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1. LE VALCHIRIE DI OBAMA - OPERAZIONI CLANDESTINE, TEATRI GEOROBOTICI 
E LE REGOLE CON CUI L’AMERICA UCCIDECome e perché Obama imparò ad amare il drone? E come l’America tornò a uccidere i suoi nemici? Tra Pakistan, Yemen e Somalia, il mondo è un campo di battaglia. 2 . C I N G U E T T I I C O N T R O M I S S I L I - GLI EFFETTI DEI DRONI SULLA GUERRA AL TERRORISMODar la caccia ad al-Qa’ida solo con i droni è come attaccare un alveare ape per ape: puoi uccidere tutte le api ma non distruggerai mai l’alveare. L’inevitabile cammino verso una guerra al terrorismo permanente. È possibile vincere perdendo i cuori della popolazione? 3 . I D R O N I S O G N A N O 
 P E C O R E E L E T T R I C H E ? COME FUNZIONANO I PREDATOR E I REAPERAvete mai pensato di entrare in un drone? Lo abbiamo fatto per voi. Alla scoperta dei segreti del robot alato. Come fa a volare da solo, a osservare indisturbato e a sparare bombe e missili? I limiti di una macchina costruita per sapere troppo. 4 . D R O N E U N C H A I N E D - LA BASE LEGALE E LA lEGITTIMAZIONE INTERNAZIONALE DEGLI ATTACCHI CON I DRONITutti a lezione di diritto internazionale per scoprire se la guerra dei droni rispetta le regole della guerra giusta. E se la giustificazione degli Stati Uniti regge. Tra autodifesa e proporzionalità, come il mondo si prepara a regolare l’invasione dei robot alati. 5 . L E S T R E G H E T R I C O LO R I - IL BIVIO ITALIANO TRA DIECI ANNI D’IMPIEGO VIRTUOSO E I RISCHI DI UN FUTURO ARMATOUn esclusivo viaggio tra i Predator e i Reaper italiani. La storia di dieci anni d’impiego virtuoso in Iraq, Afghanistan e Libia attraverso episodi inediti. Ora che il nostro governo intende armare i droni, l’Italia si trova a un bivio. I rischi del futuro, anche per la salute dei piloti.

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I Edizione

© iMerica 2013Giovanni Collot, Nicolas Lozito,

Federico Petroni, Patricia Ventimigliawww.laguerradeidroni.it

www.imerica.it

[email protected]

Tutti i testi e le infografiche sono stati elaborati e prodotti dagli autori del libro e so-no riproducibili solo previa autorizzazione.

Le mappe interattive sono state create dagli autori del libro attraverso l’uso di Goog-le Maps e CartoDB e anch’esse sono riproducibili solo previa autorizzazione. I dati su cui sono basate sono specificati nella didascalia di ciascuna mappa.

Le fotografie utilizzate sono di dominio pubblico, rilasciate con licenza Creative Com-mons, sotto licenza Open Government License o concesse a scopo informativo. L’au-tore è specificato tra parentesi nella didascalia di ciascun immagine.

Immagine di copertina © Crown 2013.

Con la collaborazione di Limes – Rivista Italiana di Geopolitica

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P R O LO G O 4

1 . LE VALCHIRIE DI OBAMA 2 2OPERAZIONI CLANDESTINE, TEATRI GEOROBOTICI E LE REGOLE CON CUI L’AMERICA UCCIDE

Come e perché Obama imparò ad amare il drone? E come l’America tornò a uccidere i suoi nemici? Tra Pakistan, Yemen e Somalia, il mondo è un campo di battaglia.

2 . C I N G U E T T I I C O N T R O M I S S I L I 5 3GLI EFFETTI DEI DRONI SULLA GUERRA AL TERRORISMO

Dar la caccia ad al-Qa’ida solo con i droni è come attaccare un al-veare ape per ape: puoi uccidere tutte le api ma non distruggerai mai l’alveare. L’inevitabile cammino verso una guerra al terrori-smo permanente. È possibile vincere perdendo i cuori della popola-zione?

3 . I D R O N I S O G N A N O P E C O R E E L E T T R I C H E ? 7 1COME FUNZIONANO I PREDATOR E I REAPER

Avete mai pensato di entrare in un drone? Lo abbiamo fatto per voi. Alla scoperta dei segreti del robot alato. Come fa a volare da solo, a osservare indisturbato e a sparare bombe e missili? I limiti di una macchina costruita per sapere troppo.

4 . D R O N E U N C H A I N E D 9 8LA BASE LEGALE E LA LEGITTIMAZIONE INTERNAZIONALE DEGLI ATTACCHI CON I DRONI

Tutti a lezione di diritto internazionale per scoprire se la guerra dei droni rispetta le regole della guerra giusta. E se la giustificazione degli Stati Uniti regge. Tra autodifesa e proporzionalità, come il mondo si prepara a regolare l’invasione dei robot alati.

INDICE — 2

INDICE

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5 . L E S T R E G H E T R I C O LO R I 1 24IL BIVIO ITALIANO TRA DIECI ANNI D’IMPIEGO VIRTUOSO E I RISCHI DI UN FUTURO ARMATO

Un esclusivo viaggio tra i Predator e i Reaper italiani. La storia di dieci anni d’impiego virtuoso in Iraq, Afghanistan e Libia attraver-so episodi inediti. Ora che il nostro governo intende armare i droni, l’Italia si trova a un bivio. I rischi del futuro, anche per la salute dei piloti.

E P I LO G O 1 5 4

N OT E 1 59

B I B L I O G R A F I A 1 8 0

INDICE — 3

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Daraz Kahn non lo sa ma c’è qualcosa di peggio della povertà. Es-sere il più alto del villaggio.

La scarpinata è stata lunga. Coprire 16 chilometri su un erto pen-dio di montagna con le capre al seguito non è semplice. Men che meno quando tutto intorno è bianco. L’ascesa a quota tremila non è però fine a se stessa. Daraz, Jenhagir Khan e Mir Ahmed hanno una missione: guadagnarsi il pane. Quassù, nei giorni scorsi, si è combattuto. Forse non proprio combattuto. Di certo, si è sparato. E sparato pesante.

Quel 4 febbraio 2002 Daraz e compagni si sono mossi dai villaggi di Lalazha e Palatan in cerca di pezzi di metallo, avanzi di proietti-li, rifiuti di guerra. Dicono che servano a farci le armi, in Pakistan. Ma questo ai tre uomini non importa. Li pagano circa 50 centesi-mi ogni sacco caricato da una capra. Basta anche qualche spiccio-lo, in un Afghanistan martoriato da trent’anni di violenze. Soprat-tutto ora che gli americani hanno iniziato a fare sul serio.

Daraz non può saperlo ma l’ondata di fuoco che ha investito la ca-tena montuosa tra le province di Paktia e Khost era diretta al ricer-cato numero uno del mondo: Osama Bin Laden. L’operazione Ana-conda sui monti di Tora Bora si è appena conclusa, mancando lo sceicco del terrore per pochissimo. Gli americani scandagliano le

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PROLOGO

“le loro tombe affondano nella cenere,

gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.”

~ Salvatore Quasimodo

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possibili vie di fuga e nel gennaio del 2002 ricevono indicazioni dall’intelligence che Bin Laden possa aver trovato rifugio qui, nel feudo di un suo vecchio alleato, Haqqani. Per giorni e per notti i bombardamenti cambiano la morfologia della zona delle caverne di Zhawar Kili. Ancora un nulla di fatto.

Sui picchi innevati sembra essere tornata a regnare una quiete ir-reale. Sembra. Perché Daraz e compagni non sono soli. O almeno non nel senso virtuale del termine. Diverse persone sono presenti senza esserlo fisicamente. Sono lontani, negli Stati Uniti, in un cu-bicolo della Cia. Osservano, studiano, decifrano i comportamenti dei tre uomini. Non ne conoscono l’identità, ma gli atteggiamenti destano sospetti: due di loro sembrano agire con reverenza nei confronti dell’individuo più alto. Molto più alto. E non è quello di Zhawar Kili un vecchio nido di jihadisti? E non è quello Bin La-den, dall’alto del suo metro e novanta? Non si può permettere che scappi. Non dopo averlo perso così tante volte. Non ora che final-mente esiste un’arma per colpirlo quasi all’instante.

La morte, per i tre malcapitati, arriva in trenta secondi. A uccider-li è un missile piovuto dal cielo. Ma non da un aereo normale. Da uno il cui pilota non è a bordo ma a migliaia di chilometri di di-stanza. Un aereo mai provato prima in questa forma. Un aereo de-stinato a cambiare in profondità l’esperienza della guerra.

ESSERCI SENZA ESSERCICosì ha inizio la guerra dei droniI. Daraz e compagni sono le pri-

me vittime mietute da un drone al di fuori di un campo di batta-glia ufficiale. Questi velivoli avevano già debuttato qualche mese prima in Afghanistan, ma solamente come sostegno alle operazio-ni belliche: si parla di un attacco già l’8 novembre 2001, che man-ca uno dei leader dei taliban. In altre parole, facevano parte di una guerra più ampia.

PROLOGO — 5Nota I

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Il 4 febbraio 2002 succede qualcosa di diverso: per la prima vol-ta, un drone compie un’uccisione mirata. Targeted killing, la chia-mano gli americani. Un colpo isolato, contro persone ben precise (o almeno così si pensa), i membri del terrorismo jihadista, i nemi-ci giurati dell’America, i responsabili dell’Undici Settembre e tutti i loro alleati. Quello che uccide Daraz e i suoi due amici è dunque il colpo inaugurale non della guerra al terrorismo ma della caccia ai terroristi. Una caccia che in quanto tale è personalizzata, condot-ta contro singoli individui, senza bisogno di dichiarazioni belliche formali perché tanto, recita il mantra di Washington, “il campo di battaglia è il mondo”.

I droni sono gli strumenti principe di questo conflitto. Sono aerei senza pilota o, meglio, pilotati a distanza, dall’altra parte del mon-do. L’equipaggio sta seduto in una base degli Stati Uniti, combatte i terroristi e la sera va a casa dalla famiglia. Sono spie alate, dotate di occhi, anche abbastanza precisi. Volano a qualche migliaio di metri d’altitudine, permettendo di cogliere molti dettagli di ciò che succede a terra. All’occorrenza, caricano missili e bombe e si trasformano in assassini. Piacciono perché sono veloci: concentra-no nella stessa arma lo strumento per avvistare l’obiettivo e quello per colpirlo.

I droni sono rivoluzionari. Per la prima volta nella storia, si va in guerra senza andarci fisicamente. Senza rischiare la propria vita. Sin dall’invenzione della catapulta, la storia della guerra è stata contrassegnata da tappe che hanno allontanato i combattenti l’uno dall’altro: la freccia, la pallottola, il cannone, fino al missile nuclea-re intercontinentale. Mai però un’arma aveva azzerato il rischio di essere uccisi, nemmeno la testata atomica che prometteva la reci-proca distruzione a chi la impiegasse.

I droni fanno un salto di qualità. Lontani dal mandante, vicini al-la vittima. Rimuovono il guerriero dalla reciprocità della guerra. Ma non le sue ambiguità. L’enorme precisione di quest’arma crea

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l’illusione di poter colpire i propri nemici senza creare - almeno al-l’apparenza - danni ingenti alla popolazione civile. Eppure, sono proprio le presunte chirurgia, economicità e invisibilità del drone a rischiare di renderlo estremamente appetibile e abusato. Una vol-ta, il generale Robert Lee disse: “È un bene che la guerra sia così orribile, perché altrimenti finirebbe per piacerci”. L’uso smodato del drone può eliminare alcune delle inibizioni nell’ordinare un’uc-cisione. Se Piero, invece dell’artiglieria, avesse avuto un drone, ora dormirebbe sepolto in un campo di grano?

PERCHÉ I DRONI?La domanda è legittima. Fra tutte le cose che succedono nel mon-

do, proprio di aerei senza pilota dobbiamo finire a parlare? Alt, un

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Predator A configurazione base. Sarà il drone di riferimento in questo libro (© General Atomics)

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attimo. Non dobbiamo commettere un errore. Si limitassero alla guerra, questi argomenti potrebbero restare confinati nell’orticello dei patiti delle armi. Tuttavia, i droni non sono solo potentissimi aerei da combattimento confinati al mondo militare. Ce n’è di ogni specie e per ogni impiego, anche grandi come modellini. E come modellini possono essere usati.

La tecnologia che sta alla base dei droni da combattimento è la stessa che sta inondando la vita quotidiana. Le autorità di polizia americane chiedono sempre più aerei senza pilota per pattugliare quartieri e inseguire criminali. Nei supermercati, piccoli droni gui-dabili con l’iPad si acquistano con poche centinaia di euro - non sparano, ovvio, ma osservano. E dagli Stati Uniti arriva il primo ca-so di scontro uomo-drone fuori da un campo di battaglia: nel feb-braio 2012, un gruppo di animalisti aveva noleggiato un drone per monitorare l’attività di alcuni cacciatori illegali; cacciatori che, ac-cortisi di essere “pedinati”, hanno aperto il fuoco sul drone, abbat-tendolo.

Il drone si rivela per quello che è in realtà: una protesi dell’essere umano. Porta l’uomo dove non può o non vuole andare. Dove non si vuole mostrare. Consente di essere presenti virtualmente senza esserlo fisicamente. Un avatar metallico. Internet insegna che un’invenzione militare rivoluzionaria ha ottime probabilità di per-vadere anche il mondo civile. E nel nostro caso pone sfide impor-tanti alla privacy. Per dirne una, in America i droni che volano per addestramento o per sorvegliare le basi possono incidentalmente finire per spiare degli individui. Bene, l’Aviazione ha 90 giorni di tempo per stabilire se il materiale possa essere utilizzato o vada di-strutto.

Il boom dei droni è in corso. Silenziosamente. Se non siete d’ac-cordo, contattateci quando vi troverete un drone alla finestra. Noi vi avevamo avvisati.

Perché sia impiegata in modo corretto nel campo civile, una tec-

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nologia va regolata per prima cosa nelle sue iniziali applicazioni militari. I paletti vanno messi sin dai suoi primi impieghi. È pro-prio nel mondo della guerra che i droni pongono gli interrogativi più urgenti. Esiste un impiego virtuoso dei droni? Come li hanno usati gli Stati Uniti? Sguinzagliarli contro i terroristi è una buona strategia o finisce solo per alimentare il problema? Quest’arma ri-spetta il diritto internazionale? Come dovrà utilizzarla in futuro uno Stato che li voglia aggiungere al proprio arsenale?

Tutte domande che La guerra dei droni cerca di affrontare, con-ducendovi alla scoperta di un tipo di particolare di drone, il Preda-tor, assieme al Reaper, la sua evoluzione. Qui ci occupiamo unica-mente di loro sia per evitare di scrivere un’enciclopedia, ma soprat-tutto perché, per quanto la storia degli aerei senza pilota sia quasi centenaria, sono loro i protagonisti del boom dei droni d’inizio mil-lennio. Pionieri senza esserlo.

Il capitolo 1 descrive la guerra dei droni condotta dagli Stati Uniti contro al-Qa’ida e soci. Quali sono i motivi storici e politici per cui a Washington hanno imparato ad amare il drone? Dove infuria la guerra clandestina condotta a suon di attacchi dal cielo? Chi viene colpito e in base a quale processo decisionale?

Il capitolo 2 si chiede invece quali siano gli effetti di questa strate-gia, se l’alto numero di terroristi eliminati sia un successo o se in-vece i risultati non vengano offuscati da un discreto numero di civi-li coinvolti e dalla radicalizzazione della popolazione.

Una volta capito come viene impiegato, il capitolo 3 cambia regi-stro e ci porta dentro il Predator, illustrando come funziona que-sta macchina, le sue potenzialità ma anche i suoi limiti.

Il capitolo 4 affronta il problema della legittimità della guerra dei droni e in quali casi gli attacchi dal cielo violino o rispettino le nor-me del diritto bellico e del diritto umanitario internazionale.

Il capitolo 5 guarda all’Italia: dotato di Predator e Reaper da an-

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ni, il nostro paese sta cercando di armarli. Momento opportuno per stilare un bilancio di come li abbiamo impiegati e dei rischi e delle opportunità di dotarli di missili e bombe.

Potete leggere La guerra dei droni per intero, a pezzi, al contra-rio, in ordine sparso. Abbiamo pensato a tutti: da chi ha sentito parlare dei droni e non ha ancora capito bene di cosa si parli, agli specialisti a caccia di raccomandazioni e riflessioni esclusive. Un consiglio per tutti, prima di tuffarsi nel cuore dell’eBook: partite con calma e leggetevi i paragrafi che seguono. Etimologia e storia: due ottimi ingredienti per digerire quello che verrà.

C O M E L E G G E R L O

Se state leggendo questo eBook con un iPad potrete godere di una serie di funzionalità aggiuntive. L’interattività è la parola chiave. Le immagini sono ingrandibili, le gallerie fotografiche sfogliabili, le citazioni e le note possono essere isolate e le mappe esplorate (per alcune caratteristiche ser-virà una connessione). Quando fate capolino su questi contenuti potete an-che ribaltare il vostro device per una migliore e più grande visualizzazio-ne. Tutto è molto intuitivo, e vi consigliamo di fare un po’ di prove così da capire al meglio tutte le funzionalità. Putroppo queste funzioni sono dispo-nibili solo su iPad, non per nostro élitismo, ma piuttosto perchè è l’unico strumento che le rende possibili. Per chi legge il documento in Pdf da com-puter o altri tablet sarà possibile cliccare su dei link che vi rimanderanno ai contenuti esterni, che vedrete sul vostro browser.

PERCHÉ SI CHIAMANO “DRONI”?Che il drone sia già leggenda lo dimostra almeno un punto: attor-

no all’origine di questo termine gira un gran numero di teorie. Neanche fosse un mostro mitologico. Serve un po’ di chiarezza. In questi casi, conviene sempre aprire il vocabolario. Secondo l’Ox-ford English Dictionary, drone vuol dire “fuco”. Proprio così, il ma-schio dell’ape, drān, drǣn, in inglese antico.

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Risalendo il torrente dell’etimologia, si arriva al termine germani-co “risuonare”. C’è infatti un secondo significato della parola dro-ne: produrre un brusio basso e continuo. Proprio come il ronzio di un’ape. Così, attraverso varie derive semantiche, il termine drone si applica al rumore del traffico, a un discorso o a un tono di voce monotono, fino ad arrivare a un effetto musicale in cui una nota o un accordo sono suonati continuamente in sottofondo. In italiano, questo effetto si chiama bordone e indica anche tutte le parti di strumenti musicali come la cornamusa o il sitar che producono questo effetto. Ascoltatevi il preludio de L’Oro del Reno di Wagner per capire cosa sia un drone, o bordone, in musica.

Escludendo l’opzione che i droni discendano dalle cornamuse, ab-biamo due possibili radici per i nostri aerei senza pilota. Il primo è il maschio dell’ape. Il secondo è il brusio. Ora, molte fonti giornali-stiche riconducono il termine drone alla seconda alternativa. In ef-fetti, il papà del Predator, il drone Amber, era soprannominato “ta-gliaerba” per il discreto rumore che produceva. Inoltre, le persone che vivono sotto un cielo solcato costantemente da droni, come nelle aree tribali del Pakistan, riferiscono di sentire il ronzio di queste macchine.

Eppure, nessun velivolo emette suoni proprio soavi. Perché affib-biare questa particolarità proprio agli aerei pilotati a distanza? For-se il fuco ci può dare una mano. Il maschio dell’ape è un insetto che, a differenza delle operaie, non lavora. Non produce miele. Non ha il pungiglione. Il suo unico compito è fecondare le regine. Un ruolo tutto sommato molto parassitario. Tanto che, sempre se-condo l’Oxford English Dictionary, drone può indicare anche una persona pigra, che vive sfruttando gli altri. La passività potrebbe essere la caratteristica che ha attirato l’attenzione degli inventori dei primi prototipi di aerei senza pilota.

Un piccolo assaggio di storia (trovate bocconi più consistenti nei prossimi paragrafi) corrobora quest’interpretazione. I primi droni

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nascono in ambito militare come strumenti passivi, velivoli da usa-re in addestramento come obiettivi per allenare le difese anti-ae-ree. Negli anni Trenta del secolo scorso, la Gran Bretagna speri-menta, grazie ai successi nel campo del radiocontrollo, il Fairey Queen, da cui nascerà poi nel 1935 il DH.82 Queen Bee. Incuriosi-ti dai progressi dei più avanzati britannici, gli americani si fanno raccontare qualche segreto. E in un documento del 1936 di un gruppo di ricerca della Marina statunitense appare il termine dro-neII. Metafora entomologica che piace e ha successo: un modello impiegato in Vietnam si chiama Firebee o Lightning Bug.

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Una delle prime dimostrazioni del Queen Bee, nel 1936 (© Suas News)

Nota II

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CENT’ANNI E NON MOSTRARLI: STORIA DEL DRONEChiedere l’età ai droni è come farlo con le belle signore: spesso

hanno molti più anni di quanto non dimostrino. L’idea dell’aereo senza pilota è vecchia quasi quanto quella dell’aereo stesso. Alme-no in America. Risalendo l’albero genealogico, si scopre che i dro-ni provengono da due stirpi preciseIII: quella dei missili da crocie-ra e quella degli aeromodelli, diletto radiocomandato delle fami-glie patrizie d’America e Gran Bretagna.

Durante la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti s’inventano la “bomba volante”, progettata dall’ingegnere Charles Kettering. Il ri-sultato, il Kettering Bug, ha le fattezze dell’aeroplano ed è in grado di volare 50 miglia prima di colpire l’obiettivo. Il primo test falli-sce ma la vera sconfitta la “bomba volante” la subisce contro il tem-po: prima ancora che potesse essere impiegata in battaglia, i tede-schi firmano l’armistizio.

L’idea delle bombe alate prosegue e nel corso del secondo conflit-to mondiale gli americani lanciano nel 1944 l’operazione Afrodite, con bombardieri B-24 caricati di un migliaio di chili di esplosivo Torpex, il cui pilota, una volta fatto decollare l’aereo dalle portae-rei, si deve espellere dalla cabina. Il fallimento è totale. A perdere la vita in questo programma è Joseph Kennedy, fratello maggiore del più famoso John Fitzgerald. Il quale inizia la carriera politica partecipando alla convention democratica del 1946, prendendo il posto proprio di Joseph.

Quanto al progenitore civile, l’aeromodello, il protagonista è l’at-tore cinematografico Reginald Denny, che i cinefili più attenti ri-corderanno nel cast di Rebecca di Alfred Hitchcock. Britannico d’origine trapiantato in America, tra un film con Sinatra e uno con la Garbo si dedica alla sua passione, il modellismo. Ed è qui che fa fortuna. Con la seconda guerra mondiale, l’aviazione e la contrae-rea americana devono tenersi in allenamento e cercano bersagli mobili e manovrabili per addestrarsi. Nel 1941 Denny inizia così la

PROLOGO — 13Nota III

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produzione di massa dei suoi OQ-2 Radioplane, a tutti noti come Dennymite. La funzione di obiettivo rimarrà la caratteristica sa-liente dei droni per decenni. Tra gli anni Cinquanta e Settanta, cir-ca 73mila droni fabbricati dall’industria Denny (poi acquisita dalla Northrop) verranno utilizzati da Stati Uniti e altri paesi.

Parentesi da rotocalco. È per ben altra star di Hollywood che il Dennymite passerà alla storia. Il drone ha infatti lanciato, con la sua prima fotografia di sempre, quella che le ha garantito i primi ingaggi, nientemeno che Marilyn Monroe. Nel 1945, l’allora 19en-ne Norma (non ancora Marilyn) lavora in un aeroporto alla manu-tenzione dei droni e un giorno viene notata dal fotografo militare David Conover, incaricato di un servizio sullo sforzo delle donne in guerra e là spedito da un altro personaggio che sarebbe diventa-to discretamente famoso: il capitano Ronald Reagan, futuro qua-rantesimo presidente degli Stati Uniti.

Durante la guerra fredda, la ricerca sui droni viene messa da par-te in favore della missilistica. Comprensibile, visto che è l’arma nu-cleare a dominare gli incubi del mondo. In ogni caso, in questo pe-riodo i droni compiono il primo salto di qualità: da bersagli a rico-

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Reginald Denny e un suo “drone” (© Monash Uni) Marylin Monroe (© David Conover)

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gnitori. Un discreto impulso ai droni da ricognizione viene nel 1960, con l’abbattimento dell’aereo-spia U-2 sui cieli dell’Unione Sovietica: gli Stati Uniti si rendono conto di non potersi permette-re altre crisi come quella scaturita dalla cattura del pilota Francis Gary Powers. Così, appena tre mesi dopo l’incidente parte il pro-gramma “Red Wagon”, per studiare alternative alle missioni di sor-veglianza segrete.

I primi droni ricognitori di massa sono i Firebee, le “api di fuoco” della Ryan che nel 1962 ottiene un finanziamento di 1,1 milioni di dollari. L’ispirazione la Ryan la prende da un prototipo del 1955, il Falconer, dotato di fari e fotocamera, mezz’ora di autonomia e un sistema di pilota automatico molto semplice: traiettoria dritta, vi-rata di 180 gradi e ritorno per la stessa rotta. Aggiungendo sistemi di depistaggio, contromisure e radar, i Firebee diventano i modelli di riferimento. È uno di loro a fotografare, quasi per sbaglio, i so-vietici che installano batterie di missili a Cuba, innescando la famo-sa crisi.

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Un Ryan BQM-34S Firebee della Marina americana, nel 1993. (© US Defence Imagery)

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A molti generali si accende una lampadina: ingrandirli, mandarli più in alto e sostituirli al lavoro dei ricognitori U-2. Il teatro in cui questi droni - o, meglio, la loro modifica, i Lightning Bugs - vengo-no impiegati è il Vietnam: tra 1964 e 1975 eseguono 3455 missioni, senza grossi successi, anche perché ben il 16% dei velivoli si schian-ta.

Un lungo buco temporale tra gli anni Settanta e Ottanta sembra portare i droni sulla strada dell’oblio: le star della sorveglianza so-no i satelliti. Una dimostrazione dell’attenzione a luminaria natali-zia attorno ai droni è il programma Aquila. Varato nel 1979 per progettare un drone da missioni di ricognizione, viene abbandona-to al primo lievitare dei costi (oltre un miliardo di dollari solo per i prototipi), segno che le esigenze strategiche non sono tali da giusti-ficare investimenti tecnologici ancora molto onerosi.

A far capire al mondo che i velivoli senza pilota in battaglia han-no un futuro ci pensa Israele, per necessità esistenziale da sempre all’avanguardia nella tecnologia bellica. Nel 1982 i droni vengono usati nella valle della Beka’a contro le forze aeree siriane: fatti de-collare per intercettare il segnale radar nemico, emettono segnali fasulli per attirare i colpi della contraerea avversaria, permettendo poi a veri jet di attaccare mentre questa si ricarica. Il successo se-gna l’ingresso in una nuova èra: quella dei battlefield drone, i dro-ni da battaglia, utilizzabili nel bel mezzo di uno scontro. Per la pri-ma volta i droni si possono schierare in prima linea, senza interfe-rire o essere distrutti.

Gli americani s’incuriosiscono. Quando il generale statunitense P. X. Kelley vede una registrazione video che ritrae guerriglieri del-l’Olp (secondo alcuni lo stesso Arafat) effettuata da un drone Ma-stiff esclama: “Ne voglio uno!”. Inizia una collaborazione che porta qualche anno più tardi a presentare il Pioneer, ispirato quasi inte-ramente ai progetti israeliani. La Marina lo impiega nella guerra del Golfo del 1991 per segnalare gli obiettivi di terra alle bombe

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lanciate dalle navi. In quel conflitto, l’Aeronautica schiera un solo aereo senza pilota. Non è ancora il tempo dei droni. Ma non man-ca molto al debutto del vero vincitore della selezione naturale dei droni e il protagonista del nostro libro, il Predator. I Balcani non sono lontani.

NASCITA DI UN PREDATOR(E)È il 1984. La Darpa, l’agenzia del Pentagono incaricata della ricer-

ca per nuovi armamenti, assegna un contratto di 40 milioni di dol-lari alla Leading Systems per sviluppare droni e missili da crocie-ra. Tra i ranghi dell’azienda c’è Abraham Karem, ex capo progetti-sta per l’aeronautica israeliana dei primi droni. Negli Stati Uniti, Karem crea due prototipi, Amber e Gnat 750, i genitori del moder-no Predator. Nel frattempo però il Congresso americano taglia i fondi per gli assetti da ricognizione e la Leading Systems fallisce.

Qui entrano in gioco i fratelli Blue, solo per assonanza assimilabi-li ai più famosi bluesmen del cinema. Nel 1986, i due acquistano la General Atomics, una compagnia di ricerca nucleare, dalla Che-vron per 50 milioni di dollari. Nel 1990 vengono a sapere del falli-

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Un “Mastiff” israeliano, drone che ha ispirato gli americani a sviluppare droni più sofisticati (© Bukvoed)

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mento della Leading Systems e la rilevano, assieme ai suoi proget-ti. Tra questi c’è Amber, già proposto senza successo al Pentagono. I Blue non si danno per vinti e decidono di iniziare a produrre lo stesso il drone: qualcuno prima o poi sarà interessato. Quel qualcu-no è la Cia, il cui interesse è determinante nell’ottenere la vittoria della General Atomics nella gara d’appalto del 1994IV.

L’ultimo decennio del secolo è d’altronde un periodo di grande impulso in America. Le aziende ritornano a sfornare prototipi, in campo militare ma anche in campo civile. Alcuni progetti sono in itinere ancora oggi, altri sono stati abbandonati mestamente. La Marina pensa a droni che riescano a decollare senza complicazio-ni, possibilmente da spazi ristretti come le piattaforme delle porta-erei; ed ecco che arriva l’MQ-8 Fire ScoutV. La Nasa vuole una son-da per verificare le condizioni meteo in zone difficilmente raggiun-gibili e ottiene l’AerosondeVI dalla AAI, usato anche in alcune cala-mità naturali, come l’uragano Ophelia nel 2005. La Boeing invece investe alla cieca 100 milioni in quello che doveva essere un drone dalle super prestazioni alimentato a energia solare, il CondorVII, flop che nessuno ha acquistato e ora trovate in un museo califor-niano.

La vincitrice indiscussa è però la General Atomics. Il primo volo della storia di un Predator è datato 3 luglio 1994. Neanche quattro mesi e il velivolo finisce in prova in una base dell’Esercito in Arizo-na. E dopo un anno, la prima missione. Nel 1995, nei Balcani infu-ria lo smembramento della Jugoslavia e gli Stati Uniti decidono di intervenire nel conflitto che ha la Bosnia come epicentro. È luglio quando dall’aeroporto di Gjader, in Albania, il Predator si libra in volo per la sua prima operazione, chiamata Nomad Vigil, sotto l’egida della Cia. I finanziamenti per la missione arrivano per il rot-to della cuffia, grazie all’intervento di un avventato cronico come il deputato Charlie Wilson, lo stesso che negli anni Ottanta aveva fi-nanziato i mujahiddin in Afghanistan contro i sovietici, poi porta-

PROLOGO — 18Nota IV, V, VI, VII

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to sullo schermo da Tom HanksVIII.

Nessuno conosce le reali capacità del Predator: è stato appena in-tegrato il sistema di guida Gps e il velivolo è in grado di trasmette-re solo un’immagine alla volta. Va a scatti, come le telecamere dei supermercati. Compie 15 voli di ricognizione pre- e post-attacco e per l’inverno va in letargo: con temperature molto basse, il rischio di accumulare ghiaccio sulle ali è troppo alto. L’anno seguente ve-de aggiungersi una nuova base per il drone, quella di Taszar, in Un-gheriaIX.

Le prestazioni non sono delle più straordinarie: letteralmente sca-raventato sul campo di battaglia, al Predator manca una dottrina d’impiego che ne sfrutti tutte le potenzialità. La contraerea serba ne fa fuori due, iniettando cautela nel loro uso. Il coordinamento con gli altri aerei risulta complicato e, per di più, con buio o meteo sfavorevole l’occhio del drone è del tutto inutile. Durante Allied

PROLOGO — 19

Aerosonde della AAI (© AAI photos)

GALLERIA Prologo.1 Droni moderni

Nota VIII, IX

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Force, la campagna di bombardamenti della Nato contro il regime di Milosevic del 1999, cade almeno una ventina di PredatorX.

IL BOOM DEI DRONILo scoccare del millennio segna l’inizio del boom dei droni. Un

autentico Big Bang che incrementerà i droni nell’arsenale america-no da 167 (nel 2002) a oltre 7500; che porterà la flotta dei soli Pre-dator da 10 (nel 2001) a quasi 250 costantemente in volo nel 2013; che gonfierà il bilancio del Pentagono da 284 milioni di dollari (nel 2000) a 3,8 miliardi (nel 2013)XI.

Così, nonostante le difficoltà iniziali, Predator e Reaper diventa-no protagonisti assoluti della guerra al terrore statunitense e ogget-to del desiderio di tante semipotenze regionali, a cominciare dal-l’Italia. L’impulso viene dato dall’allineamento di tre particolari stelle:

1. L’UNDICI SETTEMBRE

L’esigenza di dar la caccia a un nemico non in divisa, che si ali-menta del sostegno della popolazione e tra essa si nasconde rende improvvisamente imprescindibile la conoscenza del terreno e l’atti-vità di sorveglianza;

FIGURA Prologo.1 La storia del Predator

PROLOGO — 20Nota X, XI

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2. IL PROGRESSO TECNOLOGICO

I droni conoscono un miglioramento nelle tecnologie di comuni-cazione e di trasmissione dati, nella qualità delle immagini e nel-l’affidabilità;

3. L’INVESTIMENTO POLITICO-BUROCRATICO

I due fattori citati sarebbero stati quantomeno depotenziati se, ancora prima dell’attentato alle Torri Gemelle, gli Stati Uniti non avessero preso la decisione di puntare sensibilmente sull’uso dei robot in guerra. Nel 2000, infatti, il presidente dell’Armed Service Committee del Senato Warner obbliga il Pentagono a far sì che en-tro il 2010 un terzo dei velivoli e un terzo dei veicoli terrestri sia senza pilotaXII. Giustificando questa decisione, Warner indica due motivi. Primo, nelle guerre del futuro, gli Stati Uniti non si potran-no più permettere tanti morti come nelle guerre mondiali o del Vietnam; di qui l’esigenza di puntare sui robot. Secondo, occorre rendere le forze armate specializzate e tecnologicamente all’avan-guardia, un centro d’eccellenza per la scienza e la ricerca, in modo da attirare le menti più giovani e brillanti del paese.

PROLOGO — 21

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Il 23 gennaio 2009 Barack Obama perde la verginità. È mattina nei pressi della cittadina pakistana di Mir Ali. Incastonata in un’ampia valle circondata da alti picchi innevati, Mir Ali si trova nel Waziristan del Nord, una delle famigerate Fata, acronimo dal suono fiabesco che nasconde una verità meno incantata. Lì, il go-verno del Pakistan non arriva: le aree tribali sono amministrate in modo “federale”, eufemismo per dire che non sono proprio ammi-nistrate. La quiete del mattino è rotta da tre esplosioni. Tre missili piovuti dal cielo. Ridotta in macerie è la casa di uomo che i media

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 22

LE VALCHIRIE DI OBAMA1

Operazioni clandestine, teatri georobotici e le regole con cui l’America uccide

Obama in aereo (© White House Photos)

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locali identificano come Khalil. Dentro, quattro o cinque uomini, di origine araba. Probabilmente legati ad al-Qa’ida1.

Passa qualche ora e un centinaio di chilometri a sud-ovest, nel-l’area di Wana, Waziristan del Sud, altre due esplosioni squarcia-no un edificio. Stavolta una decina di persone perde la vita. Ma non si tratta di terroristi, militanti o di gente che offre loro soste-gno: l’abitazione appartiene a un leader locale favorevole al gover-no di Islamabad. I due missili lanciati da un drone americano dai cieli pakistani hanno colpito l’obiettivo sbagliato2.

