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Il presente volume è pubblicato col contributodel Piano di Ricerca di Ateneo dell'Università di Siena,

Dipartimento di Diritto Pubblico.

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La guerra giustaFine di un’ideologia?

Ubaldo Staico

Prefazione diFrancesco Francioni

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Copyright © MMVIARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0513–0

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

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Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: aprile 2006

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A Maria Grazia e Tommaso

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Indice

Prefazionedi Francesco Francioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

IntroduzioneIl cammino ultramillenario di un’idea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15

PARTE I

1. Agostino e il bellum justum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231.1 L’origine agostiniana della dottrina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 1.2 Alle origini della teologia e della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . 301.3 Chiesa e potere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 351.4 Agostino e la guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41

2. Il Medioevo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 472.1 La nascita della filosofia politica cristiana . . . . . . . . . . . . . . . . 472.2 Filosofia e guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 532.3 La fuoriuscita dall’agostinismo politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

3. La Chiesa del Concilio Vaticano II . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 653.1 Chiesa cattolica e guerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 653.2 Il radicalismo conciliare della «Civiltà Cattolica» . . . . . . . . . . 713.3 Quale fine per la guerra giusta? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81

4. Il lascito di Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874.1 La “rivoluzione” agostiniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874.2 La giustizia come teologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93

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PARTE II

5. La “rimozione” del teologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 975.1 Lo jus publicum europaeum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1005.2 Schmitt e Kelsen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

6. Lo Stato in questione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1116.1 I volti dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1116.2 Lo Stato del diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1176.3 Freud, Kelsen, Schmitt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126

7. L’“ossessione” dello Stato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1357.1 Ancora Kelsen e Schmitt . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 7.2 Fine del bellum justum? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1417.3 La prospettiva internazionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 144

ConclusioneLa guerra giusta, oggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159

AppendiceLa crisi del Golfo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185

8 Indice

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Prefazione

Ci può essere giustizia nella guerra? O è la guerra un fenomeno che

trascende il concetto stesso di giustizia ponendosi sul terreno meta–giuridico dei “fatti” che precedono e producono il diritto? E se il con-cetto di giustizia è rapportabile alla guerra, quali sono i suoi principi costitutivi e ci può mai essere una guerra giusta per ambedue i conten-denti? Come sappiamo, il tentativo di dare una risposta a queste do-mande attraversa un arco di tempo che va dagli albori del Cri-stianesimo fino ai giorni nostri. Una prima risposta, di natura squisita-mente teologica, la troviamo nella celebre formulazione di sant’A-gostino della dottrina del bellum justum. Tale dottrina, fondata sulla derivazione divina del potere e quindi della legittimazione divina dell’uso della forza, si articola su una serie di principi e criteri di qua-lificazione della guerra come giusta che rimarranno immutati per seco-li. Basti pensare al principio di necessità, all’esigenza di reprimere una grave ingiustizia (ulcisci iniuriam), o di punire responsabili di effera-tezze o di recuperare con la forza territori o beni arbitrariamente sot-tratti. La guerra dev’essere comunque e sempre finalizzata a procurare la pace e la concordia (tranquillitas ordinis). La costruzione agosti-niana, in gran parte ispirata alla preoccupazione di contrastare le spin-te scissionistiche che minavano l’unità della comunità dei cristiani e dello stesso impero romano ormai al tramonto, avrà un successo stra-ordinario nelle epoche successive. Nel Medioevo essa viene assunta e rielaborata nell’opera san Tommaso d’Aquino e, con la riscoperta di Aristotele, essa accompagna il processo di secolarizzazione del pen-siero politico–filosofico che troverà il suo terreno fertile nell’U-manesimo e il suo punto di approdo nella trasformazione del concetto di potere di governo da potestas Dei a complesso di virtù temporali, strumentali al conseguimento del bene comune teorizzate con rigore scientifico e supremo pathos politico nel Principe di Machiavelli.

Nonostante le profonde trasformazioni prodotte nella società inter-nazionale dalle grandi scoperte geografiche, dalla Riforma protestante e dal successivo emergere del concetto di sovranità, la matrice origi-naria della dottrina agostiniana del bellum justum continua a dispiega-re i suoi effetti per tutto il periodo che va dall’inizio dell’epoca mo-derna fino al secolo XIX. Come è stato autorevolmente messo in evi-

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denza di recente1, i Padri della dottrina moderna del diritto internazio-nale, da Francisco De Vitoria, ad Alberico Gentili, a Grozio, recepi-scono sostanzialmente l’impostazione teologica della dottrina agosti-niana del bellum justum apportandovi correttivi e integrazioni soprat-tutto di carattere sistematico e terminologico senza alterarne l’impian-to originario. Lo stesso si può dire degli autori che nei secoli successi-vi si rifanno alla cosiddetta scuola del diritto naturale, primi fra tutti Pufendorf2, Wolff3 e De Vattel4.

