La Fabbrica delle Falene di Raso

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Neri racconti d'amore

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Michela Scagnetti

La Fabbrica delle Falene di RasoLa Fabbrica delle Falene di RasoLa Fabbrica delle Falene di RasoLa Fabbrica delle Falene di Raso

Testo ed illustrazioni di Michela Scagnetti

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Indice

1958 Pag. 6

A china Pag. 7

Amante Assassina Devota Donna Gazza Pag. 8

Amore Pag. 9

Barattoli Pag. 10

Cattivi Pensieri Pag. 13

Corteo Funebre Pag. 14

Cosmo Pag. 16

Curiosità ingenua a un funerale Pag. 17

Diagrammi di un sogno alla finestra Pag. 18

Diapositive Pag. 19

Disatteso Pag. 21

L’equilibrista Pag. 22

Esiste solo un enorme instabile presente... Pag. 23

Fauci Pag. 24

Frangente Pag. 25

Frantumi Pag. 26

Fratelli Pag. 27

Giornata di vento Pag. 28

Guarita Pag. 29

I medici della peste Pag. 31

I narconauti di babau Pag. 32

Il conato delle farfalle nere Pag. 33

Il sacrificio Pag. 35

5

Immersione Pag. 36

Incubo Pag. 37

L’insostenibile perfezione dell’essere Pag. 39

L’iris Pag. 40

Kim Pag. 41

L’ amore ha il sapore dell’assenzio Pag. 42

Il fumo delle bestie morte Pag. 43

Il giudice delle libertà Pag. 44

Il pensiero difforme Pag. 45

In condivisioni Pag. 46

Interiorae Pag. 47

In un campo di fiori focomelici Pag. 48

La barca e il mare Pag. 49

La buonanotte Pag. 50

La rosa che non visse Pag. 51

L’ennesima operazione Pag. 52

La fine Pag. 53

La guarigione Pag. 55

La morte gialla Pag. 56

L‘operazione Pag. 57

Lasciarsi scivolare è così facile Pag. 58

Libagione: l'albero della strega Pag. 60

Luz Pag. 61

Meredith Pag. 62

Morte al teatrino Pag. 63

Morte delle Camelie Pag. 65

Nel respiratore Pag. 66

Nessun dove Pag. 68

Oceania Pag. 69

Oceano di sabbia Pag. 70

Cronaca di un omicidio d'agosto Pag. 72

Le biglie dei sogni Pag. 73

Blunotte Pag. 75

L'osservatore di uccelli Pag. 77

Overdose Pag. 78

Platonico ovvero Il pittore e la modella Pag. 79

La perfezione Pag. 80

Prima lezione di cucito: cucire è per sempre Pag. 81

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Rovi Pag. 82

Ruvido peccato Pag. 83

Schegge di Vetro Pag. 84

A tempera, schizzo Pag. 85

Sirena Pag. 86

Sovrappopolazione Pag. 87

Melanie Storm Pag. 88

Supernova Pag. 89

Tram Pag. 90

Tubercolosi Pag. 91

L’uccello del Malaugurio Pag. 92

L’ultimo volo Pag. 95

Un pasto nudo Pag. 96

Una notte Pag. 97

Under the violet effect Pag. 98

uMor VitReO Pag. 99

L'Uomovolpe Pag. 100

Uova Pag. 101

VeNitE BambiiNii, VeEeniTe, VeNitE dalla maMmaA Pag. 102

Inchiostro su carta ruvida 200 grammi Pag. 103

Il sognatore Pag. 104

Il marciapiede Pag. 105

L’ultima recita del primo attore Pag. 106

Greta Pag. 107

Insapidità Pag. 108

La torre dei sogni e il piccolo cuore Pag. 109

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1958

Tre le teste. Tre le teste che l'inseguono con gl'occhi, appollaiate sulla sua ombra distesa.

La prima è magra e canuta. Sorride. Ma è un sorriso sdentato e cattivo, forse un pò ironico e lo mette a disagio. No, lo inquieta, lo schifa, lo terrorizza. Scappa. Sa che sta scappando, ma si ritrova la testa canuta sempre così vicina alla sua faccia, troppo vicina, e non si spiega come dopo così tanti chilometri lei possa schiaffargli il suo macabro sorriso continuamente all'altezza del naso. Corre. Corre e non può fare altro. Non capisce. Ha paura, ma non molla.

La seconda è anche peggio e poco più distante. Gli preme la faccia brufolosa e spellata per la psoriasi sul petto nudo, e nemmeno questo lui si spiega, perché sta nuotando, nuotando veloce, e agita gambe e braccia in movimenti decisi e regolari, nonostante la paura e il senso di schifo: come fa a stargli sempre incollata?

La terza è spropositatamente rotonda e ghigna all'altezza dell'anca. Sembra stia per divorarlo. La bava le scende dal lato sinistro della bocca, assieme ad un rivolo di sangue che sgorga dal labbro inferiore, dove si è morsa ella stessa. Non c'è spazio nell'intercapedine dove è bloccato per nient'altro che il suo corpo allungato e schiacciato contro le pareti; fosse altrimenti vi sarebbe già uscito, ma allora la testa come fa a starci? Inquietudine. Terrore.

Urla.

Urla.

Urla.

La pupilla prima si dilata, poi si rivolta all'indietro, lasciando a vista soltanto il bianco ricco di capillari in tensione. L'iniezione comincia a fare effetto. L'aloperidolo scorre rapido nelle arterie, mentre le allucinazioni allentano la presa. Si ritroverà nel suo letto. Dove è sempre stato. I dottori sostengono che non c'è null'altro da fare: domani mattina elettroshock.

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A china

Piove. La china scivola, nera.

Sul foglio. Carta ruvida, grossa, spessa. Rassicurante.

Piove. La china cade, nera.

Goccia a goccia come un bombardamento aereo; la filigrana non scappa. Assorbe. Sprofonda. Muta. Il pensiero s'arriccia e s'increspa e raggiunge la riva. Mi bagna la punta dei piedi e svanisce camminando all'indietro. Ogni cosa ritorna matassa acerba, pensiero di pensieri, groviglio, intreccio, sposalizio, carne di cellulosa e arterie d'inchiostro livide. Se tocco, dopo l'asciugatura, posso dimenticare le mie dita tra le infossature del disegno. La bellezza di oggi sta nello scoprire, sotto la traccia sottile e grossa, un'altra traccia più labile che sottostà e sovrintende all'ingegno della creazione. La bellezza di oggi sta nella mia debolezza. La bellezza di oggi è carta inchiostrata di malinconia.

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Amante Assassina Devota Donna Gazza

La donna gazza s'incamminava all'altare dei sottili inganni.

Cantando come rugiada il suo passo incede: "E non mi merito il meglio, io?" Sfilava nera, in un'ombra di mistero. La Donna Gazza mi rubò il cuore e se ne fece una veste cremisi. Consegnò il mio piccolo teschio d'uccello a un qualche dio o forse soltanto alla terra. La sua veste pulsa ancora. Posso sentirla battere, ancora ricorda, ancora il sangue cola e schizza sulle ali sbiancate dal peccato. Amante Assassina Devota Donna Gazza. Ma qualcosa scricchiola, sottile nell'aria: il sapore della sproporzione, una data di scadenza già passata, un equilibrio mancato.

"E non mi meritavo di meglio, io?"

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Amore

Non avevo capito di essere morta.

Le ore scivolavano dal soffitto in liquidi rivoli d'acrilico viola. Nell'aria ancora l'odore dell'aver fatto l'amore, le coperte travolte, le membra trafitte, l'oblio nella testa assieme a mille paranoie, il ricordo di un clitoride affamato, di un clitoride sazio. Riversa sul letto, i capelli scarmigliati e dispersi, continuavo a galleggiare sopra un mare viola.

Non avevo capito di essere morta.

Gl'occhi sbarrati che ancora guardavano, inseguivano i graffi, i morsi, il sangue della notte appena passata, l'amore, le spinte dei lombi, il clitoride che chiama, che urla, eccitato dall'odore, dalla pelle, da occhi come un treno, da un tempo grigio, dal vuoto attorno, dalla tua mano, dalla rabbia, la bocca contorta in un mugolio, le manette alle mani, le corde ovunque.

Non avevo capito di essere morta.

E' stato l'unico amore, l'unico pasto ben divorato. Lui riverso a terra, una smorfia di dolore, una ferita aperta, i nostri umori fusi e sparsi. E' stato l'unico atto d'amore, il mio unico atto di pura e folle felicità. Le ore scivolavano liquide dal soffitto in rivoli d'acrilico viola, finché tutto non si è allagato. La tua ombra affianco, la tua mano.

Essere felici è solo un breve eufemismo tinto di bianco.

Questa morte ha un buon odore. Odore di Amore.

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Barattoli

Barattoli, barattoli, barattoli. Impilati nella credenza a bizzeffe, accatastati in ogni angolo della cucina, sulle mensole trabordanti, nel lavabo, il tavolo ne era pieno, e ve n’erano molti altri impilati precariamente sulle sedie, incastrati negli spazi liberi tra i fuochi, rinchiusi nel forno. Soltanto la tostiera era ancora libera, ed erano giorni e giorni che Zoe mangiava toast, toast e ancora toast: al burro e prosciutto crudo, mozzarella e speck, col paté d’olive, col pomodoro; tutto sommato non si sporcava nulla o quasi, serviva poco spazio e dava poco fastidio ai barattoli. I barattoli.

I barattoli erano da mesi l’unica cosa di cui le importava, mesi, anni, forse solo un giorno. Sistemarli ovunque, prepararli, ognuno con il suo contenuto, ognuno con il suo tappino in sughero con i fori, ognuno con il suo nastrino colorato. A pensarci ora Zoe quasi si accorge di aver fatto fatica, mentre lascia senza fretta la cucina e approfitta per monitorare i barattoli che incontra. Barattoli. Il soggiorno sembra esserne soffocato. Qualunque superficie era stata sgomberata dagli oggetti consueti per far posto al vetro. Barattoli. Ovunque barattoli. Era riuscita appena appena a ricavare un vialetto stretto stretto tra la poltrona di taffettà e il vecchio mobile di ciliegio di nonna Irma, che conduceva serpeggiando alla porta d’uscita o al piano di sopra.

Zoe si fa condurre dal consunto corrimano fin quasi alla doccia del piccolo bagno del secondo piano. Gettati i vestiti con noncuranza, inarca la schiena come un gatto, facendo gemere le ossa una ad una, una vecchia abitudine ereditata dalla mamma. La mamma. Chissà cosa direbbe a vedere tutti quei barattoli, i barattoli nelle stanze, lungo le scale e il corridoio, -quelli del bagno, uscendo, li ho controllati?- Chissà cosa direbbero nonna Irma e papà. -Cosa direbbe papà?- La mano lenta e incontrollata si posa sul collo e cerca con le dita il segno di questa sua follia -il segno di papà- così lieve al tatto, così dolce, così bella... La pelle rivive al contatto, i bordi del suo segno, il suo segno, si alzano, in volo. Dal collo, sbucando da quella massa arruffata di capelli, una farfalla compare, luminosa nella scia frastagliata del suo movimento. Il sorriso di chi sa, il sorriso di chi si conosce da tempo, quel sorriso che non ti può ingannare, sembra tenderle la mano. Sembra non esserci più niente al mondo, solo il battere e

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levare del suo cuore, il battere e levare di quella luminosità, di quella natura così fragile e così forte nel suo sangue.

-Sei tornato… papà… sei tornato!

-Seguimi.

Mentre un bacio affonda leggero tra i capelli di una ragazzina rimasta sola troppo a lungo, gl’occhi scorrono sui barattoli. Barattoli per tutta la casa. Il cotone al loro interno tiene al caldo i preziosissimi bozzoli. Preziosissimi. Barattoli che Zoe ha curato con ogni suo respiro, ogni riserva del suo cuore, per loro, per se stessa -per papà-.

-Fermati qui, amore.

Al centro del soggiorno ogni cosa le sembra a volte più piccola a volte troppo grande. Aveva sempre pensato di avere disturbi della vista, ma nessun medico le aveva mai detto che le servivano gl’occhiali, così si era abituata a vedere le cose una volta più piccole e una più grandi, come se fosse normale.

-Aprili. Aprili tutti, bambina.

Senza che la piccola si fosse mossa anche solo di un respiro, i tappi sparirono nel suono di mille barattoli che si aprono contemporaneamente, un gigantesco stac, mentre lui già lasciava piovere i suoi granelli di magia sulle anime addormentate, le sue anime, le anime di Zoe. Un tremito percorse tutta la casa, il brivido di centinaia di barattoli di vetro e dei loro sogni. Mille vite che fioriscono, sfarfallano, di luce. Mille vite che esplodono.

-Cos’è questo silenzio, papà?

-L’inizio.

-E’ buio.

L’edera stringeva la casa nell’afa di giugno. La trovarono appena in settembre, in posizione fetale, avvolta in una crisalide al centro del soggiorno. Quel giorno, il sei settembre duemilatre, i giornali scrissero di una strana “Fanciullafarfalla” ritrovata da un barbone,

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in una casa disabitata dal millenovecentocinquantacinque, forse la spiritosa opera di un qualche artista emergente, in resina, a grandezza naturale, tanto ben fatta da sembrare vera. Il barbone intervistato giurò d’averle visto muovere le ali e di averla sentita parlare in una lingua che non conosceva, qualcosa d’antico, ipotizzò. Ovviamente era facile non credere al suo naso rosso d’alcol. Ovviamente: c’erano troppe farfalle nel cielo per poter vedere davvero qualcosa.

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Cattivi pensieri

Avevano deciso di lasciare allora i loro corpi a terra. Le teste volarono come bolle di sapone, verso l'alto, ma erano piccoli teschi bianchi e non sogni cangianti. Nei loro occhi tremolanti per il viaggio, il sollievo e le correnti d'aria, potevi ancora leggerne le tristi sorti. I fantasmi non devono esistere. Forse erano stati i loro stessi corpi a lanciarli via. I cattivi pensieri non aiutano: aria viziata.

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Corteo Funebre: La fine dell’Infanzia

Cosa le dissero allora le lucciole non ve lo saprei dire. Ballava nella stanza degli specchi, volteggiando leggera attorno alla sua piccola bara; non l’avevo mai vista così bella. Sorrideva, ma potevo sentirla piangere. Le vedevo piovere sotto i vestiti, vedevo il piccolo teatrino che si posava nel suo cuore trasparente; tutti i suoi giocattoli, pronti per l’ultima rappresentazione, contriti ma obbedienti.

La giostra continuava a farla danzare, tra tutto quel taffettà e quei bei capelli, mentre la picca argentea del cavallo saliva e scendeva con la musica; una dolce marcia, una ninna nanna: un addio.

I burattini erano raccolti in un angolo, vicino al grande xilofono d’onice. Potei vedere il primo granello di polvere posarvisi sopra, mentre lei emetteva senza accorgersene l’ultimo respiro.

La scimmietta muoveva adagio l’organetto, consapevole dell’importanza di una perfetta esecuzione. Aveva indossato per l’occasione un collare viola e si era cucita la bocca con del filo nero: qualsiasi parola sarebbe stata poco adatta.

Le ballerine dei carillon meccanici, a centinaia, in tutta la casa, fecero cessare all’unisono le loro melodie e si congelarono in un ultimo pliè; poi la polvere rivestì anche loro.

Nessuno guardò la bara, nessuno volle vedere attraverso il cristallo; nemmeno Moopee osò farlo. Se ne stava immobile, i suoi grandi occhi di bottone nero rivolti al pavimento, il cuore vuoto, o forse troppo pieno di dolore perché un peluche potesse sopportarlo. In silenzio s’addormentò, come tutti gl’altri.

La neve, al terzo ritornello, oltrepassò i vetri ed il tetto, ed inumidì la moquette come un prato. Leggera la ricoprì di bianco. Il vento era entrato, la pendola si era fermata.

Quando ogni cosa fu irretita dalla rugiada, quando anche lei aveva smesso di danzare e si era ormai assopita per sempre, abbracciata all’asta della giostra, quando tutto fu silenzio e le gazze erano già state incastonate in volo come bianche stelle, la scimmietta smise di suonare e si levò il cappello.

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Anche la giostra cessò di girare e si fece di ghiaccio. Il musicante vi salì sopra e prese in braccio l’ombra chiara della bimba, e l’accompagnò alla bara, con passi solenni; ministro ed unico spettatore del corteo funebre, la depose, con cura, nel suo corpo piccino. Lei vi scivolò dentro, come burro, senza far rumore, morbida come una bambina. Tutto era profumo di vaniglia e arancia candita, e un pò anche di zucchero filato.

