LA GUERRA NON BISOGNA NEPPURE INIZIARLA…1 · 2014-03-15 · LAURA MATELDA PUPPINI Capitolo...

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LAURA MATELDA PUPPINI Capitolo secondo di O Gorizia tu sei maledetta...LA GUERRA NON BISOGNA NEPPURE INIZIARLA… 1 Su quelle mire espansionistiche che portatono alla guerra ed a più guerre. Correva l’anno 1861, quando i territori della penisola italica, tranne quelli formanti le cosiddette Tre Venezie, si unificarono sotto il Regno di Sardegna, portando al Re, allora Vittorio Emanuele II°, la Corona del Regno d’ Italia, e dando alla neonata Nazione un Parlamento. Ma se l’Italia era una Nazione a pieno titolo, gli italiani non formavano allora un popolo coeso. Così si introdussero, su tutta la penisola, la leva obbligatoria e la scuola elementare a cui si lasciò principalmente, il compito di “ fare gli italiani”. Invece, non appena l’Italia fu unita, «le memorie ancestrali dell’ antica espansione coloniale vennero riesumate» da coloro che ritenevano che il prestigio nazionale esigesse di emulare l’antico impero romano. 2 E mentre si sarebbe dovuto guardare alla popolazione ed alle sue esigenze, i pochi che detenevano il potere politico guardarono, maggiormente e prioritariamente, come ben sottolinea Denis Mack Smith, al prestigio in ambito europeo, sposando una politica che privilegiava l’annessione di altri territori, senza neppure un’oculata valutazione dei vantaggi possibili, ed impegnando il nuovo Stato in ingenti spese militari. 3 Nel gennaio 1887, proprio nei territori del Corno d’ Africa, poi denominati Eritrea, ove le mire espansionistiche italiane avevano infine posto gli occhi, avvenne il massacro di Dogali, che costò la vita a 500 soldati e causò le dimissioni del l’ allora Presidente del Consiglio Agostino Depretis. 4 Gli successe Francesco Crispi 5 , che, appena diventato Primo Ministro, iniziò a parlare di rettifiche di frontiera, di diritti italiani nel Mediterraneo, della necessità di espandersi. Ed il suo cercare di concretizzare l’ ambizione espansionistica, fu visto e vissuto da alcuni come fattore di prestigio verso gli altri Stati Europei e di dimostrazione di “ virilità nazionale”. 6 E da qui all’occupazione della futura Eritrea, grazie ad un accordo con la Gran Bretagna, il passo fu breve. Così dal 1890 l’Italia poté fregiarsi di avere una vera e propria colonia, iniziò a brigare nella politica etiope e diffuse la voce che era intenzionata a far sparire il nome dell’Etiopia dalla carta geografi ca. 7 Ma l’Italia, come disse Bismarck, aveva: « un grande appetito ma denti poco aguzzi. » 8

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LAURA MATELDA PUPPINI

Capitolo secondo di “ O Gorizia tu sei maledetta...”

LA GUERRA NON BISOGNA NEPPURE INIZIARLA…1

Su quelle mire espansionistiche che portatono alla guerra ed a più guerre.

Correva l’anno 1861, quando i territori della penisola italica, tranne quelli formanti le cosiddette Tre

Venezie, si unificarono sotto il Regno di Sardegna, portando al Re, allora Vittorio Emanuele II°, la Corona

del Regno d’ Italia, e dando alla neonata Nazione un Parlamento. Ma se l’Italia era una Nazione a pieno

titolo, gli italiani non formavano allora un popolo coeso. Così si introdussero, su tutta la penisola, la leva

obbligatoria e la scuola elementare a cui si lasciò principalmente, il compito di “ fare gli italiani”.

Invece, non appena l’Italia fu unita, «le memorie ancestrali dell’ antica espansione coloniale vennero

riesumate» da coloro che ritenevano che il prestigio nazionale esigesse di emulare l’antico impero romano.2

E mentre si sarebbe dovuto guardare alla popolazione ed alle sue esigenze, i pochi che detenevano il

potere politico guardarono, maggiormente e prioritariamente, come ben sottolinea Denis Mack Smith, al

prestigio in ambito europeo, sposando una politica che privilegiava l’annessione di altri territori, senza

neppure un’oculata valutazione dei vantaggi possibili, ed impegnando il nuovo Stato in ingenti spese

militari. 3

Nel gennaio 1887, proprio nei territori del Corno d’ Africa, poi denominati Eritrea, ove le mire

espansionistiche italiane avevano infine posto gli occhi, avvenne il massacro di Dogali, che costò la vita a

500 soldati e causò le dimissioni dell’ allora Presidente del Consiglio Agostino Depretis.4

Gli successe Francesco Crispi5, che, appena diventato Primo Ministro, iniziò a parlare di rettifiche di

frontiera, di diritti italiani nel Mediterraneo, della necessità di espandersi. Ed il suo cercare di concretizzare

l’ ambizione espansionistica, fu visto e vissuto da alcuni come fattore di prestigio verso gli altri Stati Europei

e di dimostrazione di “ virilità nazionale”.6

E da qui all’occupazione della futura Eritrea, grazie ad un accordo con la Gran Bretagna, il passo fu breve.

Così dal 1890 l’Italia poté fregiarsi di avere una vera e propria colonia, iniziò a brigare nella politica etiope e

diffuse la voce che era intenzionata a far sparire il nome dell’Etiopia dalla carta geografica.7 Ma l’Italia,

come disse Bismarck, aveva: « un grande appetito ma denti poco aguzzi.»8

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Naturalmente ogni colonia ed intervento di occupazione territoriale implicavano un esborso notevole per

l’esercito e gli armamenti e questo impensierì alcuni parlamentari. Infatti l’Italia « stava spendendo

annualmente cento milioni di lire più di quanto (…) potesse permettersi in base alle entrate fiscali.»9

Nel gennaio 1895, comunque, senza tener conto di queste quisquiglie, per volere di Crispi venne invaso,

dalle truppe italiane guidate dal generale Oreste Baratieri, il Tigrè che faceva parte dell’Etiopia (chiamata

anche Abissinia), con il risultato di mettere immediatamente d’accordo, in funzione anti - italiana, i dervisci

ed il Negus Menelick. Questi si sentiva tradito avendo firmato, il 2 maggio 1889, il trattato di Uccialli, che

prevedeva, secondo il testo in amarico, solo un aiuto diplomatico italiano, su richiesta, nei rapporti verso

gli altri stati europei, mentre il testo in lingua italiana prevedeva la creazione di un protettorato italiano

vero e proprio. Il Negus ruppe il trattato di Uccialli e mosse guerra all’Italia che fu battuta .

Questa prima campagna per l’annessione dell’ Etiopia od Abissinia che dir si voglia, che trascinò 6000

uomini al massacro, terminò quindi malamente per varie cause, non ultime la mancanza di dettagliate carte

geografiche, di informatori adeguati e di collegamento fra le quattro colonne militari italiane, comportò

ingenti spese di denaro pubblico e la fine della carriera politica di Francesco Crispi.10

Ma le mire espansionistiche dell’Italia avevano subito solo una pausa, non erano certo state accantonate.

Così il Governo italiano riuscì a stabilire un protettorato sulla Somalia ed a realizzare, nel 1898, una

spedizione militare in Cina, che fallì miseramente, e di cui non si fece più gran menzione.11

Per la verità alcuni parlamentari piuttosto realistici si chiedevano a che servisse andare a caccia di sabbiosi

deserti africani da annettere, dato che non procuravano neppure utili alle industrie lombarde, tranne che a

quelle belliche. Infatti le statistiche commerciali non giustificavano le spese economiche per le guerre

coloniali, che rappresentavano, per l’Italia, un esborso enorme. 12

I fautori delle imprese africane obiettavano che era necessario assicurarsi dei porti da sfruttare, in un

secondo momento, grazie al canale di Suez. Ma non avevano fatto bene i loro calcoli perché non fu così.

Inoltre non era possibile, dicevano, che l’Italia fosse una grande nazione senza colonie. Ma per pensare all’

espansionismo, dimenticarono i problemi degli italiani, che non erano pochi.