Occorre attendere il secolo XIX e con esso il tramonto del giusna-turalismo e la definitiva separazione del diritto dalla morale e dalla te-ologia per assistere all’emergere della dottrina positivista del diritto che sfocerà, per quanto concerne il diritto internazionale nelle teorie del diritto come “volontà” e poi nella sofisticata architettura kelsenia-na del diritto come sistema normativo “depurato” dalle contamina-zioni con la politica, l’etica, la religione. È in questo contesto che la distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta perde significato. La guerra fa parte inevitabile della storia e della vita di relazione fra gli stati. Siccome gli stati né possono vietare la guerra, né possono in mo-do definitivo rinunciare al potere di ricorrervi, l’unico rimedio agli ec-cessi e alle ingiustizie che essa provoca è quello di disciplinare la con-dotta delle ostilità sviluppando le norme dello jus in bello. È da questa elementare considerazione che nasce il corpus di diritto bellico nella seconda metà dell’Ottocento e il suo successivo sviluppo nel diritto umanitario dei conflitti armati nel corso del Novecento.

Per uno di quei corsi e ricorsi della storia, di vichiana memoria, è nel secolo XX che si assiste a un ritorno del concetto di guerra giusta nel contesto più generale della messa al bando dell’uso della forza nel-le relazioni internazionali. Con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite il concetto di giustizia della guerra nel sistema delle Nazioni Unite è strettamente legato a quello di “legalità” del ricorso alla forza militare. La Carta esordisce con il famoso incipit «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della

guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità» e riafferma «la fede nei diritti fonda-

1 B. CONFORTI, The Doctrine of Just War and Contemporary International Law,

XII Italian Yearbook of International Law (2002), Leiden, 2003, pp. 6 s. 2 De Jure Naturae et Gentium, Lund, 1672. 3 Jus gentium metodo scientifica pertractatum, 1764. 4 Le droit des gens ou principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux

affaires des nations et des souveraines, Leyde–Londres, 1758.

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mentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana». La Carta si fonda quindi sulla condanna inequivocabile della guerra e sul-la volontà, per riprendere l’espressione di Agostino, di ricostituire una nuova tranquillitas ordinis, e con essa la stessa base della civiltà uma-na irrimediabilmente distrutta dall’esperienza mostruosa della Shoha. In questo disegno il confine tra guerra giusta e guerra ingiusta è netto: la guerra, anzi qualsiasi ricorso alla forza armata, è illecito (art. 2 [4]), a meno che non sia autorizzato dagli organi delle Nazioni Unite nell’assolvimento del loro compito di mantenere la pace e la sicurezza internazionale (Consiglio di Sicurezza) o non costituisca esercizio del diritto innato di legittima difesa individuale o collettiva nel caso di at-tacco armato (art. 51) e fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie al mantenimento della pace.

Nei sessant’anni che sono trascorsi dall’adozione della Carta delle Nazioni Unite il principio fondamentale del divieto dell’uso della for-za armata nelle relazioni internazionali è passato da principio di natura pattizia, valido per i soli membri delle Nazioni Unite, a principio car-dine dell’intero ordinamento internazionale, com’è stato riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia nel caso Nicaragua c. Usa del 1986. È vero che durante la guerra fredda e dopo si sono avuti molti casi di ricorso alla forza armata in assenza di qualsivoglia autorizza-zione del Consiglio di Sicurezza. Basti ricordare le invasioni “frater-ne” dei carri armati dell’Unione Sovietica in Ungheria nel 1956, a Pra-ga nel 1968 e in Afghanistan nel 1979, nonché i numerosi interventi militari degli Stati Uniti nella zona d’influenza latino americana, cosi come le numerose azioni militari condotte in modo unilaterale da sin-goli stati, quale l’invasione israeliana del Libano negli anni Ottanta, l’occupazione cinese del Tibet e l’intervento militare indiano in East Pakistan che portò alla costituzione dello stato autonomo del Bangla-desh. Tuttavia questi e numerosi altri casi di apparente violazione del principio del divieto dell’uso della forza non sembrano averne indebo-lita la forza normativa e, potremmo quasi dire, la sacralità. Innanzitut-to gli stati hanno sempre cercato di trovare una giustificazione al loro uso non autorizzato della forza: vuoi la legittima difesa, vuoi il con-senso o l’esplicita richiesta dell’avente diritto, vuoi un patto regionale di mutua assistenza. Al tempo stesso, si è spesso insistito sull’impossi-bilità di funzionamento del meccanismo di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite a causa del ben noto problema del veto di uno del membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, problema che aveva portato durante la guerra fredda a una quasi totale paralisi dei mecca-

