La letteratura e la città dei ragazziin La Città dei Ragazzi, avviene un capovolgimento esemplare,...

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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 55 La letteratura e la città dei ragazzi INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - SOTTO L’EGIDA DEI DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE

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Elio Fiore (1935-2001) incarna perfettamente, nella vita e nella poesia, il puer della continua meraviglia e il profeta addolorato, perennemente in ricerca della pace e della fratellanza, che indica al mondo «la stella profonda della speranza». Tra i suoi libri Dialoghi per non morire (1964), In purissimo azzurro (Garzanti, 1984), Nell’ampio e nell’altezza (1987) e lo splendido colloquio con i poeti amici in Il cappotto di Montale (Scheiwiller, 1998). In attesa di parlare di lui nei prossimi numeri di “Mosaico”, introduciamo il tema “letteratura e città dei ragazzi” con versi tratti da I bambini hanno bisogno, Interlinea, 1999, con le illustrazioni di Giosetta Fioroni e la testimonianza di Rafael Alberti.

Elio Fiore Veglio per te, Francesco

E’ notte e io veglio.Veglio per te, Francesco.

Che tu nasca libero e fortementre sanguina il mondo

e il Cristo è ancora crocifisso.Che tu nasca in un’albad’eterna primavera, sotto

la stella profonda della speranza, nel Duemila che s’avanzanella pazienza di un futurofrenetico che genera la vita

non più disumana e di morte.

Prego per te, Francesco.Che tu nasca nella grazia

e nella fiamma inesauribile dell’amore.Per te attendo l’alba.

Shabat shalòm Francesco.

luglio / 2008

Istituto Italiano di CulturaEditora Comunità

Rio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore responsabileFabio Pierangeli

DirettoriRoberto Mosena e Serena Maffìa

GraficoAlberto Carvalho

CopertinaArchivio personale

ComItato dI redaZIone

Anna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Cristiana Cocco (UFF); Cristiane Magalhães; Doris Natia Cavallari (USP); Ernesto Livorni (Wisconsin-Madison); Esman Dias (UFPE); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Francesca Papi; Giovanni Zambito; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Laura Pacelli; Livia Apa (Istituto Orientale di Napoli); Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Mauricio Santana Dias (UFF); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG)

ComItato edItorIale

Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus

gruppo dI traduZIonI

Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.

rICerCa

Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata”

esemplarI anterIorI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.

sI rIngraZIano

ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP.

stampatore

Editora Comunità Ltda.

ISSN 1676-3220

I bambini hanno bisogno

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La letteratura e la città dei ragazzi

Mosaico

Il poeta è per sua natura un protrattore d’infanzia, suggerisce Marco Baliani,

attore, drammaturgo, scrittore che ama circondarsi nei suoi spettacoli, penso a Pinocchio nero, favola di Collodi ripen-sata in Africa (il cui “diario” è pubblicato da Rizzoli), con attori adolescenti, e al recente La notte delle lucciole, dove interpreta Leonardo Sciascia, circondato dai suo scolari,

sempre pronti a porre doman-de, a portare esperienze, con vivacità, trasporto, convinzio-ne, se adeguatamente stimo-lati dal docente.

Sempre di più appare ne-cessario mostrare gratitudine verso la spontanea e profonda creatività artistica, quando si rende capace di destare me-raviglia e stupore, attraverso una parola luminosa: ci ri-troviamo con il cuore aperto,

gonfio di attesa, tenerezza, speranza, riguadagnando al mondo lo sguardo dei bam-bini. Questo atteggiamento deve essere “difeso”, innan-zitutto proprio nei bambini, negli adolescenti, nei ragazzi, affinché sia possibile ammi-rarlo, ritrovarsi, accedere a quella spontaneità creaturale capace di immettere dentro grandi verità nascoste all’uo-mo impegnato nelle sue se-

riose attività, troppo spesso corrotte da avidità o ambizio-ni “sbagliate” di ogni genere. Segnalo a questo proposito la bella iniziativa del liceo ro-mano Amaldi con l’istituzione “Noi ragazzi del mondo”, sfo-ciata nel libro Pacha Mama, che racconta come in un dia-rio di viaggio, l’esperienza di incontro tra ragazzi italiani e i loro coetanei dell’Ecuador.

Tra i tanti scrittori inse-gnanti, o particolarmente sen-sibili a queste problematiche, un posto di rilievo, unanime-mente riconosciuto dagli ad-detti ai lavori, spetta ad Eraldo Affinati, e in particolare al suo ultimo libro, di cui, in senti-to e grato omaggio, abbiamo utilizzato il titolo per questa sezione di Mosaico: La Città dei Ragazzi, edito da Monda-dori, nel 2008.

Le maiuscole del titolo in-dicano che si tratta di una isti-tuzione, creata, nel Secondo Dopoguerra, dal Monsignore irlandese John Patrick Caroll-Abbing, per accogliere ragazzi in difficoltà, soprattutto orfani, con l’idea, appunto, di creare una città governata, con tanto di cariche istituzionali, dal sin-daco in giù, dagli stessi ragaz-zi. Affinati, dopo alcune espe-rienze nelle periferie, ha scelto di insegnare letteratura e storia nella sede romana dell’impor-tante istituzione, ora dedita particolarmente all’inserimen-to di bambini, adolescenti, ragazzi extracomunitari. Così Affinati riassume l’esperienza di Abbing: «Cuore grande. Te-sta dura d’irlandese. E’ lui che, raccogliendo gli orfani dalle macerie, nel Secondo Dopo-guerra, si inventò tutto questo: il sistema dell’autogoverno coi sindaci bambini, gli assesso-ri alle finanze, allo sport, gli ispettori, la moneta locale, chiamata lo scudo, utile per

comprare succhi di frutta e merendine. Morì nel 2000: non feci in tempo a cono-scerlo. Ma, venendo qui ogni giorno, è come se gli parlassi. Immagino mi batta la mano sulle spalle. Coraggio, figliolo, andrà tutto bene».

In questo libro straordi-nario, si intrecciano tre livel-li di racconto, l’esperienza dell’insegnamento nella Città, il viaggio commovente con il quale Affinati accompagna due allievi nella loro patria, il Marocco, la memoria, tra conflitto e amore, del padre recentemente scomparso, con pagine di una umanità così vera da strappare lacrime di immedesimazione.

Il tema dell’orfanità, dall’individuo alla collettività, rimane quello centrale: così come la difesa del valore po-etico dell’infanzia e dell’ado-lescenza. Eraldo Affinati si ri-conosce nell’infanzia difficile di questi ragazzi e, con suc-cesso, li trascina, attraverso la letteratura e la storia, verso una visione diversa della real-tà, maieuticamente estraendo la loro stessa poeticità, inte-sa come visione stupita del mondo e della natura e, per quanto possibile, anche della società degli uomini

Vorrei sottolineare due pas-saggi di questo testo, e più in generale dell’opera narrativa e morale di Affinati. Il primo si racchiude nella frase di Teil-hard de Chardin posta in eser-go a La Città dei Ragazzi, in cui pensiero e azione devono ritrovarsi: «C’è un’opera uma-na da compiere». Il secondo passaggio è una espressione, su cui Affinati insiste spesso nei suoi incontri con gli stu-denti, del grande teologo Die-trich Bonhoeffer, perseguitato e ucciso da Hitler e di cui lo scrittore, appassionatamente, ha redatto una biografia ro-manzata: «la libertà non è nel superamento del limite, ma nella sua accettazione».

Mi sembra una delle chia-vi d’accesso del lungo itinera-rio di questo scrittore, classe 1956, romano: agli inizi della sua carriera, in Soldati del ’56, dedicato, attraverso la metafo-ra bellica, al mondo degli in-segnanti, esplode la rabbia per l’inadeguatezza della società rispetto ai desideri e ai valo-ri di libertà, e si manifesta la volontà, onnipotente, sia pur in larga parte sconfitta, di por-si a capo di una pacifica, ma radicale, rivolta. Con modalità diverse, la stessa immagine fi-gurale di porsi alla testa di una ribellione, con la coscienza di

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essere chiamato al comando, si propone nella prima parte di Bandiera bianca (1995), (de-dicato all’esperienza di inse-gnamento nei manicomi), nei racconti di Uomini pericolosi (1998), in il Nemico negli occhi (2001), tutti pubblicati da Mon-dadori. Nella seconda parte di Bandiera bianca, nell’esperien-za capitale del viaggio a piedi ad Auschwitz, raccontata nello splendido Campo del sangue (1997) e poi, compiutamente in Secoli di gioventù (2004) e in La Città dei Ragazzi, avviene un capovolgimento esemplare, nella prospettiva indicata dal-la frase di Bonhoeffer: il capo, il più dotato, il più sensibile, sfilandosi i pesanti scarponi di miliziano della rabbia, ri-prendere il cammino a piedi nudi, chinandosi, con un ge-sto di grande umiltà, a lavare quelli infangati e piagati degli altri. Si pone a chiudere la fila di un’ideale pellegrinaggio, si rende compagno di esperienze diverse, per capire, conoscere, apprezzare, donare. Letteral-mente accompagna i più gio-vani in un viaggio di ritrova-mento di loro stessi, non impo-nendo nulla, ma seguendoli, imparando da loro. Con que-sto comportamento, e i risultati si vedono, nei gesti, nelle azio-ni, si fa protrattore di infanzia,

compiendo concretamente, nell’emendamento amorevole degli errori del padre, quello che nella proprio nella gioven-tù era stato sottratto.

