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LA CULTURA E IL MONDO DEGLI IMPIEGATI

1. Quelli dalle mezze maniche: organizzazione burocratica e cultura dell’impiegato pubblico

Alla fine dell’Ottocento in una rassegna di scene della vita burocratica un anonimo Fausto (Rinaldo de Sterlich) descrive il tipo-Travet, l’impiegato del vecchio stampo, pedante, formalista, di poca levatura, cocciuto, identico in tutti i sette Stati dell’Italia preunitaria.Il cappello a cilindro in ragione del grado e dello stipendio del Funzionario, la cravatta nera di seta o di lana, l’abito nero o di colore molto cupo, di taglio antiquato in ritardo sulla moda del giorno. I pantaloni neri con disegni a quadrettini o a righe. Il gilè che poteva essere in velluto di seta, in raso o in stoffa di seta di colore nero o colori sobri. Era usato anche il gilè bianco, di cascimir o di piquet. In inverno un ombrello monumentale spesso color verde pistacchio, in estate il bastone d’india o di zucchero o perfino d’ebano per i gradi più elevati con pomo d’osso, d’avorio, d’argento e raramente d’oro.Con gli anni 80 e 90 l’impiegato cambia, si confonde con i rappresentanti della grande borghesia, si atteggia a uomo elegante seguendo i dettami della moda trovando nell’abbigliamento il modo per mimetizzarsi nella classe media in ascesa.L’impiegato pubblico del 1861 è lo specchio fedele dell’Italia sabauda e piccolo-borghese: piemontese, monarchico, moderato, sostenitore degli ideali risorgimentali. I concetti chiave del way of life del funzionario dello Stato sono sobrietà, decoro e compostezza.L’abbigliamento e i costumi di vita debbono riflettere i tratti e i valori della nuova borghesia nazionale. L’impiegato deve rappresentare la dignità e l’autorità dello Stato ed essere d’esempio e di guida agli italiani.La sua carriera, divisa in nove livelli, inizia con un esame d’idoneità e con l’ammissione al posto di volontario, si apre così un lungo periodo di apprendistato negli uffici durante il quale l’aspirante impiegato statale deve sostenere sacrifici economici in proprio. Si riteneva che l’apprendistato e la formazione professionale si realizzano attraverso un inserimento diretto dell’aspirante nella routine del lavoro burocratico.Dopo il periodo del volontariato un nuovo esame consente la promozione ad applicato di 4a classe. Gli avanzamenti successivi sono regolati dal criterio misto dell’anzianità e del merito. Esistono comunque già negli anni 70 esempi di carriere rapide e brillanti ma sono casi isolati, la norma è piuttosto una progressione lenta legata al maturare dell’anzianità oppure di un interscambio di uomini di alto livello tra politica e amministrazione.La vita interna dell’amministrazione postcavouriana è regolata da una minuziosa serie di disposizioni che è la stessa normativa sui diritti e i doveri dei dipendenti.

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La spina dorsale del nuovo Stato è costituito dal modello piemontese e dal personale sabaudo, inoltre gli assetti amministrativi dello Stato costituzionale si consolidano sul criterio dell’unità gerarchica.Pierfrancesco Casula ha scritto che “la struttura ministeriale, intesa come struttura esclusivamente gerarchica, comportava una soluzione totalmente e puramente gerarchica dei problemi del personale e dei rapporti di servizio”.Anche il viaggio delle pratiche appare in partenza meticolosamente ordinato secondo uno schema che implica già la scelta di un metodo di lavoro. Nel regolamento del 1853 un cospicuo numero di articoli è dedicato a predisporre con minuziosa cura i rapporti tra i vari uffici sulla base della subordinazione di quelli inferiori ai superiori, inoltre vengono istituiti il protocollo e l’archivio. Il protocollo generale di ogni Ministero è una fitta rete di registrazioni, di annotazioni, di rimandi che da sola assorbe gran parte dell’attività degli uffici. La comunicazione scritta sostituisce completamente quella orale.L’archivio generale del Ministero è la memoria storica dell’amministrazione: qui l’accumulazione degli atti riflette i precedenti dell’esperienza amministrativa e costituisce dunque l’indispensabile premessa dell’attività corrente.La moltiplicazione dei controlli, il criterio-guida della legalità formale, la struttura rigidamente gerarchico-discendente governata dal principio della subordinazione tra gli uffici rappresentano altrettanti corollari di questa concezione generale dell’attività amministrativa. In questo tipo di Stato-controllore si viene a manifestare la necessità di un pubblico impiego che sia soprattutto formato da “legisti”, cioè da uomini capaci di conoscere le leggi per applicarle in via di giustizia ai cittadini.

2. L’irresistibile ascesa di Monssù Travet: il burocrate dell’Italia unita

La burocrazia italiana, scriveva nel 1868 Pasquale Villari, era formata da gli impiegati dei vecchi governi, i liberali delle nuove province e finalmente i piemontesi. La componente piemontese resta predominante e imprime continuità all’Italia unita con l’esperienza amministrativa del Regno di Sardegna.L’innesto degli elementi liberali delle nuove province viene assorbito senza traumi. Diverso è il caso dell’immissione degli impiegati dei vecchi governi nell’amministrazione italiana. In questo caso si pongono a confronto più esperienze della stessa natura, delicate questioni di equilibrio, riforme del modo di pensare e di lavorare dei nuovi reclutati. Esigenze politiche hanno indotto ad una politica di reclutamento generosa, attenta a non provocare nuove lacerazioni, disponibile a pagare dei prezzi in termini di più ridotta funzionalità dell’apparato.Quel blocco di forze regressive che era sembrato messo ai margini con la detronizzazione degli antichi sovrani, durante gli anni ’70, rivitalizza la propria iniziativa e rientra nel gioco politico, proponendosi come una componente essenziale del fronte moderato. Per la sua conformazione sociale e culturale, la burocrazia appare come il canale naturale tramite il quale la vecchia società può perpetuarsi nella