Nel 1900, comunque, Francia ed Italia riconobbero, con uno scambio di note, i reciproci ambiti di interesse

in nord Africa: la prima mirava al Marocco, la seconda alla Libia.13 Inoltre, nel 1908, l’impero Austro-

ungarico annunciava l’ annessione formale di Bosnia ed Erzegovina, osteggiata dai nazionalisti locali,

attirando l’attenzione europea, ed italiana in particolare, sul rapido mutamento di equilibri nei Balcani.14

Ed in Italia, nel 1910, nel corso del primo Congresso del neonato Partito Nazionalista, Luigi Federzoni, poi

ministro fascista, invocò la conquista della Libia che faceva parte dell’Impero turco.15

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Nel 1911 Ricciotti Garibaldi, figlio del notissimo Giuseppe, tentava di liberare l’Albania dalla Turchia e

portarla nella sfera coloniale italiana, sacrificando alcune centinaia di camice rosse. Ed infine Giolitti16

decise di iniziare la guerra per occupare la Libia, territorio ove il banco di Roma aveva investito enormi

capitali, e che pareva ad alcuni il nuovo Eldorado. 17

Anche questa volta vi furono i favorevoli ed i contrari, e contrario all’impresa libica fu il Partito Socialista

che, però, iniziò a registrare le prime fratture al suo interno. I quotidiani Stampa e Corriere della Sera si

schierarono per la guerra, che, per gli oppositori, era una vera e propria aggressione.

I nazionalisti incominciarono a picchiare chi non la pensava come loro, e talvolta la polizia parve non

accorgersene.18 Ed infine la guerra alla Turchia per occupare la Libia fu dichiarata. Non fu una guerra facile,

ma alla fine, nel maggio 1912, si giunse all’ occupazione anche di Rodi ed al riconoscimento della sovranità

italiana sulla Libia e sul Dodecaneso, poi sancita in via definitiva nel 1923.

Questo desiderio di espansione di alcuni italiani influì anche sulla scelta di partecipare alla prima guerra

mondiale, alle modalità con cui l’Italia vi partecipò ed ad alcune scelte di Sonnino, mentre il popolo

chiedeva pane e lavoro.

E si giunse a quell’ “inutile strage”19 che fu la prima guerra mondiale, anch’ essa con obiettivi

annessionistici, cioè per guadagnare “ Trento e Trieste” e “quella terra al di là dei confini”.

Questa immagine è tratta da: Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari commerciante, tolmezzino, fotografo, Gli Ultimi Cjargne Culture, 2007, p. 48

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Sentirete parlare di guerre e di rumori di guerre…

Così Papa Benedetto XV°, salito al soglio pontificio il 3 settembre 1914, scriveva nell’Enciclica “ Ad

beatissimi apostolo rum”, datata 1 novembre dello stesso anno :

« Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: «Sentirete parlare di guerre e di

rumori di guerre… Infatti si solleverà popolo contro popolo, e regno contro regno». Il tremendo fantasma

della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e

fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia perciò, se ben fornite, come sono, di quegli

orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun

limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e

feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armata, discendano da uno stesso progenitore, che

sian tutte della stessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli

di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall’altra si combatte con eserciti

sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, funeste compagne della

guerra; si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani; languiscono, per

le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i

poveri nello squallore, tutti nel lutto. »20

Come l’Italia andò in guerra senza tener conto della situazione dell’ esercito, appena uscito dalla

campagna di Libia.

Per la verità non si può dire che il Regio Esercito Italiano fosse preparato ad affrontare quella guerra del

15- 18. Infatti:

la campagna di Libia, svoltasi nel 1911- 1912, aveva ridotto le riserve di munizioni e le risorse a

disposizione e, dopo aver prosciugato i bilanci e dato corso ad un grosso debito pubblico ed ad un forte

processo inflazionistico, il Governo non intendeva né poteva procedere ad ulteriori sostegni finanziari

all’esercito; il morale delle truppe non era ottimale dopo il grosso impegno africano.21

Si registrava, nel Regio Esercito Italiano, una debole preparazione ad affrontare un compito così gravoso

dal punto di vista militare; lo Stato Maggiore del R.E.I. era pronto ad una guerra a fianco dell’impero austro-

ungarico e della Germania, non contro; vi era ancora una certa incapacità, almeno da parte di Luigi

Cadorna22, a concepire ed affrontare una guerra d’attacco.23

Il generale Luigi Cadorna era la persona meno adatta a ricoprire il ruolo di Capo di Stato Maggiore di un

Esercito in guerra, perché non aveva mai esercitato, prima di allora, un comando operazionale di questo

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tipo; era poco propenso ad accettare consigli dai generali degli eserciti alleati ed a collaborare con loro;

agiva senza controllo alcuno, dimostrava scarso interesse per i soldati, di cui permise persino la

decimazione e la fucilazione per reati non commessi.24

Inoltre vennero compiuti alcuni errori.

Si concentrò lo sforzo militare soprattutto lungo l’Isonzo dove il terreno era più accidentato e le grotte

numerose; non vennero mantenute sufficienti riserve; non si elaborarono piani difensivi in profondità; si

sprecarono forze per conquistare posizioni poi indifendibili; si sottopose la truppa ad una lunga guerra di

posizione, che avrebbe snervato qualsiasi esercito.25

A ciò si deve aggiungere che le armi erano scarse ed i soldati demotivati e senza entusiasmo alcuno verso

una guerra che non avevano voluto, come la gran parte della popolazione italiana26, e che aveva interrotto

la loro vita ed i loro sogni.

Infine Sidney Costantino Sonnino27, ministro degli Esteri, faceva un a politica propria, caratterizzata dall’

avversione verso gli alleati greci e slavi, che viveva come possibili avversari, a fine guerra, per il

mantenimento del già annesso Dodecaneso e della Dalmazia, oggetto delle mire italiane.

Infatti, nel 1914, approfittando nella neutralità, l’Italia aveva fatto sbarcare in Albania una “commissione

sanitaria” che aveva portato all’occupazione della città di Valona.28 E vi era chi ambiva ad aprire un

corridoio tutto italico verso l’Albania stessa.

«Questa occupazione – scrive Denis Mack Smith – avrebbe dovuto assicurare all’Italia un pegno nel caso di

vittoria di una parte o dell’altra, e costituì altresì un passo in quella politica espansionistica che aveva già

portato all’annessione della Libia e del Dodecaneso. ».29 Gli Italiani avevano costruito in Dalmazia ponti e

ferrovie, ed una società italiana si era assicurata, in Montenegro, il monopolio del tabacco. Ma la

penetrazione economica italiana aveva trovato l’opposizione crescente dell’impero austro- ungarico e di

patrioti locali. Pertanto Sonnino vedeva la guerra serbo- austriaca come un eccellente occasione per

rafforzare le pretese annessionistiche dell’Italia su Trieste e la costa adriatica, e per aprirsi una via verso i

Balcani. 30

Decimate quei soldati… la politica del generale Cadorna verso la truppa.

La prima guerra mondiale viene anche ricordata per il modo con cui vennero trattati i soldati italiani al

fronte, sottoposti anche a decimazione ( un soldato fucilato ogni 10 indipendentemente se avesse

commesso un reato o meno).

Chi sostenne le decimazioni, come ammonimento se non usciva il nome dei colpevoli di fatti ritenuti gravi,

fu il generale Cadorna, comandante di Stato Maggiore del R.E.I..31

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Quando non vi fosse altro mezzo idoneo per reprimere reati collettivi che quello di fucilare

immediatamente i maggiori colpevoli, ma non si riuscisse a riconoscerli, «rimane ai comandanti il diritto et

il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la morte.» - scriveva Cadorna,

ottenendo il plauso di Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d’ Aosta, e forse non solo il suo. 32

Così accadde, per esempio, che un povero soldato, pur trovandosi nelle retrovie, fu sorteggiato, in una

decimazione, fra quelli da uccidere, e venne fucilato, a causa di fatti accaduti al fronte.33

Ed anche le fucilazioni sommarie di militari, durante la prima guerra mondiale, « furono un fenomeno che

si dipanò, come un ruscello di sangue, per tutta la durata del conflitto. Iniziate già nei primi giorni di guerra

contro i civili nell’area del Monte Nero, proseguirono sporadicamente nel resto dell’anno e per la prima

metà del 1916, per crescere impetuosamente durante la Strafexpedition34 e nelle battaglie di autunno. Il

culmine fu raggiunto durante quella che si può definire, sotto il profilo dell’aumento dei reati di indisciplina

e della più violenta e cieca repressione “l’estate di fuoco” del 1917 (maggio – luglio). Ovviamente le

fucilazioni continuarono a ritmo sostenuto nei due mesi seguenti la ritirata di Caporetto, per decrescere

sensibilmente ( ma non cessare) durante la gestione di Armando Diaz, che mantenne la sostanza

dell’arsenale repressivo cadorniano, specialmente sotto il profilo processuale. »35

