La Guida a Sudafrica 2010 - The Rainbow Nation

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Per quanto forme ludico­sportive fosseroovviamente presenti in Sudafrica benprima dell’arrivo degli europei, l’avventodello sport moderno, fu un portatoprincipalmente britannico. Lo testimo­niano oggi gli sport nazionali del paese;calcio, rugby e cricket hanno infattiun’origine britannica. Gli inglesi però nonfurono i primi europei a colonizzare laregione. Gli olandesi, e nello specifico laCompagnia delle Indie Orientali, siinstaurarono già nel 1652 nella zona delCapo di Buona Speranza. Lì fondarono laColonia del Capo che si reggeva suun’economia agricola e di allevamentobasata sull’apporto degli schiavi impor­tati dal Madagascar, dall’Indonesia e dalMozambico.Gli inglesi si impossessarono del ter­ritorio solo all’inizio del XIX secolo eabolirono lo schiavismo. Ciò costrinse icontadini olandesi a spostarsi nell’entro­terra dove fondarono le repubbliche delTransvaal e dell’Orange. L’indipendenzadi queste repubbliche, al pari dei posse­dimenti degli Zulu, ressero fino a chenon fu scoperto che il sottosuolo eraricco di risorse aurifere e diamantifere.Attratti da queste materie prime, gliinglesi intrapresero dure e sanguinoseguerre tanto con i nativi quanto con gliafrikaner del Transvaal e dell’Orange.Esauritesi le campagne contro gli Zulu egli Xhosa nonché le guerre boere, nel1910 fu istituzionalizzata, come domi­nion britannico, l’Unione Sudafricana.Gli afrikaner restarono sempre lamaggioranza bianca nel paese: non ebbesuccesso il tentativo, per altro blando, di

anglicizzazione. L’abolizione dello schia­vismo non significò l’abolizione dellosfruttamento e con il Native Land Act del1913 fu limitata drammaticamente lapossibilità che i neri potessero possederela terra. Proprio in questi anni lo sportsudafricano si sviluppò e iniziò la suaistituzionalizzazione. Benché non razzi­sta come in seguito, la pratica dellosport seguì, almeno inizialmente, lineeclassiste. Difficilmente infatti parteci­pavano alle medesime competizioni per­sone di diverso rango sociale ed eco­nomico e di conseguenza erano rarianche i confronti fra i diversi gruppi cherappresentavano la società sudafricana.Col tempo, almeno fra i bianchi, ciòdivenne sempre più frequente e lo sport(soprattutto il rugby) si trasformò spes­so in un’occasione in cui gli afrikanermostravano il proprio odio verso gli

inglesi. Già agli albori del XX° secoloperò le preferenze rispetto ai tre prin­cipali sport britannici sembravano se­guire un criterio “razziale”; la mag­gioranza dei neri infatti giocava a calcio,gli afrikaner prediligevano il rugby, men­tre indiani e inglesi si identificavanomaggiormente col gioco del cricket.

CricketLo sport imperialePer tutto il XIX e per buona parte del XXsecolo il cricket è stato quasi esclu­sivamente uno sport per bianchi, agiati econ un tasso d’istruzione elevato. Questosport, prettamente inglese, ha contrad­distinto il processo di sviluppo dell’Im­pero britannico, diventando, in quantogioco riservato alle élite, funzionale allasua identità culturale. L’ideologia del

cricket, imbevuta di caratteristiche mo­rali come l’ideale di superiorità anglo­sassone, prevedeva che questo sportpotesse essere insegnato solo a chiavesse raggiunto un determinato livellodi civilizzazione.Superata la fase dei match fra Mothercountry e Colonial born, il cricket suda­fricano acquisì molto presto una dimen­sione internazionale. Fra il 1890 e il1914, la cosiddetta età dell’oro delcricket, i sudafricani disputarono spessosentite sfide contro gli inglesi e gliaustraliani. Già nel XIX secolo le élitesdei gruppi Xhosa e Zulu appresero ilcricket dagli inglesi. Il confronto con ibianchi rimase però raro, tanto chesvilupparono autonomamente, al paridegli indiani, un loro stile di gioco.Fino al 1948 questo sport rappresentòanche un motivo di divisione fra i bianchidiventando un simbolo dell’esclusività edella separazione degli anglofoni dalresto della popolazione. Già dagli anniventi però le differenze iniziarono adassottigliarsi e a partire dal 1948 ancheil cricket cominciò lentamente a tra­sformarsi in un simbolo dell’alleanzabianca. Nonostante i molti cricketerafrikaner di valore, fra i boeri è semprerimasta una forte diffidenza verso que­sto sport. Molto più del cricket fu quindiil rugby ad elevarsi a simbolo sportivodell’alleanza bianca durante il periododell’apartheid.

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sportsudafric

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RugbyLa religione degli afrikanerPer gli afrikaner il rugby è quasi una reli­gione; rappresenta sicuramente la piùimportante attività culturale tanto daassurgere a simbolo della white nationsudafricana. Paradossalmente il rugbysmise di essere uno sport inglese e di­ventò uno sport veramente sudafricanocon le guerre anglo­boere. Fu propriol’esercito britannico che diffuse il rugbyfra gli afrikaner, in particolare fra quelliarrestati nei campi di prigionia. Dopo lasconfitta militare il rugby divenne per gliafrikaner qualche cosa più di un gioco;rappresentò l’occasione con la quale essipotevano prevalere sugli inglesi. Gli epiciscontri fra università inglesi e afrikanernon fecero altro che accrescere questarivalità. Le divisioni però sparivano dicolpo quando si trattava di tifare per lapropria provincia o per la nazionale.Passione per la palla ovale e identitànazionale erano legate a tal punto cheuno degli ultimi bastioni, da cui scom­parvero le vecchie bandiere dell’UnioneAfricana, furono proprio i campi darugby.Il primo incontro internazionale risale al1891 mentre il soprannome Springboksnacque nel 1906 in occasione della pri­ma tournée in Europa. La pratica delrugby si innestò ben presto su lineerazziali. Non solo gli Springboks eranoformati unicamente da giocatori bianchima anche le altre squadre fino al 1971dovettero escludere giocatori non­bian­chi quando si recavano in tournée nell’U­nione Sudafricana. Negli anni Ottanta fupermesso ai meticci di giocare a rugbycon i bianchi; ciò provocò conflitti all’in­terno del National Party e contribuì allascissione che portò alla nascita delConservative Party. Il rugby era consi­

derato uno sport nobile e la sua praticarichiedeva necessità maggiori rispetto alcalcio che, bandito dalle scuole verso il1910, ebbe un particolare successo fra lapopolazione di colore.

