La Guerra Dell'Acqua

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Il 22 marzo 2006, per volontà delle Nazioni Unite, si è celebrata in tutto il mondo la «Giornata Mondiale dell'Acqua», in chiusura del quarto World Water Forum, svoltosi a Città del Messico. Per l'occasione, è stato presentato il secondo rapporto sullo sviluppo mondiale delle risorse idriche dal titolo “Acqua: una responsabilità comune”. “Circa 11 milioni e mezzo di persone distribuite tra Kenya, Tanzania, Uganda, Etiopia, Somalia, Eritrea e Burundi stanno pagando le conseguenze della disastrosa stagione delle piogge primaverile e autunnale del 2005, tra le più aride degli ultimi 15 anni ”, ha sottolineato la ong Amref. Il World Water Forum, per una settimana ha riunito quasi diecimila persone e i rappresentanti di 130 diversi Paesi per parlare di «azioni locali e sfide globali» intorno a quella che è stato definito «il problema dell'oro blu». Nella capitale latino- americana sono giunti uomini di Stato, tecnici e scienziati, esponenti di organizzazioni non governative, rappresentati di popolazioni locali. Notevole la posta in gioco: verificare i risultati di una strategia che da dieci anni tenta di risolvere il problema dell'acqua e proporne, eventualmente, un'altra. Qual’è «il problema dell'oro blu» e quale è la ormai decennale strategia che ha cercato di risolverlo? Quasi due miliardi di persone non hanno accesso regolare e sufficiente (almeno 20 litri al giorno) all'acqua potabile; 3,25 miliardi di persone non hanno servizi igienici in casa. Quasi 1,5 milioni di persone muoiono ogni anno nel mondo per queste carenze. Senza contare il cambiamento del clima, la desertificazione, l'erosione delle coste, l'innalzamento del livello dei mari, l'aumento degli eventi meteorologici estremi, il fatto che il 20% delle specie viventi rischia di scomparire a causa dell'inquinamento delle acque. Il problema principale è la sete. Di acqua potabile disponibile al mondo ce ne sarebbe in quantità sufficiente per tutti, ma è mal distribuita - c'è tantissima in Islanda e pochissima nel deserto

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E così, l'acqua potabile disponibile ha cambiato statuto. Da diritto universale dell'uomo, è stato declassato prima a bisogno e poi a mera merce. E il controllo delle acque potabili disponibili in molti paesi è stato assunto da aziende private. Troppi Paesi, soprattutto tra quelli in via di sviluppo, sono stati costretti a fare propria la strategia dell'«acqua uguale merce» e a privatizzare la gestione dell'«oro blu»...

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Il 22 marzo 2006, per volontà delle Nazioni Unite, si è celebrata in tutto il mondo la «Giornata Mondiale dell'Acqua», in chiusura del quarto World Water Forum, svoltosi a Città del Messico. Per l'occasione, è stato presentato il secondo rapporto sullo sviluppo mondiale delle risorse idriche dal titolo “Acqua: una responsabilità comune”. “Circa 11 milioni e mezzo di persone distribuite tra Kenya, Tanzania, Uganda, Etiopia, Somalia, Eritrea e Burundi stanno pagando le conseguenze della disastrosa stagione delle piogge primaverile e autunnale del 2005, tra le più aride degli ultimi 15 anni”, ha sottolineato la ong Amref.

Il World Water Forum, per una settimana ha riunito quasi diecimila persone e i rappresentanti di 130 diversi Paesi per parlare di «azioni locali e sfide globali» intorno a quella che è stato definito «il problema dell'oro blu». Nella capitale latino-americana sono giunti uomini di Stato, tecnici e scienziati, esponenti di organizzazioni non governative, rappresentati di popolazioni locali. Notevole la posta in gioco: verificare i risultati di una strategia che da dieci anni tenta di risolvere il problema dell'acqua e proporne, eventualmente, un'altra.

Qual’è «il problema dell'oro blu» e quale è la ormai decennale strategia che ha cercato di risolverlo? Quasi due miliardi di persone non hanno accesso regolare e sufficiente (almeno 20 litri al giorno) all'acqua potabile; 3,25 miliardi di persone non hanno servizi igienici in casa. Quasi 1,5 milioni di persone muoiono ogni anno nel mondo per queste carenze. Senza contare il cambiamento del clima, la desertificazione, l'erosione delle coste, l'innalzamento del livello dei mari, l'aumento degli eventi meteorologici estremi, il fatto che il 20% delle specie viventi rischia di scomparire a causa dell'inquinamento delle acque.

Il problema principale è la sete. Di acqua potabile disponibile al mondo ce ne sarebbe in quantità sufficiente per tutti, ma è mal distribuita - c'è tantissima in Islanda e pochissima nel deserto del Sahara - soprattutto dagli uomini: viene consumata tantissima in agricoltura e troppo spesso stenta a raggiungere le città e i villaggi, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Complici, la mancanza di infrastrutture o l'arroganza delle infrastrutture (dalle grandi dighe alla sottovalutazione delle culture locali).

Occorre destinare una parte degli aiuti allo sviluppo in opere idrauliche e, più in generale, alla gestione del problema acqua nei Paesi più poveri e più aridi, si diceva. Circa una decina di anni fa si constatò però che gran parte di questi fondi non venivano spesi per risolvere i problemi idrici, ma finivano nelle tasche di governanti corrotti. Allora si modificò la strategia: «trades not aids», “commerci non aiuti”, è stato il grido di battaglia di un nuovo pensiero, quello neo-liberista, espresso dal Presidente degli Stati Uniti e diventato egemone in tutto il mondo. Da qui, la nuova strategia, supportata dalle grandi organizzazioni finanziarie internazionali: privatizzare. Conferire all'acqua un valore

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economico e metterla sul mercato. Solo così - sostengono i neo-liberisti - si possono drenare le risorse necessarie per risolvere il problema del liquido non a caso definito «oro blu».

E così, l'acqua potabile disponibile ha cambiato statuto. Da diritto universale dell'uomo, è stato declassato prima a bisogno e poi a mera merce. E il controllo delle acque potabili disponibili in molti paesi è stato assunto da aziende private. Troppi Paesi, soprattutto tra quelli in via di sviluppo, sono stati costretti a fare propria la strategia dell'«acqua uguale merce» e a privatizzare la gestione dell'«oro blu». Tutto questo ha suscitato enormi tensioni sociali e creato molti problemi economici.

In breve, come ha dichiarato un esperto della Nazioni Unite, David Boys, al New York Times: «Queste aziende hanno perso tonnellate di quattrini e tonnellate di rispetto». È stato, insomma, un fallimento: in questi ultimi due o tre lustri, il numero di persone che non hanno accesso all'acqua potabile, con tutti gli effetti drammatici, e a volte tragici, che ne conseguono, è aumentato. Mentre, nel contempo, l'acqua è diventata un ulteriore fattore di ingiustizia sociale in un mondo che non è mai stato così ricco e non è mai stato così disuguale.

Al World Water Forum di Città del Messico, gli organizzatori (il privato World Water Council) hanno rilanciato il “globalismo”, parlando di sfida globale da cogliere mediante azioni locali: superare il rapporto tra stati (e tra aziende e stati) per creare rapporti tra comunità locali (e tra aziende e comunità locali). Ma bisogna sempre considerare che le comunità locali sono molto più deboli dei governi nella trattativa con le aziende (soprattutto con le grandi aziende). A Città del Messico, dunque, il vero nodo, quello dell'acqua ridotta a merce, non è stato sciolto. Alejandro Encinas Rodriguez, sindaco della città ospite, ha detto: «Senza un forte controllo pubblico, la privatizzazione dei sistemi di distribuzione dell'acqua non potrà mai assicurare un equo e sufficiente accesso di tutti all'acqua».

L'acqua dovrebbe essere considerata un diritto universale. Non può essere privatizzata. Non può essere mercificata. Dovrebbe rimanere pubblica. Ma ormai è diventata un grosso business. Non importa che 11 milioni di persone già oggi rischiano di morire a causa della siccità in Africa orientale.

Gli affari sono affari.

Water Wars: The Mexico City World Water Forum Begins 17-03-2006

The World Water Forum: A Dispute Over Life 23-03-2006

México 2006 4th World Water Forum

World Water Council

(Pubblicato su Ecplanet 11-04-2006)

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L'ACQUA, LE MULTINAZIONALI E LE NANOTECNOLOGIE

Del totale di acqua del pianeta, solo il 2,8 % è acqua dolce. La maggioranza si trova ai poli e nei ghiacciai. Resta solo lo 0,02% di acqua superficiale e lo 0,37 % di falde sotterranee, a cui si accede mediante le tecnologie di estrazione.

Il problema dell'acqua dolce non è tanto la sua insufficienza rispetto la popolazione mondiale, così come la fame nel mondo non è dovuta all'insufficienza di alimenti, quanto piuttosto ad un accesso e una distribuzione ingiuste, alla contaminazione delle risorse e agli enormi sprechi. Il 70% dell'acqua dolce disponibile globalmente è utilizzato nel settore agricolo, mentre un altro 15% è utilizzato dalle industrie responsabili della maggiore e peggiore contaminazione.

Di fronte alla sempre più pressante crisi globale dell'acqua (accesso, distribuzione, degradazione, spreco), che colpisce soprattutto i paesi più poveri, quale soluzione propone il governo globale, che si rispecchia in entità transnazionali come la Banca Mondiale? La privatizzazione. La maggioranza delle fonti e dei distributori dell'acqua in tutto il mondo sono pubbliche, ma già obbligate a concessioni per l'estrazione, la raffinazione, l'imbottigliamento, la distribuzione, verso privati. In Messico, ad esempio, le principali multinazionali dell'acqua (Suez, Vivendi, RWE) sono già ben radicate sul territorio e detengono proprietà completamente fuori dal controllo pubblico. Così come avviene in altri importanti settori, come l'energia, l'agricoltura e la salute, al controllo del mercato si somma il controllo dei brevetti e delle tecnologie chiave. La Vivendi e la Suez possiedono il 70% del mercato mondiale dell'acqua che è controllato complessivamente da 10 multinazionali. La maggioranza sono imprese multiple adibite all''estrazione, alla costruzione di reti di distribuzione e a tutti gli altri aspetti connessi, come le già nominate Suez, RWE e Bechtel, fino ad arrivare alla Nestlè, la Coca-cola, la Pepsi, la Danone, l'Unilever (dati gentilmente forniti da Tony Clarke e Maude Barlow in "Oro Blu", ndr).

La nano-ingegneria (manipolazione della materia a livello atomico-molecolare) è emersa prepotentemente in questi ultimi anni come una tecnologia innovativa in aspetti chiave come la raffinazione e la desalinizzazione dell'acqua. Mark Modzelewski, direttore della Lux Research, analista dell’industria nanotecnologica, ha informato il 22 marzo 2005 che le principali falde acquifere soffrono di un processo di salinizzazione crescente, dovuto all'agricoltura, mentre la domanda di acqua dolce è destinata a crescere del 70% nei prossimi 25 anni. Di fronte alla salinizzazione e ai problemi di contaminazione industriale, Modzelewski vede la nanotecnología come unico modo per offrire vie di uscita a tutti questi problemi simultaneamente.

