La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto · Il padre nella letteratura psicologica,...

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La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto a cura di Chiara Marocco Muttini Mario Fulcheri Cecilia Maria Marchisio

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La funzione paterna nelle relazioni educative e di aiuto

a cura diChiara Marocco Muttini

Mario FulcheriCecilia Maria Marchisio

Copyright © MMIXARACNE editrice S.r.l.

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via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 978–88–548–2684–7

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I edizione: settembre 2009

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Indice

9 Presentazione C. MAROCCO MUTTINI 11 Assenza / presenza M. OGGERO

13 Capitolo I Funzione paterna e benessere psichico C. MAROCCO MUTTINI

1.1. Funzione normativa e ruoli genitoriali, 13 – 1.2. Funzione paterna e clima pedagogico, 16 – 1.3. Funzione paterna e scuola, 19 – 1.4. Funzione paterna e pedagogia speciale, 20 – 1.5. Nuove prospettive per l’educazione, 22 – Bi-bliografia, 25

27 Parte prima: la funzione paterna nell’infanzia 29 Capitolo II Psicologia della paternità e funzione paterna A. PAZZAGLI, D. VANNI

Bibliografia, 39

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43 Capitolo III Il padre nello sviluppo del bambino R. QUAGLIA

3.1. Il padre nella letteratura psicologica, 43 – 3.2. Il padre come l’altro ogget-to, 44 – 3.3. Il padre e la crescita del bambino, 46 – 3.4. Il padre e la differen-ziazione sessuale, 49 – 3.5. Il padre e lo sviluppo morale del bambino, 52 – 3.6. La direzione dello sviluppo del bambino, 53 – Bibliografia, 55

61 Capitolo IV Genitorialità–filiazione. La famiglia, un sistema relazio-nale in divenire M. PAVONE

4.1. La categoria universale della filiazione, 61 – 4.1.1. Tutti siamo generati, dunque figli, 61 – 4.2 .La famiglia come luogo di relazionalità dialogale, 64 – 4.3. I genitori regalano ai figli le radici e le ali, 66 – 4.3.1. La famiglia am-biente ideale per la crescita dei figli, 66 – 4.3.2. La famiglia ha tra i suoi com-piti quello di addomesticare il mondo, 71 – 4.4. La famiglia, un sistema in di-venire, 74 – 4.4.1. Fragilità e risorse nella coppia genitoriale, 74 – 4.4.2. Le dimensioni evolutive della famiglia, 76 – 4.5. Reciprocità di rapporto tra genitori e figli, 79 – 4.5.1. Anche i figli educano i genitori, 79 – 4.5.2. La famiglia solidale e aperta, 81 – Bibliografia, 82

87 Parte seconda: la funzione paterna nell’età scolare 87 Capitolo V

La figura paterna a scuola C .COGGI, P. RICCHIARDI

5.1. Introduzione, 87 – 5.2. Strumenti per rilevare i modelli paterni nei bambi-ni, 89 – 5.2.1. Osservazione sistematica, 90 – 5.2.2. I disegni, 91 – 5.2.3. I saggi, 92 – 5.2.4 Interviste o questionari, 95 – 5.3. Rilevare i modelli di pater-nità nella letteratura e in TV, 96 – 5.3.1. Figure paterne nella letteratura per l’infanzia, 96 – 5.3.1.1. I padri nella fiaba classica, 97 – 5.3.1.2. Il padre nella narrativa attuale rivolta alla fascia 3–6 anni, 102 – 5.3.2. Figure paterne in tv, 107 – 5.3.2.1. Padri assenti, 109 – 5.3.2.2. Padri sostitutivi, 111 – 5.3.2.3. Pa-dri poco presenti, 113 – 5.3.2.4. Padri intrusivi o negativi, 114 – 5.3.2.5. Padri pasticcioni, 115 – 5.3.2.6. Padri presenti, 118 – 5.4. Educazione alla paternità, 119 – 5.4.1. Ricostruzione della figura paterna, 119 – 5.4.1.1. Itinerari di scienze naturali, 120 – 5.4.1.2. Itinerari letterari, 121 – 5.4.1.3. Itinerari attra-verso film e cartoni animati, 123 – 5.4.1.4. Itinerari iconografici, 127 – 5.4.1.5. Itinerari autobiografici, 129 – 5.4.1.6. Itinerari transdisciplinari, 130 –

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5.4.2. Valorizzazione dei padri sostitutivi, 131 – 5.4.3. Educazione all’essere figlio, 136 – 5.4.4. Proposta per genitori, 136 – 5.5. Conclusioni, 137 – Bi-bliografia, 138

143 Capitolo VI

Me l’ha detto papà. La responsabilità di parlare ai bambini V.CEMBALO

155 Parte terza: la funzione paterna in adolescenza 157 Capitolo VII

La funzione paterna nell’educazione dell’adolescente M. FULCHERI, C. BUGNI BATTE

7.1. La funzione educativa della famiglia e i suoi intoppi, 157 – 7.2. Il pregiu-dizio sulla funzione del padre, 158 – 7.3. L’influenza del pregiudizio sulla strutturazione e sull’impostazione educativa della famiglia, 163 – 7.4. La fun-zione materna e la funzione paterna secondo la prospettiva adleriana, 169 – 7.5. La funzione paterna durante l’adolescenza, 174 – Bibliografia, 181