Le baciò gl’occhi. Estrasse una piuma nera dal taschino del gilèt e gliela posò tra le mani. Sentì una vocina sussurrare “Grazie”, ma forse la scimmietta l’aveva soltanto immaginato. Allora anche la bimba ghiacciò all’interno del feretro, le guancette ancora rosse sfumarono in un pallido celeste, e poi in argento, e anche l’ultimo specchio si oscurò. Qualcosa si infranse, qualcosa restò per sempre.

Il ministro riprese il suo cappello e l’organetto, spense l’ultima candela in un sospiro, voltò le spalle agli astanti senza vita e se ne andò.

“Riposa, bambina, riposa.”

Si fermò ad ascoltare il caldo silenzio della vecchia soffitta. Prima di andarsene, i suoi occhi blu indugiarono con tenerezza su tutti i suoi amati giocattoli, sugli scatoloni ricolmi di bambole e vestitini, di piccoli pony di legno, collanine e carillon, sul grande baule di mogano e le sue meraviglie; una principessa che ammira la sua stanza dei tesori per l’ultima volta.

Scese la scala tremolante e richiuse il portellino dietro se. Immaginò la scimmietta, mentre lasciava il castello di cristallo, piccoli passi leggeri sulla neve ghiacciata. Moopee si lasciò abbracciare forte come un ricordo.

Qualcosa resterà. Per sempre.

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Cosmo

In quel vuoto, in quel buio che non sono tali, in quella aria in cui non esiste respiro, in quello spazio in cui tutto è infinitamente libero e claustrofobico, dove tutto è trafitto da fasci di luci irraggiungibili, dove il pulviscolo interstellare è polvere che nessuno si permetterebbe mai di levare, lì, un dubbio è una vibrazione che aleggia attorno ad un sole piccolo e lontano, un sussurro come onda che da un nucleo magmatico risale e si propaga e si sbatte sulla pacata superficie di un altro nucleo in fiamme, miliardi di volte più grande, e si scioglie, e cola, fin dentro le profondità, arriva al centro e si fa sentire.

"La smetteremo mai?" Chiese ingenuamente il più piccolo, con la sua vocina al mercurio, quasi lunare.

"Non finché non si spengono i riflettori -disse il fratello più grande, con quel suo rassicurante tono gioviale- finché c'è musica, si balla."

"E poi?"

"E poi ancora non si sa."

Buonanotte nel cosmo, buonavita.

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Curiosità ingenua a un funerale

I bambini si sporgono dal bordo, per vedere il volto del cadavere. Come tanti pipistrelli indagano l'evento con mezzi che a prima vista non sapresti dire; tanto tutto è solo un gioco. Li vedi sfilare colmi di ingenua curiosità tra i tristi genitori.

In quella scatola il nonno sembra solo, il nonno sembra solo un burattino; gli hanno messo anche il rossetto.

-Ti ricordi, Johan? Non aveva le labbra quasi bianche? E quella giacca? E l’anello?

E’ così composto, così silente, serio.

-Quanto è freddo mamma! Mamma?

E le tira un lembo della giacchetta nera e discreta, immobile e raccolta.

-Mamma! Perché piangi? Perché piangi?

-Saluto il nonno, Thomas, saluto il nonno.

Una carezza sulla testa per farlo stare buono.

-Ciao nonno.

Senza capire.

Senza piangere.

E quanto scava loro dentro non è in realtà chiaro a nessuno.

E’ solo un gioco, soltanto un gioco. E’ la vita. Non capite?

-A presto, nonno.

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Diagrammi di un sogno alla finestra

Finestra > Uomo > Mani > Schiacciate > Vetro.

Occhiali > Lente Tonda > Desolazione > Città > Canicola.

Lui > Si volta.

Specchio > Riflette > Città > Lui stesso.

[Nei suoi occhiali; echi e ancora echi, all'infinito.]

Il suo volto > Specchio.

Il suo volto > Specchio > Un poco più lontano.

Il suo volto > Specchio > Lontano tanto che ora è soltanto una figura intera, anonima. Nera.

Specchio > Vuoto. Perché qualunque cosa è ormai così lontana che flop buzz flap bzzz tic tac.

..Driiiiiin. Scosto le coperte. Mi metto a sedere sul letto e infilo le pantofole. Mi alzo e vado alla finestra. Dalla finestra oggi è una di quelle giornate afose e inutili in cui ti incontri allo specchio, ti guardi alle spalle e ti chiedi: Cosa ne è di me? Cosa ne è stato? E la risposta s'aggroviglia muta in un cigolio di occasioni sprecate, in un brusio di lancette confuse.

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Diapositive

Lunghissimo il mento s'arresta dove continuare dovrebbe col collo. Attanagliato da un pensiero che è il gelo dell'inverno, non sa se piangere o urlare; una testa così grande e senza il resto del corpo chi mai la vorrà?

E le mani? Vogliamo parlare delle mani che erano lunghe quanto l'avambraccio che le reggeva? E i piedi? I piedi di quel corpo erano grandi come radici di quercia, un'enormità per un corpo piccolo come quello umano. Deformità avrebbe sentenziato qualcuno. Ma il piccolo corpo con mani e piedi grandi non aveva la sua testa e non poteva pensare a queste cose.

Mani troppo grandi raccolgono una testa troppo piccola, che non sa pensare, non sa pensare e sempre dorme. Non è la loro testa, quella. Se ne avvedono immediatamente, anche senza gl'occhi. Si tratta semplicemente di far combaciare dei pezzi e, Dio lo sa, quando ti avanza quasi un centimetro di carne tra una parte del collo e l'altra, ti viene il dubbio che possa non essere l'abbinamento giusto quello.

Un piede dietro l'altro trascina con se l'ammasso leggero di carne che dovrebbe culminare con quella che qualcuno definisce testa. Ma c'è il vuoto al posto di quel culmine e le grandi mani rantolano sul terreno e come scope spazzano tutto ciò che sul pavimento si attarda, sempre alla ricerca di quel qualcosa che possa riempire con giustizia quella sconcertante mancanza. Il cuore all'improvviso sente una fitta, ma senza bocca non gl'è consentito urlare.

Tra la polvere due occhi giganteschi; aperti e luminosi come fari si sgranano per l'attimo di esitazione che il cervello ha trasmesso, sussultando, alle terminazioni nervose. Non c'è alcun sentimento in questa scena che si possa sentire, soltanto un orrendo e familiare ricordo. Una voce riconosce quel traballante insieme di

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organi, quel sofferente fagotto di deformità. Si riconosce. E un corpo straziato e stanco riconosce il vibrare una voce.

Tastando il terreno le grandi mani sollevano la testa sconnessa, il cuore sobbalza nel petto: è lei. Ne è sicuro. Non la vede, ma nulla potrebbe fargli dubitare di quello che sente. La mente accoccolata tra le mani attraverso pensieri e ricordi ne è certa. Senza dubbio, decreta, è lui.

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Disatteso

"Prendimi per mano." gli disse, ma lui era già troppo lontano. "Prendimi per mano.” sussurrò. Ma non rimase che polvere sul sentiero e le orme del suo bel cavallo, chiari segni ferrati, lungo la strada. "Prendimi per mano.", una foglia morta, un mormorio.

Scivolò come goccia su un prato, come un sasso sopra un lago ghiacciato. Non si ruppe nulla. "Prendimi per mano." Flebile l'eco, a mezz' aria, congelò.

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L'equilibrista

Tutto gira lento e docile;

è la giostra

e i campanelli risuonano davvero

nei vostri piccoli cervelli di folletti.

Tutto gira rallentato

da un velo sottile e dolce;

nello sguardo rapito della bimba

l'acrobata fa l'ultimo salto,

il più pericoloso.

E nei suoi occhi liquidi la sente

che trattiene il respiro

e le tiene strette le manine tese.

Cristalli di stelle filanti

e pop corn sotto il telone

il numero è cambiato;

ora la porta alle giostre

e lei gli tende la mano.

Li videro ondeggiare

tra pony e montagne di zucchero filato,

fino a tarda notte.

Un gatto li sentì sussurrarsi un bacio

e qualche parola,

segreto degli innamorati.

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Esiste solo un enorme instabile presente che divora se stesso mentre lo spazio è azzerato

Presente era così dilatato, così ovunque, che fece molta fatica a ritrovare e riconoscere il suo dito. Indugiò oscillando. Tutto era molto bianco, tutto era quasi indistinguibile, e si spaventò. Confuso e preoccupato realizzò l'impraticabilità dei suoi confini, destabilizzato si guardò attorno e si accorse di essere il solo, di non saper più quindi individuare se stesso, riconoscersi. Attonito, la soluzione gli sembrò semplice quanto tragica; immaginò con enorme [finito o indefinito?] sforzo di mordersi quel dito che aveva cercato poco prima. S'immaginò mentre se lo portava alla bocca; focalizzò con cura la scena e l'arricchì di particolari quasi filologici. Un omino Michelin dalle proporzioni eterne che sollevava il braccio e incanalava il presunto dito giù dentro la bocca.

Gnam.

Si sgranocchiò per un pò. “Un enorme instabile Presente che divorava se stesso in uno spazio, anche logico, ormai azzerato”. Riuscii ad intravedere nettamente un brandello di nebuloso buio: Futuro? Intanto, lentamente, Presente si consumava avanti...

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Fauci

Se ne andò in silenzio. Com’era arrivata. Si posò sull’erba umida, sperando che il suo bozzolo la venisse a riprendere e la ricoprisse di se stesso. Certe cose le sembrava dovessero essere morbide, arrivare lente e svanire dolcemente. Aspettò il suo bozzolo distesa sull’erba. Aspetto finché il buio non rese freddo l’umido, ma aspettò.

Gl’occhi rivolti all’indietro, uno sconquasso, la resistenza dell’aria, così pesante, il corpicino teso per non farsi afferrare, la spinta disperata delle ali, non capire..

Certe cose le sembrava dovessero essere morbide, arrivare lente e svanire dolcemente. Aspettava il suo bozzolo distesa sull’erba. Aspetto finché la solitudine non rese sordo il cuore, ma il bozzolo non arrivò.

Gl’occhi rivolti all’indietro, uno sconquasso, le lagrime, il rumore, il dolore, qualche respiro di fortuna sfuggito agl’artigli..

Il mostro aveva frantumato ogni velleità, disperso ogni inganno. Era una chiara premonizione da gatto. La teneva orgoglioso, vorace, le ali scarmigliate penzolanti dalle fauci. Ne teneva i resti orgoglioso, superiore, tronfio, soddisfatto, mentre il piccolo petto di lei si solleva isterico ancora una volta. Espirò e niente tornò più indietro.

Annoiato dalla sua ultima conquista, il gatto sbadigliò dentro tutto quel suo pelo bianco e si lasciò alle spalle il vessillo esanime. Non servono simboli per indicare il nulla. Il feticcio, alla prima pioggia, svanì.

Certe cose le sembrava dovessero essere morbide, arrivare lente e svanire dolcemente. Non era stato così. Non aveva potuto dire niente, come quando era arrivata. Ma quanto silenzio, ora.

Tra i cespugli anche il gatto tremò.

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Frangente

E sono mesi come una mattina in cui non ho la forza di alzarmi e i "cinque minuti ancora" si sono accatastati nella mia mente ovunque, in pile disordinate e soffocanti, e adesso non c'è più spazio per passare, adesso non posso più fuggire.

Ed ora non odio che me stesso e il vuoto che ho racchiuso nelle mani. Nello specchio un tratteggio scolorito di un me informe, deforme, accasciato, sterile liquame, rosso di bile inespressa, madido di solitudine e stanchezza da apatia.

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Frantumi

Mi avevano detto che non sarebbe mai arrivato. Mi avevano detto che era solamente un bel gioco, un sogno fatto apposta per bambini. Un sogno infranto. Era questo il vero regalo. Nemmeno una barba posticcia per potersi ancora mentire, per far finta di non averli riconosciuti, nessun vestito rosso. Colti sul fatto, senza nessuna possibilità di rinnegare -Tieni, questo è per te- la verità. Vi odio.

Scarto il regalo, sorrido e vado a letto. Li abbraccio. Li odio. Penso ai biscotti e al latte che ho lasciato sul tavolo della cucina. Penso al biglietto che ho preparato con tanta cura, le parole, il disegno. Per anni. Li odio.

Mi regalano l'illusione di un mondo buono almeno una volta l'anno. Ho scartato il mio pacco stanotte e vi ho trovato quella bella pallina rossa, la mia preferita, quella più grande, quella che papà mi faceva salire sulle sue spalle per appenderla all'albero, sempre dove volevo io. Stanotte ho scartato il mio pacco, tolto il fiocco, trepidante; stanotte sono gelato all'istante: frantumi. Soltanto questo a Natale.

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Fratelli

Arrivò a grandi passi decisi sulla scorta di lacrime ghiacciate. Aveva occhi vacui e grandi, congelati. La pelle bluastra era tesa, fremeva in ogni punto con crescente rigidità. Il suo respiro era freddo e prepotente, sregolato, e il suo affanno lacerava la tua pelle. Ti squadrò con perplessità e dolore. Penetrò il tuo sguardo legnoso e ti raggiunse alla fine di novembre.

Tutti pensavano che fosse un vecchio, la barba lunga, le ossa imponenti e lo sguardo di chi si prepara ad un gelido periodo di stenti, ma vecchio non lo era mai stato davvero, e mai avrebbe potuto esserlo. La sua esuberanza, la sua schiettezza, la sua bianca rabbia erano doni della fanciullezza, possedeva quel gusto tipico dei bambini per la violenza; vedendo una farfalla, la prendevano per le ali fino a strappargliele per potersi godere quel poco di polverina dei sogni, oppure schiacciavano le formichine, dopo averle attirate con delle briciole, e quando si accorgevano che non avevano più vita scoppiavano a piangere, cercando di rianimare il corpo dei poveri animaletti facendogli eseguire esattamente quello che avrebbero voluto facessero, burattini cadaveri.

Così, impettito davanti a te, teneva strette tra le dita quelle foglie rosse che avevi lasciato andare nel tuo ultimo mese. Le fissava senza capire, con gl'occhi trabordanti di disperazione.

-Come hai potuto? Brillano di vita vermiglia!

-No, fratello, rossa è la morte che si espande dalle loro vene, ed ha già invaso il cuore. Se ne sono andate, e in fretta, temevano che tu arrivassi.

Autunno, con un dispiacere quasi paterno, guardò il fratello da dietro la spalla e se ne andò.

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Giornata di vento

Espone il costato sotto il maglione. Il cappotto è spiegato come ali. L'aria lima con cura le costole. Un lavoro pulito. Sembra infierire, punire, irarsi. Sembra; e allora non hai capito niente.

Espone il costato sotto il maglione. Il cappotto è spiegato come ali. Se volesse librarsi forse lo potrebbe fare. Se volesse liberarsi non avrebbe che da violentare la serratura con la chiave, lievemente, e aprire il cuore al soffio.

Espone il costato sotto il maglione. Il cappotto è spiegato come ali. Nero. Respira la Bora che sbuffa tra le ossa prima ancora che tra i capelli. Non si è mai sentito così compreso.

E' ora. Prende l'autobus che lo porterà a casa. Anche il conducente è come il vento. Sorride, le mani rintanate nel cappotto; ora quasi sente caldo. Troppo. Oggi è impossibile non essere Bora.

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GUARITA?

-La malattia, dottore?

Macchia d'inchiostro: PENNINO CHE SI SOLLEVA > GOCCIA SUL LIMITE DELLA PUNTA > TRABORDA > NERO CHE CADE > PRECIPITA > NERO CHE HA PAURA > PICCOLA STELLA CADENTE AL SUOLO > TENSIONE > SI SPACCA > MUORE > SI ALLARGA > SI DIRAMA > FASCIO DI NERVI > SPROFONDA > INQUINA > MUORE. [E' ancora tutto bagnato. Aspettare.]

-Non si preoccupi.

Fumo dalla sigaretta morente: LA TIENE TRA LE DITA > SOTTILE > LA SOLLEVA > ALLA BOCCA > ELEGANTEMENTE [lucidità?] > INSPIRA > BRUCIA > SI CONSUMA [sento un battito di meno, cenere di più] > GRIGIA > CADE > LABBRA TREMULE > BELLISSIME > ASPETTA > LA GODE > ESPIRA > SERPENTI NELL'ARIA > LISCI > INCONSISTENTI > SENSUALI > LA SPEGNE.