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nismi di controllo delle crisi internazionali. Si può dire quindi che l’impianto “costituzionale” dato dalle Nazioni Unite all’uso della forza militare ha retto per tutto il periodo della guerra fredda e, paradossal-mente, l’equilibrio di potenza di matrice westfaliana, lo ha in certo mo-do garantito limitando i casi di uso della forza “illegale” e mantenendo-li per lo più nell’ambito delle sfere d’influenza delle super–potenze.

La situazione è cambiata con la fine della guerra fredda. Agli inizi degli anni Novanta si assiste a un rinnovato attivismo del Consiglio di Sicurezza che, da un lato, culmina nell’autorizzazione all’uso della for-za militare per far fronte all’aggressione irachena del Kuwait — san-cendo quindi il ruolo delle Nazioni Unite quale arbitro della legalità del-la guerra — e dall’altro lato, si risolve in una ritrovata vitalità del Con-siglio di Sicurezza nell’inedita veste di “legislatore” internazionale che adotta misure (Risoluzioni) tendenti a disciplinare situazioni legate alla guerra del Golfo: sanzioni economiche, protezione delle popolazioni curde all’interno del paese, riparazione dei danni materiali e non mate-riali di cui l’Iraq si è reso responsabile per aver scatenato il conflitto, e altro. Dopo quasi cinquant’anni di coma profondo, indotto dai veti delle superpotenze, sembrava finalmente che l’organismo generato nel 1945 si stesse risvegliando per assumere i connotati e la funzione di autorità garante della pace e della sicurezza internazionale prefigurata da Kant due secoli prima nel celebre saggio Zum ewigen Frieden.

Oggi, a oltre quindici anni di distanza da quel radicale mutamento di prospettiva, può dirsi che il progetto di costituzione in seno alle Na-zioni unite di un’autorità politica e morale capace di decidere sulla giustizia della guerra sia veramente venuto a compimento? La risposta non può che essere negativa. Da un lato è la stessa struttura del Consi-glio di Sicurezza, con i cinque membri permanenti che riflettono l’or-dine mondiale di sessanta anni fa a non offrire più la garanzia di una perfetta corrispondenza con la volontà politica e la coscienza colletti-va della comunità internazionale contemporanea. Dall’altro, è il rie-mergere delle divisioni all’interno dello stesso Consiglio di Sicurezza, a mettere in crisi il modello multilaterale della gestione internazionale dell’uso della forza e a determinare le spinte centrifughe verso una de-terminazione della liceità della guerra su base unilaterale. È cosi che si è arrivati alla fine degli anni Novanta a porre in termini espliciti, senza veli e senza ipocrisie, il problema se sia lecita una guerra non autoriz-zata dal Consiglio di Sicurezza allorché il funzionamento di questo organo sia impedito dal veto o dalla minaccia di veto di uno o più membri permanenti e il ricorso alla forza appaia urgente e indispensa-

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bile per porre fine a un’emergenza umanitaria. Posti di fronte all’e-mergenza Kosovo, e memori delle atrocità commesse nel conflitto balcanico, dai massacri di civili a Sarajevo all’eccidio di Srbrenica, i Paesi Nato non esitarono a dare una soluzione positiva a questo pro-blema: rifiutando di accettare che il test ultimo della liceità delle guer-ra possa dipendere esclusivamente dal sistema autorizzativo del Con-siglio di Sicurezza e della Carta delle Nazioni Unite, decisero che la campagna di massicci bombardamenti aerei era necessaria e giu-stificata dall’esigenza imperativa di far cessare le gravi violazioni dei diritti umani commesse dalle forze militari e paramilitari serbe nei confronti della popolazione del Kosovo. Questo caso di intervento mi-litare umanitario rappresenta il primo strappo consapevole e pro-grammato di una guerra auto–proclamatasi “giusta” ma scatenata in violazione delle regole formali sancite dalla Carta delle nazioni Unite.