183 Capitolo VIII

La perdita del padre in preadolescenza e adolescenza C. MAROCCO MUTTINI

Bibliografia, 192

193 Capitolo IX

Associazionismo familiare e ruolo paterno C. M. MARCHISIO

9.1. Famiglie con persone fragili, 194 – 9.2. Associazioni familiari: una risor-sa, 195 – 9.3. Associazioni familiari e ruolo paterno, 197 – 9.3.1. Un esempio: l’ABC Sardegna, 198 – 9.4. Conclusioni, 200 – Bibliografia, 203

205 Capitolo X

Psicopedagogia e funzione paterna C. MAROCCO MUTTINI

Bibliografia, 214

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Presentazione Chiara Marocco Muttini*

La riflessione sui contributi della famiglia e della comunità all’edu-

cazione si impone oggi come una priorità dato l’emergere di sempre più frequenti situazioni di disagio.

L’età evolutiva rappresenta il periodo fondante per la salute menta-le e insieme il più delicato per le influenze che gli adulti, come educa-tori e come modelli, esercitano.

Una molteplicità di fattori concorre allo sviluppo della personalità: il terreno biologico, le esperienze relazionali, la storia personale, le in-fluenze ambientali e culturali. Le tematiche pedagogiche fin dall’ini-zio del Novecento furono oggetto di attenzione da parte degli autori di ambito psicodinamico non solo nella prospettiva della cura, ma della promozione della salute, sensibilizzando le agenzie educative ad un approccio fondato sulla conoscenza e la comprensione dei fattori in-consci (Caldin Pupulin, 1996). Fu avviata una profonda rivoluzione dello stile pedagogico, che ha segnato il passaggio dalla cosiddetta pedagogia nera, che considerava il bambino oggetto da raddrizzare, anche in modo coercitivo, alla pedagogia bianca, che afferma la prio-rità della comprensione del bambino in quanto soggetto e persona (Miller, 1988). Gli indubbi effetti positivi della nuova cultura si sono tradotti nella attenzione agli aspetti affettivi nella costruzione della personalità, in cui tutti gli adulti in funzione educante sono implicati. Adler ebbe il merito di segnalare come nella famiglia (1920, 1927) e nella scuola (1930) si compiano processi relazionali con ricaduta for-mativa e come pertanto l’intervento pedagogico in entrambe le istitu-zioni possa avere significato sia di prevenzione sia di correzione di

* Professore ordinario di Pedagogia speciale, docente di Igiene mentale presso l’Uni-versità degli Studi di Torino.

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sviluppi disfunzionali. La famiglia e la scuola sono state indicate co-me quelle nelle quali si compiono i primi e più significativi processi relazionali, ma altre agenzie educative come quelle extrascolastiche e professionali in genere hanno funzioni essenziali nella elaborazione della personalità.

L’intervento di consulenza nei momenti critici dell’esistenza è strumento di salvaguardia del benessere psichico perché può incenti-vare le risorse che l’individuo possiede e di cui non sempre ha piena consapevolezza. La fiducia in sé e l’efficacia nelle proprie scelte pos-sono essere accresciute da un intervento professionale tempestivo e mirato.

L’ambito dell’intervento pedagogico si considera oggi allargato al-la cosiddetta comunità educante (Orlando, 2005). L’importanza del lavoro di rete risulta da un cambiamento verso una visione di promo-zione e sviluppo non frammentata, in cui interazioni di ambito sociale, politico, culturale, hanno ricadute sia sull’individuo sia sulla collettivi-tà. La competenza pedagogica (Bertolini, 2005) non è prassi sponta-nea, ma precisa prospettiva scientificamente fondata (Bertolini, 1988), aperta ad un orientamento interdisciplinare costruito su una riflessione teoretico–epistemologica (Bertolini, 2003). Le trasformazioni sociali e culturali richiedono proposte nelle quali tradizione e innovazione tro-vino nuovi equilibri, senza che né la teoria né a prassi pedagogica vengano applicate in modo cristallizzato.

È quindi di grande interesse oggi la riflessione sui compiti e le in-fluenze degli educatori, siano essi i genitori, siano i professionisti, sia per estensione la “comunità educante”.

Il volume nasce come continuazione di un percorso di approfondi-mento sul tema della funzione normativa, iniziato nel 2003 attraverso un convegno tenutosi a Torino,promosso dal Centro Studi famigliare CCF. Il titolo del convegno “La funzione paterna nelle relazioni edu-cative e di aiuto” è stato sviluppato attraverso una serie di contributi specialistici di approfondimento.

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Assenza / presenza Margherita Oggero*

Qualche volta gli estremi coincidono, ovvero da azioni o atteggia-

menti opposti si ottengono risultati pressoché analoghi in termini di successo o insuccesso.