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Soluzioni che sono già in via di sperimentazione. Ad esempio, la KX, industria del Connecticut, ha sviluppato dei filtri basati su membrane nanotecnologiche antivirali e antibatteriche. Il principio base è che i pori delle membrane sono tanto minuscoli che possono filtrare anche gli organismi più piccoli. La Argonide di Standford produce nanofibre in alluminio la cui carica positiva attrae i microbi caricati negativamente. Altre soluzioni includono materiali fotocatalitici che utilizzano i raggi ultravioletti per distruggere i solventi industriali e i germi patogeni. Zvi Yaniv, presidente dell'Applied Nanotechnology di Austin, Texas, afferma che si possono creare nuovi materiali con polimeri che si autoassemblano in membrane. La sua compagnia è al lavoro insieme con un partner giapponese per produrre colonne nanometriche di ossido di titanio che funzionano come potenti fotocatalizzatori. Un'altra tecnologia in via di sviluppo dalla sua azienda si basa su nanosensori costituiti da nanotubi di carbonio ricoperti di enzimi che reagiscono di fronte alla presenza di contaminanti.

Modzelewski afferma che sia la Vivendi che la Suez, come la General Electric, il maggior produttore di apparecchiature idrauliche, stanno utilizzando nanotecnologie e acquisendo brevetti su di esse. In breve tempo, queste megaimprese si compreranno tutte le più piccole e arriveranno a controllare non solo il mercato ma anche le licenze delle tecnologie chiave.

Oltre al controllo megacorporativo, congiunti con la nanotecnologia vi sono poi anche nuovi rischi ambientali e per la salute, cosi come questioni di bioetica (in relazione alla creazione di organismi ibridi geneticamente modificati). Anche se esistono ancora pochi studi al riguardo, alcuni scienziati sostengono che l'ossido di titanio usato nei nanotubi di carbonio possa avere effetti nocivi sulla salute e sull'ambiente, figuriamoci se verrà usato nelle reti di distribuzione che portano l'acqua a milioni di persone.

Dal canto suo, l'industria si sforza, irresponsabilmente, di presentare queste innovazioni come assolutamente positive, di giustificare socialmente l'uso di queste nuove tecnologie, che porteranno solo benefici all'umanità (non alle loro tasche, ndr).

Water, Water Everywhere Nano 18-03-2005

(Pubblicato su Ecplanet 08-07-2005 Fonte ETC Group 10-04-2005)

La privatizzazione dell'approvvigionamento idrico cominciò in Inghilterra nel 1989 sotto il governo di Margaret Thatcher. Nei dieci anni successivi, le nuove compagnie idriche hanno ricavato profitti per oltre dieci miliardi di sterline. Oggi, due colossi, la Veolia e la Suez, controllano l'80% del mercato idrico internazionale, contando circa trecento milioni di clienti.

Nazione dopo nazione, si levano proteste che sono destinate ad aumentare: in Bolivia, Argentina, Ghana, Sudafrica. Mentre i colossi dell'acqua si stanno spostando verso nuove aree di mercato in Cina, Nord America ed Europa (Italia inclusa). Le persone che non hanno accesso all'approvvigionamento di acqua pulita rimangono, tuttavia, ancora più di un miliardo nel mondo.

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Secondo i dati dell'ONU, nel 2025 circa 5 su 7,9 miliardi di abitanti della terra non disporranno di acqua sufficientemente pulita. Nell'ultima edizione del “Rapporto sullo Sviluppo Mondiale dell'Acqua”, pubblicato in occasione del Quarto Forum Mondiale sull'Acqua (Città del Messico, marzo 2006), l'ONU ha illustrato, ancora una volta, una situazione a dir poco drammatica: più di un miliardo di persone non hanno ancora accesso all’acqua potabile pulita e più di due miliardi e mezzo di persone non dispongono di alcuna infrastruttura sanitaria. Di conseguenza, ogni anno muoiono circa 1,6 milioni di persone. Metà dei flussi d'acqua sono fortemente contaminati da sostanze inquinanti, che ripetutamente e rapidamente distruggono l'ecosistema d'acqua dolce.

In una dichiarazione comune, un numero considerevole di ONG provenienti da diversi continenti (tra cui Pane per

Tutti, FIAN e Fondazione Heinrich Boell dalla Germania e Alliance Sud dalla Svizzera) si è impegnato a chiedere ai propri governi di battersi in seno al nuovo Consiglio ONU per i diritti umani in favore del “diritto all'acqua” e a occuparsi con un relatore speciale ad esaminare le lacune. A medio termine queste ONG, associate alla rete Friends of the Right to Water, rivendicano una convenzione internazionale sull’acqua nel quadro dell'ONU, per proteggere obbligatoriamente l'acqua come bene pubblico.

Water: a crisis of governance says second UN World Water Development Report 09-03-2006

Right to Water

“Il Business dell'Acqua Compagnie e Multinazionali contro la Gente”, di Sjolander Holland Ann-Christin (Jaca Book, 2006), traccia nel dettaglio la storia che si cela dietro a questi fatti e a queste cifre. L'autrice ha viaggiato per l'America Latina, l'Africa e l'Europa per intervistare i poveri, gli esperti, i dirigenti delle compagnie.

La domanda di fondo è: le decisioni sull'approvvigionamento idrico e sull'accesso all'acqua devono essere prese dai cittadini o dalle compagnie private e dalle multinazionali? L'acqua è un diritto dell'uomo o soltanto un bene commerciabile al pari di altri? (l'edizione italiana è stata appositamente aggiornata dall'autrice, con particolare riferimento alla situazione italiana, avvalendosi anche della collaborazione di Emanuele Lobina, della Public Services International Research Unit dell'Università di Greenwich, Londra).

“Far soldi sulla sete - la domanda globale di acqua potabile attrae imprese grandi e piccole” è il titolo di un articolo di prima pagina della sezione economica del New York Times del 10 agosto 2006. “Quello dell'acqua è un settore in cui la crescita appare ora illimitata”, commentano dalla Goldman Sachs, banca impegnata nella privatizzazione dell'acqua in Spagna, Cina e Cile.

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Negli Stati Uniti, gli esperti stimano che il 15-20% dei sistemi idrici che gestiscono acqua potabile e acque reflue sono di proprietà o affidati ad operatori privati. Secondo un analista, il mercato dell'acqua negli USA “avrà un valore di 150 miliardi di dollari nel 2010”.

Siccità occasionali, infrastrutture cadenti e gli standard imposti dall'autorità ecologica EPA alimentano il rialzo dei prezzi. I big dell'industria dell'acqua sono la Energy Financial Services della General Electric, Siemens, Danaher e ITT. Fanno “acquisti frenetici”, provocando il “consolidamento” di un settore in cui attualmente nessuna impresa ha più del 5% del mercato.

L'articolo sorvola sui progetti di Suez, Veolia e RWW-Thames, anch'esse impegnate nel settore (forse perché fanno capo all'ambiente sinarchista di Rohatyn). “La dissalazione richiede sempre troppi investimenti e troppa energia”; per questo motivo la Siemens, insieme alla israeliana Mekerot, preferisce dedicarsi “al riutilizzo della poca acqua disponibile”. Un'impresa del South Carolina invece pianifica di far soldi caricando di acqua le petroliere nel viaggio di ritorno in Medio Oriente.

There's Money In Thirst; Global Demand for Clean Water Attracts Companies Big and Small 10-08-2006

Nel paese più povero e forse più coraggioso del Sud America, un altro consorzio multinazionale per la privatizzazione dell'acqua ha chiuso i battenti. Le organizzazioni di quartiere della città boliviana di El Alto hanno indetto uno sciopero generale a tempo indeterminato, esigendo che Aguas del Illimani - una società operata dal gigante francese Suez - restituisse immediatamente il sistema idrico cittadino al controllo pubblico. I cittadini hanno marciato in massa sulla capitale per festeggiare la loro vittoria e avanzare richieste analoghe per le forniture di elettricità e gas.

Il portavoce di Suez, Luan Greenwood, ha detto: “Aguas de Illimani non è stato formalmente informato che il contratto per la fornitura dell'acqua è stato revocato”. Ma secondo i notiziari boliviani il governo ha emanato la “Risoluzione suprema 27973” che cancella il contratto con Aguas di Illimani per i servizi idrici e fognari nelle città gemelle di El Alto e La Paz, la capitale del paese, alla luce dell'immensa e ineludibile pressione popolare. Greenwood ha replicato che: “gli azionisti faranno ricorso a tutti gli strumenti legali a loro disposizione per tutelare i propri diritti. Non sarà facile per il governo boliviano terminare senza contrasti un contratto che è stato pienamente rispettato” (il 55% delle azioni di Aguas del Illimani è nelle mani di Suez, l'8% in quelle della Banca Mondiale, e il resto in quelle di investitori sudamericani).

Gli eventi di El Alto e La Paz seguono la “Guerra dell'Acqua”, una pietra miliare nelle lotte dei movimenti sociali, scoppiata nel 2000 nella terza città più grande della Bolivia: Cochabamba. Dopo cinque mesi di drammatiche rivolte popolari, gli abitanti di Cochabamba hanno riottenuto il controllo del loro sistema idrico, precedentemente nelle mani del gigante statunitense Bechtel e dei suoi partner.

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Il 19 settembre 2006, un accordo legale è stato raggiunto tra il Governo della Bolivia (poi sotto la presidenza di Evo Morales) e il consorzio Aguas del Tunari: “La concessione è stata revocata solo a causa della mobilitazione civile e dello stato di emergenza a Cochabamba e non a causa di alcuna azione fatta o non fatta dagli azionisti internazionali di Aguas del Tunari".

A El Alto (800 mila abitanti), dove la povertà è dilagante, la gente è insoddisfatta per la mancanza di servizio in alcune zone periferiche, e per i costi elevati. Un nuovo allacciamento alla rete idrica può costare fino a 445 dollari americani (secondo i dati delle Nazioni Unite, il 34% degli 8,6 milioni di boliviani vivono con meno di 2 dollari al giorno, e il salario minimo è di circa 66 dollari al mese). Suez dice di aver ottemperato, superandoli, tutti i suoi obblighi contrattuali (che escludono certe aree della città), di aver sempre prestato molta attenzione alle richieste della popolazione di El Alto (soprattutto quella non raggiunta dal servizio) e di essersi sempre preoccupata di venir incontro ai bisogni dei clienti che vivono sotto la soglia di povertà. Greenwood fa notare inoltre che i prezzi e i parametri contrattuali non sono fissati dalla Suez, ma dal governo.

Come a Cochabamba, la chiave fondamentale per la gente non è tanto l'impresa idrica, quanto un sistema (la globalizzazione, ndr) in cui le decisioni fondamentali per la vita delle persone sono prese da governi che sembrano rispondere più alle pressioni del sistema finanziario internazionale che ai loro cittadini. Oscar Olivera, dirigente dell'organizzazione che era in prima linea nella battaglia di Cochabamba, dice che non è semplicemente una questione di privato contro pubblico, ma piuttosto di stabilire un controllo locale e partecipato delle risorse. “La gente vuole partecipare alla gestione di tutto quanto influenzi la propria vita quotidiana”, dice Olivera, “la gente vuole costruire un nuovo modello”.