CalcioUno sport per neri?Vuoi perché è necessario solamente unpallone per giocarci, vuoi perché le sueregole sono particolarmente intuitive,resta di fatto che il calcio è sempre statolo sport più diffuso in Sudafrica. Con lanascita dell’Unione Sudafricana e la con­seguente urbanizzazione il calcio, cheera stato introdotto dai missionari, si af­fermò definitivamente anche fra i neri.Negli anni venti il calcio era giocato sop­rattutto dagli operai urbani e dai mina­tori come occasione di svago e, anche se

per molti restava solamente un gioco distrada, ben presto vennero organizzatidei campionati locali che diedero poi ilvia alla nascita di federazioni. Intornoagli anni venti e trenta nelle città, nellecampagne e vicino alle miniere sorseronumerose squadre di calcio e non civolle molto perché queste ultime diven­tassero le associazioni più popolari all’in­terno delle rispettive comunità. A partiredagli anni trenta il calcio conobbe un ve­ro boom. I proprietari delle miniere edelle industrie lo avevano utilizzato co­me strumento di pace sociale, ma nelmomento in cui esplose la richiesta diinfrastrutture questi stessi si dimo­strarono assai reticenti a concederle. Lacarenza di infrastrutture, unita alla pas­sione per questo sport, faceva sì che alladomenica, unico giorno libero dei lavo­ratori neri, si giocassero nei pochi campia disposizione tornei che duravano dalla

mattina alla sera.Alla vigilia dell’istituzionalizzazione delsistema dell’apartheid il calcio sudafri­cano era già organizzato su linee etnico­razziali. Nel 1951, anche per sfidare lapolitica segregazionista del NationalParty, nacque la Federazione Sudafri­cana di Calcio che, in opposizione allafederazione bianca, così come stavaaccadendo anche fra i rispettivi partitipolitici, riunì neri, indiani e coloured.Proprio dal calcio arrivarono le maggiorisfide all’apartheid sportivo; nel 1977Vincent Julius fu il primo calciatore neroa giocare in una squadra di bianchi. Fragli sport di squadra il calcio è stato ilprimo sport a riequilibrare la disparitàfra bianchi e neri creata dalle politiche diapartheid nello sport. Nella Confede­ration Cup 2009 un solo giocatore suundici, Matthew Booth, era bianco.

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Dopo la seconda guerra mondiale neipaesi coloniali lo sport è diventato unostrumento per far emergere e riaf­fermare una propria identità. Sconfig­gere nel loro gioco i propri colonizzatorirappresentava per i colonizzati motivo diorgoglio nazionalistico. In Sudafrica peròl’istituzione dell’apartheid rese tutto ciòimpossibile. Sebbene la segregazionerazziale, supportata dalle tesi antropo­logiche che avevano contribuito a legit­timare il colonialismo, fosse iniziata benprima del 1948, con l’apartheid la sepa­razione fra bianchi e non­bianchi diven­ne un sistema legislativo istituziona­lizzato e compiuto. La popolazionesudafricana venne divisa in quattro

grandi gruppi: African, Coloured, Indiane White e furono creati i Bantustan, ter­ritori semi­indipendenti dai quali i neridovevano poi emigrare per cercare lavo­ro nel Sudafrica bianco. Dopo la secondaguerra mondiale nessun’area della so­cietà fu immune dal concetto di razza,nemmeno lo sport.Ben presto la pratica e la fruizione dellosport sudafricano fu divisa fra bianchi enon­bianchi, anche se l’esclusione deinon­bianchi avvenne per gradi e variò dasport a sport. A seconda delle provinciequeste politiche ebbero un impatto di­verso; totale segregazione al nord, men­tre a Western Cape ci fu più tolleranza.

Lo sport internazionale invece fu riser­vato esclusivamente ai bianchi. Alla finedegli anni Cinquanta, con l’emergere diun movimento internazionale anti­apar­theid, furono costituiti il non­racial SouthAfrican Council on Sport (SACOS), persfidare dall’interno la struttura dell’apar­theid sportivo e il non­racial OlympicCommitee (SANROC) per isolare inter­nazionalmente lo sport sudafricano. Losport diventò strumentale per contri­buire al processo di isolamento inter­nazionale del Sudafrica razzista e il boi­cottaggio divenne l’arma con cui sfidarela discriminazione razziale tanto nellosport quanto nella vita sociale.

Nel lungo periodo questa strategia,supportata dall’ONU, dal CIO e dallefederazioni sportive internazionali, ebbesuccesso e l’isolamento culturale fu unadelle cause che contribuì alla finedell’apartheid. È indubbio però che neiprimi decenni di apartheid lo sport in­ternazionale non fu mai assente, sia perla reticenza delle istituzioni sportive in­ternazionali, sia perché gli effetti delboicottaggio furono parzialmente annul­lati dalla disponibilità di sportivi­mer­cenari disposti, se ben pagati, a intra­prendere tournée in Sudafrica.

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NATION-L'embargosportiv

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Nonostante gli avvertimenti del CIO e le pressioni di alcuni paesi, lasquadra sudafricana che si presentò a Roma nel 1960 era interamentecomposta da atleti bianchi. Poiché nei tre anni successivi il Sudafricanon modificò la sua politica razziale in relazione allo sport, allafederazione fu tolto il diritto di partecipare ai Giochi di Tokio. IlComitato Olimpico nazionale, invece, fu sospeso solamente a partiredal 1966. L’anno successivo, dopo la visita del CIO, all’epocapresieduto dall’ultra­conservatore Avery Brundage, sembrò possibile lariammissione. Evitata questa circostanza, le continue violazioni dellaCarta Olimpica e le pressioni delle istituzioni politiche e sportiveafricane portarono, anche se solamente dal 1969, all’espulsionedefinitiva. Il CIO però non riconobbe mai il SANROC perché loconsiderava un’organizzazione politica e senza la legittimazione incampo sportivo il non­racial Olympic Committe poté operaresolamente in ambito morale. Benché tardiva, è indubbio che la sceltadel CIO di isolare lo sport sudafricano razzista fu importante edefficace anche perché spinse le federazioni a fare altrettanto. Nonappena si cominciò a smantellare i pilastri dell’apartheid, unriconoscimento provvisorio permise la partecipazione di una squadramultirazziale sudafricana alle Olimpiadi del 1992.

Il Sudafrica aveva preso parte fin dalla prima edizione del 1930 ai Giochi del Commonwealth,quando ancora si chiamavano Giochi dell’Impero. Dopo il referendum del 1961 l’Unione Su­dafricana, diventata repubblica, cessò di essere un dominion britannico e uscì unilateral­mente dal Commonwealth. La rinuncia ai Giochi di Perth del 1962 fu consequenziale. I Giochirimasero però centrali nella sfida dello sport internazionale al regime razzista sudafricano. LaNigeria, uno dei paesi più attivi nella lotta internazionale contro l’apartheid, boicottò i Giochidel 1978 come protesta contro la Nuova Zelanda, rea di intrattenere relazioni sportive con ilSudafrica e nel 1986 guidò un boicottaggio più vasto contro l’ambivalente politica verso ilSudafrica del governo Thatcher: ben 32 nazioni non presero parte a Glasgow 1986.

