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C u LT u R a 11 LA VITA CATTOLICA SABATO 2 MAGGIO 2009 l’intervista 30 anni di lotta awa, l’Associazione ri- voluzionaria delle don- ne d’Afghanistan, è na- ta nel 1977 a Kabul come or- ganizzazione socio-politica in- dipendente in lotta per i diritti umani e la giustizia so- ciale. Dopo l’occupazione so- vietica fu coinvolta nella resi- stenza e, in seguito, nella lot- ta contro i fondamentalisti e i talebani. Le attiviste hanno la- vorato tra le donne rifugiate in Pakistan con attività di assi- stenza sanitaria, di alfabetiz- zazione, di avviamento pro- fessionale. Dopo 30 anni, Rawa continua propria batta- glia in clandestinità in un pae- se ancora non pacificato. In- segna, soprattutto ai giovani, il rispetto di ogni persona, in- dipendentemente da lingua, religione, razza; il rispetto della donna, dell’ambiente, della vita; il diritto alla pace. Sabato 25 aprile al centro Bal- ducci di Zugliano sono stati ricordati proprio questi valori e alle donne di Rawa è stato conferito il riconoscimento «Honor et dignitas Ernesto Balducci»: una semplice targa e un bonifico di 5 mila euro a sostegno delle attività dell’as- sociazione. Nel ritirare il pre- mio, Maryam Rawì, commos- sa, ha ringraziato «i migliori amici del popolo afghano che sono anche i miei». E in rap- presentanza di tutti quegli a- mici, alla donna si sono stretti in un abbraccio i portavoce di associazioni provenienti da tutto il mondo che nei loro paesi si battono per i medesi- mi valori: Mary Bricker Jenkins (The poor people’s e- conomic human rights cam- paign, Usa), Guadalupe Rodri- guez (Salva la Selva, Germa- nia) Stanley Mwaura Nderitu (Necofa, Kenya) e Carlos Al- berto Tuiz (Comision intere- clesial de justicia y paz de Bo- gotà, Colombia). Non a caso per l’appunta- mento è stata scelta la data della festa della Liberazione, ha ricordato il responsabile del centro Balducci, don Pier- luigi Di Piazza, «a significare l’intento di proseguire quel cammino di necessarie, conti- nue liberazioni da ingiustizie, oppressioni, guerre, discrimi- nazioni, razzismi». Il 25 aprile è anche l’anniversario della morte di padre Balducci: «Quale occasione migliore per ricordare un uomo di pace?» R LA DRAMMATICA TESTIMONIANZA DELLE DONNE DI RAWA PREMIATE AL «BALDUCCI» PER LA LOTTA AI SOPRUSI DI UNA GUERRA SENZA FINE Donne afghane senza pace Maryam non può essere fotografata, né può usare il suo vero nome. Mette a rischio la vita in una battaglia che si consuma nell’indifferenza del mondo ARYAM RAWÌ (nella foto sotto) ha 35 anni. Due figli, di cui u- na bimba di sei mesi vivacis- sima e dai grandi occhi azzur- ri. Si chiama Aiman, che in persiano significa: portatrice di spe- ranza. Nel suo paese Maryam non può camminare per strada a volto scoperto né può dire il suo vero nome. Con la sua piccola in grembo, è arri- vata in Italia per ritirare il riconosci- mento conferito dal Centro Balducci di Zu- gliano a Rawa, l’associa- zione delle donne ri- voluzionarie afghane che lottano per i loro diritti e per un governo democra- tico. Durissi- ma e dram- matica la sua denun- cia: «Vio- lenze, stu- pri, aggres- sioni sono la quotidia- nità in Af- ghanistan – racconta –. Il mio pae- se non è af- fatto pacifi- cato e la si- tuazione è molto più grave di quella che viene descritta sulla stampa inter- nazionale. In trent’anni di occupazio- ne tutto è cambiato, ma niente è vera- mente cambiato. Nel 1979 sono arriva- ti i sovietici, poi i talebani, oggi gli oc- cidentali. In ciascuna di queste fasi le donne sono state le vittime principali. Durante il regime talebano non era lo- ro permesso lavorare né andare a scuola, non potevano lasciare le loro case se non accompagnate da un pa- rente e non potevano farsi vedere sen- za il burqa. Oggi stiamo tornando a questo». L’Afghanistan fa passi indietro? «È proprio così. Le donne vengono sfregiate, sfigurate con l’acido; i matri- moni forzati in età giovanissima stan- no ritornando prassi comune; la per- centuale di suicidi tra le donne è altis- sima, moltissime si danno fuoco. La situazione è decisamente peggiorata negli ultimi anni, basti pensare alla re- cente legge che proibisce alle donne qualsiasi possibilità di autodetermina- zione e di movimento senza il consen- so del coniuge. Viene loro impedito, di fatto, di uscire di casa, di studiare, di fare qualsiasi cosa. La presenza degli americani non è servita ad indebolire i talebani? «Gli americani hanno giustificato il loro intervento militare dicendo che a- vrebbero portato la democrazia, mi- gliorato la condizione delle donne