A Washington non è nemmeno sorta l’alba sul quarto giorno da presidente di Obama che già la Cia dà il battesimo al nuovo inquili-no della Casa Bianca. Il duplice attacco - duplice anche nella natu-ra, l’uno a segno e l’altro errato - è il primo compiuto con i droni sotto l’amministrazione democratica. Il primo di una serie di quasi 400 effettuati in teatri come Pakistan, Yemen e Somalia, paesi con cui gli Stati Uniti non sono formalmente in guerra. Ma dove infu-ria un conflitto clandestino, lontano dai titoli dei quotidiani e dai capitoli più onerosi del budget federale, condotto contro singole persone o gruppi di estremisti che hanno giurato morte all’Ameri-ca. Un conflitto dove i droni sono protagonisti assoluti.

COME L’AMERICA IMPARÒ A UCCIDEREEliminare i terroristi a suon di droni non è un’invenzione di Oba-

ma. Il Predator armato è un figlio dell’Undici Settembre. Più preci-samente, del colossale riorientamento di investimenti, attenzioni, armamenti, uomini e donne da compiti tradizionali alla nuova mis-sione esistenziale degli Stati Uniti: la guerra al terrorismo. Una guerra nella quale l’America riscopre l’assassinio mirato come le-gittimo strumento politico.

Uccidere i nemici non è da sempre l’opzione madre per Washing-ton. Assuefatti da oltre un decennio di caccia ad al-Qa’ida e soci,

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 23Nota 1, 2

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dimentichiamo che per un certo periodo l’omicidio mirato è stato vietato in America e che i servizi segreti si sono rifiutati di immi-schiarsi in queste faccende. Oggi, far fuori Bin Laden e compagnia appare scontato, quasi dovuto. Appena 14 anni fa, mica un’èra geo-logica, la sola opportunità di effettuare simili scorribande era inve-ce la miccia per furibonde liti all’interno dell’amministrazione americana.

Nel 1976, il presidente Gerald Ford stende l’inchiostro su un do-cumento epocale: l’ordine esecutivo 11905 con cui vieta gli assassi-nii mirati a scopi politici. Tra gli anni Cinquanta e Settanta infatti la Cia ha facilitato una serie di colpi di Stato, insurrezioni e omici-di di leader politici scomodi, soprattutto in America Latina. Pro-fonde cicatrici sono rimaste nell’agenzia, consolidando una cultu-ra di aperto rifiuto delle operazioni clandestine3.

Tutti i presidenti, da Bush padre in avanti, comunque trovano il modo di aggirare l’ostacolo del divieto delle uccisioni mirate. Sen-za però mai rovesciare la dottrina, intendendo le eccezioni come ta-li, dimostrando l’adesione al principio in sé. Quando l’amministra-zione Clinton dibatte come rispondere ai primi attentati di Bin La-den, non tutti sono d’accordo con l’idea di eliminarlo, a comincia-re proprio dai vertici della Cia. I favorevoli all’assassinio ci sono ma usano i guanti di seta. “Bisogna essere molto attenti a quanto si espande l’autorizzazione a usare la forza letale. Non penso che l’esperienza di Israele di avere una vasta lista di obiettivi abbia avu-to così successo”, testimonia in privato al Congresso Richard Clar-ke, consigliere per l’antiterrorismo di Clinton e Bush4.

Qui entra in gioco il Predator. Nel settembre 2000 decolla dalla base uzbeka di Karshi-Khanabad e inizia a sorvolare l’Afghanistan. Compie una dozzina di missioni e in una di queste avvista Bin La-den. Ma non può mordere, è armato solo di occhi, svolge voli di ri-cognizione, si limita a inviare immagini alla base. Il modo più velo-ce per colpire lo sceicco del terrore veloce non è: sei ore si impiega-no ad allertare un sottomarino americano nel Mare Arabico, lancia-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 24Nota 3, 4

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re un missile Tomahawk e aspettare che questo copra le migliaia di chilometri che lo separano dell’Afghanistan. Il tutto sperando che nel frattempo Bin Laden resti lì dov’è. Il Predator va armato5.

Nel gennaio 2001, nella semi-città fantasma di Indian Springs, un tiro di schioppo dal deserto del Nevada, iniziano i test. Il 16 feb-braio il drone spara il suo primo colpo e il 21 centra tutti e tre gli obiettivi. In agosto, una riunione dei vice del Consiglio di sicurez-za nazionale americano sancisce la legalità di eliminare Bin Laden con il Predator6. Il programma però si arena, fra le liti di corridoio tra Cia e Aeronautica su chi debba gestirlo e la questione dell’au-mento dei costi: 2 milioni di dollari, un’unghia per il budget della Difesa americano7. Non passerà l’estate che tre aerei diretti verso Torri Gemelle e Pentagono spalancheranno le porte dell’èra di un altro aereo, stavolta senza pilota.

L’EREDITÀ DI BUSHL’Undici Settembre spazza via la questione delle uccisioni mirate.

Assassinare i propri nemici non è solo legittimo ma un imperativo strategico. Il drone fa il suo debutto in battaglia. Due sono i tipi di operazione in cui è impiegato: a supporto della guerra vera e pro-pria, quella convenzionale che la Casa Bianca scatena contro “l’as-se del male”, iniziando dall’Afghanistan dei taliban e dall’Iraq di Saddam; e come protagonista di una guerra clandestina, condotta fuori dai teatri consueti a colpi di raid, isolati ma sistematici.

I due mandati di George W. Bush hanno un impatto su entrambi gli aspetti di questo conflitto bipolare. In questo periodo vengono gettate le basi per la manifestazione clandestina della guerra al ter-rorismo (è durante la presidenza repubblicana che si compiono i primi attacchi in Yemen e in Pakistan) a cui poi Obama attingerà a piene mani. Ma l’eredità di Bush consiste soprattutto nell’aver pre-sidiato a un’espansione vertiginosa dell’uso dei droni nelle opera-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 25Nota 5, 6, 7

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zioni convenzionali. Nei primi due mesi della guerra aerea in Afghanistan iniziata nell’autunno del 2001, i Predator acquisisco-no (cioè indicano a chi li colpirà direttamente) 525 obiettivi e nel primo anno dell’intervento ne fanno fuori in prima persona 1158.

La vera invasione dei droni avviene però quando gli Stati Uniti at-taccano l’Iraq. Già nel 2005, a Baghdad e dintorni, le forze a stelle e strisce contano su 150 velivoli non pilotati. Nel 2010, nell’area di operazione del Central Command (Centcom, il comando america-no responsabile del Medio Oriente) i Predator oltrepassano quota 700 mila ore di combattimento, sganciando più di mille bombe9. Per dare un assaggio della pervasività dei Predator, nell’anno tra giugno 2005 e giugno 2006, compiono 2073 missioni con 242 at-tacchi e 33.833 ore di volo, sorvegliando 18.940 obiettivi (una me-dia di 51 al giorno)10.

Cosa fanno in concreto i droni in guerra per rendersi insostituibi-li? Consentono di distinguere un uomo che ripara buche per stra-da da un insorto che interra un esplosivo. Riconoscono un campo di addestramento di nemici o aiutano le truppe al suolo a rintrac-ciare i fuggitivi in seguito a un attacco. Possono seguire un veicolo sospetto, coglierlo in fallo mentre carica armi e colpirlo senza per-dere l’attimo. Quando bombardano, contengono i danni collatera-li. O quantomeno sono meno distruttivi di un attacco compiuto da un jet normale.

Un esempio per chiarire il punto. Nelle sue memorie11, il Tenente Colonnello Matt Martin racconta come, sorvolando Fallujah in Iraq, fosse in cerca col suo Predator di un bulldozer che aiutava gli insorti a costruire barricate. Prima di lui però lo ha trovato un jet F-18 che ha sganciato una bomba da 250kg, qualche razzo e centi-naia di colpi di mitragliatrice da 20mm. Uccidendo 20 persone e spazzando via un isolato. Un po’ troppo per un bulldozer.

Non è tuttavia questa l’incarnazione del drone in guerra che inte-ressa a Obama e che egli espande vigorosamente. L’attuale presi-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 26Nota 8, 9, 10, 11

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dente sale infatti alla Casa Bianca per chiudere il decennio di guer-re inaugurato da Bush. L’unico campo di battaglia ufficiale in cui sotto Obama i droni ampliano il loro ruolo è l’Afghanistan. Ma non al fianco delle truppe, bensì al posto di esse. Il ritiro dall’Hin-du Kush prosegue a ritmo serrato. Nel 2012 c’erano 34 mila solda-ti in meno rispetto al 2011. A fine 2013, altri 34 mila tornano in America. I droni vanno in senso inverso: rimasto piuttosto costan-te tra 2009 e 2011, il numero degli attacchi coi robot s’impenna nel 2012. Sul totale degli attacchi aerei (che cala da 5409 nel 2011 a 4082 nel 2012), quelli condotti dai droni sale dal 5% al 12,5%. Addirittura, tra novembre 2012 e gennaio 2013, i raid dei droni ammontano a 205, quasi un terzo degli attacchi aerei totali12.

PERCHÉ I DRONI SONO L’ARMA PREFERITA DI OBAMA?

I droni e le guerre clandestine diventano le superstar dell’arsena-le a stelle e strisce perché s’inseriscono perfettamente nella cosid-detta “dottrina Obama” sulla guerra. Meglio, perché contribuisco-no a plasmarla.

Sin dal primo mandato, Obama è determinato a riformulare il modo in cui l’America impiega la forza militare, abbandonando lo stile arrogante di Bush. Sa che gli Stati Uniti non possono permet-tersi altre guerre costose come quelle in Afghanistan e Iraq: oltre ad aver alienato simpatie, hanno prodotto pochi risultati, quando non plateali sconfitte. Tuttavia, Obama vuole rompere con una tra-dizione molto forte tra i democratici, quella dell’estrema cautela nell’uso dello strumento militare, inaugurata da McGovern, il falli-mentare candidato alle presidenziali del 1972, sulla scia del rifiuto del Vietnam13.

Obama non è sedotto né dalla prima personificazione dell’impero americano, quella dello sceriffo, né dalla sua negazione, quella del

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 27Nota 12. 13

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pacifista. L’attuale presidente appartiene infatti alla prima genera-zione a non essere stato profondamente segnato dalla guerra in Vietnam: alla firma degli accordi di Parigi, Obama aveva appena 11 anni. Né ha vissuto in prima linea un altro dei periodi formativi delle visioni di politica estera di molti funzionari governativi e par-lamentari americani: il 1989-2004, il quindicennio tra la caduta del muro di Berlino e l’inizio della guerra civile in Iraq. Un lasso di tempo in cui l’America è la superpotenza solitaria, è senza rivali dopo aver vinto la guerra fredda, si percepisce come “nazione indi-spensabile”. È, in breve, affetta da un delirio di onnipotenza. L’Iraq costituisce un brusco risveglio da questo sonno della ragio-ne che ha determinato una sovra-estensione militare e finanziaria dell’impero.

Obama diventa noto al grande pubblico proprio in opposizione al conflitto a Baghdad e dintorni. E dal 2009, una volta alla Casa Bianca, s’impegna per voltare quella triste pagina. Ma non lo fa sta-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 28

FIGURA 1.1 Progressione attacchi tradizionali/UAV in Afghanistan

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bilendo un generale rifiuto alla guerra. Oltre a ordinare nel primo anno da presidente l’invio di altre 54 mila truppe in Afghanistan,

la vera pietra tombale sulle speranze che i pacifisti ripongono in lui, Obama la pone nel discorso di accettazione del Nobel per la pa-ce.

Il dilemma è esistenziale e affligge tutti i comandanti di una forza armata. A maggior ragione se il tuo budget per la Difesa deve af-frontare tagli di 500 miliardi di dollari in dieci anni perché demo-cratici e repubblicani non riescono a mettersi d’accordo per ridur-re il debito pubblico, salito ben oltre quota 1500 miliardi. Al dub-bio amletico, l’amministrazione Obama ha risposto elaborando una dottrina: ove possibile, l’uso della forza seguirà i criteri di pre-cisione, economicità e scarsa rintracciabilità. E solo in risposta a minacce immediate a interessi vitali e strategici per gli Stati Uni-ti15.

Qui entrano in gioco i droni perché nella guerra contro il terrori-smo firmato al-Qa’ida soddisfano tutti e quattro i principi elenca-ti:

1. PRECISIONE

Gli attacchi condotti dagli aerei senza pilota sono più precisi di uno effettuato da un aereo convenzionale, che impiega spesso mu-nizioni più pesanti e che sorvola una zona senza poter osservare la situazione sul terreno;2. ECONOMICITÀ

Per quanto costose, queste macchine non comporteranno mai una spesa pari allo schieramento di un contingente sul campo, eli-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 29

Gli strumenti della guerra giocano un ruolo nel preservare la pace. Eppure, questa verità deve coesistere con un’altra: per quanto giustificata, la guerra promette tragedia per l’uo-mo. [...] Parte della nostra sfida è riconciliare queste due verità apparentemente irreconcilia-bili: che la guerra è a volte necessaria e che la guerra è a un certo livello espressione della follia umana14

Barack Obama — Oslo, 10 Dicembre 2009

Nota 14, 15

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minando pure il rischio di perdere uomini in combattimento;

3. SCARSA RINTRACCIABILITÀ

I droni permettono di negare la fonte: a volte in Yemen e Paki-stan, la responsabilità dell’attacco viene addossata ai militari loca-li;

4. FLESSIBILITÀ

L’ampio raggio di volo del drone consente di schierarlo, per esem-pio, oggi in Yemen e domani in Somalia, rispondendo all’esigenza di affrontare un nemico fluido e mutevole, nonché a quella di dare priorità solo ai gruppi che minacciano direttamente gli Stati Uniti (motivo per cui ci si è finora astenuti dal colpire i qaidisti in Mali o in Libia).

Esiste tuttavia un ulteriore motivo della popolarità dei droni alla Casa Bianca, meno legato alla storia e più alla politica nuda e cru-da. Alle elezioni del 2008, Obama fa campagna sul rifiuto della tor-tura, marchio d’infamia dell’amministrazione Bush. Durante la transizione però si rende subito conto che qualunque esitazione sui temi scottanti della sicurezza nazionale sarà massacrata dai transfughi dell’amministrazione Bush. Il messaggio è: denuncia pure la tortura, caro Obama, vedremo come te la caverai senza.

Come evitare di mostrarsi debole e allo stesso tempo mantenere le promesse della campagna elettorale? Lo staff del presidente ascolta le opzioni del consulente legale della Cia John Rizzo: cattu-rare e interrogare i terroristi è ancora possibile, basta “esternaliz-zare” le pratiche a paesi terzi. Ma la truppa di Obama non è d’ac-cordo: troppo alto il rischio di critiche dai democratici più liberal. Meglio affidarsi ai droni. I repubblicani non li hanno usati in modo massiccio e non si corre il rischio di essere additati come ere-di di Bush. Né alcun democratico s’è ancora espresso contro que-sta tattica. La morale: se non possiamo catturarli, non resta che uc-ciderli16.

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 30Nota 16

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DOVE OSANO I DRONI: I TEATRI GEOROBOTICIObama passerà alla storia per l’espansione senza precedenti della

guerra clandestina al terrore, di cui i droni sono l’emblema. Se Bush è il primo presidente ad autorizzare le operazioni letali con i velivoli senza pilota, queste dovevano essere solo un supporto di ultima ratio rispetto alle guerre da combattersi in modo più tradi-zionale in Iraq e Afghanistan. Obama, al contrario, ne fa subito un pilastro della propria concezione della guerra. A dirlo sono i dati: mentre Bush in cinque anni autorizza 52 attacchi, sotto Obama ta-le numero si è moltiplicato fino ad arrivare a superare quota 350 nel 2013.

Chiariti i motivi per cui gli Stati Uniti si stanno orientando a un uso meno invasivo e visibile della forza, dove viene condotto que-sto quotidiano conflitto a bassa intensità? Quali sono i palcosceni-ci della guerra dall’alto? I teatri georobotici principali sono tre. In comune hanno un aspetto: non sono formalmente in guerra con gli Stati Uniti, i loro governi - là dove esistono - non hanno inten-zioni ostili nei confronti di Washington, anzi sono considerati al-leati, seppur con gradazioni diverse di inaffidabilità. Eppure, in certe regioni entro i loro confini, trovano rifugio gruppi terroristici contro i quali le autorità ufficiali sono impegnate in duri conflitti civili. E che la potenza a stelle e strisce aiuta a liquidare. Spesso perché questi militanti hanno progettato attentati contro gli Stati Uniti.

Le similitudini finiscono qui. Perché in realtà i tre teatri sono pro-fondamente diversi tra loro per problematiche, situazioni sul terre-no e motivi che hanno spinto l’America a impiegarvi i droni, pur nel contesto di una strategia di lotta al terrorismo globale, dimo-strandone il grado di flessibilità ed efficacia. Ecco perché è utile soffermarsi su ciascuno di essi.

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 31

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1. PAKISTAN: LA PORTA DELL’INFERNO

La guerra dei droni sbarca in Pakistan il 18 giugno 2004. Sono le dieci di una torrida sera a Kari Kot, Waziristan del Sud. In una mo-desta abitazione, Nek Muhammad sta cenando con quattro suoi ospiti, uno di essi accompagnato dai figli di 10 e 16 anni. Il padro-ne di casa non è una persona qualunque: è l’uomo forte della regio-ne. Appena tre mesi prima, Muhammad ha resistito con successo all’offensiva dell’esercito pakistano nel Waziristan, operazione con-dotta per stanare i militanti stranieri legati ad al-Qa’ida a cui lui stesso dava rifugio. Non solo: nell’immaginario collettivo della po-polazione, Muhammad è colui che si è permesso d’infrangere la tregua con i militari pakistani, negoziata peraltro da un posizione di forza. “Sono loro che sono venuti da me”, si vantava con i gior-nalisti. Proprio con uno di loro è al telefono il 17 giugno del 2004 quando, a uno dei suoi uomini, chiede cosa sia quell’uccello metal-lico in cielo. Solo 24 ore più tardi, l’uccello metallico spara un mis-sile sulla sua casa, uccidendo sul colpo tutti i suoi ospiti e trancian-dogli mano e gamba sinistra, ferite per le cui conseguenze morirà sulla via dell’ospedale17.

“Assurdo, del tutto assurdo”. Con i reporter locali, il Major Gene-ral Sultan, portavoce in capo delle forze armate pakistane, è cate-gorico: Muhammad non è stato eliminato con l’assistenza degli Stati Uniti. Tutto il merito è dell’esercito di Islamabad. Falso. Muhammad è la vittima sacrificale di un patto tra la Cia e i milita-ri pakistani, svelato da Mark Mazzetti del New York Times18: noi vi uccidiamo un nemico di Stato ma che per noi non è una priori-tà; in cambio voi ci permettete di far volare i Predator armati sul vostro territorio.

Perché gli Stati Uniti hanno bisogno di espandere la guerra al ter-rorismo al Pakistan, Stato formalmente alleato? Perché le sue re-gioni nord-occidentali ad amministrazione tribale, le Fata, sono di-ventate, per la vicinanza all’Afghanistan e il territorio montagnoso

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 32Nota 17, 18

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e quasi inaccessibile, il rifugio ideale per al-Qa’ida e soci. Afghani-stan e Pakistan formano sempre più un unico teatro di guerra, che verrà battezzato dall’amministrazione Obama “AfPak”: per stabiliz-zare l’Afghanistan e sconfiggere al-Qa’ida, bisogna colpirla in Paki-stan, la base strategica in cui si riorganizza e alimenta l’insurrezio-ne a Kabul e dintorni.

Sin dal suo prologo, la guerra dei droni in Pakistan rivela almeno tre dei suoi nodi più profondi:

1. L’ACCORDO CON ISLAMABAD

I riluttanti militari pakistani si piegano alle richieste di Washing-ton pretendendo che tutti gli attacchi pianificati passino per la lo-ro approvazione e che gli americani condividano informazioni e vi-deo. Inoltre, la Cia non può sorvolare che una porzione minima del paese, solo quella dove si concentra la maggior parte di insorti legati ai taliban o ad al-Qa’ida. Sino al 2009, infatti, solo tre raid colpiscono fuori dalle Fata, tutti nella provincia di Bannu, poco di-

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 33

La mappa mostra l’area del Pakistan in cui al-Qa’ida è maggiormente attiva, ovvero le FATA — Aree Tribali di Amministrazione Federale. Sono evidenziate anche le posizioni delle basi americane in Afghanistan da cui sono operati gli UAV.

(Dati Foreign Affairs)

FIGURA 1.2 Al-Qa’ida in Pakistan

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stante dall’epicentro. In questo periodo, i droni decollano da Jaco-babad e da Shamsi.

2. LA TOTALE OSCURITÀ

Non si deve mai sapere che gli Stati Uniti violano così platealmen-te la sovranità del Pakistan. Al massimo, se scoperti, governo e mi-litari di Islamabad condanneranno in pubblico Washington per l’impiego dei droni. Ma in privato continueranno a supportarlo. Il 23 agosto 2008, il primo ministro Gilani dice all’ambasciatore americano Anne Patterson: “Non mi interessa cosa fanno fintanto che uccidono le persone giuste. Protesteremo all’Assemblea Nazio-nale [dell’Onu] e poi ignoreremo tutto”. Il 12 novembre 2008, toc-ca al presidente Zardari: “Uccidete i leader [di al-Qa’ida]. I danni collaterali preoccupano voi americani. Non me”19.

3. GLI OBIETTIVI NON PRIORITARI

Gli Stati Uniti eliminano militanti ed estremisti che non pongono minacce dirette e immediate. Non solo leader di al-Qa’ida ma faci-litatori (persone che forniscono un supporto) o membri di altri mo-vimenti violenti20. Muhammad ne è un esempio ma pure Baithul-lah Mehsud, capo dei taliban pakistani ucciso il 5 agosto 200921, dimostra come i droni di Washington servano anche al governo di Islamabad per portare avanti le proprie campagne di contro-insur-rezione.

Le aree tribali del Pakistan diventano la principale tenuta di cac-cia dei droni. Un enorme laboratorio della strategia di antiterrori-smo, un inaccessibile buco nero dove in nove anni di guerra clan-destina sono stati compiuti tra i 343 e i 372 attacchi con i droni, di cui fra i 298 e i 320 durante l’amministrazione Obama. Le vittime di questa guerra dall’alto ammonterebbero a una cifra compresa tra 2500 e 3500, a seconda delle fonti consultate, di cui un nume-ro tra 150 e 925 civili22. Stima molto più alta rispetto ai dati ufficia-li dell’amministrazione, che parlano di 60 morti civili. Una diver-

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genza che, come si vedrà, punta dritto al cuore delle operazioni clandestine.

I pakistani iniziano però a giocare un gioco sporco. Alcuni degli obiettivi, infatti, sfuggono sistematicamente ai raid. Cia e militari americani iniziano a pensare che i servizi segreti locali, le Isi, avvi-sino dell’imminenza degli attacchi alcuni militanti. La collaborazio-ne con certi gruppi estremisti non è certo una novità: i taliban afghani sono un prodotto delle Isi, che continuano a fornire loro un certo grado di protezione per garantirsi un braccio armato in grado di influenzare gli eventi in Afghanistan. A metà 2008, Cia e militari riescono a convincere la Casa Bianca a smettere di notifica-re gli attacchi ai pakistani23. D’ora in poi, la guerra dei droni sarà unilaterale.

I rapporti con il governo di Islamabad si fanno sempre più tesi. Le evidenze che sono gli americani a compiere quei misteriosi e le-tali attacchi dal cielo aumentano. Nel marzo 2011, il Major Gene-

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Fonte dati: stime New America Foundation

FIGURA 1.3 Attacchi in Pakistan

Nota 23

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ral Mehmood Ghayur, comandante delle truppe pakistane in Wazi-ristan, ammette: “Molti sono i miti attorno agli attacchi con i Pre-dator statunitensi. [...] Sì, c’è qualche perdita civile in questi attac-chi di precisione, ma i morti sono in maggioranza terroristi, anche stranieri”24. Il Pakistan è costretto a riconoscere l’esistenza di que-ste operazioni. Ma sfrutta la rabbia dell’opinione pubblica per ela-borare una narrazione, alimentata da media compiacenti, secondo cui la colpa dell’instabilità del paese è anche dei droni.

Chiaro l’intento: salvarsi la faccia e usare i velivoli senza pilota co-me carta negoziale con Washington. Che, intanto, è sempre più fru-strata per l’andamento di una guerra, quella in Afghanistan, cui non riesce a imprimere una svolta, anche per colpa del doppiogio-chismo pakistano, alleato da un miliardo di dollari l’anno ma pro-tettore di alcuni dei suoi nemici. L’apice si tocca a novembre 2011, quando sulla frontiera afghana, aerei americani uccidono per erro-re 24 soldati pakistani. Islamabad è costretta a chiudere le basi da cui volano i droni. Anche se il divieto non sancirà la fine degli at-

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Fonte dati: New America Foundation

FIGURA 1.4 I dettagli degli attacchi in Pakistan

Nota 24

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tacchi delle macchine senza pilota.

2. YEMEN: IL VECCHIO-NUOVO EPICENTRO DEL TERRORISMO GLOBALE

Non è tuttavia in Pakistan che è stata posta la prima pietra della guerra dei droni fuori dai campi di battaglia convenzionali. Il 3 no-vembre 2002 a Tampa, Florida, il vicecomandante del Centcom, generale DeLong, riceve una telefonata25. È il direttore della Cia. Hanno avvistato l’obiettivo. DeLong osserva il video che arriva in diretta dall’occhio di un Predator nella provincia di Ma’rib, Ye-men: su quella Land Cruiser c’è un terrorista che militari e servizi segreti cercano da due anni. Si chiama al-Harithi, è uno degli uo-mini chiave di al-Qa’ida nella penisola araba e ha orchestrato l’at-tentato alla nave U.S.S. Cole del 2000 in cui hanno perso la vita 17 marinai americani.

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INTERATTIVO 1.1 Mappa degli attacchi droni in Pakistan

Per aprire la mappa interattiva cliccare sull’immagine. Potete anche girare l’iPad per una migliore visualizzazione. Cliccando sugli indicatori è possibile visualizzare i dettagli di ciascun strike.

Nota 25

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Harithi ha commesso un errore. Ha fatto sentire la sua voce al te-lefono. Nell’auto, uno dei suoi uomini ha usato il cellulare, e la chiamata è stata intercettata da una squadra di Gray Fox, l’unità di spionaggio dell’Esercito americano penetrata in gran segreto in Yemen. Riconosciuta in sottofondo la voce del terrorista, il genera-le DeLong ordina di lanciare il missile dal drone26. Una trentina di secondi dopo, Harithi e cinque suoi uomini tolgono il disturbo.

Se il Pakistan ha un’importanza strategica in quanto stampella su cui si regge la stabilizzazione dell’Afghanistan, con lo Yemen ci si trova molto più vicini alla lotta al terrorismo globale più pura. Le sue statistiche sono molto diverse rispetto a quelle del Pakistan: dopo l’uccisione di Harithi, i droni hanno taciuto fino al 2009. Poi, il numero degli attacchi ha cominciato a salire vertiginosamen-te anche qui, arrivando a quota 42 nel solo 2012.

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INTERATTIVO 1.2 Mappa degli attacchi droni in Yemen

Per aprire la mappa cliccare sull’immagine. Potete anche girare l’iPad per una migliore visualizzazione. Cliccando sugli indicatori è possibile visualizzare i dettagli di ciascun strike, con anche il conteggio delle vittime. (Dati: Long War Journal)

Nota 26

Per vederla su browser clicca qui.

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Perché questo silenzio pluriennale? Il motivo risiede nell’impron-ta americana in Yemen: gli Stati Uniti non rappresentano la forza di guerra principale, qui svolgono un ruolo più spiccatamente di sostegno al governo yemenita nella sua personale lotta ai terrori-sti27. Fin dall’Undici Settembre, il presidente Ali Abdullah Saleh si ripromette di eliminare la presenza dei jihadisti, che in diverse zo-ne del paese trovano rifugio senza incontrare particolari ostacoli, una sfida che s’intreccia con più ampie insurrezioni secessioniste nel sud e nel nord. In questa missione, Saleh riceve fin da subito il sostegno di Washington. Ma il conflitto è all’inizio un affare pretta-mente interno.

La situazione peggiora dal 2009 grazie al concorso di due fattori. Da un lato, nel gennaio di quell’anno, due costole locali di al-Qa’i-da si uniscono per dar vita a una terza più consistente organizza-zione: al-Qa’ida nella Penisola Arabica (Aqap). Dall’altro, lo Ye-men inizia a fornire rifugio a molti terroristi in fuga da Afghani-stan e Pakistan. Così, in breve tempo, il paese diventa uno dei cen-tri nevralgici del jihadismo mondiale.

A chiarire al mondo le intenzioni del nuovo gruppo yemenita, il giorno di Natale del 2009 un ragazzo sudanese di nome Umar Fa-rouk Abdulmutallab tenta di farsi esplodere sul volo Northwest Airline Flight 253, diretto da Amsterdam a Detroit. L’attentato fal-lisce e il terrorista, che aveva nascosto l’esplosivo al plastico nella propria biancheria intima, confessa che il suo ispiratore è un predi-catore che gli statunitensi conoscono bene: Anwar al-Awlaki. Al-Awlaki è un cittadino americano convertito all’islam e trasferitosi in Yemen dopo lo scoppio della guerra al terrore.

Per la prima volta di fronte all’incubo di un nuovo attentato ae-reo, la Casa Bianca si convince a intervenire in modo più massic-cio in Yemen. Già poco prima del Natale 2009, Obama aveva ordi-nato un attacco missilistico nel paese (finito in tragedia, con 14 donne e 21 bambini uccisi). Ma ora ogni titubanza è rimossa. L’am-ministrazione spende in Yemen le sue punte di diamante nella

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guerra al terrore, a cominciare da John Brennan, il consigliere spe-ciale per l’antiterrorismo, che, forte della militanza da agente della Cia nella penisola araba, si occupa personalmente di orchestrare un sostegno più muscolare al governo di Saleh. Assieme al Genera-le Petraeus, all’epoca capo del Centcom e del Vice Ammiraglio McRaven, comandante del Joint Special Operations Command (Jsoc), ossia delle forze speciali statunitensi.

In cosa si traduce l’impegno americano in Yemen? Stando a quan-to annunciato da Brennan nel febbraio 201228, l’obiettivo è dupli-ce: eliminare “due dozzine” di leader qaidisti e addestrare le trup-pe locali, in concerto con Arabia Saudita e altri paesi del Golfo, per combattere la loro contro-insurrezione. Continuando, al contem-po, ad appoggiarsi al governo di San’a’ che sin dal gennaio 2010 ga-rantisce - riporta un cablo svelato da Wikileaks29 - di addossarsi la responsabilità degli attacchi dal cielo. Eppure, la legittimazione del regime si sgretola via via, con le proteste di piazza che nel 2011 portano alle dimissioni del presidente Saleh e distraggono l’eserci-to yemenita dal combattere ribelli e jihadisti.

A differenza del Pakistan, dove Obama eredita un programma im-postato negli anni di Bush, qui l’amministrazione è libera di pro-gettare la propria architettura clandestina. Tra le sabbie e le mon-tagne dello Yemen sono schierate forze paramilitari della Cia e al-cune decine di truppe speciali. Si tratta soprattutto di squadre di addestratori che coordinano le operazioni antiterroristiche, senza prendervi parte, che raccolgono dati, li analizzano e li condividono con i militari yemeniti. E forniscono informazioni vitali agli opera-tori dei droni, che decollano sia dalla base di Camp Lemonnier a Gibuti sia da un aeroporto segreto nel sud dell’Arabia Saudita. A volte vengono impiegati anche aerei convenzionali, missili da cro-ciera lanciati dalle navi americane nel Golfo di Aden o i vetusti veli-voli dell’aviazione yemenita, fattori che rendono difficile identifica-re se un attacco sia stato compiuto da un drone o meno.

Di certo, questi strike non sempre sono precisi. Nel maggio 2010,

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un missile diretto a membri di al-Qa’ida finisce per uccidere il vice-governatore della provincia di Ma’rib, impegnato in una delicata trattativa con gli insorti locali. La sua morte scatena violente rap-presaglie contro il governo centrale e l’oleodotto della regione, giu-gulare energetica così vitale che i danni che subisce costano al po-verissimo Yemen ben 1 miliardo di dollari30.

Ma la controversia maggiore riguarda il caso dell’uccisione di Anwar al-Awlaki, eliminato da un missile lanciato da un drone nel settembre 2011 assieme a un altro militante qaidista che aiutava il predicatore nella pubblicazione della più importante rivista jihadi-sta, Inspire. Il problema è che al-Awlaki era un americano del New Mexico: per la prima volta dalla guerra civile, il governo degli Stati Uniti compie l’assassinio senza processo di un suo cittadino in una situazione di guerra. Vero, sempre in Yemen, nel primo at-tacco coi droni del 2002 aveva trovato la morte un altro qaidista cittadino americano; ma non si trattava dell’obiettivo primario.

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Fonte dati: Stime Long War Journal

FIGURA 1.5 Attacchi in Yemen

Nota 30

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Qui invece l’uccisione è deliberata e pianificata. In America si sca-tena un dibattito feroce, anche perché poche settimane dopo, un altro americano trova la morte per mano di un drone: Abd al-Rah-man, il figlio 16enne di al-Awlaki. Inoltre, non è nota alcuna prova che al-Awlaki fosse un membro di al-Qa’ida, oltre a una semplice simpatia evidente nelle sue prediche sempre più violente nei con-fronti dell’America. Addirittura, il giornalista investigativo Jeremy Scahill avanza l’ipotesi che proprio la crescente avversione di Was-hington verso al-Awlaki lo stesse spingendo tra le braccia di al-Qa’ida31.

La portata di questi precedenti è storica e le controversie hanno raggiunto l’apice a inizio 2013, durante il processo di conferma a direttore della Cia proprio di Brennan: l’opposizione repubblicana in Senato ha condotto un filibuster (una pratica di ostruzione) di 13 ore sul tema della trasparenza del programma dei droni, pro-nunciando una domanda fatidica. Se il presidente può ordinare l’assassinio di un cittadino americano all’estero senza regolare pro-cesso ma appoggiandosi solo sui risultati dell’intelligence, ha do-mandato il senatore Rand Paul, quali sono i limiti al suo potere?

La necessità di una risposta a questo interrogativo passerà sem-pre in secondo piano fintanto che la paura di attentati firmati al-Qa’ida tornerà periodicamente alla ribalta. Ed è proprio lo Yemen a togliere il sonno a Washington. A inizio agosto 2013, 21 missioni diplomatiche statunitensi tra Africa e Medio Oriente sono state chiuse ed evacuate per colpa di un presunto piano dei jihadisti per colpire una o più ambasciate a stelle e strisce. L’intelligence ameri-cana ha intercettato una conversazione tra il capo di al-Qa’ida Za-wahiri e il suo nuovo comandante operativo, Nasir al-Wuhayshi, il principale esponente di Aqap, in cui si impartivano gli ordini per un attentato terroristico. La risposta della Casa Bianca ha avuto i contorni di un’omerica ira funesta: nove volte in due settimane i droni hanno colpito lo Yemen a caccia di Wuhayshi e dei suoi uo-mini.

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 42Nota 31

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3. SOMALIA: LA COLLANA DI PERLE

Dei tre teatri georobotici, la Somalia è quello attorno cui aleggia più mistero. Nel Corno d’Africa si combatte nella penombra una guerra continua, che periodicamente conosce picchi di violenza, co-me dimostrano gli interventi negli anni Novanta di alcuni contin-genti occidentali (compreso quello italiano) o, più di recente, le in-vasioni degli eserciti confinanti, come quello etiope o keniano.

L’obiettivo principale delle operazioni clandestine americane è al-Shaabab, una milizia estremista associata ad al-Qa’ida dal 2002. La sua pericolosità è accentuata dalla critica situazione del-la Somalia: negli anni è riuscita a controllare ampie zone del sud del paese, approfittando del vuoto di potere creato dal collasso del governo, tuttora in fase di lenta ricostruzione. Indebolito ma non sradicato dall’invasione etiope del 2006, dopo il ritiro di Addis Abeba nel 2009 il movimento riprende a crescere. Tanto che nel 2011 il Kenya conduce nel sud un’operazione congiunta con le trup-pe (poco) regolari somale per tamponare l’emorragia di violenza

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Giuramento di John Brennan (© White House Photos)

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degli estremisti.

Al-Shabaab mostra tutta la sua letalità l’11 luglio 2010 con un at-tentato non in Somalia bensì a Kampala, la capitale ugandese, ucci-dendo 74 persone radunate in uno stadio per seguire la finale dei mondiali di calcio. Il massacro convince il Consiglio di sicurezza nazionale americano che il raggio dei terroristi sia in espansione e anche gli scettici, tra cui i consiglieri giuridici di Pentagono e di-partimento di Stato, cedono alle pressioni dei militari per accon-sentire a un’escalation in Somalia32.