-Non s'è andata.

Revenge: SORRIDE > LUCCICHIO > MALIGNO > OCCHIO LIQUIDO > MANO CHE SI SOLLEVA > CANNA NERA CHE RISPLENDE > SCENA LUCIDA > BOOM > SECCO > SORDO > NEMMENO LO STUPORE > FUMO > ANCORA > DAL CENTRO DELLA FRONTE > DALLA PULITA CALIBRO 33 > IL BURATTINO > FLOSCIO > SULLA SUA POLTRONA > ANONIMO> 135 ORE DI TERAPIA > FORSE E' UN PO' TROPPO, NON CREDI, DOTTORE? [Non è forse da stronzi avere una poltrona da 3000 dollari?] > DISAPPUNTO > L'HAI MACCHIATA TUTTA, DOTTORE. NON SI FA. > NON. SI. FA.

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Osservo la città. Lui è dietro di me, gommetta. Troppo grandi queste pareti di vetro. Troppo bisogno di volare. Troppe gabbie. MANI SUL VETRO. Cinque minuti alla fine di questa seduta. Il dottore stavolta ha fatto proprio centro. SORRISINO. Non credo mi servirà tornare. ESCO.

-Come è andata oggi, signorina Doll?

-Molto bene, grazie, Kitty. Il dottore ha detto che non devo più tornare.

-Magnifico! Complimenti!

-Mi stia bene, Kitty Kitty. [Che lurida stronza chic.]

Guarita?: I TACCHI ARRIVANO ALL'ASCENSORE > ULTIMO SORRISO > PER QUELLA STRONZA DI KITTY > PER QUELLO STRONZO DEL DOTTORE > INUTILE > LE PORTE SI RICHIUDONO > M' INABISSO AL PIANO TERRA > FUORI DA QUESTA FOTTUTA CABINA > FUORI DAL GRATTACIELO > FUORI.

-Dottore, per la.. AHHHHHHHHHHHHHHHHH!

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I medici della peste

Ci siamo vestiti di nero ed abbiamo indossato le maschere. Qui dentro è umido e caldo, a volte insopportabile; è un lavoro irrespirabile il nostro, quotidiano. Andiamo vestiti di nero, strisciamo lungo la polvere dei lucernai. Siamo ombre troppo sottili e aguzze per essere viste, troppo lunghe per non essere udite. La morte sussurra all'orecchio dei suoi figli fedeli l'ultimo ricamo della vita.

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I Narconauti di Baubau

Si lasciarono distrarre da cose troppo belle. Il modo più facile per trovare ciò che gli piaceva sarebbe stato essere circondati dalla merda, fino quasi ad affogare. Ma avevano camminato ormai così a lungo tra le mille cose del mondo.

Si lasciarono distrarre dalla marea delle cose altrui. Il modo più rapido affinché capissero ciò che erano sarebbe stato ritrovarsi il vuoto attorno e non conoscere mai ciò che era già stato rivendicato da altri. Ma nel mondo si erano affezionati, innamorati, arrabbiati, avevano pianto e riso e le catene che li legavano ai piedi erano ormai troppo solide.

Come una coperta, come un abbraccio, nudi e scarni, narcotizzati, alla fine si avvinghiarono alle loro debolezze, le coccolarono -si coccolarono- ed ora, seduti accanto all'arcolaio, filano e ricamano -filano e ricamano- per farle più forti, per farle più belle. Quanti di voi si sono punti con l'ago soltanto per avere una conferma: Dolore. Questo dolore sono io.

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Il conato delle farfalle nere

Si concentrò tutta nello sforzo. Era così piccola che richiedeva tutta la sua energia quel voler far uscire il male a tutti costi. Spinse, i lagrimoni che uscivano in silenzio. Spinse, finché divenne rossa e poi bianca e poi ancora rossa. Spinse, ma tanto, che le grattava la gola in un modo così fastidioso che le ricordava i capelli quando ti si appiccicavano addosso e non si levavano mai per quante volte cercavi di toglierteli o appiccicarli da altre parti. Spinse, ma tanto, che qualcosa alla fine uscì. Uno stormo di nere farfalle vomitò sfregolando dalla gola. Uno stormo più grande, troppo grande, perché la bambina potesse contenerlo tutto. Le avevano parlato dell’infelicità, ma lei non ci aveva mai creduto. Le avevano parlato della notte bella e di veleni dolci più del miele e

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si era chiesta se non fossero tutte bugie quelle, favole, per spaventarla. Ma ora guardava quello stormo sghignazzante, quegli spigoli rumorosi e svolazzanti, e tremava. C’era del sangue che colava da quello sciame nuvoloso, sangue che colava nelle sue pareti di bambina, liddentro. Aspettò che ne cadesse una goccia, a bocca aperta. Questa vi colò all’interno trascinandone alcune piccole altre: fragola, marmellata. Un buon sapore. Ma c’era davvero così bisogno di tutto quel dolore per assaporare qualcosa di buono nella vita?

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Il sacrificio

L'incendio venne annunciato. Le trasmissioni interrotte da una banale interferenza di pensiero: wohhh woshhh bzzzz bzzzzz; un bianco e grigio tremolante sullo schermo. La sua elettricità risaliva lungo lo stomaco contorta, s'inerpicava e scivolava per l'intestino come un peso opprimente e scomodo; un suono troppo acuto e basso. Il cervello non riusciva ad arginare l'onda del vuoto e smontava debolmente come il bianco dell'uovo a neve. S'appiattiva nella scatola cranica, molliccio, consunto. L'interferenza era entrata per le dita, passando attraverso i tasti del telecomando.

Tic. Tic. Tic. Flaaam.

Si voltarono abbagliati verso la cucina, i volti già sbiancati dalla luce. Tutti. Troppo evidente. Troppo imminente. Il gas. Il gas. Il gas e l'incendio era esploso. Non era possibile andarsene. Era già successo prima che si potesse capire.

Silenzio.

Corpi statue di cenere. In un istante. A volte restavano le ossa delle cose. Bruciacchiate. Nel silenzio. Probabilmente il midollo era comunque andato perduto in un fumo dolciastro. Lo sento ora risalirmi le narici, solleticare le mie tonsille da Dio che ha finalmente assaporato il sacrificio per cui era venuto al mondo. Corpi statue di cenere nel silenzio del dopo fine.

Fiuuuuuuu: un soffio, un gioco da bambini.

Persone che volano. Grigie. Scomposte. Miserevoli frammenti di polvere all'alba. Tanto nessuno li avrebbe seppelliti oggi. Tanto nessuno li avrebbe seppelliti mai.

Gli Dei giustificano. Vite e lacrime.

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Espira Inspira

Espira Inspira

Tre Due Uno

Immersione

C'è come ovatta dentro le orecchie. E di sicuro il livello dell'acqua si è alzato di un poco. I capelli ondeggiano. Quindici secondi. Vorrei resistere almeno fino a quaranta. Svanire, come quando ero bambina. Immergermi in un altro mondo. Sono come quando ero bambina; giochi nell'acqua. Mi sto già trasformando in un pesce, lo capisco dalla pelle delle dita. Mi accarezzo. Muovo i piedi al bordo della vasca e faccio squosh. Sorrido. Affogo nell'acqua bollente. Nel silenzio. Quanto posso resistere ancora? Il corpo freme. L'anidride carbonica si sfoga dalle narici. Bolle..

Un minuto. Quasi un minuto. Potrei essere morta, potrei aver concepito un figlio, potrei averti incontrato, amore.

Riprendo fiato.

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Incubo

Ah! Ah ! Ah! Ah! Dove pensi di andare?

Dove pensi di andare, bambina? Dove?

Bambina, dove? Ah Ah! Ah! Dove?

Ah! Ah! Ah! Ah! Bambina, dove corri?

Bambina?

Emily corre. Emily corre nel vuoto. Emily vede la bocca, la bocca del sogno. Ha un contorno rettangolare con strani finimenti agl'angoli; è una bocca nel vuoto. I denti sono lame, lame bianche che danzano al suono della loro stessa risata. Lame bianche sul vuoto. Porte di lingua rossa e ruvida e molesta che nasce e cresce nel vuoto. Emily corre. Sa che è un sogno e null'altro. Sa che si sveglierà nel letto. Lo sa. Lo spera, ma non riesce a fermarsi, e corre. Corre lontano nel vuoto, corre lontano dall'inferno, corre.

Corre e la bocca è dietro di lei, lontana.

Corre e la bocca è dietro di lei, poco lontana.

Corre e la bocca è dietro di lei, vicina.

Corre e la bocca è dietro di lei, pericolosamente vicina.

Si volta un'ultima volta. Silenzio, rotto solo dal suo ansimare. Vuoto, limitato solo dalla sua figura, dal suo petto ansante, dal sudore che le imperla la fronte. Emily non si sa spiegare e trae un sospiro di sollievo. Era un sogno dunque.

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Era un sogno dunque?

Ah! Ah! Ah! Corri! Corri! Corri?

Dove? Dove,bambina?

Non fermarti. Dove?

Dove?

Non puoi sfuggire alla bocca dei sogni, Emily.

Ovunque nel sogno ti condurrà da me.

Vieni alla bocca dei sogni, Emily.

Dove ogni anima viene triturata da bianchi denti

fino all'ultimo frammento.

Denti di cose mai dette, mai fatte, forse nemmeno mai sapute.

Hai mai voluto sapere?

Dove pensi di andare?

Emily, dove?

Emily riprende a correre. Corre. In nessuna direzione. Emily lascia la voce dietro di se. Emily non pensa più a nulla. Nulla. Entra tra le lame prima di potersene rendere effettivamente conto. Forse, sarebbe più corretto dire che le lame entrano in lei prima che possa rendersene conto. Non si può sfuggire a se stessi. Non nel sogno. Non se si è il proprio incubo. Ovviamente la bocca è scomparsa con Emily. Se stessa che divora se stessa.

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L'insostenibile Perfezione dell'Essere

Era puro silenzio all'alba. Era pura bellezza, mentre il sole saliva lento tra le cime e indorava intorno. Era pura quiete, nella mobilità estatica e senza peso delle foglie sospinte dalla brezza, come un lieve sussulto, un cuore nudo. Era la contemplazione, ed il mio sguardo divorava la sua perfezione, mentre incoccavo la freccia, tendevo l'arco e la mano, nascosta dietro l'albero, e il sole era già un poco più in alto e lui m'incantava l'anima e dondolava il cuore, come la prima volta, come ogni volta. Amato, addio.

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Ero piccolo, ma ricordo ancora la freccia scagliata nel tuo petto. Ero piccolo, ma ricordo ancora quel sorriso, beato, sul volto. Ero piccolo, ma capivo che sentivi ogni suo pensiero, che aspettavi quella freccia, da tempo. Ero piccolo, ma conservo ancora vivido il ricordo di te. Padre, perdonala.

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L'Iris

Il giudice stabilì che era ora di andare. Ci dirigemmo a Kanovian Street, vicino a Gaymond Park, sotto l’incessante pioggia notturna di Londra. Le case scorrevano rapide nel finestrino, informi, confuse in un intermittente lampo azzurro dal ruggito assillante della sirena.

La sigaretta dell'ispettore McCurt si dileguò rapida, proiettandosi in vaghi fantasmi dalle sue narici. Trovammo il corpo dove Jack Symons ci aveva detto, a quattro passi dalla statua di Lord Byron.

Penzolava dal ramo di un albero, orribilmente violentato. L'autopsia ci regalò una piccola sutura eseguita alla perfezione dentro l’orbita destra, un autentico gioiello di chirurgia, totalmente inconciliabile con le lesioni esterne. Sciolti i punti minuziosamente ricamati, un delicato iris, piccolissimo, fece capolino dalla carne. Ciascuno di noi s’indicò quel fiore cristallino, ma nessuno ebbe coraggio di parlare. Era troppo tardi, la mente troppo labile per la stanchezza, troppo agitata dall'adrenalina e quel fiore era troppo surreale.

Affidammo l'iris ad una piccola campana di vetro. Ci salutammo come se il singolare ritrovamento non si fosse mai verificato.

La mattina seguente il fiore era misteriosamente sparito.

Ovviamente.

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Kim

Ciondola, ciondola; ciondola sul filo.

Ciondola, ciondola; attento a non cadere.

Ciondola, ciondola; arriva l'uomo nero.

Ciondola, ciondola; trattieni il tuo respiro.

Ciondola, ciondola; il buio ti ha sentito.

Ciondola, ciondola; è inutile scappare.

Ciondola, ciondola; è gia sotto di te.

Ciondola, ciondola; ecco che taglia il filo.

Ciondola, ciondola; ha denti lunghi e rossi.

Ciondola, ciondola; ormai tu sei perduto.

Ciondola, ciondola; vai giù nella sua gola.

Ciondola, ciondola; di te non c'è più nulla.

Ciondola, ciondola; ti avevo avvertito.

Ciondola, ciondola; il buio è proprio nero.

Ciondola, ciondola; ciondola sul filo.

Ciondola, ciondola; c'è già un altro bambino.

Ciondola, ciondola; ciondola sul filo...

L' altalena continuava a dondolare sola nell'aria invernale.

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L’amore ha il sapore dell’assenzio

Un uccello rosso schizza e infetta globuli bianchi e piastrine: l’amore avvelena il sangue. Le interferenze ammaccano corpi che si scompongono in plastilina e si intrecciano dall’altra parte dello specchio: l’amore avvelena il corpo. Nella polvere i ragni s’aggrappano alla loro tela per non svanire: l’amore avvelena i pensieri. La lampada di lava rigonfia il petto e dentro vi oscilla l’ultima scena.

L’angelo sembra arrivato per un perfetto deus ex machina, al momento esatto, alla fine del delirio. Il giorno vuole però che non abbia preso le giuste contromisure, confidando troppo nella sua natura, e il cannibale, con la sua fame lussuriosa, avvolto in un ricamo di cadaveri, porta con se la morte e la smuove con fili rigorosamente affilati.

Il cannibale è un bravo burattinaio, è ira pura, masticata troppe volte per non essere efficiente, silenziosa, vipera, ad orologeria digitale. L'angelo è un burattino consapevole. L'esito è scontato. Il giostraio inabissa l'avversario; un orrido sacco ricolmo di intestini intrecciati s'abbatte sui riccioli perfetti, rubandogli il dolore dagl’occhi, bevendo annacquato il suo stesso dolore, mordendosi la coda, strappando piume coi denti, assassinando se stesso e il suo ricordo. Obliando ogni atrocità; ma si morde la coda o la testa?

Silenzio.

Non resta che un involucro d’ossa, a brandelli, impietrito e scomodo, ma libero, un'unica luce sul palco ormai spoglio, un burattino vecchio e senza capelli, intaccato dai vermi. Il cannibale ora ha paura. Ho paura. E’ senza peso. Ero senza peso e senza voce. Avete mai visto un angelo muto?

Piovono occhi. Piovono. Piovono facce. E l’encefalogramma fuma: l’amore ha il sapore dell’assenzio.

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Il fumo delle bestie morte

Il fumo delle bestie morte invase la stanza. L'uccello dalle grandi piume sentì dalla cucina l'odore acre di speranze infrante e seppe che era ora di andare. Il fumo gli invase il cuore. Lasciò come offerta tra la cenere un pettine di ossi di seppia, una perla di nibbio ed un arricciacapelli di balena. Spiccò il volo dalla finestra. Non rimase nient’altro.

Allora il fumo delle bestie morte avvolse la casa e si innalzò sulla città; una nuvola di sofferenza e rimasugli, un mostro di rimorsi ed urla sotto lucciole come funerei lampioni. Prende lentamente forma e si posa desolato sulla panchina di una stazione di provincia, raccolto. Era un orso di mille orsi, una formica di mille formiche, centinaia di volpi e di cervi, scoiattoli e uccelli selvatici e piccoli altri abitanti del sottosuolo: stanati, agguantati, accoppati. Ma alcuni cuori, sconvolti dal troppo dolore, non osano, non possono e non sanno vendicarsi, distruggere, uccidere, limitare, punire, ancora. Come se fosse una maledizione, o una prova, rifiutano ciò che gli è stato fatto. Così la bestia, nero fumo delle bestie morte, se ne stava cupa e muta e dolorante, cullata dalla corrente immaginaria dei treni e da evanescenti annunci ferroviari. Accasciata al binario 2 di un’abbandonata stazione di periferia ascoltava i gemiti dei suoi mille cuori inceneriti e si chiedeva: com’è potuto accadere? Nessun conforto. Nessuno scontro. Soltanto una grande nube curva su se stessa spazzata via dal vento fresco della sera.