Una volta il padre era assente nell’educazione quotidiana (o spic-ciola) della prole. Come tutti sappiamo, nei primi anni di vita la cura parentale era compito esclusivo della madre: a lei toccava l’allat-tamento (non solo quello al seno, com’è ovvio, ma anche quello artifi-ciale) con le relative sveglie notturne, e il cambio dei pannolini, il ba-gnetto, la preoccupazione e la cura dei piccoli malanni, le passeggiate col pupo in carrozzella, in passeggino o in braccio, e più tardi la pre-parazione delle pappe, l’educazione degli sfinteri ecc.

Mi si consenta un ricordo personale: nella mia infanzia e adole-scenza non ho mai visto un uomo spingere una carrozzella o un pas-seggino nelle uscite domenicali o festive, perché quella era ritenuta una mansione da donne.

Il padre era l’autorità remota, quella cui, dopo la primissima infan-zia, si ricorreva perché sanzionasse i capricci gravi e insensati, il man-cato rispetto delle regole importanti, le marachelle compiute con pro-tervia. Col padre le bambine non giocavano praticamente mai, i ma-schi rare volte e solo con giocattoli specifici, come i trenini elettrici, il traforo, il Lego.

Al padre si ubbidiva. Le cose sono oggi molto cambiate. Nella maggior parte delle cop-

pie i mariti e i compagni si occupano dei piccoli dal momento della lo-ro nascita, cui spesso assistono; sanno preparare biberon e pappe,

* Scrittrice, già insegnante di Lettere.

Margherita Oggero 12

cambiano i pannolini, spingono carrozzelle e passeggini con orgoglio-sa disinvoltura, portano a spasso i figli nel marsupio o nel seggiolino fissato dietro alle spalle. Il padre è quasi un doppione della madre, e al posto della madre può avere dei permessi di lavoro retribuiti per occu-parsi della prole in caso di malattia o di altre necessità. Il padre gioca col figlio e con la figlia, ma al padre si ubbidisce poco, non più che al-la madre.

Dicevo che gli estremi si toccano nel senso che un’autorità remota e ritenuta poco affettuosa e il suo opposto, cioè un deficit di autorità e un eccesso di compagnonnage, hanno come risultato un’educazione sbagliata. Sbagliata in modi diversi, ma sempre sbagliata, come ho po-tuto constatare nei trenta e più anni di insegnamento nelle scuole me-die inferiori e superiori. Forse, anche nel campo dell’educazione, in medio stat virtus, nel senso di una presenza paterna con un ruolo di-verso e autonomo rispetto a quello della madre, con il ripristino di una forma di autorità affettuosa che non sconfini mai nell’autoritari-smo chiuso e ottuso, ma che sia comunque autorità.

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I. Funzione paterna e benessere psichico Chiara Marocco Muttini

1.1. Funzione normativa e ruoli genitoriali I ruoli genitoriali nel passato erano differenziati in modo preciso,

non confondibili, così come lo erano i ruoli sociali maschile e femmi-nile. Il padre, pur distante psicologicamente e spesso anche poco pre-sente in casa, esercitava una funzione educativa importante, indiscussa anche quando veniva proposta attraverso la mediazione della madre, che faceva da tramite tra il figlio e l’autorità paterna. Si potrebbe quindi affermare che, fino al diciannovesimo secolo, l’impronta all’educazione era data proprio dalla figura del padre o da figure ma-schili da lui delegate, come insegnanti e istitutori. In questo clima cul-turale si mossero Freud e i suoi seguaci per studiare il ruolo della ma-dre nello sviluppo del bambino, ruolo che fino allora era stato conside-rato nelle sue valenze concrete di accudimento, più che in quelle psi-cologico–relazionali.

Nella prima metà del XX secolo, a seguito degli studi di ambito psi-coanalitico venne quindi rivalutata a tal punto la funzione materna, che non solo divenne l’oggetto privilegiato di approfondimento, ma di pari passo acquistò una importanza preponderante nella impostazione pedagogica stessa, per il riconoscimento del ruolo primario della rela-zione affettiva. Questa fu tanto enfatizzata che nella famiglia come nei contesti educativi l’attenzione alla qualità della relazione di attacca-mento (Bowlby, 1979, 1988) passò in primo piano rispetto alla dimen-sione normativa della funzione genitoriale. La sicurezza dell’affetto e l’accettazione incondizionata sono premesse indispensabili perché la personalità a partire dalla nascita si sviluppi in modo sano. La lettera-tura di impostazione psicodinamica ha approfondito nel secolo scorso le tematiche inerenti al rapporto madre–bambino e alla dimensione af-

Chiara Marocco Muttini 14

fettiva delle cure. Una serie di autori, come Bowlby, Spitz, Winnicott e Mahler diedero contributi fondamentali allo studio delle relazioni di attaccamento nel primo sviluppo del bambino e alle patologie che ca-renze e disfunzioni affettive potevano arrecare.