La prima operazione offensiva con un drone risale al 2007, nei pressi della cittadina di Ras Kamboni. Ma in quell’occasione il veli-volo senza pilota non spara, bensì indica a un AC-130 americano l’obiettivo contro cui aprire il fuoco: il convoglio che trasporta Aden Hashi Farah, uno dei comandanti jihadisti nella regione33.

Il primo vero attacco di un drone nel Corno d’Africa cade il 25 giu-gno 2011, quando un Predator elimina Ibrahim al-Afghani, uno dei leader di al-Shabaab, nel porto meridionale di Kismayo34. Al-l’attacco sopravvive Bilaal al-Barjawi, l’ideatore dell’attentato di Kampala del 2010. Ma non per molto. Nel gennaio del 2012, un drone fa fuori anche quest’importante figura del jihad africano35.

Sapere con certezza quanti attacchi abbiano compiuto i droni è impossibile, vista l’inaccessibilità per i reporter di un’area di opera-zioni così vasta. Tuttavia, numeri minimi si possono ricavare. E da questi si evince un lento ma costante aumento. Secondo una ricer-ca del Bureau of Investigative Journalism, dal 2007 si sarebbero svolte tra le dieci e le 23 operazioni segrete in Somalia, di cui da tre a dieci con i droni, uccidendo in tutto almeno 112 militanti, ma anche 57 civili36. Il reporter David Axe stima che, tra 2007 e 2012, i droni abbiano volato almeno 25 mila ore, circa 13 al giorno37. Per-centuale minima rispetto all’uso massiccio altrove. Eppure un da-to considerevole, per un teatro in cui la proiezione della forza ame-ricana non entra nemmeno nel dibattito pubblico, a differenza di

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Yemen e Pakistan.

La natura così sfuggente della guerra dei droni in Somalia è dovu-ta al fatto che essa si inserisce in un contesto molto più ampio, che presenta due sfaccettature.

In primo luogo, le operazioni robotiche sono solo una delle mani-festazioni del conflitto clandestino in cui gli Stati Uniti sono impe-gnati. Un conflitto in cui Washington fornisce assistenza a un con-tingente multinazionale sotto l’egida dell’Onu e dell’Unione Africa-na, che porta avanti i combattimenti convenzionali quotidiani, composto soprattutto da truppe di Burundi e Uganda. Nella capita-le Mogadiscio, poi, la Cia è presente con alcuni commando per rac-cogliere informazioni e gestire la rete di contractors (mercena-ri)38. I militari americani non compiono attacchi solo coi droni ma anche con aerei convenzionali e missili da crociera lanciati dal-l’Oceano Indiano da navi schierate, almeno una trentina, alcune delle quali servono anche da basi galleggianti per le forze speciali per compiere raid a terra e detenervi obiettivi catturati39.

In secondo luogo, la Somalia è un tassello, seppure il più vistoso, del mosaico che gli Stati Uniti stanno realizzando in Africa boreale per contenere - o, obiettivo minimo, tenere d’occhio - la minaccia jihadista40. Attorno al Corno d’Africa, Washington costruisce una vera e propria collana di perle fatta di basi, occhi alati e piccole squadre di forze speciali sul terreno. Basta prendere una mappa per rendersene conto. Il perno della presenza militare americana in Africa è Camp Lemonnier, Gibuti, dove sono stanziate più di 2500 truppe e da cui decolla la maggior parte dei droni41. Ma il Pentagono ha negoziato permessi di utilizzare aeroporti (o di rica-vare piste d’atterraggio dal nulla) anche a Etiopia, Kenya, Sud Su-dan, Uganda, Burkina Faso, Mali, Mauritania (cooperazione però interrotta nel 2008). E pure alle Seychelles.

Tra Africa orientale e occidentale, le forze armate a stelle e strisce gestiscono inoltre due missioni di ricognizione: Tusker Sand e

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Creek Sand. Impiegano personale privato per volare aerei dalle sembianze civili ma equipaggiati di raffinati sensori elettro-ottici e infrarossi per raccogliere informazioni sulle attività degli movi-menti estremisti. I dati sono poi smistati a centri d’analisi in Burki-na Faso e in Uganda, dove le informazioni sono condivise con i mi-litari locali o i commando di forze speciali sparsi nel continente42. Uno dei quali è impegnato nella jungla centrafricana nella caccia al signore della guerra Joseph Kony.

Al momento questa collana di perle serve solo a monitorare grup-pi come al-Qa’ida nel Maghreb islamico tra Mali e Libia o come Bo-ko Haram in Nigeria. Ma un salto di qualità del copione dei jihadi-sti può spingere gli Stati Uniti a intervenire più massicciamente sul palcoscenico della guerra al terrore. I teatri georobotici lo inse-gnano.

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Fonte dati: Foreign Affairs, Washington Post, Wired Danger Room.

FIGURA 1.6 Basi americane e gruppi terroristici in Africa e Penisola Araba

Nota 42

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DISPOSITION MATRIX: CHI DECIDE E CHI SPARADipingere un quadro particolareggiato della catena di comando,

intrufolarsi nei corridoi e nelle stanze dove avviene il processo de-cisionale è assai arduo. L’esistenza stessa del programma di ucci-sioni mirate è stata ufficialmente riconosciuta da Obama a inizio 201243; fino ad allora, tutta la questione era coperta da un velo di silenzio e segretezza. Le poche informazioni disponibili sono sgoc-ciolate fuori dalle stanze del potere grazie a fonti anonime o a sto-rie giornalistiche da maneggiare con cautela in quanto potenziali tentativi della Casa Bianca di plasmare l’opinione pubblica sul te-ma.

Il primo aspetto da definire è quello degli attori chiamati a preme-re il grilletto. Un luogo comune vuole i militari essenzialmente as-sorbiti in azioni di supporto alle azioni belliche in Afghanistan, la-

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I meeting di Obama sulla sicurezza nazionale, con Brennan sempre presente (© White House Photos)

GALLERIA 1.1 La sicurezza nazionale sotto l’Amministrazione Obama

Nota 43

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sciando alla Cia le più controverse missioni clandestine. In realtà, entrambi le conducono, spesso nello stesso teatro e a volte collabo-rando tra loro.

Complica ulteriormente l’equazione il fatto che a gestire le missio-ni militari dei droni sia una branca speciale e avvolta dal massimo riserbo, il Joint Special Operation Command (Jsoc). Si tratta del comando che raccoglie le unità d’élite delle forze armate america-ne, quelle addestrate per le operazioni più segrete, letali e pericolo-se. Fondato nel 1980, sul Jsoc si sono accesi i riflettori con la guer-ra al terrorismo. Nelle parole di John Nagl, già consigliere di alcu-ni generali, il Jsoc è diventato “una macchina per uccidere quasi su scala industriale”44. Esso opera sotto l’autorità di “Aqn Exord”, firmato da Bush nel 2003, un atto legale senza controllo del potere legislativo. In quell’ordine esecutivo, il Jsoc era autorizzato a ope-rare con i suoi corpi speciali in più di una dozzina di paesi, tra cui Afghanistan, Yemen, Somalia e, soprattutto, Iraq, il paese dove si è ritagliato la fama maggiore, uccidendo un elevato numero di uo-mini di al-Qa’ida, tra cui al-Zarqawi, leader qaidista a Baghdad. Due dei migliori comandanti americani dell’ultima generazione hanno guidato il Jsoc: Stanley McChrystal e William McRaven.

La collaborazione tra Cia e Jsoc avviene in quasi tutti i teatri, in modi diversi, dalla semplice condivisione di informazioni a opera-zioni congiunte. Un esempio su tutti? L’uccisione di Osama Bin La-den, realizzata grazie a una sinergia tra intelligence della Cia e ca-pacità operativa del Jsoc. Il problema è che, accanto ai vantaggi di efficienza e praticità, ce ne sono altri più ambigui: la cooperazione tra le due agenzie fa sì che molto spesso i ruoli, e le conseguenti at-tribuzioni di responsabilità, tendano a confondersi. Secondo il Washington Post, “molti funzionari pubblici, da membri del Con-gresso a dirigenti della Cia, affermano di fare molto spesso fatica a distinguere il personale dell’intelligence da quello militare”45. A farne le spese è, ancora una volta, la trasparenza: a volte, il Jsoc opera sotto l’autorità legale della Cia per godere della sua segretez-

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za.

Negli ultimi mesi, in America si è scatenato un dibattito sull’op-portunità di togliere il programma dei droni dalle mani della Cia. Il nocciolo della questione sta nell’obbedienza dei militari al titolo 10 del codice statunitense che, a differenza del titolo 50 cui rispon-de la Cia, impone obblighi di rendere conto delle proprie azioni e di tenere informati governo e istituzioni. I servizi segreti non han-no infatti sviluppato un processo di inserimento del rispetto delle leggi nella cultura condivisa all’interno dell’agenzia. Per quanto non sia chiaro quanto questa operazionalizzazione del diritto sia avvenuta nel Jsoc, i militari garantiscono maggiore trasparenza e soprattutto maggior coordinamento con le altre branche della poli-tica estera46.

L’amministrazione Obama pare intenzionata a spostare la respon-sabilità dei droni dalla Cia al Pentagono, anche se questo tentativo sembra più guidato da esigenze d’immagine. O, piuttosto, da un al-tro dibattito, stavolta meno pubblicizzato: quello se Langley debba o meno tornare alla missione primaria, ossia spiare e non uccide-re. La militarizzazione della Cia nella più che decennale guerra al terrorismo sta trovando i suoi fieri oppositori sia in ex funzionari sia in membri importanti dell’esecutivo. A cominciare dall’attuale segretario alla Difesa Hagel che nel 2012 ha presieduto un rappor-to diretto alla Casa Bianca in cui si chiedeva che i servizi segreti pensassero meno ad al-Qa’ida e più a monitorare minacce strategi-che come il programma nucleare iraniano, l’attivismo della Cina o gli sviluppi della guerra civile in Siria47.

Il secondo aspetto della questione decisionale introno ai droni in-veste il metodo. Come si arriva a ordinare l’uccisione di un terrori-sta? La maggior parte degli obiettivi viene selezionata da speciali elenchi: le famose kill list.

Il processo di elaborazione di queste liste segue diverse fasi. Ana-listi provenienti da Cia, dipartimento di Stato, forze speciali, ecce-

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tera si radunano al National Counter-Terrorism Center (Nctc). Una volta esaminate le minacce poste dai vari jihadisti, il gruppo invia l’elenco, non ancora operativo, al Consiglio di sicurezza na-zionale, dove una riunione tra i vicedirettori di Fbi e Cia, più alti funzionari di dipartimento di Stato e della Difesa, decide le due dozzine di terroristi da sottoporre al presidente per l’inserimento ufficiale nella kill list. Ogni trenta o novanta giorni si ricomincia, rivedendo la gravità della minaccia posta dagli obiettivi ed elimi-nando o aggiungendo nomi alla lista. Obama approva ogni attacco fuori dalle zone di guerra aperta (ossia Somalia e Yemen) mentre solo un terzo di quelli in Pakistan (dove l’autorità spetta invece al direttore della Cia, guida del programma)48.

FIGURA 1.7 Mappa del potere decisionale

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 50Nota 48

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In questa selezione, fino a poco tempo fa la parte del leone la face-va John Brennan, il consigliere del presidente per l’anti-terrori-smo ora passato a dirigere la Cia: era lui a presiedere le riunioni dove si approvavano i nomi delle kill list ed era sempre lui a porta-re le opzioni nello studio ovale, dibattendo con il presidente l’op-portunità di eseguire l’attacco o meno. Un potere esclusivo che spesso ha suscitato timori, all’interno dell’esecutivo, che l’ufficio di Brennan diventasse “un gabinetto di guerra, facendo dipendere il destino dei militanti di al-Qa’ida da un ristretto numero di fun-zionari”. Altri membri dell’amministrazione lo descrivono invece come la “bussola morale” della Casa Bianca, perennemente impe-gnato in una lotta con i falchi tra i militari e la Cia49.

Di certo, Brennan è il custode delle regole con cui l’America ucci-de. Nel corso degli ultimi due anni, il processo decisionale ha subi-to un certo grado di istituzionalizzazione. Su spinta di Brennan, l’architettura dell’anti-terrorismo ha come perno la cosiddetta Di-sposition Matrix50. Si tratta di un database unico che raccoglie e schematizza non solo i nomi dei terroristi e i loro dati biografici ma anche altre due voci cruciali:

TUTTI I MODI PER NEUTRALIZZARE LA MINACCIA.

Si va dall’attacco coi droni al semplice arresto, dall’invio di forze speciali alla chiamata a servizi segreti amici. Fattore ancora più im-portante: la matrice mappa le opzioni a disposizione degli Stati Uniti, cosicché se l’obiettivo si sposta, la risposta viene adeguata velocemente.

I CRITERI PER ORDINARE UN ATTACCO.

Per quanto siano tenuti segreti, alcune rivelazioni alla stampa hanno provato a fare luce: l’immediatezza della minaccia, la perico-losità nei confronti di interessi strategici per il paese, la certezza quasi assoluta di non produrre vittime civili, l’impossibilità di pro-cedere con la cattura. Su quest’ultimo punto, Brennan ha chiarito un importante fattore nella decisione dell’impiego dei droni: gli Stati Uniti cercheranno la collaborazione del governo locale ma, se

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questo si rivelasse incapace o non intenzionato ad agire, l’ammini-strazione procederà in modo unilaterale.

L’obiettivo della Disposition Matrix è duplice. Primo, massimizza-re l’efficacia della guerra al terrorismo in un momento in cui essa ha raggiunto un’estensione rilevante, razionalizzando e semplifi-cando le procedure. Secondo, una mossa di marketing: mostrarsi chirurgici ed efficaci agli occhi di un’opinione pubblica interna e internazionale sempre più contrariate per un uso percepito come disinvolto dei droni in mancanza di criteri precisi.

Il significato più profondo della Disposition Matrix è però un al-tro. Il nucleo, l’eredità della politica dei droni di Obama è la nor-malizzazione delle operazioni clandestine. L’architettura di anti-terrorismo progettata dalla sua amministrazione implica che le de-cisioni saranno, d’ora in poi, controllate da procedure prestabilite, sganciate dalla contingenza e dall’emergenza. Diventando, appun-to, la normalità. Come ha ammesso un ex funzionario dell’ammini-strazione al Washington Post 51:

Così facendo, la Casa Bianca lancia un messaggio: la guerra al ter-rorismo non è finita, al massimo fa la muta. Diventa un atto buro-cratico, un rituale, un istituto, al pari del dipartimento della Dife-sa. Da guerra al terrorismo senza quartiere a operazione di polizia di quartiere.

Non intendevamo creare liste senza fine. Questo apparato di anti-terrorismo è ancora utile. Ma la domanda è: quando smetterà di esserlo? Non lo so.

LE VALCHIRIE DI OBAMA — 52

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«Caro Obama, quando un missile di un drone americano uccide un bambino in Yemen, il padre ti farà guerra, garantito.

Niente a che vedere con al-Qa’ida»

L’accorato tweet51 di un avvocato yemenita dà la cifra della com-plessità della guerra dei droni.

L’idea di perseguire i terroristi a suon di attacchi dal cielo ha il suo fascino, soprattutto per chi fa i conti con una caccia ai qaidisti

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 53

Gli effetti dei droni sulla guerra al terrorismo

CINGUETTII CONTRO MISSILI

2

Un Predator che sorvola l’Afghanistan (© Todd Huffman)

Nota 51

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che dura da più di dieci anni e con un’opinione pubblica presso cui la legittimazione dell’Undici Settembre si fa sempre più flebile.

Eppure, se davvero stiamo assistendo all’evoluzione della guerra al terrorismo verso una forma di operazione di polizia globale, la domanda fatidica bisogna porsela. Quanto è efficace la guerra tele-comandata? I conflitti clandestini a bassa intensità (soprattutto mediatica e fiscale) in teatri georobotici lontani migliaia di chilo-metri da chi li combatte sono davvero l’opzione migliore? Che ef-fetti hanno i droni sulla popolazione civile, sulle sue percezioni? Quanto sono la soluzione e quanto invece parte del problema?

L’espansione smisurata degli attacchi con i droni impone un’ana-lisi costi-benefici dell’attuale strategia degli Stati Uniti. Per arriva-re a chiedersi se questa costituisca davvero una strategia e perché Obama continui a farne la propria stella polare.

GLI SCALPI DI AL-QA’IDA“Sapete, se un Predator viene colpito e precipita, il pilota va a ca-

sa e scopa con la moglie. Non c’è nessuna questione di prigionieri di guerra”52. Le parole di Richard Clarke, consigliere per l’anti-ter-rorismo di Clinton prima e Bush poi, riassumono la popolarità dei droni presso i decisioni americani.

Il primo vantaggio oggettivo di questi velivoli sta nelle risorse. L’aereo senza pilota permette di raggiungere l’obiettivo massimo (l’eliminazione dei terroristi) con il minimo sforzo in termini di tempo e vite umane. Il drone è in grado di offrire una mole senza precedenti di informazioni, facilitando di molto il lavoro dell’intel-ligence e permettendo così di identificare l’obiettivo con una ridot-ta (seppur a volte fatale) approssimazione. Inoltre, la vicinanza, an-zi, la coincidenza tra occhio e arma consente di concentrare nello stesso sistema il cosiddetto percorso “find-fix-finish”: il drone tro-va (find) l’obiettivo, si assicura che tutto sia in regola sul campo e

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 54Nota 52

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nella catena di comando (fix) e colpisce (finish).

In secondo luogo, il velivolo telecomandato azzera il rischio di perdite per l’attaccante. Per quanto macchine dall’affidabilità non superba, i guasti tecnici che hanno fatto precipitare i droni non hanno mai portato alla morte di personale americano e nemmeno creato la necessità di organizzare pericolose missioni di salvatag-gio o delicate trattative con i nemici. Meglio lasciare gli iraniani ad arrovellarsi su un robot prigioniero (è capitato a fine 2011) che ne-goziare il rilascio di ostaggi umani per 445 giorni (è capitato anche questo, nel 1979).

L’efficienza del drone è confermata da un terzo dato: quello degli scalpi dei terroristi. Stando ai dati delle operazioni in Pakistan rac-colti dalla New America Foundation53, dalla prima operazione nel 2004, gli aerei senza pilota hanno mietuto le vite di ben 55 militan-ti di alto livello o addirittura leader di al-Qa’ida o di gruppi affilia-ti. Tra le vittime più celebri: Atiyah Abd al-Rahman, ucciso il 22 agosto 2011, e Abu Yahya al-Libi, nel giugno 2012, entrambi al-

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 55

FIGURA 2.1 3F: Find, Fix, Finish

Nota 53

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l’epoca numeri due di al-Qa’ida; Badruddin Haqqani e Janbaz Sa-dran, due alti comandanti della rete Haqqani, un gruppo affiliato ai qaidisti e inserito dagli Stati Uniti nella lista ufficiale dei gruppi terroristici nel settembre 2012 (significativamente dopo l’elimina-zione di entrambi i leader, rispettivamente nell’agosto 2012 e nel luglio 2011); Badar Mansoor, ritenuto il più anziano tra i qaidisti in Pakistan, colpito nel febbraio 2012; Sheikh Al Fateh, ucciso nel settembre 2010, epoca in cui era il capo della ramificazione locale di al-Qa’ida in Afghanistan e Pakistan.

Non solo il drone fa bene il suo lavoro, ma lo fa in modo pulito. Politicamente, fino a oggi si è rivelato uno strumento unico, con-sentendo ai decisori di fregiarsi dell’uccisione dei nemici senza ri-schiare perdite nel proprio contingente. Una guerra senza gli effet-ti negativi della guerra, almeno per chi la fa. A livello d’immagine, imbattibile.

GLI EFFETTI SULLA POPOLAZIONE CIVILEIngolositi dall’efficienza numerica promessa dai droni, gli Stati

Uniti espandono gli assassinii con i robot per colpire non solo i lea-der dei terroristi ma anche obiettivi non prioritari come militanti di basso livello. Un simile allargamento non comporta però un sal-to di qualità strategico. E soprattutto non elimina, anzi aumenta, i pericoli di uccidere o danneggiare civili che ogni bombardamento porta con sé. Con il risultato di alienarsi le simpatie della popola-zione locale. Un pesante punto in meno nella guerra al terrorismo. Per cogliere la portata di queste affermazioni, conviene sviscerarle una per una.

In primo luogo, che i droni attacchino di proposito non solo i ver-tici del terrorismo ma anche la semplice manodopera jihadista lo dimostrano i numeri. Secondo la New American Foundation, sa-

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rebbero tra i 1980 e i 3980 i morti tra i semplici militanti in Paki-stan e Yemen. Lo scorso aprile, il giornalista Jonathan Landay ha avuto accesso a documenti segreti della Cia che ammettono come tra gli obiettivi non ci siano solo i vertici dell’organizzazione terro-ristica54.

“C’è una chiara discrepanza tra chi l’amministrazione Obama di-ce di colpire e chi viene effettivamente ucciso”, nota Micah Zenko, autore di un rapporto sulla necessità di riformare le politiche di an-ti-terrorismo americane55. L’accusa alla Casa Bianca è di elaborare criteri che poi vengono disattesi, come quello di necessità e urgen-za, definito dal presidente in persona in un’intervista alla Cnn il 5 settembre 2012: “Deve trattarsi di una minaccia seria e non frutto di speculazione. Deve essere una situazione in cui non possiamo catturare il sospetto prima che porti a termine un qualche piano terroristico contro di noi”56. O come quelli per cui Washington col-pirebbe “leader che stanno pianificando attentati” e “individui co-involti in qualche piano operativo contro gli Stati Uniti”57.

La pratica di colpire obiettivi non prioritari è aumentata a partire dal primo mandato di Obama. Durante la presidenza Bush, la mag-gior parte degli attacchi era costituita dai cosiddetti personality strike: gli obiettivi sono individui noti e a un alto livello gerarchi-co. Dall’elezione di Obama, invece, il programma si è progressiva-mente esteso verso un secondo tipo di attacco, definito signature: sono considerati obiettivi legittimi gli individui la cui identità non è nota ma che hanno un certo comportamento associato all’attività terroristica. Non sono però mai state rese pubbliche le caratteristi-che che permettono di riconoscere in un individuo un terrorista. I signature strike sarebbero responsabili, secondo alcune fonti mili-tari, di almeno il doppio delle vittime rispetto ai personality. Smentita quasi automatica del criterio secondo cui a far piovere i missili sulle teste dei jihadisti è la pianificazione di un attentato contro gli Stati Uniti. Dettaglio difficilmente desumibile dall’osser-vazione di un semplice “schema di vita”.

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 57Nota 54, 55, 56, 57

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Oltre a fornire un appiglio formidabile ai complottisti per cui al-Qa’ida è solo una scusa per soddisfare il militarismo americano, colpire i militanti di basso livello in modo così massiccio reca con sé un altro rischio. Quello di non esaurire mai la lista degli obietti-vi. La metafora più efficace l’ha fornita l’ex analista della Cia Bruce Riedel: “Il drone è come un tagliaerba. Devi tagliare di continuo. Il momento in cui ti fermi, l’erba torna a crescere”58.

Il secondo punto oscuro del programma dei droni scaturisce dal-l’impossibilità di eliminare errori e danni collaterali. Che finiscono per alienare l’America alla popolazione locale, creando più nemici di quanti non ne vengano eliminati. Per quanto l’amministrazione rassicuri che gli attacchi sono autorizzati solo con la ragionevole certezza che innocenti non verranno colpiti; per quanto in qualche episodio attacchi della Cia siano stati sospesi perché in zone densa-mente abitate, gli errori non sono rari. Soprattutto nei signature strike, dove a essere presi di mira sono comportamenti ritenuti so-spetti. Ma dall’occhio di un drone non è sempre facile distinguere un militante da una persona comune.

Un triste promemoria di questa difficoltà lo fornisce un inciden-te avvenuto nell’agosto 2012 in Yemen. Nel villaggio di Khasha-mir, il rispettato religioso Salem Ahmed bin Ali Jaber tiene un di-scorso denunciando al-Qa’ida. Due giorni dopo, tre membri del gruppo terroristico incontrano Jaber per chiedere spiegazioni. Non fanno in tempo. Un missile partito da un drone uccide tutti e quattro gli uomini59. Casi come questo dimostrano che la chirurgia robotica può non solo sbagliare ma anche rimuovere gli stessi orga-ni in grado di sradicare al-Qa’ida, forse più efficacemente.

L’esatto numero dei morti civili è quasi impossibile da calcolare, data la cautela dell’amministrazione nell’affrontare questo argo-mento. Brennan è arrivato a sostenere che nel 2011 in Pakistan “non c’è stata una sola morte collaterale grazie all’eccezionale pre-cisione delle capacità che siamo stati in grado di sviluppare”60. Il presidente della commissione dell’Intelligence del Senato, Dianne

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 58Nota 58, 59, 60

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Feinstein, ha affermato che il numero delle vittime civili derivati ogni anno dalle operazioni clandestine è “tipicamente a una sola cifra”61. Affermazioni che tuttavia sollevano dubbi sulla loro one-stà. Secondo un’autorevole fonte, il calcolo dell’amministrazione potrebbe basarsi su un criterio alquanto discutibile: conteggiare come militanti tutti i maschi in età da combattimento presenti nei dintorni dell’attacco62. Presunzione di colpevolezza o, meglio, col-pevolezza per associazione.

Sarebbe sbagliato limitare la questione ai morti civili: gli effetti dei droni vanno misurati nel più ampio contesto delle vittime. La precisazione non è un virtuosismo. Un rapporto della Columbia University63 attira l’attenzione sugli effetti negativi degli attacchi con i droni sulla popolazione diversi dal decesso:

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Fonte: Stime (massime) New American Foundation

FIGURA 2.2 Conteggio vittime civili in Pakistan

Chi sopravvive a un attacco spesso ha subito delle ferite incapacitanti, o addirittura del-le amputazioni, che possono annullare il potenziale produttivo di un individuo e, di conseguen-za, rovinare una famiglia.

Nota 61, 62, 63

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I terroristi possono accusare i civili di essere spie. In Pakistan, il gruppo dei Khorasan Mujaheedin ha lanciato diverse rappresaglie contro le case di chi è sospettato di passare informazioni agli ame-ricani, compiendo persino delle torture (del tutto inutili, essendo la spia tra le nuvole e soprattutto un robot).

I civili possono perdere le loro proprietà. O direttamente, perché l’abitazione è stata distrutta dai missili. O indirettamente, perché la pericolosità della zona costringe le famiglie a trasferirsi, ingros-sando le fila dei rifugiati, che nelle aree instabili dello Yemen am-montano già a più di 100 mila.

La popolazione può subire danni psicologici. Nelle zone sorvolate 24 ore su 24, i droni instillano per esempio la paura di mandare i figli a scuola o di radunarsi all’aperto. Nelle parole di una vittima pakistana: “Abbiamo il terrore che un altro drone ci colpisca. I miei genitori anziani vivono in uno stato di allerta. Siamo depres-si, ansiosi e pensiamo continuamente ai nostri parenti morti. Alle volte mi fa venire voglia di andarmene da qui”. Non c’è un nemico riconoscibile, non un volto umano cui addossare la colpa. Solo un continuo ronzio, freddo e metallico. A ricordare che la morte, dal cielo, può sempre arrivare. Magari per un banale comportamento quotidiano sufficiente a cadere nella categoria del signature strike.

Più in generale, gli attacchi con i droni possono indebolire il tes-suto sociale e la capacità della società civile di sviluppare i propri anticorpi contro i movimenti estremisti64. E, magari, inimicare il governo agli occhi della propria popolazione: nel maggio 2012, per esempio, due cause sono state intentate contro lo Stato del Paki-stan dalle vittime di un attacco65. Il circolo è reso ancor più vizioso dall’assenza di una procedura americana per risarcire i danni cau-sati dai robot: mentre pratiche simili esistono in teatri di guerra convenzionale, non se ne ha traccia in luoghi come Pakistan, Ye-men e Somalia. Né è noto se le branche deputate agli attacchi (Cia e Jsoc) obbediscano alle stesse regole di mitigazione dell’impatto

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 60Nota 64, 65

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sui civili dell’Esercito, dotato di un apposito manuale66.

Ma è il terzo punto il vero pericolo strategico per Washington: questi attacchi, per quanto episodici, possono gettare benzina sul-le braci dell’antiamericanismo. Un dettaglio non da poco. L’Ameri-ca non vincerà la guerra contro il jihadismo quando riuscirà a far fuori l’ultimo qaidista: si troverà sempre un gruppo di fanatici in grado di compiere un attentato nel cuore dell’impero con la mini-ma spesa. Gli Stati Uniti potranno dirsi incamminati verso un par-ziale successo se riusciranno in certi paesi a rimuovere quell’odio di cui si nutrono gruppi come al-Qa’ida. Certo, eliminare la compo-nente muscolare non si può: da sola, la guerra delle idee basta a soddisfare qualche analista da social network, forse nemmeno. A sua volta però la guerra dei droni è tra le cause di un’immagine ne-gativa degli Stati Uniti.

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 61

Fonte dati: Pew Research Center 2012, 2013

FIGURA 2.3 Approvazione degli attacchi droni nel 2012 e nel 2013

Nota 66

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Sulla questione delle percezioni della popolazione locale occorre tuttavia fare alcune precisazioni. Non dappertutto i droni hanno un impatto così devastante sulle opinioni della gente. Secondo un sondaggio67 condotto nelle Fata del Pakistan nel 2009 (comunque non aggiornato alla massima escalation), per il 52% degli intervi-stati gli attacchi sono precisi, per il 58% non causano risentimento nei confronti dell’America ma - sostiene il 60% - dovrebbe essere l’esercito pakistano a condurli. Segni di un odio diretto più verso i militanti che verso i droni, confermati dalla “dichiarazione di Pes-hawar” con cui alcuni politici locali hanno chiesto di proseguire gli attacchi proprio perché stavano indebolendo gli estremisti68.

Addirittura, il ricercatore Bryan Glyn Williams ha notato come la maggioranza degli oppositori ai droni in Pakistan non viva sotto i missili69. Iato da ricondurre all’influenza dei media di Islamabad che soffiano sul fuoco dell’anti-americanismo veicolando informa-zioni poco accurate, spesso imbeccati da governo e militari per so-billare la cittadinanza contro gli Stati Uniti, cui poi strappare con-cessioni. Se ne ricava un insegnamento: non è tanto il drone a dan-neggiare l’immagine americana, quanto il fatto che la scarsa tra-sparenza con cui viene usato fornisca un appiglio all’altrui propa-ganda.

C’è di più. Dalle ricerche in Yemen di Christopher Swift, professo-re a Georgetown, emerge che la popolazione è favorevole all’uso dei droni per sconfiggere le insurrezioni in cui s’annida al-Qa’ida (opinioni simili si trovano in Somalia). Semmai, l’opposizione monta quando, con l’espansione degli attacchi, cresce anche il nu-mero di vittime civili. Tragedie che colpiscono lo spirito nazionale degli yemeniti, cui i droni “ricordano che non siamo in grado di ri-solvere da soli i nostri problemi”, come confessa una fonte a Swift70. Il drone attira meno critiche quando non è l’unico dardo nella faretra americana. Traduzione: lo Yemen deve percepire Was-hington come alleato serio e impegnato nel lungo termine per aiu-tarlo a superare la povertà e l’instabilità. Una campagna di attac-

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 62Nota 67, 68, 69, 70

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chi dal cielo mirata a decapitare qualche jihadista non basta da so-la a curare questi mali.

IL DRONE SI MORDE LA CODAUn giorno, tornando dal Pakistan, l’allora capo degli Stati Maggio-

ri riuniti Mike Mullen riferisce alla Casa Bianca un quesito posto-gli da un generale di Islamabad: com’è possibile che dopo anni e anni di uccisioni mirate, gli americani siano ancora alle prese con kill list e numeri due, tre, quattro da eliminare?71 La fatidica do-manda, assieme agli effetti negativi sulle percezioni dei civili, dà il senso di come la guerra dei droni non sia sufficiente ad assestare il colpo da k.o. ad al-Qa’ida e di come addirittura possa finire per raf-forzarla.

Alla base di questo apparente paradosso c’è un processo analizza-to per primo da David Kilcullen72. Ex militare australiano, già con-

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L’ammiraglio Mike Mullen durante una lezione a ufficiali pakistani (© US Department of Defense)

Nota 71, 72

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sigliere del Generale Petraeus in Iraq, Kilcullen ha visto la minac-cia di al-Qa’ida nascere o espandersi sotto i suoi occhi in Afghani-stan e Pakistan, in Indonesia e Thailandia. Teatri in cui ha assisti-to alle dinamiche con cui i jihadisti si radicano sul territorio. Dan-do vita a un ciclo composto da diverse fasi.

Inizialmente, al-Qa’ida decide di stanziarsi in una comunità. Ma è un corpo estraneo e per radicarsi è costretto a ricorrere alla for-za, alla minaccia o più blandamente a una paziente strategia di al-leanze e matrimoni. In seguito, i terroristi esportano la violenza al di fuori della comunità, per attirare ampia attenzione e costringe-re il governo centrale o una potenza straniera a intervenire per li-berare l’area dalla minaccia estremista. Più l’intervento è massic-cio e intrusivo, più la comunità locale smette di considerare al-Qa’ida come soggetto esterno: nel frattempo infatti è arrivato qual-cuno di ancor più estraneo. Evento che permette ai terroristi di di-pingersi come difensori della popolazione locale e di mescolarsi a essa in modo indistinguibile dalla potenza che interviene. In que-sto modo, la comunità rigetta l’aiuto esterno. Anche perché i jihadi-sti hanno cominciato a fornire servizi, a far rispettare la legge, ad aiutare a cacciare il nemico comune. Calcificando così un’alleanza. A quel punto, la guerra è persa.

Kilcullen applica questo ragionamento anche ai droni.

L’idea è che i droni finiscano per rimpolpare i ranghi di al-Qa’ida e soci. Di certo, offrono un’opportunità di propaganda imperdibile per i jihadisti: in Yemen, per esempio, i qaidisti hanno sparso la vo-ce che i robot alati scattino foto alle donne, una scusa come un’al-

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“Immaginate che dei ladri si barrichino in un quartiere residenziale. Se la polizia comin-ciasse a bombardare tutte le case del quartiere dall’alto, forse questo convincerebbe gli abi-tanti a ribellarsi ai ladri? O forse, più probabilmente, finirebbe per spingere l’intera popolazio-ne contro la polizia? E se i loro vicini volessero effettivamente consegnare i ladri alla legge, come potrebbero farlo in una tale situazione?”73.

David Kilcullen

Nota 73

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tra per influire sulle pratiche sociali della comunità locale74.

Secondo alcuni esperti, la costola di al-Qa’ida nella penisola ara-ba è passata da poche centinaia di militanti a superare il migliaio in un periodo che coincide con l’escalation degli attacchi75. La stes-sa che, stando a un’inchiesta del Washington Post, avrebbe radica-lizzato una parte della popolazione. Un fenomeno esemplificato da quello di un soldato, il cui nipote era stato ucciso perché scambia-to per un affiliato a un noto terrorista, a lasciare l’esercito regolare e a simpatizzare per al-Qa’ida76.

Esisterebbe dunque un nesso causale tra la guerra dei droni e il reclutamento dei terroristi? Swift sfuma questa affermazione: dal-le interviste a decine di leader tribali yemeniti, sembra che a in-grossare le file qaidiste siano ragioni economiche piuttosto che la rabbia per attacchi dal cielo andati male. “Al-Qa’ida dà a giovani disoccupati auto e fucili - simboli dell’uomo yemenita”, sostiene

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FIGURA 2.4 “Accidental Guerrilla Sydrome”

Nota 74, 75, 76

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Swift. “Paga stipendi che fanno uscire le famiglie dalla povertà. Supporta capi locali deboli e marginalizzati scavando pozzi e pu-nendo i criminali”77.

Tra droni e simpatia per al-Qa’ida forse non esisterà una causali-tà diretta. Tuttavia, le uccisioni con i robot non fanno nulla per spezzare il circolo vizioso descritto da Kilcullen. Anzi, spesso di-ventano la scusa per limitarsi solo a operazioni clandestine, dimen-ticandosi della necessità di sradicare in profondità al-Qa’ida.

