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La Cultura

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A cura di Maurizio Ambrosini

Costruire cittadinanzaSolidarietà organizzata e lotta alla povertà

Undici esperienze europee

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www.saggiatore.it

© il Saggiatore S.P.A., Milano 2009

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Costruire cittadinanza

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Sommario

Premessa di don Virginio Colmegna

Introduzione di Maurizio Ambrosini

1. Da assistiti a protagonisti. Il caso di Bolognadi Cecilia Trotto e Fabio Zuccheri

2. Dalla prima alla seconda accoglienza. Il caso di Napolidi Alessandra De Bernardis e Martina Tombari

3. Tra accoglienza senza confini e progetti mirati. Il caso di Palermodi Alessandra De Bernardis e Martina Tombari

4. Lavorare per l’integrazione sociale in un contesto di risorse calanti. Il caso di Romadi Fabio Zuccheri

5. Promuovere occasioni di lavoro e di cultura in un vecchio quartiere operaio. Il caso di Torinodi Massimiliano Cossi

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6. Interventi di inclusione per gli immigrati marginali.Il caso di Barcellonadi Elena Dragonetti

7. Donne protagoniste in un quartiere difficile. Il caso di Berlinodi Cecilia Trotto e Fabio Zuccheri

8. Forme e livelli delle strategie di attivazione. Il caso di Londradi Viviana De Luca

9. Responsabilità sociale d’impresa e accoglienza dei senza dimora. Il caso di Parigidi Massimiliano Cossi

10. Il lavoro con i senza dimora in una metropoli dell’Est. Il caso di Varsaviadi Fabio Zuccheri

11. Dall’emergenza alla promozione. La Fondazione Casa della carità di Milanodi Emanuela Geromini e Martina Tombari

Conclusioni di Maurizio Ambrosini

Ringraziamenti

Note

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Premessadi don Virginio Colmegna1

La ricerca qui presentata è volta ad analizzare quali risposte vengonodate sul territorio dell’Europa e del nostro paese alla marginalità sociale.Essa non consiste semplicemente nell’intento di descrivere e raccontare,per collocare il proprio impegno come attori della società civile nell’o-spitalità, nell’accompagnamento, nei processi di inclusione sociale. Nonpuò infatti ridursi a mero capitolo di testimonianza, assolutamente irrile-vante rispetto agli assetti di cittadinanza, di sviluppo sociale, di costru-zione di una società che faccia dei diritti basati sul riconoscimento delladignità di ogni persona un punto imprescindibile e qualificante. L’in-tento è più ampio e nasce dalla convinzione, come si potrà anche avver-tire leggendo lo studio su Casa della carità nelle pagine di questo libro,di far sì che da un’esperienza interrogata, verificata e monitorata conti-nuamente possano nascere e svilupparsi modelli di intervento che possanoessere diffusi, comunicabili, confrontabili con altre esperienze anche a li-vello europeo.

Le città europee qui considerate vivono nella loro complessità me-tropolitana la crisi profonda sul piano economico, la crescita esponen-ziale della paura sociale e della fragilità esistenziale, nonché una debo-lezza strutturale nell’affrontare i problemi di identità, di confronto conle diversità. La scelta strategica di lotta alla povertà può diventarequindi una discriminante capace di sollecitare e di immettere nuove ri-sorse per la costruzione di una società coesa capace di dialogare e ditrovare risposte significative ai grandi problemi della vita quotidiana.

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Quest’ultima è spesso segnata per tutti i cittadini da un confronto con iltema della sofferenza e del limite, anche a fronte della crescita dei pro-cessi di esclusione sociale che si aggravano in un periodo di crisi strut-turale che coinvolge il lavoro, la casa, ma anche la debolezza culturaleche sovente si alimenta con la paura. Non vi è infatti nessun processo diesclusione sociale che non sorga anche perché esistono debolezze e fra-gilità nelle relazioni umane, di frequente caratterizzate da un senti-mento di individualismo che attenua o fa scomparire il riferimento albene comune e una visione di impegno radicata in una matura eticadella responsabilità.

Qualsiasi percorso di ospitalità, di scelta di stare nel mezzo alle tantesituazioni di disagio e di povertà, può diventare un grande laboratorio dipensiero, di dialogo con tutta la società, costituendo un processo educa-tivo che sappia far diventare la solidarietà, la cittadinanza, un fattore de-terminante per far crescere quell’etica della responsabilità che poi deveincanalarsi e diventare spinta positiva anche nella cultura, nella politica,nella comunicazione. La questione etica, con le domande esistenziali checoinvolgono il senso profondo del vivere, trova uno spazio di riflessioneoperativa fecondo quando si confronta con la povertà, con quelle zone didisagio che spesso non sono considerate da chi ha responsabilità politicheed economiche una priorità strategica, ma vengono relegate al livello dipura testimonianza di carattere assistenzialistico. Una cultura solidale,che fa riferimento a valori quali la gratuità, può e deve diventare un capi-tolo qualificante dell’economia sociale, della costruzione delle città, delmodo di realizzare vera coesione sociale tenendo conto della complessitàche caratterizza la nostra società globalizzata e secolare.

La povertà con i suoi volti, i suoi racconti di esclusione sociale, la sof-ferenza urbana e le domande spesso drammatiche che non trovanoascolto, l’inquietudine che entra nel vivere, la moltiplicazione dei feno-meni di dipendenze, vanno affrontati con riflessioni di alto profilo econfronti tra prassi monitorate con scientificità. Si tratta di portare tuttala vivacità della società civile dentro i luoghi e gli ambiti dove si producepensiero e dove si governano i processi di sviluppo. Ecco perché Casadella carità non s’è mai pensata come luogo dove semplicemente ospi-tare e raccontare l’ospitalità, ma come luogo che vuole progettare, ricer-care, diventare Accademia.

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Da qui è nata la decisione di realizzare questa ricerca, chiedendo aUnidea – UniCredit Foundation di promuoverla. Una realtà che vedepassare tante storie di umanità sofferente proveniente da tante parti delmondo sente urgente il compito rigoroso di confronto e ricerca. Eccoperché gli studi di caso che qui vengono presentati, le riflessioni espostenella parte introduttiva e nelle conclusioni (al professor Ambrosini, cheha magistralmente condotto la ricerca, va il mio sincero ringraziamento)fanno sì che questo lavoro non debba essere confinato sugli scaffali diuna libreria, ma possa diventare spunto per nuove progettualità.

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Introduzione Contro l’esclusione sociale. Povertà metropolitane e mobilitazione delle società civilidi Maurizio Ambrosini

La crisi in cui si sta dibattendo l’economia mondiale ha riproposto all’at-tenzione generale problemi che sembravano relegati ai margini del di-scorso pubblico: le questioni della vulnerabilità, della caduta in povertà,dei rischi di esclusione sociale. Lavoratori adulti e gruppi sociali tradi-zionalmente garantiti scoprono di essere esposti all’insicurezza. Famiglieche conducevano una vita dignitosa vengono a trovarsi nella morsa delbisogno, individui che non possono contare su reti adeguate di prote-zione discendono rapidamente la china dell’emarginazione, lavoratori li-cenziati e non coperti dagli ammortizzatori sociali rischiano di vedersiprivati dell’abitazione e di finire per strada.

Sale una domanda di nuove politiche sociali. Forse oggi nessuno ose-rebbe più ripetere, come nell’ortodossia neoliberista, che lo Stato (e lepolitiche pubbliche) non è la soluzione, ma il problema; che il mercato èin grado spontaneamente di sanare le contraddizioni della società moltomeglio dell’intervento statale. Non sono però ancora chiari i contorni diun nuovo modello di welfare capace di contrastare le fratture della coe-sione sociale di oggi.

Premessa necessaria della costruzione di nuove risposte è un’ade-guata comprensione dei termini attuali della questione sociale. Po-vertà ed esclusione si collocano all’incrocio tra quattro fattori di vul-nerabilità: l’espulsione o il mancato inserimento nel lavoro; l’indeboli-mento, talvolta l’assenza, della protezione familiare; le carenze dellepolitiche sociali; gli eventi biografici avversi che si cumulano in spirali

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discendenti. Dall’esplorazione di questi nessi prende spunto la nostraanalisi.

1. Dall’insicurezza all’esclusione sociale

Cominciamo dal primo fattore. Una nuova paura si sta insinuandoanche nel nostro paese, nelle pieghe delle regioni più sviluppate e dellefasce sociali tradizionalmente garantite: quella della disoccupazioneadulta.

Fino ad anni recenti, il problema atavico della mancanza di lavoroaveva in Italia caratteristiche giovanili, femminili e meridionali, e risen-tiva di un netto spartiacque tra «garantiti» e «non garantiti». Il passo piùdifficile era il primo, e soprattutto l’ingresso nel lavoro regolare e tute-lato. Una volta passata quella soglia, una ricaduta nella disoccupazioneappariva molto improbabile.

Nonostante i timori sempre vivi di una disoccupazione intellettuale,il titolo di studio rappresentava poi, specialmente nelle regioni centro-settentrionali, un buon lasciapassare per l’ingresso nel sistema occupa-zionale. Dopo una fase spesso travagliata di precariato, garantiva stabi-lità occupazionale e livelli di reddito crescenti.

Chi usciva dalle garanzie dell’occupazione dipendente per mettersi inproprio, secondo un tipico percorso di promozione sociale dal bassomolto diffuso nel modello di sviluppo italiano, aveva ragionevoli possi-bilità di successo. La perdita di garanzie era più che compensata dallapossibilità di realizzare maggiori introiti, anche attraverso l’intensifica-zione del lavoro, da varie forme di protezione pubblica (per esempio, avantaggio del piccolo commercio contro la grande distribuzione, dellapiccola proprietà contadina ecc.), dal funzionamento di un sistema pro-duttivo che ricercava flessibilità attraverso il decentramento e la scom-posizione dei processi, dalla tolleranza verso l’evasione fiscale.

A partire almeno dagli anni novanta, mentre permanevano gli squi-libri territoriali, la disoccupazione giovanile era progressivamente dimi-nuita, fino alla brusca frenata dell’autunno 2008, specialmente nelle re-gioni settentrionali, e questo effetto positivo si era esteso alla fascia deigiovani adulti. Cominciavano però ad aumentare i disoccupati adulti e i

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disoccupati in senso stretto, ossia coloro che avevano un posto di lavoroe l’avevano perduto. Zucchetti (2005) ha parlato in proposito di duemodelli diversificati di disoccupazione: quello meridionale, in cui il pro-blema continua a gravare in modo preponderante sulle componenti gio-vanili e a connotarsi come difficoltà di accesso al primo impiego, equello settentrionale, «dove invece le difficoltà non sono tanto dei gio-vani a trovare il primo impiego, quanto degli adulti (e presumibilmenteanche dei giovani adulti) che si trovano a fare i conti con la ricerca di unnuovo lavoro, all’interno di mercati locali del lavoro certamente ricchi diopportunità ma insieme più “sovraccarichi” di flessibilità e mobilità oc-cupazionale» (ivi, p. 145). In altri termini: il tasso di disoccupazione èdiminuito, ma il numero di persone coinvolte in esperienze di preca-rietà, incertezza occupazionale, perdita del lavoro, necessità di trovarneuno nuovo, è cresciuto, e il senso di insicurezza ed esposizione al rischiodella privazione dello status di occupato si è insinuato all’interno dellacondizione adulta (cfr. Ranci 2002).

Come è ben noto, il lavoro stabile, che si traduce in carriere contri-butive regolari, da tempo perde terreno nelle economie avanzate. Benprima dell’esplosione della crisi dei mutui subprime, avevano già comin-ciato a emergere le ambivalenze dei processi di globalizzazione, cosìcome sono stati descritti da Saskia Sassen (2003) nella sua analisi delletrasformazioni economiche delle metropoli del mondo sviluppato.

Dopo il declino dell’industria manifatturiera, i grandi poli urbani sisono trasformati in sedi dei centri direzionali delle imprese che operanoormai su scala mondiale e delle attività finanziarie, riaffermandosi comenodi strategici dell’economia internazionale. Attorno alle direzioni stra-tegiche, tende poi a concentrarsi l’apparato dei servizi ad alta qualifica-zione, sempre più necessari per affrontare l’incertezza dei mercati: ser-vizi che spaziano dalla consulenza strategica alla pubblicità, dal marke-ting alla comunicazione. Si determina così una polarizzazione della po-polazione urbana. Sono cresciute le componenti privilegiate, formate dadirigenti e professionisti ad alto reddito. Ma crescono anche le fasce dilavoratori manuali che servono ad assicurare due tipi di attività, la ma-nutenzione delle strutture direzionali (pulizie, custodia, riparazioni ecc.)e i servizi alle persone richiesti dagli strati ad alto reddito per sostenereuno stile di vita agiato, all’interno e all’esterno delle abitazioni: lavan-

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derie, gastronomie, ristoranti, quindi; e anche baby-sitter, collaboratricifamiliari, guardiani e altri. Queste figure, dall’occupazione precaria e dairedditi più bassi della classe operaia di cui prendono il posto, sono for-nite in molti casi dalla nuova immigrazione, che viene attratta dalla do-manda di manodopera delle economie urbane. È in questione invece ildestino della classe media, formata da impiegati e operai dal posto si-curo e dal reddito fisso, i cui posti di lavoro, secondo Sassen, tendono aessere soppressi o delocalizzati dalla nuova economia globalizzata. Altriin verità, specialmente in Europa, hanno contestato questo verdetto pes-simista, pur condividendo l’idea di un allargamento dei poli estremidella gerarchia sociale: i facoltosi e i poverissimi.

All’interno di questo scenario, le imprese hanno perseguito, in mi-sura variabile a seconda dei contesti e degli spazi consentiti dagli inqua-dramenti normativi, strategie di flessibilità, decentramento, alleggeri-mento dei costi fissi, frammentazione delle unità produttive, fino al tra-sferimento all’estero. Anche in alcuni settori tradizionalmente protetti,processi di fusione e incorporazione hanno generato ridondanze distrutture e livelli gerarchici. In altri casi, le imprese hanno di fatto sosti-tuito i propri dipendenti relativamente ben retribuiti, soprattutto se do-tati di una certa anzianità, con i lavoratori meno costosi delle ditte sub-fornitrici.

Ne deriva un cambiamento del modello occupazionale, che si orientaverso la flessibilità dei rapporti e la frammentazione degli statuti occupa-zionali, di cui un aspetto molto dibattuto consiste nella moltiplicazionedegli statuti lavorativi precari e atipici.

Nel passato la cesura tra lavoro stabile e regolare e lavoro precario e ir-regolare era molto netta, nel bene e nel male. Anche con l’intento di supe-rare una frattura troppo netta fra garantiti e non garantiti, di agevolarel’ingresso nel sistema occupazionale di questi ultimi, di alzare i livelli com-plessivi di occupazione, sono state introdotte anche in Italia svariatenuove formule contrattuali, cosicché oggi nel mercato del lavoro si è for-mato un vasto territorio intermedio, tra lavoro dipendente e lavoro indi-pendente, popolato di collaboratori a progetto, consulenti con un solocommittente, prestatori d’opera occasionali, e altri ancora (Reyneri 2002).

Secondo le Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia,Mario Draghi, del giugno 2009, nel nostro paese 1,6 milioni di lavoratori

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dipendenti e parasubordinati non avrebbero diritto ad alcun sostegno incaso di licenziamento. Un’analisi dei dati istituzionali condotta da Berton,Richiardi e Sacchi (2009) stima in 3,2 milioni i lavoratori esclusi dalleindennità di disoccupazione, benché le misure anticrisi varate dal go-verno concedano per qualche mese a 1-1,5 milioni di essi un sostegnodel reddito.

Se quindi sui giovani, e ancor più sulle giovani donne, si concentra ladomanda di flessibilità dell’economia (e del sistema pubblico, a suavolta generatore di lavoro precario), il dato nuovo è che anche un nu-mero crescente di adulti risulta coinvolto in situazioni di vulnerabilità,in seguito alla destabilizzazione di molte cittadelle dell’occupazione untempo tutelata e garantita. La fine del posto fisso è diventata un luogocomune, a lungo circonfuso, almeno fino alla crisi esplosa nell’autunno2008, di una retorica della superiorità dei modelli liberisti e informati alprimato del mercato su quelli più stabili e garantisti, in cui le politichepubbliche svolgono un ruolo più attivo.

Dobbiamo notare a questo riguardo due aspetti. Il primo: una partedel rischio d’impresa tende a essere addossato ai lavoratori, specialmentenei settori e nelle attività più esposti alle fluttuazioni e alle incertezze delmercato. Si è innescato un movimento contrario a quello prevalso neiprimi tre quarti del Novecento, quando il lavoro, almeno nei paesi più svi-luppati e segnatamente in Europa, si era de-mercificato, ossia in una certamisura emancipato dai condizionamenti del mercato. Era diventato sta-bile e si era arricchito di diritti sociali, come l’assicurazione contro la ma-lattia, contro gli infortuni, contro la vecchiaia (le pensioni). Nell’ultimoquarto di secolo, a partire approssimativamente dalla spinta neoliberistaimpressa dal presidente Reagan e dalla signora Thatcher negli anni ot-tanta, la tendenza si è invertita: il lavoro ha subito una serie di pressioni(economiche, culturali, normative...) che tendono tutte a trattarlo nuova-mente come una merce, spogliandolo di garanzie e di benefici sociali. Ilcontratto implicito diventa, in un numero crescente di casi: «ti faccio lavo-rare e ti pago per quanto vali, se e fino a quando mi servi, senza farmi ca-rico di pagare somme aggiuntive per assicurarti contro possibili rischi chepotrebbero compromettere la tua capacità di lavoro».

Il secondo aspetto riguarda la riapertura della forbice delle disugua-glianze e la crescente disparità delle condizioni retributive all’interno del

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mercato occupazionale. Di conseguenza, oltre alla precarietà, è lo stessoammontare del reddito ottenibile dal lavoro a non consentire, per unnumero di lavoratori e di famiglie che tende a crescere, di conseguire untenore di vita ritenuto confacente agli standard del nostro tempo. Se perun certo periodo, coincidente con l’epoca della società industriale clas-sica, trovare un’occupazione significava affrancarsi dalla povertà, oggiquesto nesso non è più scontato: cresce nei paesi sviluppati il numerodei cosiddetti working poors, i poveri che lavorano. Di qui il crescenteindebitamento delle famiglie e l’esposizione al rischio di subire gravicontraccolpi da circostanze avverse: se il lavoro, anche a basso reddito,di entrambi i coniugi poteva consentire di sbarcare il lunario, la perditadel posto per uno dei due può far precipitare la famiglia al di sotto dellasoglia di povertà; e se a questo evento si somma, per esempio, un mutuoper la casa, la condizione di una famiglia normale può diventare dram-matica.