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Il giudice delle libertà

La sentenza era concisa e a grandi lettere:

S t u p i d i t à .

La pena sta nell'espressione del giudizio da parte di una persona affettivamente importante per l'imputato. Il termine previsto dalla legge è "delusione". Il modo d'esecuzione brusco e scortese, atto a far sentire il condannato il più inetto possibile. Gli si cucirà la bocca per non permettere alcuna recriminazione. La stupidità va repressa in ogni forma ed appena riconosciuta da alcuno va obbligatoriamente interrotta all'istante, onde evitare conseguenti spiegazioni, che potrebbero illusoriamente nobilitarla di logica, e quindi irretire ed infettare il malcapitato interlocutore. Bisogna dimostrarsi implacabili e distaccati, e pretendere dallo stupido ribellione alcuna o recriminazione di risentimento anche se effettivamente convinto delle sue idee. Taccia.

Come dire "Chiavati. Noi siamo meglio. Il mondo ha diritto di essere libero dalla tua stupidità per essere migliore."

Una specie di marchio a fuoco. Vergogna. Dolore.

Decise di risolvere la faccenda molto in fretta. Prese una grande pistola, lo aspettò all’uscita del suo studio e gli sparò in bocca. Un giudice repressivo represso.

Poi decise che era l'ora di essere liberi.

Veramente.

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Il pensiero difforme

Il pensiero difforme sibilò nel letto, sciogliendo le lenzuola di raso. Se ne stava immobile davanti a me, volutamente sensuale. Gli occhi fissi negl'occhi; semi subdoli di luna contro morbide palline di natale. Serpeggiò; volutamente ruvido sulla mia pelle. Inizia la danza. Le spire negli occhi. Le spire attorno alle braccia. Le spire nel cervello, sempre più gonfie, sempre più squame, sempre più roboanti, si stringono sul cuore, tra la cassa toracica, attorno alle gambe, sul ventre, nella gola. Le mani si contorcono. Nella danza lisergica. Estatica. Scacciami pensiero. Le vene sono serpi e il veleno sono io. Martellante ferire, regolare appassire, pressante confusione, avvolgente dolcezza, feroce dubbio, dolore, ribellione, dolcezza, feroce, dolore, ribellione, confusione. La mia dolcezza. Perdo da ogni parte liquidi di bianca e collosa purezza, perline di celeste tenerezza, paiettes di cangianti buoni sentimenti, felicità e cocci rossi di plastica. Il mio cuore, il mio cuore al centro che vortica, distorto, frammentato nella sua polvere magica. Le mie palline di natale. Un momento che doveva renderci felici ci ha affogati, ancora di più. Acqua. Sangue. Acqua. Sangue. Pompa. Libera. Scivola. Purifica. Acqua. Sangue. Interiora. Acqua e sangue. Acquaesangue. Acquasangue. Purifica. Cambia. Modifica. Torna. Uccidi. Riposa. Sangueacqua. Sangueeacqua. Sangue e acqua. Un pensiero difforme sibilò nel letto, tra i pensieri caduti stanotte. Sento la mia mano urlare per un dolore che non ascolterai mai. Nella bocca il sapore delle cose consunte, sulle labbra cresce muto un fiore che mi divorerà. Scorre ancora tutto quello che non voglio capire, rimescola, scorre ancora acqua e sangue, annega, travolge, subdolo e amabile il mio pensiero difforme.

Fiù: recisa anche l'ultima candela. Sotto le coperte, che fuori non resta che buio.

E nel silenzio tutto sale ancora non troppo emozionale come un'intro prima che la traccia esploda.

E nel silenzio: e poi?

E nel silenzio: esplode.

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In condivisioni

Sento lo squarcio che si riapre, proprio lì nel mezzo. Sento le viscere muoversi, respirare, intristite; annego nel loro affanno. Sento scorrere la lama fredda delle tue parole sulla pelle, decisa, la sento insinuarsi dentro al costato e di quel che mi succede non vedo niente, perché tutto è buio; in questo giorno, in questa stanza, dentro di me, inquieto. Sento lo squosciare dei miei organi, li sento strofinarsi tra loro innaturalmente in uno spazio divenuto troppo stretto. Nella luce rossa del torace esco violenta da me stessa, un'esplosione, ma mi allontano in silenzio. Dormi amore, sei così bello, immacolato, ma la mia tristezza di oggi è una coppa che si riversa su ogni capello, ogni cellula, su ogni intento. Il vuoto ingloba lentamente le cose intorno e si allarga, una luce al contrario, rotonda, e mi chiedo: quanto si può condividere?

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Interiorae

Neil osserva il giacere indaffarato delle sue gambe e l'inerte azione delle braccia. In realtà le parole sono composte come un mazzo di fiori, per puro piacere estetico, e si scava nel cervello con un cucchiaino per visualizzarne un'immagine veritiera. E' quasi sicuro però che la parola "divano" vi centri in qualche modo.

Una donna si raschia all'interno del corpo per lavarsi via quella sensazione di stupidità, dopo aver detto qualcosa in un modo che sconvolge il significato del suo pensiero. Quando le capita sente odore di fastidio e rabbia. Si sente come un cavallo imbizzarrito.

Una ragazzina decide che i suoi capelli sono scompigliati abbastanza, e che ci sono sufficienti forcine. Il cuore le palpita a balzi. Le pupille sono dilatate, mo o ol to. Si chiede se dovessi vederle spuntare all'improvviso un paio d'ali. Quelle che ha da sempre e tiene nascoste. Gli uomini sono troppo sciocchi per apprezzare certe cose senza averne paura o senza odiarle.

Assam danza nel deserto, mentre la notte si avvicina cantando: “Un fiore nel deserto. Tu sei e l'ho trovato. Cresce al ritmo delle mie lacrime, si schiude al mio bacio”. E resta a sorvegliare il suo tesoro, la sua prigione, la sua libertà, a danzare nel deserto. Ma la notte si avvicina, lo dice il vento.

Tra enormi scatole di vetro libere di pensare, Ky seleziona viaggi post neuronali pianificati da agenzie di Kjoto. Sullo schermo appare il messaggio promozionale: una carpa cai salta nel laghetto di circuiti zen, come suggerito dalla scarica elettrica, sempre alla stessa impersonale ora.

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In un campo di fiori focomelici

Apri gl'occhi. E l'unica cosa che vorresti fare è dormire ancora, senza un altro risveglio, perché gl'incubi sembrano ormai più confortanti del mondo che ti attende fuori. Cerchi di farti riassorbire dalle tue coperte, cerchi di sparire, ma i rumori ottusi abbattono le pareti della tua stanza, ed è ormai inutile sforzarsi, anche se hai dormito poco, perché non ti riaddormenterai. Senti nella bocca l'odore di stantio della tua vita, e senti in bocca il sapore di un sogno di beltà. Una corrente di cose morte, sbiadite, l’ennesima speranza infranta; a cosa è servito vivere?

Nessun fiore in questo campo di papaveri focomelici, storpi per il dolore, per la fragilità.

Apri gl’occhi. E l’unica cosa che vorresti fare è saper descrivere, forse arrivare, così vicino al cuore, da avere l’illusione di stare condividendo davvero, qualcosa, il dolore.

Apri gl’occhi. Sarà l’ultima volta. Perché ti guardi attorno e non vedi che cose belle e promesse, ma senza senso. Non c'è posto per un fiore focomelico in un campo di illusioni belle.

Nessun dove.

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La barca e il mare

Abbracciato dal mare il vascello affondò; le alcioni lo salutarono stridendo. Più nessun amore per la Nascoth, più nessuno a solcarne l'ampio ponte, ad ammirarne la fiera polena di legno lucido. Ma se una nave affonda è perché lì sotto c'è qualcosa di meglio che solcare ancora la superficie, qualche tesoro forse, un'amabile sirena o un blu silenzio nel grande ventre dell'oceano.

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La buonanotte

Il bimbo sistemò con cura il suo coniglietto sotto la calda coperta di lana viola e lo abbracciò. "Buonanotte Muto, a domani". Raggomitolato come quando era nella pancia della mamma il bimbo si smarrì in dolci sogni colorati, seguendone l'incantevole scia fino al mattino.

Qualche casa più in là una bambina baciò il suo orsacchiotto con le ali da farfalla e lo sistemò ben bene accanto al cuscino. "Buonanotte" sussurrò avvolta nel suo bel piumone azzurro. "Buonanotte piccola Mel" rispose una voce morbida come un peluche.

Buonanotte.

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La rosa che non visse

Si teneva stretta a se, abbracciandosi le ginocchia, la testa smarrita nel mezzo, i capelli lunghi, per potersi nascondere. L'estrema protezione di una bambolina ingenua; come se, tenendo chiusi i nostri occhi, nessuno fosse più in grado di vederci. E poi, circoli di rovi e di arbusti, e circoli di ghiaccio, mura di vuoto e ancora circoli di parole affastellate; impenetrabili fortezze di fantasia. Voleva essere viva. Voleva essere bella. Non morire. Non voleva infrangersi. Più. Non soffrire. Delicata dolcezza, fragilità sospesa e sentimenti di spine, credeva di essere al sicuro nel suo cantuccio di giada. Sola. Ma nel silenzio del suo cervello la stessa goccia d'acqua scavava sottopelle, rincorrendo il desiderio irrealizzato di aprire un varco, forse di uscire. Troppa paura. La mia rosa si è spenta, consumata dal tempo e dall'acqua, dal dubbio, nella sua prigione di cristallo. Sottrarsi al dolore, è sottrarsi alla vita.

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L'ennesima operazione

-Bisturi.

Disinteressata apertura toracica;

si scende in profondità e

individuato l'organo:

-Amputato.

-Allora signorina? Le piace? Si sente più leggera?

-Non tanto dottore; fa male. Credo sia per il vuoto.

Le vene non sanno dove tornare,

le arterie da dove partire..

Si guardò all'altezza del petto

e vi infilò un dito dentro:

-Forse un giorno ricrescerà…

sussurrò in blu, con la sua vocina piccola,

per consolarsi.

Il dottore non sembrò interessarsene

e gli occhi gonfi della paziente non aggiunsero nulla.

Cercò di proteggere con le mani

quel che non rimaneva

e se ne andò.

Alla fermata dell'autobus

sentì parlare di un luogo in cui

esistevano cose buone.

Sentì "gentilezza" e "coccole"

e strinse a se quel vuoto troppo difforme

che le era venuto in petto.

Sotto la pioggia accennò un sorriso,

un pensiero.

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La fine

Passeggiavano tra i tulipani in fiore; era una bella giornata. Lei abbassò il volto per ricomporre i capelli dietro l'orecchio sinistro e si fermò a guardarlo e dargli un bacio, in punta di piedi. Ti amo. S’appoggiò alla sua spalla, cercando il battito di lui per confondere o riordinare quella felicità misterica che provava da quando era entrato nella sua vita. Un pò lei aveva paura, di quanto l'avesse lasciato entrare nella sua vita, aveva paura, perché ora tutto le sembrava certamente più fragile, visto che non contava più soltanto su se stessa, ma era anche infinitamente più bello. Era felice. Davvero.

Si appoggiò alla sua spalla e sentì che dentro se stesso s'immaginava un’esplosione nucleare mescolata ad uno dei loro baci; non se ne sarebbero nemmeno accorti. Spazzati via, molecola per molecola, incandescente, senza nemmeno il tempo di capire.

Noi che ci baciamo, donne che fanno la spesa, gente negli uffici, nelle fabbriche, bambini nei parco giochi, automobilisti, vecchi che marciscono nelle loro case, il chirurgo che sta sostituendo la valvola cardiaca, esplode.

Si staccò dolorante da lui e gli sorrise. Gli prese la mano e intrecciarono le loro dita. E sorrise, mentre l'esplosione dentro di lei mieteva le sue vittime, ancora, mentre anche lei stessa era morta, lui... come tutti gli altri, senza averne coscienza, insieme, all'improvviso.

Arrivarono a casa. Si tolsero le giacche, e lei pensò alla cena. Dopo poco la raggiunse in cucina per vedere cosa stesse preparando. Il coltello gli arrivò dritto fino al cuore che nemmeno se ne accorse. Ti amo. Lo guardò sfiorire in pochi istanti, ne passò a malapena uno. S'accasciò a terra. Lei vi si rannicchiò accanto. Il suo corpo era ormai rilassato, ma ancora un poco caldo. Ti amo. E si strinse ancora più forte a lui, come una bambina, poi scoppiò a piangere.

La luce fu fortissima, il calore insopportabile; anche se il pavimento della cucina era freddo, anche se lui era ormai freddo, gelido. Poi tutto ammutolì. Nel buio, dove non sentiva più

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nemmeno il proprio respiro, si disse che non era certamente più bella, più intelligente, più meritevole delle altre che erano state. Lo aveva ucciso per questo? Aveva avuto paura che lui se ne andasse lasciandola col cuore spezzato? O che finisse col far avverare la sua teoria di morte? Lo amava veramente? Si. La palla fu troppo luminosa, i brandelli troppo inconsistenti. Nessuna coscienza dell'accaduto.

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La Guarigione

La bambina prese delicatamente tra le sue mani la zampetta morbida e viola e, con un po' di timore, le diede un bacio.

"Ti voglio bene" pensò, senza dire nulla, arrossendo appena appena e nascondendo il visetto nei morbidi capelli castani, impacciata.

"Ti voglio bene" le sussurrò il coniglio, prendendo coraggio e guardandola negl’occhi.

"Anch'io" mormorò la bimba, abbracciando quelle parole soffici come un pon-pon, “Tanto”.

Tentò di non farlo trasparire, ma era felice quanto non sapeva dire.

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La Morte Gialla

C'erano sicuramente degl'angoli in quel cerchio. Lo vedeva bene. Era così evidente! Dunque o essi lo stavano mettendo alla prova oppure l'alterazione era un problema dei suoi esaminatori e non suo. Allora avrebbe potuto invertire il gioco delle parti, sgusciare via da quel ruolo così scomodo di esaminato e presentare rapporto ai superiori. Di certo avrebbe fatto così, perché quel cerchio aveva certamente degl'angoli ai lati. Nei suoi occhi vuoti gli scienziati non riuscirono a cogliere nessun pensiero. Il polline gl'aveva ormai saturato il cervello e l'aveva condotto in chissà quale altra realtà. Forse una realtà in cui era stata fatta giustizia e le cose erano andate nel modo migliore.

Aveva rivelato l'inganno. Gli scienziati, a furia di esaminare soggetti intossicati dalla polvere, erano stati a loro volta contaminati, ed ora non erano più in grado di vivere in coscienza, figuriamoci di esaminare e curare gl'agenti.

Strano che nessuno dei controllori distrettuali se ne sia accorto. Lo mandarono al settore di disintossicazione del reparto, non confidando troppo in una ripresa. La situazione sembrava essere andata troppo oltre perché per le cellule cerebrali potesse esserci un effettivo recupero. La chiamavano “la morte gialla”. Venne scortato per il corridoio h3 e indirizzato alla stanza 21. Era riuscito a farsi dare un indirizzo dagli scienziati. Forse avrebbe trovato lì la mela marcia che li aveva intossicati. Uno dei tanti agenti che, accortosi di essere ormai infetto, aveva negato tutto, per non perdere il lavoro. Uscì dall'edificio, e andò per raggiungere la sua auto dall'altro lato della strada. Strano. Non c'era nessuno, nessun'auto. Strano a quell'ora. Attraversò. All'ufficio di disintossicazione lo stavano ancora aspettando. Giunse comunicazione ufficiale: non si sarebbe presentato.

L'avevano preso. L'aveva preso un’auto. In pieno.