Il Sudafrica fu una delle quattro squadre fondatrici della Confederation Africaine du Football(CAF). Non volendo schierare una squadra mista, non prese parte nel 1957 alla prima Coppad’Africa. L’anno successivo, mentre il Sudafrica veniva espulso dalla CAF, la FASA, la fede­razione dei bianchi, fu ammessa alla FIFA. La FASA vi restò affiliata fino al 1961, quando fusospesa per discriminazione razziale. Appena sir Stanley Rous divenne presidente, la FIFAcominciò a rigettare tutti i tentativi di espellere il Sudafrica. Nel 1963 la sospensione vennerevocata, ma le proteste dei paesi africani e asiatici portarono a una rapida marcia indietro.Successivamente fu rigettata la proposta di una squadra all­white nei Mondiali del 1966 euna all­black nel 1970. Si dovette aspettare il 1976, con il clamore mediatico suscitato dallarivolta di Soweto, per la definitiva espulsione del Sudafrica dalla FIFA, durata fino al 1991.

IL MOVIMENTO OLIMPICO I GIOCHI DEL COMMONWEALTH

IL CALCIO

Nonostante gli avvertimenti del CIO e le pressioni di alcuni paesi, lasquadra sudafricana che si presentò a Roma nel 1960 era interamentecomposta da atleti bianchi. Poiché nei tre anni successivi il Sudafricanon modificò la sua politica razziale in relazione allo sport, allafederazione fu tolto il diritto di partecipare ai Giochi di Tokio. IlComitato Olimpico nazionale, invece, fu sospeso solamente a partiredal 1966. L’anno successivo, dopo la visita del CIO, all’epocapresieduto dall’ultra­conservatore Avery Brundage, sembrò possibile lariammissione. Evitata questa circostanza, le continue violazioni dellaCarta Olimpica e le pressioni delle istituzioni politiche e sportiveafricane portarono, anche se solamente dal 1969, all’espulsionedefinitiva. Il CIO però non riconobbe mai il SANROC perché loconsiderava un’organizzazione politica e senza la legittimazione incampo sportivo il non­racial Olympic Committe poté operaresolamente in ambito morale. Benché tardiva, è indubbio che la sceltadel CIO di isolare lo sport sudafricano razzista fu importante edefficace anche perché spinse le federazioni a fare altrettanto. Nonappena si cominciò a smantellare i pilastri dell’apartheid, unriconoscimento provvisorio permise la partecipazione di una squadramultirazziale sudafricana alle Olimpiadi del 1992.

Il Sudafrica aveva preso parte fin dalla prima edizione del 1930 ai Giochi del Commonwealth,quando ancora si chiamavano Giochi dell’Impero. Dopo il referendum del 1961 l’Unione Su­dafricana, diventata repubblica, cessò di essere un dominion britannico e uscì unilateral­mente dal Commonwealth. La rinuncia ai Giochi di Perth del 1962 fu consequenziale. I Giochirimasero però centrali nella sfida dello sport internazionale al regime razzista sudafricano. LaNigeria, uno dei paesi più attivi nella lotta internazionale contro l’apartheid, boicottò i Giochidel 1978 come protesta contro la Nuova Zelanda, rea di intrattenere relazioni sportive con ilSudafrica e nel 1986 guidò un boicottaggio più vasto contro l’ambivalente politica verso ilSudafrica del governo Thatcher: ben 32 nazioni non presero parte a Glasgow 1986.

Il Sudafrica fu una delle quattro squadre fondatrici della Confederation Africaine du Football(CAF). Non volendo schierare una squadra mista, non prese parte nel 1957 alla prima Coppad’Africa. L’anno successivo, mentre il Sudafrica veniva espulso dalla CAF, la FASA, la fede­razione dei bianchi, fu ammessa alla FIFA. La FASA vi restò affiliata fino al 1961, quando fusospesa per discriminazione razziale. Appena sir Stanley Rous divenne presidente, la FIFAcominciò a rigettare tutti i tentativi di espellere il Sudafrica. Nel 1963 la sospensione vennerevocata, ma le proteste dei paesi africani e asiatici portarono a una rapida marcia indietro.Successivamente fu rigettata la proposta di una squadra all­white nei Mondiali del 1966 euna all­black nel 1970. Si dovette aspettare il 1976, con il clamore mediatico suscitato dallarivolta di Soweto, per la definitiva espulsione del Sudafrica dalla FIFA, durata fino al 1991.

IL MOVIMENTO OLIMPICO I GIOCHI DEL COMMONWEALTH

IL CALCIO

Nonostante gli avvertimenti del CIO e le pressioni di alcuni paesi, lasquadra sudafricana che si presentò a Roma nel 1960 era interamentecomposta da atleti bianchi. Poiché nei tre anni successivi il Sudafricanon modificò la sua politica razziale in relazione allo sport, allafederazione fu tolto il diritto di partecipare ai Giochi di Tokio. IlComitato Olimpico nazionale, invece, fu sospeso solamente a partiredal 1966. L’anno successivo, dopo la visita del CIO, all’epocapresieduto dall’ultra­conservatore Avery Brundage, sembrò possibile lariammissione. Evitata questa circostanza, le continue violazioni dellaCarta Olimpica e le pressioni delle istituzioni politiche e sportiveafricane portarono, anche se solamente dal 1969, all’espulsionedefinitiva. Il CIO però non riconobbe mai il SANROC perché loconsiderava un’organizzazione politica e senza la legittimazione incampo sportivo il non­racial Olympic Committe poté operaresolamente in ambito morale. Benché tardiva, è indubbio che la sceltadel CIO di isolare lo sport sudafricano razzista fu importante edefficace anche perché spinse le federazioni a fare altrettanto. Nonappena si cominciò a smantellare i pilastri dell’apartheid, unriconoscimento provvisorio permise la partecipazione di una squadramultirazziale sudafricana alle Olimpiadi del 1992.

Il Sudafrica aveva preso parte fin dalla prima edizione del 1930 ai Giochi del Commonwealth,quando ancora si chiamavano Giochi dell’Impero. Dopo il referendum del 1961 l’Unione Su­dafricana, diventata repubblica, cessò di essere un dominion britannico e uscì unilateral­mente dal Commonwealth. La rinuncia ai Giochi di Perth del 1962 fu consequenziale. I Giochirimasero però centrali nella sfida dello sport internazionale al regime razzista sudafricano. LaNigeria, uno dei paesi più attivi nella lotta internazionale contro l’apartheid, boicottò i Giochidel 1978 come protesta contro la Nuova Zelanda, rea di intrattenere relazioni sportive con ilSudafrica e nel 1986 guidò un boicottaggio più vasto contro l’ambivalente politica verso ilSudafrica del governo Thatcher: ben 32 nazioni non presero parte a Glasgow 1986.