Già nel mesi di maggio e settembre 1915, Luigi Cadorna aveva inviato ai comandanti due circolari aventi

come oggetto “ Disciplina di guerra”, che legittimavano, di fatto la giustizia sommaria. Nella seconda si

poteva leggere che «La disciplina è la fiamma spirituale della vittoria»36 dimenticando il morale dei soldati,

e che « deve ogni soldato esser certo di trovare, all’ occorrenza, nel superiore il fratello od il padre, (…) ma

che il superiore ha il sacro potere di passare per le armi i recalcitranti ed i vigliacchi.»37

Inoltre, in base a dette circolari, coloro che avessero tentato di retrocedere o di arrendersi potevano esser

legittimamente uccisi da coloro che si trovavano nelle linee retrostanti, o dal fuoco « dei carabinieri

incaricati di vigilare alle spalle delle truppe.»38

Per la verità alcuni sostenevano che le esecuzioni sommarie e le decimazioni erano previste dall’articolo 40

del Codice penale militare, ma detto corpo di leggi non prevedeva l’obbligo di attuare queste forme

estreme di repressione. 39

Anche gli eserciti di altri paesi europei utilizzarono la giustizia sommaria, cioè la condanna in assenza di un

regolare processo, ma furono casi sporadici, tranne che nel caso della Russia, ancora sotto lo czar.

«I pochissimi casi individuati negli eserciti francese, inglese e tedesco o imperial regio – scrivono Pluviano e

Guerrini - furono comunque messi in atto nel vivo della battaglia, non ricevettero il plauso dei comandi, (…)

e sollevarono subito scandalo tra l’opinione pubblica e i politici.» Ma bisogna anche dire che gli altri stati

europei fecero largo uso della giustizia sommaria verso i civili stranieri: i tedeschi e gli austriaci uccisero

migliaia di civili senza processo sia all’est che all’ovest, i francesi fucilarono molte “spie” e anche gli inglesi

mitragliarono più volte i lavoratori cinesi, arabi e indiani quando scesero in sciopero.40

Ma in Italia lo strumento della decimazione, in ambito militare, fece la differenza.

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«Altrettanto rilevante è l’ampia casistica dei reati che portò alle esecuzioni senza processo: rivolta ed

ammutinamento, sbandamento, diserzione verso il nemico e verso l’interno, saccheggio, rifiuto d’

obbedienza, vie di fatto verso un superiore, omicidio, autolesionismo, etc.. » 41

«La giustizia sommaria fu argomento molto conosciuto dai sodati – scrivono sempre Pluviano e Guerrini -

ed essi ne mantennero viva la memoria. Durante la guerra, lontano dal fronte se ne parlò poco e la censura

cercò sempre di impedire che le notizie giungessero al Paese. (…). Le prime notizie concrete sulla giustizia

sommaria emersero all’inizio del 1919, ma soprattutto (…) in seguito alla pubblicazione della Relazione

della Commissione d’ Inchiesta su Caporetto. (…). Gli ex- combattenti e le famiglie dei caduti furono

sconvolti dalla rivelazione delle dimensioni del fenomeno (…).»42 Ma poi, sempre nello stesso anno, a causa

dell’occupazione di Fiume da parte di Gabriele d’Annunzio43, la censura fu ripristinata, ponendo in sordina

il dibattito apertosi sulla giustizia sommaria, che avrebbe potuto influire, tra l’altro, sulle imminenti

elezioni politiche, facendole volgere a favore dei socialisti.44

Così scriveva Michele Gortani sulla prima guerra mondiale….

L’onorevole Michele Gortani, ufficiale dell’ E. I., così si esprimeva, il 7 ottobre 1918, davanti alla

commissione d’inchiesta istituita dopo Caporetto, sottolineando quelli che secondo lui, erano stati i limiti

nella conduzione della guerra, e cioè:

« Le ostinazioni e gli errori del generale Cadorna e del nostro Stato Maggiore in generale; l’idea fissa dell’

offensiva sull’Isonzo; l’ostinazione di voler fare offensive sempre troppo estese senza i mezzi adeguati; la

preparazione generalmente insufficiente; lo sciupìo di vite: la carne umana opposta ai mezzi meccanici e

sostituita da essi; nessun arretramento a nessun costo, anche se ciò debba implicare il sacrificio della vita

per migliaia di soldati tutti i giorni; il regime di terrore instaurato su tutta la linea: autocrazia unita a

fatualità e superbia. Non si ascoltano, non si valutano e non si permettono osservazioni; si punisce

chiunque osi esprimere opinioni o fare discorsi in disaccordo col pensiero del Comando (…). L’Esercito è

disorganizzato, l’Esercito è sfiduciato, l’Esercito è male armato.»45

Si può vedere come le considerazioni di Michele Gortani collimino con quanto scritto dagli altri autori citati.

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Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari commerciante, tolmezzino, fotografo, op. cit., p. 89.

Ogni soldato aveva una storia: due parole sul fante Marco Candido, di Ludaria di Rigolato.

Molti carnici furono arruolati per combattere la prima guerra mondiale, e fra loro c’era anche giovane,

poco più di un ragazzo, il cui nome era Marco, un nome antico e tutto veneziano. Il suo cognome era

Candido ed era nato a Ludaria di Rigolato l’ 8 maggio 1897. Marco era un ragazzo per nulla brutto e bruno,

come molti dei Candido, ed era figlio di Marianna D’Agaro, casaliga, contadina, portatrice e tuttofare, sposa

e madre, come migliaia di donne in Carnia, stremate dalla fatica e dagli impegni gravosi, e di Giuseppe,

muratore emigrante par las Germanias, poi boscaiolo ed allevatore di una mucca, uomo rude, da quanto si

narra, ma un riferimento per il figlio.

Marco fu certamente un bambino come tanti altri, fece arrabbiare i genitori, prese qualche manrovescio

per le sue birichinate, frequentò la scuola elementare, giocò nei prati di Ludaria, e andò, volente o nolente,

a tutte le funzioni religiose prescritte.

Capace di “leggere e scrivere e far di conto”, frequentò pure un non ben precisato corso professionale, e

risultava, come tanti, essere un manovale. Non sappiamo se andò anche lui emigrante garzone tuttofare a

14 anni, con il padre o uno zio, in un paese austriaco o tedesco, come facevano molti; non sappiamo se

avesse una ragazza o meno, e non sappiamo cosa pensasse, sognasse, desiderasse.

Sappiamo, invece, che venne arruolato l’8 febbraio 1917, con la leva della classe 1898 del mandamento di

Tolmezzo, circondario di Tolmezzo, ed aveva solo 19 anni, il 2 marzo 1917, quando, chiamato alle armi, si

presentò per fare il soldato. Dal suo “Foglio di congedo temporaneo” sappiamo anche che l’8 aprile 1917 fu

trasferito dal 58° reggimento fanteria al 242°, che il 2 maggio 1917 giunse in zona prossima a quella di

guerra. 46

Così egli scrive al padre il 20 maggio 1917:

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«Darete questo foglio a Giuseppe di Nano da parte di suo figlio Marco.

Este lì 20/5/ 1917.

Caro padre, vi scrivo questa mia notificandovi il mio stato di perfetta salute come spero di voi tutti in

famiglia. Vi notifico che oggi anno tirato sorteggio 50 per compagnia e à toccato anche a me ma io mi do

coraggio lo stesso e così procurate di darvi coraggio anche voi, caro padre, e dite a madre che non stia in

pensiero per me. Io partiro di qua da due o tre giorni ma si spera di non andare in zona di guerra. In ogni

modo dopo arrivato al posto ve lo farò sapere immediatamente. Per ora se non mi avete spedito denaro vi

farò sapere, che mi mandate quando sarò arrivato a posto che vi manderò la mia direzione. Vi prego non

state in pensiero per me che fuori del destino non si scampa. Dunque Addio. Ricevete cordiali saluti da

vostro figlio.

Marco Candido.»

_______________________________________________________________________________________

Questa lettera ci dice molte cose, oltre che le madri “stavano in pensiero” per i loro figli.

Marco spera di non andare in zona di guerra, anche se è uno dei sorteggiati; si preoccupa di rasserenare la

famiglia; è in perfetta salute, e questo è dato importante, perché poi non lo sarà più; spera che i genitori gli

inviino denaro o sa che lo faranno, e ciò significa che chi era in miseria doveva pensare anche a dare

qualche spicciolo ai figli soldati, perché forse sapeva che le condizioni di vita non erano ottimali …

Una cosa però deve essere segnalata: anche durante la prima guerra mondiale, come durante la seconda,

vigeva la censura sulla posta che i soldati inviavano a casa ed ad altri. Non si doveva dire che le cose non

andavano bene anche se era così, non si doveva dire quali erano le condizioni di vita, la sete e la fame che

affliggevano.