e combattuto il terrorismo. Oggi sappia- mo che erano solo slogan. Una presa in giro. Ma una presa in giro che si è trasformata in bombardamenti e che ha provocato la morte di moltissimi uomini, donne, bambini innocenti. Con delle scuse gli americani non hanno fatto altro che sostituire al regi- me talebano un altro regime. Soste- nendo i criminali dell’Alleanza del nord hanno rifornito di armi assassini di guerra non migliori dei talebani. E oggi quegli assassini siedono al gover- no». Sono ancora così potenti i signori della guerra? «Molto più di quanto si immagini. Secondo l’organizzazione indipen- dente Human rights watch, l’85% dei membri del parlamento afghano ap- partiene a gruppi di signori della guer- ra. Il loro potere è talmente forte che per far passare la legge sulla rico- struzione sono riusciti ad imporre al governo che nessuno di loro fos- se processato o punito per i crimi- ni commessi in passato». Rawa si batte anche sul fronte politico? «Sia a livello politico che sociale. Da un lato combattiamo il fondamentali- smo per ottenere democrazia e il ri- spetto dei diritti umani per le donne; dall’altro lato ci occupiamo anche di progetti per rafforzare il tessuto socia- le: case di accoglienza per donne vitti- me di violenza, centri di alfabetizza- zione, scuole, biblioteche...». Una battaglia che costringe inevita- bilmente alla clandestinità. «Purtroppo è così per tutte le nostre attività. La fondatrice dell’associazio- ne, Meena, è stata assassinata nel 1987 dai fondamentalisti e tutte noi subia- mo continuamente minacce. Per que- sto non usiamo i nostri nomi reali e siamo spesso costrette a cambiare ca- sa, a nasconderci». Nascoste nella vostra battaglia, na- scoste sotto un velo... Un destino ine- già scritto quello delle donne afgha- ne? Il burqua è solo strumento di re- pressione o anche simbolo culturale? «Per le donne che hanno un’istru- zione ha indubbiamente una conno- tazione negativa. Significa avere mani e piedi legati. È vero che si tratta di un simbolo culturale, ma non ci si può nascondere dietro questa giustifica- zione. La cultura deve evolvere e non può essere imposta. In Afghanistan, invece, la maggior parte delle donne oggi è costretta a vestire il burqa. Se non lo indossa rischia di essere aggre- dita. Questa non è cultura». Una tradizione viene strumentaliz- zata per imporre sottomissione. È ciò che accade anche con l’Islam? «In Afghanistan molte famiglie sono credenti e la religiosità non è qualcosa di negativo. L’Islam dei fondamentali- sti, però, è un Islam politico. Ogni gruppo dei signori della guerra ha il suo, che contraddice quello degli altri. E questo diventa uno strumento di pressione e repressione». Secondo l’Onu, l’Afghanistan è il principale produttore di oppio. Per la popolazione si tratta solo di una pia- ga o anche di una risorsa? «I soldi della vendita dell’oppio non vanno certo alla popolazione. Finisco- no nelle tasche dei signori della guerra e dei criminali. Che grazie a questo traffico finanziano gli attacchi militari e comprano i contadini senza terra per trasformarli in soldati. E, cosa più drammatica, questo avviene nell’in- differenza dei Paesi occidentali che non si sono impegnati in nessuna po- litica di contrasto. Viene da pensare che si preferisca considerare l’Afgha- nistan come un deposito...» E gli aiuti economici destinati alla ricostruzione? A chi vanno? «Anche in questo caso la maggior parte finisce nelle tasche dei signori della guerra o di membri del parla- mento a loro legati. Ma anche i soldi destinati alle ong finiscono in gran parte in grandi palazzi e non arrivano a realizzare progetti realmente utili». A breve si terranno nuove elezioni Cambierà qualcosa? «Purtroppo no. Finché il potere re- sterà nelle mani di una classe politica corrotta non cambierà nulla. L’aver rafforzato la presenza militare stranie- ra in Afghanistan non ha contribuito alla democratizzazione del Paese. Non ha portato altra conseguenza che la costruzione di nuove basi americane. E, purtroppo, anche da parte degli altri Paesi europei, compresa l’Italia, non vediamo un discostamento dalla stra- tegia statunitense». Quale aiuto concreto potrebbe arri- vare dall’Occidente? «Dovrebbero essere ascoltate le i- stanze del popolo afghano, che fino ad ora è stato sempre solo vittima». L’Afghanistan troverà mai pace? «La storia ci insegna che si esce an- che dai periodi più oscuri, se c’è la de- terminazione per farlo. Sappiamo che la nostra continuerà ad essere una lot- ta dura, ma sappiamo anche che, co- me donne e come madri, abbiamo la responsabilità di cercare di dare