LA DOMENICA - Le notizie e i video di politica, cronaca...

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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 DICEMBRE 2011 NUMERO 355 CULT La copertina FERRARI E SIMONE L’era di YouBook: perché adesso gli editori cercano scrittori fai-da-te La recensione GIORGIO VASTA Quel romanzo giocattolo che assomiglia ad Alice All’interno L’intervista ANTONIO MONDA Stefan Merrill Block “Se la malattia ci aiuta a capire chi siamo davvero” Il teatro RODOLFO DI GIAMMARCO Glauco Mauri porta in scena il suo circo pieno di fiabe Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo “American Dust ti fa ridere dentro” Alan Parker “Il mio cinema fatto di musica” Spettacoli ALAN PARKER Storia di Chimera il bianco e nero secondo Mattotti L’immagine PINO CORRIAS ANNIE LEIBOVITZ In viaggio con Annie La morte del padre e della compagna, i debiti La Leibovitz reagisce con un pellegrinaggio nelle case dei suoi maestri: Freud, Dickinson, Darwin... È il riscatto della grande fotografa Q uando arrivai alla casa di Emily Dickinson non c’era quasi più luce. Avevo portato con me una piccola fo- tocamera digitale e cominciai a scattare una foto do- po l’altra. Senza pensarci. In una vetrinetta di plexi- glass era esposto uno dei suoi abiti bianchi e mi ritro- vai attratta dai dettagli del vestito, i bottoni di alaba- stro e i pizzi. In una fotografia dell’abito intero scattata da lontano il risultato è un normale abito bianco. Ma da vicino scopri che è di fattura raffinata. Per una donna che passava quasi tutto il tempo in solitudine doveva essere meraviglioso contemplare i dettagli. E sentirli al tatto. Sapendo che non erano destinati ad altri che a lei. In questa casa Emily e la sorella vissero gli ultimi anni da sole. Fu venduta dopo la loro morte e adesso è un museo, ma per deci- ne di anni vi hanno abitato altre persone. Nel perimetro del mu- seo c’era una seconda casa e le guide che ce la mostrarono ci chie- sero se volessimo vederla da vicino. (segue nelle pagine successive) MICHELE SMARGIASSI Q uel che resta quando le persone se ne vanno. Un paio di guanti che hanno stretto migliaia di mani. Un tele- visore bucato da un colpo di pistola. Un vestito bian- co come un fantasma. È disabitato il nuovo mondo di Annie Leibovitz. Proprio lei, la fotografa più people mai esistita, sovrana, tiranna del ritratto ai livelli più luccicanti e costosi. Anzi è dis-abitato: abbandonato dalle persone che vi hanno vissuto. Non c’è un solo essere umano, solo case vuo- te e paesaggi deserti, nelle oltre duecento pagine di Pilgrimage, il libro che le sconsigliavano di fare, «non ne venderai una sola co- pia», il libro che lei ha voluto o forse ha dovuto fare: «Dovevo sal- varmi la vita». A volte esplode, nella carriera dei grandi fotografi, il bisogno di disintossicarsi dal mondo che i loro stessi occhi hanno costruito. Quello di Annie Leibovitz era grande come il sogno americano, con tutto il suo immaginario di successo, glamour, potenza. (segue nelle pagine successive) FOTO © ANNIE LEIBOVITZ. FROM “PILGRIMAGE” (RANDOM HOUSE, 2011) Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 4DICEMBRE 2011

NUMERO 355

CULT

La copertina

FERRARI E SIMONE

L’era di YouBook:perché adessogli editori cercanoscrittori fai-da-te

La recensione

GIORGIO VASTA

Quel romanzogiocattoloche assomigliaad Alice

All’interno

L’intervista

ANTONIO MONDA

Stefan Merrill Block“Se la malattiaci aiuta a capirechi siamo davvero”

Il teatro

RODOLFO DI GIAMMARCO

Glauco Mauriporta in scenail suo circopieno di fiabe

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certaidea di mondo“American Dustti fa ridere dentro”

Alan Parker“Il mio cinemafatto di musica”

Spettacoli

ALAN PARKER

Storia di Chimerail bianco e nerosecondo Mattotti

L’immagine

PINO CORRIAS

ANNIE LEIBOVITZ

In viaggiocon Annie

La morte del padre e della compagna, i debitiLa Leibovitz reagisce con un pellegrinaggio

nelle case dei suoi maestri: Freud, Dickinson, Darwin...È il riscatto della grande fotografa

Quando arrivai alla casa di Emily Dickinson non c’eraquasi più luce. Avevo portato con me una piccola fo-tocamera digitale e cominciai a scattare una foto do-po l’altra. Senza pensarci. In una vetrinetta di plexi-glass era esposto uno dei suoi abiti bianchi e mi ritro-vai attratta dai dettagli del vestito, i bottoni di alaba-

stro e i pizzi. In una fotografia dell’abito intero scattata da lontanoil risultato è un normale abito bianco. Ma da vicino scopri che è difattura raffinata. Per una donna che passava quasi tutto il tempoin solitudine doveva essere meraviglioso contemplare i dettagli. Esentirli al tatto. Sapendo che non erano destinati ad altri che a lei.

In questa casa Emily e la sorella vissero gli ultimi anni da sole.Fu venduta dopo la loro morte e adesso è un museo, ma per deci-ne di anni vi hanno abitato altre persone. Nel perimetro del mu-seo c’era una seconda casa e le guide che ce la mostrarono ci chie-sero se volessimo vederla da vicino.

(segue nelle pagine successive)

MICHELE SMARGIASSI

Quel che resta quando le persone se ne vanno. Un paiodi guanti che hanno stretto migliaia di mani. Un tele-visore bucato da un colpo di pistola. Un vestito bian-co come un fantasma. È disabitato il nuovo mondo diAnnie Leibovitz. Proprio lei, la fotografa più peoplemai esistita, sovrana, tiranna del ritratto ai livelli più

luccicanti e costosi. Anzi è dis-abitato: abbandonato dalle personeche vi hanno vissuto. Non c’è un solo essere umano, solo case vuo-te e paesaggi deserti, nelle oltre duecento pagine di Pilgrimage, illibro che le sconsigliavano di fare, «non ne venderai una sola co-pia», il libro che lei ha voluto o forse ha dovuto fare: «Dovevo sal-varmi la vita».

A volte esplode, nella carriera dei grandi fotografi, il bisogno didisintossicarsi dal mondo che i loro stessi occhi hanno costruito.Quello di Annie Leibovitz era grande come il sogno americano, contutto il suo immaginario di successo, glamour, potenza.

(segue nelle pagine successive)

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DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

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La copertinaAnnie Leibovitz

ANNIE LEIBOVITZ

(segue dalla copertina)

on c’era quasi più luce e dapprima rifiutammo, ma poi finimmo colseguire un piccolo sentiero che conduceva lì. Le case erano moltovicine, a un centinaio di metri di distanza l’una dall’altra. La se-conda apparteneva al fratello di Emily, Austin. La casa di Austin fuuna rivelazione. Rimasi esterrefatta. Era buia, misteriosa. [...] Sco-prii che con la fotocamera digitale non mi serviva molta luce. Misembrava di riuscire a vedere negli angoli. Nessuna distorsione dicontrasto o di colore come avviene quando premi il pulsante del-le macchine analogiche. La digitale rendeva praticamente quelloche vedevo [...].

Diversi anni fa Susan Sontag e io avevamo in mente di fare un li-bro intitolato Beauty Book. Il Beauty Bookci avrebbe fornito la scu-sa di viaggiare in tutti i posti che ci interessavano e che volevamovedere. Per me significava poter fare di nuovo fotografie solo se sti-molata a farle. Senza programmi prestabiliti. [...] Trovarmi in unasituazione in cui cogliere un’immagine solo per ispirazione. Dopola morte di Susan capii che non avrei potuto realizzare il BeautyBook, anche se con il passare del tempo mi rendevo conto che avreipotuto fare un libro diverso, con una lista di posti diversi. Inevita-bilmente la lista sarebbe stata influenzata dal mio ricordo di Susane da quello che interessava lei, ma sarebbe stata comunque la mialista. All’inizio non avevo un’idea ben chiara di che cosa avrei po-tuto fotografare, si formò per gradi. Emily Dickinson era la poetes-sa preferita di Susan. [...]

Casa FreudLa Hogarth Press, gestita per molti anni da Leonard e Virginia

Woolf, aveva pubblicato le opere di Freud fin dagli anni Venti delNovecento. I Woolf andarono a trovare Freud nella sua nuova ca-sa al 20 di Maresfield Gardens nel 1939, poco tempo dopo che luiera emigrato a Londra. Leonard scrisse che lo studio di Freud eracosì pieno di antichità da sembrare un museo. Ora è davvero unmuseo e tutto si trova esattamente nello stesso posto in cui eraquando i Woolf andarono a prendere un tè. A Londra Freud avevadei pazienti e li seguì fino a due mesi prima della morte, avvenutanell’autunno del 1939. Aveva abitato lì soltanto per un anno ma lostudio era identico a quello del suo appartamento di Vienna. [...]

Visitando la casa, guardando tutte le stanze, aprii una porta piùpiccola e vidi un lettino rivestito con un tessuto dai motivi geome-trici molto elaborati. Mi dissero che un tempo si trovava nello stu-dio di Freud ed era stato il suo letto di morte. Freud si era trasferitonello studio dopo uno dei primi allarmi aerei nel quartiere, pen-sando che sarebbe stato più al sicuro che al piano di sopra. Passò isuoi ultimi giorni guardando il giardino, circondato dalle sue col-lezioni e dai suoi libri.