Queste constatazioni non significano rimpiangere la fabbrica del pas-sato, per molti aspetti disumana e alienante. La grande azienda indu-striale, come nota Paci, se «ha garantito ai capifamiglia adulti una (rela-tiva) stabilità dal punto di vista economico e lavorativo, ha anche im-posto loro di rinunciare, nella maggior parte dei casi, alla piena espres-sione delle loro attitudini e dei loro talenti personali, schiacciandoli al-l’interno dell’organizzazione taylor-fordista del lavoro» (2005, p. 16).

Benché dunque sia mediamente cresciuta la qualità intrinseca del la-voro, sia per la diminuzione della fatica fisica e della noia derivante dallosvolgimento di attività ripetitive e rigidamente vincolate, sia per l’au-mento di autonomia, responsabilità, competenze cognitive richieste, re-lazioni con altri, si è diffusa la percezione di una precarietà endemica eincombente, che rende meno decisiva la stessa distinzione giuridica traoccupazione standard, a durata indeterminata, e occupazione tempo-ranea o con un contratto definito «atipico». Oltre a quanti hanno effetti-vamente perso il lavoro e si sono dovuti ingegnare a cercarne un altro,molti altri hanno cominciato ad avvertire che la loro posizione non è piùinattaccabile.

Analogamente a quanto avevano già notato alcuni anni fa Kets deVries e Balazs (1997) nel caso americano, sebbene in misura fortunata-mente più contenuta, i processi di downsizing definiti «l’eliminazione

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pianificata di posizioni o posti di lavoro», stanno coinvolgendo anche,molto più del passato, i cosiddetti «colletti bianchi», impiegati, quadri edirigenti, attuando quella che è stata definita un po’ cinicamente unacutback democracy (democrazia dei tagli) sui luoghi di lavoro. Le conse-guenze sociali sono state profonde, giacché gli impiegati sono stati coltidi sorpresa dalla scomparsa pressoché improvvisa della sicurezza occu-pazionale. Pure la classe media ha dovuto fare i conti con la frantuma-zione dell’illusione di una prosperità crescente e ha dovuto confrontarsicon una mobilità discendente senza precedenti, per la quale non era pre-parata: una downsizing way of life (ivi, p. 13).

Nella geografia della vulnerabilità sociale delle società contempo-ranee occupano poi uno spazio crescente le popolazioni immigrate e leminoranze etniche stigmatizzate. Richiesti per alimentare i ranghi infe-riori dei mercati del lavoro, nell’agricoltura, nell’edilizia, nelle piccoleimprese, nei servizi (pulizie, ristorazione, trasporto merci, vigilanzaecc.), nell’ambito domestico, nella cura e nell’accudimento delle per-sone, gli immigrati con molta maggiore difficoltà sono riconosciuti comecomponenti a pieno titolo delle società in cui vengono a risiedere. Anzi,su di essi gravano timori e pregiudizi di società insicure, che si sentonoinvase e minacciate. Le norme sulla cittadinanza lo rivelano chiara-mente: servono oggi principalmente a distinguere, su basi ascrittive, chigode di pieni diritti di appartenenza e chi può beneficiare soltanto diuno status di residente, spesso temporaneo, il cui soggiorno è in linea dimassima condizionato dallo svolgimento di un’occupazione (Ambrosini2005). Se questa, quando è regolare, assicura il godimento di alcuni di-ritti sociali,1 la sua perdita rischia di sospingere i lavoratori immigrati e leloro famiglie ai margini della società. Non solo perché li priva dei mezzidi sostentamento, ma perché condiziona la stessa regolarità del sog-giorno. L’assenza o la fragilità delle reti di protezione familiare aggrava ilquadro. Essendo piuttosto astratta la previsione normativa secondo cuil’immigrato rimasto senza lavoro e poi senza titolo di soggiorno do-vrebbe rientrare in patria, l’esito di questi processi è la formazione diuna popolazione ad alto rischio di esclusione sociale, che non può nep-pure fare appello ai diritti di cittadinanza per ottenere aiuto.

Nel caso delle minoranze rom e sinte, la questione si complica ancoradi più: i vincoli della cittadinanza (per gli arrivati negli ultimi anni) si

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combinano con secolari processi di stigmatizzazione, discriminazione,diffidenza reciproca, compromettendo l’inserimento nel mercato del la-voro, dopo il declino delle occupazioni ambulanti svolte nel passato nel-l’ambito delle società rurali (Ambrosini e Tosi 2007; 2009). In tempi dicrisi, trovare un lavoro per chi proviene da un campo nomadi diventaun’impresa ancora più ardua.

Un sistema di welfare carente e sottoposto a tensioni restrittive com-porta un’altra conseguenza: i cittadini che dispongono del diritto di vototendono a riservare per sé provvidenze e benefici, escludendo gli ultimiarrivati e quanti non godono del privilegio di un’appartenenza sociale ri-conosciuta.

Si è formata così, tra l’altro, una vasta «classe ansiosa», più preoccu-pata di difendere le proprie posizioni e di identificare i nemici alle porte,che di scoprire i legami che la uniscono con gli altri soggetti della comu-nità locale e delle comunità più ampie di cui fa parte. Una tendenza cherende più difficile, fra l’altro, la mobilitazione di energie per dare rispostaalle domande degli strati più deboli e marginali della società. Paure e chiu-sure verso marginali e stranieri, domande di protezione contro la fasti-diosa circolazione della popolazione in esubero, delle «vite di scarto» dicui parla Bauman (2005), sono una delle cifre simboliche più espressivedel nostro tempo. La fragilità crescente delle compagini sociali, dei legamiche le uniscono e delle risorse culturali che le sostengono, si traduce inistanze securitarie che prendono di mira, insieme a stranieri e nomadi, isoggetti marginali, sradicati, estranei all’ordine costituito. L’esclusione èanche questo: un processo di allontanamento di soggetti identificati comeminacciosi che aiuta a ricompattare comunità locali disorientate e in de-clino. Come scrive Escobar (1997, p. 39): «si tratta di prendere in conside-razione la possibilità che sia troppo debole proprio l’identità del Noi, eche perciò sia il Noi a costituirsi reattivamente sulla base della disumaniz-zazione, della mostrificazione del Loro. In questo caso, dovremmo con-cluderne che il gruppo come tale utilizzi l’Unmensch per semplificare ilmondo, per ricavare la propria umanità dal calco della sua dis-umanità, ilproprio tipo dal suo antitipo. Se manca di un’identità collettiva sicura, seaddirittura manca degli strumenti culturali e simbolici necessari alla suacostruzione il gruppo ricorrerà a costruzioni paranoiche, a espulsioni dicolpa in grado di costruire almeno un modello negativo».

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2. Una protezione sociale che guarda indietro

Il nostro modello di protezione sociale, come è noto, ha poggiato finoraprincipalmente sul lavoro (o comunque sul reddito) quasi garantito delcapofamiglia, da cui si trovavano a dipendere gli altri componenti delnucleo. Nel caso di perdita del posto, dispositivi come la Cassa integra-zione prolungata, i prepensionamenti, le modalità di funzionamento delsistema pubblico di collocamento tendevano a proteggere i garantiti,ossia principalmente i maschi adulti, che dovevano poi provvedere alleesigenze di mogli e figli. Una storia contributiva regolare e un sistemapensionistico generoso garantivano poi alla maggior parte dei lavoratoripensioni dignitose a un’età relativamente bassa, confrontata con lemedie europee.

Per altri aspetti, come l’accudimento e l’assistenza dei più deboli edipendenti (bambini, disabili, ammalati, anziani con problemi di auto-sufficienza...), oltre che per le esigenze domestiche e di vita quotidianadella popolazione lavorativa, la presunzione implicita era che la famigliafosse l’istituzione più adeguata a provvedere ai servizi necessari. Bassocosto, grande flessibilità, coinvolgimento etico e affettivo, la rendevanodifficilmente eguagliabile come fornitrice di servizi personalizzati. Ladiffusione della tipica figura della moglie-madre casalinga era funzionalea questo modello sociale, a cui contribuivano anche istituti come lebaby-pensioni per i dipendenti pubblici, che avevano come principalibeneficiari le donne sposate di classe media.

Il welfare italiano consiste ancora oggi principalmente in trasferi-menti di reddito a vantaggio di individui e famiglie, specialmente sottoforma di pensioni, che incidono per circa il 15% sul Pil. Spetta poi allefamiglie organizzarsi per provvedere alle proprie necessità, mentre ladotazione di servizi a disposizione di quanti ne hanno bisogno rimaneper molti aspetti inadeguata, e inferiore a quella degli altri paesi avan-zati.2 È come se il sistema di welfare fosse rimasto ancorato alla societàdi ieri, senza riuscire ad adattare i propri istituti ai rischi di oggi.

Questo assetto però scricchiola sempre più a fronte di una serie ditrasformazioni. Abbiamo già richiamato quelle relative al mercato del la-voro: il rischio si è insinuato con il tempo anche nella cittadella dei ga-rantiti. Qui viene alla luce un paradosso del nostro mercato del lavoro:

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lavoratori globalmente ben protetti da una serie di norme e convenzioni,se per qualche evento cadono fuori dalla rete delle garanzie di tutela delposto, non trovano una seconda rete di protezione «esterna», capace disalvaguardare un sufficiente livello di reddito e di promuoverne il rein-serimento. Come se non bastasse, il prolungamento della vita lavorativa,l’allontanamento dell’età del pensionamento e l’ingresso ritardato nel la-voro regolare hanno incrinato uno dei meccanismi più agevoli, benchécostosi, di soluzione delle difficoltà occupazionali, quello dei pensiona-menti anticipati. Tra i casi più difficili di disoccupati adulti, rientrano in-fatti quelli di persone di età ben superiore ai cinquant’anni, che fino apochi anni fa sarebbero transitate tranquillamente verso la quiescenza, eora aspirano a trovare un lavoro qualsiasi, senza avere altre motivazioniche quella di raggiungere l’età pensionabile.

Quanto alla funzione di compensazione delle incertezze del mercato(e della vita) implicitamente affidata nel nostro paese alla famiglia, lasua tenuta e capacità di agire come ammortizzatore sociale e principalefornitrice di servizi per la vita quotidiana delle persone e l’assistenza aipiù deboli mostra segni di logoramento. In condizioni normali, ildoppio lavoro dei coniugi erode le riserve di energie e di tempo per as-sicurare le funzioni di accudimento, cura, gestione domestica. Le fami-glie, se ne hanno la possibilità, tendono pertanto a rivolgersi semprepiù al mercato per puntellare la loro fragile organizzazione quotidiana,mediante l’assunzione di colf, baby-sitter, assistenti domiciliari per glianziani.

La fragilità crescente delle unioni intacca poi la capacità di mutuosostegno in circostanze avverse. Una tutela sociale che passa in modosostanziale, benché implicito, attraverso la redistribuzione di risorsenell’ambito familiare presuppone infatti una solida tenuta dell’istitu-zione-famiglia e dei ruoli all’interno di essa. La stessa scarsità di risorsepubbliche destinate al sostegno del reddito dei disoccupati, un’ano-malia rispetto a quanto avviene, sebbene in misura diversa, nei paesidell’Europa centro-settentrionale e nei grandi paesi sviluppati extraeu-ropei, Stati Uniti compresi, ha sempre trovato una giustificazione nel-l’idea che la famiglia rappresentasse la camera di compensazione deiredditi che ricomponeva al suo interno gli squilibri determinati dalmercato del lavoro. Questo assunto poteva avere senso, e ha di fatto lar-

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gamente funzionato, anche se non senza costi sociali, relazionali e psi-cologici, finché le persone senza lavoro erano giovani o anche donnesposate. Ancora oggi la «famiglia lunga», specialmente nell’Europa me-diterranea, rappresenta una fondamentale risorsa per la protezionedalle incertezze e per il sostegno della qualità della vita delle giovani ge-nerazioni, e anche dei giovani adulti. Quando però la disoccupazionecolpisce il maschio adulto, la madre sola con figli da accudire, le per-sone che non hanno una famiglia alle spalle, questo modello di tutelaimplicitamente familistico rivela tutta la sua fragilità. Inoltre, problemicome la malattia, la dipendenza da alcol e droghe, o la stessa perdita dellavoro, sono contenuti dalle reti familiari con difficoltà sempre mag-giori; e se in questi casi la rete familiare non regge, o non sussiste, lo sci-volamento verso forme di povertà diventa una minaccia incombente.

L’intreccio tra la dimensione occupazionale e quella delle relazionifamiliari nei processi di esclusione è colto in modo particolare da Castel(1995), che ha introdotto il concetto di «disaffiliazione». Egli sostieneche sussiste una correlazione forte tra il posto occupato nella divisionesociale del lavoro e la partecipazione alle reti di socialità e ai sistemi diprotezione che tutelano l’individuo di fronte alle incertezze dell’esi-stenza. Castel individua pertanto quelle che definisce metaforicamente«zone di coesione sociale». Così, l’associazione tra lavoro stabile e inseri-mento relazionale solido caratterizza la zona dell’integrazione. La zonaintermedia è quella della vulnerabilità, che coniuga la precarietà del la-voro con la fragilità dei supporti di prossimità. Quando invece l’assenzadi partecipazione all’attività produttiva e l’isolamento relazionale coniu-gano i loro effetti negativi, si produce l’esclusione, o piuttosto, la disaffi-liazione: per Castel, si tratta di un concetto più dinamico di quello diesclusione, che è immobile e designa degli stati di privazione. Il concettodi disaffiliazione rimanda a un percorso, a traiettorie, e anche a dina-miche sociali più ampie, ai punti critici del processo, ai legami con le si-tuazioni precedenti.

La tavola seguente visualizza l’approccio dello studioso francese,anche se occorre ribadire che le diverse zone non sono tra loro separatee autonome, bensì collegate in maniera dinamica.

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Non va dimenticato, infatti, che parlare di «integrazione» ed «esclu-sione» può indurre a concepire una visione semplificata della società, incui i vecchi conflitti «verticali» tra dominati e dominatori, sfruttatori esfruttati, cederebbero il passo a nuovi conflitti di natura «orizzontale», trainterni ed esterni, garantiti e precari, o appunto integrati ed esclusi. Le at-tuali dinamiche del conflitto sociale sono state interpretate da Touraine(1991) in termini appunto di passaggio a una «società orizzontale», incui l’importante è sapere se si è al centro o in periferia, in o out, la do-manda fondamentale è quella di integrazione sociale, di rapporto con il«centro» della società, in assenza di modelli alternativi. Secondo il socio-logo francese, «la vita della società è largamente fatta di alternanze tra iproblemi di conflittualità interna e i problemi al contrario di integra-zione e di esclusione [...] Il problema oggi non è lo sfruttamento, ma l’e-sclusione» (ivi, p. 13). Infatti, risulterebbe più difficile entrare o rien-trare in una società liberale che in una società fortemente gerarchizzata.Rispetto a ieri, infatti, l’esclusione è più netta e sanzionata da un’accu-mulazione di fattori deprivilegianti. Un handicap, che può essere lamancanza di risorse economiche, di lavoro, di istruzione, di relazioni so-ciali, si associa molto probabilmente con altri handicap. La frattura di-venta sempre più profonda, il fossato si salta più difficilmente: «eravamouna società di discriminazione, diventiamo una società di segregazione»(ivi, p. 12).

Tav. 0.1. Zone di coesione sociale e processi di esclusione

Sistema delle relazioni familiari Relazione con il lavoro(«protezione ravvicinata»)

Forte Debole Assente

Forte Zona dell’integrazione

Debole Zona della vulnerabilità

Assente Zona della disaffiliazione

Fonte: elaborazione da Castel (1995).

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Senza negare quanto di vero contiene questa impostazione, come ilfatto che gli esclusi delle società contemporanee spesso non sono nep-pure sfruttati, ma si trovano nella condizione di «soprannumerari», di«inutili al mondo», come i vagabondi dell’Ancien régime, Castel rilevache la questione sociale si pone esplicitamente ai margini della vita so-ciale, ma rimette in questione l’insieme della società. Si verifica unasorta di «effetto boomerang», attraverso il quale «i problemi posti dallepopolazioni che si incagliano ai margini di una formazione sociale ritor-nano verso il suo centro» (1995, p. 21). Chi è più debole dipende da chiè più forte, ma è vero anche il contrario. Gli integrati non possono con-templare dall’alto la miseria del mondo. L’allargamento dell’area dellavulnerabilità, che tocca più di un tempo anche le classi medie, e i pas-saggi dall’integrazione alla vulnerabilità, e dalla vulnerabilità alla disaffi-liazione, evidenziano questi legami. «Integrati, vulnerabili e disaffiliatiappartengono al medesimo insieme, ma la sua unità è problematica»(ivi, p. 21).

Ora, giacché è molto più complicato e forse impossibile impegnarsiper la salvaguardia o la ricostruzione della vita familiare delle persone,l’azione dei poteri pubblici dovrebbe dedicarsi, ancora più che in pas-sato, alla promozione dell’occupabilità delle persone minacciate dall’e-sclusione, come barriera contro la caduta in spirali di emarginazionesempre più grave. Continuare invece a delegare di fatto alla solidarietàintrafamiliare la soluzione dei problemi di reinserimento e integrazionedegli individui, quando le famiglie sono sempre più fragili, meno omo-logabili al modello tradizionale e poste in crisi dai processi che colpi-scono la stabilità della posizione del cosiddetto «capofamiglia», tende aprodurre una divaricazione tra le politiche di intervento (comunquemodeste e perlopiù, come abbiamo rilevato, implicite) e le situazioni dafronteggiare.