Non sappiamo molto sulla vita da militare di Marco, ma molto probabilmente fu uguale a quella di tanti

altri, spediti a morire sul fronte senza averne capito il motivo.

Nemmeno tutti i giorni si arrivava a ricevere mezzo litro d'acqua…. Testimonianze di vita.

« (…) finalmente arrivo di nuovo all’accampamento tra una pallottola e l’altra, - scrive il caporale Enrico

Conti - mi metto a distribuire (il rancio) e dopo un momento ci arriva una scarica di fucileria che mi tocca

tralasciare e ritornare in trincea ad aspettare che faccia giorno ed alle cinque e mezza termino la mia

operazione, per terminare di mangiare il rancio freddo e per non correre tutti i momenti in mezzo ai boschi

mangio sempre un limone e delle volte due con del pane per restringermi un poco, del resto non mi rimane

più niente in corpo.»47

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«Difatti da berre non si rriceveva che mezzo litro di acqua, e anche questa veniva portata dai muli da Tre

ore di distanza, e questa nemmeno tutti i giorni si arrivava a ricevere mezzo litro d'acqua, perche, durante il

viaggio i muli erano presi a canonate, e addioacqua.» 48

«Il sole di luglio (del ’15) batteva su quelle nude rocce producendo un caldo soffocante per cui molti soldati

cominciavano a dare in ismanie per la sete. Si cercava resistere anche a quel corporale bisogno, ma vi

furono due soldati che cominciarono ad annaspare gambe e braccia assaliti dai brividi della morte. (...) uno

dei soldati assaliti dalla sete morì (...) ognuno cerca resistere alla sete tenendo inbocca fili di erba oppure

una pallottola di fucile. Vi fu un caporal maggiore napolitano, che non potendo resistere alla febbre della

sete, orinò in una tazza di latta, e dopo averla tenuta all'aria per qualche minuto, la bevve d'un fiato: ma gli

incorse male, perchè l'orina, di per se stessa ammiacale (ammoniacale) e calda anche pel forte calore gli

produsse dolori allo stomaco seguiti da forti convulsioni.»49

«Il vitto arrivava tutti i giorni, dalle ore 22 alle 24. Nei giorni che non perveniva, voleva dire che la colonna

porta viveri era stata colpita nel tratto retrovia prima linea. Il rancio consisteva in una razione di pasta in

brodo cotto verso le 16, ma che arrivava caldo in marmitte ermeticamente chiuse; un pezzo di carne lessa

che arrivava in sacchi; una pagnotta di pane; una tazza di caffè anche caldo, certe volte qualche pezzo di

formaggio ed un poco di vino; il tutto una sola volta al giorno. Di tanto in tanto distribuivano qualche sigaro

e poche sigarette. (...). L'acqua consisteva in una razione di mezzo litro al giorno. Nelle cassette di acqua da

servire per la refrigerazione delle canne delle mitragliatrici, una volta non fu trovata una goccia d'acqua: era

stata tutta bevuta. Per evitare altre sorprese del genere si dovette aggiungere petrolio all'acqua

suddetta.(...)»50

«La razione alimentare giornaliera, il “rancio”, viene portata in capaci contenitori di notte, quando il

trasporto nelle trincee è meno pericoloso per i soldati di corvè.

Se il cibo riesce ad arrivare in prima linea, è distribuito in quantità insufficiente ed è pessimo: la pasta e il

riso sono scotti, il brodo è gelatina, la carne dura e il pane immangiabile. Questo genere di dieta è integrata

con scatolame (carne, fagioli, gallette). Anche la sete, al pari della fame, tormenta il soldato, perché spesso

l’acqua è imbevibile. Del tutto diversa per quantità e qualità è la cucina riservata agli ufficiali. Biscotti, vino,

cioccolato e liquori (cognac e grappa), in genere, sono distribuiti alla truppa solo prima degli assalti. Alcool e

tabacco alleviano le sofferenze del soldato, il caffè aiuta a sostenere le lunghe veglie cui il soldato è

costretto.» 51

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E quei giovani, che spesso la guerra non l’avevano voluta, temevano di essere mandati all’assalto…

«L’assalto è l’incubo dei soldati di tutti gli eserciti. All’ordine degli ufficiali, bisogna abbandonare la tana

scavata nella terra per andare a conquistare la trincea nemica, dalla quale proviene un micidiale fuoco di

sbarramento.

Sul Carso e lungo l’Isonzo l’esercito italiano assume costantemente un contegno offensivo; ciò vuol dire che

i suoi soldati devono uscire allo scoperto e andare all’assalto con una frequenza molto maggiore rispetto

agli altri fronti.

Gli assalti avvengono prevalentemente di giorno e, di solito, sono anticipati da bombardamenti più o meno

intensi, che hanno lo scopo di distruggere le posizioni avversarie e fiaccare lo spirito di resistenza degli

avversari. I soldati escono dalle trincee in ranghi compatti, controllati dagli ufficiali e dai gendarmi che

hanno l’ordine di sparare su chi si rifiuta di andare avanti, e si dirigono verso la trincea avversaria. I cannoni,

le mitragliatrici e la fucileria dei difensori battono la “terra di nessuno” che divide le trincee e, nella maggior

parte dei casi, l’attacco si tramuta in una disperata corsa contro la morte. Il terreno accidentato e le

barriere del filo spinato frenano l’impeto dei soldati, che diventano facili bersagli del fuoco avversario.

Data l’assoluta prevalenza delle armi difensive, ogni attacco è destinato a risolversi con la perdita di circa il

30-50 per cento delle forze impiegate e, per avere ragionevoli probabilità di conquistare la trincea

avversaria (le perdite degli attaccanti sono di solito da tre a cinque volte superiori a quelle dei difensori), è

necessario impiegare grandi masse di combattenti.

Sul fronte dell’Isonzo l’esercito italiano esercita una costante pressione e dunque le sue perdite sono

maggiori, ma anche gli austro-ungarici, quando sono costretti ad attaccare subiscono gli stessi drammatici

inconvenienti.

In alcuni casi la trincea avversaria viene raggiunta e conquistata, spesso dopo brevi ma cruentissimi scontri

con le bombe a mano e infine “all’arma bianca”: cioè baionette, coltelli, ma anche il calcio dei fucili, le

mazze ferrate o micidiali utensili come picconi e vanghette. Per un momento, il combattimento cessa. Ma

non c’è tempo per esultare.

A poche centinaia di metri si scoprono, evidenti, altre trincee, altri reticolati.

E bisogna nuovamente andare all’assalto.»52

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Prima parte della lettera di Marco Candido al padre.

Ma perché quei giovani dovettero soffrire così? Facciamo un passo indietro e ritorniamo a quel desiderio

di espandersi che condizionò la vita degli italiani….

Alla fine della guerra l’Italia dichiarò di aver richiamato sotto le armi cinque milioni di uomini, che ben

600.000 soldati avevano perso la vita in combattimento, e che l’onere finanziario era stato enorme.

Il Tesoro annunciò, nel 1930, che il costo della guerra era stato di 148 miliardi di lire, vale a dire una

somma doppia di quella per le spese complessive dello Stato fra il 1861 ed il 1913.

Ed in cambio dell’ enorme spreco di energie e di risorse naturali, l’Italia ebbe poche soddisfazioni, molte

amarezze ed una frontiera sulle Alpi. 53 E secondo Denis Mack Smith « Le macerie lasciate da questa

terribile guerra furono una delle ragioni per cui l’Italia dovette soffrire (…) venticinque anni di rivoluzioni e

di tirannia.»54

Al tavolo di pace l’Italia si presentò indebolita dalle divergenze fra chi voleva annettere territori dei Balcani

ad ogni costo ed i rinunciatari. E per Sonnino fu certamente fonte di imbarazzo che i greci e gli jugoslavi

fossero usciti dalla guerra come vincitori ed alleati, in quanto li vedeva come potenziali competitori nelle

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rivendicazioni del Dodecaneso, di Trieste e della Dalmazia, desiderate anche per aprirsi una via verso il

protettorato dell’ Albania.55

Nell’ aprile 1918, Sonnino, sempre Ministro degli Esteri, che aveva ampiamente apprezzato il contributo

degli alleati slavi per uscire dalla crisi del 191756, permise che venisse convocato a Roma un congresso delle

nazionalità oppresse che diede origine al cosiddetto Patto di Roma, nel quale veniva affermato che:

« l’unità e l’indipendenza della Jugoslavia costituivano un interesse vitale per l’Italia.»57

Nel settembre 1919 fu firmato il trattato di pace con l’Austria, nel giugno 1920 quello con l’Ungheria, e

l’Italia si dimenticò di questo sottoscritto nell’ aprile del 1918. E benché il disfacimento dell’ impero austro

– ungarico rendesse meno appetibile il dominio sull’Adriatico, Sonnino aumentò le pretese italiane sulla

costa dalmata. Dette richieste, però, si scontrarono con il parere degli esperti americani, favorevoli al

principio di nazionalità, non avendo gli U.S.A. sottoscritto il trattato di Londra. Alla fine, grazie all’

intervento del Presidente americano Wilson58, L’Italia, sulla base di aspetti strategici che superavano quelli

di carattere nazionalistico, ottenne la frontiera al Brennero, annettendo sia il Trentino che l’Alto Adige, per

la gran parte di lingua tedesca.