un fu- turo ai nostri figli, anche a rischio del- la nostra stessa vita e della nostra li- bertà. Le donne di Rawa non si ferme- ranno finché non riusciranno a porta- re i signori della guerra davanti a una corte di giustizia internazionale e a ga- rantire ai loro figli un paese democra- tico. In persiano c’è un detto: la notte non resta notte per sempre». (TRADUZIONE DI PATRIZIA FIOCCHETTI) M Secondo «Human rights watch» l’85% dei membri del parlamento afghano appartiene a gruppi di signori della guerra In Afghanistan violenze e stupri sono la quotidianità. Le donne non hanno diritti. Moltissime si suicidano Fotoreporter in Afghanistan, 11 anni «Un paese cui è negata la speranza» qualificati reporter di guerra – per l’i- naugurazione (alle 18.30) della mostra fotografica «In Afghanistan: 11 anni», curata da Contrasto e allestita in due container in piazza Venerio. L’esposizione (orari: 9-22 dal 7 al 10 maggio; dall’11 maggio al 7 giugno: dal lunedì al sabato 16-20; giovedì, sabato e domenica 10-13) ospita scatti in bianco e nero e ritratti a colori che cat- turano una quotidianità drammatica: «l’occupazione dei talebani, il dram- ma della guerra, i bombardamenti, la popolazione colpita dalla tubercolosi. Ma anche splendidi luoghi di cultura e paesaggi di una bellezza unica, dei quali molti non immaginano l’esisten- za», sottolinea Venturi. Luoghi che per molti anni è stato difficilissimo ritrarre e che oggi sono tornati ad essere campi minati per gli occidentali. «L’Afghanistan ha fatto un tuffo indietro – conferma il fotorepor- ter –. Nel 99-2000, all’epoca dell’occu- pazione talebana, era proibito scattare fotografie, si rischiava l’arresto e le pellicole venivano bruciate in piazza. Poi, con l’arrivo degli americani ci so- no stati alcuni anni di tregua, ma oggi è tornato rischioso perfino muoversi. A Kabul ogni occidentale è diventato un obiettivo, il nemico. Il sentimento anti-americano è fortissimo». I PUÒ PARLARE DI PACE in un paese nel quale «ogni giorno i kamika- ze si fanno esplodere tra la gen- te? Un paese di edifici sventrati, di in- teri quartieri rasi al suolo e poi rico- struiti senza servizi, dove le donne non sono libere di mostrare il volto, né di camminare per strada senza paura? Si può immaginare un futuro di riscat- to per una terra nelle cui carceri i pri- gionieri vengono gettati seminudi nel- le fosse? Dove non ci sono ospedali né lavoro»? Se accadrà, «non sarà certo grazie all’azione militare. L’Afghani- stan ha bisogno di ospedali, sanità, la- voro, sicurezza, economia». A parlare è Riccardo Venturi. Lui lo conosce bene quel paese senza strade, fatto di montagne altissime e di luoghi impervi e, allo stesso tempo, affasci- nanti come pochi. «Un paese cui è ne- gata la speranza», così lo definisce. 42 anni, romano, come fotogiornali- sta segue le vicende dell’Afghanistan dal 1996, da quando i talebani occupa- rono Kabul. Nel ’97 proprio per i suoi servizi su quella guerra, ha ottenuto il prestigioso World press photo. Mercoledì 6 maggio, nell’ambito de- gli appuntamenti di Vicino/lontano, sarà presente a Udine insieme a Vale- rio Pellizzari – editorialista di «La Stampa», considerato uno dei più S Colpa dei bombardamenti? «Non solo. Non si può negare l’atrocità delle stragi di innocenti – afferma Venturi –, ma all’inizio gli americani erano stati accolti favorevolmente. Il loro arrivo e le loro promesse avevano rappresen- tato un grande momento di speranza per il Paese. Non so fino a che punto siano state mantenute... Forse gli ame- ricani si sarebbero dovuti preoccupare di più delle enormi emergenze sociali ed economiche dell’Afghanistan. Que- sto avrebbe contribuito a pacificarlo più di una campagna militare». Quella con gli americani, sottolinea Venturi, «è stata una guerra impari. Da una parte c’era un dispiegamento di forze enorme: bombardamenti a tap- peto, armi con tecnologia all’avan- guardia; dall’altra vecchi tank russi, guerriglieri con razzi desueti. L’esito e- ra scontato. Ma che guerra è stata vin- ta? I talebani sono riusciti a mantene- re una rete saldissima di contatti e in- fluenze sul territorio». Il quadro è desolante. Presenta un Afghanistan ben lontano da un pro- cesso di democratizzazione stabilità. Venturi azzarda un’ipotesi: «Quan- do non si può vincere si scende a patti. Allora, perché non scegliere la via del dialogo con gli afghani più moderati?». SERVIZI DI VALENTINA ZANELLA Nelle foto: l’Afghanistan negli scatti di Riccardo Venturi/Contrasto che saranno esposti a Udine nell’ambito di Vicino/lontano. Nella foto: manifestazione delle attiviste afghane di Rawa.