È quindi alle soglie del terzo millennio che si ripropone quell’idea millenaria di guerra giusta costruita su fondamenta teologiche tra il quarto e il quinto secolo d.C. da sant’Agostino e sviluppata successi-vamente dalla dottrina dei Padri della Chiesa e dalla scuola del diritto naturale fino alle soglie dell’epoca contemporanea. Ma questa dottrina si ripropone in un contesto storico caratterizzato dalla pretesa di una sola superpotenza di sostituirsi al meccanismo multilaterale delle Na-zioni Unite e di determinare in via unilaterale quali possano essere le cause di giustificazione del ricorso alla forza armata. Non che questo sia scandaloso in sé per sé. Chi scrive non ha una fiducia illimitata nel carattere democratico delle Nazioni Unite e nella piena legittimità dei suoi processi decisionali, che costituiscono quasi sempre frutto di compromessi diplomatici piuttosto che di una ricerca onesta e traspa-rente della giustizia e dell’interesse generale dell’umanità. Quello che è scandaloso è l’aver mancato negli anni successivi alla guerra fredda la grande occasione di una progressiva riforma del regime internazio-nale della forza armata, che tenesse conto della necessità di preveder-ne e regolarne l’uso a livello internazionale come estrema ratio nei casi in cui né le Nazioni Unite, né i meccanismi di autodifesa, siano in grado di fermare il massacro di innocenti in qualche parte del mondo. Invece, si è utilizzato la retorica della guerra giusta per dare una giustificazione, poi apparsa tragicamente mendace, all’invasione dell’Iraq. Al tempo stesso si è atteso che l’oppressione indonesiana della piccola comunità di East Timor spegnesse migliaia di vite umane per intervenire tardiva-mente — e con il consenso dello stato responsabile dell’illegale occu-pazione! — con una forza internazionale che garantisse l’auto–deter-

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minazione di quel popolo. E ora, davanti al protrarsi della tragedia u-manitaria del Darfur, assistiamo a una comunità internazionale incerta o del tutto assente, quando un intervento militare mirato a istituire no–fly–

zones potrebbe contribuire a dissuadere il governo del Sudan dal persi-stere in una politica di sostegno a un vero e proprio genocidio.

È sullo sfondo di questo complesso processo di trasformazione del-l’ordine giuridico internazionale che è utile leggere questo saggio di Ubaldo Staico sulla storia dell’idea del bellum justum. Si tratta di un’opera di straordinaria attualità, di profonda erudizione e di grande ricchezza culturale davanti alla quale le parole di un internazionalista che si occupa di diritto positivo sono del tutto inadeguate.

È lecito chiedersi, perché allora scrivere questa prefazione? Le ri-sposte possono essere due. La prima è che in un momento come questo in cui, nell’arco di poco più di mezzo secolo, siamo passati dall’idea che la guerra fosse sempre lecita, all’idea che invece sia sempre proibita, salvo che non rientri nelle eccezioni previste dalla Carta delle Nazioni Unite, per ritornare alla soglia del XXI secolo a un recupero problema-tico del concetto di guerra giusta anche al di fuori del sistema delle Na-zioni Unite, la ricostruzione del “cammino ultramillenario” dell’idea di guerra giusta, che viene prodotta in questo volume, può offrire al giuri-sta una straordinaria ricchezza di spunti e di criteri ispiratori per una te-oria della giustizia nell’uso della forza da applicare al mondo contempo-raneo e ai possibili sviluppi del diritto internazionale che superino l’attuale sclerosi normativa e istituzionale delle Nazioni Unite.

La seconda risposta attiene alla sfera personale. Chi scrive ha condi-viso con l’autore di questo saggio le vicissitudini di un’ultratrentennale carriera accademica nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena. In tutti questi anni il dialogo e lo scambio intellettuale è stato fre-quente e fruttuoso, e fondato sulla percezione condivisa che sia il filo-sofo della politica che l’internazionalista hanno in comune l’interesse per il passato: il primo per individuare i fatti e le idee che nel bene o nel male hanno determinato la storia; il secondo per ricavarne, attraverso il paziente lavoro di analisi della prassi, le regole e i principi che reggono la vita di relazione internazionale. Anche questo saggio, costituisce un dialogo ideale fra il filosofo e il giurista. Questa prefazione vuole essere ulteriore e affettuosa testimonianza di questa comunanza di interessi.

Francesco Francioni

Istituto Universitario Europeo Fiesole, 21 marzo 2006

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Introduzione

Il cammino ultramillenario di un’idea

Si potrebbe dire, senza peccare d’enfasi, che la categoria di “guerra

giusta” — bellum justum — è stata una delle più straordinarie inven-zioni della scienza politica in occidente.