Inoltre, per i militanti spinti dall’ideologia piuttosto che da ragio-ni economiche, i droni offrono una nuova, più potente motivazio-ne. L’idea di un invisibile occhio onnisciente che impartisce la mor-te senza palesarsi contribuisce alla creazione di un immaginario in cui il terrorista eliminato diventa un martire, un eroe. Uomini con-tro macchine: Matrix in versione jihadista. Di più, sostiene Peter Singer, autore dell’influente libro Wired For War: l’avvento della tecnologia separa due parti, l’America e i suoi nemici, che guarda-no alla guerra in modo diametralmente opposto. La prima come un mezzo per un fine. I secondi come esperienza esistenziale. I dro-ni sono interpretati come un modo per l’America di evitare il sacri-ficio estremo.

LA GUERRA PERMANENTEDall’analisi della storia del programma Predator, dei motivi per

cui quest’arma tanto attira Obama, dei teatri georobotici dove si vi-ve e si muore sotto i missili e degli effetti, positivi e negativi, della guerra dei droni emerge un quadro abbastanza completo. Un qua-dro in cui un presidente determinato a non ripetere le costose guerre di Bush si affida a un’arma tatticamente e politicamente perfetta per colpire il nemico jihadista. Così facendo, però, espan-de a dismisura gli attacchi con i droni, creando una struttura deci-sionale con un discreto deficit di trasparenza e di responsabilizza-

CINGUETTII CONTRO MISSILI — 66Nota 77

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zione. Senza che all’orizzonte s’intraveda una fine della più che de-cennale guerra al terrorismo, ormai costata la vita a oltre 3 mila persone, più delle vittime dell’Undici Settembre.

Il rischio di affidarsi unicamente alle uccisioni con i droni - e di incrementarne il ritmo - per vincere la battaglia contro l’estremi-smo jihadista è di creare una guerra permanente. Che l’ammini-strazione non abbia intenzione di rinunciare alla massima libertà nell’uso di quest’arma è chiaro da alcune dichiarazioni di alti fun-zionari. La più eloquente delle quali porta la firma di Leon Panet-ta, già segretario alla Difesa: “The drones are the only game in town”78. I droni sono l’unica regola a cui Washington intende gio-care. D’altronde, l’obiettivo strategico fissato da John Brennan è categorico: “Non ci fermeremo finché l’organizzazione di al-Qa’ida sarà distrutta ed eliminata in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Afri-ca e altrove”79.

Eppure, le pagine precedenti dimostrano come da soli i droni non riescano a sradicare la minaccia di al-Qa’ida. Anzi, per quanto il nucleo qaidista in Pakistan sia decimato, la galassia che esso su-pervisiona sembra alimentarsi di nuova linfa. In Siria e Iraq, il ter-rorismo jihadista prolifera indisturbato. Nell’estate 2013, tre eva-

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John Brennan a colloquio con Barack Obama nello Studio Ovale (© White House Photos)

Nota 78, 79

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sioni di massa tra Pakistan, Iraq e Yemen hanno liberato circa 2 mila militanti80. Dall’Europa e dall’Asia molti stranieri arrivano in Medio Oriente per combattere il jihad. Un solo accenno di al-Za-wahiri a piani di attentati tiene sotto scacco la diplomazia america-na scatenando una sua iperreazione. In generale, nello tsunami che ha investito il mondo arabo ed erroneamente definito “prima-vera”, l’instabilità e i bagni di sangue in Egitto, in Siria e altrove of-frono potenti calamite ai jihadisti, che nelle repressioni dei regimi sperano di pescare nuove reclute.

I droni sono pur sempre un’arma tattica, non una strategia. An-che se è in questa accezione che viene usata contro il jihadismo. Il neo dell’antiterrorismo americano è l’eccessiva concentrazione sul-le singole personalità. Una volta eliminato il “wanted” di turno, un altro ne prende il posto. In Yemen, la nuova star qaidista Nasir al-Wuhayshi e il suo vice Qasim al-Raymi altro non sono che i so-stituiti dei precedenti bersagli dei droni, Jamal al-Badmi e Jabir al-Banna. Nella splendida metafora dell’ex analista della Cia Rie-del81:

Un decennio di guerra dei droni - e di caccia ai terroristi in gene-rale - ha sollevato in America un vasto e critico dibattito. Perché al-lora la Casa Bianca non rallenta il passo della guerra dei droni? La risposta più facile si fermerebbe ai sondaggi: il 65% degli america-ni è d’accordo con questo tipo di attacchi all’estero82. Le ragioni so-no in realtà più sfumate.

In primo luogo, a Washington importa poco se un paese teatro di attacchi si radicalizza e il suo governo scivola da alleato a non ami-co. A maggior ragione se i buoni rapporti con il più rilevante di questi - il Pakistan - sono già da tempo incamminati sul viale del tramonto. È nel corso del 2011 che la maggioranza dell’amministra-

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Perseguire al-Qa’ida con i droni è come provare a distruggere un alveare colpendo un’ape alla volta. Puoi distruggere tutte le api. Ma non distruggerai l’alveare.

Bruce Riedel

Nota 80, 81, 82

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zione Obama si è convinta dell’impossibilità di redimere Islama-bad - e i suoi servizi segreti. A svelarlo è un episodio83. L’ambascia-ta americana in Pakistan, favorevole alla distensione, aveva chie-sto un ruolo chiave nel processo decisionale degli attacchi. Avendo rinunciato a ottenere più collaborazione dai pakistani nella guerra al terrore e in quella in Afghanistan, era diventato inutile curare i rapporti con attenzione. La richiesta dell’ambasciatore, sebbene so-stenuta da Hillary Clinton, è stata rifiutata.

In secondo luogo, Obama sa perfettamente che, droni o non dro-ni, il terrorismo jihadista non sparirà dalla faccia della terra. Te-nendo alta la pressione su al-Qa’ida, la si confina a minaccia di bas-sa intensità, si riduce la sua operatività, assieme alle probabilità che un attentato sfugga alle maglie dell’antiterrorismo americano. Un ragionamento di breve periodo, non lungimirante. Eppure rive-latore. La paura massima per un presidente degli Stati Uniti non è avere un nemico eterno. Bensì evitare incidenti o attentati che de-raglino la sua rielezione o che intacchino il suo capitale politico, bloccando l’agenda di politica interna. Raramente un inquilino del-la Casa Bianca pensa sul lungo periodo, a meno che il lungo perio-do non coincida con la sua presidenza (vedi Roosevelt).

Il calcolo è semplice, quasi cinico. Gli Stati Uniti si possono per-mettere di vivere con una minaccia terroristica permanente, persi-no all’estero, al prezzo di mantenere un apparato di sicurezza ma-stodontico e perennemente all’erta e trincerando i propri diploma-tici in ambasciate fortezza perché attentati come quello di Bengasi del 2012 non si ripetano. Nella faretra, per reprimere il pericolo che periodicamente fa capolino, bastano i droni. Così però Was-hington si condanna a non avere una strategia, una politica, un ap-proccio di lungo periodo non tanto al terrorismo quanto ai terre-moti del mondo arabo, limitandosi a reagire a sintomi superficiali. Il Medio Oriente diventa un Medio Evo.

La facilità, la flessibilità e l’efficienza numerica che caratterizza-no i droni appiattiscono Washington sull’uso esclusivo di queste

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macchine. Accrescendo però l’instabilità che in teoria dovrebbero risolvere. Così come concepita e condotta dall’amministrazione sta-tunitense, la guerra dei droni si autoalimenta. Si autoperpetua. Il mezzo diventa un fine, la tattica strategia. La guerra si fa assenza di rischio, la morte asettica. E inevitabile il cammino verso la guer-ra permanente.

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Roba da nerd. Viaggio per feticisti. Spiegare come funzionano i droni può sembrare un esercizio da patiti di armi, di quelli che fan-no un po’ paura alle mamme apprensive. O da riviste patinate del-la Difesa. Non è così. Per il drone è diverso. La stessa tecnologia che costituisce la base dei droni militari inizia pian piano a farsi strada nel mondo civile. Capirne il funzionamento di base serve sia a cogliere meglio l’importanza in guerra di questi velivoli sia a familiarizzare con macchine che non potrebbero diventare pervasi-ve nella nostra vita: lo stanno già facendo.

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I DRONI SOGNANO PECORE ELETTRICHE?

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Come funzionano i Predator e i Reaper

Predator MQ-1 e A C-17 dell’Air Force (© United States Navy)

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Prima di addentrarsi nel Predator e nel Reaper, i protagonisti del boom dei droni d’inizio millennio, conviene fissare qualche punto generale.

PICCOLO BREVIARIO DI PARTENZANon c’è un solo tipo di drone. Variano a seconda delle funzioni ri-

chieste, della tecnologia disponibile, della distanza da coprire, del-l’altitudine da raggiungere e delle caratteristiche del terreno in cui operano. Esistono droni che si lanciano a mano, droni elicottero, droni da combattimento aereo, droni grandi come un vecchio letto-re cd, droni dall’autonomia di giorni e droni che stanno in cielo un’oretta. Droni che decollano da portaerei, droni che si lanciano da un tubo e le cui ali si autoestraggono, droni che scandagliano i cieli da migliaia e migliaia di metri d’altitudine, droni che sorvola-no terra solo da qualche metro.

Qualche tratto in comune però ce l’hanno. A prima vista, sono molto simili a un aeroplano convenzionale. Poi guardi meglio e scopri che non hanno la cabina di pilotaggio e nemmeno il posto per i passeggeri. Grazie a questo, hanno una forma abbastanza af-fusolata, dove lo spazio non necessario viene sacrificato sull’altare dell’aerodinamicità e della persistenza in aria.

Sebbene le dimensioni siano variabili, la maggior parte dei droni non supera in grandezza un grosso aereo di linea. Certo, allo stu-dio e in fase di test ci sono modelli dall’apertura alare superiore ai cento metri, senza dimenticare che esistono anche i nano-droni, lunghi qualche centimetro. Ma la fetta più consistente dei velivoli senza pilota si situa nella medio-piccola grandezza - non oltre i die-ci metri di lunghezza e i venti di apertura alare. Altro punto di con-tatto: la tecnologia che decide la traiettoria del velivolo può basar-si sul pilotaggio a distanza o più semplicemente attraverso il pilota automatico. Nei modelli più recenti sono presenti entrambe le mo-

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dalità. Il pilotaggio a distanza avviene via wireless, connessioni senza fili che possono essere dirette (partono cioè dallo stesso luo-go da cui il drone decolla) o indirette (sfruttando ponti radio o sa-telliti per poter coprire distanze maggiori senza interferenze).

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Fonte progetti: Congresso USA e US Air Force.

FIGURA 3.1 I principali modelli a confronto

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I droni americani, per esempio, vengono quasi sempre pilotati dalle basi dell’Aeronautica negli Stati Uniti, nonostante siano im-piegati a migliaia di chilometri di distanza. L’evoluzione tecnologi-ca degli ultimi anni ha permesso notevoli passi avanti da questo punto di vista, su tutti l’aumento esponenziale delle distanze e del-le altitudini, ma anche per quanto riguarda la cifratura e la messa in sicurezza delle comunicazioni per evitare attacchi informatici o intercettazioni.

Infine, tutti i droni (o quasi) inviano immagini o video alla base, o quantomeno i dati che devono monitorare. La base, che può an-che essere un semplice soldato a qualche centinaio di metri di di-stanza con un comando in una valigetta, invia a sua volta i coman-di, dal mero movimento fino a informazioni più complesse. Come sganciare un missile.

Come fare ordine in questo universo? I droni sono stati classifica-ti seguendo alcune caratteristiche chiave, come l’altitudine rag-giungibile, la durata massima delle missioni e il peso.

Per l’altitudine, cioè la quota operativa, e la durata, cioè il tempo massimo tra decollo e atterraggio, si usano alcune sigle. Si parla dunque di HA, quindi di high altitude, quando i droni possono su-perare i 45 mila piedi (circa 13 km); di MA, medium altitude, tra i 20 mila piedi (6 km) e i 45 mila piedi; di LA, low altitude, quando si rimane tra i 500 (150 m) e i 20 mila piedi; e infine VLA, very low altitude, quando si rimane sotto i 150 metri.

Per quanto riguarda la durata, invece, gli acronimi sono LE, long endurance, sopra le 12 ore di missione; ME, medium endurance, più di 4 ore; SE, short endurance, sotto le 4 ore. Allo studio negli ultimi anni poi ci sono quelli con VLE, very long endurance, cioè droni che possono stare in cielo per giorni interi. Il nostro Preda-tor, per esempio, è un MALE (non fate i dietrologi, pronunciatelo all’inglese e non all’italiana): altitudine media, lunga durata.

Quanto al peso, una classificazione molto in voga - e infatti adot-

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tata dallo Stato italiano - distingue i droni in micro (meno di 2 kg), mini (2-20 kg), leggeri (20-150 kg), tattici (150-500 kg) e strategi-ci (oltre i 500 kg).

DRONE O UAV?UAV. UAS. RPV. ROA. RPA. ARP. Nel corso degli anni, gli acroni-

mi per il drone si sono sprecati. Uno, nessuno, centomila: il ri-schio di schizofrenia per questa macchina è legittimo. Trovare due volte la stessa sigla è quasi come immergersi nello stesso fiume: impossibile. Se incontrate tutti questi appellativi non spaventate-vi: tutta colpa di un dibattito scatenato dai puristi, per cui il termi-ne “drone” è improprio, non per amore delle sigle (passione da te-nere comunque in considerazione quando si parla di militari) ma in quanto démodé.

Cosa vogliono dire quegli acronimi? UAV, per esempio, indica un-manned aerial vehicle, letteralmente, velivolo non portato dall’uo-mo. UAS suona quasi esistenziale: unmanned aerial system. Ciò che conta non è l’aereo, una mera appendice, ma il sistema che lo

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FIGURA 3.2 Classificazione per altezza, durata e peso

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Modello 3D di un Reaper MQ-9, uno dei droni più evoluti.. Clicca per allargare il modello,manipolalo per ruotarlo e ingrandirlo.(Base © azlyirnizam via TF3DM).

INTERATTIVO 3.1 Reaper in 3D

governa e gli garantisce l’autonomia. Autonomia qui è la parola chiave: implica la capacità del robot di adattarsi all’ambiente che lo circonda. Tecnicamente, il “drone” è un semplice modellino che può essere solo radiocomandato. Nulla più. L’UAV evolve in un certo senso la passività del drone, ponendosi a un livello di autono-mia superiore: può volare da solo fino a un certo punto preimpo-stato, aprire i suoi occhi, registrare ciò che vede e seguire oggetti o persone che gli vengono indicate.

Direte: perché allora parlate solo di droni? Non è solo perché “drone” è più evocativo o per l’obbrobrio stilistico di ripetere maiu-scole a ogni riga. Passi per Usa, Cia e compagnia cantante ma per sigle non ancora entrate nel linguaggio comune, specie italiano, si rischia di fare confusione. O, peggio, di sterilizzare, di neutralizza-re un concetto importante: ai nostri fini non conta quanto un ae-reo sia autonomo, ma il fatto che quell’aereo per la prima volta se-pari il guerriero dal campo di battaglia, lasciandolo comunque vir-tualmente presente.

Quindi: drone.

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Reaper inglese (@ Crown 2013)

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LADIES AND GENTLEMEN, IL PREDATORSembra un modellino da due soldi. Eppure vola, vola da solo e al-

l’occorrenza uccide. Non fosse uno strumento di guerra sarebbe an-che simpatico. Ma com’è fatto il Predator? Come funziona? Quali sono i suoi punti di forza e i suoi limiti? Per rispondere a queste domande bisogna addentrarsi nella sua corazza di kevlar e fibra di carbonio e immergersi in profondità là dove i cavi di rame congiun-gono software all’avanguardia con una struttura all’apparenza in-nocua.

Innanzitutto, cosa cercano i militari nel Predator? Una macchina che effettui le cosiddette missioni 4D, che sta per dull, deep, dan-gerous e dirty. Sono missioni ripetitive (dull), che, andando in pro-fondità nei territori, richiedono molta autonomia e ampio raggio d’azione (deep), possono essere pericolose, sgravando così l’uomo dal mettere a rischio la propria pelle (dangerous) e all’occorrenza anche in ambienti contaminati (dirty).

Il nome in codice del Predator è RQ-1, dove R sta per reconnais-sance e Q per unmanned, ossia “velivolo senza pilota da ricognizio-ne”. Quando carica i missili, diventa MQ-1, con la M di multipur-pose. Monta un motore Rotax 914, dotato di un turbocompressore molto evoluto, che gli garantisce efficienza e discreta silenziosità (ma il rumore percepito dalle persone a terra dipende ovviamente dall’altitudine del Predator). Il primo Predator prodotto dalla Ge-neral Atomics era lungo 8,2 metri, più o meno come una limousi-ne, con una apertura alare di 14,8 metri e un altezza di 2,1 metri. Pesava 512 chili se privato di qualsiasi accessorio, aveva un’autono-mia di circa 24 ore, un’altitudine massima di 7,620 metri e una ve-locità di 215 km/h, grazie a 115 cavalli di potenza. Copriva un area di quasi 35 mila chilometri quadrati, cioè una porzione di territo-rio 185x185 km - per rendere l’idea quasi la superficie del Trivene-to.

Di che materiale è fatto il nostro drone84? Nella fusoliera trovia-

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mo fibra di carbonio e di quarzo misto al kevlar, mentre all’interno di essa un composto misto chiamato nomex che serve a isolare le componenti elettroniche dalle condizioni climatiche esterne. Lo scheletro del Predator è composto da fibra di carbonio e fibra di ve-tro e da alcune componenti in alluminio, come quelle che ospitano i sensori e il carrello. Le ali hanno una parte in titanio e sono trafo-rate con microscopici buchi che servono a far passare a loro intor-no una soluzione che eviti il congelamento.

Ma è l’interno del drone a destare più curiosità. Perché non sono tanto i materiali a rappresentare la rivoluzione ma i suoi sensori, il meglio nel settore della ricognizione: gli occhi e i neuroni che per-mettono al drone di librarsi in cielo senza pilota.

GLI OCCHI ALATICome noi umani, il Predator ha due occhi. Solo che non sono alli-

neati sulla fronte. Uno è sul “muso” del drone, l’altro nella pancia. Il primo occhio è il meno sofisticato, composto da due sensori, uno dei quali a infrarossi, per vedere anche quando è buio. Servo-no per vedere cos’ha di fronte il drone, nonché per le fasi di decol-lo e atterraggio.

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Modello: Predator MQ-1 Industria: General AtomicsDimensioni: L 8,2m; H 2,1m; ap. alare 16,8mPeso: vuoto 512kg; peso massimo 1020kgMotore: Rotax 914 Turbo (115 cavalli)Altitudine: 7,62kmAutonomia: fino a 24hVelocità: di crociera 140km/h; max 217km/hArmi : 2 Hellfire o payload fino a 200kg

FIGURA 3.3 Scheda del Predator MQ-1

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Il secondo occhio è quello più interessante. Posto nella parte infe-riore del drone, è nascosto da una palpebra che forma una palla: per proteggere i sensori che sono all’interno, certo, ma soprattutto per tenerlo lontano dalla vista dei curiosi. Due sono i tipi di senso-ri di quest’occhio: elettro-ottico e a infrarossi. Permettono di vede-re a colori e di mettere a confronto più tipi di immagine, a seconda della luminosità e del tipo di oggetto o individuo si voglia osserva-re.

La vera ciliegina sulla torta si chiama SAR, acronimo inglese che sta per radar ad apertura sintetica. Si trova nella pancia del drone e riserva due sorprese: primo, arriva dove gli altri sensori non arri-vano (condizioni meteorologiche avverse); secondo, è in grado di interpretare da solo le immagini che raccoglie. Foto-interpretazio-ne grezza, la chiamano: il SAR mette a confronto due immagini di-stanti tra loro nel tempo e segna con colori diversi le differenze,

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L’occhio del drone (© Cosmic Slop - Flickr)

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ciò che si è mosso. Il dispositivo sfrutta un ampio spettro di micro-onde elettromagnetiche per cogliere, oltre ai movimenti, superfici irregolari o artificiali, fornendo non una vera e propria foto ma una scannerizzazione tridimensionale. Per garantire una risoluzio-ne migliore delle immagini, i droni operano ben al di sotto della quota massima nominale: invece dei 7 mila metri d’altitudine, stanno tra i 3 mila e i 5 mila (a seconda dell’orografia e della pre-senza a terra di difese antiaeree).

Gli occhi del Predator vanno oltre alla fisicità delle cose. Non si limitano a osservare. Potenziano l’occhio umano. Lo portano nella quarta dimensione, quella del tempo. Grazie ai suoi sensori, il dro-ne è in grado di determinare le differenze di temperatura del suolo che scandaglia (per esempio, se in una notte fredda nota una mac-chia di calore, questa potrebbe appartenere a un’auto partita da po-co). Oppure a che tipo di mezzo appartengano le tracce sulla sab-bia, a seconda della profondità dell’impronta.

I NEU(D)RONI: COMUNICARE CON UN PREDATORMa come si pilota questo drone? La palla passa alla telecomunica-

zione. Serve infatti una potente e veloce connessione per trasmette-re alla macchina comandi e informazioni. Così il Predator si affida a un doppio sistema di comunicazione, a seconda se si trovi al di qua o al di là della linea dell’orizzonte. Per fare un esempio, pensa-te a quando vi lamentate perché nelle cantine o nelle vecchie case dai muri spessi il cellulare non prende: tra il vostro telefono e l’an-tenna che manda il segnale viene a interporsi un ostacolo troppo grande. Per il cellulare è un muro molto spesso. Per il drone è l’orizzonte (o montagne molto alte). Quando il Predator non “ve-de” più la fonte da cui riceve il segnale, perché va oltre la curvatu-ra terreste o dietro una vetta, smette di comunicare con la base (pe-rò non cade, se vi fosse venuto il dubbio).

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Ecco il motivo dei due sistemi. Il primo si occupa del drone fin-ché questo si trova al di qua dell’orizzonte. Per questa fase si usa-no le piccole antenne poste nelle pinne del velivolo che comunica-no con un’antenna a terra C-band che invia e riceve un segnale elettromagnetico nella banda dai 4 ai 8 GHz. Il secondo invece si chiama “remote split operation” e prende in consegna il Predator quando la base smette di “vederlo”. In questo caso, la comunicazio-ne si affida a un “ponte”, cioè un satellite che fa da tramite tra ba-se e drone. Per connettersi a vicenda si sfruttano dei collegamenti in banda Ku, cioè nello spettro elettromagnetico dai 12 ai 18 GHz. Aumenta la distanza, aumenta la potenza della connessione. Nel drone, a ricevere il segnale è l’antenna satellitare MTS AN/AAS-52, posta, ironia della sorte, nella torretta - al posto del pilota.

Il Predator può volare anche da solo, grazie a un sistema Gps e un pilota automatico cui indicare le coordinate verso cui muoversi e a cui attivare i sensori per cominciare a curiosare. Di solito tutta-via lo si guida manualmente. In fase di decollo e atterraggio, si pre-ferisce il primo sistema, quello al di qua dell’orizzonte; il motivo sta nella precisione che queste manovre richiedono. Non essendo

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FIGURA 3.4 Connessione prima e dopo l’orizzonte

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fisicamente presente, il pilota non “sente” l’aereo, non riceve dalla macchina le risposte alle operazioni che compie. Logicamente, l’ac-curatezza diminuisce. Ma c’è un motivo ulteriore: la comunicazio-ne satellitare crea un ritardo tra il comando e l’azione del drone e anche nella ricezione delle immagini. Pochi istanti, forse qualche secondo (e di certo i militari non te lo vengono a dire) però tanto basta per diminuire l’efficienza del Predator.

I due sistemi di comunicazione si possono usare anche in un al-tro modo. Quasi mai, infatti, il drone decolla dalla stessa base da cui è pilotato. Implicherebbe che tutti gli analisti americani siano in Medio Oriente o che i droni a stelle e strisce partano tutti i gior-ni dagli Stati Uniti, solcare gli oceani, sbirciare in Pakistan o Ye-men e poi tornarsene di nuovo a casa. Impossibile. Per questo, i droni stazionano in basi vicine ai luoghi d’interesse e vengono lan-ciati da un equipaggio (spesso di contractors privati) che si occu-pano esclusivamente di decollo e atterraggio. In seguito, il segnale viene “passato” tramite il satellite alle basi in America, dove piloti e analisti combattono la loro guerra. Da casa.

IL FUOCO DELL’INFERNO: BOMBE E MISSILIFinora s’è parlato di occhi e neuroni. Ora è il momento dei musco-

li. Il Predator segna una svolta epocale nella storia dei droni per-ché - dopo qualche anno di servizio in semplice ricognizione - è il primo a essere seriamente armato.

E per seriamente s’intende un tipo di munizione dal nome infer-nale: il missile Hellfire, audace acronimo di HELicopter Launched FIre and foRgEt. Fire and forget: spara e dimentica. In origine il missile serviva contro i carri armati ed era lanciato da robusti eli-cotteri. Tanto è potente che quando si pensa di caricarlo sul graci-le Predator, gli ingegneri temono che il lancio possa spezzare le sue ali. Così, nei primi test sull’armamento, il drone viene letteral-

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mente incatenato a una montagna per evitare troppi danni in se-guito al contraccolpo85. Tutto fila liscio: da allora, il Predator mon-ta due Hellfire, uno per ala.

Due sono i modi con cui il Predator può ingaggiare un obiettivo (mettere nel mirino, per usare una metafora). Il primo è passivo e non richiede al drone di sparare in prima persona ma solo di effet-tuare la cosiddetta pittura del bersaglio, illuminando l’obiettivo con un fascio di raggi laser verso cui le munizioni di altri velivoli o delle truppe a terra si devono dirigere. Il secondo metodo invece è attivo: il pilota del Predator riconosce un obiettivo, lo traccia, cal-cola la migliore traiettoria per colpirlo, ne trasmette le coordinate al missile tramite il laser target designator e preme il tasto rosso. Da quel momento, il missile è autonomo: segue le istruzioni impar-titegli dal drone e cerca l’obiettivo grazie al radar di cui è dotato. Ecco perché si chiama “spara e dimentica”.

Il Predator non è tuttavia nato per sparare. Nel 2007 debutta così la sua evoluzione il Reaper, di fatto un Predator con un “più” da-vanti: è più lungo, più resistente, più largo, più alto, più affidabile, più persistente in cielo, più potente. Ovviamente può caricare un peso in munizioni decisamente maggiore. Se il Predator può porta-

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FIGURA 3.5 Missili e bombe equipaggiabili

Nota 85

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re al massimo 204 chili, il suo fratello minore (solo per l’età) sale a 1700. I suoi sensori vengono aggiornati per incrementare anche la qualità delle munizioni da montare: oltre ai classici Hellfire, il Rea-per impiega anche le Gbu-12 Paveway II a guida laser e le Gbu-38 Jdam a guida Gps. Vere e proprie bombe, da centinaia di chili. C’è anche un’alternativa dietetica: invece di bombe più pesanti, al po-sto di un Hellfire si possono caricare tre missili Griffin.

Il Reaper diventa così un aereo completo, in grado di eseguire un vasto spettro di missioni, le cosiddette Scar: strike coordination and reconnaissance (coordinamento dell’attacco e ricognizione). Per sostenere quest’evoluzione, il Reaper ha dovuto incrementare

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FILMATO 3.1 Il volo dei Predator e dei Reaper

(© 99th Air Base Wing Public Affairs - via Youtube) Per vederlo su browser clicca qui.

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grandezza, motore e accessori. Al posto del Rotax monta una tur-bo elica TPE331 della Honeywell, che garantisce una potenza ben maggiore rispetto al Predator. L’apertura alare aumenta, raggiun-gendo i 20,1 metri. Lungo 11 metri e alto 3,8, pesa ben 2223 kg sen-za munizioni e carburante. Può raggiungere i 15 mila metri di alti-tudine e coprire 1850 km a una velocità massima di 370 chilometri orari.

I L P R E D AT O R C

La General Atomics sta sviluppando dal 2009 un nuovo drone, parente stretto dei due modelli precedenti: il Predator C, detto anche Avenger, il vendicatore. L’Avenger, ancora un prototipo da ultimare, è inteso dall’in-dustria e dall’Air Force come «il Reaper di nuova generazione»86. Ancora poche sono le certezze a riguardo ma si sa già che esso sarà armato, con le stesse munizioni che carica ora il Reaper. I suoi radar saranno migliorati e saranno aggiunti dispositivi di tracciamento e targeting tipici degli F-3587. Altra modifica, stavolta legata al motore: una turboventola, utilizza-to praticamente da tutti gli aerei “normali” del mondo.

Una scheda completa del Predator C la trovate a questo link, assieme al-le prime immagini.

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Modello: Predator B MQ-9 “Reaper”Industria: General AtomicsDimensioni: L 11,0m; H 3,6m; ap. alare 20,1mPeso: vuoto 2223kg; peso massimo 4760kgMotore: Honeywell TPE331-10 (900 cavalli)Altitudine: 15,2kmAutonomia: più di 24hVelocità di crociera 313km/h; max 482km/hArmi: 14 Hellfire + 2 GBU/Jdam (max 1700kg)

FIGURA 3.6 Scheda del Reaper MQ-9

Nota 86, 87

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DENTRO LA CABINA DI PILOTAGGIO... A TERRADa fuori sembra un container. Di quelli da caricare sui camion. E

in effetti è un container. Solo che si chiama ground control station (stazione di controllo terreste) e stipa un tripudio di tecnologia: computer, schermi, pulsantiere. E persone. Tanta gente, pigiata in uno spazio di una decina di metri quadri. È l’equipaggio del drone. Una squadra intera che può andare dai cinque ai dieci elementi. C’è il pilota, ovviamente, ma non solo: al suo fianco siede l’operato-re dei sensori, ossia l’addetto a controllare gli impulsi che spedisce la macchina. Poi ci sono gli analisti, quelli che trasformano i dati grezzi in informazioni, immediatamente fruibili per chi decide le sorti della missione, gli ufficiali di grado più alto.

Cos’hanno attorno a loro? Una poltrona, anche abbastanza como-da. Un joystick, sì proprio un joystick, con cui si impartiscono i co-mandi al drone. Le postazioni assomigliano a quelle delle sale dei

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Sfoglia per le altre foto. (© Aereonautica Militare italiana, Crown 2013, US Air Force, Department of Homeland Security).

GALLERIA 3.1 La cabina di pilotaggio

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videogiochi, quelle dove si finge di guidare un’auto da rally. Qui in-vece non si fa finta: in cielo c’è davvero una macchina e va alla guerra.

Tanti schermi, quattro per il pilota e altrettanti per l’operatore dei sensori. Il primo, quello più impressionante, manda le immagi-ni che arrivano in diretta dal drone. Il video non lo vede solo l’equi-paggio ma è disponibile per chiunque lo voglia, anche a migliaia di chilometri di distanza. Permette che il decisore politico o militare osservi la guerra come la vede il suo soldato. Oltre alle immagini dal campo, c’è un monitor con la cartina del territorio attraversato dal drone e uno che elenca una miriade di dati relativi al volo e al-la macchina. L’ultimo schermo è il falcon view, “vista di falco”. Non una semplice mappa, ma una mappa intelligente. Vi si posso-no caricare tutti i dati dal campo di particolare interesse: dove so-no le truppe amiche, dove quelle nemiche, se nei paraggi c’è una pista per atterrare o una batteria di missili antiaereo (e nel caso il loro raggio).

Il drone poi non vola quasi mai da solo. Nello stesso momento sol-cano i cieli altri suoi colleghi robot, tanto che i militari parlano di vere e proprie pattuglie. Una pattuglia aerea dispiega fra i tre e i quattro Predator o Reaper, attorno a cui possono arrivare a lavora-re 170 persone, tra piloti, analisti, personale per decollo e atterrag-gio e ricambi (perché se un drone vola 24 ore, un essere umano do-vrà pur dormire). Addirittura, un pilota può controllare più di un drone contemporaneamente, grazie a un software della General Atomics. Può pilotare una batteria di quattro droni di cui solo uno è guidato direttamente mentre gli altri viaggiano con il pilota auto-matico, seguendo rotte predeterminate o elaborate autonomamen-te, sempre però con la possibilità che l’operatore umano interven-ga in caso di necessità.

La complessità che ruota attorno ai droni ispira una battuta fre-quente in chi li impiega: “Non è un aereo, è un sistema”. Niente di più vero. Tra antenne, stazioni di controllo, schermi, immagini, pi-

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loti, analisi, il velivolo è una semplice protesi di un lavoro di squa-dra e di una tecnologia ben più ampia.

COSTI E PERFORMANCEProprio la natura di sistema di Predator e Reaper rende la que-

stione dei costi molto complessa. Non ci si può limitare al prezzo del singolo velivolo. Bisogna considerare tutto l’equipaggiamento, oltre al fatto che le pattuglie aeree sono composte da più di un dro-ne. Non ha quindi senso paragonare i 5 milioni di dollari di un Rea-per ai 27 milioni di un F-16C e sostenere che i droni saranno i do-minatori del futuro perché molto più economici degli aerei da com-battimento convenzionali88.

Stando ai dati ufficiali89, nel complesso agli Stati Uniti acquisire un singolo Reaper costa 26,8 milioni di dollari, ossia quasi 110 mi-lioni per ogni pattuglia aerea. Anche guardare al costo per ora di volo è fuorviante: i Reaper costano 3600 dollari all’ora, all’appa-renza molto meno degli F-16C (quasi 18 mila dollari/ora) ma in realtà i droni volano molto di più e alla fine ogni anno i costi del volo dei due tipi di aereo quasi si equivalgono.

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FIGURA 3.7 Costi e performance del Reaper

Nota 88, 89

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Anche perché spesso cadono. Nel 2005, i Predator si schiantava-no al ritmo di 20 ogni 100 mila ore di volo. Molto, considerando quanto stanno in cielo: nel 2009, nei soli Iraq e Afghanistan, i dro-ni avevano volato 185 mila ore. Nel 2010, l’Aeronautica dichiara-va90 che il tasso d’incidenti era sceso per i Predator a 7,5 e per i Reaper a 16,4 ogni 100 mila ore, anche se alcuni commentatori e blogger calcolavano numeri decisamente superiori91. Senza conta-re la maggiore vulnerabilità contro le difese antiaeree rispetto ai velivoli convenzionali, dovuta alla goffaggine del drone: bruschi cambi di rotta comportano infatti la perdita del collegamento satel-litare. Nello scontro diretto, il jet batte ancora il drone. Sempre. “Li metti in un ambiente a minaccia elevata e iniziano a cadere co-me gocce di pioggia”, commenta l’ex generale dall’Aeronautica americana David Deptula.

Il sistema di collegamento satellitare è il vero tallone d’Achille del drone. Da anni, gli ingegneri di al-Qa’ida studiano un modo per interrompere il segnale che dalla base guida il robot alato. I servizi segreti americani monitorano con preoccupazione gli sforzi dei terroristi di sviluppare una tecnologia anti-drone, per esempio sfruttando emissioni laser e gps per confondere e far cadere la macchina. Sinora i tentativi sono andati a vuoto ma i jihadisti po-trebbero non essere lontani dall’intercettare il segnale del drone92. Di certo, nel 2009 in Iraq sono stati in grado di catturare le imma-gini inviate a terra dal velivolo, una breccia certo non decisiva, ma utile a capire come i militari occidentali impiegano il drone.

In America, l’acquisto dei Predator è terminato nel 2010, con 248 esemplari negli hangar. Quello dei Reaper è iniziato nel 2002 ed è arrivato a quota 196 a fine 2012. Entro la fine del 2013, l’obiettivo dell’Aeronautica è mantenere fisse in cielo 65 pattuglie aeree: oltre 200 droni costantemente in volo, 24 ore su 24, tutti i giorni del-l’anno93. Tuttavia, la richiesta del budget per la Difesa del 2014 in-dica che negli Stati Uniti il boom dei droni si sia arrestato. Quasi tutti i programmi di ricerca sui droni (non solo per i Reaper) han-

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no subito tagli di decine, a volte centinaia di milioni di dollari94. Non staranno passando di moda ma forse hanno raggiunto il pun-to di saturazione.