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CuLTuRa 11LA VITA CATTOLICA

SABATO 2 MAGGIO 2009

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30 anni di lottaawa, l’Associazione ri-voluzionaria delle don-ne d’Afghanistan, è na-

ta nel 1977 a Kabul come or-ganizzazione socio-politica in-dipendente in lotta per idiritti umani e la giustizia so-ciale. Dopo l’occupazione so-vietica fu coinvolta nella resi-stenza e, in seguito, nella lot-ta contro i fondamentalisti e italebani. Le attiviste hanno la-vorato tra le donne rifugiatein Pakistan con attività di assi-stenza sanitaria, di alfabetiz-zazione, di avviamento pro-fessionale. Dopo 30 anni,Rawa continua propria batta-glia in clandestinità in un pae-se ancora non pacificato. In-segna, soprattutto ai giovani,il rispetto di ogni persona, in-dipendentemente da lingua,religione, razza; il rispettodella donna, dell’ambiente,della vita; il diritto alla pace.Sabato 25 aprile al centro Bal-ducci di Zugliano sono statiricordati proprio questi valorie alle donne di Rawa è statoconferito il riconoscimento«Honor et dignitas ErnestoBalducci»: una semplice targae un bonifico di 5 mila euro asostegno delle attività dell’as-sociazione. Nel ritirare il pre-mio, Maryam Rawì, commos-sa, ha ringraziato «i miglioriamici del popolo afghano chesono anche i miei». E in rap-presentanza di tutti quegli a-mici, alla donna si sono strettiin un abbraccio i portavoce diassociazioni provenienti datutto il mondo che nei loropaesi si battono per i medesi-mi valori: Mary BrickerJenkins (The poor people’s e-conomic human rights cam-paign, Usa), Guadalupe Rodri-guez (Salva la Selva, Germa-nia) Stanley Mwaura Nderitu(Necofa, Kenya) e Carlos Al-berto Tuiz (Comision intere-clesial de justicia y paz de Bo-gotà, Colombia).Non a caso per l’appunta-mento è stata scelta la datadella festa della Liberazione,ha ricordato il responsabiledel centro Balducci, don Pier-luigi Di Piazza, «a significarel’intento di proseguire quelcammino di necessarie, conti-nue liberazioni da ingiustizie,oppressioni, guerre, discrimi-nazioni, razzismi». Il 25 aprileè anche l’anniversario dellamorte di padre Balducci:«Quale occasione migliore perricordare un uomo di pace?»