Le esigenze affettive non sono però le uniche del bambino: il con-tenimento dell’angoscia attraverso l’imposizione di un limite aiuta l’individuo a separare il mondo interiore da quello esterno, a control-lare le pulsioni, a privilegiare il senso di realtà rispetto al piacere. Sen-za limite l’individuo non riesce a costruire un’identità stabile, auto-noma, sicura, rispetto all’angoscia di “andare distrutto”. Si tratta di un problema basilare nella costruzione della personalità, di livello arcaico rispetto ai temi edipici, tanto radicato nell’uomo da ricorrere anche nei miti antichi come quello di Marsia scorticato, che Anzieu (1985) pro-pone a conferma del modello di costruzione del nucleo del sé delimi-tato da quella che chiama Io pelle. Il limite imposto dall’esterno, pri-ma che acquisito autonomamente, viene dato dalle regole o norme, che indicano la linea di condotta a cui attenersi quando funzioni come la stima di sé a livello conscio, l’ideale dell’Io e il super–Io a livello inconscio, non sono ancora consolidate. Il difetto nella coesione del sé e lo smarrimento del senso del limite possono portare l’individuo an-che da adulto all’impossibilità di rielaborare le perdite, vissute come perdite di parti di sé. Sul piano clinico questa dinamica comporta il ri-schio di cadute depressive o sconfinamenti in comportamenti devianti, di dipendenza o delinquenza (Bergeret, 1976), manifestazioni legate a scompensi in una personalità borderline. Attraverso questi esempi di problemi clinici risalta la necessità per la salute mentale che famiglia e agenzie educative contribuiscano alla crescita offrendo i due poli di rapporto, affettivo e normativo (Chiosso, 1994). Tanto più crescendo l’età cronologica la relazione prevalentemente incentrata sul solo scambio affettivo non risulta adeguata ad uno sviluppo armonico. Si parla oggi di crisi della famiglia e si vanno affermando nuove situa-zioni di fatto rispetto all’istituzione familiare più vicina alla tradizione (Besozzi, 1993). La stessa struttura nucleare tradizionale, quella for-mata da genitori e figli piccoli, ha subito trasformazioni dei ruoli al suo interno. Si è venuta delineando una tendenza alla simmetria nelle funzioni legata a modificazioni culturali e sociali come il lavoro fem-minile e la maternalizzazione dell’atteggiamento paterno. Nello stesso

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tempo si sono allentati legami con altri familiari maggiormente pre-senti nella famiglia allargata nella quale varie figure di accudimento costituivano modelli complementari ai genitori. Infatti sono venuti modificandosi anche i ruoli esercitati dai nonni. Nel passato il più an-ziano della famiglia deteneva un potere che lo investiva di una funzio-ne normativa indiscussa, mentre oggi ad un ruolo sociale più periferi-co si accompagna una funzione esercitata attraverso l’affetto, la tene-rezza, l’accondiscendenza ancora più spiccate, parrebbe, di quelle e-sercitate dai genitori. Sono finora rimaste in ombra risorse che la “nonnità” (Cesari Lusso, 2004) potrebbe rappresentare per la giovane famiglia: le risorse dell’anziano potrebbero esser spese in modo profi-cuo non solo per un miglioramento del suo senso di benessere sogget-tivo, ma messe al servizio delle generazioni più giovani. Una risorsa presente e spesso sottovalutata può essere il tempo, che l’anziano ha in abbondanza rispetto alla generazione dei figli. Inoltre lo stesso clima educativo nel quale a suo tempo è vissuto potrebbe dargli un carisma presso le generazioni in età evolutiva che risentono invece di un certo vuoto di regole. I bisogni degli anziani e dei più giovani possono tro-vare un punto di incontro e essere reciprocamente soddisfatti purchè siano vive da entrambe le parti curiosità e apertura alla relazione e al riconoscimento dell’altro. Oggi i ruoli dei nonni sono variamente in-terpretati (Attias–Donfut, Segalen, 2001), da quello di babysitter, a quello di vecchio marginalizzato, mentre non è ancora emerso un nuovo modo di essere anziano vicino alle generazioni più giovani, modello complementare rispetto a quello genitoriale. La carenza di normatività che sembra essere una caratteristica del ruolo paterno oggi potrebbe in parte essere vicariata attraverso l’esperienza che l’anziano ha della vita e di un clima pedagogico differente dall’attuale. È chiaro che non si possono riproporre dei modelli comportamentali desueti senza modularli rispetto alle esigenze del presente e tuttavia non si può sottovalutare l’apporto positivo che gli anziano possono offrire al-la famiglia di oggi.

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1.2. Funzione paterna e clima pedagogico L’eclissi di attenzione verso il ruolo paterno si protrasse, senza che

di esso fossero studiate a fondo le caratteristiche, per gran parte del XX secolo.

È noto che la pedagogia fin dall’antichità è stata una espressione del “potere” nella società (Fornaca, 1991): le modificazioni dell’as-setto sociale hanno una ripercussione sul clima pedagogico.

Ci si può domandare se la messa in ombra della figura paterna non sia stato un fenomeno collegabile prima ad una prevalenza maschile nella società, che rendeva indiscussa la funzione specifica, poi ad una reazione rispetto ad un clima politico nel quale in varie parti d’Europa l’autorevolezza maschile tramutata in autoritarismo aveva condotto a derive come dittature e regimi totalitari. Può non essere casuale il fatto che i giovani dopo la seconda guerra mondiale non abbiano più saputo (o voluto) interpretare il ruolo paterno sul solco della tradizione, dato che ne erano stati evidenziati aspetti di prevaricazione e di limitazione della libertà dell’educando.