LA MOTO

DI ELVIS

L’Harley-DavidsonHydra Glidedel 1957a Graceland

Ho fotografato i miei fantasmi

IL LETTINO

DI FREUD

Il divanonello studiodi MaresfieldGardens,a Londra

IL PICCIONE

DI DARWIN

Lo scheletrodi piccionedella raccoltadi Darwina Tring

Casa DarwinDown House, la casa di Charles Darwin nel Kent, è stata restau-

rata splendidamente ma al posto del suo studio adesso si trova ilnegozio di souvenir. Darwin comperò Down House nel 1842 all’etàdi trentatré anni, quando era già famoso. Il diario delle sue espe-rienze come naturalista durante il viaggio compiuto a bordo delBeagle aveva colpito la fantasia popolare. Darwin rimase via cin-que anni durante i quali accumulò migliaia di esemplari e gettò lebasi intellettuali dell’opera della sua vita. Down House diventò perlui il centro del mondo. La lasciava di rado. [...]

La storia di Darwin che viene illuminato sull’evoluzione stu-diando le forme dei becchi dei diversi fringuelli presenti nelle iso-le Galapagos è solo una leggenda. [...] Il primo capitolo de L’origi-ne della specie contiene un lungo passo sull’allevamento dei pic-

Dal lettino di Freud al vestito biancodi Emily Dickinson.Dopo un periododifficile la più celebre ritrattista americanasi rimette in viaggio. Stavolta non immortala vipe rockstar, ma gli oggetti e i luoghi dei maestriPer consegnarci il suo diario più intimo

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cioni. «Convinto che sia sempre meglio studiare un gruppo speci-fico, dopo attenta riflessione, ho scelto i piccioni domestici» scris-se Darwin. Si iscrisse a dei Pigeon club e documentò particolari co-me la quantità di melma accumulata dai piccioni sulle zampequando pioveva. Per confrontare gli scheletri delle varie razze, rac-coglieva i corpi e li bolliva, ma l’odore e il disordine in cucina era-no troppo per sua moglie, e quindi decise di spedirli dove potesse-ro essere sottoposti a un trattamento più professionale.

Casa PresleyLa casa di Elvis Presley a Memphis è stata conservata più o me-

no com’era ai tempi in cui lui vi abitava. Le stanze al pianoterra at-tirano migliaia di turisti, ma il secondo piano dove lui morì rimaneprivato. Elvis e la sua famiglia si trasferirono da Tupelo a Memphisnel 1948, quando Elvis aveva tredici anni. Elvis parlava spesso di

comperare una casa per i genitori. Nel 1957 acquistò Graceland,una villa in arenaria con colonne corinzie. I genitori di Elvis e lanonna Minnie Mae vivevano lì con lui e in seguito anche la mogliePriscilla e la figlia Lisa Marie. I vestiti della madre, Gladys, sono tut-tora nell’armadio. Gli occhiali da sole di Minnie Mae sono su unvassoio sopra un cassettone.

Casa GrahamHo passato la vita a guardare le foto di Martha Graham scattate

da Barbara Morgan. Continuo a tornare a quelle immagini:la mi-gliore collaborazione possibile fra un fotografo e il suo soggetto. [...]

C’erano due o tre stanze stracolme di pile di scatole e bauli. Tro-vammo una scatola di oggetti di scena di Deaths and Entrances,balletto su tre sorelle che probabilmente sono le Brontë, o forsel’artista e le sue due sorelle. La danza è la più fragile delle arti. Gli

scrittori hanno i testi, i compositori gli spartiti. La danza esiste so-lo nell’attimo. Quando se ne va un coreografo, i custodi più affi-dabili del suo lavoro sono i ballerini che hanno eseguito l’operasotto la sua guida. Ci sono filmati di performance o di prove di dan-za, ma non saranno mai efficaci quanto un coreografo che mo-della il movimento di un singolo corpo. O, nel caso di MarthaGraham, lei stessa che balla. Il che mi rende ancora più care le fo-tografie di Barbara Morgan.

Traduzione Giovanna Arenare e Claudia Cavallaro© 2011 by AL Archive LLC. Published in the United States

by Random House, an Imprint of The Random House PublishingGroup, a division of Random House, Inc. New York /

Agenzia Santachiara © 2011 De Agostini Libri Spain accordo con Jeffrey D. Smith / Contact Press Images

© RIPRODUZIONE RISERVATA

IL LIBRO

Pilgrimage di Annie Leibovitz (De Agostini, 248 pagine, 100 fotografie a colori, 50 euro)è in libreria. Da Emily Dickinson a Virginia Woolf, da Sigmund Freuda Charles Darwin, da Elvis Presley a Louisa May Alcott: la grandefotografa ci porta nelle case dei maestri del passato

(segue dalla copertina)

Finire nel campo visuale delle sue lenti era entrare nel Pantheon.Tutti, da Lennon a Kidman a Nicholson fino alla regina Elisa-betta («Maestà, potrebbe togliersi la corona? È così formale...»),

hanno subìto i suoi ordini, i suoi set geniali, bizzarri o sontuosi. Ri-trattista superstar di icone superstar, questo è stata per decenni An-na-Lou Leibovitz di Waterbury, dinoccolata, algida, volitiva ragaz-zona della provincia americana, fino a quando la sua vita di succes-so andò a sbattere sugli scogli. Perse assieme, nel 2005, il padre e lacompagna, la scrittrice Susan Sontag, grande intellettuale radical.Poco dopo, una valanga di debiti (rimediata in qualche modo) fu sulpunto di costringerla a svendere il suo invalutabile archivio.

Reagì come è scritto nel sangue americano: mettendosi in viaggioverso una nuova frontiera. Nell’agosto 2009 partì con le due figlie ge-melle per una vacanza scacciapensieri alle cascate del Niagara: andòtutto male, carta di credito bloccata, deprimente camera di motel,inseguimento impietoso degli avvocati. Ma di fronte al grande saltod’acqua, dietro le spalle delle bimbe eccitate, la mano istintivamen-te alla macchina, l’occhio inquadra, il dito preme: davanti al catinoverde smeraldo (sarà la copertina del libro) «era straordinaria la sen-sazione di galleggiare sopra le cascate», di volare senza cadere sopraun vuoto senza celebrità, scenografie, lustrini...

Quando era viva Sontag, stilavano liste di luoghi da visitare assie-me per scriverci un libro che aveva già un titolo, Beauty Book. Non cene fu il tempo. Ma dopo quell’immagine acquea libera e liberatrice,Leibovitz fece la sua lista, e partì. Un po’ folle, arbitraria, a volte ca-suale, tra Europa e America, era una lista di case senza inquilini, ca-se di grandi personaggi: Lincoln, Roosevelt, Woolf, Freud, Darwin,per prima Emily Dickinson, «la poetessa preferita di Susan». Casepiene di cose, e paesaggi pieni di tracce di chi li rese immagini (lo Yo-semite di Ansel Adams). È fra oggetti e luoghi orfani che Leibovitz, asessantadue anni, ha scritto il suo diario interiore (mai tanto scrittoun suo libro). Alla ricerca di quel che resta quando le persone non so-no più lì, cioè «una cosa cruda e semplice. Sono tornata a quel checonta davvero».

Il vuotodietro il glamour

MICHELE SMARGIASSI

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L’ABITO

DI EMILY

L’unicovestito rimastodi EmilyDickinsonad Amherst

IL MONDO

DI MARTHA

I materialidi scenadello studiodi New Yorkdella Graham

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Simili a marionette ma ricoperte di oro, argento e abitiprestati dalle famiglie ricche, sfilavano in processionia metà strada tra sacro e profano. Per secoliamatissime da fedeli e parroci sparironoper volere di Papa Pio X. Adesso una mostrane celebra gli antichi fasti. E le assolve

Le storieFesta dell’Immacolata

SONDRIO

Le hanno trovate nei solainascosti delle chiese, infondo agli armadi delle sa-grestie. Alcune, per salvar-

si, erano diventate Madonne “partigia-ne”, portate nelle cappelle di alta mon-tagna per evitare il rastrellamento im-posto dai vescovi. Adesso sono qui, le“Madonne vestite”, che ovviamente di-ventano le “Madonne nude” quandovengono spogliate dei loro abiti prezio-si e sembrano burattini di legno. Un vol-to scolpito e dipinto con colori vivi.Orecchini, collane d’oro, parrucche dicapelli veri. E sotto il volto un semplicetorsolo di legno, però snodabile come ilPinocchio di Collodi perché solo muo-vendo busto e braccia si può procedere

alla vestizione. Saranno in mostra, que-ste Madonne vestite o spogliate, dal 10dicembre al Mvsa, il museo valtellinesedi storia e arte, e nella galleria del Credi-to Valtellinese. Insomma, conquiste-ranno il cuore della città, dopo esserestate per decenni ricercate, umiliate edistrutte. In confidenza col sacro, statuevestite al centro delle Alpiracconta la sto-ria di Madonne diverse da tutte le altre,perché cambiavano abito e trucco se-guendo la moda del tempo.

Ecco la Madonna di Torre Santa Ma-ria, il cui corpo è stato segato a metà perpoter aggiungere un altro pezzo di ad-dome e fare crescere la statua di trentacentimetri. «Queste Vergini — spiega ladirettrice del museo, Angela dell’Oca— erano vestite con abiti donati di soli-to da famiglie ricche. Nel Cinquecento-Seicento la parte inferiore di questi ma-nichini aveva forma di cono, con assi di

legno che simulavano una gonna. Manel Settecento la moda è cambiata e al-lora anche le nostre madonne sono sta-te modificate e tante, come le dame diquel tempo, si sono ritrovate con un vi-tino di vespa».

La nostra storia inizia nel 1998 quan-do Francesca Bormetti, storica dell’artee curatrice della mostra, in un sottotettodella chiesa di Mazzo di Valtellina trovauna Madonna con le braccia rotte. «Eraun’Addolorata, col volto dolente. Com-

presi che una statua in quellecondizioni, con assi dipinte di

verde al posto della gonna,non poteva certo essere

esposta in chiesa. Doveva dun-que essere una Madonna vestita.