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LA DRAMMATICA TESTIMONIANZA DELLE DONNE DI RAWA PREMIATE AL «BALDUCCI» PER LA LOTTA AI SOPRUSI DI UNA GUERRA SENZA FINE

Donne afghane senza paceMaryam non può essere fotografata, né può usare il suo vero nome. Mette a rischio la vita in unabattaglia che si consuma nell’indifferenza del mondo

ARYAM RAWÌ (nella foto sotto)ha 35 anni. Due figli, di cui u-na bimba di sei mesi vivacis-sima e dai grandi occhi azzur-ri. Si chiama Aiman, che in

persiano significa: portatrice di spe-ranza. Nel suo paese Maryam non puòcamminare per strada a volto scopertoné può dire il suo vero nome.

Con la sua piccola in grembo, è arri-vata in Italia per ritirare il riconosci-mento conferito dal Centro Balducci

di Zu-gliano aR a w a ,l’associa-z i o n ed e l l edonne ri-

voluzionarie afghane che lottano per iloro diritti e per un governo democra-tico.

Durissi-ma e dram-matica lasua denun-cia: «Vio-lenze, stu-pri, aggres-sioni sonola quotidia-nità in Af-ghanistan –racconta –.Il mio pae-se non è af-fatto pacifi-cato e la si-

tuazione è molto più grave di quellache viene descritta sulla stampa inter-nazionale. In trent’anni di occupazio-ne tutto è cambiato, ma niente è vera-mente cambiato. Nel 1979 sono arriva-ti i sovietici, poi i talebani, oggi gli oc-cidentali. In ciascuna di queste fasi ledonne sono state le vittime principali.Durante il regime talebano non era lo-ro permesso lavorare né andare ascuola, non potevano lasciare le lorocase se non accompagnate da un pa-rente e non potevano farsi vedere sen-za il burqa. Oggi stiamo tornando aquesto».

L’Afghanistan fa passi indietro?«È proprio così. Le donne vengono

sfregiate, sfigurate con l’acido; i matri-moni forzati in età giovanissima stan-no ritornando prassi comune; la per-centuale di suicidi tra le donne è altis-sima, moltissime si danno fuoco. La

situazione è decisamente peggioratanegli ultimi anni, basti pensare alla re-cente legge che proibisce alle donnequalsiasi possibilità di autodetermina-zione e di movimento senza il consen-so del coniuge. Viene loro impedito, difatto, di uscire di casa, di studiare, difare qualsiasi cosa.

La presenza degli americani non èservita ad indebolire i talebani?

«Gli americani hanno giustificato illoro intervento militare dicendo che a-vrebbero portato la democrazia, mi-gliorato la condizione delle donne ecombattuto il terrorismo. Oggi sappia-mo che erano solo slogan. Una presain giro. Ma una presa in giro che si ètrasformata in bombardamenti e cheha provocato la morte di moltissimiuomini, donne, bambini innocenti.Con delle scuse gli americani nonhanno fatto altro che sostituire al regi-me talebano un altro regime. Soste-nendo i criminali dell’Alleanza delnord hanno rifornito di armi assassinidi guerra non migliori dei talebani. Eoggi quegli assassini siedono al gover-no».

Sono ancora così potenti i signoridella guerra?

«Molto più di quanto si immagini.Secondo l’organizzazione indipen-dente Human rights watch, l’85% deimembri del parlamento afghano ap-partiene a gruppi di signori della guer-ra. Il loro potere è talmente forte cheper far passare la legge sulla rico-struzione sono riusciti ad imporreal governo che nessuno di loro fos-se processato o punito per i crimi-ni commessi in passato».

Rawa si batte anche sul frontepolitico?

«Sia a livello politico che sociale. Daun lato combattiamo il fondamentali-smo per ottenere democrazia e il ri-spetto dei diritti umani per le donne;dall’altro lato ci occupiamo anche diprogetti per rafforzare il tessuto socia-le: case di accoglienza per donne vitti-me di violenza, centri di alfabetizza-zione, scuole, biblioteche...».

Una battaglia che costringe inevita-bilmente alla clandestinità.