Proprio nel caso della perdita del lavoro, la mancanza del sostegnodel coniuge, o peggio, gli oneri derivanti da un divorzio, rischiano diavere effetti devastanti per le condizioni di vita delle persone. Una ri-cerca sulle forme gravi di disoccupazione adulta a Milano, a cui ha presoparte la Fondazione Casa della carità, ha rilevato tre situazioni emble-matiche di nesso tra indebolimento della protezione familiare e scivola-mento sulla china dell’esclusione sociale (Ambrosini 2006):

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• quella delle persone senza famiglia, che hanno magari sempre coabi-tato con i genitori, hanno condiviso con loro le risorse disponibili,non hanno formato un proprio nucleo, e ora si trovano allo scoperto,a seguito dell’avanzare dell’età e della perdita dei genitori; oppurevengono da storie di immigrazione interna o dall’estero, da nuclei di-sgregati o da storie di dissapori familiari, ragione per cui non dispon-gono del sostegno di persone legate a loro da vincoli familiari; op-pure ancora, nei casi più frequenti, sono coinvolte in separazioni edivorzi in età non più giovane e in situazioni già compromesse dallafragilità economica e lavorativa, che rischiano di gettarle letteral-mente per strada;

• quella delle donne con bambini, prive del sostegno del coniuge, ocon compagni a loro volta colpiti dalla precarietà occupazionale, ma-lati o inabili al lavoro, o con genitori anziani da assistere: tutte situa-zioni in cui le relazioni familiari, anziché rappresentare un sostegno,finiscono per essere un vincolo per la possibilità di accedere al mer-cato del lavoro, di lavorare con continuità, di cogliere opportunitàpiù interessanti, ma più esigenti in termini di orari e di disponibilità.Va ricordato in generale che le donne sole con bambini rappresen-tano un segmento crescente della popolazione in condizione di po-vertà nei paesi sviluppati;

• quella delle persone che subiscono a livello psicologico e relazionale icontraccolpi della disoccupazione, per le quali gli equilibri familiarientrano in crisi a seguito della perdita di un’occupazione che struttu-rava i tempi e definiva i ruoli all’interno della famiglia: sono i casi incui la famiglia, anziché compensare la perdita di reddito, di auto-stima e di partecipazione sociale derivante dalla disoccupazione, aiu-tando le persone a reinserirsi, ne viene travolta.

Un mercato del lavoro più flessibile e instabile avrebbe bisogno di piùimpegno istituzionale verso i soggetti che ne sopportano le conseguenze.Le famiglie non possono rappresentare l’unico ancoraggio alla societàper le persone che perdono il lavoro: questo affidamento implicito edesclusivo amplifica le disuguaglianze e sovraccarica le famiglie stesse,tracimando sulle loro risorse e capacità di azione.

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3. Spirali discendenti: disoccupazione, povertà, esclusione sociale

Debolezze e contraddizioni del modello italiano di protezione sociale ecrescente fragilità dell’istituzione familiare si rivelano appieno quando icorsi di vita degli individui sono colpiti da circostanze avverse, mentrenello stesso tempo, nel mercato del lavoro, l’arretramento delle sicurezzeoccupazionali esalta l’importanza delle risorse personali degli individui-lavoratori. Come ha notato una ricerca sulle nuove forme di lavoro tem-poraneo, non necessariamente l’instabilità viene percepita dai lavoratoriinteressati come una condizione angosciosa o problematica (Fullin 2004);anche se, potremmo chiosare, questo forse oggi è un po’ meno vero.Molto dipende dal tipo di percorso, dagli sbocchi prevedibili, dal livelloprofessionale raggiunto, nonché dalla rete di protezione (ancora unavolta, a base soprattutto familiare) che regge i percorsi dei lavoratori chenon sono coperti da contratti di lavoro permanenti. Ciò significa però inlarga misura riprodurre ed esaltare le disuguaglianze di partenza: «la dif-fusione delle occupazioni instabili non ha necessariamente conseguenzenegative sulle condizioni di vita delle persone ma aumenta enormementel’importanza delle risorse personali e familiari e quindi amplifica le diffe-renze tra i soggetti che si muovono sul mercato del lavoro» (Fullin 2004,p. 202; con riferimento a Checchi e Reyneri 2002).

Questa riflessione può essere più ampiamente riportata all’intrecciotra storie personali e contesti strutturali. Nelle carriere biografiche di-scendenti in contesti di diffuso benessere e di alti livelli di occupazione,entrano spesso in gioco contingenze personali di vario genere, dai pro-blemi di salute, alla depressione psicologica, a investimenti sbagliati, allecrisi matrimoniali. Non sempre la caduta nella disoccupazione di lungadurata, con le sue conseguenze, è l’effetto diretto di un licenziamentodovuto a scelte aziendali. Il problema consiste però nel fatto che i sog-getti colpiti da circostanze sfavorevoli non trovano un adeguato sistemadi tutela e sostegno che possa aiutarli a rimettersi in corsa e a non vederecompromesso nel giro di poco tempo il benessere costruito con anni dilavoro.

Un aspetto specifico delle risorse di cui gli individui possono di-sporre nella ricerca del lavoro consiste nel capitale sociale, a cui la rifles-sione sociologica ha dedicato ormai da diversi anni una cospicua atten-

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zione. Trovare lavoro, anche negli altri paesi sviluppati, dipende larga-mente dai contatti sociali. Già Granovetter, fin dai primi anni settanta,aveva sottolineato al riguardo «la forza dei legami deboli», ossia dei con-tatti e delle conoscenze, magari superficiali o occasionali, che fornisconoinformazioni nuove e agganci con ambienti che il soggetto in cerca di la-voro non frequenta abitualmente (Granovetter 1995). Altri gli hannocontrapposto la perdurante importanza dei «legami forti», quelli dellaparentela, della consanguineità e della stretta amicizia, da cui discendeun più fattivo impegno a farsi carico del problema di chi è in cerca di la-voro. In ogni caso i soggetti più avvantaggiati sono coloro che dispon-gono di entrambi i tipi di legami, mentre chi non può avvalersi né degliuni, né degli altri è destinato a incontrare le maggiori difficoltà (cfr. inproposito Abbatecola 2001). È quello che, parafrasando il Vangelo, èstato definito «il paradosso di Matteo: a chi ha sarà dato, a chi non hasarà tolto anche quello che ha».

Anche per questa ragione, nel lessico europeo degli ultimi anni, il con-cetto di povertà si è allargato verso quello più comprensivo di «esclu-sione sociale». Non basta infatti il riferimento all’indigenza economicaper definire la condizione di deprivazione e di marginalità di una personao di una famiglia. Possiamo richiamare in proposito il Trattato di Am-sterdam del 1999 e i successivi Consigli europei di Lisbona e di Nizza, apartire dai quali l’esclusione sociale è diventata il tema portante del di-scorso e dell’impegno politico, quanto meno dichiarato, delle istituzionieuropee in materia.3 L’ampliamento del concetto ha comportato tuttaviasensibili difficoltà nel definirlo e nel misurarlo. La Commissione europea,nel suo secondo rapporto ufficiale «sulla povertà e sull’esclusione so-ciale» (2002) ha fatto ricorso a una batteria di ben 24 indicatori (9 in piùdel primo rapporto), raggruppati in 5 dimensioni di «privazione non mo-netaria»: 1) privazione nello stile di vita di base (riferito a beni come ilcibo, il vestiario, il pagamento delle bollette, la possibilità di andare in va-canza almeno una volta l’anno...); 2) privazione negli stili di vita secon-dari (riferiti a beni meno essenziali, come l’auto, il telefono, la tv); 3) di-sponibilità di standard abitativi comuni (servizi igienici interni all’abita-zione, acqua corrente, doccia o vasca da bagno ecc.); 4) deterioramentodell’abitazione (infiltrazioni d’acqua dal tetto, umidità, finestre rotte...);5) problemi ambientali (rumori, inquinamento, spazi inadeguati...).

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In Italia, la Commissione di indagine sull’esclusione sociale ha invecedefinito gli esclusi come coloro che occupano le posizioni più bassenella stratificazione sociale: non solo perché dispongono di meno risorsedi quelle necessarie per condurre una vita normale, ma perché sono inun certo modo separati dal resto della società. L’elemento qualificantedella nozione di esclusione sociale viene pertanto individuato nella «se-parazione tra coloro che partecipano pienamente alla società e coloroche invece si trovano privati di un ruolo riconosciuto» (2000, p. 75). L’e-sclusione viene concepita quindi come un concetto dinamico e multidi-mensionale, ossia derivante dall’accumulazione di diversi fattori di de-privazione, mentre la povertà sarebbe un concetto statico, oggettivo emisurabile.

La letteratura sull’argomento ha posto poi l’accento su un elementoimmateriale, che rimanda alla nozione di capitale sociale prima richia-mata: la rilevanza delle relazioni sociali, dei legami con altri, dell’intera-zione con altre persone, ambiti di vita sociale, luoghi di aggregazione.L’isolamento, ossia la mancanza di contatti con i vicini di casa, la nonfrequentazione di altre persone, la non appartenenza ad associazioni oad altre forme di vita collettiva, possono essere assunti come indicatoridi esclusione sociale (Chiappero Martinetti 2008).

Pure la precedente ricerca sui disoccupati adulti prima ricordataaveva disegnato un’immagine sfaccettata della popolazione a rischio diemarginazione, mettendo a fuoco un ventaglio di fattori e di circostanzeche concorrevano a produrre spirali di progressiva esclusione: oltre allacausa scatenante della perdita del lavoro, formazione inadeguata, inve-stimenti sbagliati e rovesci economici, malattie, disagio psichico, dipen-denza da alcol o da droghe, rotture familiari e altro ancora. Venivano intal modo identificati alcuni profili emblematici di soggetti che in variamisura hanno sperimentato carriere discendenti e rischiano di essere ri-succhiati nei gorghi dell’esclusione sociale:

a) I soggetti che hanno avuto storie lavorative discontinue e frammen-tarie, che non hanno consentito di accumulare competenze profes-sionali spendibili. Spesso si tratta, a Milano, di persone provenientidalle regioni meridionali, che non dispongono di un capitale socialein grado di sorreggerle nella ricerca del lavoro. La protezione fami-

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liare ha consentito a molti di loro di tamponare la situazione, magiunti all’età adulta la fragilità del loro inserimento nel sistema occu-pazionale diventa manifesta e tende a condizionarne il reinserimento,o piuttosto un ingresso finalmente stabile e strutturato nel mondo dellavoro. Laddove è venuta meno la possibilità di contare sulle risorsedei genitori o di altri familiari, questi soggetti rischiano di scivolarerapidamente verso l’emarginazione.

b) I soggetti colpiti da gravi forme di emarginazione ed esclusione so-ciale, che hanno come figura emblematica quella della persona senzadimora. Spesso si tratta in questi casi di situazioni multiproblematiche,in cui l’assenza di lavoro rappresenta la classica punta dell’iceberg: di-sagio psichico, dipendenza da alcol o da droghe, altri disturbi o ma-lattie intaccano la biografia dei soggetti e ne compromettono l’occupa-bilità. Anche tra gli emarginati e i senza dimora si distinguono storiediverse, che vanno da coloro che, ancora giovani, sono caduti nei cir-cuiti dell’esclusione senza neppure aver potuto sperimentare una vitalavorativa normale, a persone che invece hanno subito una traiettoriadi mobilità discendente, contrassegnata dalla perdita del lavoro, dei le-gami familiari, della stabilità abitativa. Sono evidentemente le situa-zioni più difficili da affrontare, in cui l’accompagnamento verso il la-voro rappresenta un tassello necessario, ma non sufficiente, di inter-venti complessi di recupero e reinserimento sociale.

c) I lavoratori in possesso di un certo bagaglio di competenze e con unastoria lavorativa consistente, che per scelta o sotto la spinta di fattoriesterni hanno deciso di mettersi in proprio, ma non hanno avuto for-tuna. Vari fattori, come incidenti, problemi di salute, furti, conflittifamiliari o tra soci, o più in generale la recessione economica del no-stro paese, hanno compromesso gli investimenti e costretto i soggettiad abbandonare l’attività, dopo aver ingoiato risparmi e proprietà.Ora, essendo fra l’altro soggetti non più giovanissimi, il rientro nel-l’occupazione dipendente non si presenta agevole, mentre l’avvio diuna nuova attività autonoma non appare in genere praticabile.

d) I colletti bianchi, quadri e manager espulsi dalle imprese a seguito diprocessi di ristrutturazione, che non sono ancora riusciti a trovareuna ricollocazione adeguata nel sistema economico. Sono figure em-blematiche, e per molti aspetti nuove, del mercato del lavoro contem-

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poraneo, vittime di imprese che perseguono assetti lean and mean(snelli e meschini), di processi di riduzione dei livelli gerarchici e distrategie di abbattimento dei costi che hanno individuato nei quadriultraquarantenni, con le loro buone retribuzioni, i capri espiatoridella ricerca di competitività ed efficienza. Non è vero in genere cheabbiano competenze obsolete o inadatte, più semplicemente costanopiù di giovani neoassunti. Nel momento della ricollocazione, le loroesperienze specialistiche e i livelli di responsabilità raggiunti li ren-dono, paradossalmente, poco interessanti per altri datori di lavoro,che ne paventano aspettative troppo elevate e rigidità organizzative.

e) Le donne che hanno lasciato il lavoro o non hanno mai avuto espe-rienze significative, perché avevano scelto di dedicarsi alla famiglia ealla cura dei figli. A un certo momento, l’equilibrio che avevano rag-giunto si è spezzato, a causa della vedovanza o di una crisi matrimo-niale. Subentra così la necessità di guadagnarsi da vivere, ma il rientro(o l’ingresso) nel mercato del lavoro è condizionato dalla carenza dicompetenze professionali, dal deterioramento dei titoli di studio con-seguiti nel passato ma non sfruttati, dalla debolezza del capitale sociale.La necessità di accudire figli ancora giovani condiziona la possibilità ditrovare o mantenere un posto di lavoro: molte di queste donne cercanoun lavoro a tempo parziale, anche di basso livello (pulizie, ristorazionee simili); ma gli orari che vengono loro proposti entrano in conflittocon i loro impegni familiari. Quando alle spalle non hanno una fami-glia (ascritta) in grado di sostenerle, sotto il profilo economico o nellacura dei figli, la loro situazione diventa critica.

4. Alla ricerca di un nuovo welfare: il principio dell’attivazione

Il perdurare e l’aggravarsi di fenomeni di esclusione rappresenta una sfidaper la coesione sociale. Se gli esclusi di oggi mancano del peso politico,delle risorse organizzative e del potere vulnerante della classe operaia diieri, rappresentano comunque una minaccia per l’ordine sociale, il decoro,e l’autorappresentazione delle società sviluppate. D’altronde i sistemi diwelfare, anche prescindendo dai ritardi e dalle inadeguatezze del caso ita-liano, hanno sperimentato problemi crescenti di efficacia nel contrastare i

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nuovi rischi sociali. Si è aperto un divario fra il tradizionale nucleo di ri-schi tutelati dai sistemi di protezione sociale (vecchiaia, malattia, infor-tuni...) e i nuovi bisogni sociali. Grazie alle assicurazioni obbligatorie, ven-gono offerte prestazioni non trascurabili a persone e famiglie che si tro-vano sotto l’ombrello di copertura del sistema (per esempio, in caso di ri-tiro dal lavoro, anche in un’età ancora lontana dalla vecchiaia e dall’inabi-lità al lavoro), mentre difettano i dispositivi di tutela verso chi si trova incondizioni di bisogno non corrispondenti alle forme di rischio codificate(Ferrera 1998): tipicamente le fasce adulte a rischio di esclusione.

Come osserva Rosanvallon, la concezione tradizionale dei diritti socialisi traduce in una «macchina indennizzatrice» che compensa gli effetti didisfunzioni temporanee (malattie, brevi periodi di mancanza di lavoro),ma si rivela inadeguata a fronteggiare situazioni di crisi prolungata. LoStato assistenziale «passivo» comporta poi sul piano economico effetti di-struttivi per la solidarietà: per indennizzare l’esclusione dalla vita produt-tiva, accresce i prelievi sul mondo del lavoro, con il risultato di ridurne ledimensioni. Sul piano sociale, inoltre, «sancisce di fatto la cesura fra in-dennizzo e inserimento» (1997, p. 6). Anche quando, e non è certo il casodell’esperienza italiana, riconosce un diritto a un reddito minimo di sussi-stenza per chi resta privo di mezzi, rischia di sanzionarne l’espulsionedalla vita attiva e di farne un assistito, generando i temuti circuiti della di-pendenza dal welfare. È la tentazione di «salariare l’esclusione» (ivi, p.85). Come ha sintetizzato Ferrera, i tradizionali schemi di tutela della di-soccupazione «si sono limitati a sussidiare le persone affinché non lavoras-sero, fornendo loro indennità, integrazioni salariali o prepensionamenti»(1998, p. 18).

Questa linea di pensiero, tendente a porre al centro delle politichesociali il reinserimento lavorativo degli esclusi, trova un riscontro sulversante psicosociale, ossia nelle aspirazioni di molti dei soggetti interes-sati. Come ricorda Beck, pur critico nei confronti delle tendenze delmondo del lavoro contemporaneo, «il gioco e l’ozio senza il lavoro sonoimpensabili [...] L’ozio forzato come condanna all’inattività può rapida-mente trasformarsi in una pena dell’inferno» (2000, p. 94).

Promozione e sostegno dell’occupabilità, secondo una «filosofia deltrampolino», nei termini di Ferrera (1998), o «diritto all’inserimento»,come chiede Rosanvallon (1997), diventano così le idee forza del ripen-

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samento delle politiche sociali destinate ai soggetti a rischio di esclu-sione, a causa in particolare della perdita del lavoro (cfr. Paci 2005).

Giddens (1999) ne ha fatto un pilastro della sua proposta di «terzavia» per la politica britannica, coniando l’ossimoro della «compassioneaspra» nei confronti di chi viene a trovarsi in condizione di bisogno:dare aiuto, ma condizionandolo all’impegno nella ricerca attiva di un’oc-cupazione e quindi allo sforzo di emanciparsi dall’assistenza.

Non va trascurato il fatto che questi approcci suonano più accettabiliper opinioni pubbliche riottose a finanziare per via fiscale misure di assi-stenza verso chi scivola ai margini della società. È largamente diffusa laconvinzione secondo cui, per citare ancora Ferrera, «troppo spesso neimercati occupazionali europei accettare un’offerta di impiego “non con-viene” rispetto allo status quo di beneficiario del welfare» (1998, p.110). Per di più «in Italia questa sindrome ha assunto forme e intensitàquasi uniche in Europa: pensiamo alla Cassa integrazione guadagni ealla virtuale assenza di incentivi al reinserimento da parte dei suoi bene-ficiari» (ibid.).