Ad Est Trieste fu attribuita all’ Italia senza discussione, ma senza quei grossi vantaggi per la città, che alcuni

speravano. Infatti la nuova frontiera separò Trieste dal precedente entroterra tedesco e slavo, « facendo

della città una testa priva di corpo » con una netta diminuzione degli affari e del lavoro.59

Inoltre l’Italia voleva, a fine guerra, anche la città di Fiume, oltre la Dalmazia, slava. E non accettò la

proposta di Wilson, che le concedeva Trieste , Pola la maggior parte della penisola istriana, e le linee

ferroviarie che univano Gorizia e Trieste alla penisola italica.

Si voleva ad ogni costo Fiume e la Dalmazia, e le richieste erano tali che Bissolati60, ben poco favorevole alla

bagarre annessionistica, laconicamente affermò che: « La Jugoslavia esisteva e qualunque cosa l’Italia

avesse potuto fare, non avrebbe cambiato questo dato di fatto.»61

I nazionalisti italiani non erano molti, ma la loro influenza era notevole negli ambienti di corte e nei circoli

industriali. Così D’ Annunzio, loro rappresentante, poteva impunemente proclamare che gli slavi dovevano

essere schiavi e che la Dalmazia apparteneva all’ Italia per diritto divino. 62

Alla fine, però, l’Italia dovette scendere a più miti pretese e, con il trattato di Rapallo, rinunciò

momentaneamente alle sue ambizioni sul territorio dalmata.

Alcuni politici italiani, visto lo smembramento dell’ Impero Ottomano, ambivano pure a territori in Asia

Minore, e per questo truppe italiane vennero fatte sbarcare in vari punti della Turchia con la scusa di

permettere il mantenimento dell‘ordine, ma la resistenza turca fece ben presto loro cambiare idea.

Infine il trattato di Losanna con la Turchia, datato luglio 1923, non fece altro che mantenere all ‘Italia il

Dodecaneso, già protettorato dal 1912. Per quanto riguarda le colonie africane, l’ Italia ottenne solo

Giarabub, oasi del deserto libico e l’Oltregiuba prima inglesi, e piccole rettifiche di confine in Libia ed

Eritrea.63

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Comunque molti italiani “nazionalisti” si ritennero soddisfatti di quanto ottenuto, ma la propaganda

successiva esagerò i sentimenti dei delusi, in modo da sfruttarli.

Inoltre l’Italia usciva dalla guerra in una situazione interna spaventosa. Mancavano pane e lavoro, la

smobilitazione militare portava ad avere, nella penisola, migliaia di disoccupati, bisognava sovvenzionare i

produttori di grano e fornire sussidi alimentari alla popolazione stremata dalla guerra, il processo

inflazionistico galoppava, assieme al deficit di bilancio, gli aiuti americani smisero ben presto.

Per la verità il dopoguerra fu difficile anche per le altre nazioni, ma, secondo Denis Mack Smith, « gli uomini

politici italiani si lasciarono prendere da un tale timor panico da perdere il controllo degli avvenimenti e la

fiducia in se stessi.»64 E si giunse così al fascismo che continuò una politica di conquista, sacrificando ancora

molte vite umane al sogno espansionistico.

E ritorniamo a Marco Candido, che avevamo lasciato timoroso di andare al fronte.

Alcuni soldati non morirono ma restarono menomati, fra questi Marco Candido. Ritroviamo Marco, nel

gennaio – febbraio 1918, in forze al comune di Vinovo, in provincia di Torino, a ricevere il pane ed alimenti

con la tessera, quindi congedato temporaneamente il 22 maggio 1918, in uscita, secondo un foglietto

scritto a mano, dall ‘ospedale di Pavia.

La guerra non è ancora finita: che gli è successo? Marco, che ha fatto la campagna di guerra nel 1917 –

1918, ha un problema al metacarpo della mano destra da cause di guerra.

Il 1° gennaio 1919 il commissariato di una città o paese che non risulta ben leggibile ma pare Torino, regala

a Marco un foglio di via per indigenti e lo rispedisce in Carnia, a Rigolato.

Probabilmente intraprende la via di casa verosimilmente senza mezzi per sostentarsi né un futuro.

Il 1° dicembre 1919 Marco ottiene un congedo temporaneo di tre anni, il 23 febbraio 1920 risulta invalido

di guerra e viene invitato a presentarsi a Bologna alla casa di Rieducazione gestita dall’ Opera Nazionale

per gli Invalidi della guerra, per esservi ammesso, non si sa con che esito. Intanto, da quando ha subito il

danno alla mano, sono passati praticamente due anni. Riceve pure un sussidio mensile, che però gli viene

tolto.

Il 21 settembre 1920 Marco indirizza una lettera, che riporto qui di seguito, al Comando del Deposito del

242° Regg. Fanteria di Benevento, presso cui era in forza come militare.

_______________________________________________________________________________________

«2099/ 21. 9. 20

Spett. Comando del Deposito 242 Regg. Fanteria - Benevento.

Il Sottoscritto Sold. Candido Marco, del 242 Fanteria, ascirtto al n. 21176 di matricola, riformato in seguito a

visita collegiale il 22 maggio 1918, ha ricevuto, sino a due mesi fa, regolarmente, il sussidio di £ 150 mensili.

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Adesso da due mesi a questa parte non riceve più nulla senza che, fino adesso, abbia avuto liquidata la

pensione che gli spetta essendo stato riformato per postumi di ferita di arma da fuoco al metacarpo destro

per causa di servizio.

Il sottoscritto, che da parecchi mesi è a letto affetto da pleurite, versa nella più grave miseria e confida nell’

interessamento di cotesto Spett. Comando perché gli venga corrisposto regolarmente quanto gli spetta.

Nell’attesa, ringrazia vivamente con anticipazione e porge i più distinti ossequi.

Con osservanza.

(Illeggibile)

Candido Marco di Giuseppe e di D’ Agaro Maria ( nome madre in piccolo. N.d.r.).

( Prov. di Udine) Rigolato

Cong. temp. anni 3

dal 4. 12. 19. »

_______________________________________________________________________________________

Il 21 settembre la risposta è già firmata:

« 21.9. 20

Dal Comando Deposito 40 Fanteria Ufficio Assegni. ( Timbro)

Al Signor Sindaco di

(Udine) Rigolato.

Si trasmette lettera del Soldato Candido Marco, con preghiera di comunicargli che non competono più

assegni di convalescenza perché sotto la data del 1 – 12 – 19 è stato posto in congedo temporaneo di anni

3.

Il Relatore Magg. ( Illeggibile) »

_______________________________________________________________________________________

Marco è stato riformato e pertanto non risulta più a carico dell’ Esercito Italiano, Marco è ferito ma lo Stato

può solo inviarlo a Bologna per la riabilitazione, Marco non può lavorare ed è povero, ma lo Stato ed il

Comune pare non possano far nulla per lui, come probabilmente per tanti altri.

Infine viene riconosciuto al povero soldato Marco, partito giovane ed in buona salute, e finito ferito ed

invalido, una polizza di assicurazione gratuita, riscossa dal padre, perché nel frattempo Marco, soldato, è

morto il 29 ottobre 1920. Restano una foto, le due lettere qui pubblicate, una pensioncina che ritira Zef di

Nano, Giuseppe Candido padre di Marco, che così contribuisce al mantenimento della famiglia da morto,

non avendolo potuto fare da vivo.