Un sempre toccante rap-porto tra ragazzi e adulti (in-segnanti e genitori) si legge nei romanzi di Paola Mastro-cola tra i quali spiccano La gallina volante e lo struggente La barca nel bosco, Premio Campiello 2004, e il recente Più lontana dalla luna, sem-pre per la Guanda editrice. Classe 1956, torinese, fine studiosa di Letteratura ita-liana, insegnante, descrive la realtà (e la varia umanità) della scuola e dell’universi-tà italiana accompagnata da realistico disincanto, ma non da rassegnazione né da pia-gnisteo, gettandosi con iro-nia e semplicità in situazioni iperboliche, già espresse nei titoli: La gallina volante (l’in-segnante coltiva le galline e le istruisce al volo), La barca nel bosco(utopia del ragaz-zo protagonista, ma anche ci sembra della scrittrice, di piantare alberi nelle case).

In controtendenza con altri romanzi ambientati nel mondo della scuola, colpisce il rapporto di commovente umanità stabilito dai docenti protagonisti con gli adole-scenti, dalla prediletta Tanni (La gallina volante), al giovane talento della La barca nel bo-sco, scoperto in un’ isola del sud da un brava insegnante di francese e convinto ad andare a studiare a Torino, con gravi sacrifici per il padre, rimasto sulla sua barca di pescatore a guadagnare, nella forzata lon-tananza dal resto della fami-glia, i soldi necessari.

Il libro racconta la penosa formazione al contrario del ragazzo, superlativo in latino ma ignorante del linguaggio

del branco: Nike, playstacion, cintura di pesce. Il suo sforzo per integrarsi sarà prima inet-to e poi trionfante, a costo di sacrificare il latino (anche se proprio grazie a questo, sa-prà iniziare il suo cammino per essere accettato, facendo copiare a tutti gli altri il suo brillante compito in clas-se). Ma il personaggio è più complesso, pur adeguandosi mantiene, in privato, la sua diversità, continua a tradur-re latino, e poi all’università, pur prendendo prima Scienze della Comunicazione e poi Giurisprudenza, farà di tutto, riuscendoci, a dare la tesi su il suo amore letterario

Verrà estromesso violen-temente dall’università, dove era rimasto con la promessa di una brillante carriera, in-franta per far posto al racco-mandato figlio di..

Si inventerà barista, ma con allegria, fino a realizzare la sua utopia: diverrà abile e richiesto architetto di case con dentro vere e proprie foreste.

Non sono le alterne vicen-de tra rancore, coscienza, de-gradazione e massificazione, che restano a fine libro, ma i colloqui umanissimi, com-moventi, senza retorica, con la madre prima e soprattutto con il padre, poi. Sappiamo solo verso la fine della sua morte, dove infatti nel rac-conto c’era un vuoto, a metà del secondo anno della scuo-la, subito dopo la più penosa esperienza di quel tentativo di integrazione, con una pre-potente ragazzina francese. Le pagine finali allora illu-minano il racconto, in modo struggente: tutte le azioni del ragazzo non erano altro che un lungo, stremato, strazian-te, dialogo con il padre, di ri-volta e di passione, di amore. Alla fine solo di amore.

Consiglio alla lettura il bel libro di Enzo Nesi, Come cambiare il mondo in sessan-ta ore, Aracne, 2007, per la passione con cui racconta l’esperienza di docenza uni-versitaria nella Facoltà di Fi-sica, insegnando matematica, in un significativo rapporto di continuità di esperienze tra il ricevere (i propri maestri) e il dare (i propri alunni) incon-trati come singole persone, chiamati per nome e a cui si trasmettono, senza perdere la dovuta autorevolezza, anche sogni, speranze, difficoltà, uno stile di vita.

Per astrali convergen-ze fortunate, ho occasione di leggere la favola leggera, commovente, educativa per i “grandi” di Dario Buzzolan, Favola dei due che divennero uno, Milano, Baldini e Castol-di, 2007 (classe 1965, autore di altri tre romanzi di succes-so, di cui ricordo l’esaltante esordio di Dalla parte degli occhi, Mursia editore) dopo aver provato identica emo-zione di fronte al finale del film Pixar Ratatouille, quan-do il grande, onnipotente cri-tico, hidalgo triste e misan-tropo, che “non sorride mai e si diverte a scrivere male dei ristoranti”, Egò, deve ammet-tere di aver sbagliato, di aver usato a lungo il pregiudizio della sua perfezione, e riesce a provare stupore di fronte al più semplice dei pasti, la zup-pa di rape (con una agnizione dell’infanzia, a quello stesso piatto povero preparato dalla madre per le misere condi-zioni della famiglia a cui, in una sorta di compensazione aveva risposto con la rabbia di tutta una vita). E poi capi-tolare definitivamente, con una recensione appassionata e sentita verso quel ristorante, di fronte alla clamorosa sco-

perta di chi fosse il cuoco di una simile prelibatezza, fino ad ammettere: «c’è molta più anima nei piatti mediocri che ho criticato con rabbia e sup-ponenza, indubbia ragione e mestiere, che non nel mio giudicarli, condannandoli senza appello».

Nella bellissima storia di Buzzolan, sospesa tra fa-vola e realtà, si respira una medesima aria di stupore, di conversione, di agnizio-ne verso un sentire infantile considerato, a ragione, come piena maturità e consapevo-lezza del destino degli altri. La linea centrale del racconto concentra nei momenti in cui Buzzolan ci immette nel desi-derio del medico di osservare, da protagonista, il momen-to della nascita (e in seguito della morte) di una creatura nuova, nata dallo “scontro” di altre due persone, nell’epi-sodio fantasioso che innesca la favola, ammicco capovol-to al celeberrimo racconto Il Visconte dimezzato. A più di cinquant’anni di distanza il tema rimane identico: Italo Calvino scriveva di un uomo “dimidiato”, Buzzolan di un uomo incompiuto, in tutte e due i casi in ricerca dell’in-terezza, della totalità, o al-meno di una “guida” che ne contenesse qualche scheggia. Nei rispettivi finali capovolti tutto torna “normale”, ma se nel Visconte dimezzato, si ri-corderà, pesante resta la no-

stalgia di un legame interrot-to, di uno baratro insanabile tra la naturale piena speran-za dell’infanzia e la neces-sità dell’essere adulti in uno mondo pieno di responsabili-tà e fuochi fatui, nella favola di Buzzolan, al contrario si ritorna ad aver il cuore puro, è possibile stupirsi da grandi, come i bambini, quindi più dei bambini, ovvero con tutti il carico di responsabilità da portare: «Ho scoperto una cosa: ciò che tutti credono, ossia che un attimo prima di morire ci passi davanti agli occhi tutta la vita, non è esatto. In realtà ci viene a far visita un unico ricordo; ma è un ricordo che vale l’inte-ra esistenza. Io per un attimo ho rivisto come dalla culla di mia madre che mi canta-va una canzone. E ho capi-to che nella vita non c’altro che valga, se non mettere al mondo: un oggetto ben fatto o un essere vivente o anche se stessi in modo nuovo, non fa differenza.

Mettere al mondo.E’ in quel lampo che ho

avuto la mia redenzione».Così la morte, come per

i burattini filosofi di Pasolini, è trovare il paradiso, diven-tare uomini, ovvero, lasciare l’uomo vecchio per il nuovo, sempre, qui nell’esperienza di questa terra:

«Ecco come sono mor-to. Ma non sono dispiaciuto; anzi, sono felice. Anche per che qui non si potrebbe sta-re meglio. Siamo tanti; e tut-to quello che dobbiamo fare, ogni volta che ne abbiamo voglia, è raccontare la nostra storia come se fosse una spe-cie di favola.

Quando ero vivo ci pensa-vo sovente. Ma che il paradi-so fosse questo, davvero non lo avrei immaginato».

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Alì: una volta, questi erano i nostri occhi: l’Africa di Affinati

Luca Gabriele

Scartavo dal cellophane La Città dei Ragazzi di Eraldo Affinati, sotto la

pensilina dell’autobus, a ripa-ro dall’afa dell’estate anticipa-ta. Un rassicurante cartellone, di una nota agenzia di viaggi, mi invitava a “visitare l’Africa: Casablanca, Tripoli, il Cairo, Sharm El Sheik”. E l’Africa l’ho vista, davvero, oltre le coste dorate e le oasi per tu-risti, con la mente. Mi guida-vano Omar e Faris sulla loro Jeep nel deserto, mi mostra-vano il villaggio di case sottratte alla polvere, il pozzo dell’ac-qua, le donne con gli orci sulla testa. Ho seguito per un po’ le loro sorti, senza perdere lo sguardo rivolto verso casa. Ho dormito nei loro letti. Ho ascoltato storie e bevuto il tè all’ombra.

Il romanzo di Eraldo Affi-nati ha la sola, piccola, pre-tesa di esigere ascolto. E lo si concede, piacevolmente, un ritaglio della giornata da de-dicare ai suoi allievi-amici. Si chiamano Khuda, Qambar, Nabi, Francisco, Musa, La-zar, Alì, Mohammed, Sharif, Shumon. Vengono da Capo Verde, dalla Nigeria, dal Ma-rocco, dalla Romania, dalla Moldavia, dal Bangladesh, dall’Afghanistan. Sono arri-

vati in Italia come potevano, attraversando le sabbie equa-toriali, a piedi, sui carri, per mare, per terra, valicando le frontiere appesi alle sospen-sioni dei camion. Hanno alle spalle famiglie sbranate dal nemico, amicizie potate dal mitra, i giocattoli rotti, le fa-vole mai ascoltate nelle notti insonni sotto la pioggia dei bombardamenti. Si portano dietro i loro passati. Li riporta-no, nei temi infarciti di roma-nesco che lo scrittore registra, nella loro spontaneità.