PICCOLI PILOTI CRESCONOCome si fa a entrare nell’equipaggio? I centri nevralgici dell’uni-

verso dei droni sono due basi aeree del West: Creech, Nevada, 56 chilometri a nordovest di Las Vegas; e Holloman, nel bel mezzo del deserto del New Mexico. Qui i piloti vengono formati, qui ven-gono sperimentati nuovi velivoli e accessori, qui (a Creech) è pre-sente il centro di eccellenza di ricerca per i velivoli senza pilota, l’Unmanned Aerial Vehicle Battlelab. Sono rispettivamente la casa del 432° Operations Group e della 49° Wing, incaricati di effettua-re e addestrare a missioni di ricognizione e di attacco con i droni.

L’Aeronautica americana forma i suoi piloti e analisti - così come quelli stranieri alleati (è il caso dell’Italia) - affidandosi a comples-si sistemi di simulazione e test95. Il più importante dei quali si chia-ma Predator Mission Aircrew Training System e combina la posta-zione tipica per il pilotaggio con una sofisticata simulazione, per preparare fin da subito il pilota all’ambiente che troverà in segui-to. Il software simula la gestione del drone, dai sensori alle teleca-mere fino all’utilizzo degli armamenti. Addirittura, collegando più sistemi tra loro, è possibile compiere simulazioni “in rete” con al-tri utenti, rendendo tutto più complesso.

L’addestramento è diviso in varie fasi, dall’introduzione al drone alla gestione delle emergenze. Solo in ultimo viene il volo vero e proprio, seguito dal culmine, ossia la combat readiness, in cui il pi-lota impara a sparare e a operare in un’operazione bellica. Ma non è finita qua. Un’integrazione arriva anche dal lavoro teorico e prati-co sui dati che il drone raccoglie, una parte tanto importante quan-to il pilotaggio. Inoltre, l’equipaggio viene anche istruito sulle com-

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ponenti del drone, sull’assemblaggio e smontaggio (operazioni cru-ciali per poter spedirlo in giro per il mondo) e sulle condizioni standard in cui esso viene impiegato. L’obiettivo è formare opera-tori in grado di reagire a qualsiasi situazione, da un possibile scon-tro a un guasto, dall’individuazione di un bersaglio alla visibilità nulla.

L’addestramento procede96 su scala industriale. Nel 2011, veniva-no addestrati 350 piloti di droni contro i 250 dei bombardieri. So-lo nel 2013, verranno formati 678 operatori. Tanto stanno aumen-tando che l’Aeronautica è stata costretta a creare una nuova catego-ria, la 18x: a fine 2012, i soli piloti militari (senza contare gli altri membri dell’equipaggio) ammontavano a 1280. L’addestramento

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INTERATTIVO 3.2 Mappa delle basi americane da cui volano i droni

In rosso le mappe attuali, in blu quelle future. Per aprire la mappa interattiva cliccare sull’immagine. Cliccando sugli indicatori potete leggere i dettagli di ciascuna base.

Nota 96

Per vederla su browser clicca qui.

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medio dura circa un anno per i novizi, mentre per i piloti che pro-vengono da altri aerei si può accorciare a sei mesi. A Holloman si allenano gli italiani e i britannici, che ricevono lezioni per tre me-si, per poi completare in patria i corsi.

UNO SCENARIO TIPICOUna volta sviscerato il Predator, in che modo viene impiegato?

Possiamo ricostruire lo scenario possibile di una missione.

Si sospetta che alla periferia di un villaggio in un paese non me-glio precisato si trovi un gruppo di presunti terroristi, già segnalati da altre fonti di intelligence. Ma la zona è remota e il modo più ve-loce e sicuro di raggiungerla è con i droni. Vengono inviati alcuni Predator e Reaper. I Predator si occupano di monitorare l’area, comprendere se qualcosa è cambiato o se qualcosa si stia muoven-do. Anche se fosse brutto tempo si potrebbe controllare la zona, sfruttando il radar SAR.

Viene identificato un veicolo in movimento. Alcuni sensori dei Predator vengono “bloccati” su quel veicolo che viene seguito, men-tre un altro drone pensa alla mappatura del territorio. Un altro an-cora cerca gli edifici in zona, così che si possa capire dove il mezzo si stia dirigendo. L’auto si ferma. Scende un gruppo di persone. Ar-mate. Sono quelle che si stavano cercando, confermano gli analisti confrontando i comportamenti e le aree visitate.

L’informazione viene passata agli ufficiali preposti alle decisioni “importanti”: è il caso di colpire o no? Sono i sospetti che cercava-mo? Abbiamo ragione di credere che sia il modo migliore di neu-tralizzarli? Possiamo catturarli in altro modo? Stanno minaccian-do direttamente gli Stati Uniti o i loro alleati? Tutte queste doman-de devono trovare risposta. Può essere che la risposta porti a un nulla di fatto: la missione di ricognizione finisce lì e i droni torna-no indietro dopo aver racimolato tutte le informazioni possibili.

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Oppure la risposta è positiva e porta alla decisione di colpire. Non ci sono innocenti in zona, non ci sono edifici o persone che non si può e non si deve colpire. Arriva il via libera. Il Reaper si stacca, il bersaglio è già stato acquisito dai sistemi di puntamento ed è segnalato con un fascio di invisibile luce riconoscibile solo dal missile Hellfire. La base, a migliaia di chilometri di distanza, ha de-ciso. Il pulsante viene premuto. L’Hellfire si stacca e parte.

Boom. Bersaglio colpito. Il video a infrarossi impazzisce, visto l’improvviso cambio di temperatura nella zona dell’attacco. Nem-meno la videocamera o il radar anti-intemperie riescono a vedere alcunché ora che si è alzata una nuvola di detriti. Per assurdo, pro-prio ora che lo stormo di droni ha svolto i suoi compiti al massi-mo, esprimendo tutte le loro capacità, sono diventati ciechi. Per un istante solo. Poi la nebbia si alza. Parte la valutazione del dan-no della battaglia, gli occhi di Predator e Reaper continuano a scandagliare il suolo per contare le vittime, vedere se ci sono so-pravvissuti, cosa accada intorno, chi viene in soccorso e come si comporta.

Niente più minacce per oggi dal villaggio sperduto. La squadra che ha partecipato alla missione festeggia, si stringe la mano e tor-na casa.

QUANDO UN DRONE GUARDA TROPPO (O TROPPO POCO)

Nel mondo dei droni la tecnologia ha fatto passi da gigante. Pro-cedendo a balzi improvvisi o con lenti e continui accorgimenti, l’universo dei robot alati si sta ormai spingendo dappertutto. In un futuro nemmeno troppo lontano avremo droni ispirati agli insetti e droni da combattimento, come l’X-47B Pegasus della Northrop Grumman97, testato nel maggio 2013 dalla Marina statunitense (e subito copiato dai cinesi) che può decollare dalle portaerei, primo

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passo verso un velivolo senza pilota da usare finalmente nella guer-ra aerea.

Tutto bene ma, accanto a questi progressi immensi, l’elaborazio-ne dei dati raccolti dai droni si è evoluta allo stesso passo? Se gli Stati Uniti mantengono in volo centinaia di robot alati contempo-raneamente che sorvolano e scandagliano centinaia e centinaia di chilometri quadrati in mezza giornata, gli operatori e gli analisti sono in grado di trasformare quella gigantesca mole di foto, video e indicatori in informazioni elaborate, comprensibili ma soprattut-to utili? Questa - più che la costruzione di nuovi, più potenti droni - è la sfida dei militari americani.

Le forze armate, così come i servizi segreti, hanno sempre avuto a che fare con una grande quantità di informazioni. Da sempre il mantra è stato: più ce n’è, meglio è. Non per niente, da molto tem-po l’information warfare è la padrona incontrastata del panorama militare. Ottenere la superiorità informativa sul nemico vuol dire spesso vincere. Spie, fotografi, crittologi, intercettazioni di segnali, telecamere nascoste e chi più ne ha più ne metta. Prima del drone di massa, l’informazione era una risorsa limitata. Le notizie raccol-te erano sempre preziose o comunque in difetto: tutto veniva sfrut-tato al meglio e il più possibile, ogni singolo dettaglio girato e rigi-rato e poi spremuto e rispremuto.

Ora, probabilmente, l’informazione non è più limitata. Anzi, il problema è l’opposto: non ricavare dati utili da quantità scarse ma trovare l’ago nel pagliaio di milioni e milioni di minuti registrati. Un dilemma gestionale. Chi, come, quando si analizzano così tanti dati? Cosa si tiene e cosa si butta? Dove si immagazzinano?

Siamo entrati nell’èra dei Big Data, cioè database immensi di da-ti difficili da analizzare alla vecchia maniera (e il caso Snowden non ha fatto che confermarlo al grande pubblico). Il processo di analisi non può più essere solo manuale ma devono essere applica-ti anche strumenti e software che semplifichino la catalogazione e

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velocizzino la lettura. Da cui però nasce un ulteriore problema: co-me programmare il computer per selezionare le immagini utili, per fargli fare il lavoro sporco? I militari americani sono così preoccupati che sono arrivati a rivolgersi a un’emittente televisiva sportiva per carpirne le tecniche degli highlights98.

Già nell’accezione classica, le informazioni d’intelligence non so-no così semplici da maneggiare, figurarsi quando entra in gioco una flotta di droni. I vari tipi di intelligence (umana, geospaziale, dei segnali, eccetera) si intrecciano e si automoltiplicano. Dietro l’angolo, l’incubo del data crush, ossia l’accumulo eccessivo di dati che magari collidono e di sicuro rendono impossibile l’analisi. O,

Pilota mentre comanda un drone (© Crown 2013)

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ancora peggio, avventata. Dando così luogo a errori umani, scarsa considerazione di un’informazione, eccesso di importanza assegna-to a un’altra, tempo sprecato. Appena un anno fa, nel 2012, il più alto funzionario dell’Aeronautica americana ha confessato senza giri di parole che per analizzare tutto il materiale raccolto dai dro-ni ci vorranno anni99.

C’è poi un altro rischio, quello dell’illusione che le informazioni del drone siano sempre accurate. Il Predator non deve essere un sostituto dell’intelligence umana. Non darà mai le garanzie di una rete di spie e informatori sul campo. Per quanto osservando per giorni, mesi, anni le stesse zone s’imparino a conoscere usi e costu-mi della gente, i piloti non condividono i codici culturali di popola-zioni del Waziristan o dello Yemen. Il significato di un gesto, un comportamento, può sfuggire. Finendo poi per colpire le persone sbagliate. Come quella volta nell’aprile 2011 in Afghanistan, quan-do un Predator scambiò due marines in tenuta da combattimento per insorti, colpendoli con gli Hellfire100.

Un’ulteriore falla che discende da questo problema è il cosiddetto effetto cannuccia101. L’occhio del drone può arrivare a ingrandire un’area di soli dieci metri quadrati. Ideale per riconoscere un terro-rista ricercato. Non per evitare che, nei trenta secondi che di me-dia trascorrono tra il lancio del missile e l’impatto, civili innocenti si avvicinino al bersaglio. Non accade così di rado, soprattutto in contesti urbani.

Nelle sue memorie102, il pilota Matt Martin racconta con orrore un episodio del genere. Durante la guerra in Iraq, il suo Predator volteggia su Najaf, alla caccia di un individuo pericoloso: “Rocket Man”, lo avevano soprannominato. Lanciava razzi verso le basi e le pattuglie americane per poi dileguarsi. Un obiettivo legittimo. Un obiettivo da Predator. Un giorno, Martin lo avvista: si sta na-scondendo in una casa. Il pilota studia i sensori infrarossi: nella stanza in cui si trova è solo. Accanto ci sono altre persone. Bisogna studiare la traiettoria migliore. Una volta calcolata, il lancio del

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missile. Ma a pochi secondi dall’impatto, un vecchio entra nell’in-quadratura. Troppo tardi per deviare l’Hellfire senza causare dan-ni ancora maggiori. Il missile centra il vecchio e la stanza di “Roc-ket Man”.

Per affrontare tutti questi problemi, gli americani stanno inve-stendo in una maggiore autonomia delle macchine. La Darpa, l’agenzia per la ricerca del Pentagono, è ad esempio al lavoro su software e sistemi di automatizzazione per semplificare il lavoro agli analisti, costruendo algoritmi che individuino in autonomia elementi chiave. Dalla semplice identificazione di figure in movi-mento a evoluti programmi che riconoscano le identità delle perso-ne. Ma che conseguenze avrà una macchina che filtra e decide per l’uomo?

Gli Stati Uniti hanno l’obbligo morale di dare l’esempio, di svilup-pare criteri per la sempre crescente autonomia dei droni. Elabora-re una dottrina internazionale, senza indugiare aspettando che gli incubi di oggi si trasformino nella realtà di domani. Perché il futu-ro è già qui. Sempre più robot - oltre ai droni - combattono fianco a fianco ai militari americani. Già nella guerra in Iraq iniziata nel 2003, migliaia di robot sono stati schierati al fianco delle truppe in carne e ossa. Sminatori, aerei senza pilota, mitragliatori automa-tici dotati di ruote103.

Fantascienza, avrebbe pensato l’attore-pioniere Reginald Denny, il primo a produrre droni su scala industriale. Invece non è un film di Hollywood, magari in cui potrebbero recitare i nipoti di Denny. È la guerra di oggi. E non solo. Da giocattolo desiderio di pochi strampalati appassionati, i droni si stanno trasformando in una delle tante tecnologie disponibili a basso prezzo sul mercato. Settant’anni son passati. Chissà cosa leggerete fra altri settanta.

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«Silent enim leges inter arma»

Tacciono, infatti, le leggi in mezzo alle armi. Così scriveva Cicero-ne104 quasi duemila anni fa. Non bisogna però cadere nell’erronea convinzione del filosofo romano: dai suoi tempi, gli strumenti e i metodi della guerra sono diventati sempre più complessi, evoluzio-ne permessa anche dallo sviluppo esponenziale della tecnologia. Le nuove armi, più efficienti e letali, ma allo stesso tempo apparen-

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Reaper armato (© Crown 2013)

La base legale e la legittimazione internazionale degli attacchi con i droni

Nota 104

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temente imprescindibili negli eserciti contemporanei, necessitano di norme che li regolino. Un loro utilizzo erroneo non è un proble-ma solo per chi li possiede e impiega, ma diventa una questione che coinvolge la sicurezza di tutta la comunità internazionale e co-me tale va compreso e limitato.

Bombe nucleari, armi chimiche, mine antiuomo: tutti armamenti il cui impiego gli Stati hanno ritenuto di dover regolamentare. Ora il dibattito è aperto sull’utilizzo di droni, contrapponendo gli Stati Uniti ai numerosi e crescenti dubbi di parte della comunità inter-nazionale, che ne critica legittimità e legalità.

Per fare luce sugli aspetti fondamentali e comprendere i risvolti di questo dibattito, conviene ricorrere ad alcuni principi del diritto internazionale. Cercando di rispondere a tre quesiti cruciali. Pri-mo: come sono state legittimate le operazioni di antiterrorismo do-po l’Undici Settembre a livello interno? Secondo: in che modo gli Stati Uniti hanno giustificato sulla scena internazionale il ricorso alla forza contro i terroristi? Terzo: come deve essere condotto un attacco perché sia considerato legittimo? Domande, queste, che im-pongono di impiegare due branche del diritto internazionale: lo ius ad bellum (che s’interroga sul quando è possibile usare la for-za) e lo ius in bello (che invece definisce il come, ricorrendo anche al concetto della guerra giusta). Gran parte del diritto internazio-nale applicabile agli attacchi dei droni deriva da questo impianto teorico, ma le sue interpretazioni sono spesso molto diverse tra lo-ro.

Il primo passo che dobbiamo compiere - prima ancora di uscire dai confini del Nordamerica e addentrarci nei meandri del diritto internazionale - è andare alla scoperta delle regole interne statuni-tensi che giustificano il ricorso alla forza attraverso uno strumento divenuto ormai un cardine dell’antiterrorismo a stelle e strisce: le targeted killings, le uccisioni mirate compiute, nel caso in analisi, con i droni.

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GLI STATI UNITI SONO IN GUERRA? LE GIUSTIFICAZIONI DELL’AMMINISTRAZIONE

Il fondamento giuridico per le operazioni di antiterrorismo degli Stati Uniti e l'uccisione mirata dei membri di al-Qa’ida e dei suoi affiliati in tutto il mondo è l'Autorizzazione per l'uso della forza mi-litare (riassunto nell’acronimo Aumf), approvata dal Congresso americano pochi giorni dopo l’Undici Settembre105:

Questa legge è di importanza capitale in quanto non è solo parte di una serie di norme che hanno guidato gli Stati Uniti nella cosid-detta “guerra al terrore”. Grazie alla sua interpretazione estensiva, l’Aumf è anche diventata il fondamento legale con cui le forze di si-curezza americane, su tutte la Cia, sono tornate a impiegare lo stru-mento dell’uccisione mirata. Tattica che, come racconta il capitolo 1, era stata ufficialmente bandita dal presidente Ford nel 1976.

Oggi non esiste alcuna legge statunitense che disciplini espressa-mente l’omicidio mirato. Nel 1981 è stato emanato dal presidente Reagan l'ordine esecutivo 12333 (2.11), il quale proibisce in termi-ni assoluti, con o senza l'approvazione presidenziale, l'uccisione a scopo politico106. Ma l'assassinio politico inteso da questo docu-mento e la targeted killing sono due atti ben diversi, in quanto con il secondo si intende uno strumento di guerra mentre il primo può essere condotto nei confronti di un avversario interno. Per contorni più precisi dell’omicidio mirato occorre rivolgersi a una delle scarse fonti che ne trattano: un rapporto della Croce Rossa Internazionale del 2009107, che lo definisce in cinque punti.

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«Il presidente è autorizzato a usare tutta la forza necessaria e appropriata contro quelle nazioni e persone che egli ritiene abbiano pianificato, autorizzato, commesso o sostenuto gli attacchi dell’Undici Settembre, o anche abbiano protetto queste organizzazioni o persone; con l’obiettivo di prevenire qualsiasi altro futuro atto di terrorismo internazionale contro gli Stati Uniti da parte di queste nazioni, organizzazioni o persone

Nota 105, 106, 107

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1.

Deve essere in corso un conflitto armato internazionale o non in-ternazionale. Senza questo presupposto l'uccisione di un individuo da parte dello Stato verrebbe considerata omicidio e sarebbe quin-di punibile dal governo locale secondo le leggi nazionali.

2.La vittima deve essere un soggetto specifico, individuata per la

sua inequivocabile attività nel conflitto.

3.L'individuo sta partecipando direttamente alle ostilità.

4.Non può essere percorsa alcuna alternativa, cattura compresa.

5.Solo un comandante militare può autorizzare la missione. Esiste

la possibilità di delega da parte del capo dello Stato ad altre autori-tà come, nel caso americano, il segretario alla Difesa o il direttore della Cia. In ogni caso, il concetto è che questi attacchi dovrebbero ottenere l'approvazione da parte di un’alta autorità, civile o milita-re. L'ufficiale verifica l'identificazione positiva dell’obiettivo e ne considera la necessità militare, ovvero se il danno inferto dall'attac-co può giustificare il vantaggio ottenuto.

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FIGURA 4.1 Differenza tra assassinio politico e uccisione mirata

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In altre parole: le targeted killings devono essere chirurgiche, evi-tare danni collaterali e essere eseguite in circostanze di guerra. In caso contrario, nella fattispecie americana, scatta la violazione del-l'Ordine Esecutivo 12333(2.11), il divieto di assassinio politico.

Le amministrazioni Bush e Obama hanno interpretato in modo estensivo il concetto di uccisione mirata: gli Stati Uniti sono in guerra contro al-Qa’ida e le forze a essa associate e pertanto è pos-sibile il ricorso alla forza nei confronti di certi individui che pongo-no particolari minacce. La necessità di combattere il terrorismo per evitare nuovi attacchi all’Occidente e la conseguente maggiore libertà d’azione concessa alle forze di sicurezza ha portato a un al-largamento delle maglie legali, giustificando l’omicidio mirato, le kill list e gli attacchi dei droni.

Per limitarsi alla sola presidenza Obama, questa posizione è stata sostenuta apertamente da alti funzionari in numerosi discorsi che hanno confermato la validità e la base legale della strategia. Ne hanno parlato ufficialmente, nell’ordine: Harold Koh108, consiglie-re legale del dipartimento di Stato degli Stati Uniti, nel 2010; John Brennan, allora consigliere del presidente per l’antiterrorismo e og-gi direttore della Cia, nel 2011109; Eric Holder, procuratore genera-le, nel 2012110; ancora una volta Brennan nel 2012111; e infine Jeh Johnson, consulente generale al dipartimento della Difesa, nel 2013112.

Provando a riassumere, la dottrina ufficiale che prende forma da questi discorsi è che gli Stati Uniti hanno diritto all’autodifesa, an-che preventiva e anche nei confronti di singoli individui (il concet-to verrà trattato nel paragrafo successivo). Nel decidere le sorti di un terrorista - in qualunque angolo del mondo si trovi, a prescinde-re dall’esistenza di un conflitto locale - la Casa Bianca non è solo in linea con le norme interne, ma anche con quelle a livello interna-zionale.

Il permesso di uccidere ha però dei limiti: sono da ritenersi esclu-

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si, infatti, i terroristi internazionali non riconducibili ad al-Qa’ida e quelli di cittadinanza americana (condizione valida anche per chi ha il doppio passaporto), i quali rimangono protetti dalla clausola del giusto processo contenuta nel quinto emendamento della Costi-tuzione. Dal 2009 a oggi sono quattro i cittadini statunitensi morti sotto i colpi dei droni, come dichiarato dal procuratore Holder nel maggio 2013113 (il caso più famoso è sicuramente quello di Anwar al-Awlaki, la cui storia è raccontata nei dettagli nel capitolo 2). Inoltre, tutti gli obiettivi, a prescindere dalla loro nazionalità, pos-sono essere uccisi solo quando rappresentano un imminente peri-colo, quando la cattura non è fattibile o quando vengono rispettate le norme di diritto bellico in materia114.

Fra 2012 e 2013, con una serie di discorsi e di documenti disponi-bili al pubblico115, l’amministrazione ha reso noti alcuni standard che regolano il processo decisionale delle operazioni clandestine contro al-Qa’ida al di fuori dell’Afghanistan, l’unico teatro di una guerra ufficiale. Si va dall’individuazione dell’identità dell’obietti-vo, alla ragionevole certezza che civili non saranno colpiti, alla va-lutazione del grado di pericolosità dell’obiettivo, sino all’esplora-zione della fattibilità delle alternative per neutralizzare la minac-cia.

Se a livello interno la posizione dell’amministrazione pare inattac-cabile, qualche dubbio sulla scena internazionale rimane. Gli Stati Uniti da soli non possono determinare quello che la comunità in-ternazionale nel suo complesso pensa e crede sia giusto, quali com-portamenti siano giustificabili, quali legittimi e quali legali. Ecco il motivo di un esame di diritto internazionale.

L’USO DELLA FORZA CONTRO IL TERRORISMO Dal secondo dopoguerra l’Organizzazione delle Nazioni Unite, la

cui Carta fondante è stata ratificata da pressoché tutti i paesi del

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globo, è diventata il faro dello ius ad bellum, restringendo ai mini-mi le possibilità per uno Stato di ricorrere della forza. Fin dai suoi primi articoli116, la Carta impone ai firmatari di astenersi dall’utiliz-zare, o anche solo minacciare, l’uso della forza nelle relazioni inter-nazionali; un principio confermato anche a livello consuetudina-rio117.

Le eccezioni alla regola generale sono solo due, illustrate nel cele-berrimo (e discusso) Capitolo VII. In esso, l’articolo 42 permette il ricorso alla forza solo quando ufficialmente autorizzato dal Consi-glio di Sicurezza dell’Onu, mentre l’articolo 51 giustifica l’impiego della forza per legittima difesa. Queste strade possono essere intra-prese solo se le soluzioni alternative non violente, dai negoziati al-le sanzioni, non hanno dato i frutti sperati o sono impossibili da praticare. Inoltre, la decisione di utilizzare la forza deve seguire un processo di accertamento, in cui si verifica che nei confronti di uno Stato è stata violata la pace attraverso la forza o la minaccia del suo impiego.

Al momento della sua stesura, la Carta era concepita come stru-mento per regolare i conflitti tra attori statali e per questo non con-templa i casi di terrorismo, le cui manifestazioni all’epoca non era-no rilevanti quanto oggi. Solo dalla fine della guerra fredda i con-flitti asimmetrici in generale e i casi di terrorismo in particolare hanno iniziato a occupare un posto sempre più importante in seno alle Nazioni Unite118.

Come ricondurre le operazioni di anti-terrorismo sotto il cappel-lo dei principi dell’Onu? Secondo l’interpretazione originale della Carta, non essendo i terroristi attori statali, le loro attività dovreb-bero essere contrastate non da uno Stato straniero, bensì dalla na-zione dove essi si trovano e che dovrebbe giudicarli come criminali seguendo il diritto interno. Un paese straniero, per quanto utilizzi la forza in modo legittimo e proporzionato solo a scopo difensivo, non avrebbe la base legale per intervenire in un altro Stato: violan-done la sovranità, commetterebbe un illecito.

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Ricalcando alcune risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu risalenti agli anni Settanta e Ottanta119 e i successivi dibattiti tra le aule delle autorità internazionali, si è trovato un comune accordo su come interpretare gli atti terroristici. Questi sono assimilabili a un illecito da parte dello Stato che li ospita, qualora esso non ab-bia ottemperato a due suoi fondamentali obblighi, la prevenzione e la repressione delle attività terroristiche. Quando lo Stato stranie-ro non adempie alle sue responsabilità, il suo comportamento può costituire una violazione delle obbligazioni internazionali a suo ca-rico.

La nuova interpretazione è stata ufficializzata proprio in seguito

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FIGURA 4.2 L’autorizzazione della forza da parte del Consiglio di Sicurezza Onu

Nota 119

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all’attacco alle Torri Gemelle120. Si è sancito così il concetto di Sta-to rifugio, spesso definito impropriamente Stato canaglia - trop-po debole, connivente o addirittura sponsor di gruppi terroristi transnazionali. Per la prima volta la comunità internazionale non si limitava a considerare colpevole a livello internazionale solo uno Stato che avesse fornito effettivo sostegno a, o avesse control-lato, un’organizzazione terroristica; ma da quel momento poteva essere imputabile anche uno Stato negligente, la cui condotta era stata accertata come tale.

All’indomani della tragedia dell’Undici Settembre, un’interpreta-zione così estensiva del concetto di responsabilità fu immediata-mente accettata dalla maggior parte della comunità internaziona-le, che si schierò quasi interamente al fianco degli Stati Uniti nella guerra al terrore contro al-Qa’ida. Grazie a questa larga condivisio-ne del concetto è stato quindi possibile schierare truppe in Afgha-nistan per la Missione Enduring Freedom e colpire i gruppi jihadi-

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Riunione straordinaria del Consiglio di Sicurezza il 12 Settembre 2001 (© UN Photos)

Nota 120

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sti in svariati Paesi.

Sin da subito però sono state evidenti le zone d’ombra, nonostan-te esse siano rimaste per molti anni in secondo piano di fronte al-l’urgenza di debellare la minaccia terroristica che pareva incombe-re su tutto l’Occidente. Innanzitutto, alcuni commentatori si sono domandati se la definizione di attacco armato secondo i principi dello ius ad bellum fosse applicabile agli attacchi terroristici, i qua-li, nonostante il forte impatto a livello di immagine, solitamente si svolgono su una scala ridotta. In secondo luogo, è stato sollevato il dubbio che l’autodifesa invocata dagli Stati vittima di attacchi ter-roristici abbia in realtà fondamenta traballanti. La minaccia del-l’uso della forza ha tutte le caratteristiche previste dal diritto inter-nazionale, quanto a immediatezza? E ancora: rispondere con gli strumenti bellici statali convenzionali soddisfa i requisiti di pro-porzionalità?

Tali dubbi sono stati scacciati dalla prassi attraverso nuove cate-gorie sotto cui schematizzare i conflitti: si è arrivati persino a par-lare di autodifesa preventiva contro gli individui, ovvero agire pri-ma ancora che la minaccia dell’uso della forza da parte di un terro-rista sia effettiva. Per anni, gli interrogativi sono stati lasciati ai giuristi di nicchia, quasi sempre poco considerati dai decisori poli-tici di rilievo.

Il dibattito è però tornato alla ribalta negli ultimi tempi, trascina-to dal tema dei droni fuori dalle buie e polverose stanze in cui era relegato. Si ritorna così alla questione iniziale: con che diritto i dro-ni possono essere i protagonisti delle uccisioni mirate da parte de-gli Stati Uniti? Quando gli attacchi robotici sono stati introdotti nelle operazioni statunitensi la base legale era quella appena spie-gata: guerra al terrorismo, Stati negligenti e possibilità di volare in-contrastati per il mondo senza incorrere in problemi di diritto in-ternazionale. Con, inoltre, un’altra caratteristica che li giustificava ulteriormente: i droni avevano un impatto zero a livello di immagi-ne e provocavano ben poco scalpore.

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Tuttavia, man mano che il ricordo dell’Undici Settembre si è fatto più sbiadito, gli Stati e le altre istituzioni componenti la comunità internazionale hanno iniziato a guardare con occhi diversi a que-sto scenario. Agli Stati Uniti vengono ora poste più domande e chieste più giustificazioni, mentre i paesi vittima di attacchi con i droni richiedono maggiore trasparenza e rispetto della sovranità. In Pakistan, per esempio, le corti hanno di recente emanato una se-rie di sentenze121 che affermano la sovranità dello Stato e dichiara-no qualsiasi attacco americano compiuto con i droni un atto illega-le. Non sono solo leader e giuristi a interessarsi al tema: anche l’opinione pubblica è diventata più consapevole della questione dei droni, come dimostra anche l’aumento di sondaggi negativi in materia e le inchieste dei media.

L’amministrazione Obama deve ora affrontare il problema. In un primo momento aveva scommesso sui droni come arma del futu-ro, precisa e silenziosa e teoricamente in regola con le norme inter-nazionali. Nei prossimi mesi e anni però il sentimento della comu-nità internazionale potrebbe mutare, e forse il processo di cambia-mento è già iniziato.

L’Onu stessa, autorità che più di tutte dovrebbe fornire le linee guida della legittimità, approccia la questione in modo nebuloso. Non ci sono state ancora prese di posizione precise sull'utilizzo dei droni da parte dell’Assemblea o del Consiglio di Sicurezza, ma da alcune dichiarazioni si può intuire una possibile linea di pensiero. L'Alto Commissario per i diritti umani Navi Pillay ha recentemen-te chiesto ai paesi dotati di droni di garantire che il loro uso sia conforme alle norme internazionali:

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Continuano a essere profondamente disturbanti le implicazioni sui diritti dell’uomo del-l’uso di droni armati nel contesto di operazioni di antiterrorismo e militari, con un numero sempre maggiore di Stati che cercano di acquisire tali armi. La preoccupante mancanza di trasparenza di queste operazioni ha anche contribuito a una scarsa chiarezza sulle sue basi

Nota 121

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In questi mesi si sta svolgendo un'indagine guidata da Ben Em-merson, special rapporteur delle Nazioni Unite per diritti umani, lotta al terrorismo, esecuzioni extragiudiziali. L’inchiesta ha preso in esame gli attacchi effettuati dagli Stati Uniti con i droni e le for-ze speciali in Afghanistan, Pakistan, Yemen e Somalia. Il rapporto finale verrà reso pubblico solo in autunno, ma intanto il 14 marzo Emmerson ha dichiarato che l'uso dei droni in Pakistan viola il di-ritto internazionale124. «La campagna di operazioni clandestine portata avanti dagli Stati Uniti in Pakistan è condotta senza il con-senso dei rappresentanti eletti dal popolo o il governo legittimo dello Stato. Essa implica l'uso della forza sul territorio di un altro Stato senza il suo consenso ed è quindi una violazione della sovra-nità del Pakistan». Dopo varie interviste con i leader dei villaggi lo-cali e visto l’alto numero di attacchi e vittime che poco hanno a che fare con la lotta al terrorismo qaidista, Emmerson ha conclu-so, «I droni colpiscono vittime civili costantemente [...]. Gruppi di maschi adulti che svolgono attività quotidiane ordinarie sono stati spesso vittime di tali attacchi» (qui trovate una video-intervista a Emmerson). Con obiezioni simili, il principio che autorizza gli Sta-ti Uniti ad avvalersi della forza per fermare le minacce terroristi-che è fortemente messo in discussione. Tuttavia, anche se tale prin-cipio ne uscisse indenne, molte incertezze continuerebbero a rima-nere attorno al secondo insieme di regole che governano l’uso del-la forza, il cosiddetto ius in bello - ovvero la parte di diritto bellico che tratta non più il se, ma il come l’uso della forza possa essere

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legali, così come sulle garanzie che ne assicurano la conformità alle norme internazionali applicabili. Inoltre, la scarsa trasparenza sull’utilizzo dei droni ha creato un vuoto di responsa-bilità, nel quale è impossibile per le vittime chiedere dei risarcimenti. [...] Invito tutti gli Stati ad essere completamente trasparenti rispetto ai criteri per l’impiego di droni armati e ad assi-curarsi che il loro uso sia pienamente conforme al diritto internazionale rilevante. Dove av-vengono violazioni, gli Stati dovrebbero condurre indagini indipendenti, imparziali, immediate ed efficaci, e fornire alle vittime un rimedio efficace»122

Navi Pillay — Ginevra, 2013

Nota 122, 123, 124

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considerata legittima. In altre parole, lo ius in bello raccoglie le re-gole che, nel caso in cui scoppi un conflitto armato, devono indiriz-zare la condotta delle operazioni belliche per ridurre il più possibi-le le sofferenze e gli effetti collaterali. Per comprendere in che modo le operazioni clandestine con i droni rientrino e vengano di-sciplinate dallo ius in bello, bisogna prima introdurre un concetto fondamentale: la guerra giusta.

GUERRA GIUSTA, DISTINZIONE E PROPORZIONALITÀ

L’elaborazione del concetto di guerra giusta è da far risalire ai tempi di San Tommaso d'Aquino, tra i primi, nel XIII secolo, a teo-rizzare lo ius in bello125 in modo sistematico, definendo i tre princi-pi della guerra giusta126: l’autorità sovrana, la giusta causa e la giu-sta intenzione. È in particolare da quest'ultimo concetto, spiegato da San Tommaso con la frase “promuovere il bene ed evitare il ma-le”, che derivano i cardini dello ius in bello per come sono stati svi-luppati in seguito da successivi filosofi e giuristi.

La convinzione della giusta causa da parte di uno dei due conten-

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Navi Pillay (© UN Geneva) Ben Emmerson (© NAF)

Nota 125, 126

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denti può tuttavia portare a commettere abusi; di qui la necessità di fornire contorni definiti alla dottrina, elaborando i principi di distinzione e di proporzionalità. Della definizione di questi due pi-lastri si occupano i protocolli I e II della Convenzione di Ginevra del 1949, ratificati nel 1977127.

Con il primo concetto si definiscono gli obiettivi legittimi e si se-para il combattente dal non combattente. Un obiettivo militare128 valido deve essere soggetto a un esame diviso in due parti. In pri-mo luogo, l'obiettivo deve fornire un "contributo efficace" a un'azione militare nemica, ossia un beneficio tangibile in virtù del suo utilizzo, scopo, ubicazione o natura. In secondo luogo, la di-struzione, cattura o neutralizzazione dell'oggetto deve fornire un preciso vantaggio militare alla forza che lo colpisce.

Per deduzione, tutti gli altri obiettivi sono civili e devono pertan-to essere protetti. Lo stesso vale per le persone. Un civile, rispetto a un combattente, gode di protezioni importanti, come per esem-pio non essere oggetto dell'uso della forza o di forme di rappresa-glia. Non sono tuttavia prescrizioni assolute: il civile le perde la protezione "se in quel momento egli partecipa direttamente alle ostilità".