Il Sudafrica fu una delle quattro squadre fondatrici della Confederation Africaine du Football(CAF). Non volendo schierare una squadra mista, non prese parte nel 1957 alla prima Coppad’Africa. L’anno successivo, mentre il Sudafrica veniva espulso dalla CAF, la FASA, la fede­razione dei bianchi, fu ammessa alla FIFA. La FASA vi restò affiliata fino al 1961, quando fusospesa per discriminazione razziale. Appena sir Stanley Rous divenne presidente, la FIFAcominciò a rigettare tutti i tentativi di espellere il Sudafrica. Nel 1963 la sospensione vennerevocata, ma le proteste dei paesi africani e asiatici portarono a una rapida marcia indietro.Successivamente fu rigettata la proposta di una squadra all­white nei Mondiali del 1966 euna all­black nel 1970. Si dovette aspettare il 1976, con il clamore mediatico suscitato dallarivolta di Soweto, per la definitiva espulsione del Sudafrica dalla FIFA, durata fino al 1991.

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NATION-L'embargosportivo

L’uscita dal Commonwealth del 1961 comportò automaticamente larinuncia alla membership dell’International Cricket Conference (ICC),ma ciò non modificò affatto la situazione perché il Sudafrica eraconsiderato fondamentale per il cricket internazionale. Nel 1968, BasilD’Olivera, atleta di colore della nazionale inglese, ma di originesudafricana, venne selezionato per la tournée in Sud Africa. Il governosudafricano accusò il giocatore di essere un esponente del movimentoanti­apartheid e gli inglesi di voler strumentalizzare politicamentel’evento. In realtà, nonostante la contestazione anti­apartheid dellasocietà civile britannica fosse crescente, alcuni infortuni resero neces­saria la sua selezione. Fallita la mediazione, il tour fu cancellato e irapporti sportivi fra i due paesi si interruppero. Solo l’Australia con­tinuò le tournée fino al 1970. Negli anni Ottanta, per usciredall’isolamento, il cricket sudafricano organizzò una serie di tour, noticome “ribelli”, con lo scopo politico e propagandistico di interromperela campagna di isolamento internazionale e di soddisfare la richiestainterna di sport internazionale. Nel 1990 l’ultimo “tour ribelle”, checoincise con la liberazione di Mandela e degli altri leader dell’ANC, fucaratterizzato da pesanti proteste.

Buona parte della sfida per l’isolamento culturale del Sudafrica si giocò sui campi da rugby.Per gli afrikaner, definiti dallo studioso David Harrison come la “tribù bianca dell’Africa”, ilrugby era un vero e proprio simbolo d’identità nazionale. Più ancora che per le conseguenzedel caso D’Olivera, il paese aveva sofferto per la cancellazione della tournée del 1967 degliAll Blacks, intenzionati a schierare i māori. I neozelandesi avevano rinunciato ai giocatorimāori contro gli Springbok fin dal 1928, ma negli anni Sessanta, dopo il massacro diSharpville, il vento era cambiato. Dal 1971 il Sudafrica cercò di diventare più accon­discendente, permettendo alle nazionali straniere di schierare squadre multirazziali, in mododa garantire ai propri cittadini il rugby internazionale.Sarà proprio una tournée neozelandese in Sudafrica, poco dopo i moti di Soweto, la causadel boicottaggio africano alle Olimpiadi del 1976. L’anno successivo il Commonwealth firmògli accordi di Gleneagles per interrompere ogni relazione sportiva col Sudafrica. A partire dal1982 gli Springbok non avranno più accesso al rugby internazionale eccezion fatta per duetournée con una rappresentativa sudamericana, una con l’Inghilterra nell’84 e una coiCavaliers neozelandesi. Il tour segreto dei neozelandesi finì 3­1 in favore del Sudafricaportando una ventata di orgoglio nazionale afrikaner, in un difficile momento di recessioneeconomica. I neozelandesi che parteciparono nel 1986 alla tournée dei Cavaliers non furonosqualificati e molti di loro vinsero la Coppa del Mondo l’anno successivo. Negli anni novanta,dopo qualche incertezza iniziale, il ritorno al rugby internazionale fu trionfale.

IL CRICKET IL RUGBY

Dalla fine degli anni sessanta una serie di risoluzioni dell’ONU contro l’apartheid nellosport sfociarono nella Dichiarazione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport(1977) e nella Convenzione Internazionale contro l’Apartheid nello Sport (1985).L’appoggio dell’ONU diede maggior sostegno alla lotta delle istituzioni sportive, maogni federazione rispose a questi impulsi in modo diverso. Mentre la FederazioneInternazionale di Tennistavolo, escludendo nel 1957 la federazione bianca, permise lapartecipazione di una squadra sudafricana mista ai mondiali di Stoccolma, la IAAF,presieduta da lord Burghley, si oppose all’esclusione del Sudafrica per tutti gli anniSessanta. In coppa Davis i tennisti sudafricani, riammessi nel 1974 dopo quattro annidi esclusione, sollevarono la loro prima e unica coppa giocando solamente due partitee vincendo, grazie al boicottaggio dell’India, la finale a tavolino.Benché l’espulsione dal Movimento Olimpico fosse stata spiegata come un complottocomunista e l’esclusione dal cricket, pur lenita dai tour ribelli, fosse stata vissutamalamente soprattutto dalla comunità anglofona, le sanzioni sportive ebbero suisudafricani un impatto psicologico non secondario soprattutto quando colpirono ilrugby. Nel 1988 ogni relazione sportiva con il Sudafrica era ormai interrotta. Un annodopo la presidenza de Klerk cominciò ad attuare le riforme che abolironogradualmente la segregazione razziale. Con la fine dell’ultimo grande regime colonialein Africa, le istituzioni sportive internazionali furono più che felici di riaccogliere fraloro il nuovo Sudafrica.

GLI ALTRI SPORTLa procedura comune per le multinazionali del tabacco, quando il grancarrozzone della Formula 1 si trova a gareggiare in paesi in cui la legislazionelocale vieta le sponsorizzazioni legate al fumo, è quella di inventarsi ognisorta di illusione grafica pur di trasmettere comunque l'identità del marchio.Eppure in Sudafrica successe che le aziende stesse si autocensurarono etentarono di rendere irriconoscibile il proprio simbolo riprodotto su una vet­tura di Formula 1. Accadde nel 1985, in occasione dell'ultima prova del cam­pionato del mondo a Kyalami. Non era una novità gareggiare da quelle parti:era diventato un piccolo classico, e anche l’esistenza di un certo tipo di se­gregazione razziale applicata a vari livelli della società era una realta benconosciuta a chi annualmente si presentava sulla griglia di partenza. Solo chein quell'anno la protesta mondiale contro la politica d'apartheid applicata dalgoverno sudafricano montava più che mai. Interi team, o singoli piloti, boi­cottarono la gara: Renault e Ligier in primis, su invito del ministro francesedello sport, decisero di non partecipare alla trasferta. Alan Jones si rese indi­sponibile all'ultimo momento per non creare troppi problemi all’azienda spon­sor del proprio team, impaurita dalla prospettiva di ritorsioni da parte delconsum­tore medio americano. Alla fine Bernie Ecclestone al solito sistemòun po' tutto alla bell'è meglio. Con qualche macchina in meno al via ­ eparecchio nastro adesivo in più sulle fiancate ­ la gara partì comunque.