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L‘operazione

Distesa sul lettino metallico, ero del tutto impotente. La luce bianca della lampada che illuminava il tavolo operatorio mi accecava; la percepivo anche con le palpebre chiuse, per quanto mi sforzassi di non farci caso. Tutto fu presto pronto e sterile, e mi aprirono il ventre. Seguii, senza dolore, l'incisione, millimetro per millimetro; percepii il gelido contatto del divaricatore che lo teneva aperto, affinché i medici potessero meglio osservare il complesso organico custodito dalla mia cassa toracica. Proprio al di sotto del cuore, incastonata tra i polmoni, stava una pietra nera, il "corpo estraneo" rilevato dalla radiografia. Non ero più in me quando i dottori, entusiasti ed affascinati dalla singolarità del caso, la estrassero. Forse fu proprio per questo che ebbi la certezza lampante di cosa quello strano oggetto fosse. Tuttavia, questo resterà un segreto tra me e quella pietra, perché, levato il dolore nero che mi tormentava il cuore, non mi è rimasto altro.

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Lasciarsi scivolare è così facile

La scritta continua sopra il muro. Tutto intorno alla città. La protegge dalla bestemmia. Dalla peste. Dalla verità. Indica la direzione da seguire.

Lasciarsi Lasciarsi Lasciarsi

scivolare scivolare scivolare

è è è

così così così

facile facile facile

risalire risalire risalire

devi devi devi

risalire risalire risalire

Ora. Ora. Ora.

L'abbraccia tutta. Come se volesse rassicurarla. Ma la città è ancora mogia, depressa. Sussultano i suoi camini di dubbi ed incertezze, di pensieri che non sa se siano veri o meno, che si ripetono neri ed insistenti, altro fumo negl'occhi, instanato come polvere. Gl'edifici sono covi di piccole bare tra i 45 e i 130 metri quadri. Alcuni hanno anche un balcone o una terrazza, ma non ci va mai nessuno, perché i quasi morti sono morti dentro e non vogliono uscire. I supermercati sono vuoti. Gli uffici anche. I grandi magazzini trabordano di super offerte e prezzi stracciati di cui nessuno ha mai usufruito. Le radio vibrano silenziose sopra le strade, uscendo dai pochi stereo lasciati accesi. Apatiche.

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Lui non poteva vedere così la sua città. I cellulari spenti, i bar vuoti, i semafori che non lampeggiavano nemmeno più di arancione. Il vento se passava era un grande lamento. La pioggia era un lamento. Il sole era un lamento. L’ arcobaleno nessuno sarebbe riuscito a vederlo. Capì che a starle vicino così a lungo, senza essere riuscito a fare qualcosa di buono per lei, lo stava lentamente uccidendo. Le forze gli venivano a mancare istante dopo istante. Si accasciava, si liquefaceva ogni buon sentimento che serbava dentro. No, non per lei certo, non era questo il problema. Era quel terribile scoprirsi inutile che liquefaceva se stesso, da dentro. Tutto quello che di lui era stato splendente, o almeno, così aveva creduto, s'ammosciava come gomma al sole, appiccicaticcio e inutile, assottigliato e puzzolente, umido. Amava la città e una volta aveva amato anche se stesso. Ne amava le lumache negl'orti e i cani randagi di strada. I barboni puzzolenti e i pazzi alle fermate degl’autobus. Le ragazze col gelato, le grasse signore per bene, le persone semplici. Forse c'era qualcosa che amava di meno, certo, le signore grasse e per bene ad esempio, ma tutto gli pareva parte della vita e parte di se stesso, come se fosse tutto una sua creazione. Bellissima. Ma ora...

Vide la disperazione che la città provava e ne fu immerso. Completamente sommerso, per la prima volta. All'improvviso. Capì nello stesso istante in cui l'acqua salata gli entrò in bocca che c'era una sola cosa da fare.

Lasciarsi scivolare è così facile.

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Libagione: l'albero della strega

M'hai sale fatta a pezzi cotta

strappata fumo da ardere

dilaniata esala rogo legna

fatta per il macellata

a pezzi ancora carne

sto tentando solo

ancora carne

consumata sto

sto ancora tentando

ancora sto

ancora

anc

ora divorata

tentando

ten

tando

anc sto

ora tentando

sto

tentan

do di capire,

che n’è rimasto di questo vostro acero banchetto?

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Luz

Sulla scrivania il puzzle stava lentamente prendendo forma. Alcuni pezzi sembravano incastrarsi perfettamente ad altri, ma poi si dilatavano o si restringevano e scivolavano via uno dall'altro. Alcuni che prima non si erano incastrati ad un secondo esame combaciavano perfettamente. Era tutto un continuo lavorio sotto la mano paziente di Luz. Una lampada a gas illuminava fiocamente la stanza e senza alcun giudizio il pensiero "Concluderemomai?" volò silenzioso nell'aria.

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M e er e di t h

Il vento si era levato all'improvviso, furioso, portando con se pioggia e un grande freddo. Allora Meredith si fece piccola piccola, quasi una pallina, e si strinse a se stessa, al riparo di un fiore. Non c'era nessuno a cui poter chiedere niente e non c'era niente che si potesse fare se non aspettare.

Ma sotto l'ondeggiare del girasole, sotto la sua testa molla, alla mercé della tempesta, sentì di dover piangere anche lei, e di urlare. Strinse forte forte i piccoli pugni e in mezzo all'acquazzone si fece coraggio e si alzò in piedi. Fragile più d'una foglia gridò a squarciagola il suo nome, come se in una piccola parola fosse contenuto tutto, e sentì la grande marea che le sobbalzava dentro sciogliersi e dispiegarsi, smettere di farle male, e scivolare via come un torrente dal suo petto. Il vento disperse le sillabe in un soffio poderoso, poi sembrò placarsi all’improvviso, così com’era arrivato.

Non era mai stata così se stessa.

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Morte al teatrino

E all'improvviso

cade.

Come svuotata di ogni senso, ogni felicità perduta, ogni vita,

cade.

Un pupazzo abbandonato sul pavimento.

Ogni bimbo è impietrito. La morte è di scena. Ed ogni occhietto, liquido, è risucchiato da un silenzio inerte.

Qualcuno s'appronta a tappare le orecchie dei bambini, il rumore è troppo forte,

il rumore della morte.

Cade,

lei cade

piume e stelle.

I boccoli scompigliati a terra, le pupille dilatate, spente.

Le mani rigide, le dita tese,

come a stringere qualcosa, ad aggrapparsi a quella corda di seta blu, ancora, volare, leggera

ballerina

risplendere, illuminare, tenere col fiato sospeso..

bellissima,

cade.

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I volants della gonnella sparpagliati,

gl'occhi chiusi, addormentati

e quelle belle ciglia,

quei bei piedini di taffettà celeste,

celeste..

Ora che riemergo dalla visione in bianco e nero obbligatami dalla tragedia,

dal trattenuto sospiro del tempo in un fermo-immagine crudele,

mi accorgo che non c'è che luce ad uscire dal suo corpo, nessun rubino, nessun sangue..

Un burattino

oggi ho visto morire un burattino,

di luce.

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Morte delle Camelie

Estrasse dal cilindro una camelia. La guardò e gli parve una cosa assai strana. Oltre che era un fiore, non sapeva nulla di più sulle camelie e si chiedeva perciò, stupito, come facesse ad essere così maledettamente sicuro di che fiore quello fosse.

Le luci scintillavano sulla sua faccia. Fece un bel sorriso come si doveva e scese i quattro gradini che lo dividevano dal pubblico. Scelse a caso una ragazza, nella prima fila, e le infilò la camelia dietro l'orecchio; poi, altro sorriso. Senza nemmeno aver tentato di guardarla in faccia, non che fosse una cosa così facile con tutti quei riflettori negl'occhi. Fece dietro front e recuperò il palco. Era il turno del numero delle carte.

Lo spettacolo finì così com'era iniziato.

Sotto la pioggia dei consueti applausi, vedeva piovere camelie, soltanto camelie, dal soffitto, camelie in ogni angolo del teatro. Tra tutti quei fiori volanti s'inchinò più volte per ringraziare.

Ma l’arte sfuggiva spesso al controllo dell’artista e c'era stato qualcosa quella sera che gli era sfuggito, forse una sacra imperfezione nel suo trucco; c’era stato qualcosa in quel continuo vedere camelie ovunque, senza mai saperne niente, un qualcosa che assaporava ancora adesso, mentre scivolava in un vortice di fiori delicati e nuvole bianche, accoccolato sulla sedia a dondolo della veranda più di sessant'anni dopo.

"Martin, Martin!".

"Oh, Martin".

La ragazza della prima fila, sfilò la sua camelia da dietro l'orecchio e la posò tra le mani di Martin. Erano rimasti un tremolio ed un sorriso nella brezza della sera.

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Nel respiratore saliva lenta, agonizzante.

ehhhh

la sua vita scendeva rauca,

Nel respiratore la sua vita saliva ehhhh scendeva lenta, rauca, agonizzante.

Da giorni.

Da mesi.

Da anni.

SVEGLIATI. BASTA. RIPOSA. AMORE. MUORI. LIBERAMI. SVEGLIATI.

Nel respiratore la sua vita saliva ehhhh scendeva lenta, rauca, agonizzante.

Come sempre.

-Vidi innumerevoli volte il fantasma della mia mano sollevarsi e staccare la spina, mentre il mio corpo s’ancorava con ogni atomo alla sedia sterile.

Nel respiratore la sua vita saliva ehhhh scendeva lenta, rauca, agonizzante.

Ancora.

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-E’ da tempo che vivo di morte. E’ da tempo che sono malata. E’ da tempo che ho in mente di staccare la spina sbagliata.

E si alzò.

Nel respiratore la sua vita saliva ehhhh scendeva lenta, rauca, agonizzante.

Immutata.

Decise di farla finita buttandosi contro un treno in corsa. Un mercoledì. Lo seppi da un'infermiera dell’altra corsia. Il respiratore funziona ancora. Controllo il vecchio ogni giorno e lo accuso o lo assolvo, mentre la sua forza si consuma impercettibilmente. Sfioro il respiratore, appendice e cuore della sua vita, appendice e cuore della sua morte, e vedo lei, lo schianto. Lei che si frantuma con la sua speranza già disillusa, lei che muore per la terza volta; quella buona. Seguo il filo che si contorce tra i rimasugli delle sue ossa e della sua carne sui binari. Brandelli. Brandelli di anni passati distante da se stessa, brandelli di anni in cui era stata l’unica a starsi vicino.

Prossimo paziente.

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Nessun dove

Vennero a fare il sopralluogo. Trovarono: due nastrini di raso celeste sulla poltrona di taffettà del soggiorno, un paio di scarpette eleganti color smeraldo, distanti circa due metri una dall'altra, e una penna blu, all' angolo di sud-ovest, indicante il centro della stanza. Da lì, una spirale si dipartiva in una strana tonalità di giallo brillante che, arrivata al quarto cerchio su se stessa, si dirigeva rapidissima verso la porta d'uscita. Oltre la soglia della casa disfatta non c'era alcun segno. Arrivato alla veranda, il sottotenente Carl Martins canticchiò a bassa voce, senza rendersene conto...

"Somewhere over the rainbow..."

Il fumo risalì il cielo dalla sua sigaretta consumata.

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Oceania

A volte bisogna esserci solo per se stessi.

Qualcosa dentro all’improvviso fece crac, una parte del cuore si ruppe e non si riaggiustò mai più. Aveva tentato di colmare con lacrime invisibili le distanze insormontabili tra gli scogli, almeno dentro di se. Allungandosi, si ritrovò in un cratere così vasto che la pellicola superficiale era sul punto di caracollare su se stessa, la profondità era ormai soltanto una parola piatta e c’era così tanto sale, così tanto dolore.. inevitabile.

Morì in un giorno di settembre, dopo aver sopportato tanto il caldo, dopo essersi quasi del tutto prosciugata, alla fine della prima fresca giornata d’autunno. La trovarono distesa in un’unica pozza, raccolta, in mezzo al deserto. Di una trasparenza azzurra, teneva le mani congiunte come per una preghiera ed ogni sua goccia era tesa, verso il centro, e insieme rilassata, serena. Nell'iridescente rigor mortis di un mare tiratosi fino all’oceano riconobbi il mio cuore infranto dalla tensione di affetti inconciliabili.

A volte bisogna esserci per se stessi, soltanto.

Crac, fragoroso.

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Oceano di Sabbia

Monti e monti di sabbia. Infinti granelli che s'addossano uno sopra l'altro in una massa che non ricorda più nulla dei suoi atomi, in una distesa infinita e famelica, febbricitante. Affrontavo ogni vetta, la conquistavo con sudore e speranza. Centellinavo l'acqua. Due terzi di quanto avevo racimolato all'Oasi di Skanaha Math dondolavano umidi dentro la mia borraccia, cozzando spesso con la sacca della carne secca. Superai l'ennesima duna della giornata. Non avevo più la forza di proseguire, il caldo mi stava sfiancando; la notte, se non avessi provveduto, mi avrebbe abbattuto. Decisi che era ora di arrestare il passo per un po'. Avrei preparato un riparo per la notte; i bollenti spiriti che abitano la distesa del deserto congelano con il buio, imprigionando nel freddo i poveri viandanti.

Mi accoccolai comodo nel miglior sacco termico che avessi trovato, dentro la mia amatissima tenda. Sognai. Non si può non sognare nel deserto, ce n'è di tempo per sognare tra le dune e forse lì non c'è mai stato tempo per altro. Come avvinto in una grande clessidra, i granelli si spostavano uno a uno e assumevano forme secondo il loro capriccio. Le vedevo davanti a me, brillare di gioia in un comporsi e disfarsi nel vento. Come una gigantesca sfinge la sabbia mi parlava di cose ormai dimenticate, di cose ancora da compiersi, di misteri mai svelati, di vite mai nate.

Un gatto giallo mi saltò sul petto e si accomodò facendo le fusa al mio corpo con un tale calore, che sgattaiolai in fretta fuori dal sacco. Venne il gelo e una stella mi sorrise, la cima di una montagna mi scaraventò verso il basso e una nave mi accolse. Le onde mi rigettarono davanti ad un volto sfigurato dagl'anni, accompagnato da una greve voce impastata e da mani callose e ingrigite. Mi sorrise; con benevolenza, quella classica simpatia che provano i vecchi davanti alle intemperie dei giovani, le loro stesse intemperie di un tempo. Provano uno strano affetto, come una fratellanza; nella loro mente si fa chiaro il pensiero dei loro padri: "Prima o poi certe cose le passiamo tutti". Volevo dirgli che non era vero affatto. Che la fratellanza che sentiva era un'illusione. Ognuno ha il suo fardello, pensavo, ognuno è diverso. Ognuno affronta le cose in un modo del tutto suo. Siamo soli. Soli. Sono solo in questo oceano di sabbia. Un altro sorriso

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benevolo. Quel vecchio m'infastidiva sempre di più. Avrei infranto questa sua illusione, avrei calpestato questa sua assurda benevolenza. Con un gesto disperato ed arrogante spazzai via quell'enorme figura di polvere, quell'ammasso inconsistente di minuscoli pianetini dorati. Solo allora sentii quanto vuoto c'era dentro di me. Quanto fossi io l'illusione in tutto quel silenzio, in tutto quel caos di forme in movimento, un'illusione tra allucinazioni parlanti. In un attimo avevo distrutto me stesso. Avevo distrutto quello che disperazione, desiderio, delirio avevano composto per me in tutta una vita. E tra i granelli infiniti, nella muta rassegnazione di questo vuoto, aspettavo. Aspettavo soltanto.

Ho aspettato, la morte.

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Cronaca di un omicidio d'agosto

Avrebbe potuto volare. Tutto quello che le restava erano 18 milligrammi di bianca felicità in polvere, mentre le note le sconquassavano prepotenti le pareti del cervello e lo stomaco le si contorceva ad ogni vibrazione del basso; cosa del tutto passata inosservata. Un attimo ed il respiro sembrò svanire come un lecca lecca nella gola di un bambino viziato; vanificazione in avide mani strette. E tutto quel che le restava erano 18 milligrammi di bianca felicità in polvere, distribuita sulla sua superficie in modo non del tutto omogeneo ed un battito d'ali mancato. Di tutto questo a me non resta che l'opprimente ricordo di un ago piantato nel petto e l'orlo di un’anticipata fossa, il sapore di un buco nell'etere e un po' d’odio, e profondo, sconcertato, terrore. Avrebbe potuto volare.

In[sua]vece.