Con essa, l’occidente (cristiano, come diremo subito) è riuscito, per un tempo che si estende dalla fine dell’impero romano sino a età mo-derna avanzata (un tempo la cui lunghezza mette a dura prova innanzi-tutto gli storici), a rendere “pensabile” — riconducibile a un qualche ambito della razionalità umana — un fenomeno come la guerra, che è tra le esperienze umane quella forse più lontana da qualunque acce-zione dell’umano e dell’umanità1 La pensabilità della guerra deposita-ta nell’espressione bellum justum, più che indicare il raggiungimento di una perfetta razionalità riposa, a ben guardare, su un artificio retori-co. L’attribuzione di un qualche carattere di umanità alla guerra è il ri-sultato congiunto dell’attrazione verso l’alto, per così dire, operata da un termine venerando come justitia («Deus sive aequitas» arriveranno a dire i canonisti medievali, adoperando un termine che, se non sino-nimo, è quanto meno strettamente imparentato con justitia) e dalla spinta gravitazionale verso il basso veicolata dal termine guerra. A metà strada, dunque, un po’ come tra cielo e inferi, c’è la terra degli uomini, nella quale anche la guerra finisce per acquisire come un pro-prio diritto di cittadinanza, che ne decreta la pensabilità.

La fortuna di un simile artificio retorico sarà immensa. Il suo suc-cesso, più che a una dottrina, fa pensare a una marcia trionfale che percorrerà l’occidente cristiano per ben oltre un millennio, almeno dal V al XVI secolo, subendo una profonda trasformazione tra XVII e il

1 Come è noto K. von Klausewitz sosteneva, al contrario, la natura profondamente

umana della guerra, situandosi d’altra parte sul terreno della tradizione eraclitea, che vedeva la guerra “madre e regina di tutte le cose”. Il cristianesimo primitivo riteneva, a sua volta, che non fosse lecito andare in guerra, perché la guerra contrastava radi-calmente col precetto, fondamentale per il cristianesimo, dell’amore universale. Tutto ciò obbliga a concludere che qualunque affermazione definitoria della guerra non può valere altro che come statuizione, sulla quale si può argomentare in termini di coeren-za e non, invece, in termini di verità.

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16 Introduzione

XVIII secolo e forse una vera eclissi nell’Ottocento, per poi riapparire alla luce del sole — catalizzata in primo luogo dalle due guerre mon-diali — nel Novecento, per giungere sino a noi con quella vera e pro-pria ripresa di fiamma che dura oramai da oltre un ventennio.

Essendo la guerra un fenomeno eminentemente sociale (gli indivi-dui non si fanno la guerra se non metaforicamente, persino in quello stato di natura in cui Hobbes vede realizzarsi il bellum omnium contra

omnes, la guerra di tutti contro tutti), che si verifica, vale a dire, tra comunità, società e stati, la sua pensabilità è dunque una pensabilità sociale. In occidente, il linguaggio col quale — sin dalle origini gre-che — è stata pensata la società è il diritto. La dottrina della guerra giusta, nonostante la sua origine teologica che imprimerà su di essa il suo marchio indelebile, rivestirà per lunghissimi periodi della sua sto-ria le vesti di dottrina giuridica.

Agostino (354–430), infatti, viene ritenuto comunemente l’inizia-tore della dottrina della guerra giusta nell’occidente cristiano. Egli d’altra parte raccoglie una lunghissima eredità, che proviene dal pen-siero greco e soprattutto, per lui retore romano, dall’esperienza filoso-fica e giuridica di Roma2.

Il contrario della guerra, ossia la pace, è detta da Agostino tran-

quillitas ordinis, “tranquillità dell’ordine”. E la pace è, parimenti, la finalità a cui tende la guerra.

Per il vescovo di Ippona, l’ordine è innanzitutto interiore, ma anche e subito dopo, esteriore. L’ordine esteriore è un sistema di regole, vale a dire, nell’occidente romano, il diritto (romano). La pace è, allora, l’ordine del diritto e la guerra una temporanea violazione di quell’or-dine. La dottrina della guerra giusta individua perciò quel sistema di regole attraverso le quali risulta giuridicamente pensabile, ossia legit-timo, violare l’ordine della pace.

La più che millenaria tradizione della dottrina del bellum justum in fondo non ha fatto altro che riflettere e volta per volta innovare — e

2 La sterminata bibliografia su Agostino riserva pochi titoli a questo specifico te-

ma. Sono da citare: Y. DE LA BRIÈRE, La conception de la Paix et de la Guerre chez

Saint Augustin, in «Revue de philosophie», nouv. sér., 1, 1930, pp. 557–572; R.S. HARTIGAN, Saint Augustine on War and Killing: the Problem of the Innocent, in «Journal of the History of Ideas», 27, 1966, pp. 195–204; R.A. MARKUS, Saint Augu-

stin’s Views on the “Just War”, in «Studies in Church History», 20, 1983, pp. 1–13. Sulla chiesa dei primi tempi in generale si vedano: R.H. BAINTON, The Early Church

and War, in «Harvard Theological Review», 39, 1946, pp. 189–212; S. WINDASS, Christianity versus Violence, London 1964.