Jim Shultz, che ha contribuito a far conoscere al mondo la Guerra dell'Acqua di Cochabamba, sottolinea un fattore chiave che accomuna entrambe le battaglie: la gente non ha mai avuto voce in capitolo nella privatizzazione, che è stata loro imposta da un governo sottoposto a pressioni internazionali. La Banca Mondiale, nel suo zelo privatizzatore, ha fatto pressioni al governo boliviano perché offrisse in concessione ai privati i servizi idrici di Cochabamba ed El Alto/La Paz.

Nonostante si cerchi di negare l'esistenza di tali pressioni, una relazione scritta nel 2002 dall'Operations Evalutation Department (Sezione per la Valutazione delle Operazioni, ndr) della Banca Mondiale afferma che: “Il presidente boliviano ha deciso di privatizzare i servizi idrici e fognari di La Paz e Cochabamba, ottemperando ad una delle condizioni imposte dalla Banca Mondiale per prorogare i termini del credito fino al 1997”. La Banca Mondiale ha fornito quasi un quarto dei 68 milioni di dollari necessari per i primi cinque anni del progetto.

Era il 10 aprile del 2000 e per la prima volta in Bolivia e nel mondo un movimento popolare riusciva a sconfiggere un consorzio di multinazionali occidentali che aveva privatizzato

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l'acqua nella città di Cochabamba, triplicando le tariffe, escludendo il 50% della popolazione dall'accesso al servizio idrico, diventando proprietario di un bene comune per oltre 40 anni come previsto dal contratto e addirittura proibendo la raccolta dell'acqua piovana. In quattro mesi di mobilitazioni, con morti e feriti, il popolo di Cochabamba è riuscito a cacciare il consorzio di multinazionali Aguas del Tunari e a riappropriarsi dell'azienda municipale.

Ma il consorzio, fiscalmente registrato in Olanda, non si è arreso e ha chiesto 25 milioni di dollari come risarcimento per i «mancati profitti» al tribunale interno della Banca mondiale, il Ciadi, destinato a risolvere le controversie scaturite dallo scioglimento di contratti in cui vi sia la Bm di mezzo oppure dove vi siano accordi bilaterali tra paesi. Tra Olanda e Bolivia è in piedi un accordo bilaterale che tende pericolosamente dal lato dell'impresa, così come la Bm aveva vincolato un prestito al governo boliviano alla sua volontà di privatizzare il settore idrico...

Le campagne e le mobilitazioni hanno fatto luce su alcuni dei meccanismi perversi della finanza internazionale. Si è scoperto che se paghi la bolletta della luce e del gas a Milano all'AEM (l'Azienda Energetica Milanese), in realtà stai sostenendo l'impresa che ha chiesto il mancato profitto ai cittadini di Cochabamba. Incredibile ma vero. Il consorzio Aguas del Tunari è per il 55% controllato da un'impresa che si chiama IWL (International Water Limited), per il 25% dalla spagnola Abengoa e per il 20% da privati. La IWL appartiene per un 50% alla statunitense Bechtel (legata a Dick Cheney) e per l'altro 50% all'italiana Edison. E qui viene il bello: da ottobre l'Edison è della TDE, mentre la TDE appartiene per il 50% alla francese WGRM e per il restante 50% all'italiana AEM e cioè l'Azienda Energetica di Milano, che per il 43.26% appartiene al Comune. Da quando sono state privatizzate, le municipalizzate anche in Italia pensano a fare operazioni di compravendita dei pacchetti azionari di altre imprese, acquisendo il controllo di aziende che producono disastri in giro per il mondo come nel caso della Bolivia.

Dopo le campagne e le mobilitazioni popolari, la Bechtel, l'Edison-AEM e la Abengoa si sono arrese ed hanno deciso di ritirare la domanda di indennizzo di 25 milioni di dollari. Temendo ripercussioni d'immagine, il consorzio dei privatizzatori ha deciso di vendere al governo boliviano le proprie azioni per la modica cifra di due bolivianos e cioè circa 20 centesimi di euro. La proposta è arrivata dai quartieri generali delle multinazionali che chiedevano di trovare un «arreglo amistoso», una soluzione amichevole alla vicenda. Un pre-accordo è stato firmato il 22 dicembre dello scorso anno con la promulgazione del Decreto supremo 28539 firmato dal presidente uscente Eduardo Rodriguez. La norma dice testualmente che “ogni impresa riceverà un boliviano per tutte le sue azioni” e che si riterrà concluso l'arbitraggio per l'indennizzo. Una vittoria enorme non solo per la popolazione boliviana, che si apprestava a salutare l'inaugurazione del primo presidente indio della Bolivia, Evo Morales, ma servirà forse anche a ripensare agli effetti perversi della privatizzazione delle aziende municipalizzate in Italia e al grottesco gioco degli arbitraggi internazionali tipo Ciadi, in cui la Banca mondiale è parte in causa e insieme parte giudicante...

Nel 2006, il MAS ha vinto le elezioni e Evo Morales è diventato Presidente della Repubblica. "L’acqua non può essere un business privato, non può essere trasformata in merce, perché ciò costituisce una violazione dei diritti umani. L’acqua è una risorsa e deve essere un servizio pubblico”, ha enfatizzato il neo eletto Presidente.

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Morales ha così creato il Ministero dell’Acqua nominando come primo Ministro dell’Acqua del paese il leader delle proteste di El Alto contro Aguas de Illimani. Inoltre ha nominato Luis Sánchez-Gómez Cuquerella, ex attivista nella lotta contro la privatizzazione a Cochabamba, come Vice-Ministro dei Servizi di Base.

Il Governo di Evo Morales vorrebbe anche far passare una nuova legge per regolare i nuovi servizi chiamata “Water for Life” (“Agua para la Vida”).Secondo il Vice-Ministro Rene Orellana, questa nuova regolamentazione consentirà di eliminare il SISAB (Superintendencia de Saneamiento Básico) e di introdurre una decentralizzazione. Saranno eliminate anche le tasse insieme al concetto legale di concessione in modo da rafforzare i diritti comunitari all’acqua.

Bolivia's Water War Victory thirdworldtraveler autunno 2000

BOLIVIA: Cochabamba's 'Water War', Six Years On ipsnews 08 novembre 2006

Acqua: vince Cochabamba, perdono la Bechtel e la Edison l’Internazionale 14 gennaio 2006

I boliviani vincono la seconda guerra dell'acqua Znet 16 gennaio 2005

Morales creates water ministry, appoints minister 25 gennaio 2006

Bath student helps water regulators in Ghana learn from Bolivian experience 17-19 novembre 2008

2000 Cochabamba protests - Wikipedia

Water supply and sanitation in Bolivia - Wikipedia

La mercificazione dell'acqua segue molte strade. Una è la concessione a privati dello sfruttamento di sorgenti, pozzi, acquedotti e canali.

In Messico, le riforme per aprire questo tipo di mercato trovano qualche resistenza perché la Costituzione stabilisce che la gestione dell'acqua è riservata allo stato. Ciò significa che, almeno in teoria, questa non è una merce come le altre e che può essere oggetto di concessioni solo per un tempo limitato.

Le difficoltà legali si aggirano grazie a una parola magica: “decentralizzazione”. Magica e ingannevole giacché nei fatti “decentralizzare” ha voluto dire consegnare i sistemi idraulici ai governi locali con l'unico obiettivo di aprire il passo alle privatizzazioni.

L'altra via della mercificazione è quella del consumo d'acqua in bottiglia, che dappertutto è una truffa colossale, visto che da nessuna parte gli imbottigliatori usano acqua di fonte, ma pongono il proprio sigillo all'acqua della rete pubblica.

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Il Messico è sempre stato un gran consumatore di bibite a base di cola e ora è il secondo consumatore pro capite d'acqua imbottigliata, preceduto solamente dall'Italia. La Coca Cola - uno dei cui ex dirigenti, Vicente Fox, è Presidente della Repubblica - possiede qui una rete di 17 imprese d'imbottigliamento, seguita dalla Pepsi con solo 6. Il risultato è che un litro d'acqua in bottiglia costa adesso come un litro di benzina.

In pochi anni, l'effetto combinato di questi fattori ha dato luogo ad un notevole aumento delle tariffe che adesso cominciano ad approssimarsi al prezzo di “mercato”, proprio come esigono i dogmi della teoria economica neoclassica. Le ultime barriere sono cadute quando, il 29 aprile 2004, il Parlamento ha approvato una riforma della Legge delle Acque Nazionali che favorisce le concessioni alle imprese private a danno degli organismi municipali rinunciando ai principi fondamentali della giustizia sociale.

La nuova legge stabilisce, infatti, che le imprese che costruiscono le dighe avranno anche il diritto a vendere i servizi d'irrigazione ed elettricità. Al tempo stesso, gli utenti sprovvisti di contatore potranno essere sanzionati con multe fino a 225.000 pesos, che, nel caso di campesinos le cui entrate raramente superano i 50 pesos al giorno, rappresentano cifre enormi.

Non è tutto. A pochi mesi dall'entrata in vigore della legge, il titolare del Segretariato dell'Ambiente e delle Risorse Naturali (Semarnat), Alberto Cárdenas Jiménez, ha affermato di non voler riposare fino a che il prezzo dell'acqua non raggiunga un livello “da far male”. Ma fa male già adesso (secondo studi recenti, i settori sociali più emarginati spendono fino al 30% dei propri averi per comprare il vitale liquido).

Fin dalla nascita, il mercato globale dell'acqua ha presentato caratteristiche singolari giacché è sempre stato controllato da un pugno di giganti europei che esibiscono attitudini depredatrici simili o anche peggiori a quelle dei concorrenti nordamericani. Le due imprese più grandi, Suez e Vivendi Universal, sono francesi; insieme si ripartiscono il 70% del mercato mondiale dell'acqua: la prima opera in ben 130 Paesi, la seconda in 90.14. Per giustificare il loro operato esse diffondono l'idea che di fronte all'inefficienza generalizzata delle istituzioni pubbliche, è meglio optare per l'impresa privata che è “dinamica, produttiva e onesta”.

Nel 1993, il governatore di Aguascalientes autorizzò il sindaco a dare in concessione il servizio pubblico d'acqua potabile, captazione e trattamento delle acque residue. Nello stesso

tempo, la Riforma della Ley Estatal de Aguas legalizzò la partecipazione dell'impresa privata, il che aprì il cammino a Servicios Hídricos de Aguascalientes, un'impresa creata ad hoc e composta da: Ingenieros Civiles Asociados (ICA), Banamex e la Compagnie Générale des Eaux, una sussisidiaria di Vivendi. Le autorità giustificarono la privatizzazione con il cattivo stato del servizio (ma questo non migliorò). Gli unici effetti visibili furono il repentino aumento delle tariffe e la sospensione della fornitura nei casi di morosità, una pratica fino allora quasi sconosciuta.

Secondo la compagnia, quello era l'unico modo per frenare il consumo stimolando il risparmio e limitando così lo sperpero. L'impresa passò, malgrado ciò, per molteplici disavventure finanziarie accumulando debiti. Con la svalutazione della moneta nel 1994,

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questi diventarono pressoché ingestibili. Per evitare la bancarotta e la sospensione del servizio, la giunta municipale dovette apportare grandi dosi di capitale pubblico (mostrando ancora una volta come i grandi monopoli privatizzano i ricavi, ma socializzano le perdite).