LA FORMULA UNO

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NATION-LaRWC1995

Abdelatif Benazzi, il gigante franco­ma­rocchino dei Bleus, piangeva a dirotto.Sotto la pioggia torrenziale di Durban, ilterza linea della Francia aveva segnatola meta che avrebbe portato la Franciain finale. Non era stato dello stesso pa­rere l’arbitro Derek Bevan, che dichiaròla meta non valida, e al fischio finale erastato il Sudafrica a gioire. Benazzi av­rebbe pianto anche la settimana succes­siva, assistendo alla finale. L’avrebbe poiraccontato, anni dopo, a Morné duPlessis: “Mi resi conto di quanto fossegiusto che voi foste lì al posto nostro,che c’era in ballo qualcosa di più grandee importante di una Coppa del Mondo dirugby”.Il drop di Joël Stransky a sei minuti daltermine dei tempi supplementari fu ilmomento che definì una nazione. Il Su­dafrica stava assestando una democrazianeonata e instabile, e cercando di libe­rarsi dal pesante fardello rappresentatodall’apartheid. La Coppa del Mondo dirugby era stata l’occasione per cercaredi riconciliare una nazione sotto lo slo­gan del torneo, ideato da du Plessis:One team, one nation. Il simbolo di que­sta riunificazione, indelebile nella memo­ria storica del Sudafrica e del rugby, è ilmomento della premiazione. FrançoisPieenar, capitano afrikaner degli Spring­boks, aveva appena rilasciato una di­chiarazione storica, quando un reporterdella SABC gli aveva chiesto quantoavesse contato il supporto dei sessan­taduemila tifosi dell’Ellis Park di Johan­nesburg: “Non avevamo solo il sostegnodi sessantaduemila tifosi, avevamo il so­stegno di quarantatre milioni di sudafri­

cani”. A presentare a Pieenar la WilliamWebb Ellis Cup fu Nelson Mandela. Soloquattro anni prima per il SudafricaMandela era un terrorista di etnia xhosache aveva speso 26 anni in carcere peraver fondato Umkhonto we Sizwe, la“lancia della nazione”, l’ala armata delpartito politico fuorilegge African Natio­nal Congress. Ora Nelson Mandela conl’ANC era diventato il presidente di quelSudafrica, ed era l’uomo che aveva uni­ficato una nazione, smantellando il bar­barico apparato segregazionista dell’a­partheid e tendendo una mano verso isuoi aguzzini e nemici di ieri. L’uomo chela folla dell’Ellis Park acclamava vestiva il

cappellino degli Springboks, fino al gior­no prima il simbolo che definiva più gret­tamente l’orgoglio afrikaner, e la maglianumero sei della nazionale, la stessa in­dossata dal capitano Pieenar. Per lestrade anche i neri festeggiavano la vit­toria della propria nazione, inneggiandoalla squadra contro cui si era riversato illoro tifo negli anni bui dell’apartheid.L’apartheid era crollato con l’inizio deglianni ’90, un processo simboleggiato dal­la liberazione di Nelson Mandela l’11 feb­braio 1990. Le trattative per la costru­zione di una nuova democrazia non furo­no affatto facili, minate a ogni passo da

nuovi ostacoli. Da una parte del tavoloc’erano Mandela e l’ANC, dall’altra c’eral’ancien régime del presidente Frederikde Klerk e dell’ex­presidente Pik Botha,ora ministro degli Esteri. Lontani dal ta­volo però tramavano la destra estremi­sta afrikaner e il movimento Inkatha,formato da zulu che avevano abbracciatola visione di Grande Apartheid di HendrikVerwoerd in cambio della semiautonomiadello stato del KwaZulu e che vedevano ipropri privilegi messi a repentaglio dallaliberazione di Mandela e dalla fine dellasegregazione. Gli impi, i battaglioni del­l’Inkatha, per tre anni attaccarono indi­scriminatamente le township che circon­davano Johannesburg, maggiore centrodi consenso dell’ANC, con la connivenzadella polizia sudafricana. Si arrivò sul­l’orlo della guerra civile quando, il 10aprile 1993, due fanatici assassinaronoChris Hani, uomo di vertice dell’ANC chemolti vedevano come potenziale succes­sore di Mandela. Servirono gli appelli diMandela stesso e dell’Arcivescovo Tutu aprevenire il bagno di sangue e impedireche la nazione si incendiasse. Due mesipiù tardi, di nuovo si sfiorò la crisi,quando gli estremisti di destra del­l’Afrikaner Volksfront assalirono in un’o­perazione paramilitare il World TradeCenter di Johannesburg, dove andavanoavanti i negoziati per la creazione di unnuovo Sudafrica. Una dimostrazione diforza, paragonata alla presa della Ba­stiglia, che dimostrava quali fossero lepotenzialità di un colpo di stato da partedell’élite militare e della destra estremi­sta. Nonostante tutti gli ostacoli, venne­ro indette per il 27 aprile 1994 le prime

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elezioni a suffragio universale nella sto­ria del Sudafrica, che portarono all’ele­zione di Mandela.Il rugby, sport dell’oppressore e simbolodel potere afrikaner, definito da ArnoldStofile “l’oppio dei boeri”, vide terminareil suo lungo esilio dalla scena interna­zionale nell’agosto 1992, quando all’EllisPark di Johannesburg il Sudafrica affron­tò la Nuova Zelanda. Louis Luyt, il nuovocontroverso presidente della South Afri­can Rugby Union, aveva ottenuto la pos­sibilità di far disputare il test match apatto che l’evento non fosse usato comeoccasione per promuovere i simboli del­l’apartheid, così strettamente legati alrugby: la vecchia bandiera, che rappre­sentava il vecchio regime, e l’inno nazio­nale Die Stem van Suid­Afrika, una cele­brazione del grande trek con cui gli afri­kaner si erano imposti, a dir loro per vo­lere divino, e avevano imposto il loro co­lonialismo sugli altri popoli che abita­vano il Sudafrica. Fu un fallimento. Quel­la che doveva essere un’occasione di ri­conciliazione si trasformò in una cele­brazione dell’orgoglio boero, con la con­nivenza di Luyt e sulle note di Die Stem.Nonostante le polemiche, Mandela conti­nuò a considerare il rugby un modo perconquistare la fiducia dei boeri: fece inmodo che Nkosi Sikelel’ iAfrika, il nuovoinno nazionale, affiancasse Die Stemsenza sostituirlo, e ottenne per la suanazione l’organizzazione della Coppa delMondo 1995.La nazionale sudafricana per la Coppadel Mondo era composta quasi esclusi­vamente da giocatori bianchi, con l’unicaeccezione dell’ala Chester Williams.Williams sarebbe assurto a simbolo dellafine della segregazione, eppure nella di­visione etnica dell’apartheid non figuravacome nero, ma come coloured: un’etnia