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non mediocremente — su quel sistema di regole in linea di principio atte a governare al meglio sia l’iniziativa della guerra sia la sua esecu-zione, nel tentativo e forse la speranza di limitarne al massimo la di-sumanità.

La distinzione — venuta in verità in epoca tardiva — tra lo jus ad

bellum (diritto di muovere guerra) e lo jus in bello (le regole da rispet-tare durante la guerra in atto) ha rappresentato un passo in quella dire-zione.

Molti simili passi furono compiuti da quando Agostino gettò le fondamenta teologiche della giustificazione della guerra, fino al mo-mento in cui la dottrina della guerra giusta abbandonò le sue origini teologiche per approdare, all’inizio dell’epoca moderna, nel campo del diritto (un inizio incerto con Vitoria e, naturalmente, Grozio).

Bisogna pur dire che la massima parte di un tale cammino appar-tiene all’epoca medievale3. E fu un cammino di uno straordinario e ricco significato dottrinale, anche se resta vero che nel Medioevo la dottrina del bellum justum, in tutte le sue molteplici e persino sofi-sticate elaborazioni, non si avventurò mai fuori dal binario tracciato dal vescovo di Ippona. Gli autori medievali non osarono immaginare altro linguaggio e altra semantica che non fossero quelli coniati all’origine dalla matrice agostiniana. Per quanto il Medioevo abbia concesso all’auctoritas uno spazio mai da essa goduto in antecedenza, si stenterebbe a trovare un caso analogo di pressoché totale appiatti-mento dottrinale.

3 Una qualche attenzione è stata dedicata dalla medievistica al pensiero sulla guer-

ra e, soprattutto, al bellum justum. Vanno citati A. VANDERPOL, La Doctrine Scolasti-

que du Droit de Guerre, Paris, Pédone, 1919; R. REGOUT, La Doctrine de la Guerre

Juste de Saint Augustin à nos jours d’après les théologiens et les canonistes catholi-

ques, Paris, Pédone, 1935; M.A. KEEN, The Laws of War in the Late Middle Ages, Routledge and Kegan Paul, 1965: F. STRATMAN, The Church and War. A Catholic

Study, New York, 1971; F.H. RUSSEL, The Just War in the Middle Ages, Cambridge 1975; M. WALZER, Just and Unjust Wars, Basic Books, 1977; J. BARNES, The Just

War, in N. Kretzmann, A. Kenny, J. Pinborg, E. Stump (eds), The Cambridge History

of Later Medieval Philosophy, Cambridge, 1982, pp. 771–784; J.R.E. BLIESE, The

Just War as Concept and Motive in the Central Middle Ages, in «Medievalia et Hu-manistica», n.s., 17, 1987, pp. 1–26. In particolare su Graziano si veda G. HUBRECHT, La “Juste Guerre” dans le Décret de Gratien, in «Studia Gratiana», 3, 1955, pp. 161–177. Come al solito Tommaso d’Aquino è stato fatto oggetto di particolare attenzione; sono da vedere L. PELLAND, Saint Thomas d’Aquin et la guerre, in Essays et bilans (Journées thomistes), Ottawa, 1935, pp. 136–174; J.D. TOOKE, The Just War in Aqui-

nas and Grotius, London, 1965.

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18 Introduzione

La formalizzazione più rigorosa e — se è lecito usare l’aggettivo — agguerrita della dottrina del bellum justum nella sua fase matura è dunque opera di teologi e canonisti. Entrambi forniscono, innanzitutto, in diversa forma e misura, i primi materiali della costruzione.

Uno di questi materiali è la teoria delle condizioni della guerra giu-sta. Essa subirà una lenta e progressiva elaborazione. Le sei condizioni dettate da un teologo come Alessandro di Hales (1185ca.–1245) (auc-

toritas, affectus, intentio, conditio, meritum, causa), diventeranno (o cambiando nome o cambiando i contenuti di un nome conservato) più parcamente tre in un teologo come Tommaso d’Aquino (1225–1274). Attraverso variazioni analoghe le quattro condizioni di un canonista come Rufino, vescovo di Assisi (+1190c) diventano cinque in un ca-nonista come l’autore del Liber Extra di Gregorio IX, Raimondo di Penafort (1180ca.–1275), nel grande commentatore Baldo degli Ubal-di (1320ca.–1400), nel giurista bolognese (che sfuggirà alle ire pon-tificie rifugiandosi, al pari di Marsilio da Padova, presso Lodovico il Bavaro) Giovanni da Legnano (1320c.–1382/3). Non meno che tra i teologi, anche tra i giuristi si assiste non solo a una notevole ricerca di precisione linguistica ma anche, e soprattutto, a una cosciente volontà di definire con esattezza teorica sempre maggiore i problemi.