Il colmo: nel 1996 il contratto originale fu modificato per favorire ancor più l'impresa, ampliando a 30 anni la durata della concessione e rendendo tuttavia più flessibili i suoi obblighi, esimendola dall'investire nella costruzione di infrastrutture.

Un libro di Tony Clarke e Barlow - “Blue Gold The Battle against Corporate Theft of The World’s Water” (“Oro Blu. La Battaglia contro il Furto Mondiale dell’Acqua” (Arianna Editrice, 2005) - documenta decine di situazioni analoghe nei quattro angoli del mondo, ma soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Ci sono casi limite, come in Cile, dove i Chigago Boys sono riusciti a privatizzare perfino i fiumi. Un pozzo d'acqua vale oggi più che un pozzo di petrolio.

MEXICO: Suez' World Water Wars 09-09-2003

Water Privatization in Latin America 18-10-2005

The Chicago Boys in Chile

I problemi dell'acqua possono avere gravi ripercussioni geopolitiche. Nel caso del Messico, si è recentemente aggravata una vecchia disputa con gli Stati Uniti per il controllo dei fiumi e delle acque sotterranee lungo la frontiera. La regione si trova alle soglie di un grave disastro ambientale. La maggiore falda acquifera del vicino del nord - la Ogallala, con circa mezzo milione di chilometri quadrati rende possibile l'irrigazione di circa 6,5 milioni di ettari coltivati a mais, sorgo, soia e grano - è contaminata da pesticidi, fertilizzanti e scorie nucleari. Visto che si tratta d'acqua fossile, il ricambio è molto lento e si prevede che la falda diventerà improduttiva nel giro di 40 anni.

Uno dei punti ardenti del conflitto riguarda lo sfruttamento del fiume Colorado, che nasce nelle montagne Rocciose, attraversa il Colorado, lo Utah, l'Arizona e la California pieno d'acqua, ma sbocca nel Golfo di California - in territorio

messicano - ridotto ad un modesto torrente d'acqua fangosa e tossica. Ciò è dovuto al fatto che dal lato americano si trova la maggiore concentrazione d'industrie, insediamenti umani e attività agricole del mondo intero. Il sistema del Colorado rifornisce, infatti, gran parte delle zone metropolitane di Los Angeles, San Diego e Phoenix, sostentando inoltre gran parte della produzione invernale di verdura.

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(newscom)

Nel lontano 1944, i due paesi sottoscrissero un “Trattato Internazionale delle Acque” che regolava il flusso dei fiumi di frontiera stabilendo che ogni anno gli Stati Uniti devono destinare al Messico 850 milioni di metri cubi del Colorado, mentre a sua volta il Messico si impegna a inviare al vicino del nord 431 milioni di metri cubi del Bravo, l'altro gran fiume della regione. Negli ultimi anni, con la scusa del ritardo con cui il Messico invia la propria quota, gli USA hanno deciso di rivestire di cemento il Canal Todo Americano, un affluente del Colorado la cui gestione non è purtroppo contemplata nel Trattato del 1944. Dato che quelle acque ricaricano una falda condivisa tra le due nazioni, il governo degli Stati Uniti avrà adesso la possibilità di captare non solo le acque di superficie del Colorado, ma anche quelle sotterranee.

“C'era una volta - scrive Arundhati Roy in un appassionato appello contro la costruzione di 52 dighe lungo il fiume Narmada, in India - un mondo che amava le dighe. Tutti ne avevano - comunisti, capitalisti, cristiani, musulmani, indiani e buddisti. Le dighe non incominciarono come un'impresa cinica, ma come un sogno. Però finirono in un incubo. Adesso è giunto il momento di svegliarsi” (“The Algebra of Infinite Justice”, Penguin Books, Nuova Delhi, India, 2002).

Wetland vies for Colorado River’s water 19 02 2009

http://www.aguabolivia.org

http://www.democracyctr.org/

http://www.suez-environnement.com/

(Pubblicato su Ecplanet 01-11-2006 Fonti: Zmag, New York Times, Il Manifesto)

Page 13: La Guerra Dell'Acqua

Le vie della ragione mercantile sono infinite. Una di queste passa per la costruzione di opere gigantesche che si sottraggono al controllo degli utenti.

Nel corso del XX secolo, si costruirono nel mondo più di 40.000 grandi dighe a fini di irrigazione, approvvigionamento d'acqua potabile o produzione di energia idroelettrica. Secondo calcoli prudenziali, ciò causò la deportazione di circa 100 milioni di persone.

A partire dagli anni 50, le dighe furono presentate come cattedrali della modernità, la prova lampante che l'umanità può riuscire a domare la natura. A differenza delle cattedrali, le dighe non sopravvissero però alla prova del tempo: durarono unicamente il lasso che la natura impiega per logorarle e riempirle di fango.

Nel 1982, la Banca Mondiale si alleò con i militari guatemaltechi per la costruzione di una nuova diga sul fiume Chixchoy (quello stesso che più giù, al segnare la frontiera con il Messico, assume il nome di Usumacinta). Poiché le comunità maya che abitavano la regione si rifiutavano di essere trasferite, l'esercito reagì con la consueta violenza massacrando circa 400 persone nel giro di pochi mesi. La Banca Mondiale affermò di non saperne nulla.

Scorched Earth: The Rio Negro Massacre at Pak'oxom 31 marzo 2009

Río Negro Massacre - Wikipedia

Guerra dell'acqua in Messico

Globalizzazione e guerra dell'acqua in Messico Znet 25 gennaio 2005

“Le grandi dighe” - dice Arundhati Roy - “stanno allo sviluppo come le bombe nucleari alla guerra. In entrambi i casi, sono armi di distruzione di massa. Armi che i governi impiegano per il controllo delle popolazioni”.

In Messico, come in India, come ovunque, la costruzione delle dighe si è risolta in un miraggio. Le prime risalgano ai tempi del presidente Cárdenas (1934-1940) e al suo generoso progetto di sviluppo, per far fronte, negli anni Sessanta, alla crescente domanda d'elettricità e all'incipiente rivoluzione verde. Dato che nella maggior parte dei casi, le popolazioni locali non volevano andarsene, si moltiplicarono i conflitti.

Oggi, la Comisión Federal de Electricidad (CFE) ha in progetto la costruzione di 56 nuove dighe, gran parte delle quali si trova in territori indigeni, il che, come sempre, significa sottrarre l'acqua a chi più ne ha bisogno. In queste condizioni è da prevedere un'intensificazione dell'ostinata guerra d'aggressione che da tempo lo stato messicano sferra contro le comunità originarie. Mentre multinazionali spagnole come Endesa e Unión Fenosa, francesi come EDF, tedesche come Siemens o statunitensi come AES, si mostrano ansiose di investire i propri capitali.

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La battaglia per salvare un fiume, un acquedotto o una sorgente può avere conseguenze impreviste. Prendiamo il caso di una diga in progetto, La Parota, sul fiume Papagayo, nello stato del Guerrero. Se dovesse costruirsi, questa avrebbe una superficie tre volte maggiore della sottostante baia di Acapulco ed inonderebbe 24 villaggi oltre ad un numero ancora non precisato di terre agricole.

Da anni, ed in particolare negli ultimi mesi, i 25 mila campesinos coinvolti si trovano sul piede di guerra. Dopo aver fondato il Consejo de Ejidos y Comunidades Opositoras, il 2 ottobre 2004, insieme con altre comunità che soffrono problemi analoghi, hanno fondato il Movimiento Mexicano de Afectados por las Presas y en Defensa de los Ríos (MAPDER) i cui partecipanti si dichiarano “in resistenza totale e permanente conto la costruzione delle dighe nel Paese”. Il MAPDER, appoggiato anche dal subcomandante Marcos, è un'alleanza legata a livello continentale con la Red Internacional de Ríos di San Francisco, California, e con il Movimiento Mesoamericano contra las Presas. Quest'ultimo, che oltre al Messico comprende i paesi centroamericani, si oppone alla costruzione di circa 350 dighe nella regione di confine tra il Messico e il Guatemala.

Il movimento esige che lo Stato messicano ripari i danni arrecati nel passato a più di 100 mila persone, il risanamento degli ecosistemi, la modifica della legislazione in materia d'acqua e medio ambiente ed il rispetto del diritto delle popolazioni all'acqua, stabilito dal Trattato 169 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. Finora, la lotta dei campesinos di Guerrero è stata pacifica, ma di fronte alla repressione selettiva ed al tentativo da parte del CFE di dividere le comunità comprandone i leader, potrebbe prendere un'altra piega.

Movimiento Mexicano de Afectados por las Presas y en Defensa de los Rios

Un'altra guerra dell'acqua si svolge tra gli indigeni mazahua della regione del fiume Cutzamala e la Commissione Nazionale dell'Acqua (CNA).

Il sistema Cutzamala soddisfa, come già detto, una parte importante del fabbisogno di Città del Messico. Lo stato stanzia ogni anno la somma di 1.600 milioni di pesos (circa 100 milioni di euro) per trasportare alla zona metropolitana 19 mila litri d'acqua il secondo provenienti da Cutzamala. In tal modo, ogni litro d'acqua che giunge a Città del Messico

percorre una distanza di circa 160 km, superando un dislivello di 1.366 metri grazie ad un costoso sistema di pompe. La cosa assurda è che, mentre diverse comunità mazahua soffrono della mancanza d'acqua potabile, circa il 38% dell'acqua spedita a Città del Messico si disperde a causa del cattivo stato dei tubi.

Durante la stagione delle piogge del 2003, la diga Villa Vittoria, una delle sette che alimentano il Sistema Cutzamala, straripò danneggiando le colture e le comunità

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mazahua. Il 10 agosto 2004, dopo molteplici e fallimentari tentativi di dialogo, i membri del Frente para la Defensa de los Derechos Humanos y Recursos Naturales del Pueblo Mazahua marciarono alla volta di Città del Messico esigendo dal governo federale l'indennizzo di 300 ettari di coltivi. Di fronte alla chiusura delle autorità, essi fecero un picchetto davanti all'impianto d'acqua portabile di Berros che rifornisce la valle del Messico.

A quel punto, le donne decisero di prendere in mano le redini del movimento organizzando, sull'onda lunga della ribellione degli indigeni del Chiapas, un Ejército Zapatista de Mujeres en Defensa del Agua. Armate di rudimentali fucili di legno, macete e attrezzi agricoli, bloccarono per tre giorni le forniture di cloro dell'impianto, minacciando inoltre di tagliare il flusso d'acqua e perfino di farsi esplodere con dinamite se il governo non rispondeva alle richieste.

Successivamente, una delegazione di 25 donne mazahua investite con il grado di “comandante” richiese un incontro con il Ministro della Difesa, Clemente Vega, per “parlare di temi relativi alla sicurezza nazionale e spiegare perché protestiamo in modo diverso dai nostri uomini”. In un messaggio ai mezzi di comunicazione, le comandanti denunciavano la politica idraulica del Messico come ingiusta perché “giova solo agli abitanti delle grandi città”. Allo scopo di risanare la regione del Cutzamala, le comandanti, richiedevano che il governo si impegnasse a piantare almeno 20 milioni d'alberi nei prossimi mesi.