Viene codificato anche il divieto di compiere attacchi indiscrimi-nati, ovvero quelli "per natura fatti per colpire obiettivi militari o civili senza distinzione". Divieto che si applica anche in caso di mancanza di informazioni corrette e di incapacità di guidare con precisione l'attacco al bersaglio desiderato129. L'art. 51(5)(b) chiari-sce la definizione:

Il protocollo codifica anche il principio di proporzionalità, defini-

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Un attacco che può provocare incidentalmente la perdita di vite civili, danni ai civili, danni a beni di carattere civile, o una loro combinazione, che risulterebbero eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto previsto

Articolo 53 - Protocollo Di Ginevra

Nota 127, 128, 129

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to come la necessità di una corrispondenza tra l’impatto causato in-cidentalmente sulla popolazione civile e il vantaggio militare previ-sto: “Gli attacchi sono proibiti se causano perdite incidentali tra i civili, lesioni ai civili o danni a obiettivi civili che siano eccessivi ri-spetto ai vantaggi militari concreti e diretti che si aspetta di ottene-re”. In altre parole, bisogna evitare gli effetti collaterali. Secondo l’articolo 57, “in un conflitto internazionale è obbligatorio fare sem-pre attenzione a risparmiare la popolazione civile, i civili e gli obiettivi civili”. L’articolo 85 poi conferma e chiarisce il concetto, affermando che un attacco indiscriminato, messo in atto pur sa-pendo che causerà danni eccessivi alla popolazione civile, è inter-pretabile come crimine di guerra.

PROPORZIONALITÀ E DISTINZIONE NELLE UCCISIONI MIRATE DA PARTE DEGLI STATI UNITI

Quelle esposte sopra sono le fondamenta dello ius in bello. Come sono applicati i principi di distinzione e proporzionalità nelle ucci-sioni mirate? Conviene partire da tre scenari di targeted killing. Si tratta in tutti e tre i casi di operazioni realmente avvenute in Paki-stan, ma che per la loro natura sono fortemente esemplificative del discorso qui trattato. Il primo caso presenta un attacco che sfi-da chiaramente il principio di distinzione per come è enunciato nella teoria della guerra giusta e dà la possibilità di comprendere le differenti prospettive su di esso. Il secondo esempio esamina in-vece le difficoltà di valutare se il principio di proporzionalità sia stato applicato correttamente o meno. Il terzo caso, infine, presen-ta una situazione limite, in cui l’attacco non rispetta né il principio di proporzionalità né quello di distinzione.

L A S O T T I L E L I N E A T R A C O M B AT T E N T I E I N S O R T I

17 marzo 2010. Un drone attacca una roccaforte dei Taliban nel

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Waziristan del Nord, una delle Fata, le aree tribali ad amministra-zione federale. Le conseguenze dell’attacco variano a seconda delle fonti; tutte però concordano sul fatto che gli obiettivi fossero degli insorti in attività. Non sono state segnalate vittime civili e i danni collaterali sono limitati a una casa e due vetture distrutte130.

Sulla base dell'articolo 4 della Terza Convenzione di Ginevra, per essere classificato come un combattente (e quindi ritenersi un obiettivo legittimo), un individuo deve soddisfare determinati cri-teri. Per quanto riguarda l’attacco del 17 marzo, è molto probabile che gli obiettivi non rientrassero nella categoria di "combattente". Da quanto risulta dalle fonti più affidabili, gli obiettivi non erano membri dell'esercito del Pakistan, né di una milizia riconoscibile: non indossavano segni distintivi della loro appartenenza a un grup-po armato regolare. Inoltre, non viene soddisfatto l'articolo 4(6), che fa riferimento alla resistenza spontanea a un potere invasore, dando la possibilità ai civili di formare un’unità militare regolare. Per deduzione negativa quindi, queste persone non erano combat-tenti come espresso dall'articolo 4 e rientrano perciò nella catego-ria civile.

Se però gli insorti non possono essere identificati come combat-tenti, questo non implica che possano automaticamente godere delle protezioni accordate ai civili. Infatti, ai sensi della Convenzio-ne di Ginevra, i civili perdono il loro status quando "prendono par-te direttamente alle ostilità". Sappiamo poco sulla reale natura del-le attività delle vittime, ma basandosi sulle fonti giornalistiche non è irragionevole supporre che gli insorti avessero recentemente par-tecipato a un atto violento e fossero armati. Si tratterebbe in que-sto caso di un chiaro esempio della categoria del “combattente ille-gale”: un civile, generalmente beneficiario di uno status di prote-zione, che però si comporta da combattente131. Quando si colpisce un “combattente illegale”, il principio di distinzione viene soddi-sfatto.

L’esempio rivela anche una certa ambiguità nella normativa vi-

DRONE UNCHAINED — 113Nota 130, 131

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gente: la distinzione tra combattente e civile si inserisce in un’area grigia, dimostrata proprio dalla figura degli insorti, o dei “combat-tenti illegali”132. Si viene a creare cioè una categoria di combattenti di fatto, che non sono ufficialmente riconosciuti come obiettivi le-gittimi dalla Convenzione, ma che comunque si comportano come tali. Questa ambiguità è decisiva, perché crea uno spazio soggetto a interpretazione in cui si inseriscono, come si vedrà più avanti, al-cune delle giustificazioni agli attacchi con i droni, nonché la mag-gior parte del dibattito sugli obiettivi legittimi: è lecito colpire solo combattenti ufficialmente riconosciuti come tali, o anche civili che però partecipano alle ostilità? E in tal caso, come avere la certezza che chi si va a colpire ponga veramente un pericolo imminente? In un certo senso, il dubbio ripercorre e allarga lo spettro di quanto già detto in precedenza riguardo lo ius ad bellum, quando sono sta-te illustrate le motivazioni che hanno portato a considerare i terro-risti come degli attori internazionali piuttosto che come semplici criminali locali.

Quanto al principio di proporzionalità, i danni collaterali derivati dall'attacco del 17 marzo sono ridotti: una casa e due vetture. Se-guendo le linee guida dell'articolo 51(5)(b) del I protocollo, il possi-bile danno ai beni di carattere civile deve essere valutato e compa-rato al "vantaggio militare concreto e diretto previsto". In questo particolare esempio è molto probabile che il criterio di proporzio-nalità sia stato soddisfatto. Il vantaggio militare atteso è abbastan-za tangibile, se consideriamo veritiere le notizie pubblicate in Paki-stan sugli obiettivi133. Questo vantaggio, ponderato con la perdita di una casa e due veicoli, produce una situazione in cui i danni ac-cidentali non sono eccessivi rispetto al vantaggio militare acquisi-to. La questione sarebbe ovviamente più complessa se le proprietà civili distrutte fossero più significative, per esempio una moschea o una scuola134.

DRONE UNCHAINED — 114Nota 132, 133, 134

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2 . I O S O N O I L P E R I C O L O : M I N A C C E I M M I N E N T I E P A R T E C I P A Z I O N E D I R E T T A

L'11 dicembre 2009, un attacco di un drone americano in Paki-stan uccide Saleh al-Somali135, ritenuto il capo di tutte le operazio-ni di al-Qa’ida al di fuori del Pakistan, probabilmente anche di quelle in Europa e Nord America. Secondo le fonti locali, non ci so-no state vittime civili. In questa situazione, gli Stati Uniti hanno colpito un obiettivo che consideravano una minaccia, la mente che avrebbe potuto orchestrare attacchi in tutto il mondo.

Se proviamo ad applicare i principi esposti in precedenza potreb-bero sorgere alcuni problemi, in particolare attorno al principio di distinzione. La legalità dell’attacco si basa essenzialmente sull’in-terpretazione della norma per cui i non combattenti godono del-l’immunità "a meno che e fintanto che essi non partecipino diretta-mente alle ostilità”136. Secondo gli Stati Uniti, in questo contesto, la pianificazione di un’azione offensiva rientrava in questa fattispe-cie.

Tuttavia, il problema che molti giuristi sollevano - soprattutto quelli della scuola di pensiero che predilige un’interpretazione re-strittiva della clausola - riguarda proprio il coinvolgimento nelle ostilità della vittima, troppo indiretto per essere considerato tale. Per alcuni di questi giuristi, infatti, solo il chiaro e visibile posses-so di un’arma costituisce un legittimo motivo per attaccare un civi-le137. Un’interpretazione, questa, utilizzata anche nell’ordinamento interno e tra i ranghi delle forze dell’ordine per prevenire errori di valutazione e abusi. Un suo abbandono - accusano i detrattori di questo tipo di uccisioni mirate - non può che portare effetti negati-vi, trasformando le operazioni in una forma indiscriminata di vio-lenza. Seguendo questa interpretazione restrittiva, al-Somali non doveva essere colpito, nonostante a detta degli Stati Uniti fosse im-pegnato nella pianificazione di attacchi terroristici.

Al momento non c’è una comune e unitaria interpretazione della clausola e molti sono i dubbi riguardo al concetto di partecipazio-

DRONE UNCHAINED — 115Nota 135, 136, 137

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ne diretta e del relativo status delle persone che prendono parte al-le ostilità. Se nella prassi delle operazioni americane, ma anche di alcuni suoi alleati, si sta affermando un’interpretazione sempre più estesa di partecipazione alle ostilità, che include anche chi le pianifica e chi vi collabora, a livello di dibattito e di trattazione si va nella direzione opposta, cercando di preservare il diritto dei civi-li a essere tenuti a distanza dai conflitti e dalle violenze.

3 . L A M A N O P E S A N T E : U N C A S O L I M I T E

22 Aprile 2011. Un drone americano colpisce un bunker utilizzato dal comandante taliban locale Hafiz Gul Bahadur nell'area di Spinwam, nel Waziristan del Nord138, uccidendo 26 persone, tra cui donne e bambini. Bahadur, la vittima designata dell’attacco,

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Chitral Valley (Pakistan), al confine con l’Afghanistan (© Charlie Phillips - Flickr)

Nota 138

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collaborava con al-Qa’ida dal 2006. A partire da quell’anno aveva negoziato una tregua con il governo pakistano in cui prometteva di aiutarlo a espellere tutti i militanti stranieri dal paese (tregua in-franta proprio da un attacco di un drone a stelle e strisce nel mar-zo del 2011139).

In questo caso è evidente come i principi dello ius in bello non sia-no stati rispettati. Non vi è stata una limitazione delle perdite inuti-li, in quanto il principio di distinzione non è stato considerato. Se-condo il protocollo I, il principio di proporzionalità vieta un attac-co per cui si possa ragionevolmente prevedere che provochi inci-dentalmente danni che risulterebbero eccessivi rispetto al concre-to e diretto vantaggio militare. In breve, qualsiasi attacco che non si adatti a questi criteri è considerato indiscriminato. Alcuni con-vinti difensori dell’operazione potrebbero parlare di effetti positivi a lungo termine a fronte di danni limitati nel breve. Tuttavia, co-me affermano in molti, tra cui la Croce Rossa Internazionale140, "i fattori per la valutazione della proporzionalità, in particolare la no-zione di vantaggio militare e quella dei danni collaterali, sono da considerarsi solo nel breve termine”. La valutazione quindi non può essere soggetta a interpretazioni a posteriori: deve avvenire prima dell’eventuale attacco.

IL POTERE E LA RESPONSABILITÀNegli ultimi anni gli Stati Uniti si sono messi alla guida della guer-

ra al terrore, mettendo a segno importanti obiettivi e riuscendo a contrastare parte della ferocia di alcuni gruppi terroristi. Tuttavia, nel loro cammino hanno anche commesso errori, alcune volte mi-nimi, altre grossolani, nella migliore delle ipotesi, o dagli effetti collaterali devastanti, nella peggiore. I tre esempi discussi in prece-denza dimostrano quanto questa lotta senza quartiere al terrori-smo possa allargare le maglie del diritto, come sempre caratterizza-to da confini molto labili ma la cui individuazione è di vitale impor-

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tanza per la tenuta dell’ordine della società mondiale. E in questo dibattito la comunità internazionale è sempre più coinvolta: è gra-zie al nuovo interesse e alle crescenti preoccupazioni all’interno dell’opinione pubblica internazionale che oggi possiamo interro-garci con maggiore razionalità sul tema delle targeted killing e de-gli attacchi con i droni.

Ed è sempre grazie a questo stesso dibattito se il presidente Oba-ma si è sentito in dovere di elaborare una dottrina pubblica sull’ar-gomento. Il 23 maggio 2013, in un discorso alla Naval Defense Uni-versity141, Obama ha cercato di rassicurare la nazione sul fatto che la guerra contro al-Qa’ida, come tutte le guerre, avrà termine e che gli Stati Uniti non stanno usando in modo indiscriminato alcune tattiche, tra cui i droni. Agli annunci sono poi seguiti due docu-menti, che dovevano, nei piani della Casa Bianca, definire con pre-cisione l’annunciato “cambio di rotta” nella politica di antiterrori-smo.

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Discorso di Obama alla Naval Defense University, 23.05.2013 (© WSJ via Youtube)

FILMATO 4.1 Obama sui droni

Nota 141

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Il primo142 è una sorta di manuale che illustra gli attuali criteri con cui l’amministrazione decide di ordinare le uccisioni mirate al di fuori di campi di battaglia convenzionali. Nel sintetico documen-to di tre pagine, la Casa Bianca fornisce cinque elementi chiave per comprendere le norme che regolano l’autorizzazione delle ucci-sioni mirate:

«1) ragionevole certezza che l'obiettivo sia presente;

2) ragionevole certezza che non combattenti non saranno feriti o uccisi;

3) la valutazione che la cattura non sia possibile al momento del-l'operazione;

4) la valutazione che le autorità governative competenti del pae-se in cui è prevista l'azione non possano o non vogliano affronta-re efficacemente la minaccia ai cittadini degli Stati Uniti;

5) la valutazione che non esistano modi alternativi di affrontare efficacemente la minaccia ai cittadini statunitensi».

Alle cinque “regole” segue un altro importante paragrafo in cui la Casa Bianca si smarca dalle critiche riguardo la legalità sul piano internazionale:

Il secondo documento consiste nella trascrizione di un briefing143 per i giornalisti, in cui alcuni membri di rilievo dell’amministrazio-ne hanno offerto la loro interpretazione sulla nuova strategia. Du-rante il briefing, uno dei temi di maggiore interesse sollevati è sta-to quello di chi in futuro porterà avanti le operazioni, di fronte alla

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Ogni volta che gli Stati Uniti usano la forza in territori stranieri, ci sono dei principi giuridici internazionali, tra cui il rispetto della sovranità e il diritto dei conflitti armati, che impongono importanti vincoli sulla capacità degli Stati membri di agire unilateralmente - e sul modo in cui gli Stati membri possono usare la forza. Gli Stati Uniti rispettano la sovranità nazionale e il diritto internazionale

Nota 142, 143

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promessa di Obama di allontanare progressivamente la Cia dalla cabina di controllo dei droni e delle uccisioni mirate. Sul tema, pe-rò, i funzionari non hanno dato informazioni precise, rimandando la discussione. Poca chiarezza è stata fatta anche sul tema dei con-troversi signature strikes: la posizione dell’amministrazione è che essi continueranno finché vi sarà la necessità di proteggere le trup-pe in Afghanistan. Inoltre, la Casa Bianca ha recentemente annun-ciato che intende fornire materiale classificato sull’uccisione di Anwar al-Awlaki alle commissioni competenti del Congresso144.

FIGURA 4.3 Schema decisionale della Disposition Matrix

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L’amministrazione Obama ha mosso alcuni passi nella direzione giusta. Restano però ampie zone d’ombra. Non è chiaro fino a che punto gli annunci e i documenti nel maggio 2013 rappresentino una svolta nella politica della guerra dei droni. Un primo banco di prova è stato lo Yemen tra luglio e agosto 2013, su cui sono piovuti nove attacchi in quasi due settimane. L’amministrazione si è dife-sa sostenendo che l’impennata delle operazioni dei droni è diretta-mente legata all’emergenza che ha portato a chiudere 21 missioni diplomatiche tra Africa e Medio Oriente, di fronte all’evidenza che la branca yemenita di al-Qa’ida stava preparando una serie di at-tentati. Davanti all’imminenza di una minaccia terroristica - sostie-ne l’esecutivo statunitense - i droni hanno agito per neutralizzare il pericolo, mentre per sicurezza si procedeva alla chiusura di am-basciate e consolati. Il problema della “nuova” politica di Obama sull’impiego dei droni è che non c’è un meccanismo di controllo, di valutazione, nemmeno ex post.

IL DESTINO MANIFESTOIn un messaggio preparato pochi giorni prima della sua morte,

Franklin Delano Roosevelt: “Nell’agonia della guerra un grande po-tere comporta grandi responsabilità”145. Una verità lampante che già Aristotele aveva affermato nell'Etica Eudemia, e che porta con sé una consapevolezza etica, ma anche politica: le persone che han-no il potere di una vera libertà di scelta, che sono responsabili fino in fondo delle loro azioni, possono (e devono) essere giudicati col-pevoli o innocenti per quelle stesse azioni146.

Da più di un secolo gli Stati Uniti sono artefici non solo del desti-no americano, ma anche di quello di tutto il mondo. L’esercizio del-la loro potenza ha forgiato tecnologia, innovazione, libertà, ma al-lo stesso tempo guerre, conflitti e violenze. Una volta c’erano le na-vi; poi sono arrivati gli aerei, i missili, i sottomarini e le testate nu-cleari; infine, lo spazio e i computer. Ora nell’arsenale ci sono an-

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che i droni. I quali hanno le stesse caratteristiche di tutti gli stru-menti tecnologici in grado di cambiare in modo decisivo l’agire umano. Se usati in modo corretto possono portare alcuni evidenti benefici. Ma se mal gestiti, rischiano di causare danni immani.

I droni hanno ampliato lo spettro delle opzioni possibili per i mili-tari e soprattutto per i politici: è però giunto il momento di una ri-flessione seria e completa sui limiti di queste opzioni. La guerra dei droni può essere considerata ammissibile dal diritto internazio-nale, ma i problemi legali alla sua applicazione pratica sono dietro l’angolo. Se anche si riconoscesse (ma non va dato per scontato) che gli Stati Uniti sono effettivamente in guerra contro al-Qa’ida, tutte le loro azioni dovrebbero comunque rispettare le norme del diritto bellico in ogni suo risvolto ed evoluzione. Ci deve essere una corretta valutazione della necessità del ricorso alla forza nei confronti degli attori internazionali da fronteggiare. I principi di proporzionalità, necessità militare e distinzione, pur se di difficile valutazione, devono essere prerequisiti per ogni attacco. Se Was-hington abbandonasse il tracciato del rispetto delle norme interna-zionali, della garanzia dei diritti e dell’ottemperanza dei doveri che la comunità internazionale si autoassegna, soprattutto a livello bel-lico, ne uscirebbero mutate o addirittura svuotare di senso le rego-le più profonde della convivenza tra gli Stati.

Nelle parole del filosofo Michael Walzer: “La giustizia richiede che il ricorso alla forza sia legittimo soltanto qualora tutte le alter-native ragionevoli, che abbiano qualche prospettiva di successo, siano state esaurite”147. Per quanto i droni possano sembrare l’ar-ma definitiva, stanno sopravanzando tutte le altre alternative per combattere i terroristi, sulla base di calcoli basati meramente su considerazioni semplicistiche e di convenienza. Affidarsi a un'uni-ca soluzione può diventare rischioso, soprattutto nel lungo termi-ne. Scelte sbagliate in questo senso possono far passare gli Stati Uniti dalla parte del torto, lontani anni luce dalla tanto vagheggia-

DRONE UNCHAINED — 122Nota 147

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ta guerra giusta. Andando contro, alla fine, anche alle stesse ragio-ni per cui i droni sono nati e si sono diffusi.

DRONE UNCHAINED — 123

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Afghanistan, 17 settembre 2010. La colonna della compagnia del Capitano Pezzino si muove lentamente. Su queste maledette stra-de c’è da stare attenti. E la 515 non fa eccezione. Collega la città di Farah a Bakwa, sperduto villaggio nel nulla dell’Ovest afghano, la regione di responsabilità italiana. Sessanta polverosi e dissestati chilometri. Ma non sono buche e sabbia a preoccupare il convo-glio. Si procede a passo d’uomo perché sulle strade il nemico piaz-za le sue trappole preferite: bombe, tanto rudimentali quanto deva-stanti. Ad agosto, i primi italiani a mettere piede in quello spicchio

LE STREGHE TRICOLORI — 124

LE STREGHE TRICOLORI5

Il bivio italiano tra dieci anni d’impiego virtuoso e i rischi di un futuro armato

Reaper italiano in volo (© Aeronautica Militare)

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d’Afghanistan sono stati salutati da sette bombe.

A Bakwa, Pezzino deve arrivare entro sera. Il suo arrivo è stato fin troppo dilazionato: è da quasi tre settimane che in quello sper-duto avamposto i suoi commilitoni contano su una sola compa-gnia fucilieri, appena sufficiente a garantire la protezione della ba-se. In più, il suo convoglio porta le schede elettorali: il giorno dopo si vota per il parlamento afghano.

La notizia della bomba arriva a 15 chilometri circa da Bakwa. Ma il convoglio non è a rischio: è dal villaggio di Kormalek, più o me-no a metà viaggio, che Pezzino e i suoi muovono fuori strada, il ter-reno lo consente. Sarà anche più scomodo, ma almeno si evitano le trappole degli insorti. Questa l’ha avvistata il Predator. Meno male che c’è il drone, pensano sicuramente gli uomini della colon-na. Stavolta però ha fatto un colpo doppio. Non ha solo segnalato l’ordigno. Ha beccato chi l’ha messo. Anzi, chi lo sta mettendo.

Sorvolando a migliaia di metri di altitudine, il drone s’è accorto di tre uomini fermi sul ciglio della strada. Hanno parcheggiato le motociclette e armeggiano, chinati per terra. L’equipaggio del Pre-dator studia i comportamenti. Stanno piazzando un ordigno, ga-rantito. I tre sanno perfettamente che su quella strada di lì a poco passerà il convoglio italiano. Sanno anche che è diretto a Bakwa. L’intento dei tre è certamente ostile. Le regole d’ingaggio sono chiare: questo atteggiamento equivale a imbracciare un fucile e sparare alle nostre truppe. Basterebbe che il pilota - autorizzato dalla catena di comando - prema quel tasto rosso sul joystick. Ma sarebbe inutile. Il Predator italiano non è armato. Nessun drone tricolore lo è.

Nel frattempo, gli insorti non sono rimasti con le mani in mano. Finito lo sporco lavoro, vengono raggiunti da un’automobile e ri-partono. Il Predator non molla. Li segue, deciso a fornire ai deciso-ri militari tutti gli elementi possibili.

Tutti infatti vedono le immagini del drone. Che si fa?, si chiede il

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comando italiano. Come colpire gli insorti? Con un aereo conven-zionale. In zona, sono disponibili dei jet francesi, due Mirage 2000. Il Generale Claudio Berto, comandante degli italiani in Afghanistan, darebbe il via libera ma, da Kabul, il consigliere lega-le della coalizione ferma tutti. A questo punto, dicono le regole d’ingaggio, non si può colpire anche l’automobile. Non c’è la certez-za che non ci siano civili. Intanto, la vettura e le moto raggiungono un caseggiato: due edifici poveri, cinti da un cortile e da un muro di fango, a 5 chilometri circa da Bakwa. Gli insorti entrano in una delle due case. L’opzione di un bombardamento aereo sfuma del tutto.

L’attimo è perso.

È l’ora di pranzo quando alla base di Farah arriva la notizia. Non c’è un secondo da perdere. Una ventina scarsa di soldati si prepara a partire. Sono uomini delle forze speciali, la crème dei militari ita-liani: il 9° reggimento d’assalto Col Moschin. Fanno parte della Task Force 45, l’unità segreta per missioni ad alto rischio che ope-ra nell’Ovest afghano. Le operazioni più pericolose, le incursioni, le affidano a loro.

Ora hanno un compito diverso dal solito: andare a stanare quegli insorti che hanno piazzato un ordigno sulla strada 515. Sono stati messi in allerta la mattina stessa: dal comando italiano ci si aspet-tava che il convoglio sarebbe stato accolto a suon di bombe; il pia-no è di andare a beccare qualche insorto per provare a neutralizza-re la rete di bombaroli.

Gli uomini del Col Moschin salgono su un elicottero Ch-47. Alle 13.20 arrivano nei pressi del caseggiato. Una posizione molto diffi-cile: il terreno è del tutto scoperto. In più, l’elicottero alza un polve-rone immenso che nega la visibilità. Appena messo piede a terra, il commando viene investito da una marea di proiettili. Neanche il tempo di individuare la sorgente del fuoco che già due uomini so-no a terra. Feriti. I primi due a scendere. La priorità non è più col-

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pire gli insorti, bensì prestare loro il primo soccorso. Viene orga-nizzata un’evacuazione. Si torna a Farah, all’ospedale americano, per operarli d’urgenza. Il primo, il caporal maggiore Elio Rapisar-da, ce la fa.

Il secondo, il Capitano Alessandro Romani, no. 36 anni, 36esimo caduto italiano in Afghanistan.

IL BIVIOL’Italia si trova a un bivio. Possiede il Predator dal 2004 e lo ha

schierato in Iraq e Afghanistan; dal 2008 ha il Reaper, che ha ope-rato in Libia e Kosovo. Ora il nostro paese ha deciso di armare i suoi droni. Non è un’eventualità scabrosa, tutt’altro. Il caso del Ca-pitano Romani lo dimostra: se il drone avesse potuto colpire il ne-mico, non si sarebbe dovuto ricorrere alla paradossale opzione per cui, per proteggere gli uomini sul campo, bisogna inviare altri uo-mini, esponendoli a un pericolo addirittura maggiore.

Tuttavia, per intraprendere il cammino dell’armamento bisogna avere ben chiari gli orizzonti cui potremmo andare incontro. Cosa abbiamo fatto in un decennio d’impiego virtuoso dei droni e l’esempio che ci arriva da un altro decennio, ma di attacchi dal cie-lo, firmati Stati Uniti d’America. Capire, per evitare di abusare di quest’arma e per prevenire alcune ricadute negative sui suoi piloti e operatori.

Ecco perché conviene iniziare sondando la storia del Predator tri-colore e del suo impiego nelle guerre a cui abbiamo partecipato. Per ribadire come sinora l’Italia abbia usato i droni in modo positi-vo, per proteggere le nostre truppe e salvando più vite, in guerre dichiarate, a differenza di quelle clandestine in Pakistan o Yemen. E per scrutare le possibili insidie oltre quel bivio.

LE STREGHE TRICOLORI — 127

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COME IMPARAMMO AD AMARE IL PREDATORIl programma Predator è figlio della lungimiranza delle nostre

forze armate. Nel 1995, gli italiani vedono all’opera questa nuova macchina sui cieli dei Balcani: le prestazioni non sono eccezionali, eppure i militari tricolori intuiscono le potenzialità degli aerei sen-za pilota. Così, nel 1997 lo Stato Maggiore della Difesa emette un requisito operativo; formalizza cioè la necessità per le nostre forze armate di dotarsi dei droni. All’interno dei vertici militari, soprat-tutto dell’Aeronautica, infuria un dibattito tra scettici e visionari, tra chi pensa che quello del drone sia solo l’ennesimo esperimento senza futuro e chi invece scorge un campo che potrebbe rivoluzio-nare il modo di condurre la guerra.

Il 22 gennaio 2001, il Capo di Stato Maggiore della Difesa Mario Arpino autorizza la finalizzazione del programma Predator: l’acqui-sto, fuor di metafora. La scelta cade sul drone americano, dopo

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Predator di stanza a Tallil (Iraq) nel 2006 (© Esercito Italiano - Contingente Antica Babilonia)

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aver esplorato anche il mercato israeliano, ritenuto però non otti-male per problemi di interoperabilità. Il 31 luglio dello stesso anno viene firmato il contratto con la casa produttrice del Predator, la General Atomics di San Diego.

Passano però altri 12 mesi prima che la vendita venga autorizzata dal Congresso americano: i deputati e i senatori sono sempre restii a esportare tecnologie sensibili. Le diffidenze vengono però supera-te, complice anche il pronto schierarsi dell’Italia nella guerra al ter-rorismo, soprattutto in Afghanistan, dove un nostro contingente partecipa immediatamente all’operazione Enduring Freedom e as-sume un ruolo di rilievo nella missione Onu (poi Nato) denomina-ta Isaf. Così, a inizio 2003, può svolgersi il primo addestramento nel campo di volo della General Atomics a Gray Butte, una settanti-na di chilometri a nordovest di San Bernardino, California, l’aero-porto privato più grande d’America148.

Il 18 dicembre 2004, per la prima volta un Predator solca i nostri cieli. Sbarcato in Italia, il drone viene assegnato alla base di Amen-dola: a un tiro di schioppo da Foggia, si tratta della base militare più grande del nostro paese e vi ha sede il 32esimo stormo. Al suo interno, dei droni si occupa il 28esimo gruppo, soprannominato “Le Streghe”. A comandarlo è il Tenente Colonnello Antonio Genti-le, sotto la cui responsabilità avviene il varo del drone149.

Q U A N T O C I È C O S T AT O I L P R E D AT O R ?A fine 2013, l’Italia avrà in dotazione sei Predator e sei Reaper. Ma guar-

dare al costo del singolo velivolo (tra i 4 e i 7 milioni di dollari, a seconda del modello) è limitativo: ci sono le antenne, le stazioni di controllo, il sup-porto logistico, eccetera. La Difesa è però restia a fornire dati aggregati: al massimo, fonti dell’Aeronautica fanno oscillare il costo del programma tra i 50 e i 100 milioni di dollari. Tuttavia, Gianandrea Gaiani, giornalista specializzato in questioni militari, eleva il dato a 378 milioni di euro. La differenza potrebbe risiedere nei diversi capitoli di spesa conteggiati.

LE STREGHE TRICOLORI — 129Nota 148, 149

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IL DEBUTTO IN IRAQI vertici militari hanno un obiettivo ambizioso: impiegare subito

il Predator. Le nostre forze armate sono impegnate in Iraq, dove gli Stati Uniti schierano già moltissimi droni. E a gennaio 2005 si tengono le prime elezioni dell’èra post-Saddam: per l’America an-cora aggrappata all’utopia della democrazia esportabile il voto equivale a un successo, ma consultazioni macchiate da attentati terroristici infliggerebbero un duro colpo d’immagine. Garantire la sicurezza delle elezioni diventa strategico. Anche per fare bella figura nei confronti della coalizione, l’Italia decide di spedire i dro-ni nuovi di zecca in Iraq senza attendere oltre. Tutto in 45 giorni.

La scommessa è forte, quasi un azzardo150. I piloti e gli operatori hanno superato tutti i livelli dell’addestramento. Mancano però quelle missioni che confermino la bontà dell’addestramento stes-

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FILMATO 5.1 I predator italiani

Video italiano di presentazione dei Predator (© Easyand via Youtube)

Nota 150

Per vederlo su browser clicca qui.

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so. Per pattugliare i cieli iraqeni nel corso del voto, l’Aeronautica compie una vera corsa contro il tempo. Il 23 dicembre il drone vie-ne presentato alla Difesa. Tempo di festeggiare il Natale e tra il 12 e il 15 gennaio, gli uomini del 28esimo gruppo con i Predator si schierano in Iraq, nella base aerea di Tallil. Le elezioni si sarebbe-ro tenute solo 15 giorni dopo. E gli italiani non hanno mai effettua-to una missione. Una missione vera.

Tantomeno in Iraq. Un inferno, non tanto per i livelli di sicurezza sul terreno (comunque scarsi), quanto per gli ostacoli ambientali. Al posto di strade, palazzi e cemento, deserto, sabbia e silicio in so-spensione. Temperature a cui i motori faticano a raffreddarsi. Por-te e sportelli da aprire con la massima cautela, per evitare le temi-bili infiltrazioni di sabbia. Il tutto reso ancora più difficile da un drone ancora mai impiegato.

Gli americani danno una mano: a Tallil arrivano due addestrato-ri, il Maggiore Matt J. Martin, un esperto pilota, assieme a un ope-ratore dei sensori. Obiettivo: rendere gli italiani operativi in meno di due settimane. A dieci giorni dalle elezioni, i nostri tre piloti rie-scono a rullare, ossia a spostare il velivolo a terra. A quattro giorni dal D-Day, il primo decollo, a firma del Capitano Riccardo Venuti. La missione è semplice: volare 60 miglia a nord, sorvolare due edi-fici sospetti, comunicare con un’unità delle forze speciali italiane a terra, inviare, ricevere e analizzare dati, per poi tornare alla base. A due giorni dalle elezioni, l’ultima prova: volare otto ore sopra Na-siriyah, la stessa città che si sarebbe dovuta monitorare durante il voto. Tutto fila liscio. Gli italiani sono pronti.

All’alba del 30 gennaio, come previsto, il Predator si libra sui cie-li di Nasiriyah, per una missione di dodici ore e 80 miglia di diame-tro, per osservare i 158 seggi della città e i suoi dintorni, a caccia di attività ostili come militanti che caricano armi, interrano bom-be o preparano attacchi. Ancora una volta, nessun problema, nes-suna attività sospetta151.

LE STREGHE TRICOLORI — 131Nota 151

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In Iraq, i nostri due droni resteranno fino all’autunno 2006, con l’ultimo volo il 29 ottobre, accumulando 1630 ore di volo in 251 sortite152. Mettendo a disposizione i loro occhi alati in almeno tre tipi di operazione: proteggere le truppe a terra, offrire supporto al-la popolazione, fornire informazioni per missioni più offensive.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il Predator ti guarda le spal-le, ti toglie le castagne dal fuoco in momenti incendiati. Un esem-pio realmente accaduto: un giorno, una pattuglia sta compiendo una manovra di perlustrazione all’esterno di un centro abitato. Ser-ve a mantenere una presenza, a far vedere al nemico che controlli il territorio. La pattuglia è divisa in due unità, una più avanti e una più indietro. A un certo punto, due individui si avvicinano con fare sospetto all’unità più arretrata. Invisibili agli occhi di tutti. Meno

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FIGURA 5.1 I droni italiani

in Iraq

Primo Predator italiano a Tallil: 15 Gennaio 2005.

Prima missione:30 Gennaio 2005 sopra Nassiriya

Termine operazioni:29 Ottobre 2006

Numero di voli:251

Ore di volo:1630

Nota 152

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che a quelli alati. L’equipaggio del Predator comunica l’attività so-spetta al capo plotone, consigliando di procedere come se non sa-pesse nulla. Nel frattempo, allerta l’unità più avanzata di eseguire una manovra di aggiramento per piombare alle spalle dei due “cu-riosi”. Minaccia neutralizzata.

In secondo luogo, curiosando in cielo, il drone può imbattersi in situazioni di emergenza per i civili. Come durante un’alluvione. Proprio così: a volte, nell’Iraq dei deserti, può capitare che batten-ti piogge trasformino il deserto in pantano, canali di scolo in ma-ree di fango. E isolare completamente un villaggio come quello av-

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Sfoglia le fotografie. (© Gianandrea Gaiani)

GALLERIA 5.1 Droni italiani in Iraq

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vistato un giorno dal Predator, che pilota e operatori credono disa-bitato. Ma a ben guardare di gente ce n’è ed è pure in difficoltà. Un’unità interviene prontamente e porta aiuti agli abitanti, tornan-do con una bella notizia: nessuno è deceduto.

In almeno un’occasione - ed è il terzo tipo di missione - il drone italiano offre i suoi servigi anche agli americani. Nel 2005, l’intelli-gence statunitense riceve indicazioni che nell’area di operazione italiana alcuni insorti hanno creato un campo di addestramento. Siccome nessuno dei loro robot vola nella nostra regione di respon-sabilità, i militari americani chiedono, tramite il Maggiore Martin, l’addestratore degli italiani, di far volare il Predator sul campo per raccogliere informazioni. Dopo qualche resistenza (dovuta forse al-la sensibilità dell’opinione pubblica circa l’impiego di nostri mezzi o truppe a sostegno di operazioni offensive), il drone italiano va a esplorare e passa i dati direttamente all’intelligence americana, for-nendo ulteriori conferme che si tratta effettivamente di un campo di addestramento153.

AFGHANISTAN: GLI OCCHI IN CIELO, LE BOMBE PER STRADA

Nel maggio 2007, i droni tricolore sbarcano in Afghanistan, dove l’Italia comanda uno dei sei settori regionali, quello occidentale di Herat. Qui, il nostro paese ha messo a disposizione della coalizio-ne Nato due Predator, di stanza a Camp Arena, la base più grande del Regional Command-West. L’Aeronautica ne mantiene altri due assemblati, ma utilizzabili solo come riserva o pezzi di ricambio.

I droni vengono inquadrati all’interno della Joint Air Task Force, la branca aerea della presenza italiana in Afghanistan che gestisce tutti i velivoli italiani: dagli AMX (i jet su cui nel 2012 abbiamo ca-ricato le bombe) agli elicotteri, dai velivoli da ricognizione ai cargo per trasportare persone e materiali. Uno dei gruppi in cui si suddi-vide la Joint Air Task Force è Astore, responsabile unicamente dei Predator. In sei anni, su Herat e dintorni, i nostri droni hanno tota-

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lizzato più di 10.200 ore di volo in oltre 1.200 sortite.