Statue di questo tipo erano presenti so-prattutto nel Sud dell’Italia, in Spagna enell’America latina, ma non se ne cono-sceva l’esistenza sulle nostre Alpi». Laricerca vera e propria inizia nel 2005 eporta alla scoperta di quaranta Madon-ne nascoste o esposte in piccole chiese,mentre si ha notizia di altre novanta cheinvece sono andate distrutte. Al loro po-sto sono arrivate le Madonne moderne,alcune in legno ma molte in gesso o pla-stica, prodotti seriali, coloratissimi e digrande effetto scenico, ma fredde, daammirare a distanza, non più da vesti-re e da accudire. Tanti corredi sono an-dati dispersi. In una chiesa di Venezia

una sola madonna aveva sessantunoabiti completi. A vestirle — di solito ilgiorno prima della processione — era-no solo le donne. In alcuni casi veniva-no usati anche i profumi e il trucco perle labbra e il viso.

«È fra la fine dell’Ottocento e i primidecenni del Novecento — racconta Bor-metti — che inizia la caccia a queste ma-donne popolari. L’accusa è quella dinon essere conformi alle regole fissatedalla liturgia della chiesa, di essere inde-corose e poco adatte a ispirare senti-menti di devozione. Nella mia ricerca hocomunque ritrovato un legame fortissi-mo fra i fedeli e queste strane statue. Eanche i parroci in molti casi non hannoaccettato il diktat dei vescovi. Prima diuna visita pastorale arrivava in parroc-chia un questionario della curia, con ilquale si chiedeva se fossero presentidelle madonne vestite. Spesso il parro-

JENNER MELETTI

La cacciatadelle madonne vestite

LA VESTIZIONE

In successionei momentidella vestizionedella Madonnadel Rosariodi Delebio(Sondrio):il preziosoabito in ganzovenezianoche indossaè il vestitoda sposadonatoda unagentildonnadel SettecentoLa Madonna di Delebio è tra le più bellein mostra

LE STATUE

I manichini uscitidalle botteghedegli intagliatori

I TESSUTI

Raffinate camicie,vesti e sottane in setae altri tessuti preziosi

LA LETTERA

A sinistra,la letteradi incaricoalla bottegaFantoniper l’esecuzionedi una Madonnada vestire(per gentileconcessionedellaFondazioneFantoni)nella chiesadi Breno vicinoa BresciaSotto, l’abitodella Madonnadella Neve di Chiuro(Sondrio)

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narle. «L’ambivalenza che denota mol-te manifestazioni di religiosità popola-re — scrive il prelato — deriva in so-stanza dal suo collocarsi in una zona difrontiera, nella quale i confini che se-parano la devozione da mentalità ma-giche e superstizione appaiono talvol-ta labili. La pratica di vestire le statueconsente un contatto particolarmenteconcreto e intimo, una familiarità cheben risponde all’esigenza tipica dellareligiosità popolare di appropriarsidella figura sacra, presente nel simula-

cro, rendendola partecipe della pro-pria vita quotidiana. Nel caso specificodelle statue vestite è documentata an-che la prassi per cui la persona che ave-va donato i propri indumenti al simu-lacro potesse periodicamente ripren-derli e indossarli, così da assicurare ef-fettivamente tale scambio di contatti.In sostanza si può dire che gli abiti, unavolta indossati dalla statua, erano di-ventati “reliquie”». Manipolazioni cheinteressavano anche i Bambin Gesù.Qui il monsignore cita la storica e an-tropologa francese Christiane Klapi-sch-Zuber: «Nei monasteri femminilile pie donne non si accontentano dicullare i loro piccoli Gesù; qui o là essegli fanno il bagno, lo rivestono, gli ricu-ciono i vestitini».

Nella dottrina della Chiesa non c’èperò una condanna netta di questa for-ma di religiosità popolare. Nei docu-

menti repressivi di un secolo fa si cita ilConcilio di Trento (1545-1563), ma lagrande diffusione delle madonne ve-stite è avvenuta senza problemi nei se-coli successivi. Il Concilio si limita araccomandare che le «immagini nonsiano ornate in modo appariscente eprovocante». Ancora nel 1888 la Con-gregazione dei riti accetta queste sta-tue, precisando che non debbano ave-re «nulla di indecente né di profano».Ad avviare una vera e propria guerracontro queste madonne è il vescovo diMantova, Giuseppe Sarto. E quandoquesti diventa patriarca di Venezia e in-fine, fra il 1903 e il 1910, Papa Pio X, tut-ti i vescovi si adeguano. Per fortuna ilbellissimo saggio di monsignor SaverioXeres, per queste madonne vestite eperseguitate, arriva oggi come un’as-soluzione.

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co non rispondeva, o addirittura consi-gliava ai fedeli di nascondere la statua inuna chiesetta sui monti o in cappelle pe-riferiche delle confraternite».

Sono madonne, queste, che viveva-no una volta o due all’anno, nel giornodella festa loro dedicata o quando un’e-mergenza richiedeva il loro intervento.«A Pedesina, in Val Gerola, c’è la “Ma-donna delle ruine”, portata in proces-sione quando una frana minacciava ilpaese. Ci sono poi Vergini invocatecontro la siccità, le alluvioni, le malat-tia. C’è una Madonna chiamata “delbuon consiglio”, perché secondo la tra-dizione una ragazza le chiese quale deidue pretendenti al matrimonio doves-se sposare e una voce rispose: “Prendiquello senza capelli”. Si scoprì poi chedietro la statua si era nascosto lo spasi-mante che non aveva bisogno del pet-tine. A Livigno una di queste Madonne

è ancora oggi portata in pro-cessione, la prima domeni-ca d’agosto, quando in pae-se si fa l’unica fienagione del-l’anno. Negli altri giorni è nascostain una teca oscurata in un oratorio. Ilsabato il gudèz, ossia il padrino, la togliedalla teca e la mette su un piedistallo.Poi gli uomini debbono uscire dall’ora-torio e inizia la vestizione, che in que-sto caso è il cambio d’abito fra feriale efestivo. Due sorelle sono le gudèze, lemadrine. La maggiore veste la Madre,la più giovane il Bambino».

In un ricco saggio preparato per il ca-talogo della mostra (con fotografie diMassimo Mandelli) monsignor Save-rio Xeres, direttore dell’archivio storicodella diocesi di Como, cerca di spiega-re i motivi per i quali la Chiesa per al-meno due secoli ha accettato le Ma-donne vestite e poi ha cercato di elimi-

L’INVENTARIO

A destra,l’inventariodegli arredidell’altaredella Madonnadel Rosariocon l’elencodel riccocorredodi abitie gioiellidella statuavestitaa Mazzodi ValtellinaSotto, l’abitodella Madonnadel Rosario di Castello(frazione di Gerola)

LA MOSTRA

Le madonne vestite saranno in mostra a Sondrio dal 10 dicembreal Mvsa, il Museo valtellinese di storia e arte e nella galleria

del Credito Valtellinese. All’esposizione, dal titolo In confidenzacol sacro, è allegato un catalogo con foto di Massimo Mandelli

e introduzione di monsignor Saverio Xeres

ARTIGIANALI. Da sinistra, tre momenti della vestizione della Madonna della chiesa di San Carlo a Chiuro; di seguito, le Madonne di Mello, Pedesina, Rogolo e Livigno, in provincia di Sondrio

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Mostri

Sento le nuvole che riempiono l’orizzonteE la dissonanza emessa dalle personeche si scontrano anziché accarezzarsiSi mangiano anziché amarsiSiamo mostri. Animali sbiaditiche hanno perso ogni direzione

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L’immagineSogni e incubi

LA STORIA

Un uomo si addormenta sotto l’albero dovesedeva sempre un famoso pensatore Il sogno è la porta d’ingresso in un mondofiabesco di nuvole antropomorfe, animalifantastici e rapaci. Il sogno diventa incubofino alla scena finale del drago e al risveglio

Si intitola “Chimera”. Lo avevaincominciato nel ’99, poi lo avevainterrotto. Ora il maestrodella graphic novel ha decisodi portare a terminequell’oscuro racconto “perché è in sintonia con la vitastrappata che mi sento intorno”Ecco le sue tavole inedite

Mat

tott

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Colori

Il verde è profondità. Il rosso energiaSe metti l’arancione, il disegnocomincia a vibrare. Fino a quandoarriva il momento in cui tutti i segnivanno al loro postoe i colori iniziano a cantare

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a olio, le copertine del New Yorker, l’amicizia con Art Spie-gelman, il lavoro con Lou Reed e Bob Wilson su Edgar Al-lan Poe, e insomma quel tempo che la linea retta della vi-ta trasforma in un labirinto nel quale Mattotti continua aperdersi per ritrovarsi.

In quel fine secolo si era già lasciato alle spalle Milano etante altre città, cominciando da Brescia, anno 1954, sem-pre dietro al padre ufficiale della Guardia di finanza checambiava sede ogni quattro anni: Ancona, Udine, Como,Mantova, Venezia. Probabile che sia stato quell’esodoperpetuo a dargli radici così fragili da spingerlo a dise-gnarle per renderle portatili, paesaggio dopo paesaggio.Dice: «Disegnare era il mio modo di portarmi dietro ilmondo vecchio e di impadronirmi di quello nuovo. Dise-gnare era la mia ossessione. Ricordo un’infinità di pome-riggi nei quali venivo inghiottito da quel tempo dilatatoche solo i colori sanno spalancare».