Le donne mazahua sono riuscite a sollevare un'onda di simpatia nazionale che ha impedito che si scatenasse un'ondata repressiva contro il movimento e ha obbligato il governo a trattare. Un mese dopo, il Ministero degli Interni e le comunità mazahua hanno firmato un accordo che, oltre ai risarcimenti richiesti, prevedeva la riforestazione e il risanamento del medio ambiente. Di fronte all'assenza dei funzionari della CNA, le comandanti mazahua dichiararono che la lotta continuava e che eventuali inadempienze sarebbero sfociate in nuove mobilitazioni.

L’esercito mazahua sollecita un’udienza a Vega García ipsnet, 27-09-2004

Mazahua Indians Briefly Shut Down Main Water Source to Mexico City 13-12-2006

MEXICO: Mazahuas Choose Jail over Going Without Water ipsnews 30-12-2006

Quando anche l'acqua non è un Diritto Umano 05-04-2006

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Secondo Vandana Shiva (“Le Guerre dell'Acqua”, Milano, Feltrinelli, 2003), una scrittrice indiana che si batte contro la globalizzazione, le “Guerre dell'Acqua” sono al tempo stesso guerre di paradigmi - conflitti su come percepiamo e viviamo l'esperienza dell'acqua - e guerre tradizionali.

Chi controlla il potere preferisce mascherare le guerre dell'acqua travestendole da conflitti etnici e religiosi (sono travestimenti facili perché le regioni lungo i fiumi sono abitate da società multietniche che presentano una grande diversificazione di gruppi umani, lingue e usanze).

[...] L'agricoltura industriale ha spinto la produzione alimentare ad usare metodi che hanno determinato una riduzione della ritenzione idrica del suolo e un aumento della domanda d’acqua. Non riconoscendo all'acqua il suo carattere di fattore limitante nella produzione alimentare, l'agricoltura industriale ha promosso lo spreco. Il passaggio dai fertilizzanti organici a quelli chimici e la sostituzione di colture idricamente poco esigenti con altre che abbisognano di grandi quantità d'acqua hanno rappresentato una ricetta sicura per carestie d’acqua, desertificazione, ristagni e salinizzazione [...] Le siccità possono essere aggravate dal mutamento climatico e dalla riduzione dell'umidità nel suolo. La siccità provocata dal mutamento climatico - fenomeno che prende il nome di siccità meteorologica - è collegata alla carenza di precipitazioni. Ma anche quando la quantità di pioggia rientra nella norma, la produzione alimentare può risentirne se la capacità di ritenzione idrica del suolo è stata erosa. Nelle zone aride, dove foreste e fattorie dipendono totalmente dalla capacità del suolo di mantenersi umido, l'unica soluzione è l'aggiunta di materia organica. La siccità dovuta a scarsa umidità del suolo si presenta quando manca la materia organica che serve a trattenere l'acqua nel terreno. Prima della Rivoluzione Verde la conservazione dell'acqua era parte integrante dell'agricoltura indigena. Nel Deccan, in India meridionale, il sorgo veniva associato a leguminose e semi oleosi per ridurre l'evaporazione […] La Rivoluzione Verde ha scalzato l'agricoltura indigena a favore di monocolture in cui le varietà nane hanno sostituito quelle alte, i fertilizzanti chimici quelli organici e l'irrigazione artificiale le colture da pioggia. Il risultato è che i suoli si sono impoveriti di materiale organico indispensabile e le siccità provocate da scarsa umidità del terreno sono diventate un fenomeno ricorrente [...] Le nuove colture consumano tre volte più acqua delle varietà indigene di frumento e riso. L'introduzione di queste coltivazioni ha avuto anche forti costi sociali ed ecologici. Il drastico aumento della quantità d’acqua utilizzata ha determinato l'instabilità degli equilibri idrici regionali. I massicci progetti di irrigazione e l'agricoltura a uso intensivo d’acqua, scaricando sull'ecosistema una quantità d'acqua superiore a quella sopportabile dal suo sistema naturale di deflusso, hanno portato a ristagni, salinizzazione e desertificazione. I ristagni si verificano quando la profondità della superficie freatica si riduce di una misura compresa tra 1,5 e 2,1 metri. Se in un bacino si aggiunge acqua più in fretta di quanto questo possa drenarne, la falda sale. Circa il 25% delle terre irrigate degli Stati Uniti soffre di salinizzazione e ristagni. In India, 10 milioni di ettari di terra irrigata con i canali è intrisa d’acqua e altri 25 milioni di ettari sono a rischio di salinizzazione […].

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Vandana Shiva chiama tutto ciò “sviluppo distruttivo” e “ecologia del terrore”. Ovvero, l'interruzione del ciclo dell'acqua attraverso la deforestazione, l'attività estrattiva, la diffusione dell'agricoltura industriale esportata dalla Rivoluzione Verde nei paesi del Sud, la sostituzione dei sistemi di conservazione e distribuzione delle comunità locali con l'assunzione statale del controllo delle risorse idriche, la deviazione dei fiumi e la costruzione di faraoniche dighe.

Un insieme di fattori, spiega l'autrice, che hanno favorito fenomeni come la desertificazione e la salinizzazione e portato il pianeta all'attuale crisi idrica e alle guerre cominciate, non da oggi, in tutto il mondo. Dal Punjab alla Turchia, dove nel 1989 l'allora primo ministro Turgut Ozal minacciò di tagliare la fornitura d’acqua alla Siria se non avesse espulso il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan); dal Medioriente, in cui l'apartheid dell’acqua a danno dei palestinesi alimenta il conflitto con Israele, fino al conflitto per le acque del Nilo tra Egitto ed Etiopia e all' “idro-jihad” lanciata dalle popolazioni nomadi del Tigri e

dell’Eufrate contro il gigantesco progetto fluviale di Saddam Hussein.

Tutte guerre che si consumano in assenza di un quadro giuridico internazionale in grado di risolverle, mentre, nel frattempo, il paradigma del mercato spinge la liberalizzazione del commercio dell'acqua come ricetta per superare la crisi idrica.

La trasformazione dell'acqua in merce, attraverso quella privatizzazione che ha le sue radici nell' “economia dei cowboy”, è la strategia strenuamente perseguita da organismi sovranazionali come il WTO (World Trade Organization), la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che da tempo legano la concessione dei prestiti alla deregulation.

Nella Dichiarazione ministeriale stilata a Doha nel 2001 nel vertice del WTO si parla di eliminazione delle “barriere tariffarie e non tariffarie sui beni e servizi ambientali”, tra cui ovviamente rientra anche l'acqua. Alle risorse idriche come bene commerciabile fa esplicito riferimento anche il NAFTA (North American Free Trade Agreement).

Non a caso, nel maggio del 2000, in piena crisi della new economy, il magazine Fortune ha scritto che il business dell'acqua è il più redditizio per le imprese. Oggi a controllare il mercato sono una manciata di corporation tra cui spiccano Vivendi Environment e Suez Lyonnaise des Eaux con un fatturato di 17,5 e 5,1 miliardi di dollari. Sul nuovo affare si sono lanciate perfino Coca Cola e Pepsi Cola con brand di acque in bottiglia, un’industria che non solo non garantisce la qualità di ciò che vende ma ha conseguenze mortali sull'ambiente con l'utilizzo massiccio e indiscriminato della plastica.

Tra gli effetti più evidenti della privatizzazione, attacca Vandana Shiva, ci sono l'aumento delle tariffe e la mancanza di garanzie di qualità. A Casablanca, il prezzo dell'acqua si è triplicato, nel Regno Unito le bollette si sono gonfiate del 67% tra l'inizio e la metà degli anni Novanta. In India, l'acqua Evian, prodotta dalla Britannia Industries e venduta a due dollari al litro, quasi il doppio del minimo salariale locale, è uno status symbol tra le famiglie ricche che spendono dai 20 ai 209 dollari al mese per acquistarla. A

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Johannesburg, dove la Suez Lyonnaise des Eaux controlla la fornitura idrica, la qualità dell'acqua si è abbassata di pari passo con l'innalzamento dei prezzi.

Eppure è ancora possibile fermare questo processo. Lo dimostrano casi come quello di Cochabamba, regione divenuta il simbolo della lotta per il diritto all'acqua (qui, nel 2000, un imponente movimento ha bloccato la città per giorni per protestare contro la privatizzazione e, nonostante la repressione poliziesca, ha costretto l'azienda Bechtel a lasciare la Bolivia).

Attraverso un approccio ecologico complesso e radicale in cui trovano spazio anche l'evocazione della mitologia indiana, ricordi ed esperienze vissute, Vandana Shiva oppone ai teorici neoliberisti i saperi indigeni e le antiche tecnologie dell'acqua in grado di creare “abbondanza dalla scarsità”.

Il suo è un libro che con risoluta semplicità colpisce al cuore dello stile di vita occidentale, quello in cui lo spreco dell'acqua è la norma, e che vorrebbe condannare il Sud del mondo a pagare il prezzo della distruzione del pianeta.

Le Guerre dell'Acqua si combattono anche da noi, nel “belpaese”.

Proprio di recente, da Latina, è partito un forte appello contro la privatizzazione del servizio idrico. Dal Comitato Provinciale di Difesa Acqua Pubblica di Latina si è alzata una voce di protesta: “Bollette triplicate dal 2001, ovvero dall'inizio della gestione di Acqualatina. In gran parte del territorio pontino il costo dell'acqua è triplicato a fronte di una qualità sempre più scadente della stessa; a maggio 2005, per esempio, si sono riscontrati tassi di arsenico a Cisterna di oltre 200 microgrammi/l. Oltre il 70% dei acqua si disperde o non arriva a fatturazione - non è mai stata recapitata a nessuno dei contribuenti la “carta dei servizi” della società, prevista dalla vigente convenzione di gestione dell'ATO4. È ora di dire basta alla privatizzazione dell'acqua!”. Il Comitato fa sapere anche che quei pochi investimenti che ci sono stati si sono svolti unicamente nella zona di influenza di politici referenti preferenziali della società; che una fetta sostanziosa del debito di Acqualatina (circa 9 milioni di Euro) è maturato attraverso i compensi elargiti a Presidente (oltre 90.000 Euro l'anno) e ai 7 politici presenti nel Consiglio d'Amministrazione della SpA scelti (senza alcuna competenza tecnica specifica in merito), solo in base ad un meccanismo caro all'On. Cencelli; e attraverso gli appalti milionari offerti da Acqualatina ad imprese collegate come SIBA e Veolia Water Italia Srl senza uno straccio di gara pubblica, nonostante la legge Merloni preveda un massimo di spesa di 300 mila Euro “in casi eccezionali”; Acqualatina ha prodotto nella Provincia di Formia un dissenso sociale di proporzioni ineguagliabili. Consigli Comunali, Sindacati, Associazioni di Consumatori, Comitati di lotta, hanno bocciato bilanci, piani tariffari, atti costitutivi e prodotto ricorsi e denunce su ogni singolo aspetto gestionale. La natura privatistica della gestione delle risorse idriche, è stata pesantemente messa in discussione dal Governo, che nella Finanziaria ha precisato come sia possibile liberalizzare tutto, tranne l'acqua (per quanto ancora?). I cittadini quotidianamente subiscono la malagestione di Acqualatina, e chi prova a protestare o non riesce a pagare per morosità è minacciato, con telefonate e

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lettere, di cessazione dell'erogazione del servizio idrico. In una situazione così rovente ed impegnativa, spartirsi centinaia di migliaia di euro in poltrone politiche di rito, senza neanche porsi il problema delle ragioni di tanto dissenso sociale, è davvero una prassi politica irresponsabile e cieca. Lo scorso 4 Novembre c'è stata un'assemblea pubblica convocata dal Comitato Spontaneo di Lotta contro Acqualatina che sosterrà i Comuni che non hanno ratificato il contratto di gestione di Acqualatina.