Imparano la nostra la lin-gua, la lingua della speranza, con un eco dei loro dialetti, con l’intonazione dei pellegri-ni. Il maestro Eraldo insegna loro a leggere, a scrivere, a farsi largo nelle nostre città, a caricare i bagagli di coraggio e forza d’animo. Imparano la democrazia che non hanno avuto, con lo sforzo di dimen-ticare la faida, la lotta, il dirit-to del più forte. Conoscono il mondo occidentale attraverso i tratti della storia, varcando il Medioevo. Imparano il di-ritto romano, la Rivoluzione Francese che i loro paesi non hanno percepito. Si prepara-no alla loro rivoluzione.

La città dei ragazzi è una città nella città, dove si

arroccano per un poco questi orfani scalzi. Eleggono i rappre-

sentanti, il sindaco. Hanno una loro moneta, lo scudo, un bazar, la scuola, i banchi dove si stancano per capire. Studia-no la nostra realtà, quando dovremmo essere noi invece a compiere lo sforzo di com-prendere chi ospitiamo. Pa-dre John Carroll-Abbing, che fondò la comunità alle porte di Roma, nel secondo dopo guerra, li chiamava sciuscià. Un tempo erano gli italiani a reclamare una paternità, una appartenenza. Un tempo era-vamo noi, questi orfani. Ora loro reclamano d’esser noi. Cambiano di nome, i reduci, ma l’esigenza di esistere rima-ne la stessa, in questi ragazzi che si conquistano l’autono-mia dell’età adulta, senza mai aver apprezzato l’infanzia. Chiedono di crescere, con la forza d’una protesta a quel che gli è stato sottratto, senza aver mai percorso l’incoscien-za di un gioco.

Restano impressi i loro racconti nelle orecchie, ri-mangono indimenticabili i loro sguardi acuti. Un tempo questi erano i nostri sguardi. Ma ora che vediamo, ora che conosciamo, ora che hanno un nome i nostri padri e un indirizzo le nostre case, ab-biamo ancora occhi per vede-re loro? E sembra ripensarli, dal fondo della memoria, l’in-tensità di questi molteplici Alì dagli occhi azzurri.

È un fiume di umanità scalciante, quella che appro-da, quella che calpesta i no-stri asfalti di civiltà. Il maestro Eraldo vuole risalirlo, vuole vederne la foce, ripercorrerne il viaggio. Posare i piedi occi-dentali in terra straniera, per capire. Non osserva dall’alto, lo scrittore, ma dal mezzo dei suoi ragazzi, sullo stesso gra-dino. Non insegna, ha voglia di imparare, di avere indietro

quanto dato e dare quanto ri-cevuto. Fa le valigie assieme a Omar e Faris, si fa accom-pagnare in Marocco, per pro-vare la fatica di immergersi in una realtà straniera, di non poter comunicare là dove si parla un’altra lingua. Prende appunti, tenendo la mano alle sue giovani guide. Si fa allie-vo e si fa guidare.

Ma il viaggio si svolge an-che nella sua memoria, a ri-troso. A cercare un viso, una voce da un altrove. La voce di un padre lasciato indietro, negli anni. Ha voglia di ria-prirlo, quel dialogo sottratto dal tempo, racchiuso in una

scatola di frasi collezionate e non dette. Perché anche il maestro è stato figlio, lontano da casa. E allo stesso modo di Faris e di Omar che tornano per salutare i padri dimenti-cati, il maestro Eraldo va a bussare ad una porta. Si siede ad un tavolo di poco, cena assieme ai suoi ricordi. Ha bisogno di recuperare quel-la conversazione interrotta da una partenza annunciata. Ascolta e si fa ascoltare. Rac-conta, non solo perché il suo mestiere è quello di scrittore, ma perché la storia che ha incrociato, per volontà, per scelta, per miracolo del caso, ha ansia di farsi raccontare, di farsi scartare dal cellopha-ne e parlare.

E quell’Africa che non ras-sicura, intravista sul fondo di un cartellone pubblicitario, ha l’apprensione di svelar-si. Ha desiderio di ospitare pellegrini al suo tavolo. Ha voglia di comunicare, anche solo con lo sguardo, nella sala dei tappeti. Perché, in fondo, la storia è comune. Questi di Amir, di Alì, di Mohammed, un tempo, erano i nostri stessi occhi che reclamavano pane al mondo.

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La stupefazione come uno scalpello: Eraldo Affinati incontra gli studenti universitari

Maria Francesca Papi

Non bisognerebbe mai separare il pensiero dall’azione. Questa tentata spaccatura è, io credo, il tarlo dell’epoca moderna: il mondo senza testa e la testa senza mondo. […] Tutto il male ha

origine dalla velleità dello scrittore di separare impunemente la causa dell’arte da quella dell’uomo, dal suo essere privo di esperienza, dal suo intrattenere un rapporto squilibrato con gli altri.

E. Affinati, Campo del sangue, p. 81

Vita attiva e vita contem-plativa; esperienza e scrit-tura; viaggio e letteratura;

ricerca delle origini; stazione di partenza; coscienza d’arri-vo. La città dei Ragazzi, ultimo libro di Eraldo Affinati, scioglie le sue parole, le libera dalla pagina perché le immagini ritornino presente, memoria vissuta, racconto accorato e in-ciampi romaneschi nella voce dell’autore che, il 12 maggio 2008, affida agli studenti di lettere dell’Università di Tor Vergata il suo ultimo diario di viaggio; il suo sempreverde taccuino dell’anima; il boc-ciolo degli incontri preziosi che l’hanno accompagnato in questa avventura della lingua e dello spirito ridando vigore ad antiche intuizioni e ad uno stile che non è mai pura descrizio-ne, non ancora lirica, non più serrato “diario filosofico”.

Statuto dell’arte, responsa-bilità, radici ineliminabili, stu-pore, autenticità, libertà, patto sociale, coralità, invincibile

istinto alla vita. I temi cari ad Affinati accendono il suo rac-conto, le sue risposte, ma una consapevolezza senza imba-razzi sembra aver lenito lo scoramento, «La paura di non farcela. Oppure l’improvvisa coscienza di quello che do-vrò affrontare, fuori e dentro di me» (La Città dei Ragazzi), confessati tra le prime righe dell’ultimo romanzo autobio-grafico. Un timore dignitoso che suggerisce la tensione che governa il libro e, insieme, disegna la fisionomia dello scrittore Affinati, di chi, cioè, si getta rispettoso ma pieno di domande in un presente intes-suto di incontri, di scelte, di inimmaginabile senza poi sot-trarsi all’interrogazione della pagina bianca, quando l’uo-mo chiede che il vissuto sveli il suo significato, ordini con le parole opportune i passi della storia, restituisca i veri nomi ai volti che lo hanno segnato.

Le classi della Città fonda-ta dal prete irlandese Carroll-

Abbing, il viaggio in Marocco per accompagnare due allievi, il dialogo con i ricordi del pa-dre, tre fili che si intrecciano nel romanzo, spiega Affinati,

in una scrittura che, come sempre mi accade, è l’ultima stazione di un viaggio, il mo-mento della verità, il momen-to in cui capisco l’esperienza che ho fatto. Quindi, per me, la scrittura è profondamente legata all’esperienza compiu-ta: senza esperienza la mia scrittura sarebbe sterile; senza scrittura la mia esperienza sa-rebbe cieca, muta, sorda. […]

Scrittura e letteratura spie-gano la vita, la illuminano, get-tano una luce su ciò che già conosci. Io sono per una let-teratura di conoscenza non di invenzione; che possa farti ve-dere meglio l’esperienza, ciò che già sai: la letteratura mi fa capire la vita, ed io scrivo per conoscere, per capire, chiun-que scriva lo fa perché non gli bastano le spiegazioni sempli-

ci: lo scrittore è colui che si accosta alla realtà non accon-tentandosi dell’immediato. Che ha bisogno di capire.

La scrittura come una po-sizione di fronte alla realtà, di fronte al pubblico; la voce di una smania di accertamento che l’autore sembra trovar-si nel sangue, che lo scuote all’origine di ogni romanzo, nell’imboccare un sentiero e «improvvisarsi meccanico, carpentiere, macchinista per sapere da dove viene il colore dei capelli, lo spessore dell’epi-dermide, il timbro di voce», alla ricerca della «stazione di partenza, del “tuo luogo” »

(Campo del sangue). Ma que-sta volta stazione di partenza è la fragile vitalità dei ragazzi ex-tracomunitari della Città retta dall’ideale educativo di padre Carrol-Abbing; ora il luogo da raggiungere è il loro luogo, la loro origine e segreta identità, l’emissario di quel fiume tu-multuoso di umanità lacerata e violata. Questo è il miracolo che preme sul rigore morale di Affinati: la possibilità di accer-tare le proprie radici, di tastare le fondamenta dell’uomo de-dicandosi alla realtà prima che a sé, guardando nel profondo dell’altro: «Ho voluto risalire il fiume che li ha portati fino a me. Controcorrente, attraverso di loro, mi sono riconosciuto»

(La Città dei Ragazzi); «c’è un groviglio sotto di noi, da cui nascono tutte le piante: la radi-ce comune. Quando rispondo allo sguardo del mio allievo, rovisto laggiù, dentro il midol-lo spinale della specie cui ap-partengo» (Secoli di gioventù).