in qualche modo privilegiata, più vicinaalla realtà boera che non a quella delletownship. Williams, come gran parte deisuoi compagni di squadra, era disin­teressato e ignaro rispetto alle questionipolitiche del suo paese. Un disinteressecondiviso anche da François Pienaar, ar­chetipo dell’afrikaner, flanker con un’a­dolescenza travagliata e violenta, cheaveva fatto il suo esordio in nazionalenel 1993, vestendo dal primo incontro lafascia di capitano che era appartenuta aNaas Botha. Nessuno avrebbe potutoimmaginare che un giorno sarebbe di­ventato l’icona di una nazione unita, néprevedere il legame profondo che av­rebbe stretto con Mandela durante l’an­no che passò tra il loro primo incontro ela Coppa del Mondo. Più consapevoli po­liticamente erano personaggi come l’a­pertura Joël Stransky, dai cui piedi sa­rebbe passato il destino di una nazione,e soprattutto il team manager Morné duPlessis. Fu proprio su iniziativa di duPlessis che gli Springboks portarono ilpallone della Coppa del Mondo attra­verso le township del paese, visitaronoRobben Island, il carcere per prigionieripolitici dove Mandela aveva spesodiciott’anni della sua vita, e impararonoa cantare il nuovo inno, Nkosi Sikelel’iAfrika.Il 25 maggio 1995, dopo il lancio del fio­rino del 1921 usato per sorteggiare pallae campo in un’Inghilterra – Nuova Ze­landa del 1925 e dopo il fischio di DerekBevan in un fischietto utilizzato per laprima volta novanta anni prima, l’au­straliano Michael Lynagh diede il calciod’inizio della Coppa del Mondo. Quellasudafricana, oltre al particolare signi­ficato che avrebbe acquistato per un po­polo, sarebbe stato uno spartiacque im­portante nella storia del rugby, segnandoil confine tra l’era amatoriale e quella del

professionismo e animando il dibattitoche portò alla modernizzazione del giocoriguardo agli aspetti relativi alla tuteladei giocatori e al ricorso all’ausilio dellatecnologia per coadiuvare le decisioniarbitrali. Il Sudafrica che scese in campoal Newlands di Città del Capo control’Australia era tutto bianco: ChesterWilliams, fermato da un problema tendi­neo, non aveva potuto far parte dellasquadra. Il protagonista della giornata fuJoël Stransky: il giocatore, che in passa­to aveva giocato per L’Aquila e San Donàdi Piave, mise a segno una full house,

ovvero andò a segno in tutti i modipossibili (meta, trasformazione, punizio­ne e drop), trascinando la sua squadra auna vittoria 27­18 sui campioni uscenti,ottenuta nonostante la pessima presta­zione in rimessa laterale. La convinzionee il morale ottenuto grazie a questa vit­toria non durarono a lungo: gli Spring­boks, pur vincendo 21­8 faticarono amettersi alle spalle la Romania. Non siaspettavano certo nemmeno la battagliache li avrebbe attesi contro il Canada,l’outsider che quattro anni prima avevastupito tutti qualificandosi ai quarti. La

Dal 1976, dopo i disordini accaduti nella principale township di Johannesburg,Soweto, il mondo aveva chiuso le proprie porte al Sudafrica. Anche il rugby fuisolato dal boicottaggio internazionale, in quello che fu considerato il colpo piùduro per gli afrikaner, che nello sport eccellevano. Le poche occasioniinternazionali che venivano concesse ai sudafricani erano puntualmente affaricontroversi. Il tour del 1981 in Nuova Zelanda fu costellato da proteste edisordini pubblici che portarono alla cancellazione di una partita e all’episodiodelle bombe di farina durante il match finale all’Eden Park di Auckland. In quellache si rivelò una partita tesa e nervosa, giocata in un’atmosfera irreale, unsuperleggero volò sopra lo stadio, sganciando fumogeni e bombe di farina sulterreno di gioco mentre l’incontro era in corso, e colpendo in testa l’All BlackGary Knight. Quattro anni più tardi Arnold Stofile, ex­rugbista e membrodell’ANC, condusse una campagna di successo e convinse il governo e lafederazione neozelandese ad annullare il proprio tour in Sudafrica. Fu così chenel 1986 venne organizzato il tour ribelle dei Cavaliers, una formazione All Blacksotto mentite spoglie, che causò scalpore al punto di spingere alcune nazionali aminacciare di boicottare la Coppa del Mondo inaugurale del 1987 se fossero statiammessi i giocatori che avevano partecipato alla tournée. Tra i personaggi piùimportanti e più dimenticati del dibattito sportivo sulla riconciliazione ci fu DanieCraven, giocatore e poi allenatore del Sudafrica e infine presidente dellafederazione rugby nazionale. Craven, in un tentativo di smuovere lo stato diisolamento internazionale della sua federazione, intavolò nel 1988 dei negoziaticon l’ANC, allora ancora fuorilegge, per la creazione di una federazione unitariache comprendesse bianchi, coloured, indiani e neri. Le reciproche differenze ediffidenze tra gli afrikaner della federazione rugby e i neri dell’ANC resero letrattative molto accidentate, portando infine alla fondazione della South AfricanRugby Football Union a inizio degli anni ’90. Il Sudafrica, nel frattempo, nonaveva potuto partecipare ai Mondiali nel 1987 e nel 1991. Danie Craven, mortonel 1993, non avrebbe mai visto la sua nazionale disputare una Coppa delMondo.

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tensione al Boet Erasmus di Port Eliza­beth era altissima: per il Sudafrica unavittoria voleva dire qualificarsi ai quartievitando di incontrare subito corazzatecome Inghilterra o Nuova Zelanda, lasconfitta avrebbe voluto dire la fineingloriosa del torneo. Dopo l’esecuzionedegli inni nazionali, con l’arbitro DavidMcHugh in procinto di fischiare l’iniziodel match, le luci dello stadio si spenseroimprovvisamente, per via di un cavodanneggiato. La tensione accumulataesplose sul campo di gioco: i Sudafri­cani, grazie a una difesa rocciosa, si im­posero per 20­0, ma a sette minuti dallafine, dopo uno scontro di gioco tra PieterHendriks e Winston Stanley, sul camposcoppiò la rissa. McHugh fu costretto amostrare tre cartellini rossi, uno deiquali verso il tallonatore sudafricanoJames Dalton. Dalton fu sospeso pertrenta giorni: il suo Mondiale finì, insie­me a quello di Hendriks, squalificato inseguito alla visione delle registrazionidella rissa da parte del comitato organiz­zatore. Se il Sudafrica perdeva l’ala cheaveva segnato una meta decisiva nellagara d’esordio contro l’Australia, la squa­lifica riapriva le porte della nazionale aChester Williams, che sarebbe diventatol’eroe del quarto di finale contro leSamoa Occidentali, segnando quattromete. Finì 42­14 per gli Springboks cheperò pagarono lo scotto di un confrontofisico durissimo. A farne le spese fu l’e­stremo André Joubert, che giocò le ulti­me due partite del torneo con una manorotta.La semifinale contro la Francia fu di­sputata a Durban. Per la seconda volta,dopo il match con il Canada, i suda­fricani corsero il rischio di vedere la par­tita assegnata a tavolino. Le condizionidel campo di gioco erano pessime: ilterreno era completamente allagato