A forza di campionare il mondo si era iscritto ad archi-tettura, circondato dai colori d’acqua di Venezia e da pro-fessori straordinari come Aldo Rossi capaci di mettere unacornice allo spazio per trasformarlo in una geometria abi-tabile. Ma il cielo era troppo basso per non cercare aria trale diagonali primaverili di Bologna. Racconta: «Era il mi-rabile anno 1977. Nell’aria Radio Alice. Nelle case la sco-perta delle prime tavole freak di Robert Crumb trovate sulVillage Voice, dei viaggi psichedelici di Matteo Guarnac-cia, e di quelli solitari di Andrea Pazienza. Si discuteva tan-tissimo. Si formavano gruppi. Si inventavano riviste».

Mattotti pubblica la sua prima storia, Incidenti (1981),sulle pagine di Linus, diretto da quell’altro cercatore dimondi che fu Oreste del Buono. Lascia Bologna per Mila-no, va a caccia di lavoro tra la lucentezza dei colori a lietofine della moda. «Ma intanto finii tra i nebbioni della Bo-visa. Ricordo labirinti di case e molta solitudine. Assorbi-vo ispirazioni dalla periferia, immaginavo personaggi cat-tivi, intrecci drammatici». Per sopravvivere riempie qua-derni. «Cercavo rivelazioni dentro le macchie di colore chementre si dilatano e si asciugano suggeriscono forme, pro-fili, animali». Si incanta dentro a viaggi che sono anche so-nori: «Perché i colori fanno parte di una unica sinfonia. Il

verde è profondità. Il rosso energia. Il nero e il bianco so-no il mistero. Se metti l’arancione, il disegno comincia avibrare. Fino a quando arriva il momento in cui tutti i se-gni vanno al loro posto e i colori iniziano a cantare».

Parigi è la via d’uscita dalla gabbia italiana. Il luogo do-ve il disegno evolve. Il colore diventa cera e poi olio. C’è larivelazione dei corpi immersi nell’acqua di David Hock-ney, «e di quello spazio curvo degli abbracci che sono i sen-timenti». Quando inizia Chimera, Mattotti ha appena fi-nito di completare le tavole francesi di Stigmate. Raccon-ta: «Avevo in mente il titolo e lo stile. Avrei continuato a la-vorare con quel bianco e nero che per me è il doppio colo-re dell’inconscio». Gli serve per infilarsi nel bosco che ciportiamo dentro «e da lì sentire l’eco dei mostri in avvici-namento». Il viaggio regge per trenta tavole. Poi si inter-rompe. «Non avevo più la concentrazione per andareavanti. Pubblicai il libro pensando che quello era il suo de-stino. Del resto era una storia senza testo. Ognuno potevaguardarla con piena libertà creativa e magari immaginareun finale in proprio».

Ora è tornata l’energia per regolare quel conto in sospe-so. «A ripensarlo adesso è stato molto faticoso ricomincia-re. E reggere così a lungo quella tensione. Calandomi den-tro al mio mondo parallelo da cui non so mai se sarò capa-ce di tornare indietro». Autentico viaggio senza meta, co-me sanno tutti i veri viaggiatori che salpano dentro la pro-pria stanza. Disegni di massima inquietudine. «In sinto-nia — dice — con la vita strappata che mi sento intorno.Con le nuvole nere che riempiono l’orizzonte. Con la dis-sonanza emessa dalle persone che si scontrano anzichéaccarezzarsi. Si mangiano anziché amarsi».

È arrivato fino al drago che esce dall’acqua. «E quandoho visto il drago ho capito che la storia era conclusa». Ilbianco diventa il congedo del cartello finale: «D’improv-viso mi svegliai. Siamo mostri. Chimere complicate. Ani-mali sbiaditi che hanno perso ogni direzione». Il suo vian-dante ha impiegato dodici anni a risvegliarsi. O almenosembra. Perché nel nostro mondo d’ombre anche il risve-glio può essere solo il prossimo sogno.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

“Il mio inconscioin bianco e nero”

Lorenzo Mattotti ha lo sguardo specializzatoin nuvole animate. Le insegue da quando sta-va sotto le coperte, a occhi spalancati, dentroal foglio bianco del letto, e fuori c’era la cam-pagna della sua infanzia di Bassa mantovana.Molte città e molti viaggi più tardi, ora che i

suoi boschi sono i tetti di Parigi visti dalle sue grandi fine-stre di rue de Paradis, il suo bianco e nero è tornato a queiprimi paesaggi immaginari. A un viandante senza nomeche si addormenta sotto al nero di un albero. Ai sassi chediventano montagne. Al cielo che sparisce dentro al labi-rinto del bosco, si alza in volo sulle ali di un uccello che hala coda del drago. E corre via inseguito dall’ombra chesempre ci accompagna con la sua premonizione. Che noichiamiamo destino. E che Mattotti intitola Chimera.

«Questa di Chimera è una storia stramba. Senza testo.Un flusso che va dal bianco al nero. Una linea che evolve.Una corda tesa sul nulla e la sua vertigine», dice dalla suaconsueta lontananza di narratore fermo sul molo dei con-gedi che guarda partire le sue storie per il loro viaggio inpubblico. Le prime trenta tavole sono del 1999, le ultimeventiquattro della scorsa estate. In mezzo ci sono molte vi-te, un’infinità di viaggi e di colori, i figli, la fatica, la depres-sione, il successo, i libri tradotti in tutto il mondo, i quadri

IL LIBRO

Chimeradi LorenzoMattotti(Coconino Press- Fandango,56 pagine,18 euro)è in libreriada domani

PINO CORRIAS

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA■ 36

DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

Ancora oggi più che un regista si considera uno scrittore,mentre coltiva anche un’altra antica passione: il disegnoIl mondo però continua ad acclamarlo per i suoi film pieni di musica,

come “The Commitments”e “Pink Floyd - The Wall”Qui racconta del suo originalissimo rapporto

col grande schermo. Iniziato nel sottoscaladi un’agenzia di pubblicità

SpettacoliSaranno famosi

CULT

Le locandinedi tre film cultdiretti da AlanParker: dall’altoEvita (1996),Sarannofamosi(1980)e TheCommitments(1991)

THE WALL

La locandinadel filmPink Floyd- The Wallche l’annoprossimocompie 30 anni

IL FESTIVAL

Con oltre 400 titoli tra anteprime,retrospettive e omaggi torna a Torino, dall’8 al 17 dicembre, la XII edizione di “SottodiciottoFilmfestival”, la rassegna di cinema fatta da e per i più giovaniAd Alan Parker, che sarà ospitedel festival, è dedicatauna retrospettiva che ne ripercorre la lunga carrieraattraverso pellicole diventateleggendarie, da Saranno famosi (1980)a Evita (1996), da Fuga di mezzanotte(1978) a The Wall (1982)Info: www.sottodiciottofilmfestival.it

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

“Quando penso a Roger Waters mi deprimoAndò meglio con Peter Gabriel e poi anche con Madonna

Ma i migliori in assoluto furono i ragazzi di Dublino,lì anche se non sei capace di suonare almeno sai fare finta”

nema. Era brutta gente. E se è vero che se fai un filmavere a che fare con i produttori non è cosa facile,è altrettanto vero che ci sei abituato. Se invece timetti a lavorate con una rock’n’roll band, i musi-cisti avranno le loro idee, la casa di produzione lasua, il manager un’altra ancora. E io volevo asso-lutamente evitare tutto questo.

Poi gli anni passarono e andò tutto molto me-glio con Peter Gabriel: Birdy — Le ali della libertàfu un’esperienza bellissima.

* * *The Commitments: è il film che mi ha più diver-

tito fare, ogni mattina a Dublino non vedevo l’oradi andare a lavorare. Ma è una fiction che solo in-cidentalmente parla di musica. Il fatto è che in Ir-landa tutti cantano o suonano strumenti, e anchese non sono capaci fanno finta di esserlo. Ovvia-mente nel film la musica fa comunque la parte delleone. Tutte le scene vocali vennero registrate dalvivo, esattamente l’opposto di quel che accade ingenere. Di solito prima si registra la musica e poi lasi diffonde sul set in modo che le riprese, effettua-te da angolazioni diverse, siano ad essa coerenti.Generalmente sul set si canta e si suona in play-back. Hollywood ha sempre fatto così. In The Com-mitments, invece, visto che i microfoni erano mol-to vicini agli attori, abbiamo utilizzato un sistemache mi permetteva di girare con le parti vocali ese-guite dal vivo. In Evita feci esattamente l’opposto,abbiamo realizzato la colonna sonora prima di ini-ziare le riprese: quattro mesi e mezzo chiuso in unostudio a registrare musica, con Madonna semprea fare un sacco di domande alle quali dovevo esse-re in grado di rispondere: quale sarebbe stata la suaposizione sul set, quali gesti avrebbe dovuto com-piere... Devo dire che quella donna ha un’etica dellavoro incredibile.

* * *Ci sono film che amo rivedere e altri no. Pink

Floyd The Wall è stato un’esperienza deprimen-te e cerco di pensarci il meno possibile. Roger Wa-ters, di recente, mi ha invitato a vedere la versio-ne teatrale che sta portando in giro e mi ha fattotornare alla mente brutti ricordi. Del resto è diffi-cile capire se un film ti è caro oppure no perché haavuto molto successo oppure no; oppure se ti ècaro o meno per i ricordi che porta con sé. Io rien-tro in questa seconda categoria. E se è così, in ge-nerale posso dire di essere stato fortunato. Lamaggior parte dei film che ho fatto sono state del-le belle esperienze. Non voglio dire che per fareun buon film devi per forza essere circondato dagente simpatica. Ci sono film bellissimi nati su setmolto conflittuali. Un ambiente difficile non de-termina necessariamente un buon film o unbrutto film. Però è abbastanza vero che se il climasul set è positivo si lavora meglio.