Così la presentazione di un libro fermenta nella carne dell’anima dell’autore, pressa-to dall’esigenza di rendere giu-stizia alla possibilità sperimen-tata di una unità, di coralità,

di amicizia, di stupefazione di fronte alla vita di un altro essere umano, a qualsiasi tempo ap-partenga, da qualsiasi “luogo” di spazi e individui provenga; la stessa stupefazione sorpresa negli sguardi degli allievi di fronte all’imponente memoria di pietra del Colosseo, quella che può diventare uno scalpel-lo per costruire nuovi mondi.

Affinati non attende il futu-ro, inizia subito a plasmare il marmo duro dei figli del No-vecento, osando una letteratu-ra «che sia di ricomposizione delle fratture; che non tema un valore positivo; che non abbia paura di dire il bene» e che si fa raccontare oralmente con l’oggettività della realtà e la forza della vita.

Risponde disponibile alle domande degli universitari ed ogni risposta testimonia, semplice come l’evidenza e sintetica come un segreto pre-zioso, una posizione morale, uno spirito di rivolta ragione-vole alla solitudine astratta e normativizzata con cui convi-vono gli uomini.

Ricomposizione delle frat-ture. Il lungo percorso di un adulto che insegue l’identi-tà dei padri per riconoscere il proprio destino e l’acerbo tentativo dei giovani scolari che provano, negli sgangherati temi costruiti con un italiano sfilacciato e zoppo – quelli che costellano, colorandola di vite, La Città dei Ragazzi -, a tirare le fila delle loro espe-rienze traditrici e dei loro cuo-ri provati. Fra le pagine firma-te Affinati la scrittura si rivela non solo il momento privile-giato del ripensamento, come ci spiega l’autore, ma, soprat-tutto, il veicolo di un rapporto, di un legame, di un dialogo, di un confronto che matura una nuova capacità di giudizio, una nuova consapevolezza di

sé, una nuova origine, un’au-tentica stazione di partenza.

«Gli scolari mi fanno sen-tire utile ancora più di quan-do scrivo», un’affermazione, rubata a Secoli di Gioventù, che anticipa quella conclusiva dell’ultimo romanzo di Affina-ti: «Quello che accade in aula produce effetti indelebili. È la potenza dell’insegnamento». È la potenza di un rapporto in cui responsabilità e imprevisto si fondono nella luce del reci-proco dono: «se io aiuto te, è come se tu assistessi me» (La Città dei Ragazzi). Esperienza della vita, coscienza dei suoi valori, diritto alla tenerezza paterna, governo stilistico e abilità retorica in cambio di semplicità, autenticità, ampi mondi di fantasia e punti in-terrogativi, ritmo sghembo dell’emozione nelle parole ap-pena imparate. Affinati regala all’aula di Tor Vergata un po’ degli “indelebili effetti” del suo mestiere, insegnante e scrit-tore. Anche qui ha curato la vita con la sua vita, ha preteso l’universale per un’esperienza vissuta tra i banchi di via Lui-siana e le polveri del Marocco, le scatole da scarpe di famiglia e il tavolo da scrittura in cui tutto si ricompone nella puli-zia lirica dei suoi romanzi.

è l’eterna sorpresa che i nostri simili ci riservano, si-gnor Mayer. Tu credi di co-noscere già tutto solo perché hai avuto due o tre esperien-ze, hai letto quattro o cinque libri, hai visto piangere tua madre, ti sei sentito sconfitto, tradito, ingannato. Poi volti l’angolo e, di colpo, ridiventi piccolo, uguale al mio com-pagno di viaggio, il sorriso ritrovato come un amuleto nelle gengive.

E. Affinati, Secoli di gio-ventù, p. 35

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Notte di San Lorenzo

Antonieta Marasco

Dalla notte dei tempi, ogni sera al calar del crepusco-lo, salgono le stelle nel

buio del cielo, algide e immo-bili nella loro chiarità. Lo spet-tacolo che mostrano incanta il cuore degli uomini, soprattutto dei più piccini, che affidano loro i sogni e i desideri, spe-rando al risveglio del mattino di essere esauditi. Ma le stelle sono troppo distanti per soddi-sfare i desideri degli uomini. Solo una stella, la stella po-lare, ha la facoltà di esaudire

un desiderio: il desiderio dei marinai di tornare a casa. E’ un potere che le viene dall’alto, da lì dove si vuole che nessun uomo si smarrisca. Guardando la piccola stella polare, i ma-rinai sanno che ritorneranno. Nessun’altra stella ha il potere di esaudire i desideri, eppure gli uomini dalla notte dei tem-pi non si stancano di rivolgere a loro i propri pensieri.

Venne, in un tempo lonta-no, una calda sera d’agosto. Luciano, un bimbetto di forse due anni, piccino come un seggiolino, guardava le stelle lassù e supplicava:

Stelle, stelline che felici brillate lassù, mandatemi un fratellino per giocare, perché sono triste così solo.

Tanto pregava e piangeva e supplicava, che una piccola stellina gialla si commosse e cominciò a lanciare una luce intermittente: era il segno che comprendeva il dolore del bimbo. La stellina radunò tut-te le sue forze e si incamminò più veloce che poté verso la casa della stella polare.

- Stella polare che dirigi il corso del cielo e indichi la strada agli uomini laggiù – esordì con coraggio – come possiamo fare per aiutare que-sto bimbo piccino che ha tan-to bisogno di un fratellino?

La grande maestra pensò e rifletté su questa domanda, poi chiamò a raccolta le costella-zioni per una riunione di mez-zanotte. Vennero tutte le stelle dello Zodiaco, e venne Orione e vennero le Orse, e vennero anche tutte le stelle solitarie, le più vicine e le più lontane. Così parlò la stella polare:

Sorelle mie, è giunto il mo-mento di soddisfare i desideri dei bimbi sulla terra. Non senti-te ogni notte le loro preghiere?

Ma come faremo da quas-sù? La lontananza è grande e

il nostro potere non può giun-gere fino alla Terra – obiettò una stellina azzurra.

C’è un solo modo: scen-dere giù, vicino all’atmosfera della Terra, solo così potremo soddisfare i loro desideri – ri-spose una stella rossa, grossa grossa e rubiconda.

Andremo da Gesù Bam-bino – aggiunse la maestra – che è il re di tutti i bambini, a chiedergli se almeno una not-te durante l’anno possiamo re-alizzare i sogni degli uomini.

Andarono le stelle in pro-cessione, formando una scia larga e luminosa che gli uo-mini chiamano Via Lattea, e, seguendo sempre la stella po-lare, giunsero infine da Gesù Bambino. Era la notte di San Lorenzo, quel santo che tanti bimbi e uomini poveri aveva beneficato quand’era in terra.

Gesù Bambino si com-mosse ad udire quanto affetto le stelle mostrassero per gli uomini, soprattutto per i più piccini a cui Lui stesso voleva più bene. Così rispose a tutte quelle sorelle:

- Ogni anno, durante que-sta notte nel cuore dell’estate, vi dò il permesso di avvici-narvi alla Terra per esaudire i desideri degli uomini e so-prattutto dei più piccini.

La stellina gialla poté dun-que finalmente donare a Lu-ciano non solo un fratellino, ma anche una sorellina per giocare, infatti la mamma ebbe due gemelli!

Da allora, la notte del 10 agosto, cadono le stelle dal cie-lo, lasciando il solco di una scia luminosa che è il segno del loro passaggio. Quando gli uomini scorgono la scia, sanno che il desiderio più recondito del loro cuore verrà esaudito e inco-raggiano i bimbi a chiedere la gioia alle stelle, così da trovare sempre il cammino per andare.

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Padri, figli, discepoli. In memoria di Mario Rigoni Stern

Cristina Ubaldini

Con Mario Rigoni Stern si spegne una delle voci più importanti della lette-

ratura italiana del Novecento.Un testimone di vicende

terribili e sconvolgenti della storia del mondo, quelle della seconda guerra mondiale, un uomo che ha saputo fare della propria esperienza di vita ma-teria d’arte e strumento di ci-viltà. Le sue storie costituisco-no un autentico epos moder-no: pagine in cui dominano la forza etica di una memoria lucida e cristallina, la misura, l’eleganza e una particolare grazia che scaturiscono dalla piena fedeltà alla verità.

Nato nel 1921 da una anti-ca e numerosa famiglia dell’Al-tipiano di Asiago, nel 1939 è nominato soldato scelto e spe-cializzato sciatore-rocciatore presso la Scuola militare cen-trale d’Alpinismo di Aosta. Nel 1940, con la dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia e all’Inghilterra, la Val d’Aosta di-viene teatro bellico; nello stes-so anno, Mario prende parte ai combattimenti sul fronte Al-banese e viene nominato ser-gente. Nel 1942 partecipa alla terribile e disastrosa campagna

di Russia durante la quale rice-ve la medaglia d’argento al Va-lor Militare e la promozione a sergente maggiore. Farà ritorno in patria a piedi, insieme agli alpini sopravvissuti, attraverso Ucraina e Bielorussia, e poi in tradotta fino ad Udine.