«Purtroppo è così per tutte le nostreattività. La fondatrice dell’associazio-ne, Meena, è stata assassinata nel 1987dai fondamentalisti e tutte noi subia-mo continuamente minacce. Per que-sto non usiamo i nostri nomi reali e

siamo spesso costrette a cambiare ca-sa, a nasconderci».

Nascoste nella vostra battaglia, na-scoste sotto un velo... Un destino ine-già scritto quello delle donne afgha-ne? Il burqua è solo strumento di re-pressione o anche simbolo culturale?

«Per le donne che hanno un’istru-zione ha indubbiamente una conno-tazione negativa. Significa avere manie piedi legati. È vero che si tratta di unsimbolo culturale, ma non ci si puònascondere dietro questa giustifica-zione. La cultura deve evolvere e nonpuò essere imposta. In Afghanistan,invece, la maggior parte delle donneoggi è costretta a vestire il burqa. Senon lo indossa rischia di essere aggre-dita. Questa non è cultura».

Una tradizione viene strumentaliz-zata per imporre sottomissione. È ciòche accade anche con l’Islam?

«In Afghanistan molte famiglie sonocredenti e la religiosità non è qualcosadi negativo. L’Islam dei fondamentali-sti, però, è un Islam politico. Ogni

gruppo dei signori della guerra ha ilsuo, che contraddice quello degli altri.E questo diventa uno strumento dipressione e repressione».

Secondo l’Onu, l’Afghanistan è ilprincipale produttore di oppio. Per lapopolazione si tratta solo di una pia-ga o anche di una risorsa?

«I soldi della vendita dell’oppio nonvanno certo alla popolazione. Finisco-no nelle tasche dei signori della guerrae dei criminali. Che grazie a questotraffico finanziano gli attacchi militarie comprano i contadini senza terra pertrasformarli in soldati. E, cosa piùdrammatica, questo avviene nell’in-differenza dei Paesi occidentali che

non si sono impegnati in nessuna po-litica di contrasto. Viene da pensareche si preferisca considerare l’Afgha-nistan come un deposito...»

E gli aiuti economici destinati allaricostruzione? A chi vanno?

«Anche in questo caso la maggiorparte finisce nelle tasche dei signoridella guerra o di membri del parla-mento a loro legati. Ma anche i soldidestinati alle ong finiscono in granparte in grandi palazzi e non arrivanoa realizzare progetti realmente utili».

A breve si terranno nuove elezioniCambierà qualcosa?

«Purtroppo no. Finché il potere re-sterà nelle mani di una classe politicacorrotta non cambierà nulla. L’averrafforzato la presenza militare stranie-ra in Afghanistan non ha contribuitoalla democratizzazione del Paese. Nonha portato altra conseguenza che lacostruzione di nuove basi americane.E, purtroppo, anche da parte degli altriPaesi europei, compresa l’Italia, nonvediamo un discostamento dalla stra-tegia statunitense».

Quale aiuto concreto potrebbe arri-vare dall’Occidente?

«Dovrebbero essere ascoltate le i-stanze del popolo afghano, che fino adora è stato sempre solo vittima».

L’Afghanistan troverà mai pace?«La storia ci insegna che si esce an-

che dai periodi più oscuri, se c’è la de-terminazione per farlo. Sappiamo chela nostra continuerà ad essere una lot-ta dura, ma sappiamo anche che, co-me donne e come madri, abbiamo laresponsabilità di cercare di dare un fu-turo ai nostri figli, anche a rischio del-la nostra stessa vita e della nostra li-bertà. Le donne di Rawa non si ferme-ranno finché non riusciranno a porta-re i signori della guerra davanti a unacorte di giustizia internazionale e a ga-rantire ai loro figli un paese democra-tico. In persiano c’è un detto: la nottenon resta notte per sempre».

(TRADUZIONE DI PATRIZIA FIOCCHETTI)

M

Secondo «Human rights watch»

l’85% dei membri del parlamento

afghano appartiene a gruppi

di signori della guerra

In Afghanistan violenze

e stupri sono la quotidianità.

Le donne non hanno diritti.

Moltissime si suicidano

Fotoreporter in Afghanistan, 11 anni

«Un paese cui è negata la speranza»

qualificati reporter di guerra – per l’i-naugurazione (alle 18.30) della mostrafotografica «In Afghanistan: 11 anni»,curata da Contrasto e allestita in duecontainer in piazza Venerio.