Il progresso nella dottrina finirà per significare nondimeno il supe-ramento dei suoi confini.

Un esempio quanto mai eloquente è quello relativo all’intentio (in-tenzione); altri diranno animus (animo), altri ancora affectus (sentimen-to). Agostino aveva sottolineato con forza che tra i motivi che avrebbero potuto far approdare l’iniziativa della guerra sul terreno della giustizia c’era l’intenzione buona che doveva presiedere ad essa: intenzione pa-cifica, non mossa da bramosia, non da crudeltà, ecc. Sulla scia di Ago-stino, i Dottori medievali avevano commentato, arricchito, variato.

Ma ci vorrà il realismo (e il cinismo?…) di un Grozio per operare il taglio chirurgico radicale. È vero — egli suggerisce — la mancanza di un’intenzione buona potrà risultare sicuramente peccaminosa; ma se la causa (altro elemento decisivo del gergo teorico della dottrina) esiste, al-lora «la guerra non potrà essere resa, propriamente parlando, ingiusta». L’esistenza del peccato nell’animo di chi intraprende l’azione di guerra, vale a dire, non infirma la giustizia della guerra stessa: è sufficiente l’esistenza di un “fine buono” perché la guerra possa dirsi giusta.

L’evoluzione della dottrina nel basso Medioevo conduce anche ad avvertire la coscienza del divario che si frappone tra pensiero sulla guerra — il pensiero sulla giustizia della guerra — e la sua realtà ef-

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fettiva. Se, da una parte, si arriva a riconoscere che la guerra difensiva è sempre giusta, quasi per definizione, dall’altra parte troviamo la con-statazione, all’apparenza sconsolata, di Giovanni da Legnano, secondo il quale da tutte le parti si fa la guerra e basta (di là da tutte le questio-ni di legittimazione). Sul versante opposto, ma analogamente, il tenta-tivo di idealizzare le condizioni della guerra giusta va così lontano, che qualcuno proporrà di vedere l’infinita tragedia della guerra dei Cent’anni non come una terribile sequenza di guerre, ma come “tur-pissime sedizioni” indegne della repubblica cristiana.

Si dovrà a un grande scienziato, Francesco Bacone (1561–1626) la tesi forse più originale a cui la dottrina darà luogo, che è, comunque, la tesi che segnerà il massimo punto della sua evoluzione: quella, vale a dire, che annovera tra i casi possibili di bellum justum la guerra pre-ventiva. Per il filosofo inglese, infatti, non è dubbio che la guerra pos-sa ritenersi giusta anche se motivata unicamente da ciò che viene rite-nuto un pericolo imminente.

La tesi di Bacone, è vero, è praticamente isolata. Francisco Suarez (1548–1617), infatti, non solo sostiene che unica e sola causa di guer-ra giusta è il torto ricevuto (iniuria accepta), ma anche che tale è l’opinione unanime della dottrina (la quale, di fatto, risale sino a Fran-cisco De Vitoria, 1483/86–1546). Tuttavia, per quanto lo stesso Ugo Grozio (1583–1645) esplicitamente sottoscriva la tesi suareziana, per un altro verso il filosofo e giurista olandese introduce una sottilissima distinzione tra iniuria facta e iniuria non facta (la quale, pur non es-sendo stata effettuata, nondimeno rimane pur sempre iniuria) che ap-pare essere un vero e proprio cavallo di Troia mediante il quale la tesi baconiana rientra nella cittadella del bellum justum.

La dottrina ha evitato di sottoscrivere una tesi che, in linea teorica, avrebbe anche potuto abbracciare, quella di giustificare la guerra in vi-sta di un “bene maggiore”: il caso, vale a dire, di una guerra i cui ri-sultati potessero ritenersi migliori, o almeno non peggiori, della pace precedente la guerra. La tradizione della dottrina del bellum justum ha sempre tenuta ferma la necessità di una giusta causa (meritum) della guerra, sottraendo l’oggettività del concetto di meritum alla soggettivi-tà dell’idea di un possibile e sperato bene futuro. A dire il vero con un’eccezione, quella di Tommaso d’Aquino giovane (il quale nell’o-pera matura tace su una simile eventualità)4.