Alla caduta del fascismo, durante il tentativo di raggiun-gere casa dal Brennero, viene catturato dai tedeschi e invia-to nello Stammlager 1/b nella Prussia Orientale. Proprio nel campo di concentramento ini-zia a scrivere i ricordi della ri-tirata di Russia. Tra il 1944 e il ’45 viene trasferito in altri La-ger, nella Slesia Polacca e nel-la Stiria. Da Graz compirà il ritorno a casa, ancora a piedi, concluso il 9 maggio 1945.

Così lo scrittore spiega il dramma del reduce nell’inter-vista rilasciata a Giulio Milani, curatore del volumetto uscito nel marzo di quest’anno Ma-rio Rigoni Stern, Hermann Heidegger. Ritorno sul fronte (Transeuropa Edizioni):

quando raccontavo cosa erano i paesi dell’est in quegli anni e cosa avevo visto, sem-brava che raccontassi storie, fa-

vole, e non volevano credere. E allora subentra uno stato d’ani-mo quasi da disperato… Ma non è servito a niente. Come succedeva a Primo [Levi n.d.r.]. E poi, piano piano, è stato risco-prire la poesia e la natura, ecco, che mi ha aiutato. Ho riscoper-to il bosco, l’aria, il sole, le stelle di notte, e sembrava che i com-pagni fossero ancora con me.

Il problema dell’indicibili-tà di esperienze come queste è stato la dominante del secolo appena trascorso: la memoria è spesso un atto di coraggio supremo. Narrare significa rin-novare il dolore, mantenere le ferite aperte, e gli uomini non sono sempre in grado di soste-nere il peso dei fatti. Ma Rigo-ni Stern ha trovato una via di salvezza. L’orrore della guerra e la dolcezza della natura, la morte nelle sue forme più ter-ribili e la vita nei suoi aspetti più dolci: l’abbraccio di que-ste due tematiche costituisce la cifra dell’intera sua opera.

Il suo primo libro, Il sergen-te nella neve. Ricordi della riti-rata di Russia (premio Viareggio opera prima), esce da Einaudi nel 1953. Nel 1962 pubblica,

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ancora per Einaudi, la raccolta di racconti Il bosco degli uro-galli che vince il premio Pucci-ni Sinigaglia. Grazie a questo libro stringerà amicizia con lo scrittore Primo Levi. Nel 1971 pubblica Quota Albania e nel 1973 Ritorno sul Don. Il ro-manzo Storia di Tönle, col qua-le vince i premi Bagutta e Cam-piello, esce nel 1978. Insieme a L’anno della vittoria (1985) e Le storie di Giacomo (1995) costituisce un unico percorso in cui sono narrate le storie di tre generazioni della gente del-la sua terra (dalla fine dell’ ’800 alla seconda guerra mondiale).

L’ultima partita a carte (scritto nel 2001-’02) è una testimonianza nata dalla par-tecipazione al XXXIX Corso Internazionale di Alta Cultura organizzato dalla Fondazione Cini nel 1997 sul tema Preci-pitare la fine, anticipare l’ini-zio: «succisa virescit».

Nel 2003 tutta l’opera nar-rativa pubblicata da Rigoni Stern dal 1953 al 2002 viene raccolta nel meridiano Mon-dadori Storie dall’Altipiano, a cura di Eraldo Affinati; l’autore per l’occasione ha rivisto tutti i testi e li ha riorganizzati dan-do loro una struttura organica. Successivi al meridiano sono

Aspettando l’alba (2004), in cui racconta, tra l’altro il ritorno nel Lager 1/b e l’amicizia con Primo Levi, e Stagioni (2006).

Ad Eraldo Affinati, che ringraziamo per la cortese di-sponibilità, abbiamo rivolto qualche domanda sul maestro scomparso:

L’Italia e il mondo il 16 giugno hanno perso un “testimone”, uno scrittore che ha saputo raccontare la storia nel ri-spetto assoluto di quella che potremmo definire “etica della memoria”. Secondo Lei quale eredità lascia Mario Rigoni Stern al nostro paese e alla ci-viltà più in generale?“Con la scomparsa di Mario Rigoni Stern non perdiamo soltanto uno degli ultimi te-stimoni del ventesimo seco-lo, ma anche una delle sue coscienze più dolorosamente consapevoli. Questo scrittore si lascia in gestione un concet-to chiave: la memoria come certificazione di identità. Solo scoprendo le nostre origini sa-premo davvero chi siamo.”Possiamo definire il rapporto che vi ha legati una vera ami-cizia, nei termini in cui questa si delinea nelle stesse opere di Rigoni Stern?

“Per me Mario Rigoni Stern è stato più di un amico. L’ho sentito spesso come una con-trofigura di mio padre. Era un uomo capace di starmi vicino, spalla a spalla, condividendo i miei entusiasmi, ma anche pronto a mettersi davanti, alla stregua di un maestro.”La scoperta di Ernest Hemin-gway è stata per Mario Rigoni Stern fondamentale e in Com-pagni segreti anche Lei gli ri-conosce un ruolo importante. Può spiegarci in che modo que-sto scrittore vi accomuna?“Hemingway, nella percezio-ne critica prevalente, patisce ancora oggi l’immagine del vi-talista a fondo perduto. Mario Rigoni Stern invece lo lesse, sin da ragazzo, nel modo più giusto, interpretandolo come uno scrittore che si mette alla prova perché sente che i fon-damenti dell’esperienza stan-no venendo meno, per lui e per tutti noi. In questo senso Hemingway era un moralista.”I luoghi e la memoria. Lei è in-segnante e ha raccontato ne La città dei ragazzi l’esperienza sconcertante e meravigliosa di avere per allievi ragazzi “spe-ciali” come quelli che arrivano in Italia fuggendo dalla miseria e dalle guerre che funestano tanti luoghi del mondo. Questi ra-gazzi sono costretti a lasciare la propria terra, a rischiare la vita, a tuffarsi ad occhi aperti in un mare ignoto e a inventarsi una nuova esistenza, una nuova iden-tità. L’opera di Mario Rigoni Stern che cosa può insegnare loro?“Ricordo quando raccontai a Mario Rigoni Stern il viaggio a piedi compiuto da un mio scolaro, Alì, da Kabul a Tre-viso, poco distante da Asia-go. Questo ragazzo aveva ripercorso, nell’ultima parte, il tragitto degli alpini italiani in Russia. Il vecchio sergente ascoltò stupefatto. Sapeva che

il mondo non si ferma mai e spesso torna sui propri passi. Gli adolescenti afghani che oggi raggiungono così il Bel Paese sarebbero i lettori più congeniali delle opere di Mario Rigoni Stern perché è come se le conoscessero già: la crudeltà della guerra e l’armonia della natura se le portano dentro al punto tale che esse sembrano emerge-re dalle loro stesse fisionomie.”Ritiene ancora, come ha scritto ne La responsabilità del sottufficiale, introdu-zione al meridiano Storie dall’Altipiano, che Tönle sia l’opera più bella di Rigo-ni Stern e il Sergente la più importante?“Sono entrambi belle e im-portanti. Il Sergente è forse il libro di guerra italiano più significa-tivo del Novecento. Il Tönle è un prodigio stilistico che pochi avrebbero pensato potesse nascere dalla penna di un rude roc-ciatore.”

Ernest Hemingway

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Eugenio Montale, tra le molte altre cose, fu un campione in fatto di depi-

staggio e reticenza sui propri modelli letterari. Sarebbero molti gli esempi da fare, ma prendo il caso di Enrico Pan-zacchi.

Montale, in tutto l’arco del suo “secondo mestiere”, accenna a Panzacchi solo in due occasioni. La prima nel 1946, in un articolo dal tito-lo Pietro Pancrazi o la critica del buon senso, quando per definire la qualità dei succosi articoli critici di Pancrazi, che sono insieme critica e for-mazione, ritratto d’ambien-te e ritratto di persona, «più che al Carducci e al Croce si pensa a certi medaglioni del Nencioni, del Panzacchi, del Martini, alle prose critiche del Bourget giovane» e, dunque, a una critica dove l’estetica, la psicologia e l’inclinazione morale andavano ancora di pari passo.

Poi gli capita di citarlo in-direttamente. Nella recensio-ne del 1955 al libro Tre mezzi secoli di Vittorio Lugli, ricorda le pagine sulla Bologna 1889-90 e l’ambiente dove fiorì la pregevole rivista «Lettere ed Arti»: «Un salotto, dove s’in-contrano gli universitari loca-li, gli allievi del Carducci, gli eruditi e letterati romagnoli, i forestieri di passaggio di qua-lunque genio e tendenza, tutti conciliati dalla sorridente si-gnorilità del padrone di casa: Enrico Panzacchi».

Il bolognese Panzacchi ebbe una discreta fama tra la fine dell’Ottocento e i pri-mi decenni del Novecento, soprattutto grazie al volume Lyrica pubblicato nel 1977. Le sue poesie, eleganti, mu-sicali e colte, influenzarono in maniera non superficiale Carducci, Pascoli e D’Annun-

zio. Furono spesso musicate dai compositori del tempo e consacrarono l’autore come poeta, oltre che come retore e uomo politico. Le roman-ze e le canzoni presentano una grande varietà di motivi e si possono dividere, grosso modo, tra amorose, funerarie e della natura.