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nuova e portarvi i valori sui quali costruire l’Italia borghese e moderata: il senso dello Stato, il rispetto dell’autorità costituita, l’organizzazione gerarchica dei rapporti tra gli uomini.È su questo terreno che le fratture interne alla burocrazia postunitaria si ricompongono e nasce la classe dirigente nazionale.Si afferma la lingua dei burocrati, gli arcaismi e le innovazioni più audaci si mescolano sotto la penna degli amministratori.Una sorta di codice non scritto, appreso nella pratica amministrativa e riprodotto ad ogni livello, impone i moduli di uno stile amministrativo che si afferma uniformemente in ogni ufficio dell’amministrazione.Nella dirigenza amministrativa, la cooptazione di elementi non piemontesi non arreca alcuna perturbazione. L’identificazione dei vertici della piramide gerarchico-burocratica con i destini dell’Italia nuova è totale e senza esitazioni. Lo scambio tra carriere politiche e carriere amministrative è la norma per una classe dirigente che garantisce al paese competenza tecnica nel governo e sensibilità politica nell’amministrazione salva la moralità pubblica. L’alta dirigenza amministrativa non sente ancora l’esigenza di stabilire argini e difese a garanzia della propria funzione. L’identità culturale e sociale con il personale politico e soprattutto la solidarietà tra il Ministro e i propri burocrati appaiono senza residui.La cultura amministrativa si compone di apporti tecnico-giuridici e di contributi maturati all’esterno dell’apparato burocratico statale, è il caso dell’organizzazione dei servizi statistici, alla cui direzione viene chiamato dal 1872 Luigi Bodio.Bodio è un tipico esponente della nuova èlite amministrativa d’avanguardia maturata dopo l’Unificazione. Laureato in giurisprudenza , soggiorna a Parigi maturando una solida formazione economica e statistica, insegna statistica ed economia in diversi istituti, viene nominato docente alla Scuola superiore di commercio di Venezia e poi chiamato a dirigere i servizi statistici del Regno. L’ambizione più significativa appare quella di inserire nella cultura dell’amministrazione una specialistica preparazione economico-statistica. Il tentativo di Bodio fallirà.Nel Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio (quello di Bodio) matura una leva di amministratori attenti al rapporto Stato-società, dotati di una cultura non esclusivamente formalistico-giuridica: oltre agli uomini di Bodio si possono ricordare figure come quella di Nicola Miraglia, Vittorio Ellena, Filippo Grisolia e Antonio Teso.Ed è proprio nell’amministrazione dell’Agricoltura, Industria e Commercio che soprattutto si sviluppa l’esperienza degli organi consultivi, dei consigli e delle commissioni permanenti. In questi consessi si confrontavano esperti e studiosi, burocrati del Ministero e rappresentanti delle istituzioni agrarie, c’era l’esigenza di uno scambio con l’esterno, il modello di un’attività amministrativa capace di rispondere alla domanda che proviene dalla società.

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Verso la fine dell’Ottocento, se l’alta burocrazia si confonde con l’alta politica, la massa della piccola burocrazia è come attraversata da un disagio crescente, sia per i rigori dell’autoritarismo gerarchico sia per l’insufficienza dello stipendio mensile. Il ceto intermedio che trae i suoi redditi dallo Stato, comincia ad assumere coscienza della propria specifica collocazione sociale subalterna. La forbice tra stipendio minimo e massimo è molto ampia ed i disagi economici della condizione impiegatizia sono evidenti. Circa la metà degli impiegati pubblici guadagnano meno dei muratori e dei manovali.Di questo impiegato della seconda metà del secolo, modesto e mediocre, rassegnato e fedele all’angustia della sua vita d’ufficio, eroe oscuro e disprezzato dell’amministrazione pubblica, Vittorio Bersezio ha tracciato un proverbiale ritratto nella sua commedia Le miserie di Monssù Travet.Nella figura di Travet vengono al pettine i nodi e le contraddizioni che attraversano la collocazione sociale del burocrate. Innanzitutto il contrasto tra la percezione dell’impiegato regio di adempiere una funzione privilegiata e le sue miserie economiche; poi, come osserva Romano, la polemica di coloro che criticavano il sentimento di falso decoro e di spirito di corpo che spingeva i funzionari del tempo a tenere a distanza come diversi ed inferiori i ceti attivi degli artigiani, dei ricchi bottegai e dei commercianti. I secondi vedevano l’inizio di una nuova epoca di sviluppo economico capitalistico moderno che doveva segnare il tramonto del burocratismo e dei rapporti sociali connessi, i burocrati invece tenevano a distanza tali personaggi e li consideravano come diversi e inferiori.Elemento non secondario nel personaggio e nella storia l’attaccamento a quei valori che rappresentano il codice morale del burocrate dell’età liberale e forse un decalogo valido anche più oltre, per un’intera classe sociale medio e piccolo-borghese, per un’intera società nazionale. Questi valori sono: la famiglia, il dovere, il lavoro, la lealtà verso le istituzioni, l’obbedienza ai superiori gerarchici, il decoro, il senso dell’onore, l’onestà.