L’autore che fece segnare un punto di svolta nell’indagine sociolo-gica dei ruoli genitoriali fu Mitscherlich. Egli nel 1963 pubblicò un saggio dal titolo Verso una società senza padre che aprì un nuovo ca-pitolo nella ricognizione dei bisogni individuali affinché una società mantenga un assetto democratico senza cadere nella licenza. Fu evi-denziato che il disagio della persona può nascere da un eccesso così come da una carenza della funzione normativa. Oggi hanno ripreso vigore gli studi sulle applicazioni pedagogiche della psicologia (Cal-din Pupulin, 1996): l’oggetto di studio diviene non solo la eventuale risoluzione di elementi disfunzionali del comportamento, come era precipuo nei primi psicoanalisti (Freud, Pfister, Ferenczi) ma la strut-turazione della personalità per la costruzione di confini del Sé solidi, che si traducono in una buona coesione dell’Io e in risorse di resilien-za (Cyrulnik, 2001). Le modificazioni della struttura famigliare e la caduta del codice paterno nella educazione sono venute a coincidere temporalmente con una variata frequenza epidemiologica di disturbi psichici e con nuove e più ampie manifestazioni del disagio giovanile (Marocco Muttini, 1996). Dalla preadolescenza fino alle soglie dell’età giovanile–adulta, oggi spostata nel tempo, il ragazzo ha biso-

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gno di ricevere contenimento e di cimentarsi con le difficoltà di verifi-care le proprie capacità. Altrimenti sceglierà delle scorciatoie (Scapar-ro Roi, 1992) per l’affermazione personale, derivanti da una insicurez-za profonda e dal dubbio di non essere all’altezza dei compiti esisten-ziali. L’insuccesso scolastico ad esempio può derivare in taluni casi dalla scelta di non studiare per riparasi da un possibile vissuto di fal-limento. Paradossalmente è questo un meccanismo per mettere al ripa-ro la propria autostima da verifiche svalutanti.

Nel secolo scorso si registrava una prevalenza di diagnosi di neuro-si; oggi si afferma che sono in aumento i casi di disordini comporta-mentali e di patologie sostenuti da una struttura borderline. Mentre la personalità neurotica avrebbe alla base problematiche di tipo conflit-tuale (l’angoscia di castrazione legata alla situazione edipica) si so-stiene che la personalità borderline si sviluppi da una condizione difet-tuale, derivata da traumi (Bergeret, 1974), ma anche da deprivazione affettiva nel rapporto con la madre (Winnicott, 1984) o da carenza del-la funzione paterna (Strzyz, 1978).

A partire dalla preadolescenza (Marocco Muttini, 2007) e proce-dendo nell’adolescenza, con il crescere delle pulsioni sessuale e ag-gressiva sotto la spinta biologico–ormonale, la capacità di autocontrol-lo diventa essenziale per una maturazione fisiologica. Il controllo sul-le pulsioni e la capacità di mantenere la prevalenza della razionalità sono segni che la strutturazione dei confini del sé, iniziata nella prima infanzia attraverso il contenimento imposto dall’esterno (Anzieu, 1966) ha raggiunto un completamento, senza il quale non si può parla-re di personalità matura.

L’individuo adulto, se non ha acquisito limiti solidi, non riesce a conseguire un’identità stabile ed autonoma, sicura rispetto all’ango-scia di distruzione e al timore di essere sopraffatto nelle relazioni col mondo e con gli altri.

Durante il percorso evolutivo sono stati individuati momenti di par-ticolare rilievo per lo sviluppo successivo, come la “linea divisoria” di Abraham (1921) intorno ai due anni e il superamento del complesso edipico intorno ai cinque anni. Solo da quel momento l’individuo è capace di provare il sentimento di colpa (Lebovici, 1971) e andrà strutturando il senso morale, attraverso una serie di tappe individuate da Kohlberg (1984), che determinano differenti gradi di consapevo-

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lezza e autodeterminazione. Nei primi anni la costruzione del senso morale procede sulla base dei modelli parentali, in specie del padre; in adolescenza si assiste ad una rimessa in discussione dei valori già ac-cettati: dalla eteronomia si passa ad una autonomia di giudizio, non senza lotte e contraddizioni.

L’adolescenza rappresenta dunque il periodo in cui si evidenziano le carenze precedenti e in particolare le carenze di regole e acquisizio-ne di limiti.

Usare atteggiamenti violenti è un modo più facile per esercitare l’aggressività, invece di dirigerla verso affermazioni di sé più impe-gnative, esercitando l’autocontrollo. Ricorrere al furto, alla rapina, alla violenza sulle persone è un modo per ottenere subito beni e vantaggi per conquistare i quali altrimenti si fatica. La carenza di una scala di valori fa mettere su uno stesso piano, o addirittura capovolgere, il si-gnificato di termini quali impegno e merito. L’apprezzamento viene costruito sulla base di successi immediati ed effimeri invece che su un progetto di vita ben costruito. L’essere apprezzato nel gruppo e quindi conformarsi al gruppo rivelano una residua dipendenza, se non più da modelli primari, almeno dai pari, in contrasto con quello che dovrebbe essere desiderio di cambiamento, di separazione dai genitori, di affer-mazione di sé autonoma.