I discorsi sul ripensamento dei sistemi di protezione sociale, a partiredalle istituzioni europee, convergono largamente sul superamento diun’assistenza passiva (e passivizzante), in nome di un welfare attivo, voltoa sostenere gli individui nello sviluppo di capacità di autoprotezione e re-sponsabilizzazione nei confronti dei rischi sociali. La svolta trova unperno nel concetto di attivazione, in cui convergono le misure «che mi-rano a promuovere (e in alcuni casi a vincolare) un’assunzione di respon-sabilità da parte delle persone nella ricerca di soluzioni autonome e indi-pendenti sul mercato del lavoro e/o in altri ambiti della vita sociale edeconomica, in risposta ai rischi e alle condizioni di povertà ed esclusione»(Villa 2007, p. 9). Di qui l’enfasi sulle politiche di inserimento, rappresen-tate in modo particolare dai programmi di welfare to work, miranti a ri-durre la dipendenza dal welfare dei beneficiari, reintegrandoli nel si-stema occupazionale (Colasanto e Lodigiani 2008; Lodigiani 2008). L’at-tivazione si declina pertanto sia come impegno istituzionale, sia come im-pegno individuale rivolto ai beneficiari: se le istituzioni pubbliche, diretta-mente o indirettamente, sono chiamate a sviluppare servizi promozionali epersonalizzati, come la formazione lungo tutto l’arco della vita, l’orienta-mento al lavoro, i servizi di mediazione tra domanda e offerta di occupa-

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zione, i destinatari sono chiamati a diventare attori compartecipi della co-struzione della risposta ai propri bisogni, essenzialmente attraverso lapartecipazione al lavoro. A essi viene richiesto un impegno adeguatonella formazione, nella ricerca del lavoro, nell’accettazione delle occupa-zioni proposte, nel mantenimento del posto, e così via.

Questo duplice versante del discorso dell’attivazione lo espone a in-terpretazioni ambivalenti, su cui i critici non hanno mancato di solleci-tare l’attenzione (cfr. Villa 2007). Anzitutto, è per l’appunto un discorso,non costituisce una riforma complessiva del sistema di welfare, le cuicoordinate istituzionali restano immutate. Continuano cioè a essere co-perti rischi che non generano bisogni, e a essere mal tutelate situazioni(madri sole con bambini, persone senza dimora, disoccupati di lungadurata ecc.) che richiederebbero ben maggiore impegno pubblico.Giacché una politica dell’attivazione seriamente concepita comporte-rebbe investimenti economici rilevanti, e dall’esito comunque incerto, èstata recepita, nelle applicazioni, soprattutto l’idea della responsabilizza-zione dei beneficiari e del contrasto alla dipendenza assistenziale. Di quiuna tendenza verso una maggiore selettività delle misure di sostegno,una pressione affinché gli interessati accettino incondizionatamente leoccupazioni offerte, fino a una stigmatizzazione più o meno striscianteverso chi non riesce a emanciparsi dal bisogno di assistenza.

Le stesse idee di attivazione e inclusione possono essere diversamenteinterpretate. Non è scontato, per cominciare, che una persona sia social-mente inserita per il fatto di svolgere un’occupazione remunerata di qua-lunque tipo, contenuto e durata. Il lavoro è certamente un fondamentaledispositivo di integrazione nella società, ma non sempre e a qualunquecondizione. Specialmente quando intrappola chi lo svolge in lavori pre-cari, poco remunerati, socialmente svalutati, poco capaci quindi di contri-buire all’autostima e alla partecipazione sociale (Lodigiani 2008). La diffu-sione dei poveri che lavorano, o di una vasta schiera di immigrati che si ac-collano le mansioni più gravose senza essere accettati come membri apieno titolo della società, testimonia della divaricazione tra partecipazioneal lavoro, riconoscimento sociale, piena cittadinanza.

Soprattutto in una stagione di recessione e di carenza di occupa-zione, e ancor più di «buona» occupazione, emerge poi il fatto che l’atti-vazione non è destinata a coincidere necessariamente con un lavoro re-

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munerato. La formazione può essere una forma di attivazione, al paridella partecipazione ad attività volontarie, associative, di impegno civile,di utilità sociale. Specialmente quando si ha a che fare con persone la cuicapacità di lavoro è compromessa da fattori invalidanti (per esempio, lamalattia psichica), reduci da esperienze vulneranti come la vita in strada,colpiti da processi durevoli di stigmatizzazione e discriminazione (comele minoranze rom e sinte), o anche soltanto di età avanzata ma non an-cora pensionabili, oppure assorbite da impegni di cura che ne limitanola possibilità di lavorare per il mercato, come nel caso delle madri solecon figli piccoli, si coglie l’esigenza di ripensare il contenuto della no-zione di attivazione, riempiendola di significati più ampi e sensibili avarie forme di partecipazione e impegno civico (cfr. Paci 2005; Lodi-giani 2008).4 Di qui deriva poi un altro spunto: l’attivazione, anziché es-sere immaginata come un punto di partenza per il recupero degli esclusi,in molti casi va piuttosto concepita come il punto di arrivo di un per-corso delicato e complesso, che esige sensibilità, accompagnamento per-sonalizzato, interventi integrati con altri profili di intervento sociale: inalcuni casi, la risposta al problema abitativo, in altri la disintossicazioneo il recupero dell’efficienza psicofisica, in altri ancora il sostegno alla fra-gilità personale, la mediazione familiare, l’aiuto nella composizione traimpegni di cura e partecipazione al lavoro.

5. Organizzazioni solidaristiche tra accoglienza e attivazione. Obiettivi e impostazione della ricerca

Il welfare dell’attivazione è un cantiere aperto, a volte poco più di unoslogan, altre volte una forma di controllo sociale e di neopaternalismo,altre volte ancora un pretesto per ridurre l’impegno verso i soggetti piùdeboli e a rischio di esclusione, scaricando su di loro la responsabilità ditrovare la strada per la reintegrazione nella società.

Finalità della ricerca è stata invece l’esplorazione delle pratiche con cui,in diversi contesti metropolitani, italiani e stranieri, si declina la ricerca dinuove vie per il reinserimento sociale delle persone coinvolte in deriveemarginanti, combinando accoglienza e promozione, sostegno ed emanci-pazione, attenzione al benessere delle persone e avvio all’autonomia.

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La ricerca si è concentrata sulle iniziative promosse da organizzazionidella società civile a vocazione solidaristica, nella convinzione che si trattidi attori e risorse di fondamentale importanza per ricucire le lacerazionidel tessuto sociale, costruire ponti tra inclusi ed esclusi, mobilitare energiee sensibilità verso obiettivi di lotta alla povertà e all’emarginazione.

Le modalità di collaborazione e i rapporti, a volte positivi, a volte dia-lettici, con le istituzioni pubbliche, hanno rappresentato peraltro unpunto di cruciale interesse del progetto di ricerca. L’idea di fondo è cheoggi, in molti contesti e situazioni, la solidarietà che scaturisce dal basso(se si vuole, la carità) non sia un’antenata fuori moda o una sorella poveradella giustizia garantita dalle leggi e dai poteri pubblici. Mentre le leggi ele politiche pubbliche tendono a restringere le provvidenze, a selezionare ibeneficiari, a produrre meccanismi di esclusione (per esempio, sul pianodella residenza), a sanzionare e inasprire l’emarginazione dei più poveri,varie esperienze di solidarietà promosse da minoranze attive di cittadini sisforzano di allargare i confini dell’appartenenza, di recuperare ed emanci-pare persone che le contingenze della vita hanno condotto alla povertà ealla dipendenza, di sperimentare sul campo nuovi approcci orientati nonsolo all’accoglienza dignitosa, ma anche all’attivazione delle risorse dei be-neficiari, producendo in tal modo coesione sociale e maggiore sicurezzaper tutti.

La società civile non è però di per sé il regno della solidarietà e dell’a-pertura. Dal basso sono partite anche, in questi anni, mobilitazionicontro individui e gruppi marginali e in condizioni di esclusione, perce-piti come estranei e minacciosi: rom, immigrati, rifugiati e così via. L’in-sediamento di strutture di accoglienza e di servizi di assistenza, compresiquelli istituiti da organizzazioni solidaristiche, ha dato luogo a proteste emalumori, alimentati da forze politiche interessate a incassare i divi-dendi dell’ansia securitaria. Nella prospettiva della ricerca, questo ha si-gnificato tener conto della ricezione delle iniziative nel contesto locale,rappresentato spesso da quartieri già di per sé problematici, nonchédelle modalità con cui è stata favorita l’integrazione sul territorio, la ras-sicurazione degli abitanti, la mediazione sociale.

Giacché la promozione delle persone a rischio di esclusione è un’o-perazione complessa, che richiede la sinergia tra interventi di vario tipo,un’altra domanda dell’indagine ha riguardato le modalità di collabora-

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zione interorganizzative e la formazione di reti di collaborazione tra ser-vizi e attori diversi: pubblici, privato-sociali, a volte anche economici,particolarmente rilevanti per l’inserimento lavorativo.

Infine, una questione di rilievo ha riguardato le pratiche dell’attiva-zione. Molte analisi dell’argomento si collocano a livello macro, conside-rano le impostazioni delle politiche nazionali o (meno spesso) locali, o alpiù il funzionamento dei servizi pubblici. Prendere sul serio il principiodell’attivazione significa però anche andare a vedere come si combinasul terreno il binomio accoglienza-promozione, quali modalità di ac-compagnamento verso il lavoro e l’emancipazione si mostrano più frut-tuose, in quali condizioni e per quali beneficiari, quali risorse sono ne-cessarie e come vengono reperite, quali forme alternative di partecipa-zione e di autonomia sono possibili quando l’inserimento lavorativo ri-sulta per varie ragioni impraticabile.

La relazione con i beneficiari appare una variabile decisiva per la co-struzione di percorsi di superamento del bisogno e insieme della dipen-denza. La personalizzazione degli interventi, spesso evocata come un re-quisito essenziale delle politiche di attivazione, trova qui un severobanco di prova, poiché l’equilibrio tra sostegno delle persone nelle lorofragilità e incitamento alla responsabilità e all’assunzione di iniziativa èogni volta da calibrare e ridefinire. Una questione specifica, in propo-sito, riguarda la definizione e il funzionamento di impegni reciproci traorganizzazioni e beneficiari, negoziati, esplicitati e verificati, come stra-tegia di responsabilizzazione e avvio all’autonomia.

Sotto il profilo metodologico, la ricerca ha utilizzato la tecnica deglistudi di casi: analisi ragionate, sulla base di una griglia comune, dicinque organizzazioni straniere, operanti nei contesti metropolitani diBarcellona, Berlino, Londra, Parigi, Varsavia, e di cinque realtà italiane,distribuite sul territorio nazionale, e riferite alle città di Bologna, Napoli,Palermo, Roma, Torino. A esse si è aggiunta una rilettura dell’esperienzamilanese della Fondazione Casa della carità, da cui ha preso le mossel’interesse per l’argomento e l’itinerario dell’indagine.

La ricerca è stata svolta nella primavera del 2009: per ogni caso sonostate condotte analisi preliminari su materiali disponibili (grazie soprat-tutto a Internet), seguite da visite in loco, interviste ai responsabili delleiniziative, raccolta di documentazione. Ogni caso è stato oggetto di una

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specifica trattazione, rivista e discussa nell’ambito del gruppo di ricercamediante una serie di incontri di confronto, di successivi approfondi-menti e rielaborazioni, fino a pervenire alla stesura qui pubblicata.

Alla Unidea-UniCredit Foundation che ha sostenuto la ricerca, allaFondazione Casa della carità che l’ha attivamente promossa, a tutti i re-sponsabili e operatori degli enti che hanno accettato di rispondere allenostre domande, condividendo con noi il loro tempo e il loro patri-monio di conoscenze, va il nostro sincero ringraziamento. L’auspicio èche ne ricavino in cambio nuova forza per continuare a operare, con unasolidarietà intelligente e creativa, per la promozione delle persone spinteai margini della società.

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1. Da assistiti a protagonistiIl caso di Bolognadi Cecilia Trotto e Fabio Zuccheri

1. Il contesto

L’Emilia-Romagna ha 4 293 219 abitanti ed è una delle regioni più ricchee prospere d’Italia, con un benessere diffuso in ogni sua zona. In Emilia-Romagna si trovano molte piccole aziende a conduzione familiare e im-portanti poli industriali, come il settore chimico nel ravennate. Moltosviluppato è anche il settore agricolo-alimentare e l’artigianato. Le coo-perative giocano un ruolo storicamente fondamentale nell’economia re-gionale. Anche grazie alla sua posizione geografica, l’Emilia-Romagnacostituisce un trafficato nodo commerciale. Secondo i dati Istat del2008, i livelli di occupazione nella regione erano i più alti d’Italia, conuna media del 70,2% della popolazione attiva tra i 15 e i 64 anni, afronte di una media nazionale del 58,7%, mentre i tassi di disoccupa-zione, almeno fino alla crisi economica del 2009, erano molto bassi, conuna media del 3,2%. In particolare, le donne residenti in Emilia-Ro-magna registravano il più alto tasso di occupazione in Italia (62,6%),riuscendo a centrare l’obiettivo del 60% di occupazione femminile fis-sato dall’Unione europea. Questo alto livello di occupazione fa dell’E-milia-Romagna un’importante meta di immigrazioni sia dall’Italia chedall’estero. Inoltre, nella regione si svolgono diverse attività culturali ehanno sede quattro università (Università di Bologna, di Parma, di Mo-dena-Reggio Emilia e di Ferrara), mentre le città d’arte e la riviera roma-gnola sono tradizionalmente affollate mete turistiche.

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La popolazione dell’Emilia-Romagna è in aumento dopo un lungo pe-riodo di continua contrazione (da 27 828 nati vivi del 1995 si è passati a37 968 del 2005). In special modo, aumentano gli immigrati, provenientisia da paesi stranieri sia dalle regioni meridionali d’Italia. Gli immigratistranieri soggiornanti in Emilia-Romagna alla fine del 2006 sono arrivati acontare 318 076 unità, il 7,5% della popolazione complessiva, con un so-stanziale equilibrio tra popolazione femminile (49%) e maschile (51%).Per quanto concerne i minori, si è passati dai 15mila alunni stranieri del-l’anno scolastico 1999/2000 ai 51mila dell’anno scolastico 2005-2006, iquali rappresentavano il 9,5% dei 534 337 alunni complessivi. Le primedue nazionalità presenti in regione sono quella marocchina (16,9%) equella albanese (13,9%). L’Emilia-Romagna è altresì la regione con il mag-gior numero di anziani sul totale della popolazione dopo la Liguria.

Nonostante l’aumento della ricchezza, le diseguaglianze sociali sonoin crescita e la precarietà lavorativa e abitativa è più diffusa che in pas-sato. Secondo l’Istat, le famiglie povere in Emilia-Romagna nel 2008erano il 6,2%. Oltre a situazioni di estremo disagio come quelle che si ri-scontrano tra persone senza dimora, ex detenuti e quanti sono affetti dadipendenze, a diffuso rischio povertà si trovano i nuclei familiari mono-reddito e i nuclei monogenitoriali a basso reddito (spesso madri sole configli), i lavoratori con basse retribuzioni, i pensionati e i lavoratori pre-cari. Spesso queste categorie di persone non rientrano nella percentualedi poveri, ma vivono la loro situazione con difficoltà e incertezza.

Bologna rispecchia il quadro generale sopra descritto dell’Emilia-Ro-magna grazie al suo elevato benessere e alle sue svariate attività econo-miche e culturali. Il tasso di occupazione, al 72,4%, è il più elevato d’I-talia, mentre la disoccupazione è a livelli bassissimi. Nella zona sonopresenti soprattutto industrie meccaniche, elettroniche e alimentari.Inoltre, Bologna costituisce un nodo stradale e ferroviario di rilevanzanazionale; la sua stazione merci è la più grande d’Italia come volume ditraffico. In città si trova anche un polo fieristico di grande rilevanza. Bo-logna possiede uno dei centri storici cittadini più estesi e costituisce unameta turistica di buon livello. La vita culturale della città è vivacissima,grazie soprattutto alla presenza dell’Università, che attira studenti e do-centi da tutta Italia e dall’estero, al tradizionale impegno culturale delComune e all’elevato coinvolgimento della cittadinanza.

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La popolazione di Bologna ha raggiunto le 374 944 unità, con unadensità di 2662 abitanti per kmq. Dalla metà degli anni settanta si era re-gistrato un calo dei residenti, in parte dovuto al diminuire delle nascite, acui ha fatto seguito l’invecchiamento della popolazione, con gli ultra ses-santacinquenni che superano il numero di 100mila in città. La diminu-zione della popolazione ha cominciato ad arrestarsi dal 2002, fino al si-gnificativo aumento del + 0,7% registrato nel 2008. Su questo incre-mento vi sono due considerazioni da fare: la sua diversa consistenza terri-toriale all’interno dell’area urbana e il contributo decisivo dovuto all’im-migrazione. Alcune aree della città, come, per esempio, Pilastro, viaMondo, Bitonte, Zanardi e Pescarola hanno continuato a perdere abi-tanti anche negli ultimi anni. Queste aree erano e restano quelle più den-samente popolate della città, da cui però diversi residenti hanno deciso dispostarsi. Infatti, un trend opposto, con un sostanziale aumento dovutoin parte a nuovi insediamenti, si è verificato in aree meno densamente po-polate come Croce del Biacco, via Ferrarese ed Emilia Ponente.

Questi dati demografici sono in parte dovuti al flusso migratorio av-venuto in città. Il saldo migratorio, che comprende sia le migrazioni diitaliani che di stranieri, come riscontrato dai dati relativi alla residenza,nel 2008 è stato positivo: 17 150 arrivi (+ 18,7% rispetto al 2007) contro12 650 partenze (– 6,0%) (Comune di Bologna 2008b). Gli stranieri aBologna sono più che triplicati negli ultimi dieci anni. Nel dicembre del2008 a Bologna vivevano 39 480 cittadini stranieri, con un aumento del+ 17,5% (5900 residenti) rispetto a un anno prima. La popolazione stra-niera supera ormai il 10% di quella totale della città. Questo sostanzialeaumento ha contribuito notevolmente a invertire il trend demograficonegativo sopra citato, visto il maggiore livello di natalità degli immigratistranieri rispetto alla bassa natalità dei residenti italiani. Nel 2008 sononati 580 bambini di nazionalità straniera, per una percentuale sul totaledelle nascite del 19,3%. I gruppi di cittadini stranieri più numerosi sonoi romeni (5047 residenti) e i filippini (4068), comunità numerose pro-vengono anche dal Bangladesh, Marocco, Albania, Moldavia, Ucraina eCina. La composizione demografica degli stranieri differisce da quelladei cittadini italiani per quanto riguarda l’età media: 32,4 per gli stra-nieri e 47,6 per gli italiani. Il fatto che le comunità straniere siano media-mente più giovani di quella italiana fa sì che oltre il 16% dei giovani fino

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ai 24 anni che vivono in città siano stranieri, con un picco del 19,7% peri giovani tra i 19 e i 24 anni (Comune di Bologna 2008b). Anche tra igiovani in età prescolare e scolare si riscontra un’elevata incidenza distranieri. Tuttavia, la presenza di stranieri non è omogenea nelle aree cit-tadine, ma ha maggior riscontro in zone come San Donato e la Bolo-gnina.