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Le biglie dei sogni

Non si ricordava mai i suoi sogni. Nessuno se li ricordava più uscendo dai letti, era per i materassi dicevano. Da quando le piume erano state sostituite da molli spirali metalliche, i sogni di tutti restavano apparentemente nell'oblio. Perché, era indubbio, i sogni venivano sognati, ma non riuscivano più a restare attaccati al sognatore, risucchiati dalle gelide spirali. Per molti fu una fortuna: nessun ricordo degl'incubi al mattino. Altri erano nati in questi letti e non sapevano nemmeno cosa volesse dire sognare, pur facendolo. Non si poteva evitare di farlo. Gli scienziati lo avevano constatato: dopo un tempo relativamente breve senza attività onirica i soggetti sotto osservazione impazzivano come maionese.

Maionese: stadio ultimo del mancato atto del sognare in un soggetto, umano o animale, in cui si verifica il tracollo finale della materia celebrale, precedentemente ingiallita e rattrappita. Suddetta mancanza dell'attività onirica può verificarsi solo se indotta tramite inibizione elettrica dei fasci nervosi del cervello. Tale pratica è assolutamente illegale [vedi anche Sonno, disturbi del].

Ma lui sapeva come richiamarli a se quando ne aveva bisogno, ed aveva creato un archivio di sogni ed un luogo perfetto per la consultazione. Rubarli all'oblio del materasso era abbastanza semplice, come illustrava un opuscolo, ovviamente illegale, dal titolo:

“Recuperare il sogno perduto”

I sogni sono costituiti da microcatene di molecole oniriche, e la loro dimensione è la stessa descritta dalla definizione algebrica di punto; vi servirà quindi qualcosa in cui imprigionarli. Prima di addormentarvi infilate una biglia nel cervello attraverso l'orecchio o il naso [come preferite] oppure praticatevi un piccolissimo foro nella scatola cranica [non è più così pericoloso al giorno d'oggi]. Andate a dormire. La mattina dopo i sogni rivelatori saranno stati

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assorbiti dalla biglia. Avrete spazio sufficiente per i sogni di tutta la vostra vita [è stato recentemente provato che in una qualsiasi sfera potrebbe essere contenuta l'interità del creato e del non creato]. Può capitare che la biglia durante la notte si sia spostata un po' ovunque nel corpo. Non vi preoccupate. Esistono dei bravi addestratori di biglie dei sogni, che sapranno facilmente farle uscire dal polso, dall'interno del ginocchio, dall'ombelico, da sotto i seni, senza lasciarvi cicatrici. Potreste provare anche voi. E' sufficiente incidere sottilmente la pelle e sollevarne un lembo poco poco. La pallina di vetro uscirà da se come una bolla di sapone. Bisogna essere pronti e acchiapparla subito però, con decisione, senza lasciarsi abbagliare dalla bellezza dei suoi riflessi onirici. Una volta estratta, tenetela stretta nella mano che preferite e correte a piantarla nel terreno. Immediatamente la pianta crescerà e voi potrete raccoglierne i frutti. Assaporatene uno alla volta. Ricorderete tutto.

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Blunotte

Lei era al solito posto, mi attendeva tutte le notti alla solita ora, sotto lo stesso malaugurato lampione; andavamo avanti così non ricordo più da quanto tempo. Non c’eravamo mai avvicinate più di dieci metri, ma continuavo a presentarmi all'appuntamento, notte dopo notte, senza perderne uno. Mi sedevo puntualmente sotto il quadriportico della chiesa di Sant Cuthbert, consumavo lì soltanto il tempo di una sigaretta e di una poesia di Baudelaire, ogni notte la stessa. Quando avevo finito, arricciavo una ciocca di capelli con un dito, come per avvertirla che stavo per andarmene, poi, prima di alzarmi, guardavo regolarmente al cielo, con una certa dose di ingenuità, cercando lo splendore di una stella, o quella tinta di blu che mia madre adorava tanto e che non mancava mai di usare come fondale in ogni favola che mi raccontava da bambina.

Sollevati gl'occhi, la cappa viola atomico che occultava il cielo mi costringeva a ricordare ogni notte, che non lo avevo realmente mai visto, e che, se non me ne fossi andata dalla metropoli, forse il cielo, quello vero, non lo avrei visto mai.

Forse era per quel gigantesco coperchio che opprimeva il mio respiro che mi ostinavo a leggere e rileggere, ogni maledetta sera, di quello Spleen soffocante.

Terminato il mio rituale a Sant Cuthbert, mi spostavo a Green Park. Green Park era un sogno, nel senso che il suo nome era forse dovuto ad un'aspirazione; al limite poteva derivare da una ricchezza andata perduta o sospirata, o, come sostenevano in molti, da una burla dell’amministrazione cittadina. Lì, infatti, l'unica cosa davvero verde erano i macchinari che bagnavano quell’orrore senza sosta di cemento (che taluni osavano chiamare "passeggiata") per ripararlo dall'afa dell’ estate, quando il caldo lo rendeva fumante, tanto da non poterlo attraversare senza percepire il calore implacabile, che ti risaliva fino allo stomaco attraverso le suole delle scarpe.

Ero arrivata. Scavalcavo, al solito, il cancello sul retro. Quella notte lei mi seguì fino al parco ed entrò con me. Andammo alla mia panchina preferita, quella ad ovest, verso il fiume, in realtà, un semplice canale di scolo, in tinta con il cielo atonale. Così un

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lampione opaco e un’inseguitrice felina erano tutto ciò che avevo. Sospirai, mentre guardavo l’acqua scura ristagnare. La città, la si poteva ancora chiamare così?, mi sembrava più ruvida e torbida della sera precedente. La sua bellezza era quella di una visione sfocata, le sue braccia quelle di un ragno, e ad ogni via percepivo le sue polverose tele.

Con l'andare del tempo, si era imprigionata in se stessa sempre di più. Sarebbe mai riuscita a rialzarsi? Il suo cielo, come un coperchio, non era già di per se l'ultimo silenzioso grido di avvertimento?

La gatta, con il suo pelo a chiazze ora bianche, ora nere, ora rosse, mi si strusciò tra le gambe. Sembrava così deliziosa, così gentile; un arcobaleno in un mondo ormai sbiadito. Accarezzai con lo sguardo quei suoi due minuscoli occhi. Se l'avesse vista mia madre… Se l'avesse vista... Mi si congelò il respiro.

M'accasciai ai piedi della panca. Mi ritrovò, poco dopo l’apertura del parco, un vecchio signore un po’ impacciato. Chiamati gl’addetti, l'incombenza fu presto sbrigata. Nessuna notizia sul giornale. Se avessi dovuto scrivere dell’intera faccenda, l’avrei intitolata "Blunotte", come gl'occhi che mi rapirono estatica, poco prima del mattino.

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L'osservatore di uccelli

Quattro secondi. Quattro secondi tutte le mattine. Uno. Due. Tre. Quattro. Cornacchie. Ecco, l'aveva pensato. Ogni mattina così, dal socchiudersi delle palpebre quattro secondi. Poco importava che non ci facesse caso, che tentasse di trattenersi, che le avesse sognate, che non avesse sognato nulla, che si fosse svegliato tardi o presto, alla destra o alla sinistra del letto.

Uno. Due. Tre. Quattro. Cra Cra Cra. Le cornacchie lo chiamavano attraverso i suoi pensieri. Aveva provato a rivolgersi ad un dottore, giù in città, uno di quei dottori che se la gente sapeva che ci andavi diventavi “il pazzo”. Aveva rischiato. Ma dopo troppi quattrini [santo cielo, tutti i risparmi del raccolto d'olive dell'anno scorso] e tante ciance, aveva deciso che il dottore poteva andare a farsi benedire. Quattro secondi ed è giù dal letto. Bagno e in quattro secondi è in cucina. Colazione. Uscio. Bicicletta. Quattro secondi di pedalata: dal portone a nemmeno fino alla staccionata. Quattro secondi: è il posto giusto. Guarda verso l'alto: non c'è nessuno. Arriveranno. Cra cra cra, il pensiero ne è certo: arriveranno. Intanto prepara la sedia. Uno. Due. Tre. Quattro. E ora basta aspettare: quattro secondi, il tempo di una riga.

Quattro secondi. Non serve aspettare molto. L'osservatore d'uccelli cronometra con il suo cipollone. Tic. Uno. Tac. Due. Tic. Tre. Tac. Quattro. Eccole! E mentre oggi si accorge che i numeri dispari hanno un rumore diverso da quelli pari [è un pensiero breve, circa quattro secondi], è già una cornacchia e può lasciare dietro di sé dottori, infermiere, paesani, il mattino, ogni mattino, il letto e i farmaci prescritti, quel alcolizzato di suo figlio, la bicicletta, la staccionata, l'orologio e tutto il resto. Guarda, appollaiato sulla sedia, gl’altri tre secondi che volano sopra di lui e lo attendono. Uno sguardo ancora verso il basso, prima di partire. Tanto c'è la sedia. La sedia lo aspetterà. Quattro secondi. Cra.

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Overdose

Le gambe tremolano, tremolano come candele esposte a crudeli giochi d'aria. C'è la sedia che sostiene il peso del corpo, per fortuna. La nausea, nata all'altezza dello stomaco, risale lungo il canale digestivo fin quasi alla gola, dove scompare per qualche miracoloso anfratto. Quasi immediatamente la rintraccio e la inseguo mentre passa attraverso piccoli tubicini interni, corollati da minute venuzze ed arteriette; la via è stretta e tortuosa, piena di globuli bianchi, molecoline d'ossigeno, anticorpi e sali che affollano l’ondata continua di globuli rossi. All'improvviso, la strada s'arresta e con prepotenza esplode nel cervello, sparpagliando qua e là frammenti di materia grigia in uno strano liquido biancastro e appiccicandone altri alle pareti della scatola cranica. Ma forse è il liquido che si sparpaglia tra la materia grigia, che l'assorbe, come spugna, finché tutto è umido, ma nulla è bagnato, e l'aria ha quel sapore dolciastro: dolore. Fitta lancinante nel cranio. I nervi si tendono e tirano, le terminazioni nervose urlano e scalpitano: sono il dolore che non vuole mollare la presa. Il bianco, candido e liquido, si è ritirato, come riassorbito dalla sua siringa e delle crepe si allargano ora implacabili e snelle tra le cupole gommose della materia cerebrale. Lo sento: si rompe. Non regge e si spacca. Sento la tensione. Sento il dolore. E sono tutto lì, in questa corda tirata all'impossibile, in questo filo che cederà, in questo rapido sgretolamento, in questa ultima, distrutta sensazione. Sono tutto lì e ora che la tela si è sfatta, non resta che p o l v e r e.

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Platonico ovvero Il pittore e la modella

L'alba filtrava dalla persiana. Con la mano sinistra lo cercai senza voltarmi, ma le dita trovarono solamente le lenzuola. Aprii gl'occhi. Mi alzai, sperando di sentire il suo passo, l'aroma del caffè quasi pronto o lo scrosciare dell'acqua sotto la doccia. Nulla. Avrei dovuto aspettarmelo.

Andai verso la cucina, camminando scalza e tremando sotto la vestaglia di seta azzurra che mi copriva appena. Sperai in un biglietto, un semplice numero di telefono. Il tavolo era vuoto. Preparai la colazione; la consumai con languida lentezza, la mente alla notte andata. Tornando verso la camera alla ricerca di qualcosa da mettermi notai che dal quadro alla testa del letto spuntava un foglietto.

Non ebbi bisogno di alcun numero, nessun nome. Era tornato. Era tornato ed io non l'avevo riconosciuto. Mi vergognai profondamente di me stessa. L'unico uomo che avessi veramente amato era stato nel mio letto senza che lo sapessi. L'unico che non avrebbe dovuto. Mi aveva ingannata e io non avevo saputo (o voluto?) svelarmi l'inganno. Strinsi forte il pezzo di carta fino a sgualcirlo, fino a che le unghie non entrarono nella mia stessa carne, e piansi. Piansi a lungo. Il mondo sembrava essersi incrinato con la gravità che accompagna la rottura dello specchio più prezioso. Il mio battito non era più. Non l'avrei rivisto. Non l'ho rivisto più.

Qualche giorno fa è stata ritrovata una sua tela. E' la copia quasi del tutto identica del ritratto che mi fece da ragazza e che ho tolto dalla camera quel funesto mattino. L'unica differenza sta nell'occhio sinistro, quasi impercettibile. Lì dentro, un suo macabro autoritratto: impiccato alla trave del suo studio. L'hanno trovato lì questa mattina.

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La Perfezione

In quel che il soprano raggiunse la nota chiave, il direttore d'orchestra sentì un colpo al cuore. Era arrivato sottile e dolce come la vibrazione d'una corda d'arpa e prepotente come un do di petto. Il silenzio calò più rapido del sipario. Il primo violino accorse al fianco del corpo. L'espressione di chi ha assaporato l'irraggiungibile disperse velocemente tutti i presenti e riconsegnò ognuno alla sua vita con uno strano aroma in bocca.

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Prima lezione di cucito: cucire è per sempre.

E tagliò il filo. Un gesto netto. Scelse un ago dalla cruna più stretta; un'altra testa, sottile china dentro il cerchio sottile di metallo, il collo che sfila rapido al seguito fino ad arrivare al nodo che lo ingabbia e lo duplica a metà. Come una freccia incoccata, al muoversi del dito scatta e, senza rancore, squarcia la pelle -la seta- e poi si rituffa ancora, sicura, fuori e dentro dal tessuto; sopra e sotto la superficie.

Ma sulla pelle la scia resta, un filo non si dimentica, pensò, solo se non lo si taglia.

E tagliò il filo.

Ma i buchi restano, come le asole. E anche se cambiate il bottone, coprite con una toppa, aggiungete dei lustrini o cambiate il filo, la cucitura resta, invisibile, nella testa.

83

Rovi

Rovi. Nelle vostre case, invisibili, s’insinuano, s’aggrappano. Rovi. Li ho visti pungervi silenziosi, sottili, aguzzi nella notte e svanire. Li ho annusati, come un cane, mentre vi lasciavano soli con la vostra ferita, dopo essersi insinuati al cuore della vostra vita e aver avvelenato ogni buon sentimento.

Li ho leccati, come una gatta, mentre voi leccavate la paura che vi ottenebrava la mente. Paura istillatavi nel sangue. Vi ho visti accusarvi l’uno con l’altro, accecati dalla follia, acerba soluzione di vapori che rendono felici solo per poco e troppo poco: felici? E i rovi ridevano di voi, assaporando i vostri timori, gustandovi già infiorescenze di spine. I rovi sono sempre lì, nelle vostre case, e, invisibili, s’aggrappano, più forte. Nessuna droga li allontanerà al mattino e al risveglio vi sentirò guaire. Altre spine nel fianco. Rovi, come vene. Li vedo accarezzare le vostre labbra con la loro lingua legnosa e darvi nuova sete, nuova aridità intorno, all’anima. Fino a quando...

Stamane mi sono alzata con un buco nel cervello. Una parte di me è morta per sempre. Ho tentato di avvertirlo, ma lui non mi ha dato retta. Forse i miei avvertimenti erano più sottili dei rovi, meno dolorosi. Troppo sottili, troppo poco insinuosi, sinuosi, o forse, a volte, le cose vanno semplicemente così. Alla luce dell’alba una fitta. Nel letto, accanto a me, ora sei uno di loro. Consumato e fiappo, svogliato e dolorante, ma, soprattutto, carico di spine. Avrei dovuto accorgermene prima, fermarti in qualche modo. Ora non mi resta che darti fuoco. Il cuore sanguina, mi hai punta due volte. Cenere, amore. Cenere di rovi. Cenere di te e di me.

84

Ruvido Peccato

Affonda penna inchiostro. Alza. Affonda penna inchiostro. Nervoso. Alza. Rapido gesto geometrico, pennino sul foglio. Indugia. Paura. Risentimento. Pensiero mentre pennino trattiene inchiostro un po' a stento. Pensiero: Loro sapranno. Sanno. Leggeranno. Non posso. Ondeggia busto e testa su e giù su e giù su e giù. Nervoso. Su e giù davanti al foglio. Malato. Recidivo. Su e giù. Inquieto. Pennino non resiste. Rilascia macchia nera e profonda che si allarga su carta ruvida e spessa. Intravede la cellulosa mentre s'abbassa un'ultima volta. Pensiero ancora ronza nella mente: sanno. Sanno. SANNO.

Pennino si solleva bruscamente dal foglio ferito. Segno, macchia sul foglio. Segno. Si alza, cuore impazzito, cervello impietrito. Si avvicina al lavandino e lascia scorrere l'acqua a scacciare nero fluido. Peccato. E un altro peccato. Lavato. I residui sbiaditi si convertono, rigirano e dirottano centricamente nello scarico. Il foglio inghiottito, mangiato, macerato. Pericolo scampato. Loro non sapranno. Non sanno. Ma la macchia resta. Resta. Nella testa. Ruvida. Peccato.