3. La vita quotidiana negli uffici: le preziose qualità dell’uomo senza qualità

Nell’Italia umbertina l’impiegato pubblico rappresenta una sorta di eroe borghese e un esempio per gli italiani. Le qualità di quest’uomo senza qualità che è appunto l’impiegato statale sono dedotte dalla conoscenza diretta dell’amministrazione e delle sue norme di funzionamento: il lavoro burocratico ha bisogno di ordine, di compostezza, di culto della regola. E la giornata del burocrate, dentro e fuori l’ufficio, deve necessariamente uniformarsi alla stessa meticolosa, ossessiva ripetitività, all’identica costanza di comportamenti. Appare chiaro il significato della regolarità e della precisione nella cultura dell’impiegato nelle pagine del Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi: la prevedibilità dell’ufficio rappresenta, per il suo personaggio, il riparo contro l’imprevedibilità del mondo esterno, il silenzio e l’ordine del lavoro si contrappongono al clamore e alla sregolatezza di una società

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che egli sente ostile e dalla quale cerca di sfuggire. La sua sicurezza di copista contrasta con le sue insicurezze di uomo fragile.C’è in Pianelli quello stesso senso di estraniazione sociale che più o meno in quegli stessi anni Luigi Pirandello coglierà acutamente attraverso il personaggio dell’impiegato Bellica, protagonista della novella Il treno ha fischiato…Nel mondo chiuso dell’amministrazione persino la disposizione degli spazi, il posto occupato dai mobili, le differenti distanze tra le scrivanie, la comodità o la scomodità delle sedie concorrono a stabilire in partenza, quasi automaticamente, i rapporti gerarchici. L’ambiente di lavoro come riflesso dell’ideologia gerarchica che governa l’amministrazione. I locali burocratici sono concepiti come stanze separate per un lavoro che deve restare essenzialmente individualistico e separato, la distanza da un ufficio all’altro nello stesso Ministero, marcata dagli interminabili corridoi, rende gli ambienti incomunicabili tra di loro. Le scalinate d’accesso incutono al cittadino l’immagine severa di un’amministrazione irraggiungibile, ma rendono obiettivamente più lento il fluire dell’attività amministrativa. Con il crescere delle dimensioni dei ministeri si accentua il carattere di isolamento e di separatezza tipico dell’amministrazione pubblica.Nel 1881 la riforma generale dei ruoli organici e degli stipendi ha ridotto la forbice tra i redditi delle diverse categorie di impiegati, introdotto notevoli miglioramenti economici, riequilibrato la condizione del burocrate di Stato rispetto a quella di altre fasce di lavoratori privati.Livelli di remunerazione adeguati, più stabile collocazione all’interno dei ceti medi urbani: a queste due fondamentali trasformazioni se ne accompagna in quest’ultimo scorcio di secolo una terza, che risulterà decisiva nella connotazione della burocrazia italiana del Novecento, la meridionalizzazione dell’impiego pubblico. Con l’incremento della partecipazione meridionale ai ranghi amministrativi si afferma definitivamente una cultura burocratica essenzialmente umanistica e retorica nonché influenzata dalla visione dello Stato proprio dell’hegelismo napoletano e poi dall’idealismo di Croce e Gentile.Questione burocratica e questione meridionale tendono a divenire due aspetti di una stessa contraddizione: il tema della burocrazia si incrocia con l’arduo problema della costruzione del consenso. Le tensioni più acute sollevate dal rapido e disordinato sviluppo delle città trovano un utile correttivo nella moltiplicazione dell’impiegato, figura sociale intermedia la cui sola presenza può stemperare lo scontro di classe, ridurre il tasso di proletarizzazione nella popolazione dei grandi centri urbani, costituire un’insormontabile barriera di “idee rette” e di fiducia nelle istituzioni di fronte alla minacciosa crescita dei “ceti sovversivi”.Dopo il 1870 a Roma si pone il problema di concepire lo sviluppo della città secondo un disegno di riordinamento urbanistico nel quale si attenuino le tensioni e si eliminino le potenziali cause di conflitto. Lo schema è il seguente: “liberare” il centro dalle classi operaie, immettendovi invece stabili e compatti insediamenti di piccola

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borghesia burocratica, saranno gli edifici pubblici la spina dorsale del centro storico, in primo luogo i ministeri.

4. L’età di Crispi e la nuova professionalità burocratica

La “riforma dello Stato” di Crispi inizia a far intravedere la realtà inedita di una pubblica amministrazione che in base alla professionalità e al sapere amministrativo tende a sollecitare una precisa rivendicazione di autonomia rispetto alla politica.Con l’abolizione crispina dei segretari generali nei ministeri viene di fatto a mancare il raccordo tra guida politica degli apparati e corpo burocratico. Emerge un interlocutore sinora assente, che tenderà ad inserirsi nella dialettica governo-parlamento per il controllo dell’amministrazione imponendo la realtà della propria influenza: l’alta burocrazia dei ministeri.La riforma Crispina, con i suoi obiettivi della maggiore efficienza, della responsabilità e dell’accentramento del potere sotto il controllo di un esecutivo “forte”, deve necessariamente far leva su un personale amministrativo che sia posto al riparo dall’ingerenza parlamentare e acquisisca nuove specifiche competenze. La burocrazia assume un ruolo centrale: da un lato una serie di interventi legislativi ne migliora l’organizzazione, ne razionalizza e uniforma i compiti; dall’altro perché i nuovi obiettivi “sociali” dello Stato degli anni Novanta e la concezione originale crispina dei poteri pubblici fanno emergere l’esigenza di un burocrate nuovo, meglio selezionato e tecnicamente più preparato.Con gli ultimi anni Ottanta si afferma una supremazia di fatto del Ministero degli Interni, emerge cioè la leadership di una burocrazia-guida. Questo era anche il ministero del Presidente del Consiglio che oltre a governare polizia e funzioni di intelligence, teneva rapporti con i notabili locali tramite i prefetti e controllava i poteri locali.Emerge in questo periodo crispino una nuova preparazione burocratica, accanto a quella generica ed unitaria se ne affianca una più professionalizzante, più specifica e più tecnica che va a correggere la tradizionale preparazione giuridico-amministrativa.Per l’accesso al Ministero dell’Interno nel 1888 viene introdotto il concorso per il personale di 1a categoria. Si prevede un esame incentrato su una vasta rosa di discipline giuridiche, economiche, statistiche, storiche, geografiche, linguistiche, aritmetiche, contabili. Per le categorie inferiori si imposta l’esame sulla conoscenza delle leggi e dei regolamenti amministrativi, della contabilità generale, della scrittura in partita doppia, dell’aritmetica, dell’algebra, dei conti. È previsto un lungo periodo di volontariato gratuito.Alla fine dell’Ottocento, accanto al vecchio personale post-unitario emerge la figura di un burocrate parzialmente diverso, che tende a risolvere la crisi d’identità nata dalla legislazione crispina in una scelta più precisa a favore della professionalità.La fine del secolo rappresenta per il mondo burocratico una svolta decisiva. Vengono gradualmente meno le condizioni che avevano reso possibile i legami senza soluzione