Come ha scritto nel 1910 Giuseppe Ardau, guardando al corpo lirico del poeta si evince che «il Panzacchi ec-celle nel fermare le sue mi-nuziose osservazioni che gli servono a formare deliziosi quadretti». In un’antologia del 1955, Poeti nostri dell’Ot-tocento e del Novecento, Pa-olo Acrosso rifaceva menzio-ne al quadretto, che in quello scorcio finale d’Ottocento era quasi un genere di com-posizione, legato perlopiù a influssi impressionistici o fi-gurativi: «Nei sonetti fermò quadretti di natura invernale indimenticabili».

Ma già nel 1940, nella sua fortunata storia della lettera-tura italiana, Francesco Flora aveva inquadrato l’autore de-cretando che «il meglio del Panzacchi è in certe impres-sioni di soli, di albe, di notti, di campi nelle varie stagioni, come quel secondo sonetto dei Meriggi estivi».

In una recente ristampa di Lyrica, il curatore Claudio Mariotti riflette sul fatto che il bozzetto o il quadretto natu-ralistico di genere siano anco-ra a un passo dalla portata di Panzacchi, il cui mondo rurale è infatti idealizzato e non, per così dire, problematizzato. Quel quadretto naturale che va in giro a più riprese nella letteratura italiana, Mariotti cita per esempio Metastasio, sarà scosso dalle epifanie pascoliane e sconvolto una volta per tutte dalle riflessioni

montaliane sul male di vivere. Il nitore rappresentativo che pertiene al quadretto panzac-chiano rivive semmai in certo D’Annunzio, anche secondo le parole di Valeria Giannan-tonio che qualche anno fa, nel suo L’esordio poetico di Gabriele D’Annunzio (1992), additava un riscontro plau-sibile tra la poesia Solleone, dalla raccolta Primo vere del giovane vate, e il testo pan-zacchiano attorno al quale stiamo ormai ronzando come api: Meriggio.

Sarebbe lungo a racconta-re il sentimento della natura di Panzacchi, ravvisabile già dai titoli delle poesie del volu-me, la cui edizione definitiva peraltro ebbe quello di Alma natura. Forse è più interessan-te fermarsi sul meriggio. Sulla poesia che, secondo Flora, «molti hanno mandato a me-moria nelle scuole».

I versi di Panzacchi sono questi: «Dal fresco rezzo del-la stanza mia / veggo laggiù brillar nitidamente / l’asciutta rena e i sassi del torrente, / che un limpido fil d’acqua al fiume invia: // rompe il verde del pian la bianca via / che

s’allontana tortüosamente; / presso la siepe, al sol, dorme un pezzente / del suo magro cagnuolo in compagnia: // Più là, da un campo bion-deggiante, uguale / suona il rispetto d’una curva schiera / di mietitrici: stridon le cicale: // e per l’aria tranquilla, in tra la nera / Cànepa, d’improvvi-so ondeggia e sale / il fumo e il fischio della vaporiera». Qua e là giunge la voce di versi ed espressioni che sa-ranno pure pascoliani. Non a caso il testo fu incluso da Giovanni Pascoli in Fior da fiore, l’antologia per le scuole secondarie inferiori che molti hanno mandato a memoria. Come ha sottolineato Mariotti nel suo commento al sonet-to, in Meriggio si rintracciano d’altra parte immagini tipiche del Metastasio, del Carducci, del Marradi, del D’Annunzio, del De Amicis e, appunto, del Pascoli.

Il sonetto di Panzacchi apre con l’immagine del ripo-so, del meriggiare in un luogo fresco e ombroso, del «rezzo» che sarà frequente in Pascoli. C’è subito la limitazione di uno spazio chiuso, la sua stan-

Montale e Panzacchi. Intorno al meriggio

Roberto Mosena

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za, che è anche il punto d’os-servazione del poeta intento a fissare il suo quadretto na-turale. Un bozzetto che però non cade nel bozzettismo: c’è nei versi un’increspatura sot-tile. Può vedere la terra, i sas-si, il torrente, la via, la siepe, un pezzente con un magro «cagnuolo», un campo; può sentire il motivetto popolare-sco cantato dalle mietitrici e lo stridere delle cicale; può vedere e sentire «il fumo e il fischio della vaporiera». La vista e l’udito sono gli stru-menti di una poesia dei sensi, ancora tutta impressionistica. In quel quadro, dove chiaro è l’empito coloristico («lim-pido», «verde», «bianca», «biondeggiante», «nera»), non c’è un moto di riflessione (nemmeno sull’immagine del pezzente con il cane). È una pura descrizione, una poesia dell’occhio che ha di fronte a sé l’orizzonte spianato. Le increspature, che rimangono impressioni e presentimenti, sono costituite dalla strada bianca che significativamente «rompe» la verde uniformità

del piano allontanandosi in maniera tortuosa, dall’esile fattura del torrente a secco cui corrisponde la magrezza del cane, dall’immagine fina-le della vaporiera che fugge, passa. Panzacchi non cade nel bozzetto di genere o di maniera, ma la sua arte non è ancora pronta a sconvolgere il paesaggio che ha davanti. Rimangono impressioni.

Per vedere quel paesaggio definitivamente sconvolto bi-sognerà attendere, come det-to, il 1916. L’anno in cui Mon-tale salva la sua prima poesia: Meriggiare pallido e assorto.

Su questo testo divulga-tissimo, che tutti hanno dav-vero mandato a memoria, è stato scritto molto. Un pezzo di precoce bravura dove si rinvengono echi pascoliani, pensando soprattutto all’uti-lizzo di certe immagini, di certe forme verbali, di un so-nito campestre quasi onoma-topeico. Un testo che dimo-stra i rapporti di Montale con Pascoli e la presenza di un Pascoli forse anche parodiz-zato dal primo Montale. Una poesia, come disse lo stesso poeta, che era tutta attaccata

alla sua preda: il paesaggio. Quel paesaggio universa-

lissimo che è uno dei motivi principali della

poetica montaliana, e che in Meriggiare pallido e assorto è già esemplare e maturo, indi-cativo della fun-zione che avrà nell’opera: nel rapporto con il paesaggio l’io del poeta pren-derà coscienza dell’impossibilità di una percezione

totalizzante della realtà e, dunque,

si sentirà sempre costretto in un’avventura conoscitiva fini-ta, limitata. Ecco la problema-tizzazione del paesaggio, sia pascoliano sia panzacchiano. Montale non può più fissare, senza stravolgerli, i campi, la vaporiera, l’orizzonte.

Dentro Meriggiare pallido e assorto riecheggiano voci di Sbarbaro e di Boine. Nel cerchio chiuso dell’orto cinto dal muro, accostato da Sergio Campailla alla siepe leopar-diana nel saggio Il muro di Montale, il poeta ha il “guar-do escluso” dalla conoscen-za autentica dell’orizzonte. Gli restano solo parvenze, sembianze della rappresenta-zione, come proiettate sullo schermo del muro appunto, di ciò che sta fuori dal recin-to, oltre lo spazio chiuso. Par-venze di vita lontana che nel meriggio l’io studia e rintrac-cia in tante piccole presenze noumeniche; formiche, merli, serpi, cicale che si manifesta-no nella dimora dell’uomo, nell’orto. Di fronte, in lonta-nanza, l’immensità e l’immu-tabilità del mare vasto e diver-so con la sua lezione di vita, con la sua diversità dall’uomo che a esso vorrebbe assomi-gliare o accordare la propria voce, che invece resta transi-toria, fragile e incompleta.

Montale, insomma, ribalta completamente la prospettiva panzacchiana. Se di meriggio si tratta, l’orizzonte è però ben diverso: disteso quello di Panzacchi e increspato da nervature che lui non capi-sce, precluso quello di Mon-tale dal limite del muro; ciò che in Panzacchi era limpido, in Montale diventa pallido e assorto in segno di una cono-scenza allucinata e stravolta; la voce delle cicale, che nel primo era voce onomato-peica nell’aria tranquilla dei

campi, in Montale è assieme agli «schiocchi» di merli e «frusci» di serpi la manifesta-zione di un mondo chiuso in indecifrabili messaggi animali che appaiono per intermitten-ze luminose e che lui ascol-ta, osserva, spia e finisce per sentire vuoti e insignificanti, poiché la verità è simbolica-mente oltre il muro e nello spazio dell’orto non si han-no che rappresentazioni. Ne consegue, per Montale, la ne-cessità di fissare uno sguardo contemplativo sul paesaggio per poter infine prendere co-scienza della dolorosa condi-zione umana. Sentire con tri-ste meraviglia la vita e il suo travaglio che è nel seguitare il muro, significativamente ormai scoperto invalicabile e trasformato in una «muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».

Il quadretto di Panzacchi e la problematizzazione mon-taliana: sono diversi gli echi che fanno pensare a qualche allusione da parte di Montale. Tra l’altro, oltre l’argomento ribaltato, la cicala, gli ele-menti della terra e dell’acqua che brilla, la poesia comun-que affidata ai sensi, si pensi a quella «vaporiera» che ri-corda la «petroliera» in fuga all’orizzonte di La casa dei doganieri nelle Occasioni. E forse Montale rifà il verso a Panzacchi e al suo «più là», quando dice che «l’ora più bella è di là dal muretto», che «la buona pioggia è di là dallo squallore», che sono due versi di Gloria del disteso mezzogiorno da Ossi di sep-pia. Ma forse l’occorrenza più decisiva è quella di S’è rifatta calma. Pezzo finale del trittico L’agave sullo scoglio, dedicato al maestrale, dopo lo sciroc-co e la tramontana dei primi due testi, e compreso nella

sezione Meriggi e ombre di Ossi di seppia. Montale, sem-pre guardando a un’avventura conoscitiva che è uno scacco ineffabile, la cui presa di co-scienza è l’unica ricchezza dell’uomo, e che è tutta scrit-ta in un rapporto con il pae-saggio, dice agli ultimi versi: «sotto l’azzurro fitto / del cielo qualche uccello di mare se ne va; / né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: / ‘più in la!’».