Tutto lo stipendio per pagare Acqualatina 02-12-2009

Comitato provinciale difesa acqua pubblica di Latina

http://www.ciepac.org/

http://www.imacmexico.org/

http://www.ecoportal.net/

http://www.acqualatina.it/

http://www.acquapubblicalazio.org/

(Pubblicato su Ecplanet 06-11-2006 fonti: Zmag, Narconews, Peacereporter, Provincialatina)

Al Forum Sociale Mondiale (FSM) di Nairobi, dove una coalizione di femministe tanzaniane ha raccontato la propria storia, è emersa la questione City Water, un consorzio formato da Biwater in Gran Bretagna, Gauff in Germania e l'impresa locale Superdoll, che si era assicurato la fornitura di acqua di Dar Es Salaam grazie a un contratto della durata di 10 anni, per un valore di 102 milioni di dollari, firmato nel 2003 con il governo della Tanzania. Due anni dopo, il governo - incalzato dai consumatori che

deploravano gli scarsi servizi - ha revocato il contratto. Biwater, per conto del consorzio, ha presentato un'ingiunzione all'Alta Corte britannica per impedire al governo della Tanzania la recessione illegale del contratto, oltre a chiedere il risarcimento danni. Ha raccontato Deus Kibamba, coordinatrice della coalizione di attiviste femministe in Tanzania: “La privatizzazione dell'acqua era una condizione dei nuovi programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (Enhanced Structural Adjustment Facility, ESAF) e, dal 2000 al 2003, della strategia del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per la riduzione della povertà e per la crescita (Poverty Reduction and Growth Facility, PRGF). Così, il governo è stato praticamente costretto a privatizzare l'acqua”, ha riferito Kibamba. “La popolazione ha poi protestato per le scarse prestazioni dell'impresa”, ha detto Ruth Munshi della Tanzania, aggiungendo che il risentimento popolare contro il monopolio privato dell'acqua non si limita alla Tanzania, ma è un fenomeno diffuso in tutto il mondo (negli ultimi anni, ci sono state diverse manifestazioni contro le privatizzazioni in alcune aree dell'America Latina, oltre che in Africa, nei Caraibi e in Asia, e anche in Italia).

Secondo la Banca Mondiale, la Tanzania è uno dei paesi più indebitati al mondo, con un debito estero che si aggira intorno ai 7,5 miliardi di dollari. Almeno il 27% (9,8 milioni di

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persone) in questo paese africano non ha accesso all'acqua potabile. Il Fondo ONU per l'infanzia ha segnalato che il 40% dei bambini sotto i cinque anni soffre di diarrea per aver bevuto acqua a rischio. City Water doveva essere il fiore all'occhiello del programma di privatizzazione dell'acqua in Africa, ma ha fallito perché era più interessata ai profitti. Il governo della Tanzania dice di aver revocato il contratto con City Water perché il consorzio non aveva rispettato i termini dell'accordo, mentre City Water ha sostenuto di aver ricevuto informazioni imprecise su questioni fondamentali come la portata dei danni alle infrastrutture e il numero di consumatori attivi. Secondo Kibamba, la società civile deve premere sul governo della Tanzania per non cedere alla privatizzazione dei servizi pubblici. “La popolazione non è stata consultata su un tema tanto importante. Non cederemo”.

Tanzania ditches private water supplire 18-05-2005

The Role of Water Privatization in the World-Wide Water Crisis 06-01-2009

IL BUSINESS DELL'ACQUA

Mliif New Energy, il fondo di Merrill Lynch BlackRock acquistabile anche in Italia, ha un rendimento triennale del 94%. Nello stesso periodo, le Borse mondiali hanno guadagnato il 44%. Pictet PF Water, il fondo specializzato sulle risorse idriche, ha una performance annuale del 20%, ha reso meglio dei concorrenti e più del triplo dell'indice MSCI World.

L'acqua è “oro blu”. Scommettere sui titoli delle aziende che la trattano e la distribuiscono, è una delle migliori strategie di investimento per i prossimi dieci anni. Lo sostiene Chris Mayer, uno degli analisti americani più convinti su questo tema: le cinque azioni del suo portafoglio Blue Gold sono salite in media del 30% da giugno, quando ha cominciato a raccomandarle nella sua newsletter Special Situations. “Mi sono convinto che l'acqua costituisce un'enorme opportunità due anni fa, durante un lungo viaggio in Cina”, ha dichiarato l'analista, “ero andato per studiare l'industria manifatturiera, la Borsa in generale, ma attraversando il Nord, con sconfinate aree secche e polverose, mi sono reso conto di quanto l'acqua fosse scarsa e importante”. La stessa situazione la si ritrova in India e in tutti i Paesi emergenti. Continua Mayer: «C'è bisogno di pesanti investimenti per garantire la fornitura dell'acqua, innanzitutto quella potabile da bere. La Cina è il Paese con il più alto tasso di tumori dello stomaco e del fegato causati dall'acqua inquinata, e l'urgenza di risolvere questo problema sanitario è accentuata dalle imminenti Olimpiadi». E ancora: «Qualsiasi prodotto ha una grande quantità di acqua incorporata, non solo i cibi come le verdure e i cereali, ma anche un minivan della Ford per essere realizzato ha bisogno di un sacco di acqua, basti pensare a quanta ne richiede la manifattura dell'acciaio o la vernice». Nei Paesi avanzati come l'Europa e gli Stati Uniti c'è invece il problema degli acquedotti esistenti, che sono vecchi e si stanno deteriorando ulteriormente. «Sono posseduti e gestiti perlopiù dalle amministrazioni pubbliche locali, che non vogliono aggiornarli, perché dovrebbero recuperare i costi aumentando le tasse o le tariffe per gli utenti, e sarebbe una scelta impopolare. La soluzione migliore è allora la privatizzazione degli acquedotti». All'obiezione che con una gestione privata il prezzo dell'acqua nelle case aumenterebbe, Mayer ribatte che già è aumentato più della media

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dell'inflazione negli ultimi anni: «Bisogna rassegnarsi all'idea che, a un certo punto, o paghiamo di più l'acqua o non ce l'abbiamo».

Se l'acqua è il petrolio del futuro, si può prevedere la nascita di un cartello di fornitori dell' "oro blu" sulla falsariga dell'OPEC, una Borsa come Chicago che tratta futures liquidi o, nella peggiore delle ipotesi, guerre scatenate dalla necessità di accaparrarsi la materia prima per eccellenza. Un ostacolo al concretizzarsi di questo scenario è però il fatto che l'acqua, a differenza dell'oro nero, piove dal cielo, e il 71% della Terra è coperto da oceani. «È vero - ammette Mayer - ma così è inutilizzabile, e anche quella dei fiumi e dei laghi non può essere bevuta. Deve prima essere filtrata, trattata». Ecco quindi l'ampio spazio di crescita che hanno tutti i business legati all'acqua: i sistemi di pompaggio, le tubature, le tecniche per pulirla, gli impianti di irrigazione. Chi ha solo poche migliaia di dollari o di euro da investire, può scegliere un Etf specializzato nel settore, come PHO. «Ma i titoli nel suo portafoglio offrono un'esposizione soprattutto alle utilities, i distributori dell'acqua a domicilio, che non sono il comparto più interessante», avverte Mayer.

Fra le azioni che l'analista raccomanda di comprare direttamente, c'è Nalco, il più grande produttore al mondo (davanti a GE Water) di sostanze chimiche usate nel trattamento e purificazione dell'acqua; ha clienti in tutto il mondo, anche in Cina. Fino al 2003 era controllata da Suez, che l'ha venduta ad un gruppo di private equity; da due anni è quotata a Wall Street e si è rivalutata del 30% contro il 20% dell'indice S&P500. Altra società che piace a Mayer è Gorman-Rupp, che fa pompe usate in agricoltura, nelle costruzioni, nel trattamento dei liquami, nell'industria petrolifera, oltre che per pompare l'acqua negli acquedotti; negli ultimi cinque anni la sua performance in Borsa (Amex) è stata quasi del 100% contro il 20% dell' S&P500. Più che raddoppiate in cinque anni sono anche le quotazioni di Northwest Pipe Company, che fabbrica tubi d'acciaio per la trasmissione di acqua; mentre nello stesso periodo sono aumentate del 150% quelle di Pico Holdings, le cui controllate Water Resource and Water Storage posseggono diritti sull'acqua in alcuni stati USA come l’Arizona e il Nevada.

È noto che per quanto le acque minerali siano di proprietà pubblica - in Italia delle regioni - sono le imprese private che tirano grassi e sicuri profitti dalla loro mercificazione/vendita. Il business delle acque minerali in bottiglia è diventato uno dei settori più lucrativi e in espansione al mondo, dominato fino a poco tempo fa dalla Nestlé (proprietaria, fra gli altri, dei marchi del gruppo italiano San Pellegrino) e dalla Danone. Oramai sono tallonate da altre due «gentili sorelle dell'acqua» che sono la Cocacola e la Pepsicola. Sta ora diventando altresì noto che le imprese private di distribuzione dell'acqua, e quelle a capitale misto pubblico-privato sempre più numerose nel settore dei servizi idrici, si stanno impadronendo della proprietà e/o del controllo dell'acqua potabile

attraverso il mondo. Le francesi Suez-Ondeo e Vivendi-Veolia, da sole, gestiscono la distribuzione dell'acqua per più di 250 milioni di persone, senza contare quelle servite dalle società di cui posseggono delle partecipazioni azionarie.

La banca privata svizzera Pictet prevede che nel 2015 le imprese private forniranno l'acqua potabile a circa 1 miliardo e 750 milioni di «consumatori». In questo contesto, non sorprende di constatare che le imprese di gestione dell'acqua sono sempre più comprate e

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vendute sul mercato delle imprese come si vendono e si comprano delle imprese di scarpe o di frigoriferi. Ultimo caso maggiore e significativo è quello della Thames Water - la più grande impresa d'acqua del Regno Unito, numero tre mondiale (dopo le due citate imprese francesi) - che l'australiana Macquarie ha comprato dalla tedesca RWE. La RWE, gigante energetico europeo, aveva acquistato Thames Water nel 2000 per 7.1 miliardi di euro nel perseguimento della sua strategia mirante a diventare il numero uno europeo delle multiutilities (imprese operanti simultaneamente nei settori dell'energia, dei trasporti, dei rifiuti, dell'acqua, delle telecomunicazioni). La scelta in favore di una strategia multiutilities spinse anche, alcuni anni fa, l'ENEL ad interessarsi ad un possibile acquisto dell'Acquedotto Pugliese. Per diversi motivi, i dirigenti della RWE hanno deciso ultimamente di concentrarsi unicamente sul loro settore di competenza, allo scopo di mantenersi all'altezza dei colossi energetici mondiali in via di ristrutturazione e consolidamento. Così, altrettanto velocemente di come la comprarono, hanno venduto Thames Water. Thames Water è stata comprata da un'impresa australiana, la Banca Macquarie, che ha sborsato circa 14 miliardi di euro. La Macquarie non si è mai occupata di acqua nel passato. È una banca specializzata in servizi finanziari (in Italia opera nel campo dei mutui per la casa) e in investimenti nelle infrastrutture. Per esempio, gli aeroporti di Bruxelles e di Copenhagen sono dei «Macquarie Airports». È presente in 24 paesi e ha circa 8.900 dipendenti. Perché ha investito così tanto nel settore dell'acqua, comprando anche l'americana Acquarion per 860 milioni di dollari USA? Non certo perché ha un piano industriale e socio-ambientale di ammodernamento della rete e del servizio idrico per 13 milioni di abitanti della regione londinese e gli altri 50 milioni di persone servite nel mondo dalla Thames Water. Per la Macquarie si tratta di una strategia puramente finanziaria: aumentare i livelli di profitto del Gruppo intervenendo in un settore molto redditizio, destinato a diventarlo ancora di più nel futuro se continuano i processi di privatizzazione e di rarefazione dell'acqua per usi umani.