Con questa “inutile strage”, si sono guadagnate Trento, Trieste e si è ottenuta qualche altra concessione sul

piano espansionistico e degli italici confini, con giubilo dei nazionalisti più accesi; si sono perse 600.000 vite

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in guerra, e altre nel dopoguerra per cause belliche; la nazione è uscita dalla guerra stremata, la montagna

carnica senza più sbocco lavorativo e con una forte conflittualità interna, come si può evincere da questi

articoli di La Patria del Friuli.

E, nel dopoguerra, in Friuli, a denuncia seguì denuncia, in un clima sociale arroventato.

Rientrano, a guerra finita, i profughi e spesso trovano la casa razziata dagli austriaci ed il paese cambiato.

Vorrebbero riavere intatti i propri beni, non comprendono che chi è rimasto doveva sopravvivere alla

miseria ed agli austriaci resi poveri anche dal blocco navale inglese.

« Registriamo da parecchio tempo a questa parte un susseguirsi continuo s’arresti e denuncie di persone

rimaste nella provincia nei tristissimo anno dell’invasione nemica e di persone che hanno per lo più retto

le sorti dei singoli comuni – si legge su La Patria del Friuli in data 6 febbraio 1919 -.

Non vogliamo entrare in merito alla colpabilità o meno dei singoli accusati , ma non possiamo

nascondere la nostra meraviglia nel vedere questa ridda crescente di denuncie, questo seguirsi di

arresti, nel vedere dilagare questa campagna di accuse a carico di amministratori.

Noi siamo stati i primi a dire: se alcuno ha mancato sia punito. Ma di fronte ad un succedersi così folto di

nomi, e nomi di accusati, sorge il dubbio che non sempre le accuse abbiano solido fondamento, che anzi

possa accadere spesso che si raccolgano maldicenze dettate da vecchio rancore personale, quantunque

non debba in molti casi riuscir difficile approfondire l’origine della denuncia o della voce maligna. Noi

scriviamo e per intima convinzione nostra e perché da parecchi punti della provincia voci autorevoli

sono giunte a noi, le quali pongono in guardia contro la eventuale facilità nel credere ad ogni stormire di

fronda. E ci dispiace poi nel vedere, da parte delle popolazioni, quasi una certa voluttà nell’accusare,

denigrando così pure il nostro Friuli, che sembra essere divenuto, nell’anno dell’occupazione nemica, un

covo di disonesti e di malfattori.

Non dimentichiamo il triste imperio della forza e della brutalità che si imponevano a chi esercitava

cariche pubbliche e le punte delle baionette sul petto dei reggenti le amministrazioni (fatti che la

giustizia può trovare confermati quasi ovunque) e non dimentichiamo le numerose assemblee dei

sindaci che tentavano opporsi a tanta violenza per salvare le misere popolazioni.

E ricordiamo invece, che tante volte non c’era, tra due mali, che scegliere il meno peggio. Ricordiamo

che tra gli accusati vi sono persone che ressero per anni ed anni onoratamente le sorti dei loro comuni;

ricordiamo che dette persone hanno avuto fratelli e figli morti per la patria o decorati ripetutamente al

valore, o che hanno per quaranta mesi affrontati i disagi e i pericoli per la più grande Italia, per l’onore

del Friuli e della loro famiglia.

Ripetiamo ad alta voce: se alcuno si è reso reo, sconti la meritata punizione; ma siamo altrettanto

prudenti e calmi. – Lasciamo sereno il campo alla giustizia. – Si facciano ponderate le inchieste e poi si

agisca. Si vedranno allora ( noi lo speriamo anche per il buon nome del Friuli) si vedranno sfatare tante

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calunnie, tante velenose insinuazioni restituendo l’onore a tanti galantuomini ( e già numerose

assoluzioni stanno a provarlo) e si gioverà all’onore del nostro Friuli, a nessuno secondo nel grande

amore di Patria.»65

Ed ancora per quanto riguarda la Carnia:

« In ogni Comune in ogni frazione, coloro che furono a capo di amministrazioni durante l’anno della

feroce e corruttrice dominazione straniera, son fatti oggi bersaglio di critiche, di accuse. Questo avviene

sempre e avverrà infin che il sole risplenderà sulle sciaugure umane: ben lo sanno e ministri e Sindaci… e

tutti gli amministratori; senonchè, le critiche e le accuse contro gli amministratori che portano la corce

del potere durante lo strapotere dello straniero, si tramutano spesso in denuncie; le quali sono tali e

tante, oramai, che nessun Comune n’è privo e in taluni già parecchi sono gli accusati, ond’è legittimo

esprimere, più che il desiderio, la speranza che molte di quelle denuncie risultino infondate, nell’esame

che ne farà l’Autorità giudiziaria, perché diversamente troppi sarebbero i cittadini che mancarono al

loro dovere. E in questo senso abbiamo già pubblicato scritti altrui, mentre ne riceviamo si può dire ogni

giorno! … come ogni giorno ne riceviamo di quelli che ci portano la notizia di nuove denuncie.

Una corrispondenza da Tolmezzo ci reca oggi una serie di denunciati in vari comuni della Carnia.

Spigoliamo:

Suttrio. Straulino Carlo avrebbe informato il nemico sui luoghi ove stavano nascosti nostri soldati per

sottrarsi alla prigionia o si erano celati generi alimentari perché non cadessero preda dei requisitori. Egli

avrebbe poi anche detto una sua convinzione, che il valore dei nostri soldati fece riuscire fallace: vale a

dire, che l’Italia nostra non avrebbe più messo piede nei nostri paesi! Egli fu denunciato anche per

possesso mobili non suoi.

Ravascletto. Barbacetto Romano è accusato di favoreggiamento al nemico ch’egli avrebbe avrebbe

spinto sino alle minaccie di internamento e di fucilazione dirette a chi osava lamentarsi della rapacità e

barbarie austro- tedesca.

Durigon Giuseppe, dello stesso Comune, si sarebbe spinto ancora più in là, secondo la denuncia avrebbe

fatto arrestare e maltrattare taluni compaesani; tenuto in casa sua banchetti e balli col nemico; dato in

nota famiglie che tenevano nascoste armi italiane; indicato i luoghi dove c’erano depositi abbandonati

dai nostri nella ritirata dell’ ottobre 1917; e lanciato in pubblico il grido di “Viva l’Austria, beata l’ora del

suo arrivo!” … Se è vero sciaugurato lui!

Forni di Sopra. Candolini Giacomo: questo sarebbe stato non solo protetto ma anche pagato dai

gendarmi, con cui si trovò sempre in relazioni cordiali, intime. E forte di tale protezione, avrebbe

insultato in Municipio l’assessore anziano Cappellari Giacinto e minacciato d’internamento chi gli

moveva osservazioni e preghiere di smettere i suoi modi.

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Sauris. Domini Pietro, contro il quale, oltre l’accusa di favoreggiamento al nemico, vi è pure quella di

avere asportato da un nascondiglio oggetti veri di proprietà di certi Domini Andrea e Del Colle Martino, i

quali ne risentirono un danno di circa mezzo migliaio di lire: sottrazione da lui medesimo confessata…

Enemonzo. Morocutti Giorgio e Castellani Silvio avrebbero fornito ai gendarmi indicazioni dove stavano

nascosti soldati nostri, così che poterono essere poi catturati: fra questi si cita certo Pascoli Geremia.