Montale si è concesso una poetica dell’oltranza della verità e, dunque, del-la mancanza di essa, colta com’è soltanto sotto forma di parvenza o rappresentazione scialba, che ribalta il quadro naturalistico che fu di Pan-zacchi e di tutta la letteratura italiana, escludendo per certi versi Leopardi e certi momen-ti Pascoli, specie quello del Lampo e del Tuono. Forse, sì, anche lui aveva mandato a memoria quel Meriggio inge-nuo dell’elegante e musicale bolognese Enrico Panzacchi,

soltanto che Montale aveva capito quale poteva essere la ricchezza di quel «pezzente» vicino alla siepe. E proprio da lì decise di partire. Rifacendo Metastasio, Carducci, Pan-zacchi, Pascoli, ma immersi in un problema gnoseologico a loro estraneo.

I versi di Montale, se la memoria non m’inganna, era-no questi: «Meriggiare pallido e assorto / presso un rovente muro d’orto, / ascoltare tra i pruni e gli sterpi / schiocchi di merli, frusci di serpi. // Nelle crepe del suolo o su la veccia / spiar le file di rosse formiche / ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano / a sommo di minuscole biche. // Osservare tra frondi il palpitare / lonta-no di scaglie di mare / mentre si levano tremuli scricchi / di cicale dai calvi picchi. // E an-dando nel sole che abbaglia / sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».

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Si chiama Radiogames e va in onda tutte le dome-niche alle 11 e 09 su Radio Rai la trasmissio-ne condotta da Marco Tesei e giunta alla 300a

puntata. Il programma, ideato dallo stesso Tesei, è nato con l’intento di creare uno spazio che facesse riferimento a giochi e oggetti del nostro passato che oggi non solo fanno parte della nostra cultura, ma arrivano a influenzarla in vari modi. Cultura intesa non solo come letteratura, musica, teatro ma anche come tutto ciò che crea uno stile di vita e lo modifi-ca. Un viaggio attraverso i miti, i personaggi, i giochi che hanno fatto o fanno parte della nostra vita. E’ da qui che prende avvio e poi si sviluppa l’ossatura della trasmissione. A Radiogames si parla di giochi: giochi che erano già presenti nell’antichità-di cui si occupa la rubrica Archegames, all’interno del programma-e giochi delle vari tradizioni regionali, i giochi sempli-ci composti da biglie, birilli, dama, ecc. l’oggetto, il reperto del passato, il gioco, sono il pretesto da cui si parte per una ricognizione dettagliata lungo il filo della memoria. Attraverso le interviste con personaggi o esperti si indaga nel passato mettendolo spesso in contrapposizione con le nuove tendenze. L’argomento che viene esplorato a tutto campo, è il filo conduttore che lega certi oggetti del passato al mondo e alla

Cultura di oggi, scoprendo come tanti di questi siano ancora assolutamente attuali. A pro-posito di collezionismo, c’è una rubrica all’interno della trasmissione dal titolo “Stravaganze

in vetrina” nella quale si parla di col-lezioni di oggetti particolari, strava-ganti o insoliti. E dal suo osservato-rio che va al di là delle percentuali o delle ricerche, emerge” ci dice Tesei, “come in questi sette anni sia au-mentato il numero dei collezionisti, anche in seguito al moltiplicarsi delle tipologie di collezionismo: a fianco del classico disco in vinile, si assiste al proliferare di autografi, telecarte, cartoline, (magari solo di tram, come nel caso di una curiosa collezione), fino alle raccolte più insolite, come quella di Buddha provenienti da tutto il mondo”. Un programma per recu-

perare il passato, in un presente in cui il grande ricorso alle tecnologie applicate al gioco, fa spesso perdere l’identità stessa degli oggetti che accompagnano il tempo libero.

Daun’intervista di Maria Chiara Spallanzani direttrice della rivista: Collezionare.

Il passato ritorna. Alla Radio

Clara Sereni è nata nel 1946 a Roma, dove ha vissuto fino al 1991, anno

in cui con il marito ed il figlio si è trasferita a Perugia, dove è stata vicesindaco con delega alle Politiche sociali dal 1995 al 1997. Narratrice, editoria-lista e traduttrice, da decen-

ni è impegnata in politica e nel mondo associazionistico. Nel 1998, sull’onda di una difficile esperienza personale vissuta in famiglia, è stata fra i promotori della Fondazione “La città del sole”, Onlus (di cui è presidente), che costrui-sce progetti di vita per perso-

ne con disabilità psichiche. Opinionista sulle colonne de “l’Unità” e de “Il manifesto”, ha tradotto e curato opere di Balzac, Stendhal, M.me de la Fayette. Dopo il roman-zo d’esordio, Sigma epsilon (Marsilio 1974) ha pubblica-to Casalinghitudine (Einaudi 1987), tradotto in inglese per gli USA, Manicomio prima-vera (Giunti 1989), volume di racconti pubblicato in Argen-tina, Il gioco dei regni (Giunti 1993), in cui ritornano perso-naggi già apparsi in Casalin-ghitudine; il libro, tradotto in Francia ed Israele, le è valso il “Premio della società dei Lettori di Lucca” e il “Premio Marotta”.

Sono seguiti un’altra rac-colta di racconti Eppure (Fel-trinelli 1995) e gli interventi a sfondo sociale di Taccuino di un’ultimista, (Feltrinelli 1998). Ha poi pubblicato, Passa-mi il sale (Rizzoli 2002), Le merendanze, (Rizzoli 2004); l’ultima sua uscita editoria-le, Il lupo mercante, (Rizzoli 2007), è un libro di racconti di una donna sulle donne.

Come in Primo Levi, in ogni sua opera è molto pre-sente (e non potrebbe essere altrimenti) una forte com-ponente, una forma mentis ebraica.

Il gioco dei regni, roman-zo d’invenzione e autobio-grafico insieme, è un sugge-stivo ritratto di una famiglia bene ebraica di Italia, in un secolo attraversato dalle due Guerre e da eventi straor-dinariamente importanti, su tutti l’avvento e la caduta del fascismo e la creazione dello Stato d’Israele. Il romanzo gira quasi tutto intorno alle vicen-de di Enzo ed Emilio Sereni, rispettivamente zio e padre dell’autrice. I due fratelli, di-versi e simili, l’uno specchio

Goffredo Muratgia

Il gioco dei regni. Incontro con Clara Sereni

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“in movimento” dell’altro, sono uniti da un fortissimo legame. Insieme cominciano un lungo e difficile percor-so per il recupero d’identità ebraica e un percorso politi-co e culturale sionista. Solo Enzo lo porterà a termine. Parte giovanissimo per Israe-le, nella convinzione che sia necessario, per la soluzione del problema ebraico, che i giovani borghesi intellettua-li e commercianti rompano con il loro passato “nobile”e “inerte” e con la loro vita dia-sporica per recarsi in Palesti-na, rimboccarsi le maniche e “formare e riempire i quadri delle classi lavoratrici di cui la Palestina aveva bisogno”.

Emilio resta in Italia per fi-nire i suoi studi di agronomia. Durante la separazione, i due fratelli mantengono un fitto scambio epistolare in cui spa-ziano da argomenti filosofici ad altri pratico-tecnici. Tutta-via con il tempo Emilio intra-prende un percorso politico diverso, quello comunista, che lo porterà alla decisione, lacerante, di abbandonare l’idea sionista. Lo specchio si crepa. La rottura tra i due è politica, culturale, esisten-ziale. Enzo continua a lavo-rare per il sogno di creare un

nuovo paese “giusto ed egua-litario”, Emilio si allontana dall’ebraismo per inseguire il sogno della “rossa primavera” in Italia.

La rottura fra i due, fra “sionismo” e “comunismo”, fra Enzo ed Emilio è tutto-ra materia di “sanguinante conflitto”.

I fratelli non si incontreran-no mai più, Enzo morirà nel campo di internamento di Da-chau nel 1944, Emilio, all’in-terno del Partito, diventerà, per assurdo, il critico più severo delle politiche d’Israele.

Ritroviamo, nelle pagine della Sereni, la sacralità, le contraddizioni e allo stesso tempo la straordinaria coesio-ne della famiglia ebraica.

Nel Gioco dei Regni e an-cora di più in Politica e Utopia possiamo apprezzare quanto sia importante per i due fra-telli, cresciuti in una famiglia che rispettava le tradizioni ebraiche, il dialogo, la discus-sione talmudica, minuziosa per ogni questione filosofica e politica e pratica.

I personaggi inseguono un ignoto inspiegabile. La loro ricerca è tesa all’infinito, è continua e senza limiti. La tragedia, l’immenso dolore che li caratterizza si spiega forse nell’ambizioso e “su-perbo” tentativo di muovere quel “destino inconoscibile” che ha sì mandato Levi allo sbaraglio per le vie di un’Eu-ropa a pezzi, ma gli ha anche permesso di recuperare, far maturare un’identità.