Tutto ciò detto ci sono film, come Il conformi-stao Ultimo tango a Parigidi Bernardo Bertoluc-ci, che vengono ri-scoperti da generazioni sem-pre nuove. Ed è una cosa straordinaria. Ed è suc-cesso anche a Pink Floyd The Wall. Niente di ma-le. Più gente acquista il dvd, più io ci guadagno.

(Testi tratti da Alan Parker,a cura di Stefano Boni e Massimo Quaglia,

Edizioni di Cineforum, Bergamo 2011)© RIPRODUZIONE RISERVATA

Le mieorigini sono proletarie. E consi-derato l’ambiente che frequentavo,se fossi andato in giro a dire che so-gnavo di fare il regista cinematografi-co mi sarei preso un pugno sul naso.In realtà a scuola ero decisamente

bravo a scrivere e a disegnare, e infatti la mia veraambizione era di diventare uno scrittore. Ancoraoggi mi ritengo uno scrittore prestato alla regia. Eancora oggi credo che sia la scrittura la parte piùbella del mio lavoro. Mi sorprende sempre che cisiano registi che non scrivono, è una cosa che pro-prio non capisco. Stephen Frears, ad esempio,non scrive una sola parola: si limita ad aspettare laconsegna della sceneggiatura finita. Io invece scri-vo sempre, e faccio dei cambiamenti anche la seraprima di una ripresa. Quando scrivi, realizzi il filmnella tua testa. Poi vai sul set e fai il film una secon-da volta. Successivamente, durante il montaggio,lo fai una terza volta. Ed è qui, nella parte finale, chesi trova un’altra delle fasi che amo del mio lavoro:è il missaggio del suono, quando tutte le immagi-ni sono assemblate con il sonoro. È un momentobellissimo, perché tutto torna e per la prima voltavedi il tuo film. E poi ci sei solo tu, i tecnici del mix,i montatori: una mezza dozzina di persone.

* * *Comunque sia e comunque sia andata, la verità

è che sono stato molto fortunato se teniamo con-to che venivo da Islington, nord di Londra. All’e-poca c’erano le cosiddette grammar schoole sele-zionavano un numero limitato di ragazzini pove-ri da mandare in ottime scuole. Io fui scelto, e quel-la fu la mia vera svolta.

Dopo le superiori non andai all’università. Fuiinvece assunto da un’agenzia pubblicitaria. Fa-cevo dei lavoretti semplici, come smistare la po-sta, ma i copywriter e l’art director mi davanosempre delle cose da fare. Mi chiedevano, adesempio, di inventare in poco tempo lo sloganper un whisky e io li accontentavo. Finii per in-ventarne sempre di più e, alla fine, mi promosse-ro a junior copywriter. Gli anni Sessanta a Londrafurono un periodo rivoluzionario, tutto era in tra-sformazione. Soprattutto in ambito artistico emusicale. Accadde la stessa cosa in pubblicità eio ebbi la fortuna di trovarmici in mezzo. Il mon-do della pubblicità era molto democratico: nes-suno mi chiedeva quale università avessi fre-quentato, bastava che mostrassi quello che sape-vo fare. Anche se ero giovanissimo, molti mieislogan ottennero un grande successo. Eravamoagli albori della pubblicità televisiva e ottenni unpiccolo budget per fare degli esperimenti nellacantina dell’agenzia per la quale lavoravo. Io scri-vevo la sceneggiatura degli spot, ma delle ripresee del suono si occupavano altri colleghi. Ero l’u-nico a non saper fare nulla di tecnico. Mi limita-vo a dire: «Azione!». Ad un certo punto mi ritrovaia fare io il regista, e gli spot divennero sempre piùambiziosi. Così finii per pensare che forse avreidovuto realizzare dei lungometraggi.

* * *A seconda del Paese in cui vado, mi presentano

come il regista di Fuga di mezzanotte oppure diAngel Heart, Saranno famosi, Mississippi Bur-ning, Birdy. Tutti film uno diverso dall’altro. Ma èvero che apparentemente nella mia carriera mol-

ti sono stati film musicali. Dico apparentementeperché in realtà, secondo me, appartengono a ge-neri diversi. Piccoli gangsters, per la sua struttura,è un musical hollywoodiano classico. È stato ilmio film d’esordio ed è nato in auto, mentre por-tavamo i nostri quattro figli nella casa di campa-gna, nel Derbyshire, Inghilterra settentrionale.Da Londra era un viaggio lungo, i bambini stava-no seduti dietro e io per intrattenerli raccontavoloro una storia intitolata Bugsy Malone. Il piùgrande, che aveva otto o nove anni,mi chiese se potessero essereloro i protagonisti. Fu cosìche mi venne in mentedi fare un film soltan-to con attori bam-bini. Era un’ideaassurda, ridi-cola, una diquelle coseche fai solose sei all’ini-zio dellac a r r i e r a .F r a n c i sFord Cop-pola, cheama moltoquel film,mi disse cheè il tipico filmdiretto da und e b u t t a n t esprovveduto. Eaveva ragione.Adesso non mi ver-rebbe mai in mente diimbarcarmi in un progettodel genere — tanto più che i mu-sical in quel momento erano completa-mente fuori moda. Ciò detto devo confessare cheè proprio un musical il mio film nel cassetto, quel-lo che ho scritto e che non sono mai riuscito a pro-durre: si chiama Blood Brothers, ed è una delle co-se migliori che ho fatto.

* * *Saranno famosi è un film musicale per eccel-

lenza. Ma dal mio punto di vista è semplicementeun film in cui io, da inglese, osservo la vita in Ame-rica: e cosa c’è che sintetizza la vita in America me-glio del mondo dello spettacolo? (Alla fine del filmvolevo uccidere tutto il cast. I ragazzi non eranogranché simpatici. Del resto anche io con molti diloro sono stato davvero duro).

Pink Floyd The Wallè stato invece il tentativo diraccontare una storia soltanto con la musica e conle immagini. E se The Commitmentsè stata l’espe-rienza più appassionante della mia vita, devo am-

mettere che The Wallè stata la più deprimente. La-vorare con Roger (Waters, ndr) è stato difficilissi-mo. All’inizio non era previsto che io fossi il regista,il mio ruolo era quello di produttore e avevo pro-messo a Roger che l’avrei solo aiutato a scrivere. Al-la fine, però, mi consegnò nelle mani questa suafolle idea, e io mi ritrovai a dover interpretare quelche lui avrebbe voluto dire. Alcune parti della suastoria erano molto chiare, altre non lo erano affat-to. Comunque è del tutto evidente che il problema

vero era il rapporto tra me e Roger. Nonabbiamo mai litigato per questioni

artistiche, solo per questioni diego. Lui era responsabile

del suo mondo e io delmio. E i due mondi fi-

nirono per andare asbattere. Sui titoli

di testa c’era scrit-to: “Un film diAlan Parker”; luilo fece cambia-re in “Un film diAlan Parker, diRoger Wa-ters”.

Non mi so-no divertito per

niente, fu un’e-sperienza dav-

vero patetica. Ciòdetto, devo am-

mettere che moltedelle migliori se-

quenze animate me letrovai già belle e pronte

grazie ai Pink Floyd che ave-vano organizzato un tour dal-

l’impianto molto teatrale. Avevanoalle spalle un muro gigantesco sul quale

proiettavano queste immagini. Anche la bellissi-ma sequenza dei due fiori che fanno l’amore e chepoi si autodistruggono era già pronta, come purele sequenze dei martelli in marcia e quelle del fa-scismo. Il mio compito è stato solo quello di incor-porarle nella parte di film girata dal vero.

In seguito ricevetti molte proposte per girare deivideoclip (del resto quello era anche il periodo incui veniva lanciata Mtv) ma io ho sempre rispostodi no — col senno di poi evidentemente sbaglian-do perché i videclip rendono molto. Ma franca-mente credo che la ragione del mio diniego sia sta-ta proprio il ricordo di quanto fosse stato depri-mente lavorare con Roger Waters. Gli altri membridella band erano persone fantastiche: David Gil-mour, Nick Mason. Ma lui mi fece passare la vogliadi lavorare con i musicisti. Il mondo dell’industriadiscografica, che adesso, con iTunes, è molto cam-biato, allora era squallido, peggio di quello del ci-

ALAN PARKER

Il cinema è la colonna sonora

LE VIGNETTE Da sinistra: “Abbiamo dimenticato di scrivere il nome del film”; Madonna e il suo vocal coach: “No mia cara, un’altra volta ancora: Do, Re, Mi, Fa...”; “Questo è Carl, il sequel del mio primo marito”

© A

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DR

A 2

005

Repubblica Nazionale

Programmatore

Grafico, Web designer

Consulente

Pr & Marketing

Dirigente

Giornalista

Architetto

Artista, fotografo

Proprietario di Coworking

Altro

Fino a 19 anni

da 20 a 29 anni

da 30 a 39 anni

da 40 a 49 anni

da 50 a 59 anni

oltre i 60 anni

Cosa fa

34 %

12 %

12 %

9 %

5 %

5 %

3 %

3 %

3 %

14 %

Quanti anni ha

COWORKER

1 %

31 %

44 %

18 %

5 %

1 %

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DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

Non si tratta di affittare una tavolo e due sedie a chi non ha un ufficio. E non è neppurel’ultima moda internettiana. Nato sei anni fa a San Francisco, il movimentodei coworkers si sta diffondendo ovunque (Italia compresa). Entrare a far partedel network non è difficile: basta avere un buon progetto e la vogliadi condividerlo. Parola di chi ci ha appena provato

NextMezzi di produzione

RICCARDO LUNA

C’èposta per me. «Ciao ragazzi/e,stiamo organizzando un pri-mo incontro per Fronteggiarela Crisi INSIEME. Ci troveremosulle colline reggiane il 3 e 4 di-cembre. Costi contenuti, nes-

suno scopo di lucro e voglia di stare INSIEME». Pling! «Cari hubbers, dobbiamo prendere altre

3 scrivanie per il nostro ufficio, il budget purtrop-po è tipo-Ikea, ma sarebbe carino trovare altre so-luzioni di riuso, recupero, ecc. se avete idee, do-vete liberarvi di 3 postazioni, o altro, fateci sape-re! grazie mille!!»