Allorché la signora Thatcher privatizzò l'acqua nel 1989, affermò che ai britannici non importava sapere chi distribuisce l'acqua. L'importante è beneficiare di servizi di qualità elevata a prezzi convenienti. La privatizzazione dell'acqua non ha però portato risultati notevoli sul piano dei prezzi (gli aumenti sono stati considerevoli) né su quello della qualità (di recente la Thames Water è stata severamente ripresa dall'autorità di controllo per non aver ridotto i livelli di perdite conformemente agli obblighi legati alla tariffa). I britannici sono stati invece esauditi per quanto riguarda l'irrilevanza della nazionalità del gestore: «l'acqua del Tamigi» (Thames Water) è passata di proprietà in quindici anni da un ente pubblico ad un'impresa privata britannica, poi ad un'impresa energetica tedesca e ora ad una banca australiana. È possibile che fra dieci anni la proprietà della Thames Water passi ad una società cinese specializzata nella gestione dei rifiuti urbani.

How Water Will Become A ‘Blue Gold’ For Investors 12-01-2009

Thames Water - Wikipedia

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In Italia, potrebbe presto avvenire la trasformazione delle italiane HERA (Holding Energia Risorse e Ambiente) od ACEA (Azienda Comunale Energia e Acqua), che già operano sui mercati azionari europei e internazionali, in «Acque Macquarie». Il recente accordo di conferma sull'esclusione dei servizi idrici dai processi di privatizzazione - sotto riserva di conoscere il contenuto del decreto sulla moratoria che dovrebbe essere emesso a giorni - così come la volontà espressa da più di 50.000 cittadini italiani che hanno già firmato, dal 13 gennaio ad oggi, la proposta di legge di iniziativa popolare sull'acqua bene comune, costituiscono due elementi significativi della nuova fase politica italiana aperta dall'attuale governo Prodi. Si aggiunge poi un altro elemento innovativo rappresentato dalla nuova legge sulla cooperazione internazionale «voluta» dalla vice-ministra degli Esteri per la cooperazione, Patrizia Sentinelli. Prova ne è la valenza progettuale, simbolica sul piano politico, dell'inclusione dei beni comuni nella ricerca di una nuova politica italiana della cooperazione.

Il caso dell'acqua è emblematico: se il movimento a favore dell'acqua come bene comune sarà in grado di rigenerare l'immaginario politico e la progettualità dei cittadini attorno ad una volontà diretta di legiferare, potrebbero aprirsi nuovi percorsi innovatori nella dura lotta in corso fra i partiti della coalizione governativa, in seno alle istituzioni pubbliche (governo, commissioni parlamentari) sul tema dell'acqua; altrimenti, le lotte politiche rischiano di restare prigioniere delle proprie logiche «interne» e, quindi, scollate dai cittadini. La straordinaria mobilitazione in corso per la raccolta delle firme in sostegno della legge di iniziativa popolare sull'acqua rappresenta dunque una battaglia fondamentale della “guerra dell'acqua” in Italia. Una effettiva moratoria in materia di privatizzazione dei servizi idrici (e con essi del territorio), di fronte ad un governo che spinge verso le liberalizzazioni e le privatizzazioni, darebbe un forte impulso alla speranza di un'altra economia e a una democrazia reale.

Sul disegno di legge 772 in tema di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, approvato a fine giugno dal Consiglio dei Ministri, e in esame ormai da fine settembre in commissione Affari Costituzionali, da tempo esiste un braccio di ferro dentro la maggioranza, in particolare, tra il ministro Linda Lanzillotta, forte del recente parere dell'Antitrust di Antonio Catricalà, e di sponde intelligenti come quelle di Bruno Tabacci, e il fronte della sinistra radicale, contrario a qualsiasi ipotesi di liberalizzazione e privatizzazione dell'acqua, da considerare bene pubblico universale. Romano Prodi aveva imposto che il delicato capitolo acqua fosse scorporato dal pacchetto Lanzillotta e che fosse affidata ad un comitato ad hoc di ministri, sotto la regia di Enrico Letta, la decisione di moratoria sulle gare di affidamento dei servizi idrici. Questo prima della crisi di governo. Tra i 12 punti che Prodi, prima di chiedere la fiducia, ha definito «prioritari e non negoziabili», già approvati dai segretari dei partiti di maggioranza per restare in sella, quello 3 è dedicato alla TAV e quelli 4 e 5 proprio all'energia, tra cui la costruzione di nuovi rigassificatori, questione già fonte in questi mesi di scontro interno, e le liberalizzazioni dei servizi a tutela dei consumatori, tra cui l'acqua. Nel disegno di legge in questione non si parla di privatizzare l'acqua - l'acqua potabile che ogni giorno arriva nelle nostre case non è, né tanto meno può essere, un bene mercificabile oggetto di compravendita perché è un bene diritto; su di esso non si può invocare nessuna proprietà, che non sia collettiva; nelle componenti

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costitutive della tariffa del servizio idrico l'acqua in quanto tale non viene pagata, proprio perché di tutti - l'oggetto della polemica è la gestione del servizio idrico, che per Lanzillotta e i riformisti unionisti, e soprattutto per molti centristi, è invece un punto irrinunciabile. “Un segnale riformista decisivo, al pari di TAV e rigassificatori”, come ha ricordato il responsabile nazionale Energia e Ambiente di Italia dei Valori, Giuseppe Vatinno. “Ciò che si paga in bolletta - spiegano - sono esclusivamente i costi del servizio sostenuti dai vari gestori per distribuire l'acqua e rimetterla in circolo in termini ecologicamente sostenibili”.

È questa la differenza fondamentale rispetto ad altre materie prime essenziali, come ad esempio il gas, nella cui bolletta la voce principale (tasse a parte) è rappresentata proprio dai costi della materia prima, pagata da ciascuno di noi ai proprietari di tale risorsa. Nel caso dell'acqua, se 100 è il costo del servizio di depurazione, circa la metà è rappresentato da costi per l'approvvigionamento energetico e per lo smaltimento dei tanghi, attività svolte da soggetti privati in regime di libera concorrenza. Quindi, dicono i pro-liberalizzazione, un conto è parlare del bene pubblico acqua, che tale deve rimanere, altro invece dell'attività di depurazione o di fognatura, la cui gestione e conduzione costituiscono attività materiali e industriali che si pongono su un piano diverso dal sacrosanto principio che vuole che il bene diritto acqua non sia mercificato.

Il Comitato internazionale AMECE, composto da oltre quaranta rappresentanti di movimenti e associazioni impegnati a difesa dell'acqua nei vari continenti, può contare sul sostegno organizzativo di un comitato belga composto da oltre trenta associazioni. In Italia, oltre al Comitato Italiano del Contratto Mondiale sull’acqua, ne sono promotori il CIPSI - coordinamento di 37 associazioni di solidarietà internazionale - il CEVI, il COSPE, il CRIC e Legambiente. L'idea di realizzare una Assemblea Mondiale dei Cittadini ed Eletti per l'Acqua è nata durante il primo Forum Alternativo Mondiale dell'Acqua (FAME) a Firenze nel 2003 ed è stata presentata in occasione del FAME 2 a Ginevra nel 2005. Successivamente, questa proposta è stata accolta da vari Movimenti ed inserita nelle risoluzioni adottate durante i Forum Sociali Mondiali di Bamako, Caracas e nel Forum di Nairobi (2007), ed è contenuta nella risoluzione approvata dal Parlamento Europeo il 16 marzo 2006.

Attualmente, più di 1,1 miliardi di persone non hanno accesso all'acqua e 2,6 miliardi mancano di servizi sanitari, il che determina conseguenze disastrose sulle condizioni igieniche e sanitarie di queste popolazioni. Nel mondo, 4.500 bambini muoiono ogni giorno per le conseguenze legate al mancato accesso all'acqua potabile.

AMECE

Portatori d'Acqua

CONTRATTO MONDIALE SULL'ACQUA

Forum italiano dei movimenti per l'acqua

La guerra per l'acqua. Fantascienza o futuro prossimo? Brain 2 Brain 09 giugno 2007

Pianeta Blu tmccrew

“Maude Barlow e Tony Clarke, Blue Gold: The Fight to Stop the Corporate Theft of the World’s Water”, ecologiapolitica, 2003

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Water Wars by Vandana Shiva thirdworldtraveler 10 aprile 2000

(Pubblicato su Ecplanet 10-03-2007 Fonti: Peacelink, Corrieredellasera, il Manifesto, il Riformista)

A metà novembre 2009, il parlamento ha approvato in via definitiva.il Decreto Legge Ronchi che prevede, oltre a svariati obblighi comunitari, anche la privatizzazione delle reti idriche nazionali.

Il Decreto specifica che tutto avverrà “in ottemperanza dei principi di autonomia gestionale” e “in piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche“. Anche in funzione della qualità e del prezzo del servizio erogato.

Il ministro Ronchi ha assicurato: «L'acqua è un bene pubblico e il decreto non ne prevede la privatizzazione. Con questa legge si vogliono combattere i monopoli, le distorsioni, le inefficienze con l'obiettivo di garantire ai cittadini una qualità migliore e prezzi minori. I privati dovranno dare prodotti migliori a prezzi minori». Ronchi ricorda come l'Italia sia il Paese con acquedotti che sono «il più grande colabrodo d'Europa». Le nuove norme, prevedono «che i monopoli debbano aprire ai privati migliorando i servizi offrendo ai consumatori prodotti migliori a costi minori». Per quanto riguarda l'Authority che dovrà vigilare sui prezzi Ronchi ha ipotizzato che possa essere «una branca dell'Autorità dell'energia. In ogni caso il dibattito sulla soluzione migliore è aperto al confronto».

L’Italia dei Valori ha gridato allo scandalo (”L’acqua non è più pubblica e sarà fonte di arricchimento per i privati”) reclamando un Referendum. «Privatizzare acqua e ciclo dei rifiuti è un favore alla criminalità organizzata», ha affermato il segretario generale Fp-Cgil, Carlo Podda, che ha anche invocato «una risposta energica e partecipata a chi, negando l'evidenza al paese, sta svendendo il nostro welfare e la nostra salute».