Muratgia - Lei si sente ebrea, come e dove sente il suo ebrai-smo?Sereni - Sono ebrea per forma mentis, prima di tutto, per la spinta ineludibile a cambiare il mondo, anche in una mi-nima parte. Ebrea anche per

cultura, ma questo è già molto più difficile da definire. Ebrea per tradizione famigliare, an-che quando taciuta. Ebrea certamente non per religione, ma ce n’è al mondo di ebrei agnostici.M- Lei dice “spinta ineludibile a cambiare il mondo”, è questa una peculiarità ebraica? S- Sì, l’ebraismo, oltre ad es-sere una religione è una for-ma mentis. Se si guarda alla storia molti pensatori e rivo-luzionari erano ebrei: Trot-sky, Marx, lo stesso Einstein. Questo perché, a parte quello del Dio unico, nell’ebraismo non esistono dogmi. Il resto è tutto sottoposto a discussione, anche l’avvento del Messia. Non si sa se Egli verrà o non verrà. Quello che si sa è che è dovere di tutti migliorare il mondo affinché un giorno Egli possa venire. Il pensiero rivoluzionario ha terreno fer-tile nell’ebraismo, e molti ri-voluzionari hanno radici più o meno esplicite nell’ebrai-smo. Dico più o meno espli-cite perché non si sa da dove passa questo o quell’altro messaggio culturale; c’è, si forma e basta. M- Mi interessa, molto più che l’aspetto religioso, quello cul-turale dell’ebraismo. Gli scrit-tori ebrei del mondo riempiono le loro pagine di cultura e tradi-zione ebraica. Dai loro libri si sente la loro provenienza cultu-rale. È la famosa ed importante cultura ebraica diasporica. C’è una cultura americano-ebraica importante, ma in Italia, nono-stante molti scrittori impor-tantissimi siano stati e siano ebrei, la componente ebraica è meno pregnante, perché? S- Intanto perché gli ebrei ita-liani, e questo lo si dimenti-ca spesso – sono pochi. Poi, forse perché gli ebrei italiani hanno una storia forte di as-

similazione, interrotta dalle leggi razziali ma poi ritrova-ta nella Resistenza, nei primi decenni della Repubblica. Solo a partire dalla guerra del ’67 ci fu una nuova forma di riavvicinamento ad Israele, che si trasformò per alcuni in nuovo senso di appartenenza quando altre appartenenze politiche ed ideologiche en-trarono in crisi. M- Primo Levi ha comincia-to ad avvicinarsi veramente all’ebraismo nel ’38; ad Au-schwitz ha avuto un contatto molto importante con la cul-tura ebraica, ma, credo, la sua (ri)presa dell’ebraismo, la sua identità l’abbia maturata in esi-lio, nel viaggio di ritorno, in mo-vimento; nella grande tregua fra la Guerra Mondiale e quella Fredda. In una condizione di pace, quindi. S- Io penso che Levi – come altri – si sia “ricordato” di essere ebreo già al momento delle leggi razziali, cioè in uno di quei momenti in cui, se non sei tu a ricordartene, sono gli altri ad importi la tua identità. Quel che è ve-nuto dopo è l’elaborazione, direi, non solo dell’esse-re ebrei, ma dell’essere al mondo. Nel mondo segnato da Auschwitz.

M- Primo Levi disse che “il biso-gno di contatti umani è da an-noverarsi tra i bisogni primari dell’uomo”. Io aggiungerei an-che il bisogno di cultura.

C’è una pagina del Gioco dei Regni in cui suo zio è imprigio-nato, cerca il dialogo con un altro prigioniero e, grazie alla “speculazione intellettuale”, si restituiscono vicendevolmen-te il loro essere uomini. Anco-ra, quando suo padre viene a sapere della morte di Enrico cerca “conforto” in Eschilo e Senofonte. Entrambi gli episo-di mi hanno ricordato molto lo splendido capitolo Il canto di Ulisse in Se questo è un uomo o l’incontro ne La tregua tra un Levi libero ed affamato ed il prete polacco con cui lo scrit-tore inizia ad intavolare un di-scorso in latino.

Ha pensato anche lei a que-sti due episodi (o altri simili) prima di scrivere gli episodi? S- In verità no, ma è chiaro che – in qualche modo – ven-gono tutti da una stessa radi-ce. Nel mondo ebraico, nel mondo del Libro, nel popo-lo dei senza terra che hanno conservato la propria identità proprio attraverso il Libro e i libri, la cultura ha costante-mente avuto un grande peso.M- Nell’ultimo capitolo del Gio-co dei Regni dice che la pietà, che “ non rientrava nei canoni dell’educazione” che le aveva-no impartito, l’ha ritrovata nelle sue “radici negate, misteriosa-mente riaffioranti”. Questa pie-tà ritrovata grazie all’ebraismo l’ha allontanata dal comunismo o, “miracolosamente” lei è una delle poche persone che, anco-ra oggi, riesce a far conciliare le due cose?S- Non ho ritrovato la pietà soltanto grazie all’ebraismo, o almeno non soltanto gra-zie all’ebraismo. Si sono in-trecciate storie, esperienze,

anche sofferenze, che mi hanno fatto capire come la pietà sia fondamentale più per chi la esercita che per chi ne è oggetto.

Quanto al comunismo: i fallimenti del comunismo che ha preteso di essersi realizza-to li conosciamo tutti. Ma c’è un bisogno di comunismo che non mi abbandona: finché al mondo ci sarà chi è oppresso, chi vive nella deprivazione, chi non ha diritti, il bisogno di comunismo non mi lasce-rà. Potendo benissimo con-vivere, in questo senso, con l’essere ebrea. M- Levi amava la capacità di fare, cambiare. Amava l’uomo che sa districarsi e risolle-varsi dalle situazioni difficili. Amava l’ebreo Mordo Nahum, Cesare, Mendel, e gli ebrei che si sono ribellati ai romani pri-ma della Diaspora del 70. an-che l’ebraismo ha quindi una componente del “riscatto”, del cambiare le cose?S- Direi di sì, direi che sia l’ebraismo come ho detto prima, sia il comunismo rac-chiudono in sé questa carat-teristica “utopistica-rivoluzio-naria”. Nell’ebraismo è forse più difficile da trovare, ma esiste anche in esso.

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Il David di Donatello e il buonsenso

degli italiani

L’ Italia, negli ultimi 15

anni, ha vissuto in uno

stato di continuo con-

flitto e indecisione. La gente vi

si era rassegnata ma nel profon-

do accumulava un malcontento

che, a un certo punto, ha supe-

rato la soglia critica. Ha guar-

dato la realtà in modo disincan-

tato, si è accorta di aver portato

paraocchi ideologici e ha deci-

so che il tempo delle mezze mi-

sure è finito.

Se prima si rassegnava al-

le rapine, agli stupri, alle mor-

ti bianche, ora non li accetta

più. E non andategli a dire che

nell’ultimo anno sono diminui-

ti del 5%! Vi risponde che non

vuol più avere paura a uscire

di notte, che non vuol essere

ammazzata nel suo letto e che

non le importa se l’assassino è

italiano, albanese o rumeno. Il

Paese ha abbassato la soglia di

tolleranza non solo nei riguardi

dei delitti, ma di tutti gli abusi,

le inefficienze, le porcherie, gli

errori e le chiacchiere.

Ha rivoluzionato il sistema

politico ed è pronta a caccia-

re chi ha appena eletto se non

si darà da fare. Ho anche l’im-

pressione che sia già iniziato un

risveglio di attività. Da anni non

vedevo nascere tante iniziative,

gente piena di vita che fa nuovi

progetti. E non ha paura. Stona-

ti, paurosi sono invece ancora

Francesco Alberoni molti politici, molti funzionari,

diversi sindacalisti. Ma la gente

comune no, la gente che lavora,

che produce, intuisce che è in-

cominciata un’altra epoca, dove

non si parla, dove si costruisce. E

si mandano via quelli che dicono

che non si può.

La gente ha anche capito che

certe cose si devono fare in tem-

pi brevi. Che bisogna incomin-

ciare subito a fare gli asili, le ca-

se popolari, le metropolitane, le

ferrovie per il trasporto merci. E

bisogna mettere in galera subito

chi stupra; chi, ubriaco, ammaz-

za un pedone; e licenziare in

tronco il funzionario che ci met-

te otto anni a finire una pratica

indispensabile. E’ questo lo spiri-

to nuovo che consentirà la ripre-

sa del Paese, la sua riscossa. Sta

tornando il buonsenso, una qua-

lità con cui la mente umana si

dimostra superiore al computer e

alle ideologie, perché aderisce al

concreto e vede le conseguenze

a lungo termine.

Il David di Donatello quest’an-

no è stato dato a «La ragazza del

lago», un film senza pessimismo,

ideologie e astrazioni. Un’espres-

sione del buonsenso. Un segno,

sia pure modesto, che gli italia-

ni si sono risvegliati al realismo e

alla concretezza. Per questo pen-

so che riusciremo a superare la

crisi e la recessione. Anche que-

sta volta.

cruciverba

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SOLu

ZiON

icr

uciv

erba Curiosità: Nel Medioevo i nobili e i signo-

ri, dopo la confessione, erano soliti inca-ricare i propri servi di fare le penitenze al posto loro.

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