Nonostante il benessere e la ricchezza, anche a Bologna è presente ilfenomeno della povertà estrema e del disagio sociale, espresso dalle per-sone che non hanno una dimora. A seguito dell’inverno del 2000,quando due senza tetto morirono congelati, in città sono stati predi-sposti circa 400 posti letto (che arrivano a 500 tra novembre e marzo).Questi posti non sono sufficienti, se è vero che attualmente ci sono 250persone in lista d’attesa, un’attesa che può durare tra i due e i tre mesi, eche non sono conteggiati gli italiani e gli stranieri privi di documenti, aiquali viene dato un sostegno direttamente in strada dall’unità mobile delS ervizio sanitario nazionale. Dei cinque dormitori presenti in città, solouno, ubicato in via Lombardia, fornisce un servizio a bassa soglia (unapersona può alloggiare nel dormitorio solo una settimana al mese) per ilquale basta recarsi dalle 19 all’entrata e, in base alla disponibilità, si puòessere accolti subito. Per gli altri quattro dormitori, i quali provvedono afornire un alloggio fino a 90 giorni, bisogna registrarsi alla lista unica eattendere il proprio turno. Alla fine, mediamente, delle persone regi-strate in lista d’attesa 50 dormono per strada (Intervista 1). Altre per-sone si rifugiano in capanne o nelle cascine, mentre altre ancora, pur es-sendo in lista d’attesa, vivono ancora in un’abitazione, sebbene sianosotto sfratto, o si spostano fuori dal territorio bolognese. Dal 2006 ledue liste distinte per italiani e stranieri sono state unificate in una listaunica dei senza dimora. Questa lista è formata per circa la metà da ita-liani, in maggior parte tossicodipendenti, e per l’altra metà da stranieri. Idue gruppi presentano situazioni diverse in quanto tra gli italiani predo-minano situazioni di dipendenze e di disagio psichico e sociale, spessoaccentuati da una lunga permanenza sulla strada, mentre per gli stranierisi tratta sovente solo di situazioni temporanee, in quanto già lavorano osono alla ricerca di un lavoro.

A livello amministrativo, il Comune è suddiviso in nove circoscrizionidi decentramento definite «quartieri»: Borgo Panigale, Navile, Porto,

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Reno, San Donato, San Vitale, Santo Stefano, Saragozza e Savena. Ilquartiere Navile è il risultato dalla fusione di tre precedenti quartieri:Bolognina, Lame e Corticella.

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertànel contesto considerato

A livello istituzionale, Regione, Provincia e Comune sono attivi nella pro-mozione e diffusione dei servizi sociali a Bologna, tramite diverse inizia-tive, spesso all’avanguardia nel panorama nazionale. L’integrazione deiservizi è presente a livello regionale tramite il Piano sociale e sanitario(Regione Emilia-Romagna 2008). Difatti, si è deciso di integrare i servizisanitari e sociali regionali basandoli sulla partecipazione con le istituzionipubbliche della società civile, delle parti sociali, del terzo settore e dellestesse persone e famiglie, le quali non vengono più considerate utentipassivi bensì soggetti da coinvolgere. Altri aspetti fondamentali dell’ap-proccio usato nelle politiche sociali a Bologna sono la localizzazione, l’in-terdipendenza e l’interdisciplinarità degli interventi che devono conside-rare anche l’impatto di genere. L’integrazione delle politiche sociali e sa-nitarie è considerata necessaria per dare risposte adeguate a problemicomplessi che possono riguardare la famiglia, l’infanzia e adolescenza, igiovani, gli anziani, i disabili, gli immigrati e le situazioni di povertà edesclusione sociale. Questa integrazione si basa su un concetto di saluteche comprende anche aspetti di benessere legati alle condizioni econo-miche dei cittadini, alle relazioni, al grado complessivo di coesione so-ciale e alle azioni di contrasto delle disuguaglianze. L’integrazione coin-volge anche l’aspetto gestionale e quello professionale di enti e operatori.La partecipazione dei soggetti privati nell’ambito sociosanitario si svi-luppa in tutte le fasi dell’intervento, dalla programmazione e progetta-zione, alla realizzazione, erogazione dei servizi e degli interventi sociali edella valutazione. Le strutture e i servizi privati intervengono nell’ambitosociale e sanitario tramite un processo di autorizzazione e accreditamentoa cui fanno seguito contratti di servizio.

Per quanto concerne la Provincia di Bologna, nell’ambito socioassi-stenziale, vengono predisposti i Piani di zona. La zona distrettuale pro-

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vinciale è considerata anche dalla Regione l’ambito territoriale ottimaleper il coordinamento e l’attuazione dei piani sociali e sanitari. Il Pianosociale di zona 2005-2007 è stato usato come documento di programma-zione e di definizione delle politiche sociali e sociosanitarie. Ogni anno èstata prevista la stesura del Programma attuativo in cui si presentano iservizi e gli interventi previsti nell’anno e le relative risorse per la lororealizzazione e gestione. Le aree di intervento specifico sono la famiglia,gli stranieri, i disabili, gli anziani e il contrasto alla povertà. Il Piano dizona viene indicato come «uno strumento strategico per l’individua-zione, la programmazione, il potenziamento, il riordino del sistema diinterventi e servizi sociali e sociosanitari locali secondo una modalità in-tegrata, di partecipazione e messa in rete delle risorse istituzionali, nonistituzionali e della comunità per la gestione delle politiche sociali» (Pro-vincia di Bologna e Volabo 2008, p. 9). Le risorse finanziarie sono costi-tuite dal Fondo sociale nazionale, il Fondo sociale regionale, il Fondosociale locale, aziende Usl ed enti non istituzionali quali fondazioni esoggetti del terzo settore. Diversi attori, sia istituzionali sia privati, parte-cipano alla programmazione, realizzazione e valutazione delle politichesociali del piano: la Regione, la Provincia, i Comuni aggregati in ambititerritoriali, le Asl, cittadini, famiglie, organizzazioni della cittadinanzaattiva, reti informali, gruppi di auto aiuto, il terzo settore privato, orga-nizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di promozione sociale,cooperative, fondazioni, enti di patronato, le organizzazioni sindacali,associazioni di tutela di utenti e di consumatori e istituzioni di pubblicaassistenza e beneficenza. Anche nel caso del Piano di zona si riscontraquindi un indirizzo che va verso l’integrazione dei servizi, la partecipa-zione dei diversi enti istituzionali e del terzo settore e la creazione di retiattraverso il coinvolgimento dei diversi soggetti pubblici e privati.

Lo stesso approccio si riscontra all’interno delle politiche sociali delComune. Il Comune di Bologna e il settore privato bolognese hanno unalunga tradizione di cooperazione e intervento nell’ambito socioassisten-ziale. Questa realtà pone Bologna all’avanguardia nel territorio italianoper quanto concerne le politiche e i servizi sociali. Lo sforzo delle inizia-tive comunali è quello di creare una fitta rete, insieme a cooperative so-ciali, associazioni, organizzazioni di volontariato, e imprese sociali di ser-vizi alle persone. I concetti chiave per le nuove politiche sociali del Co-

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mune di Bologna, come espresse nel documento «Il cantiere del nuovowelfare cittadino», sono l’integrazione dei servizi e la loro decentralizza-zione da una parte e la partecipazione del terzo settore e l’attivazione degliutenti dall’altra (Comune di Bologna 2009a). Secondo il documento, i ser-vizi sociali non sono occasionali e basati su erogazioni di somme di de-naro, ma la loro realizzazione viene svolta attraverso un dettagliato studiodei bisogni dei cittadini, ai quali si rivolge per capire quali siano le vere ne-cessità e il modo migliore per affrontarle. Il Comune ha approvato un re-golamento nel 2008 in cui si connotano e si descrivono i servizi. È statoquindi aperto uno sportello sociale per dare la possibilità a chiunque diconoscere quali siano le possibilità di sostegno e intervento da parte delComune. Quest’ultimo ricerca l’integrazione programmatica e operativatra sistema sanitario, sistema socioassistenziale e sistema educativo-scola-stico. Per quanto concerne la decentralizzazione, non solo la gestione maanche la promozione dei servizi sociali della comunità territoriale e l’acco-glienza dei cittadini sono stati spostati nei quartieri, il cui ruolo, come in-terpreti delle esigenze locali, è considerato essenziale. Un ruolo fonda-mentale per il coordinamento e le decisioni nell’ambito del sociale è statoassegnato al Comitato di distretto in cui, nell’ottica di decentralizzazionedei servizi, sono presenti i rappresentanti dei quartieri.

Nell’ambito dell’integrazione e partecipazione nei servizi sociali èstata creata l’Azienda pubblica di servizi alla persona (Asp). Le Asp de-rivano dal processo di trasformazione delle precedenti istituzioni Ipab esono presenti negli ambiti distrettuali di Provincia, ponendosi comepunto di riferimento per i servizi sociosanitari di zona. Questa nuova ar-ticolazione delle politiche sociali prevede che le Asp svolgano un ruolodi gestione e di intermediazione con organi del terzo settore, sottoscri-vendo con questi i contratti per l’erogazione di servizi sociali a secondadegli effettivi bisogni. Solo recentemente (marzo-aprile 2009) le Aspsono diventate operative e perciò è troppo presto per poter effettuareuna valutazione sul loro funzionamento. Tuttavia, si teme che frapporreun ulteriore organo tra il Comune e il terzo settore, possa rendere piùdifficoltosa la partecipazione dei privati nel processo di partecipazionealle politiche pubbliche locali (Intervista 2).

Riguardo gli effettivi servizi erogati, nel 2007 il Consuntivo di conta-bilità analitica del Comune aveva certificato che erano stati spesi 250 mi-

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lioni di euro per servizi legati ai settori educativo e scolastico, sportivo,culturale e ricreativo, socioassistenziale e abitativo. Le spese erano statecosì ripartite per settori: educativo e scolastico 130 milioni di euro, spor-tivo, culturale e ricreativo 46 milioni, socioassistenziale 68 milioni, abita-tivo 6 milioni (Comune di Bologna 2009d). Dal rapporto del Comune diBologna si stima che nel corso del 2008 sono stati spesi circa 255 milionidi euro in questi settori. Questa cifra rappresenta quasi la metà del totaledel bilancio comunale, dimostrando la particolare attenzione versoquesti settori da parte del Comune stesso.

Analizzando nello specifico le voci di spesa nel settore socioassisten-ziale, si evince come l’area di maggiore intervento da parte del Comune siacostituita dai servizi agli anziani. La seconda area di maggiore spesa delComune di Bologna nell’ambito socioassistenziale sono i servizi rivolti aminori e famiglie, i quali nel 2008 sono costati 12,2 milioni di euro, con unrilevante aumento rispetto al 2003 (5,1 milioni di euro, + 70,8%). Comeultima voce di spesa in campo socioassistenziale troviamo i servizi per gliadulti, i quali, nel 2008, sono costati al Comune di Bologna 4,6 milioni dieuro, con un aumento rispetto al 2003 di soli 302mila euro (+ 7%) (Co-mune di Bologna 2009d).

Per quanto concerne il settore abitativo, nel 2008 il Comune ha au-mentato in modo significativo il numero degli assegni integrativi per l’af-fitto utilizzando le risorse del Fondo sociale per l’abitazione, arrivando a6723 assegni, 2005 in più del 2003, pari a + 42,5%. Gli alloggi di ediliziaresidenziale pubblica assegnati nel 2008 sono stati 506, 224 in più ri-spetto al 2003, un aumento percentuale pari al + 79,4% (Comune di Bo-logna 2009d).

Sia per il settore socioassistenziale sia per quello abitativo ci sonostati significativi aumenti di spesa rispetto al 2003. Nessun tipo di ser-vizio ha tagliato le spese rispetto a cinque anni prima, mentre per alcunisettori, come quello dei disabili e delle famiglie e minori, sono aumen-tate in modo significativo. Naturalmente ciò non implica un necessarioaumento del numero e della qualità dei servizi, ma sicuramente certifical’intenzione politica di non diminuire la spesa nel sociale. Resta a ognimodo evidente l’attenzione maggiore riguardo i servizi agli anziani,mentre quelli per gli adulti mantengono una parte marginale all’internodegli interventi comunali nel campo del sociale.

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Su impulso di organizzazioni del privato sociale, quali la Caritas ePiazza Grande, nel 1999 è stata formata la Consulta sull’esclusione so-ciale, la quale è poi stata istituzionalizzata dal Comune in organo consul-tivo. A ogni modo, alcuni servizi, come le due mense cittadine per i po-veri gestite dalla Caritas, vengono forniti in totale autonomia finanziariae operativa dai soggetti privati. A Bologna, inoltre, sono presenti asso-ciazioni come Volabo e Bandiera Gialla, le quali svolgono un ruolo diinformazione e coordinamento dei soggetti operanti nel terzo settoreche agiscono nel campo del sociale, il cui numero è molto esteso in città.

3. Società cooperativa sociale La Strada di Piazza Grande

La cooperativa sociale La Strada è nata nel 1997 con l’obiettivo di ga-rantire continuità occupazionale e tutelare il diritto al lavoro delle per-sone senza dimora socie dell’Associazione Amici di Piazza Grande.Quest’ultima, infatti, nata nel 1994 come consolidamento dell’iniziativadel giornale di strada Piazza Grande1 ha avviato, nel corso della sua espe-rienza, diverse attività lavorative e di assistenza sociale, tra le quali la ge-stione di ripari notturni. Fu proprio per questo settore di intervento chesi sviluppò, da parte dei soci dell’Associazione Amici di Piazza Grande,l’idea di fondare una cooperativa sociale che, da un lato consentisse aquesti servizi di proseguire il proprio funzionamento, garantendo quindistabilità occupazionale alle persone impegnate nella loro gestione e, dal-l’altro, offrisse opportunità lavorative e riconoscimento sociale a per-sone con percorsi di vita di strada e in condizione di disagio.

Infatti, i primi destinatari degli interventi sono stati gli stessi soci e la-voratori della cooperativa, soggetti quindi che sperimentavano, o ave-vano sperimentato la vita in strada e i disagi a essa connessi.

Sin dalla sua fondazione, emerge dunque in maniera evidente il carat-tere mutualistico attorno al quale si è sviluppata l’esperienza imprendito-riale della cooperativa. Il mutuo aiuto, principio fondante del patto so-ciale dell’impresa è esplicitato in maniera evidente nelle parole di Mas-simo Zaccarelli,2 uno dei fondatori della cooperativa e presidente dal1997 al 2003:

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Siamo persone senza dimora in cerca di un lavoro, di una casa, di ricono-scimento sociale, di un posto accogliente, di uno spazio in cui la nostra pa-rola conta, attraverso il quale dire la nostra. Siamo persone che vengonoda percorsi di vita di strada, operatori sociali della bassa soglia, lavoratoriaddetti alle pulizie, custodi di bagni pubblici, tutor di laboratori informa-tici e chissà che altro domani. Siamo i soci e i consiglieri dell’amministra-zione della nostra cooperativa. Siamo persone che condividono il caffè, ledifficoltà, le gioie e le battaglie di persone senza dimora. Siamo qui perdare opportunità lavorative e riconoscimento sociale a persone che vivonoin strada, quelle di oggi e quelle che verranno. Siamo qui per mischiare lanostra sensibilità ed esperienza con quella degli altri, per comprendere ibisogni emergenti e sperimentare possibili risposte. Siamo qui per pro-muovere l’emancipazione e lo sviluppo delle competenze e dell’autonomiadi persone senza dimora. Siamo qui per ricordare che esistiamo.3

La mutualità che caratterizza questa impresa sociale è in realtà intesa inmaniera allargata, se si tiene conto della normativa che disciplina le coo-perative sociali (L. 381/91). Infatti, «la condizione di persona svantag-giata deve risultare da documentazione proveniente dalla pubblica am-ministrazione, fatto salvo il diritto alla riservatezza».4 La Strada, per lepersone che rientrano in questa definizione, usufruisce dello sgraviodegli oneri contributivi. Tuttavia, la considerazione della condizione disvantaggio, che nel quotidiano viene attuata dai soci della cooperativa,prescinde di norma dai benefici citati precedentemente, allargando iltarget degli ingressi in cooperativa anche a persone che, pur non es-sendo in carico a nessun servizio, hanno per esempio difficoltà a inserirsinel mercato del lavoro o vivono in condizioni di disagio abitativo.

Il senso del lavoro che scaturisce da un’impresa di questo tipo as-sume valenze che vanno ben al di là dell’ottenimento di un’occupazione.Pertanto, l’avere un’attività in un’impresa sociale come questa com-porta, per la persona, il mezzo con il quale promuovere la propria auto-nomia e integrazione sociolavorativa, attraverso un reddito che permettadi emancipare l’individuo da logiche di sopravvivenza. L’appartenenzache ne deriva è sentita dai lavoratori in una maniera tale da far coinci-dere, nella maggioranza dei casi, il lavoro con la propria famiglia e lapropria rete amicale. È evidente che, in un contesto di questo genere, la

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filosofia dell’empowerment debba tener conto, nelle diverse azioni, dellecapacità, ma soprattutto dei limiti individuali, legati alle difficoltà chederivano da percorsi così problematici. Pertanto, una delle principalicriticità che quotidianamente deve affrontare la cooperativa, è proprioquella di calibrare il carattere di attività economica con la mission dicombattere l’esclusione sociale. A tal fine, la cooperativa si avvale distrategie operative che le consentono, da un lato di svolgere la maggiorparte dei propri servizi in stretta collaborazione con associazioni, orga-nizzazioni del territorio, cooperative e istituzioni e, dall’altro, di approc-ciare le problematiche inerenti all’esclusione sociale, attraverso inter-venti mirati e una maggiore mediazione tra i servizi offerti dalla coopera-tiva e i loro beneficiari. La prima azione è raggiunta dall’impresa in que-stione, tramite una fitta rete di enti, con i quali collabora.5

Nella maggior parte dei servizi, la cooperativa La Strada collaboracon le altre realtà del privato sociale e del mondo cattolico nella gestionedelle attività, ma esistono anche associazioni fondate direttamente dallacooperativa assieme ad altre realtà del mondo sociale. È il caso, peresempio, dell’associazione Ailes (Associazione per l’inclusione lavorativae sociale)6 che si prefigge lo scopo di inserimento lavorativo di adulti indifficoltà all’esterno. Al di fuori dunque dei circuiti del mondo nonprofit, tentando quindi di agganciare anche le imprese profit in un di-scorso di responsabilità sociale.