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di continuità tra carriere politiche e carriere burocratiche. Nel giro di dieci anni tutta la vecchia classe dirigente non esiste più. All’incertezza dei tempi nuovi l’amministrazione reagisce burocratizzandosi. È in questi anni, tra l’ultimo scorcio del secolo e gli inizi del decennio giolittiano, che il burocrate italiano scopre definitivamente una propria identità culturale. In certi settori dell’alta burocrazia matura ora definitivamente una tendenza a prendere le distanze dal mondo della politica.

5. Il «proletariato degli uffici» e la riforma dell’amministrazione

Agli inizi del secolo il rapporto politica-amministrazione era cambiato, non c’era più l’osmosi degli anni precedenti ma vi è una burocrazia che muta al mutare della domanda politica e sociale che mantiene il ruolo di fattore stabilizzante “interiorizzando” tutte le contraddizioni della nuova epoca.La Pubblica Amministrazione diviene ora la camera di compensazione degli interessi particolari che penetrano nello Stato macchina.Cambia anche la cultura dei burocrati, vi è una maggiore sensibilità per le garanzie di corpo, si parla anche di autogoverno della burocrazia.La figura dell’impiegato dello Stato diventa ora una componente fondamentale di quella dialettica tra gruppi ed interessi su cui si fonda il disegno di mediazione politica e sociale di Giolitti.Infine maturano nell’amministrazione pubblica processi di revisione culturale di notevole portata: all’ideologia gerarchica-autoritaria si contrappone la rivendicazione dei diritti degli impiegati nell’ambito di un’impostazione garantistica; si manifesta una polemica che, in nome dell’efficienza e della semplificazione, investe i controlli inutili.La diffusione e lo sviluppo dell’organizzazione sindacale nel pubblico impiego rappresentano un fattore di trasformazione della mentalità, della cultura del burocrate. La figura del burocrate, legato alla funzione e al mito della gerarchia, tipico del travet ottocentesco, acquista nuovi connotati essendo consapevole del proprio ruolo e dei propri diritti inalienabili.Per quanto riguarda il sindacalismo amministrativo in Italia possiamo ricordare le Associazioni generali degli impiegati che avevano scopi mutualistici, ricreativi e organizzavano attività sociali, culturali e di formazione. Abbiamo poi le associazioni degli impiegati delle amministrazioni centrali, i c.d. centralismi che pongono al centro del loro programma e che diverrà la rivendicazione chiave di tutto il movimento sindacale del primo quindicennio del ‘900: la riforma dell’organico.Le forme organizzative più mature sono tuttavia le Camere federali e le Federazioni nazionali degli impiegati che si pongono come obiettivi chiave: l’organico, i miglioramenti retributivi, la tutela del dipendente dall’arbitrio gerarchico, la difesa della libertà sindacale, lo stato giuridico. Nelle Federazioni matura anche un nuovo