In Afghanistan, il Predator dedica l’80% delle ore di volo a tre compiti principali: “pattern of life”, scorta convoglio, supporto in caso di “troops in contact”.

Con “pattern of life” si intendono quelle operazioni in cui il dro-ne studia una zona o le abitudini di comportamento di una o più persone che verranno coinvolte in un’operazione. Nella maggior parte dei casi, si tratta di individui che diventano di particolare in-teresse dopo una segnalazione, ma di cui non si ha la certezza che rappresentino una minaccia, un nemico. Il drone è chiamato a os-servare non visto, a pedinare dal cielo per stabilire se la persona o il territorio possano essere obiettivi legittimi. Prima di lanciare un’operazione contro di essi, occorre studiarne le abitudini o i fatti che vi si svolgono.

Due esempi chiariscono l’importanza dello studio dei comporta-menti. A sud dell’importante crocevia di Shindand, c’è un villaggio su cui gli italiani stanno tessendo una paziente tela. I suoi abitanti ballano sul crinale della neutralità: potenzialmente ostili e poten-zialmente amichevoli. Da qualche tempo i nostri hanno instaurato un dialogo, fragile come tutti gli incontri in zone di guerra. Un giorno, mentre un convoglio italiano si reca al villaggio per una ri-unione con i capi, sulla strada esplode un ordigno. Chi è stato? E perché? Una trappola? O qualcuno che vuole minare il rapporto con i locali?

Il Predator viene in soccorso. Sorvolando il villaggio, si nota co-me le autorità locali si stiano avvicinando al luogo dell’incontro senza destare sospetti. Dal loro comportamento non traspare al-cun segno che siano a conoscenza dell’attacco, né che stiano prepa-rando un’imboscata. Incrociando con altre fonti di intelligence, i nostri desumono che l’esplosione va imputata a chi non gradiva che il villaggio intrattenesse rapporti amichevoli con gli italiani. Il dialogo va avanti. Anche grazie al drone.

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Il secondo esempio racconta invece l’importanza di mantenere co-stantemente un occhio su una zona per capirne il potenziale strate-gico. Man mano che procede il ritiro dall’Afghanistan, le nostre truppe si orientano a un tipo di operazione in cui sul campo lascia-no andare avanti le truppe locali, senza però rinunciare a operazio-ni offensive. Nel 2013 vengono condotti nella provincia di Farah al-cuni bombardamenti con gli Amx contro ripetitori usati dal nemi-co. E i primi a individuarli sono i Predator. I quali sorvolano l’area, capiscono se le antenne appartengano effettivamente agli in-sorti, intuiscono che servono alle comunicazioni nemiche, fornisco-no informazioni sulla presenza di civili e inviano poi le coordinate per l’attacco.

La scorta convoglio è un aspetto fondamentale per garantire la si-

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Impiego:30% Pattern of life;20% Supporto alle Special Operation Forces;30% Scorta convoglio-20% ISR, Counter.IED, Troops in contact, Close air support e Medevac.

FIGURA 5.2 I droni italiani in

Afghanistan

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curezza delle truppe. Sotto la responsabilità degli italiani c’è una regione di circa 160 mila chilometri quadrati. Più o meno la super-ficie dell’Italia da Terni al Brennero. Da controllare con qualche migliaio di soldati. Impresa impossibile. Eppure, per quanto non in modo capillare, i nostri si sono espansi molto nel Regional Com-mand-West, raggiungendo angoli molto remoti. Ma le truppe han-no bisogno di rifornimenti, di muoversi o quantomeno di fare an-data e ritorno da quelle zone. Non si può fare tutto con gli elicotte-ri o con l’aviolancio. Così bisogna organizzare convogli, per tra-sportare viveri, materiale, uomini. Via terra. Per strada. Proprio co-me quello del Capitano Pezzino, la cui storia apre il capitolo.

Se in Italia tutte le strade portano a Roma, in Afghanistan tutte le strade possono portare all’inferno. Le vie di comunicazione - la maggior parte dissestate e sterrate - diventano la trappola preferi-ta dagli insorti per posizionare i famigerati ied. Improvised explo-sive device, recita l’acronimo inglese: ordigni esplosivi improvvisa-ti. Bombe artigianali, sotterrate prima del passaggio di un convo-glio e azionate via radio, cellulare o per effetto della pressione sul detonatore. Talvolta sfuggono alle potenti tecnologie militari, tan-to sono rudimentali. Tuttavia rappresentano la vera piaga d’Afgha-nistan: dei 53 italiani caduti, 16 sono stati uccisi da uno ied. Quasi un terzo, il 31%. Gli americani non se la cavano meglio, anzi: que-ste bombe causano il 61% delle perdite sofferte dagli Stati Uniti tra morti e feriti154. Addirittura, le truppe afghane - le stesse che stia-mo addestrando a cavarsela da sole - cadute per mano degli ied so-no l‘80,5% del totale, 850 su 1056155.

In guerre come quella in Afghanistan, la vita anche di un solo mi-litare può avere un impatto strategico. Per le opinioni pubbliche occidentali, i cui soldati combattono a migliaia di chilometri di di-stanza per interessi sicuramente non vitali, ogni perdita equivale all’occasione per chiedersi: “Ma che ci facciamo laggiù?”.

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Soldato del Genio militare alle prese con uno IED (© Esercito Italiano)

FIGURA 5.3 Vittime di esplosivi improvvisati

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Ma in che modo il Predator dà una mano contro gli ied? Sempli-ce: precede il convoglio andando in ricognizione e osserva da una prospettiva completamente diversa da quella delle truppe a terra. Uno ied non è invisibile, almeno per chi sa guardare. Gli insorti possono lasciare la terra smossa attorno all’ordigno. Oppure posso-no provare a coprire le loro tracce facendo passare una mandria di capre sulla zona: assembramenti di bestiame sulla strada sono un campanello d’allarme. Oppure ancora, a un bivio ci può essere un segnale al quale la popolazione risponde prendendo sempre la stes-sa strada, chiaro segno che in quell’altra attendono solo guai. Tutti casi in cui il Predator avvisa chi segue del pericolo. L’importanza del drone è tale che sempre più, quando il velivolo non è disponibi-le, i convogli non prioritari ritardano la partenza.

La terza mansione del drone tricolore è il cosiddetto “troops in contact”, letteralmente: “truppe a contatto”. Con cosa? Con il fuo-co avversario. Il Predator fornisce occhi aggiuntivi e consigli per manovrare nel caso di un’imboscata, quando l’attacco è del tutto inatteso, oppure quando si sta andando a stanare il nemico. Per esempio, in un’operazione dove si sa che uno scontro sarà quasi inevitabile (quest’ultima fattispecie, più specifica, è detta “close air support”).

In questi casi, il valore aggiunto del drone è doppio. Durante l’at-tacco, comunica alle truppe sul campo il “settore verde”, ossia una zona in cui ripiegare per difendersi meglio o per contrattaccare, conta i nemici e scopre la direzione da cui provengono. Ma è con la fine dell’attacco che il robot alato può fare la differenza. Quando gli insorti si vedono sopraffatti e sono messi in fuga, può capitare che si dirigano in posti dove non si sarebbero dovuti rifugiare, sve-lando vie di comunicazione, depositi di armi o vere e proprie basi. In questa fase, il Predator cerca di capire chi sono i nemici, da do-ve vengono, qual è il motivo dell’attacco. Raccogliendo le informa-zioni perché l’incidente non si ripeta più.

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IL REAPER IN LIBIALibia, 10 agosto 2011. Infuria la guerra civile tra le truppe lealiste

di Gheddafi e i ribelli che fanno capo alla città di Bengasi. Già da mesi alcune nazioni occidentali e, significativamente, anche due arabe bombardano il paese nordafricano. Agiscono sotto il manda-to dell’Onu: devono fornire protezione alla popolazione. In realtà la missione si espande, arrivando a sostenere una delle due parti in causa, quella degli insorti contro il dittatore di Tripoli.

Un nuovo aereo fa capolino nel Risiko libico. È il Reaper, il fratel-lo maggiore del Predator - non per età, ma per stazza e capacità. Comprato nel 2008, è al debutto in un’operazione. Il drone italia-no è l’ultimo a entrare nella guerra, che dal 19 marzo si è interna-zionalizzata. Inizialmente, le nostre forze armate entrano nella coa-lizione dei volenterosi con un ruolo di supporto, fornendo basi e as-

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Sfoglia le foto. (© Gianandrea Gaiani)

GALLERIA 5.2 Droni italiani in Afghanistan

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setti aerei.

Poi il 28 aprile si passa a operazioni di attacco al suolo, con due nostri caccia Tornado che usano per la prima volta l’armamento di precisione.

LE STREGHE TRICOLORI — 141

Prima missione: 10 Ottobre 2011 Termine operazioni: 1 Dicembre 2011 Numero di voli: 32 Ore di volo: 360

FIGURA 5.4 La Nato e l’Italia in Libia

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I Reaper invece non sono armati. Ma dimostrano tutta la loro ver-satilità. Volano da Amendola, compiono missioni fino a 20 ore, ar-rivando a una distanza dalla base di oltre 1500 chilometri, si spin-gono più a sud di qualunque altro velivolo. Il 1° dicembre 2011 ter-mina ufficialmente la missione Nato: gli aerei della coalizione tota-lizzano 26.500 sortite, di cui 9.700 d’attacco. L’Italia contribuisce con 1.900 sortite per un totale di 7.300 ore di volo. I Reaper condu-cono 32 sortite per 360 ore di volo156.

Il 70% delle ore di volo del drone sono impiegate per svolgere atti-vità di ISR, un acronimo militare che indica attività di intelligen-ce, sorveglianza e ricognizione. Quest’attività ha per esempio per-messo di passare l’informazione al comando Nato che le truppe di Gheddafi avevano smesso di indossare le uniformi per evitare di essere attaccate e confondersi con i civili o gli insorti di Bengasi.

Il 20% del tempo del Reaper è invece dedicato all’individuazione di potenziali obiettivi: studiare un gruppo di individui o un luogo specifico per capire se costituisca o meno un legittimo bersaglio. Quella di Libia è una guerra più convenzionale, in un certo senso meno complicata da interpretare: si scontrano due fazioni abba-stanza riconoscibili, con una chiara distinzione geografica.

L’aiuto del Reaper è comunque importante. Può volteggiare quasi indisturbato per ore sul campo di battaglia. Può individuare le vie d’accesso o le vie di rifornimento strategiche, sia per il nemico che per la parte da difendere. Può individuare un complesso di edifici e capirne la natura, se per esempio è un quartiere generale, o anco-ra delle infrastrutture per la comunicazione, come dei ripetitori. Studia, osserva, decifra. Poi comunica alla coalizione se l’obiettivo è legittimo. In almeno un caso, l’occhio del Reaper ha permesso di rimuovere dalla lista dei bersagli una struttura del nemico colloca-ta in una zona urbana: i danni collaterali sarebbero stati eccessivi rispetto all’importanza dell’obiettivo.

LE STREGHE TRICOLORI — 142Nota 156

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D I R I T T I D E I D R O N I

Con che diritto i droni dei militari sorvolano i cieli italiani? Semplice, con la legge 178 del 2004157, che assimila gli aerei senza pilota ai velivoli convenzionali. Una disposizione rafforzata dall’articolo 743 del codice del-la navigazione, modificato nel 2005 con il decreto legislativo 96, secondo cui “sono altresì considerati aeromobili i mezzi aerei a pilotaggio remoto definiti come tali dalle leggi speciali e, per quelli militari, dai decreti del ministero della Difesa”158.

Ma dove possono volare? Secondo l’articolo 247 del codice di ordinamen-to militare, i nostri droni devono stare in spazi predeterminati e segregati. Lo spazio aereo però non è statico, ma dinamico. Non c’è quindi una sorta di recinto fisso da cui il Predator non può uscire. A essere segregate sono le 20/30 miglia circa attorno a esso, 20/30 miglia che ovviamente si spo-stano assieme al drone man mano che esso si muove verso coordinate che i suoi operatori forniscono alle autorità della navigazione aerea italiana per regolare il traffico nei cieli. Una norma all’avanguardia, che rende l’Italia pioniere nel campo dei droni. E il pilota? Per i velivoli superiori ai 20 chili, chi guida il drone deve avere un brevetto da pilota. Sotto questo peso, basta una qualifica abilitante di operatore. Queste norme sono riferi-te ai militari ma faranno da esempio per regolare l’uso dei droni in campo civile.

ARMARE I DRONI, UN INTRIGO INTERNAZIONALEAttorno al nodo gordiano dell’armamento ruotano una sola cer-

tezza e tanti punti interrogativi. L’unico dato fisso è l’intenzione delle nostre forze armate e dei nostri governi (plurale obbligato) di dotare alcuni droni della capacità di sparare. Tutto il resto è neb-bia: quando si compiranno i giorni del robot armato, chi fornirà le munizioni, persino quali velivoli avranno le bombe. Già, perché questa è una storia costellata di repentini cambi di opinione, intri-ghi internazionali e droni made in Italy, anzi made in Piaggio. Ma andiamo con ordine.

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La questione di armare gli aerei senza pilota emerge addirittura prima che a qualcuno venga in mente di dotarli di bombe. Ossia nel momento in cui, siamo tra 2007 e 2008, le forze armate e il go-verno esprimono la volontà di acquistare i Reaper, gli unici arma-bili. Secondo la “legge Giacché” all’epoca in vigore, prima di essere comprati i sistemi d’arma devono essere illustrati al parlamento, che ha tempo 60 giorni per esprimere un parere obbligatorio ma non vincolante.

In Senato, la questione dei Reaper arriva il 22 e il 30 gennaio 2008: siamo agli sgoccioli del governo Prodi, in commissione Dife-sa tira aria da ultimi giorni di scuola e, non raggiungendo il nume-ro legale, il parere cade nel dimenticatoio159.

Più acceso il dibattito alla Camera. Il 6 febbraio giunge in com-missione Difesa la notifica dell’intenzione dell’Aeronautica di ac-

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Predator di stanza alla base di Amendola (© iMerica)

GALLERIA 5.3 Predator ad Amendola

Nota 159

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quistare i Reaper. Il sottosegretario alla Difesa Giovanni Lorenzo Forcieri, a precisa domanda, specifica che non si intende in alcun modo armare i Reaper. La commissione vuole vederci più chiaro e sei giorni dopo convoca il Generale Gabriele Salvestroni per ulte-riori spiegazioni. Qualcuno non è convinto: Elettra Deiana di Ri-fondazione Comunista annuncia a nome del proprio gruppo il voto contrario. La motivazione? I Reaper sono velivoli del tutto diversi dai semplici ricognitori Predator, sono delle vere e proprie armi. La storica opposizione dell’estrema sinistra alla guerra conosce un nuovo capitolo. L’Udc rileva come il governo dovrebbe in effetti specificare che non intende dotare i Reaper di missili. Forcieri ri-badisce che non saranno armati. Il parere positivo passa160.

Il 7 ottobre 2009 arriva in commissione Difesa la proposta di ac-quistare altri due Reaper e Giuseppe Cossiga, sottosegretario alla Difesa, rassicura: se l’Aeronautica volesse armare i Reaper dovreb-be acquistare appositi software, cosa che richiederebbe un nuovo passaggio in Parlamento per ricevere un parere161.

Tra 2009 e 2010, però, sia le forze armate che l’esecutivo cambia-no idea. All’interno del mondo militare, ci si accorge dei vantaggi che porterebbe un Reaper armato. Racconta l’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa Vincenzo Camporini:

A far scattare la molla è l’Afghanistan: “L’impiego in Afghanistan ha evidenziato che in certe circostanze se il drone fosse stato arma-to sarebbe stato meglio”162. Circostanze come la morte del Capita-no Romani.

Al ministero della Difesa guidato da La Russa il Reaper armato in-

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Avere questa possibilità e non sfruttarla era un peccato, valeva la pena portare avanti l’armamento perché il drone avrebbe avuto potenzialità complete. Il potere politico avrebbe potuto scegliere tra usarlo soltanto come ricognitore o anche per l’attacco, così come ha fat-to per l’AMX. Conferire questa flessibilità al potere politico ci è sembrata una cosa da perse-guire.

Gen. Vincenzo Camporini

Nota 160, 161, 162

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contra qualche resistenza. “Il loro controargomento era: ‘Non l’ab-biamo mai fatto, non è nello stile italiano’”, racconta Camporini. Ma “noi non abbiamo mai neanche accarezzato l’idea di impiegarli come li impiegano gli Stati Uniti”, ossia in una caccia all’uomo glo-bale. I militari fanno tuttavia leva su un argomento efficace: il dro-ne armato serve a “garantire la massima sicurezza per gli uomini e le donne che mandiamo in missione. Questo fece breccia”. A quel punto, La Russa inizia a informare il parlamento delle mutate in-tenzioni, suscitando qualche reazione dal Pd che comunque non viene considerata ostativa.

Tra il dire e il fare c’è però di mezzo l’America. Per essere armato, il Reaper non avrebbe bisogno di molto. Non di bombe, quelle compatibili le abbiamo già. Piuttosto, di un software, un kit di gui-da laser e/o gps per le munizioni. A possederlo è solo la casa pro-duttrice, la General Atomics che, per venderlo, ha bisogno dell’au-torizzazione del Congresso degli Stati Uniti.

L’Italia effettua la richiesta formale tra metà 2010 e inizio 2011 e inizia a lavorarsi i partner d’Oltreoceano. Il primo a far cadere le obiezioni è il Pentagono, convinto dell’affidabilità degli italiani do-po dieci anni di guerre combattute fianco a fianco. Anche il diparti-mento di Stato viene convinto, al pari della Casa Bianca. Così, ad aprile 2012 l’esecutivo invia al Congresso i dettagli del piano per vendere i kit agli italiani, dando alle commissioni competenti 40 giorni di tempo per bloccare la vendita, scaduti i quali, in linea teo-rica, l’ultimo ostacolo sarebbe rimosso.

Il Congresso non si esprime formalmente ma fa trapelare dubbi attraverso importanti esponenti. "La tecnologia americana al-l’avanguardia non dovrebbe essere condivisa. Sono preoccupata dalla proliferazione di questi sistemi d’arma e non penso che li do-vremmo vendere”, dice la presidentessa della commissione Intelli-gence del Senato, Dianne Feinstein. Molti parlamentari vogliono sapere prima quali paletti porrà l’amministrazione all’uso dei dro-ni armati: “Vorrei conoscere i criteri, come saranno usati, perché

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quando si ottiene l’equipaggiamento non si può più tornare indie-tro”, dice il democratico Henry Cuellar163.

Il programma di armamento entra così in un limbo indecifrabile. L’amministrazione Obama potrebbe aver fornito al Congresso le spiegazioni richieste e stare proseguendo, sia pure in ritardo, la fornitura dei kit di guida. Ma gli stessi militari italiani rilasciano dichiarazioni in conflitto tra loro. L’11 maggio 2013, il Capo di Sta-to Maggiore dell’Aeronautica Pasquale Preziosa dice che entro l’an-no i droni avranno le armi a bordo164. Solo due giorni prima il Ge-nerale Claudio Debertolis, a capo di Segredifesa, organo che si oc-cupa dell’acquisizione degli armamenti, si era lamentato con la stampa americana della mancanza di risposta di Washington, “un caso che non è molto accettabile”165.

Così poco accettabile da spingere il Generale Alberto Rosso, capo della logistica dell’Aeronautica, a dichiarare: “Gli Stati Uniti non sono il solo paese in grado di fornire queste capacità. Stiamo già esplorando le alternative”166. Le alternative in questione non sono molte: di sicuro, rinunciare ad armare il Reaper, i cui aggiustamen-ti appartengono solo agli Stati Uniti. L’Italia ha due possibilità. In-serirsi in un progetto di drone da combattimento europeo. Oppure svilupparlo a casa sua.

La prima strada è dissestata dalla difficoltà di trovare un accordo tra le medie potenze europee (Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia). Tra progetti bilaterali in stallo, prototipi appena varati ma in attesa di acquirenti e strategie nazionali divergenti, la salita ver-so un drone continentale sembra troppo ripida. La Francia sareb-be l’attore con più fretta, tanto da voler acquistare dagli Stati Uniti 12 Reaper entro il 2020, da impiegare soprattutto nell’ex cortile di casa africano. Di recente, la tedesca Cassidian, la francese Das-sault e l’italiana Finmeccanica, hanno espresso la volontà di imbar-carsi in un progetto di drone da combattimento167. Ma nel tunnel la luce è lungi dall’intravedersi.

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La seconda strada è invece più agevole. Nel febbraio 2013 è stato presentato il primo esemplare di un drone tutto italiano, firmato nientemeno che dalla Piaggio (assieme alla Selex): il P.1HH, me-glio noto come HammerHead. “Testa di martello” promette presta-zioni simili al Reaper, potendo caricare circa 550 kg di munizioni. Ma ciò che più conta è che il drone Piaggio appartiene a un “pro-gramma segreto”168 finanziato dalla Difesa per sviluppare un’alter-nativa al Reaper, senza dover dipendere dalle paturnie oltreoceani-che.

A spingere gli italiani su questa strada è stato probabilmente un concorso di fattori. In primo luogo, le nostre forze armate vorreb-bero dotare le truppe schierate in Afghanistan di una maggiore protezione. Il tempo però stringe: da inizio 2015 la missione a Ka-bul e dintorni muterà sensibilmente e non è detto che resteremo laggiù molto di più. Anzi, già dal 2017 la nostra presenza (come quella di tutto l’Occidente) potrebbe essere risicatissima. In secon-do luogo, come suggerisce l’esperto Gianandrea Gaiani, gli italiani

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Piaggio HammerHead (© Piaggio via The Aviationist)

Nota 168

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potrebbero essere rimasti delusi dalle proposte degli americani cir-ca lo sfruttamento del Reaper armato: le aziende nostrane avrebbe-ro forse sperato in una maggiore cooperazione tecnica e logisti-ca169. In terzo luogo, tra qualche anno i primi quattro Predator ac-quistati nel 2004 andranno in pensione e bisogna pensare se e co-me rimpiazzarli.

Molti dubbi rimangono nell’intreccio del drone armato. L’Italia sta perseguendo entrambe le vie, quella americana e quella autar-chica? Sta mantenendo un piede in due staffe o fa dichiarazioni ai media americani per mettere pressione a Washington? Come im-patteranno i progetti nazionali e continentali sui rapporti transa-tlantici?

L’interrogativo principale è però un altro. Non tanto quello di co-me saranno impiegati i robot armati: difficile che l’Italia s’imbar-chi in uccisioni mirate e kill list à la Obama. Piuttosto, come gesti-remo il personale che impiegherà questi droni? Un dettaglio im-portante: qualora si scelga un drone nostrano servirà più tempo, ma molti dei nostri piloti sanno già come far sparare un Reaper. Nelle basi americane, gli apprendisti italiani seguono lo stesso per-corso dei colleghi americani. Compreso l’uso dei missili.

L’IMPATTO DEI DRONI SUI PILOTIIndossano le tute integrali, come se volassero. Ma non volano: so-

no piloti senza cielo. I Predator tricolore hanno un’unità tutta per loro, il 28° gruppo dell’Aeronautica, di stanza ad Amendola. Una trentina circa di equipaggi: un numero risicato, tanto da destare la curiosità di mezzo mondo che in Puglia fa la spola per capire come faccia l’Italia a operare senza problemi la sua dozzina di droni.

I piloti senza cielo sono fieri del loro lavoro. Parte degli argomen-ti da cui ricavano la motivazione necessaria a un militare ruota at-torno al concetto di “nuovo eroe”. Sostiene un un pilota di drone

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con grande esperienza sugli aerei convenzionali170:

Questo perché l’Italia ha sinora impiegato Predator e Reaper in modo virtuoso. Ma ora che le nostre forze armate intendono arma-re i droni cambierà qualcosa? Quali sono le possibili ricadute sui piloti dell’eventualità di sganciare missili? Per rispondere a queste domande, conviene scrutare gli effetti di dieci anni di guerra dei droni sui piloti statunitensi. Con una doverosa premessa: l’Italia non impiegherà mai queste macchine in modo massiccio come l’America. Tuttavia, per prevenire bisogna conoscere.

La guerra in remoto non lascia ferite corporali, ma cicatrici psichi-che. L’Aeronautica statunitense ha condotto uno studio sui distur-bi mentali dei piloti, confrontando quelli dei droni con quelli di ae-rei convenzionali che hanno servito nelle guerre d’Iraq e d’Afghani-stan tra l’ottobre 2003 e il dicembre 2011. Ebbene, tra i piloti dei Predator la frequenza di disturbi come disordine da stress post-traumatico, depressione, istinti suicidi e abuso di sostanze è più al-ta. Un sondaggio su 840 operatori di droni tra 2010 e 2011 eviden-za che il 46% soffre di alto stress e il 29% di esaurimento nervo-so171.

“Vedi tutto”, è l’accorata confessione dell’ex pilota di drone Bran-don Bryant, cui nel 2009 è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico172. La stessa malattia che affligge le truppe sul campo. Ma Bryant sul campo non c’era. O, meglio, non comple-tamente. A essere in Iraq o in Afghanistan era parte del suo cervel-lo, oltre agli occhi. Perché così funziona il Predator: ti lascia a casa ma allo stesso tempo ti porta vicino alla guerra. Mostra cose che nessun altro vede. Paradossalmente avvicina invece di allontana-re. Assorbe talmente tanto l’operatore da fargli dimenticare che a sparare non è lui ma una macchina.

È facile essere un eroe scendendo da super jet, col casco in mano. Qui l’eroismo sta nel fare il proprio dovere, quotidianamente. Aiutare a salvare vite tutti i giorni.

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Un pilota può studiare a fondo le abitudini delle persone che os-serva, imparando a conoscerle. Può essere chiamato da un angolo all’altro del teatro e osservare gli scontri più tremendi. Può assiste-re all’uccisione di suoi connazionali, partecipa alle stesse sofferen-ze emotiva ma può pure arrivare a sentirsi in colpa per non essere con loro a condividere il pericolo. Può vedere nitidamente come un missile che ha sganciato contro un obiettivo legittimo colpisca fatalmente anche un civile, magari un bambino.

“Quello che mi fa arrabbiare è che non stiamo facendo un buon lavoro sul disordine da stress post-traumatico”, si sfoga un coman-dante di un gruppo di volo americano. “I piloti guardano scene or-ribili che hanno un impatto su di loro. Eppure non abbiamo un processo sistematico per prenderci cura dei nostri uomini”173. Un rischio enorme, soprattutto per i più giovani, in aumento tra i ran-ghi dei piloti che sparano con i droni, ma “non necessariamente meglio equipaggiati per la guerra dal punto di vista mentale o emo-tivo”, come nota l’esperto Peter Singer174.

Fonte dati: Armed Forces Health Surveillance Center

FIGURA 5.5 I problemi psicologici dei piloti

LE STREGHE TRICOLORI — 151Nota 173, 174

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La distanza gioca tuttavia un altro brutto scherzo. Quando stacca dal suo turno di dodici ore, il pilota esce dalla stazione di controllo e non è in Afghanistan, ma in Nevada o in New Mexico. Torna a ca-sa, bacia la moglie e gioca con i figli. E magari prima passa a pren-dere due etti di prosciutto. Combattere da casa rende difficile sepa-rare la guerra dal privato. Persino ufficiali esperti e sani riconosco-no di condurre “vite schizofreniche175”, senza riuscire mai davvero a staccare. Tanto che in America alcuni ufficiali hanno persino pro-posto di mandare “in ritiro” i propri uomini per un certo periodo. Come i calciatori per le partite importanti.

Spedire i piloti dei droni vicino ai loro aerei può essere una prima risposta. Un’opzione percorribile non solo nel caso si abbia una presenza nel paese in cui è in corso il conflitto: a volte i droni de-collano da basi situate in Stati terzi. Una volta in guerra, aumenta la concentrazione, la dedizione, la comprensione di quello che ac-cade. Far volare i Predator dal campo permette ai piloti di uscire dall’isolamento sociale che vivono operando a migliaia di chilome-tri di distanza.

La presenza degli operatori dei droni in teatro presenta un ulte-riore vantaggio. Consente loro di conoscere le truppe di terra, le stesse che il giorno dopo dovranno essere protette, cementando lo spirito di corpo. Pilotare a distanza rischia di minare la coesione di una forza armata. Nel suo magistrale Wired For War, Singer ri-porta parecchie lamentele contro la guerra remota. Persino quella di un membro delle truppe speciali che racconta come, in una peri-colosa missione in Afghanistan, la sua unità si fosse improvvisa-mente trovata senza l’appoggio dall’alto del Predator, andatosene per avverse condizioni meteo. Tutta colpa - secondo il soldato - di “un tizio seduto in Nevada che aveva fretta di portare i figli alla partita. [...] Vorrei ancora fargli capire faccia a faccia come lavoria-mo noi”176.

Conclude Singer 177:

LE STREGHE TRICOLORI — 152Nota 175, 176, 177

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Rispetto a questo scenario, l’Italia parte in vantaggio. Concentra-re tutta la responsabilità dei droni in un’unica unità - il 28° grup-po - consente di monitorare attentamente le risposte del persona-le. I nostri operatori, poi, non lavorano su una mole esagerata di dati, essendo così meno esposti ai forti stress registrati al di là del-l’Atlantico. Inoltre, i Predator tricolore che pattugliano l’Afghani-stan non sono pilotati da Amendola, ma dall’Afghanistan stesso. Il motivo in realtà è meramente economico: i nostri equipaggi sono pochi e, dovendo per forza averne almeno uno in loco per far decol-lare i droni, si creerebbero inutili duplicazioni di costi. Tuttavia, la scelta di operarli dal campo è felice: le nostre forze armate dovreb-bero proseguire sul solco tracciato.

La Libia insegna che in futuro non è escluso che l’Italia si trovi co-involta in conflitti dove non può schierare truppe sul campo. E quindi nemmeno i piloti dei droni. Quella di mandarli “in ritiro” può non essere un’opzione peregrina, al pari di quella di farli ope-rare da basi in paesi terzi, magari limitrofi all’area delle operazio-ni. Allo stesso modo, le forze armate devono lavorare per preveni-re e affrontare gli eventuali disturbi mentali sui nostri uomini e sulle nostre donne causati dalla guerra remota. Evitando così che il prossimo monologo sull’Orrore sia pronunciato non dal Colon-nello Kurtz di Apocalypse Now, ma da un pilota di droni.

Se la forza è sempre più divisa tra quelli che stanno dietro a un computer e quelli che mettono a rischio la propria vita, le due parti possono iniziare a rispondere a requisiti e aspettative divergenti. Una si riconoscerà nella dura fisicità e nel coraggio personale, ispiran-dosi ai protagonisti dello sbarco sulle coste della Normandia. L’altra vedrà tali requisiti come estranei alla propria esperienza di militare o addirittura come non necessari nella nuova èra della tecnologia.

Peter Singer

LE STREGHE TRICOLORI — 153

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Il viaggio nel mondo dei droni è stato lungo ma, confidiamo, inte-ressante. L’intenzione - forse ambiziosa - delle pagine precedenti non era di limitarsi a descrivere una tecnologia, bensì di cercare di rispondere a un duplice imperativo: conoscere per capire, capire per governare. I droni sono ormai uno strumento troppo importan-te in campo militare e pervasivo in campo civile per trattarli in modo semplicistico e ideologico. Vanno conosciuti, ogni loro uso valutato e deciso in base alle conclusioni derivate da un’analisi im-parziale. Ma quali sono queste conclusioni? Proviamo a riassumer-le per punti.

IL DRONE È UNO STRUMENTO UTILE

Vedere senza essere visti. Risparmiare vite tra i ranghi delle pro-prie forze armate. Osservare più accuratamente il luogo di un at-tacco. Questo per limitarsi al solo campo militare. Ma la tecnolo-gia del drone può avere un effetto a cascata per molti altri settori: industria, meteorologia, monitoraggio del territorio. Per spingere questa protesi metallica di noi stessi là dove carne e ossa non rie-scono a spingersi.

EPILOGO — 154

EPILOGO

“the forest that once was greenwas colored black

by those killing machines”

~ Of Monsters and Men

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IL ROBOT HA DEI LIMITI

Se dotato di bombe e missili, il drone pone gli stessi interrogativi di qualunque altra arma. Usata con parsimonia, può quasi essere considerata necessaria. Il male minore per rispondere alle minac-ce contemporanee. Ma la macchina pensata per vedere tutto pos-siede limiti intrinseci. L’accumulazione di dati crea un sovraccari-co di informazioni: grano e loglio possono essere, paradossalmen-te, più difficili da distinguere. L’occhio del drone inquadra inoltre un campo ristretto, rischiando di far perdere di vista cosa accade intorno.

GLI STATI UNITI NE ABUSANO

Il drone è una tattica, meglio, uno strumento. Non una strategia. Eppure, è proprio in questa accezione che viene interpretato a Washington. Che ne ha fatto l’arma preferita (se non unica) nella guerra ad al-Qa’ida. Tuttavia, affidarsi unicamente al robot alato è controproducente. Dove i droni colpiscono, l’impatto sulla popola-zione civile e sulla legittimità dei governi è notevole, offrendo appi-gli di propaganda e di reclutamento ai criminali che si vuole com-battere. E la caccia al terrorista non fa altro che eliminare tanti ne-mici quanti ne crea. Il risultato è una guerra che si auto-perpetua.

IL DRONE PUÒ GENERARE L’ILLUSIONE DELLA GUERRA CHIRURGICA

Due metafore di John Brennan, attuale direttore della Cia, incap-sulano quest’affermazione. La prima: “Invece del martello, l’Ameri-ca userà lo scalpello”. La seconda: “È questa precisione chirurgica - la capacità di eliminare il tumore chiamato al-Qa’ida limitando i danni al tessuto circostante - che rende questo strumento così es-senziale”. Il risultato di questa visione è però un abbassamento del-la soglia del ricorso alla forza, nonché una riduzione barriere per i decisori americani nell’ordinare un’uccisione.

EPILOGO — 155

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L’AMERICA PARANOICA

Proseguendo, con modifiche cosmetiche, le politiche di antiterro-rismo del suo predecessore, Barack Obama ha prodotto un para-dosso. Ha legittimato da sinistra l’America di George W. Bush, quella del Patriot Act, quella della guerra al terrore, quella del post-Undici Settembre, quella della sorveglianza di massa, quella che sacrifica la libertà sull’altare della sicurezza totale. Un’Ameri-ca che pretende di vedere tutto, ascoltare tutto, prevenire tutto e non può accettare nemmeno la minima falla nella propria fortez-za. Il drone ne è il simbolo.

RACCOMANDAZIONI AGLI STATI UNITI PER DISCIPLINARE L’USO DEI DRONI IN GUERRA

SMETTERE DI EFFETTUARE SIGNATURE STRIKE

Si tratta degli attacchi che colpiscono uno o più individui senza conoscerne l’identità, solo sulla base di comportamenti sospetti.

COLPIRE SOLO ALTI ESPONENTI DI AL-QA’IDA

Attaccare la bassa manovalanza del terrore non fa compiere un salto di qualità dell’indebolimento dell’organizzazione e rischia di generare reazioni indesiderate nelle comunità locali interessate.

TRASFERIRE LA RESPONSABILITÀ DEI DRONI

Al momento, l’uso dei robot alati contro i terroristi è affidato a Cia e forze speciali: occorre iniettare trasparenza nella catena di co-mando in termini di attribuzione della responsabilità e assicurare il rispetto di una dottrina chiara di contenimento e riparazione dei danni.

EPILOGO — 156

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ELABORARE UNA DOTTRINA PUBBLICA

La discrepanza tra parole e fatti è ampia. Manca un meccanismo di valutazione a posteriori delle azioni dell’amministrazione. Pre-sto o tardi il drone diventerà globale, non rimarrà circoscritto a un semplice monopolio americano. Gli Stati Uniti devono anticipare i tempi, fare da esempio per la comunità internazionale e plasmare le future regole mondiali di impiego del drone. Come in passato per altre armi, vedi l’atomica e i materiali chimici e biologici. L’al-ternativa è un Far West nei cieli di tutto il mondo.