85

Schegge di Vetro

Le schegge volarono dappertutto. I suoi pensieri erano taglienti e disordinati, irregolari. Lisci a tratti, freddi e consolatori. A volte tremendamente aguzzi, e questo dava loro un certo fascino.

Lei li accarezzava con la lingua, giocando a rischiare di farsi male. Se avesse dovuto tagliarsi -ops- [ecco appunto] un rivolo rosso. Se lo sarebbe ripreso. In fondo era solo roba sua. Dolore suo. Liquidi suoi.

Richiamò a sé la tempesta di vetri che le aleggiava violentemente attorno, pensieri languidi, preoccupati, carezzevoli, dolci, insicuri, tristi, amorevoli, bisognosi, ipnotici al tatto, desiderabili, dall'odore fresco e dal sapore a volte impercettibile e a volte sanguigno. Tutti, quasi contemporaneamente, le si conficcarono rapidi nella testa [dolore], attraverso la pelle [dolore], le ossa [dolore], arrivando al cuore della sostanza gelatinosa che li aveva generati [dolore e senso di vuoto]. Brillarono per un po', rifondendosi tra di loro [dolore, confusione]. Poi, dopo un periodo di apparente quiete e buio [inerzia e autoabbandono], altre schegge brillarono [è un desiderio appena sussurrato, non è mai successo, ancora].

86

A tempera, schizzo

Sono quella piccola figura tonda. Nell'angolo, piccina, dietro quella cascina rossa. Mi vedi?

E' vero, un abbozzo non permette molti dettagli, io stessa non ho nemmeno tutti gl'arti e ogni cosa qui attorno sembra di fretta, di lato, come se il vento stesse strappando via il contorno dei soggetti dalla tela.

Arraffo un po' di aria, sopra la mia testa, è superficie. Spessa, corposa. Rossa. Tutto sa di tempera ed acrilico, anche le nuvole, qui la nebbia è di grafite. Ha questo odore la tua anima pittore? Dimmi, è così anche lì fuori?

87

Sirena

Gneee Gnooo Gneee Gnoooo Gneeee Gnoooo Gneeeee Gnoooooo.

Aspetto qualcosa. La sirena non suona mai per niente. Appena inizia a cantare nel silenzio della mia testa, la mano scivola automaticamente alla katana. Arriva. Lo sento. Vento nei capelli. Torna per quello che gli spetta. Torna per quello che mi spetta.

Tarataranaa Tarataananaa Nana Taratananaa Tararararararanaa.

I suoi occhi nei miei occhi. Ghiaccio contro ghiaccio. La voce narrante è quella dei pensieri dei film western. E' la calma prima della tempesta. E' l'attesa. E' il bilico infinitesimale in cui sei ancora vivo e sei già morto e contemporaneamente anche il tuo avversario è già morto e ancora vivo. Silenzio. Attesa. I miei occhi nei suoi occhi.

Tarataranaa Tarataranaa Nana Taratananaa Tararararaaaranaa.

Immobilità. Convenevoli, distanti e carezzevoli del passato. Spiegazioni. L'ultimo istante.

Slasch. Squasch. Cling. Clingh. Clan. Tin. Tin. Pausa. [Giochiamo secondo le regole. Lui ha già barato, barerà ancora.] Occhi negli occhi, riprendiamo. Clingh. Vhhhhhh. Fshhhhhhh. Cling. Clanc. Clanc. Squasch. Tin. [E’ come allora. Tutto, come allora.] Cling. Clangh. Slash. Tin. Tin. Tin. Vushhh. [Peccato, Mon Chere, Peccato].

Svuoshhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhhh.

Il taglio è netto. La precisione millimetrica. La testa scivola dal collo. Gli occhi ancora sgranano. E' finita. Il magico momento intrinseco di matematica quantistica si è consumato. Ora la geometria euclidea potrebbe misurare l'ipotenusa del triangolo i cui vertici sono A la sua testa, B il suo corpo, C i miei piedi, se li unisco, per evitare di formare con il piede D un quadrilatero irregolare. Non mi piacciono i quadrilateri. E' finito tutto troppo presto. Non sento niente. Ciao Andy. Ci si vede. O forse no. No, direi di no, amore.

Orma. Orma. Orma. Orma. Orma. Orma. Orma. Orma. Orma.

Una dietro l'altra sulla sabbia, una sigaretta si allontana. Il vento. E’ andata. Fine.

88

Sovrappopolazione

Omini si muovono in ogni direzione, bianchi, stretti, frenetici. Volti dipinti per scordare il terrore del vuoto di facce senza connotati. Niente occhi. Nessun naso. Alcuna bocca. Sopracciglio. Segno. In ogni volto. L'impiccio è chiedersi "Chi sono?" quando lo specchio non potrà mai restituire niente.

Sei nato per morire di dolore. Impazzire davanti alla visione irriflessa di te stesso. Omini accatastati sul palco della stessa insensata tragedia. Omini bianchi e stretti affogati nell'inutilità di intenti, momenti, vite, futuri. Formicai di corpi inscritti in bianco su pagine bianche. In liste, lunghe liste da soffocamento. In questa sovrappopolazione di vuoto l'impiccio è non volersi chiedere se sia meglio perdere tutto o tenersi questo squillante niente.

89

Melanie Storm

Gira gira tutto attorno / rosso gira gira gira lascia il segno grasso e grosso / il mio bel pastello rosso. Serpetina blu nel cielo / serpentine e nuvolette vola in aria su e giù / il mio bel pastello blu. Fresca e verde l'erba sale / filo a filo cresce cresce alta e luminosa e verde / se il pastello non si perde. Sembrerebbe migliorata. Sembrerebbe. Non piange. Non si dispera. Non si abbraccia più le ginocchia nascondendo la testa, rannicchiata lì nell'angolo, dondolandosi. Urlando a volte. Sembrerebbe migliorata. Niente più crisi cardiache nella notte. Niente più strepiti. Niente più tagli con qualunque oggetto. Quando è buio, quando è notte / esce il mio pastello nero. Ciò che vede sente o tocca / se lo caccia nella bocca. Gira gira tutto attorno / nero gira gira gira annega e riempi il foglio / del bene nero che ti voglio. Spirali, scarabocchi, morte, morte, morte. -Infermiera, un altro foglio per favore. Sorriso. Cattivo. Vuoto. Sorriso. Per Melanie Storm è troppo tardi. Troppi errori.

90

Super Nova

[tump tu tump tump tu tump tump tu tump tump tu tump tump]

La bambina chiuse gl'occhi. Era di certo complessata. Sentì crescere come un dolore dentro di sé, come una palla, una rabbia circolare tinta di paura. La sentì crescere, crescere e quasi esplodere, implodere, così forte, così grande, da non poter, non dover essere spiegata che dalle lacrime che aveva agl'occhi.

Si sforzò di tenere tutto dentro: la palla, la luce, la canzone che aveva nella testa, l'urlo, le foglie morte, il dolore, IL DOLORE. Esplose. Implose. Solo un impercettibile battito mancato, solo un riflesso di troppo avvinghiato all'iride e nessuna parola.

Tutto era stato devastato dentro. Era solo una bambina, soltanto una bambina. Nessuna giustificazione, nessun perché. Silenzio. Silenzio e dolore. [Nuova morte. Nova vita tra le stelle.]

[Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip.]

91

Tram

Si appoggia alla mia schiena. La trazione sembra sempre al limite. S'inarca proprio dentro le ossa, al centro della spina dorsale e sembra che da un momento all'altro mi mancherà il respiro, la solidità, la ragione, e mi ribalterò per la gravità sulla schiena, come un insetto, incapace a rialzarmi, a guardare il cielo come una condanna. Ma sono ancora diritta sulle mie rotaie, la strada si fa lieve ormai e l'erta già scivola indietro coi ricordi. Più nessuna tensione. Scivola. Anche questa volta. Scivola verso l’alto, sulle sue rotaie.

92

Tubercolosi

Non riusciva a trattenere il respiro. Si fermò dinnanzi a quel albero, quello più contorto, alla sinistra del cancello d'entrata. Nella notte il vialetto sembrava quasi un vicolo, il latrato del cane dei vicini e le sue convulsioni lo scuotevano all'unisono, un'autostrada verso lo sfacelo del suo corpo.

In quel istante pensò al burrone, quello da cui si era gettato l'ultima volta che aveva tentato. Nemmeno allora era riuscito a prendere abbastanza le distanze dal mondo, e le sciocche dimenticanze di ciascuna volta gli risalirono rabbiose nella gola, gettandosi sulla strada in un rantolo di sangue e saliva. Pensò alla bambina. Decise di telefonarle. Doveva. Voleva, mentre il mondo intorno a lui si opacizzava, sgretolandosi, mentre la sua paura si allargava furente. Se ne sarebbe andato quella sera, per sempre. Doveva sentirla, spiegarle, prima dell’inevitabile. Si trascinò con molte soste fino ad una cabina telefonica. Prese in mano il ricevitore, lasciò cadere una moneta e compose il numero. Vide la bimba precipitare nel buio. Riuscì a malapena ad ascoltare quello che lui stesso aveva da dire.

"Pronto? Pronto?” squittì una vocina dolce al telefono. "Pronto?"

93

L'Uccello del Malaugurio

Lui, in giacca elegante, la coda che gli esce dalla coda della giacca e rasenta il suolo, nera, come facendo lieve polvere, lascia una lieve traccia. Le ali gli sbucano dalle maniche, per rituffarsi nelle tasche dei pantaloni: un attimo di petroliche piume. La sua è una testa di corvo, l’aria mesta, il suo incedere lievemente curvo, magro, tristo. Gl’occhi, neri e liquidi, guardano a terra un paesaggio soffocato da luci spente. I tratti del quadro sono sottili, contorti, ma essenziali, capovolti dentro un cielo cupo.

94

Un po' dietro l’Uccello del Malaugurio, nascosta in un cespuglio di rovi, una Bambina Farfalla lo osserva. Le antennine che sbucano appena dai rami, lo vede come se fosse lontanissimo, mentre in realtà sono solo pochi passi, e insieme è triste per lui e colma di tenerezza. Ha ali composte, forse nere, cosparse di una polvere color carta da zucchero, ali che sul davanti diventano di un verde pastello quasi trasparente, una specie di sorriso gentile. I capelli, rossicci dietro, diventano davanti un poco più castani. Lei sta così, sospesa in una bellezza che sa di infanzia, bella di ingenuità, con le ballerine e un vestitino dimesso, sformato. Intorno farfalle, nastri e lacci di raso neri, bordeaux, celesti. Una spirale le esce dall’occhio sinistro, quello un po' più verde; l’altro occhio è completamente castano.

Lui fa ancora qualche passo, senza saperne nulla di lei, e una lunga penna gli sfugge dalla coda, senza apparente motivo; nera, lucente, funerea. La bimba, piccolissima, con cautela esce dai rami di spine e vola a coglierla senza fare rumore, come fosse un tesoro. La penna vola sulla testa dell’Uomouccellosventura, che forse coglie lo strano spostamento d’ aria e vorrebbe voltarsi, fermarsi. La coda dell’occhio scruta dietro se: niente. Qualcosa lo osserva nell’aria, lo sa. La bimba facilmente gli danza intorno e scansa i suoi sguardi: è luce e favole, inconsistente. E sorride, felice, del suo piccolo scherzo, ammirata della sua piccola vincita; e mentre sorride tra le capriole del cielo un laccio le cade, quello bordeaux, durante un’evoluzione, si sfila dal suo braccio e si posa davanti alle eleganti zampe impolverate di lui.

Si deve fermare. Deve capire. Deve sapere. Cos’è? Si china, anche se forse non vuole; forse non è convinto, ma si china e qualcosa si frantuma. Raccoglie lo strano laccio, piovuto dal cielo gonfio e livido. Un campanellino in aria si copre la bocca con le manine: “ops!”, per la gioia o per la paura di aver fatto un danno, forse entrambe le cose, e guarda al grande cielo sperando che qualcosa si risolva, e mormora scuse sentendosi piccolissima mentre un po' si sente anche importante. Il raso bacia le piume a cui s’avvinghia ed è la prima volta che vediamo il Malaugurio con le ali fuori dalle tasche dei pantaloni. Alza la sua testa d’ uccello, e coglie nel volo la Bimbafarfalla. Mai vista una Bambinafarfalla.

95

Lei, avvolta da pensieri come reti, avvolta da lui, viene catturata e trascinata a terra: che sofferenza! Lo guarda dal basso, smarrita, e aspetta la punizione per essere stata disobbediente, cattiva, e sfarfalla le ali, urtandole contro la rete, seminando polline e polvere di luce. Lui, dall’alto del suo tweed, la osserva dibattersi, imbronciata e preoccupata. Poi s’ avvicina incuriosito, carezza un poco il bordo dell’ala di lei, mentre accarezza con l’altra ala il raso bordeaux: dolore. Di chi? Una lacrima azzurra e una lacrima nera, una lacrima di ogni colore. Piove. Piove. Piove. E il cielo si sgonfia.

Lui le tende la mano. Lei ha paura di volare. E’ caduta. E’ stata male. Lui non è mai caduto. Non ha mai volato. Aveva paura, ma l’ha dimenticata. La rete si scioglie sotto l’acqua, mille colori in ordine sparso. Capelli e piume sono umidi, i vestiti fradici. Lei ha con se delle forbici e un ago e del filo lillà: non sa perché. Lui ha raccolto molta polvere e polline: crede camminando. L’Uomouccello sfregola su di lei satelliti microscopici di vita che nemmeno sapeva di avere. La Bambinafarfalla gli scivola alle spalle e ritaglia due buchi sulla ombrosa giacca di lui, perché le ali possano riprendere il loro uso e sutura le ferite appena aperte dal suo passato con punti lievemente irregolari di un tenue lillà. Uno scambio è avvenuto. Il resto verrà.

96

L'ultimo volo

La farfalla tra le sue evoluzioni vide la rete. Sapeva che era pericolosa. No, non lo sapeva con certezza, però lo sospettava. Brillava nel caldo sole di un mattino di maggio ed ogni goccia di rugiada che le era rimasta addosso era una perla splendente dalla freschissima apparenza. Golosa. Come baci e carezze, quei gioielli l'attraevano dolcissimamente al centro. Ne aveva sete e ad un certo punto le sembrò che volare non potesse significare altro che lasciarsi avvolgere da quel ricamo delicato.

Una piroetta e si gettò nella tela. Le perle esplosero in piccolissime lacrime. In ogni direzione. Fulmineo, il ragno affilato e nero si avventò su di lei e la morse. E la morse, ancora. La stava divorando e non c'era dolore. La stava avvolgendo e non c’era dolore. Un sorriso gentile sotto la piccola spirale della sua bocca. Qualche fremito sulla pelle del leggerissimo corpicino. Un brivido sulle ali appiccicate, in trappola, ma nessun bisogno di fuggire. Il polline colò dalla rete come sangue rappreso. Polvere delle fate.

97

Un pasto nudo

Primo

E l'inverno è avvolto da strascichi di luci accese, di festoni colorati, di bacche rosse e piene su di un mantello bianco. Ho preso la tua mano. La strada è troppo buia per potersi vedere. Nel mio stato di allucinazione capitolo nella confusione e intravedo lo schema scarno delle cose, la trama fitta, il punto delicato. Entro nel ricamo. Vedo. Accolgo la puntata dello scommettitore sorridendo. Alcuni sogni sono troppo dolci per avere un risveglio.

Secondo

Una carezza è scivolata nel mio bicchiere mescendosi con il Cognac, quasi svanendo. Rarefazione la chiamerei. Forse. Ora un sorso è come un bacio. Oh, cielo, come un bacio stasera.

Contorno

L'insetto era già dentro. Dalle finestre colava un'inferriata d'asfalto. Le parole erano neve, ghiacciavano nella aria, condensavano, implodevano, schiantandosi contro le pareti della cella. Nessuna uscita. Da nessuna parte. ["Non esiste nulla al di fuori dell'Interporto". "Non essere ridicola. E' solo un film, soltanto un dannato film nella tua testa"]. La neve aveva ormai coperto tutto.