Pling! «Buongiorno!, sono una hubber di Ro-vereto! Vorrei chiederti se puoi mandare aimembri di Milano un evento che sto organiz-zando per Capodanno. Grazie mille davvero ebuon lavoro!»

Pling! «Cari Hubbers, provo a raccontarvi chisiamo e cosa facciamo qui nel nostro “angolo deinerd”. Le nostre case stanno per essere invase daforni, lavatrici, lavastoviglie, televisori, bilance euna serie di altri interessanti oggetti che potran-no essere virtualizzati e controllati da remoto.... Ilprogetto T. è stato concepito circa 2 anni fa comeservizio unificato per gestire tutti questi oggettied essere pronto, quando il futuro sarà presente,con la propria soluzione... Siamo qui per qualsia-si domanda».

Pling! «Buongiorno! Vi scrivo per ricordarviche domani alle 19, all’Eco Bookshop di Valcuci-ne, Lisa Casali presenterà il suo libro Cucinare inlavastoviglie. Gusto, sostenibilità e risparmio conun metodo rivoluzionario— e racconterà segretie virtù di questa tecnica apparentemente bizzar-ra ma molto salutare...».

Pling! «Ciao a tutti hubbers, credo che questoarticolo dove descrive come saranno suddivisi i

finanziamenti sull’asse innovazione sociale pos-sa interessarvi! A presto».

Benvenuti. Vi presento i miei nuovi amici. Sichiamano hubbers, vogliono cambiare il mondoe non aspettano che qualcuno lo faccia per loro.Intanto ci provano. La loro energia si chiama in-novazione, la loro arma è una startup, il loroobiettivo non sono i soldi, ma fare delle cose so-cialmente utili (e quindi cercano in genere i soldinecessari a realizzare un progetto non ad arric-chirsi). Il loro modo per farle è stare assieme: unascrivania accanto all’altra, contaminazione di in-telligenze e di idee, condivisione della rete wifi edella cucina. La loro casa si chiama The Hub,l’hanno creata Nicolò Borghi, Alberto Masetti-

Zannini e Federica Scaringella. Sta a Milano in viaPaolo Sarpi, in quello che per molti resta “il quar-tiere cinese”. Ma in realtà gli hubbers sono a casain tutto il mondo: in Italia hanno già aperto unasede in Trentino, una in Sicilia e stanno per sbar-care a Roma, Bari e Trieste. Li ho incontrati ormaiun paio di mesi fa: un giorno mi sono accorto cheil mio ufficio non era più in un luogo fisico, ma eranel mio zaino. Un laptop, un tablet, alcuni cari-catori, una chiavetta Usb. Tutto qui. Con un ami-co cercavamo un posto dove lavorare assieme aun progetto e così siamo «entrati nel network». Cihanno dato una scrivania di cartone, una pas-sword per il wifi. E siamo diventati hubbers.

Questa non è una moda, è un movimento

mondiale. Si chiama coworking. È nato sei anni faa San Francisco, quando Brad Neuberg, un pro-grammatore molto sveglio e molto hippy, preseun locale all’801 di Minnesota Street, lo riempì dimobili Ikea e in pratica disse: se vi serve una scri-vania per realizzare il vostro progetto, prendete-la. In affitto. Quel posto si chiamava Hat Factoryed è diventato un mito perché quel gesto appa-rentemente banale di Neuberg ha innescato unarivoluzione sociale. Tornate un attimo con lamente a quegli anni, in Silicon Valley: la primabolla di Internet è ormai lontana ma la ripresa de-ve ancora arrivare. In giro è pieno di smanettonigeniali che lavorano dove capita: anzi, dove pos-sono collegarsi a Internet con il loro laptop. Nei

*COWORKING

Si intende il ritrovo socialedi lavoratori che, sebbene

continuino a lavorarein modo indipendente

oltre a uno spaziocondividono alcuni valori comuni:

collaborazione,disponibilità, circolazione

del proprio sapere

80%di spazi coworking

appartengono ad aziende

private, il 13% a organizzazioni

no profit, il 7 % a istituti

governativi e altro

1129i centri coworking

in tutto il mondo,

la maggior parte dei quali

dislocati negli Stati Uniti

(531) e in Europa (467)

1999l’anno in cui viene

coniato il termine

“coworking”, dal 2005

utilizzato per indicare

uno spazio fisico

FONTE: SECOND GLOBAL COWORKING SURVEY (DESKMAG)

WORKCOLavorareinsieme

non stanca

Repubblica Nazionale

Dove sta

49 %

18 %

11 % 13 %

10 %

7 % 4 %

2 %

5% 3%

1%

65 %

Freelance, libero professionista

Imprenditore con impiegati

Impiegato di una compagnia con meno di 5 dipendenti

Impiegato di una compagnia con 6-99 dipendenti

Impiegato di una compagnia con più di 100 dipendenti

Studenti

Altro

12%

NORD AMERICA

EUROPA

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COWORKINGPROJECT.COM

Offre la knowledge base più guideoperative e legal-fiscali, usodel marchio registrato per un anno(250 - 500 euro). Il networksi compone di 54 spazi in 39 città

WWW.THE-HUB.NET

È una rete internazionale di 30 spaziche raccoglie oltre 5.000 imprenditoriNato a Londra nel 2005, il network siestende ormai sui cinque continentiTariffe dai 20 ai 790 euro al mese

WWW.TALENTGARDEN.COM

Aperto pochi giorni fa a Bresciaoffre spazi in affitto (un mese costa250 euro, un’ora 5) a professionistie startupper con background diversiper dare vita a nuove creatività

LIFEOFTHEFREELANCER.COM

Nel 2005 Brad Neuberg,un giovane programmatore, lanciail primo esperimento di coworking:all’801 di Minnesota Street,San Francisco

ESEMPI

tanti libri a loro dedicati li chiamano i nomadicworkers o “beduini”, perché vagano inseguendoreti wifi come fossero oasi di acqua, dove colle-garsi e lavorare. Il loro luogo preferito è la catenadei caffè Starbucks che offrono connettività gra-tis a chi consuma (mai i caffè sono stati tanto van-taggiosi per un cliente). In questo contesto la pro-posta del coworking spopola. Non si tratta solo diaffittare una scrivania, questo lo fanno già i busi-ness center: si tratta di stare vicini a persone checondividono passione per l’innovazione. Di en-trare in un network di creatività e voglia di fare.

Il coworking è contagioso. Due anni fa ilcopywriter milanese Massimo Carraro che avevauna sede troppo grande a Lambrate, ha provato

a farne un Cowo: il successo è stato tale che con laformula del franchising ha aperto 54 spazi in 39città. Il suo modello è molto più semplice di TheHub: hai uno spazio? Condividilo, che tu sia ar-chitetto, avvocato o designer non importa, allar-ga la tua rete. «Il coworking non è un progetto dibusiness, è un progetto di network. Quello checonta sono le persone», spiega Carraro che qual-che giorno fa ha ricevuto nel Cowo di Lambratel’assessore alle politiche del lavoro del comune diMilano, Cristina Tajani, che sta studiando il fe-nomeno per rispondere a una domanda fonda-mentale: questi luoghi possono essere uno stru-mento per combattere la disoccupazione inco-raggiando l’imprenditoria? La risposta è sì. Lo di-cono decine di ricerche che testimoniano la pro-duttività di chi sceglie questa strada (il rischiosemmai è l’eccesso di lavoro, il coworker non haorario, si ferma quando è a corto di creatività).

Ma più di tutti lo dice quanto accaduto qualchegiorno fa a Brescia. Il primo dicembre si inaugu-rava il nuovo spazio di coworking a Brescia: sichiama Talent Garden e lo ha creato un giovanestartupper di genio, Davide Dattoli. Lui ha solo 21anni, alle spalle un successo notevole con la suasocietà di social media marketing, poi la voglia difare altro, perché i soldi non sono tutto. L’idea diTalent Garden «è attrarre solo persone di qualitàche si occupano di Web e innovazione». A loro di-sposizione, 750 metri su due piani, 56 scrivanie;una bolla sospesa per pensare, una playstation,sale riunioni in vetro per vedere come lavoranogli altri. Per essere ammessi qui non basta pagare250 euro al mese, c’è un esame tosto: i 150 ragaz-zi che hanno fatto richiesta sono stati messi in ga-ra con una presentazione di cinque minuti l’una.Spiega Dattoli: «Dobbiamo contaminarci. I ta-lenti ci sono in ogni città. Se li portiamo in un uni-co posto, creeremo qualcosa di bellissimo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

40%i coworkers che frequentano

quotidianamente

gli spazi condivisi,

il 15% vi accede

solo un paio di volte al mese

53% 1MESEla durata massima di un progetto

su tre intrapreso

in uno spazio hub

Le donne impiegano meno

tempo degli uomini

gli spazi coworking

che si trovano in città

con più di un milione

di abitanti. Solo il 3%

è in piccoli centri

FO

TO

GE

TT

Y

‘‘WORK ING*Brad Neuberg

Fondatore di Hat Factory

Sembrava che la scelta fossetra l’avere un lavoro,con una struttura e dei colleghi,e l’essere un freelance, liberoe indipendente. Perché non potevoavere entrambe le cose?

