazioni dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative

sul piano nazionale (art 9).

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Page 97: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

CONCLUSIONI

Tra i principi fondamentali, la Costituzione riconosce all’articolo 4 il

diritto al lavoro ( La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al

lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto),

inteso come diritto sociale e di libertà.

Diritto di libertà perché la scelta del lavoro non può essere imposta

dall’esterno.

Diritto sociale perché realizza la pretesa del cittadino, inteso come

“persona sociale”, di poter lavorare senza subire l’interferenza abusiva

o discriminatoria dei poteri pubblici o privati; infatti il diritto al lavoro

mira piuttosto a garantire un’uguaglianza formale e sostanziale delle

persone rispetto al lavoro disponibile, nonché a cercare l’equilibrio

della concorrenza tra le persone e la sicurezza rispetto agli abusi legati

a qualità personali, sia nel mercato del lavoro sia durante il rapporto di

lavoro.

Nella sezione dedicata ai Rapporti economici, al titolo III, il

Costituente delinea la tutela del lavoro “in tutte le sue forme ed

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Page 98: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

applicazioni” (art. 35), definendo il diritto ad una retribuzione

“proporzionata ala quantità e qualità del lavoro” sufficiente ad

assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa (art. 36).

Ritengo che quest’articolo rappresenti il punto focale di ogni

osservazione e considerazione: l’obiettivo, al quale ogni essere umano

mira, attraverso la prestazione della propria attività lavorativa, è

l’esistenza libera e dignitosa.

Quindi il lavoro è, non solo il fondamento sul quale poggia la nostra

Repubblica democratica, ma soprattutto è il mezzo, lo strumento

attraverso il quale l’uomo realizza la propria felicità: l’esistenza libera

e dignitosa per sé e per la propria famiglia.

La garanzia di tale strumento, nel corso degli ultimi secoli, dagli

albori della Rivoluzione Industriale fino ad oggi, ha costituito la

ragion d’essere dell’organizzazione sindacale.

Infatti, come ho ampliamente spiegato nei capitoli dedicati al

sindacato, l’inserimento di questa organizzazione all’interno del

dettato costituzionale ha portato nuova forza ai movimenti che

rappresentano e tutelano gli interessi dei lavoratori.

L’art. 39 definisce l’organizzazione sindacale “libera”: è una libertà

intesa a 360° gradi, che garantisce sia la libertà del singolo di

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Page 99: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

adoperarsi ai fini sindacali, sia la libertà “negativa” di non aderire a

tali iniziative. Inoltre è sottintesa anche la libertà intesa nel senso di

non sottoposizione ai controlli pubblici.

Indubbiamente l’art. 39 esalta una libertà tipica, perché diversa dal

diritto di associazione, e come tale risulta essere particolarmente

“rafforzata”; l’autonoma proclamazione della libertà sindacale

produce effetti specifici che sono riferibili alle sole organizzazioni

sindacali: la garanzia di una libera esistenza e la possibilità di operare

nel contesto socio-economico a prescindere da qualsiasi interferenza

autoritaria.

Il sindacato, cioè l’associazione di rappresentanza dei lavoratori,

svolge in primo luogo un grande ruolo di protezione del lavoro dal

libero ed incondizionato funzionamento del mercato. Il suo obiettivo è

sempre quello di porre l’andamento dei salari e delle condizioni di

erogazione del lavoro al riparo dalla concorrenza, in primo luogo

quella tra lavoratori, ma anche quella tra i datori.

L’attività svolta dal sindacato è un’azione di rappresentanza che si

compie nella pratica quotidiana, ma è soprattutto un’azione tesa alla

negoziazione formale ed informale. Lo strumento fondamentale

utilizzato dai sindacati è la contrattazione collettiva, da intendersi

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Page 100: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

come l’insieme dei rapporti più o meno negoziali, e più o meno

formali che intercorrono tra sindacati e imprese in ordine alla

regolamentazione dei rapporti di lavoro.

Tra le altre forme di regolamentazione perseguite dai sindacati si può

scorgere la “partecipazione”, intesa come coinvolgimento nelle

decisioni: essa si realizza quando nella contrattazione si riduce il peso

degli obiettivi conflittuali a favore degli obiettivi cosiddetti “di

convivenza” tra le parti. In tal caso i confini tra contrattazione

collaborativi o partecipativa e forma dei partecipazione in senso

proprio tendono va diventare meno netti.