4 S. THOMAE AQUINATIS, Scriptum super Sententiis Magistri Petri Lombardi, III,

dist. 30, a. 2, ad 8 (erroneamente Barnes, The Just War, cit., p. 782, indica l’art. 4).

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Infine, la dottrina del bellum justum ha trovato davanti a sé, nella sua storia plurisecolare, due limiti che non ha voluto o potuto supera-re, vale a dire sia la giustificazione dell’annientamento del nemico che quella della resa incondizionata: mai il concetto di guerra giusta si e-stenderà, a partire dall’epoca tardo romana, ad accogliere sotto il pro-prio ampio manto legittimante questi due aspetti possibili della guerra. Non è forse molto, ma è possibile che ciò impedisca un bilancio to-talmente fallimentare di quella più che millenaria rincorsa del diritto verso la giustizia, che la dottrina del bellum justum ha rappresentato in occidente.

Abbia cercato si tratteggiare quello che potrebbe vedersi, in qual-che modo, come il lessico e forse anche la grammatica della dottrina della “guerra giusta”, lungo il suo cammino quindici volte secolare.

L’attuale forte ripresa del bellum justum, favorita soprattutto, a quanto è dato osservare, dall’esplodere di guerre che hanno coinvolto direttamente l’Europa, in un caso persino nel suo territorio (prima e seconda guerra del Golfo, Kosovo, Afghanistan), dopo oltre cin-quant’anni di assenza della guerra dallo scenario europeo (senza che ciò abbia significato, non è superfluo ricordarlo, il silenzio delle armi, come — solo per citare due avvenimenti di prima grandezza politica — Budapest 1956 e Praga 1968 stanno a dimostrare) ha non solo pro-curato il riproporsi di fronti opposti nel giudicare la “giustizia” della guerra, ma ha anche indotto in qualche caso a misurarsi con l’idea stessa di una “giustizia” della guerra.

Tuttavia diciamo subito che, per quanto un intenso dibattito abbia af-frontato, con interventi non di rado eccellenti, numerosi aspetti filoso-fici, giuridici, storici, politici — e altri ancora — del problema, esso ha, al contrario, lasciato in ombra la radice, l’origine e la natura dell’antica dottrina del bellum justum, che sono essenzialmente teologiche.

A noi sembra che un tale profilo del problema vada radicalmente — per l’appunto — affrontato.

Ovviamente non si intende qui rendere omaggio al revival del reli-gioso di cui abbiamo testimonianze non sempre esaltanti ai giorni no-stri. Si ritiene invece — e in direzione del tutto opposta — che la com-prensione delle origini è del tutto essenziale e imprescindibile per si-tuare il problema della “guerra giusta” sul suo vero terreno, non solo dal punto di vista storico ma anche, soprattutto, dal punto di vista filosofico.

Chi scrive intende sottolineare l’importanza della ricerca delle ori-gini qui prospettata. Da un punto di vista filosofico, egli può ricorrere

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a un’ascendenza teorica di tutto rispetto. Si tratta di uno dei capisaldi del metodo filosofico, di cui Aristotele parla nel I Libro della Politica (l’ultimo da lui scritto, degli otto Libri di cui è composta l’opera). Egli dice: «Se si studiassero le cose svolgersi dall’origine, anche qui [nell’indagine sulla polis] come altrove se ne avrebbe una visione quanto mai chiara»5.

Accanto all’indagine “genetica” della “guerra giusta”, c’è la secon-da finalità che il presente saggio si propone, ossia quella di mettere in luce una rimozione, nel buon senso psicoanalitico del termine.

Si intende cioè mostrare, innanzitutto, come l’obliterazione del-l’origine e del significato teologici dell’idea di “guerra giusta”, che si verifica in età moderna, amputa in fondo — in forza di una sorta di decisionismo storiografico — la reale portata storica dell’idea. In se-condo luogo come — se ci è permesso esprimerci così — la rimozione di questa rimozione consenta anche una lettura filosoficamente ade-guata della lunga storia del bellum justum in età moderna.

Le due parti di cui il libro si compone affrontano nell’ordine i temi ora accennati.

Attraverso il duplice approccio ora accennato, l’autore di questo li-bro si augura di portare un contributo alla convinzione, che ha fatto tanta strada non solo nelle idee e nella cultura, ma soprattutto nelle co-scienze di milioni e milioni di donne e di uomini, che lo sforzo — che pure ha avuto una storia più che millenaria — di coniugare la guerra con la giustizia è destinato, oggi, definitivamente a fallire.

5 ARISTOTELE, Politica. Costituzione degli Ateniesi, I, 2 (1252 a 28), a cura di R.

Laurenzi, Bari, Laterza, 1972, p. 25.