dalla pioggia torrenziale che stavasfogandosi sulla regione del Natal. Unadelle immagini rimaste nella memoriacollettiva è l’esercito di donne nere che,spazzoloni alla mano, libera il terreno delKing’s Park dall’acqua in eccesso. Se lapartita non si fosse disputata il Mondialedel Sudafrica sarebbe finito: il regola­mento della Coppa del Mondo stabilivache in questo caso sarebbe stata elimi­nata la squadra che aveva subito piùespulsioni durante il torneo. In quel mo­mento, il cartellino rosso di Dalton con­tro il Canada pesava come un macigno.Le contingenze e la volontà di non farsaltare una partita di Coppa del Mondoperò forzarono la mano agli ufficiali eall’arbitro Derek Bevan e l’incontro, no­nostante il campo fosse ancora in condi­zioni di pessima praticabilità, cominciòugualmente. Finì 19­15 per i sudafricani,con la meta annullata da Bevan a Benaz­zi e con le lacrime dell’uomo dalle trepatrie, la Francia, il Marocco e il rugby.24 giugno 1995, Ellis Park: la finale diCoppa del Mondo si apre con la visita diNelson Mandela allo spogliatoio sudafri­cano. Indossa il cappellino e la magliadella nazionale, la numero sei diFrançois Pienaar, il gesto con cui conqui­sterà definitivamente la fiducia degliafrikaner. L’emozione è fortissima in tut­to lo stadio, e quello che avviene ad EllisPark è qualcosa che solo due anni primasarebbe stato impensabile: i neri tifanoper la nazionale dei bianchi, i bianchiintonano Shosholoza, canzone tradizio­nale del Sudafrica nero, lo stadio interoinneggia a Mandela. I neozelandesi sonoi favoriti, schierano all’ala Jonah Lomu,110 kg di velocità, una delle prime alipesanti della storia del rugby. I suda­fricani invece impostano la loro partitasulla difesa, sulla compattezza di unasquadra che ha saputo superare un

cammino accidentato per arrivare allafinale, sulla passione e sul desiderio dicoronare il sogno di una nazione. È ilgioco degli Springboks a imporsi, e lapartita si riduce a una sfida di calci traJoël Stransky e il neozelandese di origine

sudafricana Andrew Merthens che portaper la prima volta una partita di rugby atempi supplementari e che mantiene lagara sulla parità fino a sei minuti dallafine. Fino a quel drop di Stransky.

Pensare che basti una Coppa del Mondo a risolvere i problemi di un paeseattraversato da mille contraddizioni e che ha appena superato una condizione didivisione e segregazione è impensabile. La vittoria degli Springboks non fu deltutto una favola. Alcuni giocatori neozelandesi vomitarono a bordo campodurante la finale, spingendo l’allenatore Laurie Mains ad insinuare che gli AllBlacks fossero vittime di un’intossicazione alimentare deliberatamente causatada una misteriosa cameriera. Né alla cena della finale mancarono le polemiche ele controversie: il crasso commento del presidente della federazione sudafricanaLouis Luyt svuotò la sala. Luyt disse che nel 1987 e nel 1991 aveva sostenutoche le Coppe del Mondo non erano veritiere, in quanto il Sudafrica non avevapartecipato, e che la vittoria degli Springboks dimostrava la sua ragione. Dopoaver parlato con il terza linea neozelandese Mike Brewer nell’immediato seguitodell’episodio, la stampa chiese a Luyt se si fosse trattato di una conversazione odi una confronto a muso duro: “Dipende da come interpretate le parole Grossobastardo afrikaner”, fu la risposta. L’indelicatezza di Luyt durante quella sera nonsi limitò a quell’episodio: il presidente della federazione sudafricana regalò unorologio d’oro a Derek Bevan, definendolo “il migliore arbitro del torneo”, gestoquantomeno controverso, visto che Bevan aveva salvato in ben due modi lasemifinale contro la Francia, evitando la sconfitta a tavolino del Sudafrica per lecondizioni del campo e annullando la meta dubbia di Benazzi che avrebbequalificato i Bleus alla finale di Johannesburg.Le controversie del rugby sudafricano sarebbero continuate a lungo. Nel 2007,quando il Sudafrica vinse per la seconda volta la Coppa del Mondo schierando apilone Os du Randt, un componente della squadra del 1995, la squadra sfoggiavasulle maniche della propria maglia la scritta 466664, il numero del prigionieroMandela a Robben Island, e l’ex­presidente sudafricano si unì ai festeggiamentidella squadra, di nuovo indossando la maglia verde­oro. Non erano ancora risolti,né lo sono tuttora, i problemi legati alla violenza che circonda il gioco in alcuneregioni della nazione, alla percezione dello springbok come simbolo dell’apartheide all’annosa questione delle quote razziali nella squadra nazionale. Solo quattroanni prima le cronache avevano svelato l’orrore di Kamp Staaldraad, l’inumanocampo di addestramento cui furono sottoposti i giocatori prima della Coppa delMondo 2003, e la disputa tra l’afrikaner Geo Cronjé e il coloured Quinton Davids,entrambi espulsi dalla squadra per la Coppa del Mondo dopo che il primo sisarebbe rifiutato di dividere stanza e doccia con il secondo.

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NATION-CostruendounanuovaNazione Nel periodo più buio della storia delSudafrica, quando i principali leader delmovimento anti­apartheid erano impri­gionati a Robben Island, lo sport, nellospecifico il calcio, contribuì ad accrescerela consapevolezza che i neri potevanoautogovernarsi. Dopo che nel 1965 fupermesso ai detenuti di giocare a calcioall’interno del carcere, nacque la MakanaFA, un’associazione sportiva che gestìper alcuni anni un vero e proprio cam­pionato di calcio fra i detenuti. A Man­dela e a Sisulu non fu però mai permes­so di prendere parte o assistere a questiincontri, mentre l’attuale presidente Zu­ma era un arbitro. Giocare a calcio nonera solo un espediente per sopravvivere,ma contribuì anche ad accrescere unsentimento di dignità e uguaglianza non­ché a stemperare le divergenze nate inseno al movimento anti­apartheid. Moltileader del’ANC erano stati atleti; fraquesti Nelson Mandela comprese prima emeglio di altri che lo sport poteva rap­presentare un’eccezionale strumento diriconciliazione per il nuovo Sudafrica,nonché un fondamentale viatico per pro­muovere e generare una nuova identitànazionale. Se è vero che l’apice della ri­conciliazione nazionale attraverso losport fu raggiunta nel 1995 quandoMandela consegnò a François Pienaar laCoppa del Mondo vestendo la magliadegli Springboks, storicamente simbolodell’identità afrikaner, non vanno peròdimenticati altri avvenimenti sportivi chehanno contribuito alla creazione identi­taria della Rainbow Nation.