[Niente dolce stasera, grazie. Niente] Dolce

98

Una notte

Era grande la sua bocca, gli sembrava smisurata, come se la cornice del suo sogno non riuscisse a contenere altro che quello, come se oltre a quelle due carnose labbra fosse conservato il segreto di ogni felicità: avrebbe forse potuto restarne fuori?

La prima cosa che gli si parò davanti, non appena i due portali si dischiusero, furono denti bianchissimi e ordinati, come palazzi di una città appena costruita a tavolino e non ancora abitata, circondata dal rosso e dal nero.

Non era nemmeno entrato, che con uno schiocco la lingua si mosse all'improvviso, accendendo d’un’elettrica agitazione il suo letto. Improvviso e fastidioso, il risveglio l’agguantò.

99

Under the violet effect

Lei è distesa e non c'è altro se non uno stupido insetto sulla sua bella gonna. Sale e scivola tra le pieghe della seta come una ballerina meccanica, un filo di ferro che ondeggia e sbatte su ali di farfalla e inciampa. S'abbatte forse, s'infrange.

Anche lei è meccanica e sorride, alzando un poco le gambe come per giocare, una alla volta. Sforbicia i piedini nell'aria, con il labbro un po' imbronciato che è un piacere vederla, mentre gli insetti sono due e poi quattro e poi venti e ora le camminano addosso da ogni parte.

Mentre silenziosi divorano la preda, e lei sembra non accorgersene, la ricoprono di se stessi, di pelle squamosa e verde e nera e di battiti e zampe e ruggine, di polline, ingranaggi e sterco. E la ballerina meccanica ancora sotto si muove, anche se non si vede, anche se è ormai una forma d'insetti brulicanti, solleva leggere le gambe, una ad una e le incrocia nell'aria, insetti, meccanici, zampine, capelli, ali...

Tutti insieme, volano via.

Tutti insieme.

Non è rimasto nulla sul letto.

Nemmeno la musica.

100

uMor VitReO

FormO bOlle dOve CUstOdiSCo PEnsiErI beLLi e mAi ScrITti, sPerAnze svaniTE aI pIEdi dEL letTo, e soGni AggraPpAti AI borDi dOve Si Può CadERe. E scoPPio, conSErvo il RICordo FRAmMisto a RugiaDa e cAnzonEtte ad UnA GioStRa di CAvaLLi, chE giRa

anCoRA. ScoPpio E cOnservO maTite colORate e tafFEtA' e "ComE si CHiamA quELla COsa UmiDa negl'ocCHI deLle PErsOne?"

101

L'Uomovolpe

L'Uomovolpe è un sogno. Sta acquattato come un gatto nella nebbia. La sua ombra è un uncino argentato nel bosco scuro e silenzioso, il suo profilo è anonimo e sottile e si nutre dei pensieri che fai.

S'affaccia alla finestra della tua stanza e ti osserva dormire. Ti risucchia pian piano attraverso il su e giù regolare del tuo petto, sotto le coperte. E' difficile sorprenderlo, perché è curioso sì, ma è anche incredibilmente cauto, dotato di quella rossa furbizia tipica della sua famiglia. Non l'ho mai visto in faccia, mai, ma sospetto che dietro la sua maschera nera e semplificata vi si nasconda del pelo. Ci tengo a precisare che questa è comunque solamente un'ipotesi.

Ho seguito con lo sguardo la sua mano che si posava sulle cose della tua stanza con leggerezza; le accarezzava come se fossero sue, ma dalla lentezza con cui le toccava si capiva che le stava studiando per la prima volta, amorevolmente. Credo che provi un qualche piacere a comprenderle attraverso la polvere che vi è depositata sopra. Non saprei dirne il motivo, tuttavia subisco il fascino di questa sua prerogativa.

Indossa una calzamaglia nera a righe grigie, orizzontali. O sono collant? Pantaloncini sopra al ginocchio e maglietta, neri. Vorrei dire che porta gl'anfibi, ma è scalzo. Ha braccia lunghissime e bianche, le dita sono la perfetta conclusione di un ramo secco e storpio. Ciottoli sotto le piante dei piedi, lui non sente niente, non prova dolore. Solo ride sotto la maschera, quasi non si sente.

Ma non ti preoccupare, l'Uomovolpe è un sogno. Verrà scrollato via col lenzuolo non appena avrai dato retta alla sveglia. Non ti preoccupare. Davvero. L'Uomovolpe è solo un sogno. Il mio personale Babau.

102

Uova

Tutti sano come nascono le farfalle: ci sono bruchi che coltivano secoli di nascosta bellezza, per lasciarla esplodere in una brevissima e splendida fioritura danzante.

Tutti sanno come nascono le falene: bruchi, che alimentano una delicata tristezza per millenni, per consegnarla ad una notte o a qualche luna di composta e pacata eleganza.

Ma i bruchi? I bruchi, da dove nascono?

103

VeNitE BambiiNii, VeEeniTe, VeNitE dalla maMmaA..

Morbidi corpicini, morbidi. Dove siete finiti? Dove vi siete nascosti? Suvvia, ometti, non vorrete mica passare per mocciosette codarde e piagnuccolose, vero? Venite fuori.. Venite.. Su, venite dalla mamma.. Vi attendono molte sorprese; giocattoli e balocchi, dove tutto splende. Caramelle e confetture, bibite gassate e rondò, dove tutto splende. Come orbite vuote, come la lama della mia mannaia.. Splende.

Su di voi.

La mattina dopo, al Collegio della Santa Mano di Nostro Signor Gesù, la Madre Superiora attendeva tutti nella mensa per il rosario del mattino. Erano già le sei e trenta, e cinque delle sue pecorelle non si erano ancora presentate nel refettorio.

104

Inchiostro su carta ruvida 200 grammi

L'inchiostro scivola come china soffiata, spinta pericolosamente verso il basso. L'anelito sospinge i pensieri fino al bordo del foglio e li seduce, li allunga, fino a stenderli in una lingua di colore che annega le lettere e le affonda, distorcendo le sillabe, infrangendo i stanti, sciogliendo, squagliando, slavando. Ebbro il pennello scompone, riforma, difforma, riannega le trame e le porta al loro compimento espressivo. Si ricompone. E' l'inchiostro. Molte cose sono cambiate, molte sono da buttare. Altre rimangono, altre trasformate. Inchiostro.

105

Il sognatore

Gli spararono al cuore. Il colpo fu preciso e freddo come in un film di John Wayne. Arrivò lento, deciso e distaccato. L'aveva visto benissimo, anche se era lontano, e avrebbe potuto spostarsi, schivarlo facilmente, se solo non vi avesse veduto una scena perfetta, una fine con la effe maiuscoscola, degna dei racconti che aveva scritto. Come avrebbero intitolato la cosa l'indomani sui giornali? Le sue opere avrebbero preso a circolare finalmente, impazzite per la prematura scomparsa del loro autore?

Silenzio.

La morte non gli avrebbe dato altro che un poetico silenzio piantato come un proiettile nel cuore. Non aveva scritto niente in verità, nemmeno un testamento o un bigliettino d'amore. Se n'era accorto ancora una volta troppo tardi; l'ultima.

Ruzzolò, la pallottola fumante nel petto, il sognatore.

E' una pozza di sangue scontrarsi con la vita.

106

Il marciapiede

Le cose continuano a vorticare e non si arriva mai. In fondo si sta bene anche seduti qui sul marciapiede. Basterebbe non soffocare, avvolti da tutto questo caldo che risale dal cemento, che risale nelle ossa, fino al cervello. Non si sta mica troppo male qui sul marciapiede. Leann mi ha portato una birra ghiacciata ed ho anche tirato su qualche penny. Leann è molto bella. Leann sarebbe bella davvero se non si vergognasse così tanto di se stessa. Si sbronza fino a divenire insopportabile, si ammazza ogni notte di chiacchiere e si scopa sempre chi capita a tiro. Leann è davvero bella con quei suoi grandi occhi castani che sembrano non dire più niente da un bel po’. Leann è così bella, ma vomiterei tutte le birre che ho bevuto piuttosto che dirglielo. Così goffa e delicata quasi, ingenua nonostante l’abbigliamento troppo succinto per poterlo essere davvero.

-Anche oggi ho comprato un pezzo della mia anima, Teddy. Vedi?

E lei che teneva tra le mani un' ala di ceramica spezzata e sorrideva impacciata, e continuava a credere di non essere bellissima. O forse faceva finta, e tra i capelli, che le scendevano disordinati quasi a coprire il volto, se la rideva di me.

-E’ solo un’ala di ceramica a pezzi.

-L’ho presa all’antiquario sulla Quarta in cambio di un favore. Mi ha offerto anche un paio di birre.

-Vieni qui, stupida.

Arruffarle i capelli, stringerla un po’ troppo forte per farle anche un po’ di male, come punizione, morderla un pochino, sulle nocche, sulle braccia. E poi spingerla indietro.

-Leann sei una puttana.

-E tu uno stronzo Ted.

Leann si alza e se ne va. E’ vero, sono uno stronzo. Fanculo. Penso ancora a Leann. Alle calze smagliate e rotte, alle sue gambe secche e golose. Ai morsi. Sono uno stronzo. Finisco la mia birra e mi addormento. In fondo si dorme bene qui, sul marciapiede.

107

L'ultima recita del primo attore

Si spengono le luci. Forse è così, la morte. Un palco vuoto di teatro. Senza spettatori, senza posti di prima platea, senza gallerie e palchetti; senza le maschere. Senza più gl'attori. Silenzio, insomma. Vuoto eco di una vibrazione già svanita. Effimera, la vita ci consegna all'eternità. Svanire. Così è la morte. Svanire. Un palco e dei riflettori spenti. Guardandolo svanire, la piccola comparsa cercò gl'occhi lanugginosi e spenti del primo attore, forse per ancorarsi a quelle ultime parole. Le rughe intorno come tende di un sipario, le palpebre rilassate. Portarono via il corpo. Gli infarti se ne vanno prima dell'arrivo delle ambulanze. Con noncuranza il tecnico spense meccanico le luci. Se n'erano andati via tutti. Una piccola comparsa sorrise nel buio. Anche l'ultima recita si era conclusa alla perfezione.

108

Greta

Ormai le sue ossa scricchiolano da sole, fratture a comando esterno. Stamane è uscita senza braccialetti, elastici, senza catene, collane. L'aria esplorava finalmente quei piccoli fili di pelle quasi mai esposti, e mai così, tutti assieme. Le mani, lunghe e delicate, continuavano ad ondeggiare tranquillamente lungo la strada, ma i piedi -i piedi, i polsi, una parte della sua bocca ed il cervello- sapevano che inesorabilmente c'era il vuoto ad un passo, che si stava in bilico.

Le catene che avevano così a lungo regolato il sentiero, che avevano garantito i confini del mondo -un mondo stabile, immutabile quasi, almeno nella presenza delle catene- si erano misteriosamente slacciate da sè, stanche come Lucifero di un posto dirigenziale non richiesto.

Annoiate, esanimi, si erano avvolte su se stesse, avevano sciolto i loro stessi nodi o si erano sciolte, e adesso fuggivano come serpi sul marciapiede, per scomparire squosciando in un tombino.

I polsi stavano immobili, attoniti, costretti per la prima volta a pensare, a sentire, respirare una vita senza freni e pastoie. La libertà da le vertigini. Il senso di vuoto sotto i piedi è inebriante. Come se Amore l’avesse baciata di nuovo per la prima volta.

Altre fratture interne; le cose impreviste si insediano nel disegno che Greta traccia ogni giorno fino a divenire usuali. Non la sorprende più questo rumore di frattura. In un certo modo è lei stessa a provocarlo, è il leit-motiv su cui la sua voce s'installa. La sua voce. Non era mai stata così forte e limpida prima.

Più nessun rumore di catene; nessun fruscio.

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Insapidità

Lei era piccola, e forse non era niente. Una rara malattia l'aveva privata del piacere di poter assaporare le cose -il resto funzionava benissimo- ed ora non mangiava praticamente piu' nulla; era scheletrica. Trascinava le sue giornate in un monolocale quadrato, privandosi giorno dopo giorno di se stessa, di ogni cosa, ed erano settimane che la porta d'entrata non s'apriva. Non cercava la morte. Quella sarebbe toccati a tutti una volta o l'altra. Si guardò allo specchio. Emaciata, smunta, fragile. Era piccola e forse non era nulla. Conduceva la sua vita in assenza di significato; occupava un appartamento che avrebbe potuto ospitare un paio di hippies universitari pieni di sogni e speranze; sorriso. Si sforzo' di sorridere allo specchio e vide la sua faccia contrarsi in un ghigno. Era divenuta un mostro. Ma non c'era sapore nemmeno in questo, non c'era sale, emozione alcuna, nessun senso, e allora a cosa sarebbe valso fare una qualunque cosa?

Aspettò immobile l’arrivo di un grano di sale. Insapidamente. Ne trovò uno poco dopo la sua morte. Dalla tomba vicina il vento rubò qualche lacrima su di una guancia. Dolore. Non si era mai sentita così viva.

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La torre dei sogni e il piccolo cuore

Salì in cima la torre. Fu difficile e lungo, perché le scale erano tante e alte, mentre lei era sola e piccina. Però ci teneva tanto ad arrivare in cima che i suoi capelli, molto più lunghi di quando era partita, alla fine incontrarono il vento e gl'uccelli.

Sembrava quasi una pallina rossa guardandola dal basso. Non si vedeva che la chioma ondeggiante su in alto la torre, un mare aranciato da cui emergevano neri uccelli dal petto candido. Non conosceva niente di più vicino al cielo della torre, di più vicino al mare. La spuma bianca sbatteva contro il torrione quasi a misurarne la forza, per gioco, mentre la costruzione rimaneva immobile, impenetrabile, fiera.

La piccola Mel posò lo sguardo su tutto con tale meraviglia che le mancò il fiato, anche se, dopo tutto quel salire, non doveva essergliene rimasto molto. Il cuore le scoppiava in petto, urlava silenzioso contro tutta quella pace altera. Sentiva l'urgenza sottopelle, dentro al petto di ritrovare il padrone di un piccolo cuore perduto.

Spinse le dita piccine nella tasca del cappotto e ne estrasse un minuto fagotto sporco di rosso. Slacciò il sottile nastro di raso nero che lo chiudeva e ripiegò la stoffa, scoprendo quel tesoro di carne non sua. Lo prese ben bene con le manine e, pregando, lo tese al cielo; le cuciture, storte e colorate, brillarono nel sale delle gocce che risalivano l'aria dal mare, mentre qualche bottone ammiccò alle gazze ancora in volo.

Il vento prese allora l'amore che vi era rimasto dentro e lo fece parlare. Si fece dire dove doveva andare, poi ripose quel amore al suo posto e volò giù dalla torre, giù da una rupe, per mille città, finché non trovò un petto vuoto ed un bambino gramo seduto su delle scale scure e abbandonate. Si lasciò sfuggire alcune parole non sue, che il bimbo riconobbe come proprie, e se ne andò.

A piedi scalzi, senza un solo dubbio, il piccolo si fece forza, si alzò e non esitò di un passo sul sentiero che portava alla torre dei sogni, una torre tra cielo e mare, posta su di una rupe, più alta di qualsiasi montagna. Vi arrivò col freddo, verso i primi giorni di marzo, e vide, sul torrione, una chioma di fuoco sorreggere il suo

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piccolo cuore, che poi tanto piccolo non era, e si chiese quali prove avrebbe dovuto superare per riavere quel suo cavernoso pezzo che tanto lo aveva lasciato vuoto andandosene.

Nell'alto delle correnti del vento, la piccola Mel sentì dei pensieri vibrare, di basso, più in giù, accanto alle fondamenta della torre. Si sporse e il cuore cha ancora teneva stretto tra le mani le disse cosa fare. Lo abbracciò forte forte, con cura, lo coprì, e gli rimise il bel nastro col fiocco. Poi, salì sul bordo e si gettò.

Mentre le gazze le cantavano intorno, mentre la spuma del mare l'accarezzava, un paio di piccole ali la tennero leggera in volo e la posarono al suolo, delicatamente, lei ed il piccolo tesoro. Erano passati alcuni giorni da quando i suoi piedini avevano lasciato la superficie perlacea del torrione, tanto era alto, e all'atterraggio era già il 15 del mese.

I due bambini si guardarono negl'occhi. Lei gli diede il prezioso pacchetto. Lui ritrovò il suo cuore. Anche lei ritrovò il suo cuore. Quello di lui.