Esempi di questo tipo sono riscontrabili nei diritti d’informazione

sulle politiche d’impresa o nella contrattazione sui processi di

ristrutturazione o riconversione industriale, in cui si è resa necessaria

una partecipazione nella gestione dei processi organizzativi e

tecnologici per il soddisfacimento degli obiettivi rivendicativi.

Quindi la contrattazione collettiva contribuisce a creare una vera e

propria rete di relazioni che vede al proprio centro sindacati ed

imprese, ed attraverso la quale si esercita nei fatti la rappresentanza

sindacale. E’ un sistema di rapporti di interdipendenza che

intercorrono in senso orizzontale, fra i diversi soggetti coinvolti nella

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Page 101: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

contrattazione e, in senso verticale, all’interno dei soggetti stessi, cioè

tra i livelli stessi.

Con il termine “Relazioni Industriali” si suole individuare un rapporto

abbastanza stabile, non solo occasionale, fra gli attori ed implica una

qualche forma di transazione volontaria, e non semplicemente un

rapporto segnato dall’autorità.

Secondo Cella e Treu, il sistema di relazioni industriali è identificabile

con “l’attività di produzione più o meno sistematica e più o meno

stabile, di norme più o meno formalizzate relative all’impiego del

lavoro dipendente e alla controversie che da tale impiego derivano,

effettuata in prevalenza a partire da rapporti tra soggetti collettivi più

o meno organizzati (sindacati dei lavoratori, associazioni

imprenditoriali…).”

Uno dei risultati più importanti ottenuti attraverso la cooperazione tra

pubblici poteri ed associazioni di interessi è stata senza dubbio la

concertazione, che negli anni novanta è stata espressione del

pluralismo sociale organizzato, ma soprattutto è stata funzionale

all’inserimento delle associazioni di interessi nei meccanismi

istituzionali di decisione politica.

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Page 102: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

Il momento topico per l’affermazione della concertazione è stato

l’Accordo del 1993, il quale ha posto in essere un sistema di “meta-

norme” di concertazione: ha individuato le funzioni e gli obiettivi che

questo metodo persegue, i soggetti negoziali e le caratteristiche di

ognuno.

Ma bisogna, d’altra parte, riconoscere che il negoziato del 1993 nasce

in un momento di debolezza dei soggetti che lo sottoscrivono.

Il governo, nato dalla fase di transizione in seguito alla crisi dei partiti,

è tecnico, quindi privo della maggioranza di riferimento e bisognoso

del sostegno e della legittimazione sociale offerta dalle organizzazioni

degli interessi, in sostituzione dell’investitura elettorale. Tuttavia tale

carenza del governo si è trasformata in una risorsa negoziale, perché la

trattativa è risultata svincolata da logiche di schieramenti e l’accordo è

apparso come a-politico. Inoltre, il governo ha saputo svolgere

un’attività di mediazione orientata solo alla soluzione del conflitto

attraverso obiettivi che fossero conformi agli interessi di tutta la

collettività e non solo a quelli di parte.

D’altra parte bisogna riconoscere che anche le parti sociali erano prive

del requisito del monopolio “reale” della rappresentanza: fenomeni

come la trasformazione dell’economia, la crescita del settore terziario,

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Page 103: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

l’aumento della disoccupazione avevano reso deboli le organizzazioni

sindacali, le quali non erano in grado di realizzare un’efficace

mediazione degli interessi collettivi.

Infine va rilevato che anche le organizzazioni dei datori di lavoro

erano in una situazione difficile creata dalla privatizzazione delle

imprese a partecipazione statale, ma soprattutto dalla crisi economica

e dai processi di ristrutturazione che hanno determinato profonde

trasformazioni nel capitalismo italiano.

Nonostante queste cause di debolezza “endogene”, al negoziato del

1993 va riconosciuto, innanzitutto, il merito di aver fatto acquisire un

consenso quasi generale sulle politiche definite e, in secondo luogo, di

rendere vincolanti nei confronti di tutti i soggetti partecipanti gli

impegni stabiliti attribuendo maggiore efficacia alla politica dei redditi

e dell’azione contrattuale.