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tipo di militanza sindacale: alla figura di un organizzatore improvvisato si sostituisce ora una leva di impiegati-sindacalisti generalmente orientati in politica verso il socialismo riformista di Turati, lettori e collaboratori dell’«Avanti! » e di «Critica Sociale». Nasce una nuova agguerrita élite burocratica che immette suggestioni riformatrici nel mondo chiuso del pubblico impiego.Antonio Campanozzi è un protagonista di questa trasformazione culturale. A 15 anni entra nell’amministrazione Postelegrafica e diventa presto funzionario modello che unisce una aggiornatissima preparazione tecnica alla sensibilità per i problemi di funzionamento dei servizi e del rapporto amministrazione-cittadino. La sua formazione si completa con una laurea in scienze naturali e con la passione per la letteratura. Dal 1907 Campanozzi diverrà consigliere comunale di Roma per il partito socialista. Ma molti altri giovani funzionari si orientano verso le idee socialiste. Nasce quindi, già nei primi anni del 900, una diversa cultura burocratica, largamente influenzata dalla propaganda sindacale, ma il fenomeno resta minoritario e circoscritto a una sola parte dell’amministrazione italiana non riuscendo così a scalfire le roccaforti ideologiche tradizionali ma le tensioni sono comunque indicative di un processo di trasformazione culturale di cui i segnali più indicativi sono rappresentati dalla diffusione della stampa sindacale e dai congressi di categoria.Sulle pagine della stampa sindacale l’impiegato medio può conoscere la legislazione che lo riguarda, discutere i problemi della carriera e della retribuzione, venire a contatto con la propria categoria. L’impiegato quindi legge, si informa, discute e anche la stampa d’informazione inizia a seguire con maggiore attenzione le vicende dell’amministrazione.I congressi di categoria sono occasioni importanti, nelle quali vengono a contatto impiegati di amministrazioni e di regioni diverse e dai quali emerge una sintesi delle rivendicazioni e un’analisi unitaria della realtà amministrativa.Le rivendicazioni del sindacalismo amministrativo riformista sono l’applicazione della legalità nell’amministrazione e uno Stato più democratico sin nella sua stessa struttura interna e perciò rispondente ai bisogni di una società aperta e dinamica come quella che va organizzandosi attorno alla fabbrica.È utile ricordare il caso delle ferrovie. Nel 1905 viene nazionalizzato il settore che ha un’amministrazione che ricalca la struttura verticistica delle grande società private. La legge organica del 1907 completa l’organizzazione di un ente pubblico dotato di larga autonomia operativa, con un proprio bilancio, non soggetto ai normali controlli vigenti nella amministrazione statale ritenuti inadatti a una impresa destinata a svolgere un’attività economica. Nasce il modello inedito dell’azienda autonoma, è chiamato a inventare e organizzare questo modello il manager industriale Riccardo Bianchi, ricco di un’esperienza direttiva nelle compagnie ferroviarie private. L’organizzazione interna dell’azienda – ha scritto Franco Monelli – non si differenziò nel complesso da quella di una moderna impresa privata. Bianchi personifica un nuovo rapporto tra burocrazia e potere politico: collegato direttamente al Ministro o al Presidente del Consiglio, Bianchi somiglia ai futuri imprenditori pubblici destinati a dirigere gli enti di Stato più che non ai suoi colleghi direttori generali dei ministeri.

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Di uomini della tempra di Bianchi è ricca in questo primo quindicennio del 900 anche l’amministrazione centrale dello Stato. Sabino Cassese ha ricordato più volte i nomi: Alberto Benedice, Vincenzo Giuffrida, Eliseo Jandolo, Carlo Petrocchi, Meuccio Ruini. A ripercorrere la biografia di questi funzionari si intravedono alcune costanti particolarmente significative.In primo luogo esiste tra questi uomini un fitto reticolo di interrelazioni reciproche il cui fattore unificante sono le idee e le esperienze riformatrici. Al centro del gruppo Francesco Saverio Nitti ebbe un ruolo essenziale come punto di riferimento di tutta una serie di iniziative e studi.La seconda costante è rappresentata dall’intreccio tra carriera burocratica e responsabilità politica: alcuni (Ruini, Giuffrida) giungeranno alla poltrona ministeriale, altri graviteranno nei paraggi della politica, ispirando tra l’altro gli interventi alla Camera e al Senato degli esponenti politici loro vicini.Ma la costante più emblematica sta forse nel fatto che in quasi tutti i casi la formazione di questi burocrati si differenzia profondamente da quella retorica-umanistica a base giuridica che anche nel primo 900 è tipica dell’impiegato pubblico italiano.

6. L’età giolittiana: la formazione del funzionario-legista

Tra l’inizio del secolo e il 1923 con la riforma fascista la storia amministrativa italiana è caratterizzata dalla contrapposizione di due diversi punti di vista sulla questione amministrativa: da un parte abbiamo la c.d. cultura dell’efficienza che spinge verso la razionalizzazione organizzativa e l’ammodernamento, dall’altra abbiamo invece la tutela dei diritti del dipendente e la rivendicazione del suo stato giuridico. Vocazione imprenditoriale e industrialistica da una parte, esigenze garantistiche dall’altra entrano apertamente in conflitto.Le suggestioni aziendalistiche restano, per quanto significative, largamente minoritarie. Al di là di poche eccezioni, la formazione tradizionale del burocrate non cambia. Predomina, e costituisce la reale ideologia della pubblica amministrazione, una più consolidata cultura dell’autorità e della gerarchia e l’accettazione dei valori-guida dell’obbedienza, della subordinazione, dell’irresponsabilità, della preminenza dell’ufficio-organo come soggetto dell’azione amministrativa. L’età giolittiana è forse il momento più alto dell’identificazione tra funzionario e funzione, tra burocrate e Stato.Cultura dell’amministrazione e cultura del diritto amministrativo tendono, agli inizi del secolo, a coincidere senza alcun residuo. Quel che muta sono i modi di esercizio e di organizzazione del potere dello Stato, ormai completamente mediati nelle forme del sapere specialistico giuridico.Così come l’intellettuale-giurista diventa il titolare di un sapere specialistico, il burocrate-legista può, proprio in ragione della sua formazione giuridica, assurgere al ruolo di depositario dello stesso sapere specialistico, essenziale anello di mediazione