Nel 1991 la nazionale di cricket erarientrata nell’ICC consentendo ai Proteas

(soprannome dei cricketer sudafricani) diprendere parte alla Coppa del Mondo chefu co­organizzata da Australia e NuovaZelanda tra febbraio e marzo del 1992 incontemporanea con la campagna refe­rendaria in Sudafrica. Il 17 marzo i su­dafricani bianchi furono chiamati alleurne per decidere se sostenere o menole riforme di de Klerk, la fine dell’a­partheid e il proseguimento dei colloquiper la nuova costituzione. I Proteas, chenel torneo ben figurarono arrivando finoalle semifinali, si schierarono a favoredel si che ebbe la meglio ottenendo il68,8% dei voti. Lo stesso anno segnò ilrientro del paese alle Olimpiadi. A Bar­

cellona la delegazione sudafricana, dopoaver marciato dietro alla bandiera delriammesso Comitato Olimpico, ottennedue medaglie d’argento nei 10.000 metrifemminili e nel doppio di tennis ma­schile.Un anno dopo le prime elezioni mul­tirazziali del 1994, in cui l’ANC ottenneuna schiacciante maggioranza, si disputòla Coppa del Mondo di rugby. Mandelaintuì che proprio dallo sport degli afri­kaner si sarebbe dovuti ripartire per ri­costruire la nuova nazione arcobaleno.Lo slogan One team, one nation segnòsimbolicamente l’inizio della riconci­

liazione. L’atteggiamento di Mandela du­rante i Mondiali segnalò che i desideri divendetta erano stati riposti e che laTruth and Reconciliation Commission of­friva realmente una catarsi da cui poterripartire. Spinti dal carisma del neopre­sidente del Sudafrica, i neri smisero ditifare contro gli Springboks e si unironoai bianchi per sostenere una squadra incui, accanto a 14 bianchi, giocava ancheil coloured Chester Williams. Sempre nel1995 il cricket sudafricano ottenneun’importante vittoria contro l’Inghilterrache rafforzò ulteriormente il processo diinclusione sociale e di riconciliazioneportato avanti da Nelson Mandela.Dopo i successi nel rugby e nel cricketmancava solamente il calcio. Fallita laqualificazione a USA 1994 per via anchedel continuo valzer di allenatori in pan­china, la Coppa d’Africa del 1996, orga­nizzata peraltro in casa, rappresentò larivincita. I Sudafricani dovettero peròfronteggiare il boicottaggio della Nigeria,campione in carica, reduce dall’exploitmondiale e capace in quella stessaestate di vincere la medaglia d’oro aiGiochi Olimpici di Atlanta. Mandela ave­va cercato di instaurare buoni rapporticon la Nigeria, seconda potenza regio­nale dell’Africa sub­sahariana, ma quan­do il regime militare nigeriano feceuccidere nove attivisti dei diritti umani,fra cui lo scrittore Ken Saro Wiwa, ilSudafrica fu in prima linea per espellereil paese dal Commonwealth. Una dellerappresaglie della Nigeria fu il boicot­taggio sportivo. L’assenza delle Super A­

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quile pesò molto riducendo il valore as­soluto della competizione, ma tutto som­mato facilitò il successo finale dei BafanaBafana. Anche la nazionale Sudafricanadi calcio, trascinata da Mark Fish, DocKhumalo, Shaun Bartlett e John Mo­shoeu, ottenne quindi il suo grande ri­sultato. Tutti i sudafricani sostennerol’entusiasmante percorso dei Bafana Ba­fana verso il trionfo. Così come nel 1995il rugby aveva smesso di essere sola­mente lo sport degli afrikaner e il cricketquello degli inglesi, anche il calcio nel1996 smise di essere uno sport esclusi­vamente per neri.Ovviamente la simbologia sportiva non èriuscita a risolvere tutti i problematiciretaggi dell’apartheid sportivo. Ancoranegli anni Novanta molti sudafricani

bianchi credevano al cliché secondo cui ineri avevano imparato a giocare acricket o a rugby solamente nell’ultimodecennio. Come in molti altri campi ibianchi hanno mantenuto il controllo deiposti chiave dello sport sudafricanosoprattutto del cricket e del rugby. I nerihanno invece via via assunto il controllodel calcio e del Comitato Olimpico. An­che se inferiore alla media africana, at­tualmente rimane molto forte l’influenzadella politica nello sport soprattutto sullaquestione delle quote razziali all’internodelle squadre. Alcuni politici infatti, peresigenze meramente elettorali, tendonoa insistere strumentalmente sulla neces­sità che le nazionali di rugby e cricketdebbano avere una quota riservata aigiocatori neri, tralasciando però il fattoche la popolazione di colore preferirebbe

che essi si occupassero meno dello sportd’élite e si impegnassero maggiormenteinvece a garantire un accesso facilitatoalle infrastrutture e alla pratica sportiva.Malgrado tutti questi problemi sianoancora parzialmente irrisolti la RainbowNation sudafricana ha già una lungastoria di organizzazione di grandi eventisportivi alle sue spalle. Nel 1997 Cittàdel Capo ha avanzato la propria candi­datura per le Olimpiadi del 2004, vintepoi da Atene. Nel 1999 Johannesburg haorganizzato gli All African Games, men­tre nel 2003 il Sudafrica ha ospitato iMondiali di cricket. I Mondiali di calciorappresentano quindi il traguardo di quelcammino di ricostruzione dell’identitànazionale che lo sport ha percorso dipari passo alla società sudafricana. Un

punto d’arrivo quindi, ma anche un’oc­casione per ripartire. I problemi econo­mici, il crescente divario fra ricchi e po­veri e i problemi sociali, fra cui una cri­minalità urbana in costante aumento eun tasso drammatico di sieropositività,costituiscono le sfide del Sudafrica delnuovo millennio. I prossimi Mondiali dicalcio saranno un’eccezionale vetrina peril paese. Se il Sudafrica avrà la forza dinon nascondere dietro ai cartelloni pub­blicitari e agli stadi scintillanti le suecontraddizioni e cercherà invece dirisolverle sfruttando il momento di visi­bilità internazionale, allora potrà vera­mente affermare di aver vinto i suoiMondiali.

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