Mentre l’adolescente necessita ancora che gli adulti esercitino la funzione normativa, i mutamenti nelle dinamiche familiari hanno con-dotto a una più accentuata simmetria dei ruoli parentali (Pietropolli Charmet, 2001). Come padre e madre sono oggi entrambi dediti al-l’accudimento materiale del neonato, così, collaborando per lo più al sostentamento economico del nucleo, tendono a supplire al poco tem-po con atteggiamenti più affettuosi e permissivi. Anche nel corso degli anni viene prolungata l’attenzione all’aspetto affettivo del rapporto, come se esso, ed esso soltanto, fosse ciò che connota una buona rela-zione genitori–figli (Pietropolli Charmet, 2004) perché all’apparenza tale tipo di relazione non crea conflittualità manifesta.

Si è osservato questo fenomeno soprattutto nel corso della preado-lescenza e adolescenza, quando nel passato veniva invece accentuato il contenimento (Giani Gallino, 2007) mediante l’imposizione di rego-le che conducevano alla definizione del ruolo sociale. Oggi la salva-guardia del volersi bene va a scapito del controllo: attualmente nume-

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rosi segnali di disagio sociale fanno sorgere l’interrogativo se questa modalità di rapporto non vada a detrimento della formazione di una personalità ben adattata alla realtà e autodeterminata.

1.3. Funzione paterna e scuola La scuola negli anni recenti è venuta ad assumere un ruolo formati-

vo anche superiore al passato per la trasformazione in scuola di massa e la frequente delega da parte della famiglia, che non si accompagna però ad una valorizzazione della figura dell’insegnante. Si è creato quindi frequentemente un vuoto educativo per quello che riguarda il rapporto genitori–insegnanti e in conseguenza una ulteriore mancanza di limiti per i più giovani. A questo fenomeno concorre la quasi com-pleta femminilizzazione del corpo docente, portato a assumere atteg-giamenti più materni che improntati al codice paterno. Se nei primi anni di scolarizzazione lo stile educativo materno può, rispetto al pas-sato, favorire un passaggio meno brusco rispetto alla famiglia e rende-re più facile l’accoglienza e l’inserimento, esso non facilita però la se-parazione e l’assunzione di autonomia. Il sempre maggior numero di figli unici fa rilevare nella popolazione scolastica bambini con svilup-po poco armonico, spesso incapaci di provvedere da soli alle opera-zioni più semplici come vestirsi e legarsi le scarpe, anche quando sono iperstimolati dal punto di vista cognitivo (già alfabetizzati all’ingresso in prima, precocemente esperti nell’uso del computer). Man mano che il bambino cresce il passaggio al codice paterno si rende necessario perché favorisce l’assunzione di intraprendenza, desiderio di cono-scenza, comportamenti sociali ben adattati. Nel corso della preadole-scenza e adolescenza le carenze educative che possono ricollegarsi al citato clima materno dell’educazione scolastica divengono ancora più marcate ed evidenti.

Analogamente all’ambito scolastico, le professioni educative nell’extrascuola sono diventate sempre di più appannaggio del sesso femminile, con lo stesso problema di stile di rapporto, anche in casi in cui il contenimento è una necessità primaria rispetto all’affetto, come nei casi di disadattamento e rischio di devianza (Winnicott, 1984). Un vissuto di inadeguatezza o viceversa reazioni violente sono espressioni

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entrambe della impreparazione ad affrontare le difficoltà e quindi della debole resilienza che si è venuta configurando (Cyrulnik, 2004).

1.4. Funzione paterna e pedagogia speciale Come nel mondo della scuola e dell’educazione extrascolastica,

nella rieducazione e nella riabilitazione l’adozione del codice materno nel rapporto può essere poco adeguata per far maturare l’individuo.

La riflessione sullo stile educativo risulta pienamente attuale e ne-cessaria nel campo della pedagogia speciale, dove la valorizzazione della funzione paterna non ha sempre avuto tutto il rilievo che merita. Nella famiglia di soggetti con deficit l’intervento del padre può collo-carsi in modo problematico tra l’esercitare un ruolo simmetrico rispet-to a quello materno o il divenire autoritario in modo frustrante rispetto alle potenzialità. L’esercizio della autorevolezza è necessario (Vico, 1994): anche in soggetti deboli come insufficienti mentali e psicotici la sollecitazione offerta dal codice educativo paterno può condurre a miglioramenti. Al contrario una eccessiva maternalizzazione dello sti-le educativo protrae la dipendenza (Battaglia, Canevaro, Chiurchiù, 2005).

La carenza della funzione normativa è stata rilevata con significati-vità nella devianza minorile (Biller, 1978). L’opinione pubblica è in questi anni sempre più sollecitata da fatti di cronaca in cui sono coin-volti giovanissimi quali autori di reato e di comportamenti antisociali. Prese di posizione basate sull’emotività sono quelle che indicano l’aumento della devianza giovanile come connesso ad una diffusa ca-duta dei valori e delle regole che ne sono l’applicazione concreta.