L’esposizione (orari: 9-22 dal 7 al 10maggio; dall’11 maggio al 7 giugno: dallunedì al sabato 16-20; giovedì, sabatoe domenica 10-13) ospita scatti inbianco e nero e ritratti a colori che cat-turano una quotidianità drammatica:

«l’occupazione dei talebani, il dram-ma della guerra, i bombardamenti, lapopolazione colpita dalla tubercolosi.Ma anche splendidi luoghi di cultura epaesaggi di una bellezza unica, deiquali molti non immaginano l’esisten-za», sottolinea Venturi.

Luoghi che per molti anni è statodifficilissimo ritrarre e che oggi sonotornati ad essere campi minati per glioccidentali. «L’Afghanistan ha fatto un

tuffo indietro – conferma il fotorepor-ter –. Nel 99-2000, all’epoca dell’occu-pazione talebana, era proibito scattarefotografie, si rischiava l’arresto e lepellicole venivano bruciate in piazza.Poi, con l’arrivo degli americani ci so-no stati alcuni anni di tregua, ma oggiè tornato rischioso perfino muoversi.A Kabul ogni occidentale è diventatoun obiettivo, il nemico. Il sentimentoanti-americano è fortissimo».

I PUÒ PARLARE DI PACE in un paesenel quale «ogni giorno i kamika-ze si fanno esplodere tra la gen-

te? Un paese di edifici sventrati, di in-teri quartieri rasi al suolo e poi rico-struiti senza servizi, dove le donnenon sono libere di mostrare il volto, nédi camminare per strada senza paura?Si può immaginare un futuro di riscat-to per una terra nelle cui carceri i pri-gionieri vengono gettati seminudi nel-le fosse? Dove non ci sono ospedali nélavoro»? Se accadrà, «non sarà certograzie all’azione militare. L’Afghani-stan ha bisogno di ospedali, sanità, la-voro, sicurezza, economia».

A parlare è Riccardo Venturi. Lui loconosce bene quel paese senza strade,fatto di montagne altissime e di luoghiimpervi e, allo stesso tempo, affasci-nanti come pochi. «Un paese cui è ne-gata la speranza», così lo definisce.

42 anni, romano, come fotogiornali-sta segue le vicende dell’Afghanistandal 1996, da quando i talebani occupa-rono Kabul. Nel ’97 proprio per i suoiservizi su quella guerra, ha ottenuto ilprestigioso World press photo.

Mercoledì 6 maggio, nell’ambito de-gli appuntamenti di Vicino/lontano,sarà presente a Udine insieme a Vale-rio Pellizzari – editorialista di «LaStampa», considerato uno dei più

S Colpa dei bombardamenti? «Nonsolo. Non si può negare l’atrocità dellestragi di innocenti – afferma Venturi –,ma all’inizio gli americani erano statiaccolti favorevolmente. Il loro arrivo ele loro promesse avevano rappresen-tato un grande momento di speranzaper il Paese. Non so fino a che puntosiano state mantenute... Forse gli ame-ricani si sarebbero dovuti preoccuparedi più delle enormi emergenze socialied economiche dell’Afghanistan. Que-sto avrebbe contribuito a pacificarlopiù di una campagna militare».

Quella con gli americani, sottolineaVenturi, «è stata una guerra impari. Dauna parte c’era un dispiegamento diforze enorme: bombardamenti a tap-peto, armi con tecnologia all’avan-guardia; dall’altra vecchi tank russi,guerriglieri con razzi desueti. L’esito e-ra scontato. Ma che guerra è stata vin-ta? I talebani sono riusciti a mantene-re una rete saldissima di contatti e in-fluenze sul territorio».

Il quadro è desolante. Presenta unAfghanistan ben lontano da un pro-cesso di democratizzazione stabilità.

Venturi azzarda un’ipotesi: «Quan-do non si può vincere si scende a patti.Allora, perché non scegliere la via deldialogo con gli afghani più moderati?».

SERVIZI DI VALENTINA ZANELLA

Nelle foto: l’Afghanistan negli scatti di Riccardo Venturi/Contrasto che saranno esposti a Udine nell’ambito di Vicino/lontano.

Nella foto: manifestazione delle attiviste afghane di Rawa.