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tra la scienza del diritto amministrativo e la concreta prassi quotidiana dell’amministrazione.Nel primo decennio del 900, non a caso le Facoltà di giurisprudenza, tradizionale scuola di formazione dei funzionari dello Stato, tendono in questi anni a modificare i propri piani di studio potenziando le discipline giuspubblicistiche.Anche negli esami per l’ammissione in carriera o in quelli di promozione da un grado all’altro le discipline giuridiche assumono ora una ancor più netta centralità.È significativo il caso del Ministero dei Lavori Pubblici, un’amministrazione che dovrebbe dotarsi di un personale specificamente preparato a svolgere funzioni “tecniche” o “industriali”. In questo Ministero due successivi regolamenti (1904 e 1906), modificano l’antico impianto della selezione previsto dal regolamento del 1873. La formazione del burocrate dei Lavori Pubblici si fa più giuridica e inevitabilmente diviene anche più monocorde. Qualcosa di analogo accade anche nelle altre amministrazioni.Il funzionario pubblico nell’Italia giolittiana è essenzialmente un interprete di leggi e regolamenti. La sua maturazione professionale ruota attorno a due poli ben individuati: gli studi in giurisprudenza all’Università ed il tirocinio pratico nell’amministrazione. La cultura burocratica si configura ora come un’ideologia della separatezza, come un preciso sistema di valori che esprime le istanze di isolamento sociale.Tutta la politica giolittiana verso gli impiegati è in fondo interpretabile secondo questa chiave di lettura: dai provvedimenti organici alla legislazione del 1908 sullo stato giuridico e sulle retribuzioni, l’iniziativa di Giolitti e dei suoi governi si muove nella duplice direzione di ridurre le sperequazioni più stridenti attenuando così le cause di tensione negli uffici ma di consolidare contemporaneamente il potere dell’alta burocrazia nei ministeri. Lo stato giuridico del 1908 corrisponde all’esigenza di allineare l’Italia ad altri paesi europei, contribuendo a costruire un sistema amministrativo più razionale e moderno, ispirato a criteri garantistici: ma nel sistema di garanzie stabilito dal legislatore non è difficile scorgere una legge rivolta soprattutto a sancire i più ampi margini di manovra della dirigenza amministrativa. Inizieranno ad esserci dei rapporti non del tutto chiari e trasparenti tra deputati e alti burocrati. Gaetano Salvemini scriverà che questo è il governo dei burocrati e che tutti i deputati anche quelli dei partiti che si dichiarano rivoluzionari hanno rinunciato a un serio controllo sull’opera dei burocrati in cambio di favori personali. L’alta dirigenza, grazie al controllo della selezione, è in grado di gestire la cooptazione nella corporazione. Chi proviene da una famiglia di servitori dello Stato sarà avvantaggiato rispetto agli altri e ha anche influenza la provenienza territoriale. Man mano che dal vertice della piramide gerarchica si discende verso la base degli impiegati d’ordine e delle categorie subalterne anche l’impianto culturale subisce delle modificazioni: l’adesione all’ideologia burocratica è meno consapevole, è una filosofia spicciola dell’impiego. Tra 1900 e il 1915 non solo si rafforzano i meccanismi del controllo disciplinare ma si fa più penetrante e consistente l’iniziativa “sociale” del governo verso gli impiegati.

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Sul finire dell’età giolittiana anche gli impiegati, come più in generale i ceti medi delle città, sono attratti nell’orbita di quell’involuzione a destra che coincide con l’apparire nel nazionalismo come forma nuova e specifica di organizzazione di massa della piccola borghesia. Esaurite le spinte riformiste e persino socialiste del primo Novecento, i caratteri tipici della cultura burocratica ritornano in piena evidenza e alla crisi del sindacalismo di matrice turatiana corrisponde la nuova collocazione della burocrazia nelle file del blocco conservatore.

7. Le rivoluzioni del dopoguerra: gli scioperi degli impiegati e la donna negli uffici

Quel complesso di valori, di abitudini e di certezze ideologiche che si è sinora definito come la cultura della burocrazia subisce negli anni dell’immediato dopoguerra l’urto derivante da due nuovi fenomeni: la radicalizzazione della coscienza sindacale nell’impiego pubblico con l’adozione dello sciopero come strumento di lotta e l’ingresso massiccio della donna nelle amministrazioni.Nel periodo 1918-21 le lotte sindacali degli impiegati pubblici mobilitano in tutto il Paese settori del mondo burocratico che sinora erano rimasti al di fuori o ai margini del movimento rivendicativo. Si ricostituisce rapidamente il tessuto organizzativo delle Camere federali e delle Federazioni di categoria, questa volta non più sotto l’egemonia turatiana ma con la guida della corrente massimalista e persino, in certi casi, di quella comunista. Le piattaforme sindacali rivendicano soprattutto stipendi più alti, lotta al caro-viveri, controllo dei ritmi di lavoro.Cortei nei corridoi dei ministeri e nelle strade, astensioni collettive dal lavoro, scioperi bianchi, manifesti sindacali, comizi, assemblee, riunioni con i parlamentari e gli organizzatori socialisti: sono tutte espressioni nuove, ignote al burocrate dell’anteguerra. Almeno dei settori più sindacalizzati nasce una figura di dipendente dello Stato sinora sconosciuta: il burocrate immerso nella vita sindacale, che interviene alle manifestazioni di categoria, che si trasforma a volte in organizzatore ed agitatore politico sul posto di lavoro.La stagione delle agitazioni sarà però abbastanza effimera, destinata a subire il contraccolpo della sconfitta operaia alla fine del 1920. Le velleità di riscatto sociale e il recondito malessere degli impiegati sfociano in una breve, intensa esplosione di radicalismo, ma altrettanto rapidamente ritorneranno nell’alveo originario della propria specifica collocazione sociale subalterna.Il secondo elemento di rottura è costituito dall’incremento dell’occupazione femminile negli uffici. La presenza femminile cresce in particolare nei quattro anni della guerra mondiale, sia per il ruolo di supplenza che la donna è chiamata ad esercitare in occasione della mobilitazione bellica, sia in concomitanza con la diffusione della dattilografia nelle amministrazioni dello Stato. La donna assume nell’amministrazione una collocazione decisamente subalterna, l’ultimo posto nella scala gerarchica.