Infatti, la concertazione ha definitivamente sostituito il meccanismo di

indicizzazione automatica dei salari che si era mostrata incapace di

contenere la spirale prezzi-salari, creando effetti negativi sulla

dinamica delle retribuzioni e sull’andamento dell’economia.

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Page 104: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

Inoltre è stata attribuita una rilevante importanza alla contrattazione

aziendale, la quale ha permesso la distribuzione di parte dei frutti ai

lavoratori mediante incrementi retributivi non inflazionistici.

Infine, si può constatare un ruolo più attivo del governo, al quale sono

attribuite due funzioni principali: formulare il quadro degli obiettivi

macro-economici (fissazione del tasso di inflazione programmata,

politica dei salari pubblici, dinamica degli aggregati di finanza

pubblica) e rendersi promotore e garante degli accordi (un esempio è

la politica degli ammortizzatori sociali).

Indubbiamente la fase più “propositiva” della concertazione è legata al

biennio 1995/1996, periodo in cui la dinamica delle retribuzioni

contrattuali segue la strada delineata dal tasso di inflazione

programmata e contribuisce a disinnescare definitivamente i

meccanismi legati all’inflazione.

Contemporaneamente la contrattazione aziendale, anche se imputabile

ad una parte esigua dei lavoratori, si sviluppa in linea parallela alla

contrattazione nazionale mostrando elementi di innovatività

soprattutto sul piano normativo 28.

Successivamente, però, la spinta propositiva della concertazione si

esaurisce soprattutto a causa della componente sindacale, la quale 28 Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali (2001), “Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e del lavoro”, Franco Angeli, Milano

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Page 105: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

avverte il tasso di inflazione programmato come un’indicatore poco

rassicurante per l’inflazione futura, tanto da portare a fenomeni di

aperta contestazione.

Sembra quasi che la concertazione sopravviva a sé stessa cristallizzata

in un meccanismo di cui le parti sociali avvertono sempre meno i

vantaggi e sempre più la saturazione. Le cause della crisi possono

essere imputate in primo luogo alla non omogeneità del sistema

produttivo italiano e del mercato del lavoro.

Infatti ci sono aree in cui si registra il sostanziale pieno impiego, o

addirittura un eccesso strutturale di domanda di lavoro, ed aree in cui

il tasso di disoccupazione è elevato e pressoché costante (al Sud negli

ultimi 20 anni non è mai sceso sotto il 15%) 29. Conseguenza di questo

fenomeno è la presenza dei sindacati concentrata in poche grandi

imprese al Nord e meno attiva e diffusa in altre zone della penisola.

Inoltre sussiste una certa responsabilità dell’apparato statale,

colpevole di non aver saputo predisporre un adeguato sistema di

ammortizzatori sociali (o più in generale un “welfare”) necessario a

fornire ai lavoratori una compensazione per il sacrificio da questi

accettato in ambito retributivo e distributivo.

29 ISTAT, “Indagine sulla flessibilità del mercato del lavoro nel 1995-1996”, 1999

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Infine, si può riscontrare una evidente incapacità di crescita

dell’economia italiana soprattutto negli anni più recenti, che ha

insinuato una crescente sfiducia nell’uso della concertazione.

E’ emersa una situazione in cui le esigenze delle imprese e quelle dei

sindacati sono divenute sempre meno compatibili, con la conseguenza

di trasformare il clima di cooperazione in conflittualità da entrambe le

parti.

In particolare, sono emerse spinte centrifughe, causate dall’incapacità

di concludere accordi soddisfacenti per tutti e dal venir meno

dell’azione del governo in funzione di collante fra le parti sociali.

Prima conseguenza di tale atteggiamento è stata la conclusione di

accordi separati da parte di alcuni sindacati.

Nonostante tutto, bisogna riconoscere il tentativo dell’esecutivo di

rivalutare il metodo della concertazione, soprattutto verso la fine degli

anni novanta; il governo in questo caso ha introdotto un correttivo: ha

coinvolto nei tavoli di concertazione un numero sempre maggiore di

soggetti (Confcommercio, Artigiani, Cooperative, Regioni),

consapevole di dover mediare tra troppe istanze eterogenee.

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Page 107: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

Tuttavia neanche questo metodo ha prodotto i risultati sperati, con la

conseguenza che sempre più spesso sono state ricercate nuove e

diverse strade.