Hat Factory Cowo The Hub Talent Garden

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA■ 40

DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

C’è il bollito, decisamentefemminile per tuttele attenzioni che richiedeC’è l’arrosto, così maschionel forno o alla grigliaE in mezzo ci sono gli umidi,brasati e stufatiIl freddo è alle porteaccendetei vostri fuochi

I saporiProteine

Gli indirizzi

SALUMERIA BRUNO E FRANCOVia Oberdan 16Bologna Tel. 051-233692

MACELLERIA ZIVIERIPiazza XXIV Maggio 9Monzuno (Bo)Tel. 051-6771533

LA BOTTEGA Via Porrettana 298 Sasso Marconi (Bo) Tel. 051-841143

OSTERIA BOTTEGAVia Santa Caterina 51BolognaTel. 051-585111Chiuso domenica e lunedìMenù da 35 euro

MARCONIVia Porrettana 291 Sasso Marconi (Bo)Tel. 051-846216Chiuso domenica sera e lunedìMenù da 55 euro

ANTICA TRATTORIA BELLETTIVia Lavino 499Località Monte San Pietro (Bo)Tel. 051-6767004Chiuso lunedìMenù da 25 euro

LODOLE COUNTRY HOUSE Località Lodole 325Monzuno (Bo)Tel. 051-6771189Camera doppia da 90 eurocolazione inclusa

MOLINEVENTIDUE B&BVia delle Moline 22Bologna Tel. 348-9996506Camera doppia da 120 eurocolazione inclusa

LOCANDA DEI CINQUE CERRIVia Val di Setta 121 Sasso Marconi (Bo)Tel. 051-847734Camera doppia da 85 eurocolazione inclusa

DOVE DORMIRE DOVE MANGIARE DOVE COMPRARE

Carnidell’

Le

inverno

TacchinellaDue limoni bucherellati e rosmarinoall’interno, sale, pepe e lardellatura di pancetta all’esternoIn forno per tre ore, sfumandocon un poco di vino bianco

mentari: chi fa la spesa e chi cucina, chi organizza e chi allestisce tavole e sale. Impossi-bile affrontare il tourbillon delle feste di fine anno senza il puntello di pranzi e cene pen-sati e provati. Impensabile lasciare fuori dai menù le carni, spesso cucinate all’insegnadella pazienza. È come se volessero addormentarsi nelle pentole colme d’acqua, pron-te al miracolo del brodo, del midollo, di lingua e testina che avvincono con la loro consi-stenza gelatinosa, tremolante. Al di là dei sette tagli previsti dalla religione del bollito mi-sto, innamorano le tipologie di carne, introvabili sulle tavole della quotidianità lontanodall’inverno. Un elenco che, a esclusione dei vegetariani, mette i brividi di piacere al pia-neta dei mangioni: lingua, testina, coda, zampino, gallina, cotechino, rollata, da accop-piare con salse e bagnetti assortiti (verde, rossa, al miele, mostarda, rafano, cugnà...). Nel-la tabellina del sette che regola la preparazione dei bolliti, fa eccezione il ventaglio deicontorni, composto di soli cinque alimenti: patate lesse, funghi trifolati, spinaci al bur-ro, cipolle in agrodolce e l’immancabile tazza di brodo. Se il bollito è antropologicamen-te femmina — perché esige la mediazione dell’acqua e l’accudimento domestico — gliarrosti sono irrevocabilmente maschi: forno, brace, griglia, dove domare le carni più dif-ficili, come capretto, piccione e selvaggina. Da cucinare con addosso il gilet imbottito eun bicchiere di rosso serio in mano. In mezzo, troverete i cosiddetti umidi, dove il liqui-do è alcolico (brasati) o a base di brodo (stufati). In caso di astinenza da verdure, un me-stolo di minestrone ben fatto rimetterà a posto i conti di fibre e sali minerali.

LICIA GRANELLO

aggettivo dice molto. Carnale. Che si riferisce al corpo, recita il dizionario, eleggendo iltermine libidinoso come primo sinonimo. Tutta colpa della carne, intesa come insiemedi pulsioni più o meno peccaminose. Ma l’avvento del primo freddo serio, quando il ter-mometro si avvicina a quota zero, rimanda a un altro tipo di carnalità. Perché se l’estateè fatta di sfizi leggiadri, piatti preparati in punta di forchetta, carpacci e crudité, cottureimpalpabili e salse lievi come un tulle, l’inverno si porta appresso la voglia di ricette piùsostanziose e robuste. Carnali, appunto. A inizio di dicembre, le cucine di casa scaldano

i fornelli in vista del superlavoro natalizio. Sono i giorni in cui si comincia a indagare conil macellaio di fiducia se ha sempre quell’amico che alleva polli felici, maiali cresciuti consiero di latte e verdure invece che a mangimi, mucche lasciate libere di brucare in pace.Una sorta di allenamento culinario, a colpi di farciture tradizionali e mix di spezie, pen-tole in formato maxi e trinciapolli nuovi di zecca, memoria di ricette d’antan e trucchid’autore imparati tra giornali, Internet e tv. Dicembre richiama tutti ai propri doveri ali-

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Dal pentolone alla braceL’

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

LA RICETTA

Per il risotto

280 gr. di riso vialone nano

100 gr. di caprino

30 gr. di latte intero

30 gr. di cipolla

50 gr. di olio extravergine

brodo di carne qb

Per la battuta di agnello

130 gr. di carne magra

1 foglia di maggiorana

2 gr. buccia di arancia

sale e pepe qb

Per il purè di topinambur

150 gr. di topinambur

30 gr. di cipolla

50 gr. di extravergine

Risotto mantecato al caprino, battuta di agnello e topinambur

FaraonaFarcitura con salsiccia rosolata, Parmigiano,pane ammollato nel latte, uovo sbattuto. A piacere:castagne, prosciutto, funghi. Servire con patate

Bollito mistoSette tagli di polpa (tenerone, spalla, scaramella,muscolo, stinco, fiocco, cappello del prete), setteammennicoli (dalla lingua alla gallina) e sette salse

SpezzatinoVitello, manzo, asino, agnello: bocconi di spalla o polpa, spadellati e infarinati, bagnati con vino e brodo. A bollore, passata di pomodoro e odori

CapponeCipolla, sedano, carota e pepe per aromatizzarel’acqua di cottura. Quando bolle mettere il capponetogliendo la schiuma. Brodo ottimo per i tortellini

CaprettoTagliato a pezzi, marinato mezz’ora nel vino bianco,asciugato e rosolato. Poi in forno, con pomodori e rosmarino. A metà cottura aggiungere le patate

BrasatoMarinatura nel vino rosso, con carota, sedano,alloro, chiodi di garofano, noce moscataIn casseruola a rosolare e due ore di cottura col vino

l viaggionella grassa Emilia, patria di carni squisite e di celebrati salumi,mi piace farlo in compagnia di Ortensio Lando, medico e letterato mi-lanese, che nel 1548 pubblicò un singolare Commentario delle più no-tabili e mostruose cose d’Italia e d’altri luoghi, raccontando il nostro Pae-se da un punto di vista gastronomico: come attraversarlo, e conoscerlo,da sud a nord, fermandosi di città in città ad assaggiare le migliori spe-cialità alimentari che i vari mercati potevano offrire. A Bologna, racco-mandò di non tralasciare per nulla al mondo i meravigliosi «salcicciot-ti», «i migliori che mai si mangiassero», buoni crudi, buoni cotti, buoniin qualsiasi momento della giornata: «a tutte l’ore ne aguzzano l’appe-tito» e fanno apparire il vino saporitissimo, «ancora che svanito e scia-

pito molto sia». Lando — acui piaceva «portarnesempre nella saccoccia»— rivolge un grato pensie-ro a chi seppe inventarli:«benedetto chi ne fu l’in-ventore, io bacio e adoroquelle virtuose mani».

La grassa Bologna fu ce-lebrata, nei secoli, ancheper l’abbondanza di gra-

no, di verdura, di frutta: l’uva e le olive delle sue campagne, gli enormicardi e i finocchi dolcissimi facevano mostra di sé sui banchi del merca-to e stupivano i viaggiatori. Ma erano soprattutto le carni a essere cele-brate. Giusto al confine fra l’Emilia del maiale e la Romagna della peco-ra, Bologna sembrava sintetizzare la ricca cultura gastronomica di que-sta regione, le sue antiche e differenziate vocazioni produttive. All’avvi-cinarsi del Natale, però, queste differenze sfumavano: il predominio delmaiale e della pecora lasciava il posto ad altri animali, ad altre carni. At-torno ai grandi bolliti di manzo tutti si stringevano, mentre in pentolabolliva il cappone, «quel rimminchionito animale» (come lo definiràPellegrino Artusi) «che per sua bontà si offre nella solennità di Natale inolocausto agli uomini».