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8. La produttività amministrativa: il taylorismo della scrivania

Nell’immediato dopoguerra la crescita rapida e smisurata dello Stato impone alla cultura amministrativa italiana una riflessione di fondo sui modelli organizzativi richiesti dalle grandi dimensioni burocratiche, il tema della riforma amministrativa ritorna di moda carico di nuove implicazioni.La riduzione di alcuni gradi gerarchici e l’introduzione dei “ruoli aperti” abbreviano l’estenuante catena dei controlli e consentono una maggiore libertà di manovra per la selezione dell’élite chiamata alle funzioni dirigenti; ma l’impianto generale della cultura burocratica resta immutato ed anzi l’apparire dell’istituto della “dispensa dal servizio” lascia intravedere una soluzione della crisi di tipo tradizionale all’insegna delle superiori esigenze di bilancio e a discapito di una più radicale trasformazione degli assetti organizzativi.Tra il 1918 e l’avvento del fascismo il dibattito sulla riforma amministrativa non resta limitato al Parlamento. A questo proposito si profila sempre più nettamente l’influenza di un filone riformatore «aziendalista» e «imprenditoriale» che guarda alla pubblica amministrazione come fosse un’organizzazione industriale moderna. La «Rivista delle comunicazioni» pubblica nel 1919 un saggio di Torquato Giannini (dirigente del Ministero delle Poste e Telegrafi) dal titolo La scienza del metodo nel lavoro delle grandi amministrazioni pubbliche. In questo saggio sostiene la causa della razionalizzazione dell’attività burocratica e il principio «del massimo risultato e del minimo sforzo»; inoltre riferendosi direttamente al sistema Taylor, Giannini lamenta che l’organizzazione burocratica rappresenta la negazione di qualsiasi sistema razionale e contesta globalmente sia la formazione del burocrate italiano, sia la sua collocazione nella struttura di lavoro.Le soluzioni che propone Giannini non sono quelle classiche della semplificazione o di modifiche d’ordine legislativo; egli è uno dei primi studiosi dell’amministrazione a cogliere il carattere tendenzialmente di massa della burocrazia del dopoguerra e ad applicare quindi con decisione, al problema del pubblico impiego, i moderni criteri dell’organizzazione del lavoro nella grande industria. Il tradizionale impianto autoritario della cultura burocratica si sposa con la concezione di un impiegato pubblico ridotto a rotella impersonale nella catena di montaggio dell’atto amministrativo.Le suggestioni del taylorismo amministrativo che circolano nei primi anni Venti si incontrano con la polemica antiburocratica dei liberisti e suscitando l’interesse di cerchie élitarie dell’alta e media burocrazia.Il clima di benevola attesa che accompagna tra la fine del 1922 ed il 1923-24 la cosiddetta “riforma fascista dell’amministrazione” deriva anche dalla sensazione che Alberto De Stefani saprà restituire all’amministrazione l’agilità e la razionalità che sinora le sono mancate, avvicinandola ai modelli di funzionalità rappresentati dalla grande azienda capitalistica.Ettore Lolini, scrive sulle pagine del Popolo d’Italia, che protagonista della riforma fascista dovrà essere una nuova élite di dirigenti dotata di responsabilità e capacità

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individuali, un’aristocrazia burocratica consapevole dei propri compiti storici nella rivoluzione fascista, strettamente collegata alle direttive del potere politico, capace allo stesso tempo di obbedienza gerarchica e di iniziativa personale. Un burocrate in camicia nera: un impiegato nel quale la coscienza politica dei fini dello Stato dovrà tradursi in professionalità manageriale, in efficientismo, in razionalizzazione delle funzioni. Il modello di impiegato pubblico codificato dalla legislazione del 1923-24 sarà tuttavia assai diverso da quello che si prefigurano i sostenitori dell’amministrazione fascistizzata.Le esigenze di una maggiore funzionalità e di una dimensione più coordinata del lavoro collettivo si accompagnano all’introduzione di più ferrei controlli sul rendimento, ma traducendosi implicitamente nel rafforzamento dei meccanismi gerarchici e nell’accrescimento del potere dell’alta dirigenza cui in definitiva è delegata la concreta gestione della produttività amministrativa.

9. «Servitori dello Stato»: la continuità burocratica negli anni del fascismo

Con la fine degli anni Venti il bisogno di ordine e di autorità diffuso nella società italiana dopo la marcia su Roma trova la sua coerente realizzazione nell’ideologia burocratico-gerarchica e nel suo pieno ripristino all’interno degli uffici.Gli ultimi anni Venti rappresentano per la cultura dell’efficienza amministrativa il tempo dei bilanci autocritici, l’amara stagione delle disillusioni. Quando nel 1929 la commissione De Stefani presenterà a Mussolini il suo progetto di riforma dell’amministrazione, il Capo del Governo preferirà accantonarlo per non turbare gli equilibri interni del mondo burocratico. In pratica la riforma De Stefani proponeva di passare dalla responsabilità collegiale alla responsabilità individuale del funzionario, solo così si sarebbe potuto avviare una più radicale razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro amministrativo. Ma ciò comporterebbe una volontà politica rivoluzionaria che il fascismo non è capace di esprimere.Cresciuta nell’amministrazione giolittiana, la burocrazia degli anni Venti resta largamente impermeabile alle spinte della fascistizzazione. Consapevole della propria funzione di garante della continuità e dell’autorità dello Stato, il burocrate tradizionale diviene durante il regime il perno fondamentale di quello Stato amministrativo che trova proprio nel fascismo la sua compiuta e raffinata realizzazione: è facile capire come Mussolini fosse sempre più portato a considerare la burocrazia statale il vero e più sicuro elemento di stabilità del regime. È il governo dei direttori generali, nel quale i tecnici dell’amministrazione, gli esponenti di un’alta dirigenza amministrativa che rappresenta la competenza e il senso dello Stato sono chiamati alla collaborazione diretta con il capo del Governo.Nonostante ciò alcuni fascisti più intransigenti e alcuni tecnocrati del nuovo regime, nel secondo decennio, invitano a sfoltire i ranghi, a fare largo nell’amministrazione dello Stato a energie giovani plasmate dal nuovo regime, ad eliminare la mentalità