Anche per detenzione mobili vi sono parecchie denuncie a Prato Carnico,Solari Giacomo e Gonano

Osvaldo; a Treppo Carnico, De Cillia Caterina; ad Enemonzo Facchin Albino e Pascoli Libera; a Rigolato Di

Qual Giuditta; a Preone Duratti Lucia; a Forni di Sopra Ferigo Marcellino. » 66

E così, amaramente, constatava un rimasto ad Ampezzo:

« Indipendentemente dalle denuncie di carattere politico – nazionale, cioè per il contegno tenuto

verso lo straniero che calpestava; abbiamo le denuncie per il triste fenomeno della detenzione, da

parte di tanti, di mobili e merci e bestiame di proprietà altrui, nonostante le ordinanze prefettizie e

del Comando Supremo, che impongono la restituzione. Se domandate ai profughi che rimpatriano,

essi vi diranno concordi esser stato per loro dolorosissimo il constatare la spogliazione subita da

parte dei rimasti, mentre erano rassegnati a nulla trovare del proprio - ma rassegnati in quanto la

spoliazione fosse avvenuta per parte del nemico e non già dei loro conterranei. Se domandate non

a tutti, ma a qualcuno dei rimasti…

Ecco quanto ci scrive da Ampezzo uno dei rimasti, non a giustificazione propria, ma dei fatti

verificatisi in ogni luogo delle Terre invase, del resto anche in Francia, anche nel Belgio:

“dopo aver sofferto durante l’invasione, l’incubo della fame, dello spionaggio, delle requisizioni e

delle perquisizioni austriache noi sognavamo che la liberazione ci avesse condotto qui degli uomini

provati nella sventura, che mostrassero un po’ di riconoscenza e rispetto a coloro che rimasero a

custodire i paesi che il nemico, trovandoli vuoti, avrebbe inesorabilmente incendiato. Invece è

cominciata subito la ridda delle denuncie, che spesso finiscono in una bolla di sapone, e gridano che

i rimasti sono tutti ladri, parole che a qualcuno si potranno forse adattare; ma che, alla maggioranza

conservatasi onesta, fanno male. Parliamo chiaro: la proprietà immobiliare e mobiliare dei cittadini

che avevano abbandonato il paese all’approssimarsi dell’ invasore, nonché una parte pure di quella

dei rimasti, è stata depredata e svaligata dai conterranei. Ma chi lo faceva pensava - e sia pure

erroneamente – che fosse meglio utilizzare egli medesimo quanto i nemici non avrebbero in nessun

caso risparmiato. Hanno fatto male in questo, credo che siamo tutti d’accordo; ma ciò non toglie

che la loro azione vada giudicata non senza dimenticare le straordinarie circostanze che la

determinarono e in mezzo alle quali si compiva, “circostanze attenuanti “ come direbbero in

linguaggio curiolesco, e talvolta addirittura discriminanti.

Un fatto particolare per me – continua colui che scrive – è quello delle vacche. Ora avvenne che un

ufficiale austriaco addetto alla requisizione, permetteva alla popolazione rimasta di cambiare le

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loro vacche con quelle più produttive requisite ai profughi od agli altri proprietari. Il cambio veniva

fatto generalmente, nell’atto della requisizione ed i sindaci e gli interpreti dei paesi consigliavano la

popolazione, prevedendo lo stato miserando al quale si andava incontro, di conservare le bestie più

produttive. Lo scopo era evidente: colui che la cambiava faceva non solo il proprio interesse ma

anche quello della collettività, potendo in tal caso distribuire del latte ai vecchi agli ammalati ed ai

fanciulli. Ora i profughi ritornano; e conosciuta la loro bestia se la riprendono con il favore della

legge. Così colui che ha contribuito in parte a prorogare la fame ai suoi compaesani resta senza. Vi

pare giusto? A me, lo confesso francamente, non pare; sembra anzi deplorabile che, dopo quattro

mesi dalla nostra liberazione, non si sia creata ancora nessuna disposizione che serva di guida per

regolare una così importante controversia fra i profughi ed i rimasti. (…). »67

La moneta veneta è carta straccia, il lavoro manca e non si può emigrare, il contesto sociale non è certo

migliorato. Si litiga per la mucca, lo Stato pare impotente a risolvere i mille problemi pratici sul tappeto, chi

si è fermato in Carnia ed in Friuli incontra l’ostracismo di chi ha abbandonato casa e paese.

Le rivendicazioni degli ex combattenti, degli operai, dei poveri si moltiplicano. E mentre si continua a

chiedere pane e lavoro, i padroni delle fabbriche incominciano ad avere paura e preparano, assieme ad

altre componenti sociali, la via al fascismo ed ad ulteriori guerre di conquista. E Gli Italiani? Ma quella è

altra storia.

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E chiudo con alcune parole di “O Gorizia tu sei maledetta”, da cui questo testo ha preso inizio, che

rispecchia il diverso modo di vedere la guerra.

«Voi chiamate campo d’onore /questa terra al di là dei confini /

qui si muore gridando assassini/maledetti sarete un dì.»

Questa immagine è tratta da: Laura Matelda Puppini, Vittorio Molinari, op. cit., p. 90.

1 Il titolo è ripreso dal volume: PLUVIANO Marco e GUERRINI Irene, Fucilate i fanti della “Catanzaro”. La fine della leggenda sulle decimazioni della grande guerra, Gaspari 2007, p.8. 2 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, dal 1861 al 1997, Laterza, ed. 2011, prima ed. 1997, p.154. 3 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit. più riferimenti da p. 146. 4 Per approfondimenti cfr. it.wikipedia.org/wiki/Somalia_Italiana e it.wikipedia.org/wiki/Colonia_eritrea.

Agostino Depretis o De Pretis, fu un politico nato a Mezzana Corti, ( Pavia) nel 1813, morto a Stradella nel 1887. Mazziniano in gioventù, fu ministro in diversi ministeri, riferimento per la Sinistra parlamentare, nonché più volte capo del Governo. Al suo nome è legata la prima fase della politica trasformistica che tendeva all’ annullamento delle distinzioni fra destra e sinistra, facendo guadagnare, di fatto, alla Destra la maggioranza parlamentare. Col suo governo s'iniziò anche l'espansione coloniale in Africa. ( Cfr. Agostino Depretis in: www.treccani.it › Enciclopedia e it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Depretis). 5 Francesco Crispi, fu un politico italiano nato a Ribera, Agrigento nel 1818 e morto a Napolinel 1901. Avvocato e patriota, ebbe un ruolo decisivo nel convincere Garibaldi a compiere la spedizione dei Mille. Proclamata l'Unità d'Italia, abbandonò le posizioni repubblicane, aderendo alla monarchia. Divenuto presidente del Consiglio (1887-91), fu fautore di una politica 'forte' all'interno e all'estero, sostenne la Triplice Alleanza (con Germania e Austria) in chiave antifrancese e promosse l'espansione coloniale. Tornò al governo nel 1893 e fronteggiò con durezza la protesta sociale (Fasci siciliani, moti in Lunigiana). Fu travolto dal naufragio delle ambizioni coloniali nella sconfitta di Adua nel 1896. (Francesco Crispi in: www.treccani.it › Enciclopedia). 6 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., p. 178. Il riferimento è all’opera di Turiello Pasquale, La virilità nazionale

e le colonie italiane, edito nel 1899. 7 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp. 219 – 220. 8 Ivi, p. 218.

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9 Ivi, p. 221. 10 Ivi, pp. 219- 225 e it.wikipedia.org/wiki/Guerra_di_Abissinia. 11 Ivi, pp. 322 – 323. 12 Ivi, 323. 13 Ivi, p. 314. 14 Ivi, p. 317. 15 Ivi, p. 322. 16 Giovanni Giolitti fu un politico italiano, nato a Mondovì nel 1842, morto a Cavour nel 1928. Segretario generale

della Corte dei Conti e poi Consigliere di stato, fu deputato, ministro del Tesoro e degli Interni, più volte presidente del Consiglio. Viene considerato uno tra i maggiori protagonisti della storia unitaria italiana, e viene ricordato anche per l’ impronta liberale alle linee di governo, specie rispetto ai conflitti dei lavoratori.(Giovanni Giolitti in: www.treccani.it › Enciclopedia. Cfr. anche: it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Giolitti). 17 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp. 326- 327. 18 Ivi, p. 328. 19 Così definiva la guerra papa Benedetto XV°. (MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., p. 365). 20 Papa Benedetto XV°, “Ad beatissimi apostolorum” ", lettera enciclica ai venerabili fratelli patriarchi primati

arcivescovi vescovi e agli altri ordinari locali che sono in pace e comunione con la sede apostolica, Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° novembre 1914, festa di Ognissanti, anno primo del Nostro Pontificato. (www.vatican.va/...xv/.../hf_ben-

xv_enc_01111914). 21 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp. 332, 337, 342, 362. 22 Luigi Cadorna generale italiano, figlio di Raffaele Cadorna, nacque a Pallanza nel 1850 e morì a Bordighera nel 1928. Svolti li studi militari, divenne, nel tempo dapprima colonnello dei bersaglieri, quindi Capo di Stato Maggiore dell’ Esercito Italiano dal luglio 1914. Egli, poco esperto nel comandare un esercito intero, impose, durante la prima guerra mondiale, una dura disciplina militare e fu destituito dopo la disfatta di Caporetto (nov. 1917). Senatore dal 1913, dopo la guerra fu collocato a riposo e nominato, nel 1924, maresciallo d'Italia. 23 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp..361, 356, 362. 24 Ivi, pp. 362 e 366. Luigi Cadorna non volle neppure che il principio del comando unico alleato venisse esteso all’Italia, preferendo, in sintesi, fare da solo. (Ivi, p. 362). L’argomento è stato ampiamente trattato in: PLUVIANO Marco e GUERRINI Irene, Fucilate i fanti, op. cit.. 25 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp. 363, 365, 366, 367. 26 Ivi, pp. 353, 365. 27 Sidney Costantino Sonnino, di padre ebraico e madre britannica, nacque a Pisa l’11 marzo 1847. Barone, essendo la