In conclusione, mi sembra opportuno formulare qualche riflessione in

riferimento alla cosiddetta “concertazione territoriale”, che per mezzo

degli strumenti di programmazione negoziata introdotti dall’art. 203

comma secondo, della L. 662/96, ha trovato attuazione nel tessuto

regionale italiano.

Obiettivo primario dei “contratti d’area” e, soprattutto, dei “Patti

territoriali” è lo sviluppo locale del Mezzogiorno e più in generale,

delle aree di crisi e depresse del Paese.

Il Patto territoriale è concepito come uno strumento di politica

economica volto a modificare il contesto circostante ed a creare un

sistema di relazioni orientato allo sviluppo ed alla crescita

occupazionale. Tuttavia l’effettiva realizzazione “sul campo” ha

messo in mostra evidenti discrepanze tra quanto è stato programmato

e quanto concretamente è stato prodotto.

In primo luogo si può constatare che la concertazione che costituisce

l’anima del metodo pattizio, spesso ha condotto “alla formazione di

coalizioni collusive, opportunistiche, ossia ad intese orientate

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unicamente al drenaggio delle risorse finanziarie pubbliche centrali. Si

sta insieme e si finge di concertare perché questa è la condicio sine

qua non per ottenere le agevolazioni pubbliche, oppure non

infrequentemente, perché semplicemente non si sa concertare in

quanto non c’è l’accumulo locale di esperienza concertativa…..”. 30

In sostanza, quando lo stimolo più forte a far parte di un Patto

territoriale deriva alle società locali dall’attesa di finanziamenti

aggiuntivi, l’unico risultato possibile è una concertazione “virtuale”,

quasi una finzione che non comporta il tanto auspicato cambiamento

delle regole del gioco, anzi al contrario, crea non poche difficoltà nella

gestione concreta del Patto.

Tra le cause di questo fenomeno, peraltro abbastanza circoscritto, si

può segnalare il comportamento dei soggetti coinvolti, i quali tendono

a sottovalutare le potenzialità espansive del Patto e la funzione

centrale dei tavoli di concertazione. Soprattutto le imprese e le

associazioni imprenditoriali dimostrano scarsa disponibilità a creare

un dialogo con le organizzazioni sindacali mostrandosi reticenti

all’apertura di tavoli negoziali per realizzare intese su diritti e tutele

dei lavoratori assunti, sul lavoro sommerso ed in generale sulle

condizioni di lavoro.30 Domenico Cerosino “I Patti Territoriali” in “Mezzogiorno. Realtà, Rappresentazioni e tendenze del cambiamento meridionale” Donizelli Editore, Roma, 2000, Pag.223

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Page 109: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

Di conseguenza si rende necessario, per una buona riuscita dello

strumento pattizio, una “regia forte”, un governo del processo di

formulazione che faccia emergere dall’interno del confronto e dalla

negoziazione le ipotesi progettuali più fertili; tale processo deve essere

gestito da un attore super-partes che si faccia garante degli interessi

dell’intera collettività, cioè l’Ente locale.

In particolare, dovrebbe essere il Comune “capoluogo” di un territorio

ad assumere su di sé la funzione di iniziativa ed avviare effettivamente

il processo di elaborazione del Patto.

Questo Ente dovrebbe dar vita ad un tavolo cui siano presenti

rappresentanze sociali ed enti locali di un territorio, assumendo su di

sé le funzioni di informazione (costruzione del consenso intorno allo

strumento individuato, attività di ricognizione e di elementi

conoscitivi sull’assetto economico e sociale di un territorio), di

prescrizione (la definizione operativa dei progetti che costituiscono

materialmente il Patto), di applicazione (consistente nella scelta

dell’Ente responsabile dell’attivazione).

In conclusione mi sembra necessaria ed opportuna la presenza “forte”

di un soggetto in funzione di guida e, come tale, riconosciuta da tutte

le componenti, per rendere davvero reale ed effettivo lo sviluppo

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Page 110: LA LIBERTA’ SINDACALE A) Le fonti 1. La Costituzione organizzazione sindacale (art. 39) nonché il diritto di sciopero (art. 40). Quindi si può notare come nel nostro ordinamento

territoriale, nel quadro della prospettiva federalista delineata in ambito

costituzionale.

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