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acquisita in trenta anni di pratica giolittiana, per far acquisire alla burocrazia assetti più razionali.Per questo fascismo, la fisionomia esteriore dell’impiegato dello Stato deve adeguarsi al cliché maschio e volitivo dello squadrista in camicia nera e deve cessare l’incompatibilità tra l’uomo d’ufficio e l’uomo di sport. Le istanze per la modernizzazione degli apparati e per una cultura amministrativa più prossima ai modelli industriali trasmigrano, all’inizio degli anni ’30, in quella che Sabino Cassese ha chiamato «la seconda burocrazia»: la fuga dall’amministrazione dei ministeri, ormai divenuta troppo rigida, conduce alla creazione di altre amministrazioni pubbliche, gli enti pubblici a partecipazioni statali.La storia di questa «seconda burocrazia» riguarda il ruolo di uomini maturati nell’imprenditoria privata (Oscar Sinigaglia e Arturo Osio) e di frange dell’élite amministrativa dei ministeri (è il caso di Alberto Beneduce, presidente dell’IRI e di Arrigo Serpieri, intellettuale-tecnico proveniente dalla carriera accademica ed ex collaboratore di Nitti nell’amministrazione prefascista.La storia degli anni Trenta è caratterizzata in alcuni casi dalla latente polemica fra queste due burocrazie e in altri casi dalla loro collaborazione. Con gli enti pubblici abbiamo la realizzazione di assetti più agili sul tipo delle organizzazioni industriali ma nel contempo si allontano prospettive di riforma per le burocrazie tradizionali che invece diventano sempre più autoritarie e gerarchiche.

10. Per una storia della cultura degli impiegati nell’Italia repubblicana

Per quanto riguarda gli atteggiamenti, la mentalità, la quotidianità del burocrate nel passaggio dal fascismo alla democrazia repubblica fino agli anni Cinquanta la storiografia offre scarsissimi dati di conoscenza. Anche negli anni Sessanta in termini strettamente storiografici, specialmente sul tema della cultura dei burocrati, lo stato delle conoscenze resta indubbiamente arretrato. Tra il 1968 e i primi anni Ottanta abbiamo una maggiore attenzione al fenomeno burocratico ma rimane impossibile una analisi della cultura, dei modi di vita, dei valori, del mondo degli impiegati italiani tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Melis quindi pone dei problemi ancora aperti. Qual è l’atteggiamento del burocrate di fronte al 25 luglio 1943? Si rompe la continuità burocratica dovute anche alle necessità del momento.In via di ipotesi interpretativa si può sostenere che tra il 1943 e il 1945 i CLN abbiano rappresentato una concreta alternativa all’amministrazione tradizionale.Per quanto riguarda il tema dell’epurazione, Claudio Pavone sostiene che di fronte al rischio di mettere in discussione l’intero apparato amministrativo si preferì ripiegare sulla distinzione tra la massa dei fedeli servitori dello Stato, degni comunque di rispetto, e i pochi servi sfacciati e corrotti del fascismo in quanto tale. Ciononostante l’epurazione ha lasciato la sua traccia nella memoria burocratica.

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Garadia Moccia, direttore della rivista “Burocrazia” e burocrate del Ministero delle Finanze, denuncia gli abusi nell’epurazione, rivendica una più franca autonomia dal potere politico, difende gli interessi economici dei dipendenti dello Stato e insiste sulla professionalità e indipendenza del burocrate.I rapporti tra burocrazia e politica sono potenzialmente conflittuali con il governo Parri (1945), quando al potere arriva De Gasperi le cose cambiano in quanto saprà interpretare lo stato d’animo della burocrazia statale e supererà la discriminante antifascista.Nel triennio che precede il 18 aprile 1948 le simpatie politiche dell’impiegato italiano oscillano tra l’Uomo Qualunque, qualche non trascurabile nostalgia fascista, ma soprattutto il nuovo polo d’attrazione costituito dalla DC. Nasce ora quella «elettiva affinità tra i nuovi dirigenti cattolici e le strutture dello stato liberale», quell’«alleanza tra ceto di governo e burocrazia».Gli anni Cinquanta si aprono nel segno di un recupero dell’amministrazione dello Stato a quel ruolo di mediazione e ricomposizione tra gli interessi.Le indagini condotte nel corso degli anni Sessanta registrano l’accentuarsi di alcune tendenze: la femminilizzazione massiccia delle qualifiche inferiori, la crescente insoddisfazione dell’impiegato per il proprio lavoro, l’ulteriore perdita di professionalità che investe le amministrazioni centrali. Rientra in questo quadro la caduta di prestigio che investe la figura sociale del burocrate.

Fonte: Appunti personali del saggio “La cultura e il mondo degli impiegati di Guido Melis in Sabino Cassese (a cura di), L’amministrazione centrale” in STORIA DELLA SOCIETÀ DALL’UNITÀ A OGGI, Utet, 1980.