sua famiglia di origine nobile, fu Ministro del Tesoro del Regno d’Italia dal 1893 al 1896; Presidente del Consiglio dei ministri dall'8 febbraio al 29 maggio 1906 e dall'11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910; Ministro degli Esteri dal 1914 al 1919. Liberale conservatore, portò il bilancio della Stato italiano in pareggio e si interessò del Meridione d’Italia, ma trascinò l’Italia nella prima guerra mondiale e sostenne una politica espansionistica ed antislava.Morì a Roma il 24 novembre 1922. (it.wikipedia.org/wiki/Sidney_Sonnino e MACK SMITH Denis, op. cit.). 28 MACK SMITH Denis, Storia d’Italia, op. cit. p. 347. 29 Ivi, p. 347. 30 Ivi, p. 347. 31 PLUVIANO Marco e GUERRINI Irene, Fucilate i fanti, op. cit., p. 19. 32 Ivi, pp. 19- 20. 33 Ivi, p. 20. 34 Anche spedizione di primavera, o spedizione punitiva dell’esercito austriaco contro quello italiano, o offensiva degli

Altipiani contro l’Italia, che vide fronteggiarsi un milione di uomini. Le tre lingue principali della spedizione diramarono in direzione del Pasubio, dell'altipiano di Folgaria-Tonezza e dal Vezzena verso Asiago per puntare verso Thiene e Bassano. Dopo un mese di sanguinose battaglie, a metà giugno, la grande offensiva fu bloccata a pochi passi (nel vero senso del termine) dalla vittoria tra i fitti e meravigliosi boschi a sud di Asiago, già in vista della sottostante pianura che a questo punto non opponeva altre difese naturali. L'avanzata fu tamponata con l'arrivo in massa, spesso alla spicciolata e con mezzi di fortuna, di truppe e riserve provenienti dagli altri fronti e da tutte le regioni d'Italia. Vi parteciparono anche soldati Inglesi e Francesi. Alla fine di giugno il XX corpo d'armata italiano passa alla controffensiva

muovendo dai lembi più orientali dell'altipiano. (www.magicoveneto.it/storia/iggm/strafexpedition.htm). 35 PLUVIANO Marco e GUERRINI Irene, Fucilate i fanti, op. cit., p.24. 36

Ivi, p. 18. 37 Ivi. p. 18. 38 Ivi. p. 18. 39 Ivi, p. 17.

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40 Ivi, nota 18, p. 27. 41 Ivi, pp. 23- 24. 42 Ivi, pp24- 25. 43 Gabriele Di Annunzio, fuggito in Francia per non pagare i debiti accumulati in Italia, e quindi dai suoi creditori, si trovò solvente, e rientrò in Italia, dopo esser stato avvertito, confidenzialmente del trattato di Londra del 1914, molto prima che ne fossero informati i parlamentari. (MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., p. 354). Sostenne l’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria, anche con manifestazioni di piazza antigiolittiane, e le mire annessionistiche di Sonnino e Salandra, e, dopo la fine della guerra, occupò con 2600 militari dissidenti del R.E.I. Fiume. Osteggiato dal governo italiano, D'Annunzio tentò di resistere alle pressioni che gli giungevano dall'Italia. Nel frattempo, l'approvazione del Trattato di Rapallo, il 12 novembre 1920, trasformò Fiume in uno stato indipendente. D'Annunzio proclamò la Reggenza Italiana del Carnaro. Il 24 dicembre 1920 l'esercito italiano procedette con la forza allo sgombero dei legionari fiumani dalla città. 44 PLUVIANO Marco e GUERRINI Irene, Fucilate i fanti, op. cit., p.25. 45 Citazione da: DORIGO Ermes, Michele Gortani, Ed. Studio Tesi, 1993, pp. 33 – 34. 46 Da: Documenti giacenti in casa di Giuseppe Candido, in possesso del dott. Alido Candido, nipote. 47 Dal diario del caporale Enrico Conti – San Michele, settembre 1915, in: L. Fabi, Gente di trincea, Mursia

1994, p.237, in: Proposte per la scuola primaria, Guerra di trincea, Fonte n°22, La trincea come luogo di vita e di morte - Il rancio. Fame, sete e generi di conforto in trincea, in: Consorzio Culturale del Monfalconese www.grandeguerra.ccm.it 48 Dalle memorie di Augusto Gaddo , in: L. Fabi, Gente di trincea, Mursia 1994, p.238, in: Proposte, op. cit. . 49 Dal diario del soldato Giovanni Varricchio, in: L. Fabi, Gente di trincea, Mursia 1994, p.238, in: Proposte, op. cit. . 50 Dal diario del sergente Annibale Calderale, in: L. Fabi, Gente di trincea, Mursia 1994, p.240, in: Proposte, op. cit. . 51 Da: Trincea austroungarica (Fototeca CCM), in: Proposte, op. cit.. 52 “L’Assalto”, in: La Grande Guerra 1914- 1918 sul Carso e sul fronte dell’Isonzo, in: www.grandeguerra.ccm.it. 53 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., p. 368. 54 Ivi, p. 368. 55

Ivi, p. 369. 56 Ivi, p. 370. 57 Ivi, p. 370. 58 Thomas Woodrow Wilson, nato a Staunton nel 1856 fu un politico ed accademico statunitense. Presidente dell'Università di Princeton, divenne Governatore dello stato del New Jersey e quindi il 28° presidente degli Stati Uniti ed il secondo del partito democratico. Nel 1919 gli venne assegnato il Premio Nobel per la pace. Morì a Washington, il 3 febbraio 1924. 59 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit., pp. 370- 371. 60 Leonida Bissolati Cremona, 20 febbraio 1857 – Roma, 6 maggio 1920) fu prima uno dei maggiori rappresentanti e dirigenti del Partito Socialista, poi uno dei fondatori del Partito Socialista Riformista Italiano. Nato a Cremona nel 1857, adottato, studiò legge e divenne avvocato a Bologna, ove aderì al Paritot Socialista Italiano. Tra il 1889 e il 1895 organizzò le agitazioni contadine e le lotte sociali per ottenere migliori condizioni di vita nelle campagne. Nel 1889 fondò «L'eco del popolo», che successivamente divenne l'organo locale del Partito Socialista Italiano e pubblicò una parziale traduzione del Manifesto di Marx e Engels. Nel 1896 divenne direttore di Avanti!, organo ufficiale del Partito Socialista Italiano. Diede le dimissioni nel 1903 per poi accettarne nuovamente la direzione, tra il 1908 ed il 1910. Nel 1897 fu eletto al Parlamento italiano come deputato nel collegio di Cremona. Nel febbraio del 1912, la sua mancata opposizione alla Guerra italo-turca provocò le sue dimissioni da parlamentare. Cinque mesi più tardi fu espulso dal Partito Socialista Italiano. Bissolati non rinunciò tuttavia all'attività politica, concorrendo alla fondazione del Partito Socialista Riformista Italiano. Nel 1916 divenne ministro dell'Assistenza nei governi che si succedettero. Alla fine del conflitto concordò le linee di frontiera in accordo coi principi della Società delle Nazioni, ma i contrasti che ne derivarono lo spinsero a dimettersi dal governo il 28 dicembre 1918. Le clamorose dimissioni suscitarono dubbi e perplessità. La successiva conferenza, indetta da Bissolati alla Scala di Milano, per spiegare la propria posizione, si trasformò uno dei momenti di crescita dell'interventismo violento e antidemocratico, e sancì l’adesione di Mussolini allo stesso. Bissolati morì a Roma nel 1920. (it.wikipedia.org/wiki/Leonida_Bissolati). 61 MACK SMITH Denis, Storia d’ Italia, op. cit.,, pp. 372- 373. 62 Ivi, p. 373. 63

Ivi, pp. 374 – 375. 64 Ivi, pp. 377 – 378. 65 “Per l’onore del Friuli. (A proposito di arresti e denuncie)”, in: La Patria del Friuli, 6 febbraio 1919. 66 “Lunga serie di denuncie” ,in: La Patria del Friuli, 6 febbraio 1919. 67 “Le osservazioni di un rimasto a proposito di denuncie”, in: La Patria del Friuli, 15 marzo 1919.

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