Di fatto, la strada è ormai segnata per i sostenitori del criterio "acqua bene pubblico": a breve, tutti gli enti comunali e regionali dovranno predisporre tutte le misure necessarie per garantire ai privati la fornitura del servizio dell’acqua corrente.

Acqua ai privati, fiducia al governo Ronchi: più qualità e prezzi minori 18 novembre 2009

Consigli comunali riuniti contro la privatizzazione dell'acqua in Sicilia 02-12-2009

La privatizzazione dell'acqua non si ferma 03-11-2009

Un "mare" d’affari: la privatizzazione dell’acqua in Italia 01 ottobre 2009

LA FINE DELLO STATO

In un senso strettamente letterale, “res publica” sta ad indicare lo Stato, il governo, ed anche l'insieme dei beni che sono di proprietà di tutti i cittadini. In un senso più generale, si intende con res publica una società fondata sullo Stato di diritto ed i principi di cittadinanza, di libertà e di uguaglianza, mirante a promuovere la giustizia sociale, la fraternità e la pace.

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Per tutto il XIX secolo e buona parte del XX, la res publica si giocò - in congiunzione con la questione della autodeterminazione dei popoli e del riconoscimento del cittadino - attorno alla soluzione dei rapporti tra capitale e lavoro. Da un lato, i detentori del capitale privato, proprietari della terra, delle materie prime e, soprattutto delle «macchine», che pretendevano di essere i proprietari dei frutti del lavoro umano, cioè della produttività. Pertanto rivendicavano di essere il soggetto principale delle decisioni in materia di produzione e di distribuzione della ricchezza disponibile e prodotta. Dall'altro, i lavoratori, «braccianti» e/o «manodopera», possessori unicamente di forza lavoro (le braccia, le mani....), che rivendicavano anch'essi, legittimamente, di essere proprietari della ricchezza e quindi, soggetti partecipanti alle decisioni, grazie anche ad uno Stato che sarebbe dovuto essere garante dei diritti di tutti i cittadini ed operante nell'interesse generale. In realtà lo Stato fu più sovente dalla parte dei proprietari di capitale.

Dopo circa cento anni di lotte sociali, lo Stato del welfare europeo, specie nella versione scandinava e tedesca (molto meno in quella americana) ha rappresentato la vittoria del lavoro sul capitale, esplicitata, tra l'altro, dopo la seconda guerra mondiale, dalla politica dei redditi. Questa è stata fondata su una concertazione a tre - imprese, sindacati e Stato - sulla ripartizione degli incrementi di produttività. Cosi, la produttività era diventata una «res» comune, la collettività essendone proprietaria e responsabile. Nei rapporti di forza tra lavoro e capitale, lo Stato del welfare ha costituito la forma di società che il lavoro è riuscito ad imporre al capitale come limite alla pretesa del capitale privato di governare la società ed il divenire delle comunità umane. Tuttavia, il welfare non ha dato vita, in nessun luogo, ad un sistema non-capitalista, anti-capitalista, o post-capitalista.

Negli ultimi trent'anni, il capitale è pervenuto a far compiere alle nostre società un'inversione strutturale di tendenza riuscendo a smantellare lo Stato del welfare. Il capitale privato è diventato il soggetto unico proprietario della produttività. Il lavoro ha perso la sua forte soggettività economica, sociale e politica nei confronti del capitale. Ridotto alla categoria di «risorsa umana», il lavoro è nuovamente considerato una merce, un «prodotto», in balia di un mercato è sempre più deregolamentato e liberalizzato. Il lavoro, precario, flessibile, aleatorio, fa sempre meno parte del campo dei diritti.

Lo Stato, dal canto suo, non ha fatto altro in questi anni che ritirarsi dal campo dell'economia e dalle decisioni in materia di allocazione delle risorse produttive, lasciando al capitale privato, in nome dell'imperativo della competitività mondiale delle imprese «nazionali», il compito «politico» della regolamentazione finanziaria, tecnologica e commerciale della ricchezza. In questo nuovo secolo, la partita della res publica si gioca - in stretto legame alla questione del rafforzamento o, all'opposto, dell'indebolimento delle dinamiche imperiali mondiali americane e della militarizzazione del mondo - sulla soluzione dei rapporti tra capitale e vita.

Al momento, il capitale è vincente grazie principalmente a tre dinamiche operanti in tutto il mondo: la mercificazione di ogni forma di vita; la liberalizzazione di tutti i mercati; la privatizzazione del potere di proprietà sulla vita.

I processi di mercificazione della vita sono favoriti dalla tesi secondo la quale nulla ha valore senza scambio, senza relazioni di vendita/acquisto le quali fissano il prezzo dei beni e servizi scambiati. E così, Anche la stragrande maggioranza dei beni e dei servizi comuni pubblici (l'acqua, la salute, l'educazione, l'alloggio, i trasporti, l'ambiente...) è stata ridotta a merce sulla base di due argomenti (molto discutibili), fatti diventare «leggi» dai gruppi dominanti. Il primo consiste nel sostenere che anche questi beni e servizi sarebbero

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l'oggetto di domande individuali (una persona utilizza X metri cubi d'acqua, «consuma» X quantità di medicine, utilizza X ore di trasporti pubblici...) e, quindi, sarebbero oggetto di rivalità fra venditori ed acquirenti e fonte di utilità individuali. Sarebbero quindi dei beni economici privati, di cui solo i meccanismi di mercato consentirebbero di ottimizzarne la produzione e l'uso. Il secondo argomento dice che l'accesso ai beni e servizi comuni implica necessariamente un costo economico che non può essere coperto che da un prezzo in funzione del consumo.

Nemmeno l'esercito sfugge alla mercificazione. Parecchie migliaia di militari delle forze occidentali in Iraq sono composti da soldati mercenari «venduti» agli Stati uniti ed al Regno unito da società private specializzate in attività di guerra. Lo stesso dicasi dei saperi. Ancora decenni or sono la Chiesa cattolica «vendeva» le indulgenze, oggi i nuovi dei del mercato vendono le conoscenze.

Una volta avvenuta la mercificazione, è particolarmente difficile frenare, o impedire, la deregolamentazione e la liberalizzazione dei mercati. Decine di istituzioni nazionali ed internazionali sono state create apposta, con forti poteri di intervento e di pressione, per promuovere quella che è considerata «la missione civilizzatrice della libertà dei mercati» e della costruzione del grande mercato libero mondiale. Innanzitutto, il GATT (General Agreement on Trade and Tarif), diventato il WTO (World Trade Organisation) nel 1995, che da 10 anni sta tentando di imporre al mondo, attraverso il GATS (General Agreement on Trade of Services), la pretesa ineluttabilità della liberalizzazione dei servizi; poi l'OCSE, il grande laboratorio ideologico economico dei paesi occidentali; e poi, ancora, le varie zone di libero scambio promosse in tutte le regioni del mondo e di cui l'Unione europea, con il suo mercato unico interno, rappresenta il modello da seguire.

Non per nulla, uno dei più grandi dibattiti politici e culturali degli ultimi anni sull'integrazione europea è stato quello centrato sulla direttiva Bolkenstein, che mira, anche se in una versione «addolcita», alla liberalizzazione di tutti i servizi di rilevanza economica (i servizi considerati di non rilevanza economica sono rimasti in pochi).

Terza dinamica, la privatizzazione. Fortemente aiutato, anche in questo, dallo Stato, il capitale è riuscito ad impadronirsi della proprietà di tutto ciò che fino a poco tempo fa era stato considerato come «proprietà comune, pubblica», vuoi come bene «sacro»: dai semi di riso indiani od asiatici, «liberati» dalle regole statali e dalla proprietà collettiva dei villaggi o delle cooperative, all'acqua, anch'essa trattata come «bene libero», passando attraverso le piante ed i microrganismi alla base della farmacopea mondiale.

Gli algoritmi, senza i quali nessun software esisterebbe, l'energia eolica, l'energia solare, l'educazione... qualsiasi espressione di vita può/deve diventare oggetto di appropriazione privata e di capitalizzazione finanziaria.

Lo strumento principe utilizzato dal capitale privato, che legalizza ciò che si deve invece definire come un vero furto o atto piratesco, è il diritto di proprietà intellettuale concretizzato nell'ottenimento di un brevetto. Il brevetto garantisce al suo proprietario il diritto esclusivo di uso del bene o del servizio brevettato per un periodo di 18 a 25 anni, con possibilità di rinnovo. Le principali proprietarie di brevetti al mondo sono le grandi imprese multinazionali private occidentali, specie statunitensi.

Cosi, il capitale biotico del pianeta è in via di crescente brevettazione. Inoltre, dal 1994, il Congresso degli Stati uniti ha autorizzato la brevettabilità di geni umani, in ciò seguito nel

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1998 dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo per paura che l'industria biotecnologia europea perdesse competitività e mercati a vantaggio di quella statunitense.

Alla luce di quanto precede, la principale sfida globale e planetaria attuale consiste nel liberare la vita dall'appropriazione e dal controllo da parte del capitale privato affermando il primato dei diritti della vita ed alla vita sugli interessi dei proprietari del capitale finanziario delle grandi imprese globali. La salvaguardia e la promozione dei beni comuni rappresentano la condizione fondamentale di partenza, necessaria ed indispensabile, per la lotta alle nuove pretese del capitale privato.

Considerare l'acqua, l'aria, la terra, l'energia solare, la conoscenza, la salute, l'educazione, la sicurezza collettiva, la pace, la protezione civile... come beni comuni significa riconoscere, nella storia della condizione umana, la centralità dell'altro come bene comune essenziale ed insostituibile alla propria esistenza. L'altro nella duplice realtà di «altro» come essere umano, e «altro» come «natura», la «madre di vita».

Per il capitale privato l'altro è da rigettare o da sfruttare. La sua visione del mondo, dell'alterità, è una visione antagonistica ed utilitarista. Nella chiave antagonista, l'altro è soprattutto un nemico, un contendente nella lotta, con vincitori e vinti, per la sopravvivenza, la potenza, la ricchezza. Nella chiave utilitarista, la natura, l'ingegnere informatico di Bangalore o il risparmiatore di Recife, sono visti come uno strumento, una «risorsa» che vale fintantoché è utilizzabile al fine dell'ottimizzazione della creazione di valore per il capitale. Non c'è possibilità di alcuna solidarietà economica con l'altro, ma, al massimo, solo una convergenza temporanea di interessi.

La visione antagonistica ed utilitarista dell'altro è all'origine di tutte le guerre per e sulle risorse, a partire dalle guerre economiche, commerciali e, oggi, tecnologiche. Per questa ragione, il capitalismo è incapace di pace, di solidarietà, di condivisione, di giustizia sociale.

Coloro che pensano che non vi sia più storia possibile al di fuori del capitalismo, sono convinti che non sarà mai possibile costruire una società fondata sulla pace, la solidarietà, la giustizia sociale. Il riconoscimento dell'esistenza di beni comuni è, invece, alla base di una visione cooperativa e solidale della società e del mondo condannata a vivere in esilio permanente nel regno dell’utopia.

(Pubblicato su Ecplanet 11-09-2006 Fonte: Il Manifesto 27.08-2006)

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