RACCOMANDAZIONI ALLE ISTITUZIONI GOVERNATIVE E ALLE FORZE ARMATE ITALIANE

SPIEGARE I PERCHÉ DEI DRONI AL PUBBLICO

Il governo italiano deve assumersi la responsabilità di informare i cittadini del motivo e dell’utilità di percorrere la strada dell’arma-mento degli aerei a pilotaggio remoto.

PROSEGUIRE SULLA LINEA DI OPERARE DAL CAMPO

Ove possibile, avere i piloti in loco e non a migliaia di chilometri di distanza permette di mantenere la coesione tra le truppe e di ga-rantire una maggiore concentrazione al personale.

ELABORARE UNA DOTTRINA NAZIONALE

L’Italia ha impiegato il drone in modo virtuoso per un decennio. Di fronte al salto di qualità dell’armamento che si profila all’oriz-zonte, occorre lanciare uno studio sulle regole d’ingaggio, sulla comparazione delle best practices internazionali e sulle lezioni ap-prese dai nostri militari. La qualità va codificata.

EPILOGO — 157

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MONITORARE LA SALUTE MENTALE DEL PERSONALE

Occorre creare una commissione di formazione mista di rappre-sentanti eletti, militari e medici per prevenire e all’occorrenza af-frontare i disturbi mentali a cui piloti e operatori dei droni - even-tualmente armati - possono andare incontro.

I droni hanno moltissime potenzialità, sia nel campo militare che in quello civile. Ma imparare a usarli in modo responsabile è inelu-dibile: la loro ascesa è appena cominciata. Per fare un paragone storico, i robot di oggi sono allo stesso punto a cui si trovava l’auto-mobile cent’anni fa, quando si parlava di “carrozza senza cavalli”. In altre parole, i droni sono qui per restare. Sta a noi decidere se imparare a conviverci. O soccombere alle macchine.

EPILOGO — 158

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PROLOGOPagina 5:I I dettagli dell’episodio sono raccontati in J. F. Burns, “U.S. Leapt Before Loo-king, Angry Villagers Say”, New York Times, 17/2/2002, http://goo.gl/HH28CP; “Remembering Daraz Khan, the first Afghan killed by a Hellfire missile fired by a CIA Predator drone”, Kabul Press, 27/12/2009, http://goo.gl/kWlMSh; J. Sifton, “A Brief History of Drones”, The Nation, 7/2/2012, http://goo.gl/3wW753.

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Pagina 12:II Cap. L. S. Howeth, History of Communications-Electronics in the United States Navy, U.S. Government Printing Office, 1963, pp. 479-493.

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Pagina 13:III Le informazioni di questa sezione provengono in gran parte da P. Singer, Wired for War: The Robotics Revolution and Conflict in the 21st Century, Penguin Books, 2009, pp. 47-56.

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Pagina 18:IV cfr. Singer, op. cit., p. 255.V Vedi la scheda del prodotto al sito: http://goo.gl/y0MXGk VI Vedi la scheda del prodotto al sito: http://goo.gl/6dZjS1.VII Vedi la scheda del prodotto al sito: http://goo.gl/Dzoizp.

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NOTE — 159

NOTE

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Pagina 19: VIII M. Mazzetti, The Way of the Knife, Penguin Press, 2013, pp. 85-102.IX R. Ferretti, “Alla conquista del cielo”, Panorama Difesa, novembre 2001, pp. 48-55.

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Pagina 20:X A. Nativi, “L’impiego degli UAV dopo ALLIED FORCE”, Rivista Italiana Di-fesa, n. 10, 1999, pp. 38-41.XI cfr. “Drones: Compendium”, Armada International, suppl. al vol. 3, 2013, p. 2.XII cfr. Singer, op. cit., pp. 59-60.

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CAPITOLO 1Pagina 23:1 R. J. Smith, C. Rondeaux, J. Warrick, “2 U.S. Airstrikes Offer a Concrete Sign of Obama's Pakistan Policy”, Washington Post, 24/1/2009, http://goo.gl/pzbmIH; “Twenty killed in US drone strikes in N, S Waziristan”, Geo TV, 23/1/2009, http://goo.gl/AWIJIf; B. Roggio, “US strikes al Qaeda in North and South Waziristan”, Long War Journal, 23/1/2009, http://goo.gl/nNxCkJ.2 J. Mayer, “The risks of the C.I.A.‘s Predator drones”, The New Yorker, 26/10/2009, http://goo.gl/rFOHQp.

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Pagina 24:3 cfr. J. Scahill, Dirty Wars: The World Is A Battlefield, Nation Books, 2013, pp. 5-6.4 cit. in ibidem.

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Pagina 25:5 cfr. Mazzetti, op. cit., pp. 85-102.6 Ibidem; Scahill, op. cit., pp. 17-18; Matt J. Martin, Predator: The Remote-Control Air War over Iraq and Afghanistan: A Pilot's Story, Zenith, 2010, p. 20.7 Singer, op. cit., pp. 32-37.

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Pagina 26:8 cfr. ibidem.9 cfr. Martin, op. cit., pp. 147 e 292.10 cfr. Singer, op. cit., pp. 32-37.11 Martin, op. cit., p. 108.

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Pagina 27:12 S. Ackermann, “2012 Was the Year of the Drone in Afghanistan”, Wired, 6/12/2012, http://goo.gl/gsBPuo; Alice K. Ross, “Erased US data shows 1 in 4 missiles in Afghan airstrikes now fired by drone”, The Bureau of Investigative Journalism, 12/3/2013, http://goo.gl/YVlAoB.13 cfr. J. Mann, The Obamians: The Struggle Inside the White House to Redefi-ne American Power, Viking Adult, 2012, p. xix.

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Pagina 29:14 “Remarks by the President at the Acceptance of the Nobel Peace Prize”, Oslo, 10/12/2009, http://goo.gl/j8aOJF. 15 cfr. D. Sanger, Confront And Conceal: Obama’s Secret Wars And Surpri-sing Use Of American Power, Crown, New York, 2012; F. Petroni, “Obama 2.0: Gli Stati Uniti oltre lo smart power”, in Nomos & Khaos 2012-2013, No-misma.

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NOTE — 161

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Pagina 30:16 L’episodio è raccontato in Mazzetti, op. cit., p. 219.

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Pagina 32:17 M. Mazzetti, op. cit., pp. 103-115.18 M. Mazzetti, “A Secret Deal on Drones, Sealed in Blood”, New York Times, 6/4/2013, http://goo.gl/CJxoTf.

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Pagina 34:19 cit. in J. Landay, “U.S. secret: CIA collaborated with Pakistan spy agency in drone war”, McClatchy, 9/4/2013, http://goo.gl/lkqF9Y.20 Ibidem.21 Mayer, op. cit., http://goo.gl/Z65TR5.22 I dati sono aggiornati al 21/8/2013.

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Pagina 35:23 Landay, op. cit., http://goo.gl/KrSGRR

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Pagina 36:24 S. Masood, “Pakistani General, in Twist, Credits Drone Strikes”, New York Times, 9/3/2011, http://goo.gl/vcpGQq.

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Pagina 37:25 L’episodio è narrato in C. Woods, “‘OK, fine. Shoot him.’ Four words that he-ralded a decade of secret US drone killings”, The Bureau of Investigative Jour-nalism, 3/11/2012, http://goo.gl/YqY9Xi

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NOTE — 162

Page 164: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 38:26 cfr. Scahill, op. cit., pp. 75-77; Mazzetti, The Way of the Knife, op. cit., pp. 85-87.

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Pagina 39:27 G. Lubold, N. Shachtman, “Inside Yemen's Shadow War Arsenal”, Foreign Policy, 7/8/2013, http://goo.gl/8d0EJ1

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Pagina 40:28 E. Schmitt, “U.S. Teaming With New Yemen Government on Strategy to Combat Al Qaeda”, New York Times, 26/2/2012, http://goo.gl/lhSQTd 29 N. Allen, “WikiLeaks: Yemen covered up US drone strikes”, The Telegraph, 28/11/2010, http://goo.gl/tirrbW

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Pagina 41:30 Scahill, op. cit., pp. 356-363.

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Pagina 42:31 Scahill, op. cit., pp. 362-363.

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Pagina 44:32 D. Klaidman, “Drones: How Obama Learned to Kill”, Daily Beast, 5/201233 D. Axe, “Hidden History: America’s Secret Drone War in Africa”, Wired, 13/8/2012, http://goo.gl/vHbNQd 34 T. Joscelyn, B. Roggio, “Senior Shabaab commander rumored to have been killed in recent Predator strike”, Long War Journal, 9/7/2011, http://goo.gl/ST7HnU; B. Roggio, “British Shabaab operative killed in air-strike in Somalia”, Long War Journal, 21/1/2012, http://goo.gl/QLXTEv 35 “Somalia: reported US covert actions 2001-2013”, The Bureau of Investiga-tive Journalism, http://goo.gl/n2bqau36 Axe, op. cit., http://goo.gl/vHbNQd

NOTE — 163

Page 165: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

37 J. Gettleman, M. Mazzetti, E. Schmitt, “U.S. Relies on Contractors in Soma-lia Conflict”, New York Times, 10/8/2011, http://goo.gl/6ObfFf

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Pagina 45:38 D. Axe, “Blogger Shines Light on U.S. Shadow War in East Africa”, Wired, 15/5/2012, http://goo.gl/Qozik139 cfr. la dichiarazione d’apertura del Generale Carter Ham, ex comandante di Africom, all’House Armed Services Committee, il 29/2/2012, http://goo.gl/Hpmq4s 40 C. Whitlock, “Remote U.S. base at core of secret operations”, Washington Post, 25/10/2012, http://goo.gl/bzHf38 41 C. Whitlock, “U.S. expands secret intelligence operations in Africa”, Was-hington Post, 13/6/2012, http://goo.gl/PvE0Gx; C. Whitlock, “Contractors run U.S. spying missions in Africa”, Washington Post, 14/6/2012, http://goo.gl/vgZOvF

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Pagina 46:42 “Your Interview with the President”, YouTube White House Channel, 30/1/2012, http://goo.gl/049WfW

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Pagina 47:43 cit. in “Kill/Capture”, Pbs Frontline, 10/5/2011, http://goo.gl/SxprLb

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Pagina 48:44 G. Miller, J. Tate, “CIA shifts focus to killing targets”, Washington Post, 1/9/2011, http://goo.gl/3fmP5T 45 cfr. “The Civilian Impact of Drones: Unexamined Costs, Unanswered Que-stions”, Center for Civilians in Conflict, Columbia Law School, pp. 51-66, http://goo.gl/f12DJG.

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NOTE — 164

Page 166: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 49:46 G. Miller, “Secret report raises alarms on intelligence blind spots because of AQ focus”, Washington Post, 21/3/2013, http://goo.gl/TYEiml 47 Informazioni contenute in J. Becker, S. Shane, “Secret ‘Kill List’ Proves a Test of Obama’s Principles and Will”, New York Times, 29/5/2012, http://goo.gl/e7HD4RG. Miller, “Plan for hunting terrorists signals U.S. in-tends to keep adding names to kill lists”, Washington Post, 24/10/2012, http://goo.gl/Xd2O7Q.

Ritorna a pagina 49

Pagina 50:48 K. DeYoung, “A CIA Veteran transforms U.S. counterterrorism policy”, Was-hington Post, 24/10/2012, http://goo.gl/FWyfXZ

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Pagina 51:49 Miller, op. cit., http://goo.gl/APh48w 50 Ibidem, http://goo.gl/APh48w

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CAPITOLO 2Pagina 53:51 I. Mothama, “How Drones Help Al-Qaeda”, New York Times, 13/6/2012, http://goo.gl/VUtfPu

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Pagina 54:52 Cit. in Mazzetti, The Way of the Knife, op. cit., p. 92.

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Pagina 55:53 cfr. “The Year of the Drone”, New America Foundation, http://goo.gl/g6G8o3

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NOTE — 165

Page 167: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 57:54 Landay, op. cit., http://goo.gl/3Q0ddk 55 M. Zenko, “Reforming U.S. Drone Strike Policies”, Council Special Report No. 65, Council on Foreign Relations, gennaio 2013, p. 10, http://goo.gl/LNwsww 56 “Obama reflects on drone warfare”, Cnn, 5/9/2012, http://goo.gl/5rxJMt.57 Zenko, op. cit., p.10, http://goo.gl/LNwsww.

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Pagina 58:58 Miller, op. cit., http://goo.gl/UqjH4A 59 R. F. Worth, M. Mazzetti, S. Shane, “Drone Strikes’ Risks to Get Rare Mo-ment in the Public Eye”, New York Times, 5/2/2013, http://goo.gl/sq62OS 60 S. Shane, “C.I.A. Is Disputed on Civilian Toll in Drone Strikes”, New York Times, 11/8/2011, http://goo.gl/Hzgdxe

Ritorna a pagina 58

Pagina 59:61 T. Zakaria, “Nominee for CIA chief says casualties from drone strikes should be public”, Reuters, 15/2/2013, http://goo.gl/DLDGzg.62 Becker, Shane, op. cit., http://goo.gl/Nx0JB2.63 “The Civilian Impact of Drones”, op. cit., pp. 19-27, http://goo.gl/J3jMq7

Ritorna a pagina 59

Pagina 60:64 L. Schirch, “9 Costs of Drone Strikes”, Huffington Post, 28/6/2012, http://goo.gl/mTpzhG 65 M. L. Leiby, “2 Pakistani Lawsuits Pressure Government To Deal with CIA Drone Strikes”, Washington Post, 14/5/2012, http://goo.gl/kulGJz.

Ritorna a pagina 60

Pagina 61:66 “The Civilian Impact of Drones”, op. cit., pp. 51-66, http://goo.gl/J3jMq7

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NOTE — 166

Page 168: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 62:67 cit. in B. Glynn Williams, “The CIA’s Covert Predator Drone War in Paki-stan 2004-2010: The History of an Assassination Campaign”, Studies in Con-flict and Terrorism, vol. 33, 2010, pp.871-892.68 Ibidem.69 Ibidem.70 C. Swift, “The Drone Blowback Fallacy”, Foreign Affairs, 1/7/2012, http://goo.gl/5cksmf

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Pagina 63:71 Miller, “Plan for hunting terrorists”, op. cit., http://goo.gl/zlCIBW.72 D. Kilcullen, The Accidental Guerrilla: Fighting Small Wars in the Midst of a Big One, Oxford University Press, 2009; D. Kilcullen, “Countering global in-surgency”, Journal of Strategic Studies, vol. 28, n. 4, pp. 597-617.

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Pagina 64:73 D. Kilcullen, A. Exum, “Death From Above, Outrage Down Below”, New York Times, 16/5/2009, http://goo.gl/ZeUL8D.

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Pagina 65:74 “The Civilian Impact of Drones”, op. cit., p. 22, http://goo.gl/J3jMq7,.75 Zenko, op. cit., p.10, http://goo.gl/H984J4; G. Johnsen, “How We Lost Ye-men”, Foreign Policy, 6/8/2013, http://goo.gl/K7M0fl.76 S. Raghavan, “In Yemen, US Airstrikes Breed Anger, and Sympathy for Al Qaeda”, Washington Post, 29/5/2012, http://goo.gl/yAoTV8.

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Pagina 66:77 Swift, op. cit., http://goo.gl/Cavy8T.

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NOTE — 167

Page 169: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 67:78 L. Panetta, “Director's Remarks at the Pacific Council on International Po-licy”, 18/5/2009, http://goo.gl/3qeKV7 79 “This Week”, Abc, 29/4/2012, http://goo.gl/0zL1rG.

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Pagina 68:80 E. Schmitt, “Embassies Open, but Yemen Stays on Terror Watch”, New York Times, 12/8/2013, http://goo.gl/s04mdV 81 B. Woodward, Obama’s Wars, Simon & Schuster, 2010, p. 106.82 “In U.S., 65% Support Drone Attacks on Terrorists Abroad”, Gallup, 25/3/2013, http://goo.gl/uffSO7.

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Pagina 69:83 L’episodio è raccontato in Mazzetti, The Way of the Knife, op. cit., p. 292.

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CAPITOLO 3Pagina 77:84 Le informazioni necessarie per compilare questa sezione provengono in massima parte da: Ten. Col. M. Marozzo, “Gli UAV. Valenza strategica nel con-corso alla formazione del quadro intelligence e problematiche connesse all’im-piego del sistema d’arma”, Centro Alti Studi per la Difesa, Tesi dell’8° corso su-periore di Stato Maggiore interforze, 2005-2006; Ten. Col. G. Prestigiacomo, “Unmanned Aerial Vehicle. Descrizione e problematiche connesse”, Centro Al-ti Studi per la Difesa, Tesi del 3° corso superiore di Stato Maggiore interforze, 2000-2001; Ten. Col. Alessandro Vivoli, “Gli U.A.V.: una soluzione alla esecu-zione delle operazioni aeree. Un punto di situazione sui sistemi d’arma in chia-ve dottrinale”, Centro Alti Studi per la Difesa, Tesi del 7° corso superiore di Stato Maggiore interforze, 2004-2005; visita degli autori alla base di Amendo-la (FO), il 19/2/2013.

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NOTE — 168

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Pagina 83:85 cfr. M. Mazzetti, The Way of the Knife, op. cit.

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Pagina 85:86 “Reaper Replacement Rescinded”, Strategy Page, 2/3/2012, http://goo.gl/IGraro87 “Stealthy F-35 Sensor To Fly On Avenger UAV”, Defense Tech, 23/9/2009, http://goo.gl/t66fwz

Ritorna a pagina 86

Pagina 88:88 cfr. W. Wheeler, “The MQ-9′s Cost and Performance”, Time, 28/2/2012, http://goo.gl/WgRZBs; Congressional Budget Office, Policy Options for Un-manned Aircraft Systems, Publication 4083, giugno 2011, p. 31.89 cfr. J. Gertler, “U.S. Unmanned Aerial Systems”, Congressional Research Service, 3/1/2012, p. 35, http://goo.gl/70q42y

Ritorna a pagina 88

Pagina 89:90 D. Zucchino, “War zone drone crashes add up”, Los Angeles Times, 6/7/2010, http://goo.gl/Y2gnGn 91 Vedi ad es., W. Wheeler, “Keeping Track of the Drones”, Time, 1/3/2012, http://goo.gl/pxvYYz 92 C. Whitlock, “U.S. documents detail al-Qaeda’s efforts to fight back against drones”, Washington Post, 4/9/2013, .93 S. Ackerman, “Air Force Buys Fewer Drones - But Ups Drone Flights”, Wi-red, 15/2/2012, http://goo.gl/Scf0Et.

Ritorna a pagina 89

Pagina 90:94 S. Ackerman, “Obama’s Defense Budget Shows the Drone Spending Boom Is Over”, Wired, 10/4/2013, http://goo.gl/Q9lJaE.95 Vedi la pagina della General Atomics, http://goo.gl/5ClJv5.

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NOTE — 169

Page 171: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 91:96 T. Zakaria, “In New Mexico desert, drone pilots learn the new art of war”, Reuters, 23/4/2013, http://goo.gl/yimT2B.

Ritorna a pagina 91

Pagina 93:97 N. Lozito, “L’arma del futuro è già arrivata”, The Post Internazionale, 15/5/2013, http://goo.gl/WRd67J.

Ritorna a pagina 93

Pagina 95:98 S. Weinberger, “How ESPN Taught the Pentagon to Handle a Deluge of Dro-ne Data”, Popular Mechanics, 11/6/2012, http://goo.gl/Hywg8I.

Ritorna a pagina 95

Pagina 96:99 S. Ackerman, “Air Force Chief: It’ll Be ‘Years’ Before We Catch Up on Drone Data”, Wired, 5/4/2012, http://goo.gl/aTPBTB.100 D. S. Cloud, D. Zucchino, “Multiple missteps led to drone killing U.S. tro-ops in Afghanistan”, Los Angeles Times, 5/11/2011, http://goo.gl/QpFxvZ.101 cfr. “Too Much Information: Taming the UAV Data Explosion”, Defense In-dustry Daily, 16/5/2010, http://goo.gl/8iePEm; D. Axe, N. Schachtman, “Air Force’s ‘All-Seeing Eye’ Flops Vision Test”, Wired, 24/1/2011, http://goo.gl/bFKHjK; E. Nakashima, C. Whitlock, “With Air Force’s Gorgon Drone ‘We Can See Everything”, Washington Post, 2/1/2011, http://goo.gl/JB8hUI.102 Martin, op. cit., pp. 51-55.

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Pagina 97:103 Per un racconto del lato robot della guerra in Iraq, vedi P. Singer, Wired For War, op. cit.

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NOTE — 170

Page 172: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

CAPITOLO 4Pagina 98:104 Cicerone, Pro Milone, 4, 11.

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Pagina 100:105 “Authorization for Use of Military Force”, come riportato nella legge 107-40 del 18/9/2001, http://goo.gl/MKCB5u 106 http://goo.gl/iGkWfc 107 N. Melzer, “Interpretive Guidance on the Notion of Direct Participation in Hostilities Under International Humanitarian Law”, International Committee of the Red Cross, maggio 2009.

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Pagina 102:108 H. Koh, “The Obama Administration and International Law”, Washington, 25/3/2010, http://goo.gl/s6HsR2.109 J. Brennan, "Strengthening our Security by Adhering to our Values and Laws", Harvard Law School, 16/9/2011, http://goo.gl/N3irtL , video: http://goo.gl/pLNYoG.110 E. Holder, “Attorney General Eric Holder Speaks at Northwestern Univer-sity School of Law”, Chicago, 5/3/2012, http://goo.gl/oub1dQ.111 J. Brennan, “The Efficacy and Ethics of U.S. Counterterrorism Strategy”, Wilson Center, 30/4/2012, video: http://goo.gl/3v5Nup.112 J. Johnson, “‘A ‘Drone Court’: Some Pros and Cons”, Forham Law School, 18/3/2013, http://goo.gl/If2BGk.

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NOTE — 171

Page 173: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 103:113 E. Holder, lettera all’onorevole Patrick J. Leahy, presidente della commis-sione Giustizia del Senato del Congresso, 22/5/2013, http://goo.gl/LTxUdS.114 A specificare queste eccezioni è stato il procuratore generale Holder nel di-scorso già citato in precedenza. 115 “DOJ White Paper”, 4/2/2013, ottenuto da Msnbc

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Pagina 104:116 Articolo 2(4) della Carta delle Nazioni Unite, http://goo.gl/X1uDIK.117 Come stabilito dalla Corte Internazionale di Giustizia nella sentenza del 1986 tra Stati Uniti e Nicaragua. 118 Risoluzione del Consiglio di Sicurezza numero 748 del 1992 e successive.

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Pagina 105:119 Come la “Dichiarazione sulle Relazioni Amichevoli tra gli Stati” inserita nel-la risoluzione 2625 del 1970.

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Pagina 106:120 “Responsibility of States for Internationally Wrongful Acts”, Assemblea Ge-nerale delle Nazioni Unite, 2001, http://goo.gl/vn17AA.

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Pagina 108:121 Nel Maggio 2013 la corte suprema di Peshawar ha dichiarato illegali e con-tro la sovranità pakistana gli attacchi americani con i droni nelle Fata. Hanno fatto seguito pareri e dichiarazioni simili. http://goo.gl/1QRArP.

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NOTE — 172

Page 174: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 109:122 “Opening Statement by UN High Commissioner for Human Rights Navi Pil-lay at the 23rd session of the Human Rights Council”, Ginevra, 27/5/2013, http://goo.gl/9JPdOJ.123 “Report of the Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions”, Human Rights Council, 28/5/2010, http://goo.gl/rN5xBb.124 “Statement of the Special Rapporteur following meetings in Pakistan”, Offi-ce of the High Commission for Human Rights, 14/3/2013, http://goo.gl/xESiaM.

Ritorna a pagina 109

Pagina 110:125 W. E. Murnion, “A Postmodern View Of Just War”, in S. P. Lee (a cura di), Intervention Terrorism, And Torture: Contemporary Challenges To Just War Theory, Springer, 2007.126 Come riportato in J. Raines, “Osama, Augustine, and Assassination: The Just War Doctrine and Targeted Killings”, Transnational Law & Contempora-ry Problems, vol. 12, n. 1, 2002, pp. 217-221.

Ritorna a pagina 110

Pagina 111:127 Il protocollo addizionale alla Convenzione di Ginevra del 12/8/1949 e il pro-tocollo I relativo alla protezione delle vittime di conflitti armati internazionali dell’8/6/1977. 128 Stando all’articolo 52(2) del protocollo I. 129 Come riportato in H. Spieker, “Civilian Immunity”, Crimes of War, http://goo.gl/W76YVk.

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NOTE — 173

Page 175: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 113:130 K. Chick, “US Drone Strikes Kill Seven in Pakistan Taliban Stronghold”, Christian Science Monitor, 17/3/2010, http://goo.gl/nFUIhR.131 K. Dörmann, “The Legal Situation Of Unlawful/Unprivileged Combatants”, International Review of the Red Cross, n. 849, 31/3/2003, http://goo.gl/8clmjG

Ritorna a pagina 113

Pagina 114:132 S. D. MacDonald, “The Lawful Use of Targeted Killing in Contemporary In-ternational Humanitarian Law”, Journal of Terrorism Research, vol. 2, n. 3, 2011, pp. 126-144, http://goo.gl/P1B2rn.133 “US Drone Strikes Kill Militants in North Warziristan”, Dawn, 17/3/2010, http://goo.gl/FdU3N9.134 Come ipotizzato dall’articolo 52(3) del I protocollo.

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Pagina 115:135 L. Martinez, M. Raddatz, “Al Qaeda Operations Planner Saleh Al-Somali Be-lieved Dead in Drone Strike” Abc News, 11/12/2009, http://goo.gl/ZjBwTh; M. Mazzetti, S. Mekhennet, “Qaeda Planner in Pakistan Killed by Drone”, New York Times, 11/12/2009, http://goo.gl/vcQXnW.136 Vedi l’articolo 52(3) del I protocollo.137 V.-J. Proulx, “If the Hat Fits, Wear It, If the Turban Fits, Run for your Life: Reflections on the Indefinite Detention and Targeted Killing of Suspected Ter-rorists”, Hastings Law Journal, vol. 56, n. 5, 2005, pp. 801-900.

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Pagina 116:138 W. Jason Fisher, “Targeted Killing, Norms, and International Law”, Jour-nal of Transnational Law, vol. 45, n. 3, 2007, pp. 711-723.

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NOTE — 174

Page 176: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 117:139 Z. Khan, “Waziristan drone attack: Taliban faction threatens scrapping pea-ce deal”, The Express Tribune, 21/3/2011, http://goo.gl/g7F0XT.140 Principi fondamentali della Croce Rossa Internazionale, vedi http://goo.gl/eIhtSU.

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Pagina 118:141 B. Obama “Remarks by the President at the National Defense University”, Washington, 23/5/2013, http://goo.gl/aXVH87, video: http://goo.gl/HZlCnL

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Pagina 119:

142 “Fact Sheet: U.S. Policy Standards and Procedures for the Use of Force in Counterterrorism Operations”, White House, 23/5/2013, http://goo.gl/R90o4R.143 “Background Briefing by Senior Administration Officials on the President's Speech on Counterterrorism”, White House, 23/5/2013, http://goo.gl/L1YJlv.

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Pagina 120:144 L. Jansen, “Obama to release documents on targeted killings to Congress”, Cnn, 7/2/2013, http://goo.gl/CQkANK.

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Pagina 121:145 “Undelivered Address Prepared for Jefferson Day”, 13/4/1945, The Ameri-can Presidency Project, http://goo.gl/xmGkwg146 Si veda a questo riguardo in particolare M. Walzer, Just and Unjust War: A Moral Argument with Historical Illustrations, New York, Basic Books, 1977.

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Pagina 122:147 Ivi, p. 126.

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NOTE — 175

Page 177: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

CAPITOLO 5Pagina 129:148 La nascita del programma Predator italiano è raccontata in B. Di Martino, “L’Aeronautica Militare e il programma Predator”, Rivista Aeronautica, n. 2, 2004, pp. 56-61.149 cfr. R. Corsini, “I Predator italiani in Iraq”, Rivista Aeronautica, n. 1, 2005, pp. 22-29.

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Pagina 130:150 I dettagli sono raccontati in ibidem.

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Pagina 131:151 I dettagli della missione di addestramento sono raccontati in Martin, op. cit., pp. 150-169.

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Pagina 132:

152 Ten. Col. L. Comini, “La funzione ISTAR del sistema Predator nelle opera-zioni militari: il caso Antica Babilonia”, Centro Alti Studi per la Difesa, tesi del 9° corso superiore di Stato Maggiore interforze, 2005-2006.

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Pagina 134:153 cfr. Martin, op. cit., pp. 175-178.

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Pagina 137:154 T. Vanden Brook, “IED casualties dropped 50% in Afghanistan in 2012”, USA Today, 18/1/2013, http://goo.gl/bFZ0tw. 155 J. Wright, “Counter-IED efforts in Afghanistan experience mixed fortunes”, IHS Jane’s Defence Weekly, 9/1/2013, http://goo.gl/ZjXS4O.

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NOTE — 176

Page 178: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 142:156 cfr. i dati in Missione Libia 2011: Il contributo dell’Aeronautica Militare, Edizioni Rivista Aeronautica, 2012.

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Pagina 143:157 Legge 14/7/2004, n. 178, “Disposizioni in materia di aeromobili a pilotag-gio remoto delle Forze armate", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 168 del 20 luglio 2004, goo.gl/dNrXMR.158 Per una disamina delle normativa relativa ai droni in uso alle forze armate, vedi Ten. Col. V. D. Simonetti, “Profili giuridici attinenti all’impiego degli aero-mobili a pilotaggio remoto nello strumento militare nazionale: analisi della normativa di settore ed aspetti problematici”, Centro Alti Studi per la Difesa, tesi del 14° corso superiore di Stato Maggiore interforze, 2011-2012.

Ritorna a pagina 143

Pagina 144:159 cfr. il resoconto della seduta del 30/1/2008 della commissione Difesa del Senato al sito http://goo.gl/bWUOA3.

Ritorna a pagina 144

Pagina 145:160 cfr. il resoconto della seduta del 12/2/2008 della commissione Difesa della Camera al sito http://goo.gl/l6vOdn.161 cfr. il resoconto della seduta del 7/10/2009 della commissione Difesa della Camera al sito http://goo.gl/ckkUEQ.162 Intervista di uno degli autori a Vincenzo Camporini, Roma, il 06.12.2012.

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NOTE — 177

Page 179: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 147:163 Entrambe le citazioni da A. Entous, “U.S. Plans to Arm Italy's Drones”, Wall Street Journal, 29/5/2012, http://goo.gl/cx7BI1.164 “Capo di stato maggiore: avranno a bordo anche armi”, La Gazzetta del Mezzogiorno, 11/5/2013, http://goo.gl/t443RA.165 A. Butler, “Europe Considers 'Black' Armed MALE UAV Project”, Aviation Week, 9/5/2013, http://goo.gl/czozil.166 Ibidem.167 A. Svitak, A. Butler, B. Sweetman, “Piaggio-Selex Drone Boasts Pan-Euro-pean Promise”, Aviation Week, 24/6/2013, http://goo.gl/I2cDuA.

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Pagina 148:168 Cfr. supra le dichiarazioni di Debertolis nei due articoli di Aviation Week.

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Pagina 149:169 G. Gaiani, “La nuova lista della spesa della Difesa italiana”, Analisi Difesa, 20 maggio 2013, http://goo.gl/mhZrzi.

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Pagina 150:170 cit. in F. Petroni, “Il pilota senza cielo”, The Post Internazionale, 4/3/2013, http://goo.gl/st3qzw.171 J. L. Otto, B. J. Webber, “Mental health diagnoses and counseling among pilots of remotely piloted aircraft in the United States Air Force”, Medical Sur-veillance Monthly Report, Armed Forces Health Surveillance Center, vol. 20, n. 3, 2013, pp. 3-8, http://goo.gl/qt4e9U.

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NOTE — 178

Page 180: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

Pagina 151:172 N. Abé, “Dreams in Infrared: The Woes of an American Drone Operator”, Der Spiegel, 14/12/2012, http://goo.gl/Ypejur.173 cit. in Singer, op. cit., pp. 344-347.174 Ivi, p. 367.

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Pagina 152:175 cfr. Martin, op. cit., p. 44.176 Singer, op. cit., pp. 333-337.177 Ivi, p. 370.

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NOTE — 179

Page 181: La-Guerra-Dei-Droni-2013.pdf - Nicolas Lozito.pdf

GLI IMPERDIBILI

Columbia Law School “The Civilian Impact of Drones: Unexami-ned Costs, Unanswered Questions” Center for Civilians in Conflict, 2012

Che impatto hanno i droni sui civili? Quali misure hanno intrapreso gli Stati Uniti per lenire le conseguenze degli attacchi dal cielo sulla popo-lazione? Quali deficit di trasparenza intaccano l’uso degli aerei senza pi-lota in America? Siamo certi che l’illusione di una tecnologia che tutto può vedere non comporti peculiari problemi quando si tratta di attacca-re nemici che si confondono tra la gente? Tutti interrogativi cui questo rapporto di una delle università più prestigiose d’America cerca di dar risposta.

Martin J. M. (con C. W. Sasser) “Predator: The Remote-Control Air War over Iraq and Afghanistan: A Pilot's Story” Minneapolis, Ze-nith, 2010

La storia di un pilota di droni. La testimonianza in prima persona di an-dare in guerra senza muoversi da casa. Combattere un giorno in Iraq e un altro in Afghanistan. Tutte le sfide psicologiche, tecniche ed etiche del pilota dei robot. Il racconto delle missioni più importanti e anche di quelle più tragiche.

Scahill J. “Dirty Wars: The World Is A Battlefield” Nation Books, 2013

Il drone è l’arma d’elezione nella guerra al terrorismo. Questo libro è fondamentale per capire il contesto più ampio, quello della battaglia

BIBLIOGRAFIA — 180

BIBLIOGRAFIA

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americana contro al-Qa’ida. L’autore è un giornalista investigativo che attraverso viaggi in Yemen e Somalia, voli in Pakistan, interviste esclusi-ve con i protagonisti - da entrambi i lati - di questa sfida segreta raccon-ta la deriva di una guerra diventata permanente per gli Stati Uniti. E lo fa narrando come l’America ha risposto all’Undici Settembre e concen-trandosi su un caso di eliminazione di un qaidista, quello più controver-so, quello di Anwar al-Awaki, primo cittadino americano a essere assas-sinato dalla guerra civile dell’Ottocento.

Singer P. “Wired for War: The Robotics Revolution and Conflict in the 21st Century” Penguin Books, 2009

Volume imprescindibile per capire la rivoluzione dei robot e come le guerre del terzo millennio saranno combattute. L’apporto fondamenta-le del libro sta nel raccontare scene - alcune sembrano tratte da un film di fantascienza - dalla guerra dei robot (la prima può essere considera-ta quella in Iraq del 2003) e l’impatto che la tecnologia ha sui militari e sulle forze armate in generale. Stravolgimenti demografici, mutamento della responsabilità, effetti sulla coesione e sullo spirito di corpo dei sol-dati, questioni etiche: il dibattito americano sui robot è in queste pagi-ne.

“The Permanent War” Washington Post, Ottobre 2012

Accuratissima serie di tre articoli del Washington Post, giustamente premiata con l’accesso alla finale dei premi Pulitzer 2012. Nel suo pez-zo “Plan for hunting terrorists signals U.S. intends to keep adding na-mes to kill lists”, Greg Miller svela l’esistenza della kill list Disposition Matrix e riporta le preoccupazioni circa il carattere potenzialmente infi-nito della guerra ad al-Qa’ida. Karen DeYoung traccia il profilo del cu-stode delle regole con cui l’America uccide, John Brennan, che da consi-gliere per l’antiterrorismo di Obama è diventato direttore della Cia. Infi-ne, Craig Whitlock analizza il ruolo della base di Camp Lemonnier a Gi-buti, epicentro della guerra dei droni tra Corno d’Africa e penisola ara-ba.

BIBLIOGRAFIA — 181

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Zenko M. “Reforming U.S. Drone Strike Policies” Council Special Report No. 65, Council on Foreign Relations, Gennaio 2013

Redatto da uno degli analisti militari più acuti e critici d’America, que-sto rapporto è un manuale per ogni futura amministrazione americana per riformare il programma dei droni. L’autore non è affatto contrario all’uso degli aerei senza pilota nella guerra ad al-Qa’ida ma è convinto che la facilità del ricorso a quest’arma comporti problemi strategici per gli Stati Uniti.

VOLUMI

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