Sulla strada

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I

Ingredienti per 4 personePurè

Rosolare la cipolla e aggiungere i topinambur, lasciandone

da parte uno. Stufare, coprendo con acqua, frullare e passare

al setaccio. Friggere il topinambur rimasto tagliato sottile (chips)

Battuta

Battere la carne al coltello, condire con sale, pepe, buccia di arancia e maggiorana

Formare un cerchio con la battuta di agnello di 3 mm di spessore e conservare in frigo

Risotto

Preparazione classica del risotto. Poi aggiungere di tanto in tanto il purè

Mantecare con il caprino ammorbidito con latte e olio extravergine di oliva

Nel piatto

Versare un mestolo di riso al centro, adagiarvi sopra il disco di agnello,

dei cucchiai di purè di topinambur, le chips e qualche fogliolina di maggiorana

Emilia e Romagnaunite dal capponeMASSIMO MONTANARI

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Valeria Piccini gestiscecol marito Maurizio“Da Caino” nel cuore della Maremma, terradi grandi carni, preparatecon maestria comein questa ricetta ideataper i lettori di Repubblica

Repubblica Nazionale

LA DOMENICA■ 42

DOMENICA 4 DICEMBRE 2011

A dieci anni ubbidì alla mammae si iscrisse alla scuola di ballodi Kiev. A diciotto era già protagonista

al Mariinskijdi San PietroburgoPoi, étoile al Bolshoie ospite alla Scaladove tornerà a febbraioUna carriera, dice,pagata a caro prezzo“La fatica

spesso è terribile,la stanchezza sembranon abbandonarti maiEppure si va avanti”

ROMA

Era un bel po’ di tempo chenon si vedeva una diva co-sì nel mondo della danza,adorata da gruppi di devo-

ti fan, oggetto di venerazione per schie-re di ragazzine, guardata con incantodal pubblico, contesa dai teatri interna-zionali. Svetlana Zakharova, ucraina, lapiù grande artista del balletto mondia-le, étoile al Bolshoi di Mosca, étoileospite alla Scala di Milano, Artista Eme-rita della Russia, cancella ogni traccia didivismo fuori dal palcoscenico. Entranel salottino al secondo piano del Tea-tro dell’Opera di Roma — dove solo unpaio di mesi fa è stata applaudita inun’edizione sfolgorante de La Bayadè-re di Minkus — e non cammina con laleziosità che le ballerine classiche spes-so mantengono nella vita quotidiana. Èuna ragazza di trentadue anni, in jeanse maglioncino grigio, alta, sottile, i ca-pelli neri sciolti sulle spalle, senza un fi-lo di trucco e il celebre corpo — capacedi esprimere tenerissimi amori e strug-genti solitudini, come nell’indimenti-cabile Odile del trionfale Lago dei cigni,nella piccola Masha de Lo schiacciano-ci, nella bella Giselle o nella seduttivaamante de L’histoire de Manon — leg-gero come un velo di organza.

Pallida, timida, si siede in un angolodel divanetto ottocentesco. La schiena

dritta, simpatica e sfuggente, a tratti du-ra, innanzitutto con se stessa: «Se il ri-sultato di quello che faccio piace allagente ed è un ideale per tutti i ballerinigiovani, ne sono felice — dice parlandoin russo perché con l’inglese non riescea raccontarsi — Ma quando ballo nonpenso al successo. Sono molto criticacon me stessa, non mi sento mai, nean-che per un momento, un’artista ecce-zionale». Eppure in quattordici annicinquantaquattro spettacoli di cui unatrentina da artista ospite, sonouna cosaeccezionale. Collegi, scuole, insegnan-ti materne e severe, concorsi, e poi tan-ta disciplina, la disciplina tremendadelle lezioni e degli allenamenti, unaprigione da cui non si scappa. «E pensa-re che da piccola non sognavo di diven-tare una ballerina. Quando a dieci annimi sono iscritta alla scuola di ballo diKiev, era perché lo voleva mia mamma.Io ho obbedito. Ricordo che c’eranotanti bambini, mi sembravano tuttibravi, sicuramente più di me e tutti conla voglia di vincere. C’era chi facevaquella selezione anche per la terza vol-ta. Non pensavo di riuscire a entrare. Einvece mi presero. Mi sentii per la primavolta molto importante», racconta. «Mitrasferii a Kiev da sola. Seguivo le lezio-ni, mi allenavo, tutto mi veniva natura-le. Lo dicevo al telefono a mia madre elei mi rispondeva: “Vai avanti, sembrafacile ma devi studiare se vuoi impara-re e se vuoi che la scuola ti sia utile”».

La vita di Svetlana sembra un ro-manzo ottocentesco che racconta unastoria di fatiche e vittorie, di severità econquiste. «Mi alleno regolarmentecinque-sei ore al giorno. Quando c’èspettacolo lavoro tutta la giornata, sen-za orario. La fatica spesso è terribile, lastanchezza sembra non abbandonartimai. Ma si va avanti. L’ho imparato finda bambina. Non sono mai stata una ra-gazzina dal fisico forte, mi sono dovutaabituare alla disciplina, agli allenamen-ti. È stato difficile, ho dovuto forzare ilmio corpo alle regole della danza. Maho avuto il sostegno di mia madre e so-prattutto delle mie insegnanti». Nomidi peso nel balletto, Olga Moiseyeva,Ludmilla Semenyaka che ancora oggi lasegue al Bolshoi da ex grande ballerinadi quel teatro e che ha aiutato Svetlanaa cambiare stile, a trovare nuovi ruoli.

Per fare carriera bisogna camminaresulle proprie gambe e Svetlana ha cor-

so, bruciando le tappe. Nel ’95 parteci-pa alla International Young Dancer’sCompetiton, ha solo sedici anni, arrivaseconda. È così brava che la celebre ac-cademia Agrippina Vaganova di SanPietroburgo la chiama: per età ed espe-rienza dovrebbe frequentare il secondocorso e invece viene messa al terzo, laclasse del diploma. «Essere presi all’isti-tuto Vaganova voleva dire essere al topdella danza. Io ero la più piccola di tuttigli allievi. Sentivo che dovevo impararetutto. Ancora una volta mi sono messasotto e ho lavorato». Ottiene il diplomaa diciott’anni e stavolta a contattarla è ilprestigioso Teatro Mariinskij: senzanemmeno farla passare per il corpo diballo come vorrebbe la consueta trafila,Svetlana a quell’età viene messa neiruoli di protagonista. Giselle, Aurora neLa bella addormentata, Sherazade…

«Come cambiò la mia vita! Innanzitut-to ci trasferimmo a San Pietroburgo,mia madre e io. Per me fu uno shock. Maancora oggi dico grazie agli insegnanti.Sono onorata che le più grandi balleri-ne del Mariinskij siano state mie inse-gnanti. La loro per me è stata una lezio-ne di vita. Il Bolshoi? Certo ci sono affe-zionata, è il teatro dove ho costruito ilmio stile, ma il Mariinskij fa parte dellamia formazione. Al Bolshoi ci arrivai nel2003: era la quarta volta che mi chiama-vano, fino a quel momento avevo sem-pre detto di no perché stavo bene a SanPietroburgo. Solo in quel momento misono detta: ok, adesso è ora di cambia-re». Partita dalla cima è rimasta semprein vetta. C’è chi dice che più della tecni-ca, la vera dote di Svetlana sia naturale:il suo corpo. Per essere una ballerina èalta (1,70) ma trovare le sue proporzio-ni è raro: testa piccola, ossa minute, col-lo del piede giusto e gambe lunghe condoti di estensione straordinarie e capa-ci di una velocità di esecuzione rara. «Sì,so che c’è qualcosa di speciale nel miofisico. Quando ero a scuola anche gli al-tri studenti lo vedevano. Io non me nesono accorta subito. Anche perché pernon fare differenze tra me e gli altri al-lievi, durante l’anno gli insegnanti midavano gli stessi voti dei miei compa-gni, non ero una prima della classe. Maa fine anno quando c’erano i saggi e ar-rivava la giuria esterna, i miei voti eranosempre i più alti e le note eccellenti».

A febbraio tornerà in Italia, sarà allaScala con Giselle e a maggio con Mar-guerite e Armand-Concerto Dsh di Ash-ton. Per tutto il 2012 non ha un mo-mento libero: «La danza è tutta la mia vi-ta: tutti i grandi classici li ho ballati, il La-go dei cignil’ho fatto in nove versioni di-verse. Il moderno? Ho ballato con Neu-meier (Now and Then), Bojarskij(Young Lady and the Hooligan), Rat-mansky, ma non molto altro perchécontinuo a preferire il classico». È statamembro della Duma dove ha lavorato aun progetto per i ragazzi «per costruirescuole, perché è importante crearestrutture dove i giovani possano speri-mentare e studiare in buone condizio-ni. E infondere la voglia di imparare co-me è successo a me. Se il balletto russoè conosciuto in tutto il mondo non è so-lo per l’eccellenza tecnica che si inse-gna nelle nostre scuole, ma perché ci siiscrivono tanti ragazze e ragazze: c’è

una scelta amplissima ed è ovvio chequesto permette anche di poter sele-zionare il meglio».

Mai ribellata alla mamma? Alla disci-plina? Alla fatica della danza? Per la pri-ma volta Svetlana sbotta in una granbella risata: «Ribellata? No mai — sischernisce davanti a una domanda chele deve apparire surreale — Ma confes-so che il periodo più bello è stato quan-do ero incinta. Non solo perché tuttierano attorno a me, ma perché final-mente mi potevo riposare». Ma intantosi è già messa in testa che Anja, nata dalmatrimonio con il celebre violinista Va-dim Repin, diventerà ballerina. Vivonotutti e tre a Mosca: mamma e papà qua-si sempre in tournée, la bambina affi-data alle cure della nonna che si è tra-sferita nella capitale dall’Ucraina.«Anja ha solo otto mesi. È un po’ presto,ma sarebbe bello se ballasse. Ho chiestoa mio marito: “Ti piacerebbe che diven-tasse una violinista?” “Per carità”, mi harisposto lui. Bene, mi sono detta, a meinvece farebbe piacere se diventesseuna ballerina. Nonostante la fatica, vor-rei che imparasse anche lei quello cheho imparato io. Quando ero alla scuoladi Kiev una maestra bravissima ci dice-va: quando ballate dovete pensare nonsolo a muovervi o alla tecnica o al bel ge-sto armonico. Per ballare ci vuole testa.Non si può essere stupidi. Ecco il segre-to: la bravura di una ballerina non stanella gambe, ma nella testa».

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L’incontroStelle

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Il periodopiù felicedella mia vitaè stato quandoero incintaFinalmentemi sonopotuta riposare

SvetlanaZakharova

ANNA BANDETTINI

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Repubblica Nazionale