Sui giornali abbiamo modo di osservare che gli adulti stessi spesso manifestano attaccamento non già a valori trascendenti quanto a ra-gioni di visibilità (influenza e fascino dei media), di potere, di succes-so economico. Le generazioni più giovani quindi non trovano indica-zioni di condotta in modelli adulti che a loro volta sono deboli e con-traddittori; crescono cercando nell’ambiente, come è fisiologico nel periodo dell’età evolutiva, stimoli con cui costruire la personalità e ri-schiano, in carenza di proposte forti, una distorsione nell’attribuire si-gnificato alle esperienze. Il potere critico che ancora non posseggono

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ha bisogno per crescere di trovare dei limiti attraverso i quali, prima accettandoli per poi magari superarli, realizzare la propria visione del mondo. La responsabilità e l’autonomia si costruiscono sulla base di una intenzionalità (Bertolini, Caronia, 1994) che tenga conto di sé come degli altri, che sappia trovarsi delle regole equidistanti sia da un adattamento conformistico e succube sia da un egocentrismo che si traduce in licenza (Senise, 1991).

A leggere la realtà odierna attraverso la cronaca, viene il sospetto che il conflitto tra le opposte istanze (amore–odio; tenerezza–aggres-sività), di cui l’ambivalenza dei sentimenti adulti è l’espres-sione, si sia spostato in molti casi dallo scenario interfamiliare dove poteva es-sere temperato dai legami di affetto e dall’autorevolezza paterna, all’ambiente sociale.

Non potendo più trasgredire, sfidare, opporsi al padre diventato troppo morbido, l’adolescente non riesce a interiorizzare il conflitto; rimane quindi vincolato ad una espressione dell’aggressività agita in forma di lotta verso l’esterno, alla ricerca inconscia di un contenimen-to esercitato da una autorità, senza il quale non può diventare respon-sabile, e acquisire il senso di ciò che può o non può fare, e di chi è e deve essere. Proprio in questi tempi sono accaduti più volte in Italia fatti di sangue che hanno coinvolto dei giovanissimi: uno degli scenari è quello dei campi di calcio, dove atti che si possono definire di guer-riglia hanno prodotto persino ferimenti ed omicidi. Adulti che rappre-sentano la legge e le istituzioni sono diventati apparentemente “il ne-mico”. Essi sono i rappresentanti di un’autorità che limita e contiene e verso cui l’adolescente esercita una sfida (Gould, 1978). Non trovando più contenimento nelle figure educative prossime a sé, egli va a cerca-re il limite con atti sempre più violenti, come se si chiedesse quando sarà fermato e chi ha il potere di contenerlo. La sfida, prima giocata in famiglia su questioni minute (orari, contegno formale, rendimento ne-gli studi) si è trasferita nell’ambiente sociale diventando pericolosa, dirompente e incontenibile nei suoi effetti distruttivi, ma anche autole-sivi.

Colpisce in modo particolare la frequente mancanza di senso di colpa, di parole di pentimento, da parte dei ragazzi coinvolti in atti violenti, ma colpisce anche di più il tentativo di giustificarli e di smi-nuirne la responsabilità da parte delle famiglie; si tratta ancora di un

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atteggiamento che privilegia l’affetto su qualsiasi considerazione o-biettiva fino al punto di capovolgere le responsabilità, come se la vit-tima, pur interpretando il suo ruolo istituzionale, fosse diventato l’aggressore.

Altri fatti di cronaca recente come aggressioni verbali e addirittura fisiche ad insegnanti e presidi da parte di allievi o dei loro genitori, confermano l’incapacità di accettare le regole stabilite, ma di volerle modificare a propria misura, e quindi di fatto non averne.

In altri ambiti professionali, come quello della educazione speciale, si incontrano analoghe difficoltà a far rispettare comportamenti idonei ad una civile convivenza. In questo settore la carenza di funzione normativa può essere la causa o la concausa degli stessi comportamen-ti che hanno determinato la necessità dell’intervento educativo. Oltre che nella devianza giovanile, nel disadattamento sociale in genere e nelle psicosi si osserva la mancanza della introiezione di norme, che deriva da una debole identificazione con la figura paterna che ne è de-positaria e veicolo.

I limiti che in famiglia, e in parte anche a scuola, non sono più im-posti, saranno in seguito sperimentati inevitabilmente nel lavoro e nel-la convivenza civile a cui l’individuo si prepara attraverso esperienze guidate fin da suo primo sviluppo. Un’educazione che conferisce pro-gressivamente maggiore autonomia e responsabilità dopo aver fissato i limiti, aiuta l’individuo ad assumere nella sua vita adulta atteggiamen-ti responsabili sia verso se stesso che verso gli altri. Questa imposta-zione pedagogica è stata nei tempi recenti valorizzata anche nell’am-bito della pedagogia speciale (Canevaro, Balzaretti, Rigon, 1996), perché senza senso di responsabilità non può esserci vera integrazione sociale.

1.5. Nuove prospettive per l’educazione Si è ritenuto che la riflessione portata sulla funzione paterna sia

dunque argomento di rilevante attualità ed utilità per la famiglia, così come per insegnanti ed educatori. Si è scelto di procedere attraverso una disamina del contributo all’educazione della trasmissione di nor-me sia nello sviluppo del bambino, sia nei vari interventi sul campo

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che richiedono l’applicazione concreta di regole in situazioni di caren-za già verificatesi.