Nell’operare contro l’esclusione sociale, il lavoro di rete consente in-nanzitutto di ridurre il rischio di settorializzare gli interventi, tramite larealizzazione di azioni complementari e integrate. Inoltre, la messa in retedi competenze ed esperienze differenziate e provenienti anche da ambitidifferenti, mondo cattolico, privato sociale e istituzioni pubbliche, com-porta un’elaborazione e progettazione critica degli interventi.

La seconda strategia che consente alla cooperativa di combattere l’e-sclusione sociale e di mantenere al tempo stesso lo status di impresa, èrappresentata dalla risorsa degli operatori «pari». Si tratta di figure pro-fessionali che provengono da percorsi di vita di strada e che si relazionanoquindi in un’ottica peer to peer con i beneficiari dei propri interventi.

Il rapporto con le istituzioni pubbliche è presente, sia sotto forma di ri-sposte che la cooperativa offre a esigenze del Comune e della Provincia diBologna, sia nella gestione in partenariato di alcuni servizi. L’esempio em-

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blematico del primo tipo di rapporti è rappresentato dalla nascita dellaCasa del riposo notturno Massimo Zaccarelli. Questa struttura, infatti, ènata inizialmente in risposta a un’esigenza del Comune di Bologna, nel di-cembre del 2000, di trovare una soluzione al problema dei senza dimorache affollavano i portici della città. Dinnanzi all’«emergenza freddo», unaserie di imprese sociali ed enti del volontariato si impegnarono nell’elabo-razione di una rete, in appena dieci giorni, in risposta alla pressante neces-sità. Pertanto, la cooperativa La Strada di Piazza Grande, insieme alla Ca-ritas diocesana, all’associazione Mosaico di Solidarietà, all’ente morale LaRupe, alle cooperative Il Pettirosso, Nuova Sanità, e all’Opera Padre Ma-rella, tuttora partecipe nella gestione, si costituì in rete, con Mosaico capo-fila, e si aggiudicò la convenzione per la gestione della struttura messa adisposizione dal Comune di Bologna in via De’ Carracci.

In partenariato con le istituzioni, La Strada gestisce invece degli spor-telli di inserimento lavorativo, che si rivelano anche un esempio concretodel desiderio di uscire dall’ottica secondo la quale la cooperazione socialecostituisca l’unica via per l’ottenimento di una integrazione lavorativa. Sitratta, infatti, dello Sportello Portici e dello Sportello Siid (Sportello itine-rante inserimento donne). Il primo, attivo dal 2003 al 2005, aveva come fi-nalità principali l’accompagnamento allo sviluppo delle competenze e al-l’inserimento lavorativo di persone in condizioni di disagio sociale.7

Il secondo, invece, gestito in rete con l’Associazione Amici di PiazzaGrande e attivo dal 2005 a oggi, persegue la finalità di orientamento eaccompagnamento al lavoro di donne in condizione di disagio sociale.In alcuni casi, quindi, la cooperativa ha fornito, insieme ad altre realtà,una risposta a un’esigenza concreta da parte del Comune. In altri pro-getti, invece, La Strada ha anche contribuito fortemente sia alla pro-grammazione sia alla gestione di un servizio, mettendosi in rete con altrienti e richiedendo in un secondo momento la condivisione dei progettida parte del Comune, nell’ottica di rendere i servizi a carattere pubblicoe non privato. La problematica, quindi, di sentirsi non solo gestori deiprogetti, ma anche parte attiva nella fase progettuale, costituisce con evi-denza un terreno delicato nei rapporti tra il pubblico e il privato sociale.Senza dubbio, La Strada mantiene un certo grado di progettualità, so-prattutto nei servizi in cui la rete con le altre associazioni e cooperative èattiva, o nei servizi nati in sinergia con le istituzioni. In quest’ultima casi-

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stica, rientra il Centro integrato di servizi oltre la strada, attivo dal 2002al 2008, la cui chiusura ha rappresentato un passo indietro nel delicatosistema di rapporti tra la cooperativa e le istituzioni pubbliche. Pro-mosso da un tavolo sperimentale di progettazione del comparto Coope-razione sociale di Legacoop Bologna è stato, infatti, finanziato inizial-mente tramite contributi regionali e, in un secondo momento, dal Co-mune di Bologna. La finalità era quella di istituire un progetto di inte-grazione dei servizi del territorio, situato nello stesso stabile della coope-rativa La Strada, sia per persone in condizione di disagio sociale e condifficoltà ad accedere ai servizi a bassa soglia, sia per soggetti in carico aistituzioni territoriali. Per la prima categoria di individui il centro rap-presentava la possibilità per costruire percorsi di graduale integrazionesociale e lavorativa, mentre per la seconda agiva in un’ottica di amplia-mento e di integrazione delle proposte formative, riabilitative e di cura.Lo scopo era attivare, in stretta collaborazione con i servizi invianti, per-corsi di promozione delle risorse individuali, adeguati e differenziati aseconda delle diverse capacità delle persone. Per la cooperativa, rappre-sentava invece uno strumento per avviare percorsi di inserimento lavora-tivo, tramite l’avallo di un centro esterno, comunque in grado di seguireda vicino e monitorare, i percorsi, sia lavorativi, sia sociali, delle personeinserite tramite borsa lavoro.

La cooperativa è attualmente composta8 da 38 lavoratori, di cui 27soci, 6 dipendenti, 5 tirocinanti e collaboratori. Sul totale dei lavoratoriben 19 sono costituiti da operatori sociali, di cui 14 provenienti da per-corsi di vita di strada; 12 addetti alle pulizie, di cui 9 legati a situazionidifficili, 2 addetti alla riparazione delle biciclette,9 entrambi passati at-traverso disagi sociali. La percentuale ridotta di persone «normodotate»è riscontrabile anche nel consiglio di amministrazione, anche se in ma-niera nettamente inferiore: su 7 componenti, solo 3 provengono da per-corsi altri rispetto alla strada. Alla base di questa strutturazione dellaprovenienza dei dipendenti vi è un vero e proprio criterio di scelta che,pur a distanza di dodici anni dalla fondazione dell’impresa, mantieneben saldo il valore di non snaturare le finalità sociali della cooperativa.

La cooperativa La Strada svolge tre diversi tipi di attività. La prima èlegata all’accoglienza e si suddivide nei seguenti servizi:

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54 Costruire cittadinanza

Le dinamiche che ruotano attorno alla gestione dei centri a bassa sogliahanno, come obiettivi principali, il diritto a un tetto e l’avvio di processidi miglioramento delle condizioni di vita di adulti in difficoltà, oltre chela promozione di processi di sviluppo dell’autonomia e delle compe-tenze sociorelazionali e lavorative dei beneficiari degli interventi. I cri-teri di accesso e permanenza nelle strutture sono stabiliti unicamentesulla condizione di bisogno e sulla capacità di rispettare le regole basilaridella convivenza, al di fuori da logiche di patti terapeutici o riabilitativi.L’approccio utilizzato è molto aperto e legato unicamente alle dina-miche di comunicazione stabilite dagli utenti, dal loro grado di apertura,dalle loro esigenze e, soprattutto, dalle loro tempistiche. Questa moda-lità cerca dunque di tener conto della multidimensionalità e problemati-cità dei disagi legati a percorsi di vita di strada, spesso riconducibili auna stretta interconnessione tra problematiche relazionali, lavorative,psicologiche e sanitarie.

L’approccio è certamente aperto a sperimentazione, ma al tempostesso sistematico e strutturato in modo tale da rispondere, in manieramirata, ai differenti bisogni.

Funzioni

Ascolto

Relazione

Orientamento in merito alle opportunità e alle risorse del territorio

Accompagnamento

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Principali obiettivi

Comprensione dei bisogni e delle principali caratteristiche della persona

Sviluppo della consapevolezza riguardo ai bisogni, al disagio, alle capacità e alle potenzialità individuali

Individuazione di risorse locali utili nel dare risposta ai bisogni emersi e nell’avvio di appropriati percorsievolutivi

Facilitazione per l’invio e l’accompagnamento ai servizio alle realtà individuate attraverso la trasmissione delleconoscenze acquisite riguardo alla situazione individuale

Interruzione dei ritmi e degli stili di vita di strada, sviluppo delle capacità di stare in relazione

Tav. 1.2.11 Principali funzioni svolte dagli operatori

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Da assistiti a protagonisti. Bologna 55

La seconda categoria di attività rientra nei processi di empowerment,connessi ad azioni in grado di promuovere e valorizzare capacità indivi-duali, vissuto e saperi, promuovendo, tramite laboratori, contesti in cuipoter dimostrare, a se stessi e agli altri, e acquisire competenze, in ma-niera graduale, insieme a maggiori autonomia e stima delle proprie capa-cità. I principali servizi connessi a questa area di intervento sono ripor-tati nella tavola 1.3.

Per quanto riguarda la terza area di attività, la cooperativa svolge ser-vizi connessi all’integrazione lavorativa di adulti in difficoltà, come la ge-stione di bagni pubblici e servizi di pulizia, sia di centri di accoglienza,sia di uffici di imprese cooperative e non. L’obiettivo è garantire serviziqualificati e, al tempo stesso, opportunità di inserimento lavorativo perpersone provenienti da percorsi di disagio. I principali servizi offertisono riportati nella tavola 1.4.

Tra le sfide che la cooperativa si è prefissata nel corso degli anni,esplicitate chiaramente anche nel bilancio sociale del 2003, alcune sonostate affrontate con successo, mentre altre hanno ancora bisogno ditempo e risorse. La prima, fra tutte quelle portate a termine, è rappre-sentata dalla trasformazione giuridica della cooperativa dal tipo B, volta

Attività nei lavori di pulizia e di manutenzione della struttura

Gestione delle emergenze, mediazione dei conflitti, informazioni

Analisi condivisa dei bisogni,progettazione e monitoraggiodegli interventi

Raccolta analisi dei dati quantitativi e qualitativi aggregati

Sperimentazione delle capacità lavorative, sviluppo dell’autostima, miglioramento della capacitàdi lavorare in gruppo, di garantire continuità dell’impegno e rispetto dei tempi

Riduzione dei rischi connessi alla vita di strada e all’utilizzo di sostanze alcoliche e stupefacenti

Adozione di un approccio di équipe coerente e condiviso, trasmissione dell’esperienza, individuazione dei nodi critici

Monitoraggio e analisi delle dinamiche di fruizione del servizio, autovalutazione, individuazione dei nodi critici

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all’inserimento lavorativo, alla formula B + A, che include la realizza-zione di servizi sociali ed educativi. Questa modifica ha comportato,oltre al riconoscimento formale dei servizi svolti, anche la possibilità diesplicitare la professionalità delle persone provenienti da percorsi di vitadi strada, impegnate da anni nei centri di accoglienza e nei laboratoriinformatici. A settembre del 2008, La Strada ha dato vita a un percorsoformativo, condiviso con la Regione Emilia-Romagna e finanziato dallaProvincia di Bologna, con lo scopo di conferire la qualifica di «anima-tori sociali»14 agli operatori sociali pari, dipendenti della cooperativa. Sitratta di un passaggio significativo, in quanto comporta un riconosci-mento sempre maggiore del lavoro di questi operatori, che hanno quindila possibilità di ottenere una delle quattro qualifiche, in ambito sociale,riconosciute dalla Regione Emilia-Romagna.

Un ambito in cui permangono invece diverse sfide da affrontare èrappresentato dal settore delle pulizie. Si tratta, infatti, di un compartocaratterizzato da attività individuali, da uno scarso lavoro di gruppotra gli addetti, e costituito quasi in totalità da persone provenienti da

Servizio

Pulizia di strutture di accoglienza

Pulizia di uffici

Gestione di bagni pubblici

Tutela igienica aree verdi

Manutenzioni

Luoghi

Riparo notturno M. ZaccarelliCentro diurno MultifunzionaleResidenza Sociale Santa Francesca CabriniEx Villa Salus Centro diurno via del Porto

Nuova Sanità cooperativa socialeRedazione Kappa Centro Sociale Giorgio CostaBanca Popolare Etica

Bagni pubblici siti in via IV novembreBagno del teatro sito in l.go Respighi

Aree verdi della città di Bologna

Riparazione biciclette Atc

Periodo

dal 2001dal 2003dal 2003dal 2005dal 2001

dal 2000dal 2005dal 2000dal 2003

dal 1998dal 2003

dal 2005

dal 2005

Tav. 1.4.13 Integrazione lavorativa: i servizi

Da assistiti a protagonisti. Bologna 57

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58 Costruire cittadinanza

percorsi di vita di strada e che hanno compiuto in tempi recenti il loroingresso nell’ente e con una percentuale ridotta di soci. Questi fattorihanno determinato un intenso turn over, che a sua volta ha contribuitoa caratterizzare il ramo delle pulizie come il meno connotato dal sensodi appartenenza dei lavoratori al proprio mestiere. Il rischio più graveè che in quest’area si concentrino soggetti disagiati destinati a lavoriprecari e con scarse prospettive di inserimento lavorativo e sociale.Come soluzione a questo problema La Strada ha intrapreso una poli-tica volta, da un lato, alla strutturazione di un lavoro di équipe co-stante e monitorato e, dall’altro, alla mescolanza delle categorie di per-sone con disagio, aprendo questo comparto anche a stranieri e a indi-vidui cosiddetti «normali». Quest’ultime categorie di lavoratori sono,infatti, considerate maggiormente propense a ritenere il lavoro, comelo strumento principale di integrazione, e ad avere di conseguenza unpiù acuto senso di partecipazione alla cooperativa. Pertanto, i respon-sabili dell’ente ritengono che la creazione di un gruppo di lavoro ete-rogeneo e incentivato a una riflessione costante sul proprio lavoro esulle dinamiche relazionali a esso collegate, possa coinvolgere mag-giormente gli addetti a questo ramo, diminuendo il turn over e pro-muovendo un lavoro qualitativamente superiore. Tuttavia, allo statoattuale, la percentuale di persone «normodotate» e di stranieri è an-cora irrisoria, rispetto alla controparte proveniente da percorsi di vitadi strada, e le trasformazioni auspicate sono ancora a un livello di pro-gettazione.

4. Riparo notturno Massimo Zaccarelli: non solo un posto letto

Il riparo notturno è nato all’interno del Progetto Carracci che, nel di-cembre 2000, aveva portato la cooperativa La Strada e le altre imprese so-ciali ed enti del volontariato, impegnati nel risolvere l’«emergenzafreddo», ad aggiudicarsi la convenzione per la gestione della strutturamessa a disposizione dal Comune di Bologna in via De’ Carracci 69/2. Ladurata del progetto, prevista inizialmente per tre mesi, venne prorogatafino al giugno 2001, grazie a uno sforzo congiunto tra gli attori del pub-blico e del privato sociale per garantire continuità all’iniziativa. Quest’ul-

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Da assistiti a protagonisti. Bologna 59

tima, infatti, necessitava oltre che di un proseguimento del finanziamentoda parte dell’ente locale, anche di una prosecuzione di un servizio che,partito come accoglienza a bassa soglia, era riuscito a effettuare un inter-vento integrato tra l’accoglienza notturna, la prevenzione dei rischi cheminano la salute e la dignità della persona, l’orientamento, il sostegno el’attivazione di percorsi di reinserimento. Grazie a questo successo il ser-vizio riuscì a rimanere attivo fino al dicembre 2001, finché non ottenne unfinanziamento regionale che consentì al progetto di continuare la propriaattività per il biennio successivo. Durante questo periodo, grazie anche al-l’inserimento dell’Associazione Arc En Ciel, si poté aggiungere agli inter-venti anche la sperimentazione di attività diurne per gli ospiti del riparo.Tale struttura nasce quindi in un’ottica di rete, con istituzioni sia pub-bliche sia private, in una prospettiva di riduzione della settorializzazionedegli interventi. Il Comitato di rete che coordina la gestione del dormi-torio è composto da rappresentanti degli enti promotori del progetto15 eda un coordinatore. Questo sistema comporta un’organizzazione rigida,strutturata attraverso riunioni a cadenza settimanale, sia a livello di Comi-tato, sia di équipe. La rete con i servizi del territorio si sviluppa invece nel-l’ottica di una collaborazione. Quest’ultima, infatti, tramite la mediazionedegli operatori del riparo notturno con i principali servizi, è volta allacreazione di percorsi individualizzati e multidimensionali, nel tentativo difornire una soluzione efficace a persone affette da problemi molteplici einterconnessi tra loro. Fino all’attuale Piano di zona del 2005-2007, lamaggior parte degli ospiti del dormitorio accedeva alla struttura MassimoZaccarelli senza essere già in carico ai servizi istituzionali. Pertanto, il la-voro degli operatori aveva come finalità principale il fare emergere le pro-blematiche degli utenti e agganciarli al servizio di riferimento, mediandocon le istituzioni. Da tale data la situazione si è modificata, in quanto lenuove regole di accesso ai dormitori prevedono l’iscrizione a una lista, ac-cessibile solo a chi è già agganciato a un servizio. Il lavoro degli operatorisi sta dunque orientando verso un ruolo di affiancamento ai servizi,16 ba-sato sulla valorizzazione della conoscenza diretta e continuativa che hannodegli utenti. Nella situazione attuale il rischio da evitare è quello di appiat-tire la professionalità e la posizione privilegiata degli operatori al sempliceruolo di custodia, svilendo quindi il lavoro di empowerment, che è al con-trario alla base dei principi del dormitorio.

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60 Costruire cittadinanza

Oltre ai servizi istituzionali, il team di lavoro del dormitorio cooperaanche con realtà del mondo cattolico e del privato sociale17 al fine dipromuovere attività di socializzazione all’interno del riparo. Queste col-laborazioni, a loro volta, fanno da tramite con il quartiere e sviluppanouna serie di servizi fondamentali per la struttura, che altrimenti non tro-verebbero posto. Le suore Canossiane hanno attivato un gruppo di vo-lontariato, composto da alcune studentesse ospiti della loro parrocchia edai tirocinanti scout della chiesa del Sacro Cuore, che svolge attività disocializzazione per gli utenti del dormitorio.