Lo sviluppo dell’individuo a partire dalla nascita e fino all’età adul-ta si compie attraverso una serie di relazioni nelle quali affetti e regole sono parimenti fondamentali. Sono rimasti finora in ombra sia il con-tributo all’educazione delle fasce di popolazione più anziana sia vice-versa la ricaduta che l’esercizio di un ruolo attivo ha sul benessere soggettivo.

È osservazione ricorrente la crisi di identità dell’anziano nella so-cietà di oggi come conseguenza di un insieme di perdite: lavoro, pote-re economico, ruolo sociale, prestanza fisica, salute. In quella che vie-ne definita terza età (65–80 anni circa), distinguibile da una quarta età (dagli 80 anni in poi) le condizioni e la speranza di vita sono di molto migliorate rispetto al passato. Tuttavia non si può negare che fattori come l’accelerato ricambio culturale e le trasformazioni della fami-glia, da allargata a nucleare, abbiano inciso in senso negativo sulla percezione di sé e sulla qualità della vita dell’anziano.

Il vissuto di perdita e la mancata elaborazione hanno pesanti rica-dute sulla vita individuale e sulla collettività, dato che più attori sociali risultano coinvolti, sia per legami affettivi, sia per compiti professio-nali ed istituzionali, nella gestione del malessere dell’anziano e della disagio della comunità.

La riflessione in chiave di prevenzione si impone oggi come una fonte di nuove modalità per affrontare l’invecchiamento, a livello sog-gettivo e collettivo. L’educazione costituisce uno strumento per co-struire un modo più integrato di essere anziano rispetto ad un mondo sociale in cambiamento, che facilmente esclude chi non si adegua ad esso. Più ancora delle perdite oggettive, alle quali l’anziano potrebbe adattarsi attraverso il sentimento della nostalgia (Rossi, 1986) che pre-serva un’immagine positiva di sé, ciò che conduce ad una sofferenza risulta essere l’anomia rispetto ai valori culturali dominanti ed ai nuo-vi stili di vita (Marocco Muttini, 2006). Prima ancora che per impos-sibilità economica o di salute alla condivisione, l’anziano si autoe-sclude per l’incapacità di partecipare alle curiosità ed ai fermenti cul-turali delle generazioni più giovani. Rimane invece ancorato ad un si-stema di valori e di norme che ha sempre apprezzato e praticato ma non riesce più a trasmettere.

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Non si dà oggi sufficientemente importanza a questo distacco dell’anziano rispetto al mondo in cui vive, foriero di disadattamen-to e depressione, ritenendolo erroneamente il frutto di un deterio-ramento cognitivo. Nella fascia di età dei giovani–vecchi le risorse di apprendimento e di comprensione man mano che aumenta il li-vello di scolarizzazione, possono essere ancora ben presenti ed es-sere messe al servizio della collettività per colmare un vuoto di va-lori trascendenti che sta pericolosamente verificandosi (Pietropolli Charmet, 2001).

Ogni adulto ricopre una funzione educante presso i più giovani, dif-ferente e specificamente legata al sesso, all’età ed al ruolo: anziché negate o misconosciute le differenze devono essere valorizzate come elementi di ricchezza che contribuiscono a costruire l’insieme dell’intervento. Come in un’orchestra i vari strumenti si integrano in un risultato che non è la semplice somma di suoni diversi, così la per-sonalità è il frutto di esperienze di relazione e di interazione, ognuna delle quali dà un apporto indispensabile alla maturazione.

Nella società di oggi, più aperta ai contributi offerti, oltre che dalle agenzie educative tradizionali, da esperienze di confronto multicultu-rale e di apporto dei media, il soggetto in età evolutiva è sia a rischio di carenze, sia viceversa dotato di opportunità positive. È verosimile che l’immagine di adulto normativo in quanto tale, così come concepi-ta nel passato, debba subire una revisione legata alle trasformazioni culturali: l’autonomizzazione, come effetto di una socializzazione più libera tra i pari, è divenuta più precoce; la fruizione di forme di intrat-tenimento come quelle offerte da Internet e dai nuovi media avviene da parte dei giovanissimi in modo svincolato rispetto al controllo degli adulti educanti. La più prolungata scolarizzazione e soprattutto la cul-tura tecnologica hanno creato un divario tra le generazioni assai più accentuato e rapidamente incrementantesi. Da ciò deriva la necessità di un cambiamento nell’esercizio della funzione normativa rispetto al passato: agli obblighi ed ai divieti deve subentrare più precocemente la concessione di una libertà sostenuta dalla responsabilità. La funzio-ne paterna rappresenta una componente prioritaria dell’ambiente edu-cativo, che deve però essere modulata sulla base di nuove esigenze e stili di vita, derivanti dai processi di crescita fisica e cognitiva accele-rati e variati come tempi e modalità.

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Non più soltanto gli adulti direttamente coinvolti nelle agenzie e-ducative, ma la comunità allargata è investita oggi di una funzione e-ducante nella trasmissione di valori e norme, per contribuire alla co-struzione di un individuo adulto ben integrato nella società.

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