Il Servizio mobile di sostegno,18 gestito dall’Associazione Amici diPiazza Grande per conto del Comune di Bologna, presta servizio volon-tario serale all’interno del riparo e al tempo stesso attiva alcuni ospiti deldormitorio tramite tale impiego, in cambio di un piccolo compenso pa-gato direttamente dall’associazione. Attraverso la medesima attività èstato inoltre possibile attivare un presidio sanitario di medici volontariche, settimanalmente, si occupa delle persone della struttura, assicu-rando, nei casi necessari, un tramite con i servizi sanitari. Un legamemolto stretto è stato istituito, in particolare, con il Dipartimento salutementale, che ha affidato la terapia psichiatrica direttamente agli opera-tori del dormitorio.

La scelta del quartiere, ricaduta inizialmente sulla Bolognina per mo-tivi pratici, si è poi rivelata nel tempo efficace, sia per la rilevante pre-senza di enti e associazioni, sia per la vicinanza con la stazione, dove ilnumero di persone in condizione di bisogno è particolarmente elevato.

Attualmente la Casa del riposo notturno ospita 64 persone, 58 uo-mini e 6 donne. Questa sproporzione è dovuta alla nascita nel 2006 delprimo dormitorio femminile a Bologna, che ha comportato una dra-stica diminuzione della presenza femminile negli altri dormitori citta-dini. Gli utenti del dormitorio sono profondamente cambiati negli ul-timi anni. Fino al 2000, infatti, circa la metà era costituita da personeaffette da dipendenze e provenienti da percorsi di vita di strada,mentre, da tale data, la percentuale si è ridotta a vantaggio di una pre-valenza di persone straniere. I disagi quindi, ma anche le esigenze diqueste diverse categorie di utenti, comportano tempi di permanenza epercorsi di crescita differenti. In linea generale, si tratta di persone chehanno un lavoro, spesso notturno, e la cui necessità primaria è la ri-

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Da assistiti a protagonisti. Bologna 61

cerca di un tetto, con una percentuale inferiore di dipendenze e di di-sagi sociali dovuti ad anni di strada, e pertanto con tempi di perma-nenza in linea di massima inferiori rispetto alle altre categorie diutenti, ma con un grado di adattabilità alla convivenza in strutture diquesto tipo più basso. In generale, gli immigrati trovano più facil-mente occasioni di uscita dalla struttura, grazie a una fitta rete amicalee di comunità, che consente loro di trovare sistemazioni abitative altre,rispetto al dormitorio, con tempi senza dubbio più brevi rispetto allesoluzioni che si prospettano per l’utenza italiana. Quest’ultima, infatti,una volta terminata la proroga a sei mesi di permanenza nel riparo, sitrova dinnanzi la scelta tra un dormitorio di secondo livello e ungruppo-appartamento, dove la permanenza è comunque limitata a unanno, e prevede che la persona beneficiaria sia legata a un progetto diborsa lavoro o a una qualche formula di contratto lavorativo. Questosistema rende quindi difficile monitorare e affrontare rigidamente itempi di permanenza.

Il dormitorio è aperto dalle 19 alle 8 del mattino ed è gestito da 13operatori19 che a rotazione prestano servizio presso la struttura in dueturni che vanno: dalle 19 alle 24 e dalle 24 alle 8 del mattino. La quasitotalità degli operatori della cooperativa La Strada (7 su 8), proviene dapercorsi di vita di strada e rappresenta pertanto la forma più alta possi-bile di attivazione, trattandosi di persone che hanno portato a termine illungo percorso che va dall’essere utente del dormitorio al diventarneoperatore.

Gli operatori pari sono innanzitutto caratterizzati da immediatezza epredisposizione alla lettura dei bisogni e disagi degli utenti. Tuttavia, ne-cessitano di una formazione costante, soprattutto nei casi in cui l’espe-rienza professionale è troppo breve. Questa mescolanza continua tra sa-peri professionali ed esperienziali è il motore che anima il lavoro diéquipe degli operatori e costituisce il collante che tiene unite queste duediverse nature di lavoratori.

Le modalità di intervento istituite nella Casa del riposo notturnoMassimo Zaccarelli sono riportate nella tavola 1.5:

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Si tratta di un servizio a bassa soglia perché il patto di accessibilità è «leg-gero», costituito quindi da una minima serie di regole di convivenza, senzanessuna pretesa di progetto alla base. Premessa indispensabile, infatti, èche il servizio non possa essere considerato merce di scambio per l’impo-sizione di compatibilità sociali, senza quindi erogazione di servizi incambio di mutamenti degli stili di vita. L’approccio è invece basato unica-mente sulla volontà, da parte dell’utente, di essere «agganciato» e attivatoin un percorso di cambiamento degli stili di vita di strada, o di distacco dadipendenze, in una concezione del diritto della persona ad avere un postoletto indipendentemente dal fatto che abbia intrapreso o meno un pro-getto. Gli operatori a loro volta stimolano, durante colloqui individuali acarattere informale, gli ospiti ad aprirsi, nel tentativo di comprenderequale capitale umano, ovvero quali competenze socialmente riconosciute(livello di istruzione, esperienze professionali), una persona possegga.

L’ottica di empowerment, che alimenta questa modalità di intervento,è basata, da un lato, sul far comprendere all’utente quali, tra le capacitàemerse durante gli incontri con gli operatori, siano quelle maggiormentespendibili per innescare percorsi di attivazione e, dall’altro, potenziandole risorse «immateriali» (capacità di intessere relazioni, di gestire larabbia ecc.), indispensabili per un successivo reinserimento sociale. Ilpasso seguente è l’avviamento di interventi che, una volta calibrati inbase ai limiti e alle potenzialità delle persone, consentano di uscire daiservizi del riparo notturno e di agganciare legami con le istituzioni pre-senti sul territorio. Un esempio positivo di questa modalità di approccioè rappresentato dai corsi di formazione, finalizzati all’ottenimento diborse lavoro per alcuni utenti del dormitorio, che gli operatori del ri-paro notturno Massimo Zaccarelli hanno ideato e proposto al Comunedi Bologna.

Un percorso dunque di crescita professionale, della durata di duemesi, nel quale utenti del dormitorio, particolarmente portati a dina-miche relazionali, vengono formati dagli operatori della struttura ad ac-quisire le modalità necessarie a gestire i bisogni primari di persone senzadimora, direttamente in strada. Due risvolti di questo percorso sonoparticolarmente interessanti. Il primo è relativo alla promozione di al-cuni ospiti attraverso percorsi di borsa lavoro, mentre il secondo è le-gato alla nascita di un’équipe di lavoro, composta da operatori e utenti.

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Tuttavia, le occasioni per introdurre stimoli che possano attivare lepersone sono rare, sia per la caratteristica della bassa soglia, che connotail riparo, sia per le dinamiche di relazione basate unicamente sulla vo-lontà, da parte degli utenti, di interagire con gli operatori.

5. La figura professionale dell’operatore pari

La figura dell’operatore pari è stata ufficialmente riconosciuta, come fi-gura professionale, grazie alle valutazioni positive, conseguite dai tredicioperatori pari della cooperativa La Strada, nel maggio 2009. L’otteni-mento della qualifica di animatore sociale costituisce un importantepasso in avanti nel riconoscimento di questo ruolo educativo, che diffe-risce da quello ufficiale-accademico per modalità di approccio ai pro-blemi e percorsi esperienziali differenti. Inoltre, rappresenta la chiusuraformale di un percorso di attivazione che, partito dai dormitori, ha por-tato alla nascita di figure professionali qualificate.

Presenti già da diversi anni nelle comunità per il recupero delle tossi-codipendenze, gli operatori pari cominciano a diventare operativi nelpiù vasto campo della lotta alla povertà, al disagio sociale e all’esclu-sione, grazie all’esperienza della cooperativa La Strada.

Il punto di forza del loro intervento è riconducibile alla mediazioneche svolgono, sia tra gli ospiti e le strutture, sia tra gli educatori dispari egli utenti. Molto spesso, infatti, nei centri a bassa soglia vengono impie-gati per azioni di accoglienza o di contenimento. La vicinanza con gliutenti è senza dubbio maggiore, rispetto a quella che è possibile instau-rare da parte degli operatori dispari, anche per via del fatto che, in al-cuni casi, gli operatori pari avevano già conosciuto, in qualità di utenti,gli ospiti dei dormitori. Certamente, uno dei principali pericoli che com-porta questa mescolanza di professionalità differenti risiede proprionelle difficoltà di relazione che si instaurano tra questi due tipi diversi dioperatori. Il confronto quindi tra un sapere che deriva da conoscenzespecialistiche e accademiche e uno che proviene da esperienze di vissutopersonale, non sempre si risolve in un arricchimento, ma anzi producespesso uno scontro. Proprio per ovviare a questa difficoltà, la coopera-tiva ha strutturato, in maniera molto rigida, le occasioni di confronto tra

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gli operatori, stabilendo riunioni settimanali di raffronto, in modo taleda rendere il dialogo obbligatorio e permanente. Il lavoro di équipe haassunto dunque un ruolo centrale, al punto tale che i colloqui e le riu-nioni vengono gestiti da entrambe le categorie di operatori.

Questo metodo di lavoro è in grado di ovviare, in parte, anche aun’altra problematica connessa alla presenza degli operatori pari. In-fatti, il rischio forse più grave che deriva da questa figura professionale,è un accorciamento eccessivo della distanza tra operatore e beneficiariodell’azione. Questo fenomeno è dovuto sia alla contiguità di percorsi traquesti due ruoli, sia alla frequente caduta, da parte degli operatori pari,in meccanismi di autoinganno, derivanti da una difficoltà a gestire lacontiguità emotivo-esperienziale con gli utenti. Talvolta, infatti, l’ecces-siva sensibilità sviluppata nell’evitare valutazioni che potrebbero esseredettate unicamente da processi di riflessione del proprio vissuto suquello degli utenti, porta l’operatore pari, anche in casi di corretta valu-tazione dei comportamenti degli utenti, a preferire l’astensione da presedi posizione. Anche nei confronti di tale problematica, il lavoro digruppo costituisce la soluzione per ridurre e prevenire questo rischio discarsa tenuta dei ruoli. In tal senso, infatti, il lavoro di squadra tra opera-tori pari e dispari, istituendo un tirocinio in itinere reciproco, permette,ai primi, di essere aiutati nella difficile fase di transizione da ospite aoperatore, mentre consente, ai secondi, di colmare in tempi brevi le co-noscenze esperienziali.

Una problematica, al contrario risolta dalla recente legittimazione giu-ridico-amministrativa, è quella legata alla funzione di presentazione e diaccompagnamento degli utenti dei centri a bassa soglia presso i servizipubblici. Questi ultimi, infatti, tendenzialmente faticavano a riconoscere,come adatti alla funzione di mediazione con il territorio, questo tipo dioperatori, a causa di un mancato riconoscimento delle condizioni «am-bientali» e delle competenze necessarie a svolgere questo ruolo. La con-clusione positiva del lavoro di formazione, durato da settembre 2008 amaggio 2009, ha contribuito a scongiurare il rischio che la peer social policyvenisse intesa unicamente nel senso di poor social policy, con la conse-guente produzione di una visione distorta del lavoro sociale pari.

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6. Conclusioni

La cooperativa La Strada di Piazza Grande rappresenta senza dubbioun modello innovativo di impresa sociale, il cui punto di forza, e allostesso tempo di debolezza, è rappresentato dal delicato equilibrio trauna natura imprenditoriale e una sociale. Questa duplice connotazioneha infatti ricadute sugli obiettivi dell’impresa, che spesso sembrano per-dersi nell’acceso dibattito tra permanenza e transizione. Il turn over deilavoratori della cooperativa è scarso, se si considera che circa la metà deidipendenti ha effettuato il primo ingresso prima del 2002, ma allo stessotempo l’apertura verso altre imprese, enti e associazioni è evidente nel-l’intenso lavoro di rete che connota i servizi della cooperativa.

Il lavoro in cooperativa rappresenta pertanto un punto di arrivo, odi partenza? La non risposta a questa domanda costituisce probabil-mente la ragione dell’equilibrio tra le due diverse dimensioni della coo-perativa. Alla base della mission vi è l’intento di dare lavoro alle per-sone, come primo passo in avanti verso l’ottenimento di una casa e l’u-scita dal disagio.

Certamente lo scopo di un’impresa, anche quindi di una cooperativa,è quello di trattenere le competenze e professionalità dei propri lavora-tori. Tuttavia, i percorsi che caratterizzano i lavoratori de La Strada, daun lato provocano un attaccamento all’ente che va ben oltre il lavoro e,dall’altro, non consentono, in alcuni casi, alle persone di uscire da postiprotetti e di spendere le proprie competenze in aziende «normali». An-cora una volta, l’importanza della qualifica di animatore sociale, si rive-lerà forse una risorsa per ovviare alle contraddizioni, che talvolta si ce-lano dietro la dualità che contraddistingue i soci e i lavoratori della coo-perativa. Infatti, l’attribuzione formale della competenza professionale dioperatore pari consentirà una maggiore mobilità a questa categoria di la-voratori, che vedrà riconosciute le proprie competenze anche al di fuoridi questa cooperativa. Tuttavia, le tempistiche con le quali avverrà questoriconoscimento da parte delle istituzioni sono, a oggi, indefinite. Questaindeterminatezza dipende dal fatto che, affinché avvenga una vera e pro-pria identificazione del ruolo degli operatori pari, è determinante chequesto figura sia messa nelle condizioni di uscire dai circuiti di inseri-mento lavorativo legati alla cooperativa. Infatti, solo esportando i propri

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saperi e le proprie conoscenze in altri enti, l’animatore sociale riuscirà adiffondere i propri saperi, anche dinnanzi ai servizi territoriali. Indubbia-mente, la qualifica ottenuta a livello regionale e gli sforzi compiuti, daparte dell’impresa, nell’operare in rete nella gestione di alcuni servizi, co-stituiscono un importante passo in avanti in questa direzione.

Ciononostante, fino a quando permarranno dinamiche di inseri-mento lavorativo a carattere autoreferenziale, ovvero stabilite innanzi-tutto sulla base di risposte ai bisogni interni dell’ente e dei propri ser-vizi, l’apprezzamento degli operatori pari faticherà a uscire dai circuitiprotetti legati all’impresa in questione. Finora, infatti, l’unico enteesterno che abbia adoperato il sapere e le competenze degli operatoripari è stato La Rupe, un’associazione comunque legata alla Rete Car-racci. Inoltre, a rendere ancor più necessaria una circolazione in circuitialtri rispetto a La Strada, concorre l’esiguo numero di inserimenti lavo-rativi che la cooperativa è in grado di offrire. Analizzando, infatti, glisbocchi professionali del riparo notturno Zaccarelli, come per esempio icorsi di formazione svolti durante il «piano freddo», emerge con chia-rezza il numero limitato di inserimenti che l’équipe del dormitorio è ingrado di effettuare annualmente. In questo ambito nel 2008 sono stateformate 6 persone, su un totale di 64 ospiti. Questo dato è indicativo, daun lato, del fatto che la scelta di percorsi individualizzati e le problema-tiche connesse ai disagi degli utenti del riparo rendono necessari per-corsi di accompagnamento e inserimento molto lunghi e, dall’altro, delfatto che gli sbocchi professionali legati a un centro che, in primaistanza, è definito come «a bassa soglia», non consentono di svilupparepercorsi lavorativi numericamente significativi. Inoltre, se si tiene contodell’attaccamento dei lavoratori al proprio ente e dell’alto tasso di per-manenza in cooperativa, risulta ancora più evidente la necessità di svi-luppare percorsi di inserimento all’esterno. Senza dubbio, diversi sforzisono stati compiuti in questa direzione e, come testimoniato dal pianodelle azioni del riparo notturno Zaccarelli per il 2009-2011, molti sonoin fase di attuazione.

Se questo riconoscimento è un segnale positivo per il futuro, non lo èaltrettanto la chiusura di progetti, come il Centro integrato di servizi oltrela strada e lo Sportello Portici. Infatti, soprattutto in una situazione comequella attuale, dove, grazie al decentramento dei quartieri, la relazione

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con i servizi del territorio richiede canali diretti e diversificati, i centri diintegrazione dei servizi svolgono un ruolo senza dubbio importante. Il la-voro dovrà dunque essere ancor più teso a un dialogo costante con il ter-ritorio e i suoi servizi, nell’ottica sia di una integrazione sempre maggioredei percorsi di inserimento, sia della promozione della cooperativa anchenella fase progettuale e non solo come gestore di servizi già stabiliti dallepubbliche istituzioni. Soprattutto nell’attuale situazione, nella quale l’ac-cesso ai servizi di accoglienza a bassa soglia prevede che gli utenti sianogià presi in carico dai servizi istituzionali, risulta ancor più necessariostrutturare i percorsi di accompagnamento volti all’autonomia delle per-sone. La direzione che La Strada intende intraprendere è volta a ridurre,infatti, il rischio di una frantumazione e arresto dei percorsi avviati, checomporterebbe una riduzione delle attività di empowerment sviluppateall’interno dei dormitori. A rendere ancora più pressante questa esigenzainterviene la composizione degli ospiti del dormitorio che, come già pre-cedentemente sottolineato, sta sempre più indirizzandosi verso un’utenzastraniera. Allo stato attuale,21 infatti, su 145 ospiti del riparo notturnoZaccarelli, 69 sono stranieri: un numero destinato a crescere nei prossimianni. Questa nuova utenza è caratterizzata dall’esigenza di ricercare in-nanzitutto una casa e un lavoro. L’équipe di operatori del centro di acco-glienza deve pertanto orientare gran parte dei suoi interventi nella ricercadi collaborazioni con strutture adiacenti al riparo, come per esempio laResidenza sociale Santa Francesca Cabrini, e con gli appartamenti comu-nali rivolti a persone e famiglie immigrate. Emerge dunque la necessità,da parte degli operatori del riparo notturno Zaccarelli, di strutturare inmaniera sistematica i percorsi volti all’autonomia di questa fascia diutenti stranieri. Un altro ambito nel quale il servizio a bassa soglia dellacooperativa La Strada richiede interventi strutturati e in grado di forniresistematicamente risposte ai bisogni degli ospiti, è quello inerente alla fa-scia giornaliera. Per trovare una soluzione a queste problematiche, l’é-quipe del riparo ha strutturato sia un servizio diurno, sia una serie di in-terventi volti a costruire un dialogo e una mediazione con il territorio.

Nella prima categoria di proposte rientrano: un centro di segretariatosociale, all’interno del riparo notturno, con lo scopo di ascoltare i bisognidegli utenti e orientare gli ospiti ai servizi e alle risorse istituzionali; un ser-vizio di prima colazione, nell’ottica di garantire un momento di socializza-

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zione e di aggancio relazionale per le persone accolte nel dormitorio; atti-vità lavorative all’interno della struttura, in modo tale da fornire piccoleopportunità di attivazione per le persone che, durante le ore giornaliere,ruotano attorno al dormitorio, senza alcuna prospettiva; progettazione etutoraggio di percorsi di tirocinio in attività utili al territorio, come peresempio, lavori in affiancamento agli addetti delle pulizie della casermaadiacente, ai centri sociali anziani e agli addetti alla tutela igienica diparchi e giardini.

Nella seconda serie di provvedimenti, inerenti allo sviluppo di attivitàdi socializzazione e scambio culturale sul territorio, rientrano invece i se-guenti progetti: costruzione di convenzioni e collaborazioni con il ci-nema, il teatro e le associazioni sportive e musicali; raccordo con aziende,cooperative e artigiani dell’ambiente circostante, verso la costruzione diun dialogo continuativo per la gestione congiunta di progetti e percorsidi inserimento lavorativo e sociale. In linea generale si tratta pertanto diazioni destinate a promuovere legami con le istituzioni e con i centri e as-sociazioni presenti nella zona limitrofa al riparo, volte quindi a favorirel’inserimento lavorativo e sociale di un numero sempre maggiore di ospitial di fuori dei servizi e delle associazioni della cooperativa La Strada.

Un ultimo aspetto merita di essere descritto, in quanto rappresentalo spirito che muove il lavoro della cooperativa. Si tratta, infatti, dell’im-portanza che, in ogni azione, in ogni settore e in ogni intervento vienedata allo studio e all’approfondimento dei contesti nei quali i lavoratoridella cooperativa si trovano a procedere. La riflessione è lo strumentodel quale La Strada si avvale per interrogarsi sui propri nodi critici, pervalutare le prospettive, analizzare le potenzialità delle proprie peculia-rità, come il mutuo aiuto e la presenza di operatori pari, e decidere qualiaspetti modificare e quali implementare. A livello pratico, questa proce-dura si traduce in ricerche, in bilanci e in rendicontazioni annuali chepermettono di rivalutare e ripensare il proprio operare sulla base dellerisorse esistenti e dei cambiamenti esterni. È il caso per esempio della ri-cerca «LavorarSé. Ricerca sui percorsi di integrazione lavorativa nellacooperativa sociale La Strada di Piazza Grande» (Istituto di ricerca eformazione per i servizi sociali, a c. di, LavorarSé. Ricerca sui percorsi diintegrazione lavorativa nella cooperativa sociale La Strada di PiazzaGrande, Bologna 2005) che, attraverso un’analisi delle dinamiche di par-

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tecipazione, identificazione, soddisfazione dei lavoratori de La Strada ele relative valutazioni di merito, forniscono testimonianza del valore chein questo contesto viene attribuito alla riflessione e all’analisi.

Dall’esame delle politiche territoriali del Comune di Bologna, il pano-rama che si staglia dinnanzi è quello di una città in fase di cambiamento,nella quale le istituzioni, i quartieri e il privato sociale si trovano nellacondizione di dover ripensare i propri rapporti e le proprie dinamiche diinterazione. Riteniamo pertanto che, al di là di considerazioni di merito,il ruolo centrale che viene attribuito all’osservazione del proprio operato,possa costituire la base su cui fondare i propri interventi futuri, anche inun contesto in continua evoluzione, come quello attuale.

Valutando l’esperienza della cooperativa La Strada, in quanto mo-dello di impresa sociale con un’esperienza maturata in dodici anni di la-voro nell’ambito della grave emarginazione, emergono in maniera evi-dente alcuni tratti particolarmente significativi, fonte di riflessione e oc-casione per un confronto fattivo.

Due aspetti, in particolare, contraddistinguono l’ente analizzato e necaratterizzano le modalità di operare. Primo fra tutti, l’impiego di anima-tori sociali come risorsa volta alla creazione di posti di lavoro e alla risolu-zione di problematiche di «distanza» tra operatori e utenti, e tra questiultimi e gli educatori cosiddetti «istituzionali». Inoltre, un’altra preroga-tiva riconducibile all’inserimento di queste figure professionali pari,senza la quale l’impiego di tale risorsa risulterebbe inattuabile, è l’altaconsiderazione delle capacità delle persone, a prescindere dalle difficoltànelle quali si trovano. La Strada, infatti, trattandosi di un’esperienza natada persone uscite da percorsi di disagio sociale, è particolarmente pro-pensa a credere realmente nelle possibilità di recupero sociale degli indi-vidui, anche di quelli provenienti da percorsi di grave disagio. Con ogniprobabilità, il fatto che gli stessi fondatori de La Strada siano passati, epoi usciti, da esperienze di vita di strada, presuppone una convinzioneprofonda nei confronti dell’avviamento dei percorsi di inserimento so-ciale e lavorativo e insieme nelle capacità delle persone di passare dalruolo di beneficiari a quello di attivatori di processi di promozione. Nederiva, pertanto, una visione dell’importanza del lavoro sociale, dellaconcreta possibilità di poter contribuire ad aiutare persone affette daproblemi molteplici e differenti, che senza dubbio costituisce una spinta

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motivazionale significativa e portatrice di risultati positivi. Certamente, sitratta di una caratteristica che difficilmente può essere emulata, in quantopeculiare di questa impresa. Tuttavia, lo sviluppo del percorso di questioperatori e de La Strada in generale ha portato a una qualificazione regio-nale che, grazie alla certificazione, rende possibile esportare tali compe-tenze professionali anche in altri contesti e imprese sociali.

Riteniamo che la mobilità degli animatori sociali possa rappresentare,anche per altre aziende impegnate nel medesimo settore, una fonte diricchezza e di miglioramento. Da un lato, infatti, permetterebbe, instrutture e aree di ascolto e accoglienza, di accelerare le procedure dicontatto e comprensione dei disagi, grazie alla possibilità di eliminarequella barriera tra operatore e utente che, in questi contesti, costituisceun freno alla possibilità di agganciare le persone che si rivolgono aquesti circuiti. Dall’altro, invece, consentirebbe a enti, che operano incontesti simili, di avvalersi di un nuovo percorso di inserimento al lavoroche, grazie alla certificazione ottenuta nel 2009, si rivelerebbe anche unottimo strumento per agganciare altre imprese in progetti di partena-riato, vista la valenza acquisita da questa figura professionale. Tuttavia,l’investimento in questo personale necessita di essere attuato in manierastrutturata, in modo tale da consentire un vero e proprio inserimentonella realtà in cui verrà impiegato, attraverso pratiche di monitoraggio eun costante confronto con gli operatori istituzionali.

Il secondo aspetto che caratterizza La Strada e le sue modalità diazione è determinato dalla fitta rete di legami instaurati con il territorioe le altre istituzioni presenti nelle zone adiacenti alle strutture della coo-perativa. Questo fattore, rispetto al precedente, rappresenta un ele-mento costruito nel tempo, non dunque nato assieme a La Strada. Pro-prio per questo motivo, tenuto quindi conto dello sforzo compiuto nellaformazione di una rete territoriale, questo tratto va considerato come unvero e proprio merito maturato grazie all’esperienza acquisita. Si tratta,inoltre, di un fattore che, per chi opera nel sociale, è considerato unabase di partenza per la legittimazione, la durata e il conseguente finan-ziamento dei progetti, senza il quale il rischio di intervenire in manieraepisodica e non strutturata, si rivelerebbe una plausibile conseguenza.Inoltre, in quest’ottica di lavoro in rete con il territorio e, nello specifico,con i suoi servizi, il Centro integrato di servizi oltre la strada, rappresen-

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tava un modello di riferimento, verso cui tendere in futuro. La peculia-rità, difatti, che fosse stato istituito proprio all’interno dell’edificio dellacooperativa, ha introdotto una novità di particolare interesse. L’idea chela gestione di percorsi di inserimento lavorativo possa avvalersi di perso-nale, sia interno all’ente (quindi portatore di conoscenze dirette e detta-gliate dei percorsi e delle capacità lavorative ed esperienziali delle per-sone da inserire), sia di personale esterno (in contatto con i servizi istitu-zionali e informato sulle offerte formative e sugli inserimenti disponi-bili), offriva una risorsa immediata ed efficiente per il reperimento diposizioni di impiego e di formazione professionale. Tuttavia, l’alto costodi questo genere di servizi si rivela in molti casi un fattore determinanteper la chiusura dei progetti, rappresentando un passo indietro nel deli-cato sistema di rapporti tra privato sociale e Comune di Bologna. Nono-stante la conclusione, questa attività ha costituito però un’esperienza si-gnificativa nell’ambito della gestione compartecipata, tra istituzioni ter-ritoriali e realtà sociali, di percorsi di inserimento sociale e lavorativo.Riteniamo quindi che esperienze di questo valore, se valutate sulla basedi una scadenza stabilita a priori da tutti i soggetti coinvolti, possano co-munque determinare un modello per il futuro. Quest’ultimo necessita disperimentazioni positive di cogestione tra queste due dimensioni, so-prattutto in un momento delicato come quello attuale. Infatti, il rischioche, con l’istituzione dell’Azienda pubblica di servizi alla persona (Asp),si venga a frapporre tra queste due realtà un ulteriore organo, è moltoelevato. Per scongiurare questa eventualità è fondamentale che esistanopremesse positive, come quella rappresentata dal Centro integrato diservizi oltre la strada.

In conclusione, questi due elementi, caratterizzanti La Strada, pos-sono costituire un proficuo riferimento per migliorare l’opera di media-zione sia nei confronti dei destinatari dei propri interventi, sia nei con-fronti del territorio e delle istituzioni pubbliche e private che vi operano.

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INTERVISTE

Intervista 1: Presidente della Cooperativa sociale La Strada di Piazza Grande.Intervista 2: Responsabile della Casa del riposo notturno Massimo Zaccarelli.

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2. Dalla prima alla seconda accoglienzaIl caso di Napolidi Alessandra De Bernardis e Martina Tombari

1. Il contesto

La città di Napoli è connotata da tutte le problematiche tipiche dellegrandi aree metropolitane cui si aggiunge il drammatico e annoso pro-blema della disoccupazione (non solo giovanile) che acuisce la crimina-lità e il coinvolgimento in attività illecite. A ciò si affianca la mentalità fa-talistica e assistenziale ancora diffusa, per la quale sono esigibili soltantoi diritti legati alle erogazioni economiche (e delle quali viene spesso fattoun utilizzo improprio).

Senza inoltrarci nei meandri delle discussioni sociopsicologiche, eal di là delle semplificazioni riduttivistiche e oleografiche di giornali incerca di scoop o di pseudointellettuali che campano su una certa im-magine di Napoli e ne fanno una volta la città della pizza, della taran-tella, degli spaghetti, dell’arte di arrangiarsi o una mala Napoli delladelinquenza organizzata, della sporcizia, dell’indolenza, del «tirare acampare», dobbiamo riconoscere che questo territorio unisce ai tantiproblemi di ogni contesto metropolitano alcune problematiche chequi diventano «tipiche». Permane una cultura dell’emergenza, «inco-raggiata» dalle vicende legate al terremoto del 1980, che produceclientelismo, pressappochismo e ricerca di protezione assistenziale; inmodo particolare il post-terremoto ha creato quegli autentici ghettiche sono gli agglomerati abitativi cosiddetti «219», dal numero dellalegge che li ha istituiti, che rappresentano i contesti socialmente più a

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rischio per i giovani e fonte di notevole disagio per tutta la comunitàlocale.

Napoli si estende su una superficie di 1171 kmq ed è composta da 10municipalità, una buona parte delle quali presenta una forte concentra-zione di problematiche sociali. I dati demografici, disaggregati per quar-tiere e municipalità, mostrano una Napoli formata da più città, una di-versa dalle altre.

La città all’ultimo censimento risultava avere 1 004 500 abitanti, conuna densità abitativa media di 8566 abitanti per kmq, ma valori moltopiù alti nella municipalità 2 (Mercato, Pendino, Montecalvario, SanGiuseppe, Porto) con 20 074 abitanti per kmq e nella municipalità 5(Vomero, Arenella) con 16 170 abitanti per kmq.

Questi valori diminuiscono andando verso la periferia sia orientalesia occidentale. Negli anni successivi al censimento si è registrato un co-stante calo della popolazione in tutte le municipalità, tranne che nella 2,che nel 2005 raggiunge un valore di 21 032 abitanti per kmq. Il feno-meno è da attribuirsi alla rilevante componente migratoria.

Il 20,9% della popolazione napoletana è rappresentato da minori, il15,6% ha più di 65 anni e di essi il 23,9% vive da solo.

Il livello di disoccupazione è preoccupante. Il 31,4% della popola-zione residente risultava disoccupato al censimento del 2001. La perditadi una precedente occupazione ha riguardato in maniera analoga i ma-schi e le femmine, mentre si rileva un maggiore numero di uomini incerca di prima occupazione, rispetto alle donne. Poco più del 51% deltotale dei disoccupati risiede nelle periferie della città, che corrispon-dono alle municipalità 6 (Ponticelli, Barra, San Giovanni), 7 (Miano, Se-condigliano, San Pietro a Patierno), 8 (Piscinola, Chiano, Scampia) e 9(Soccavo, Pianura) che presentano, peraltro, tassi di disoccupazione no-tevolmente superiori al valore medio comunale, rispettivamente del49,1% nella municipalità 7, del 42% nella municipalità 8, del 39,9%nella municipalità 6 e del 37,7% nella municipalità 9. È da sottolineareche in queste municipalità risiede poco meno del 41% dell’intera popo-lazione del Comune di Napoli. Se si considera la fascia di età tra i 15 e i35 anni, a eccezione delle municipalità 1 (Chiaia, San Ferdinando, Posil-lipo), 5 (Vomero, Arenella) e 10 (Bagnoli, Fuorigrotta), la distribuzionedella popolazione in cerca di prima occupazione per titolo di studio si

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attesta su valori medio-bassi. Inoltre, nelle municipalità 7 e 8 oltre il18% dei giovani in cerca di lavoro è in possesso della licenza elemen-tare, mentre nei quartieri di Scampia, Pendino e Poggioreale l’incidenzadei giovani disoccupati senza titolo di studio supera i 2 punti percen-tuali, raggiungendo il 4,3% nel quartiere di Scampia.

Questo fenomeno ha come corollari la vastissima diffusione del lavoronero (anche, e forse soprattutto, minorile), l’ingrossamento delle file dellapiccola e grande criminalità, la diffusione dell’arte di arrangiarsi come stiledi vita (vendendo un po’ di tutto ai semafori, facendo i parcheggiatoriabusivi e i venditori di merce contraffatta, i venditori porta a porta...).

In questo panorama, certo poco incoraggiante, la condizione minorileassume un’evidenza particolare. Evasione scolastica, muschilli spaccia-tori, lavoro nero minorile, microcriminalità: sono le molteplici facce di ununico grande problema che oggi va assumendo anche altre connotazioni.

Un’altra situazione problematica relativamente nuova per la realtànapoletana è rappresentata dagli immigrati.1 Nei dati ufficiali sui resi-denti, i primi sei paesi di provenienza sono: Srilanka, Ucraina, Filippine,Cina, Capo Verde e Repubblica Dominicana. Tra le municipalità, quellache ha più stranieri è la 2 (Mercato, Pendino, Avvocata, Montecalvario,Porto, San Giuseppe), che corrisponde a una zona centrale degradata,con il 20,1% di stranieri. All’interno di questa popolazione, una primaosservazione riguarda il maggior peso percentuale delle donne (58,2%)rispetto agli uomini (41,8%). Riguardo alla distribuzione per genere, trala comunità srilankese e quella cinese la distribuzione è omogenea persesso, mentre per le altre è prevalentemente femminile.

Un’altra caratteristica del contesto napoletano è la presenza moltodiffusa di giovani famiglie multiproblematiche, con numerosi figli, allog-giate in abitazioni fatiscenti e in condizioni economiche a volte davveromiserevoli. Napoli, tra le grandi città italiane, è quella che ha la mag-giore incidenza di famiglie con 6 o più componenti. Le strutture fami-liari presentano differenze a seconda dei diversi ambiti territoriali, tantoche è possibile distinguere due tipologie. La prima, tipica delle zone pe-riferiche della città (municipalità 6, 7, 8 e 9), si caratterizza per la pre-senza di una famiglia media più ampia, per una più bassa incidenza difamiglie unipersonali e di famiglie costituite da ultrasessantacinquenni eper una più alta incidenza delle famiglie con più di 6 componenti. La se-

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conda, tipica delle zone più centrali, presenta caratteristiche opposte:una famiglia media meno estesa (a Chiaia 2,5 componenti), un maggiorepeso delle famiglie unipersonali e di quelle formate da soli anziani.

Per quanto riguarda le famiglie con problematiche di tipo giudi-ziario, la Campania è tra le regioni con più elevati indici di detenzione e,pertanto, a seguito del protocollo di intesa con il ministero della Giu-stizia del 3 ottobre 2000 e in concertazione con gli enti locali, promuoveinterventi di prevenzione e contrasto alla criminalità sia all’interno sia al-l’esterno delle carceri. Tra questi ultimi le «misure alternative alla deten-zione». Nel 2005 a Napoli sono stati seguiti dall’Ufficio di esecuzionepenale esterna 4980 casi, la maggior parte nei quartieri di Secondigliano(591), Ponticelli (448) e San Lorenzo Vicaria (401).

Infine, va considerato un altro problema rilevante per la città di Na-poli: la casa e di conseguenza la ricerca di un alloggio. Bisogna sottoli-neare che negli ultimi anni sono migliorate le condizioni abitative: sonopiù diffusi i servizi essenziali, diminuiti gli occupanti per stanza e au-mentate le abitazioni in proprietà. La città continua però a detenere al-cuni primati negativi: il numero di abitanti per stanza resta molto ele-vato, le abitazioni in affitto hanno un’incidenza rilevante rispetto aquelle in proprietà. Le maggiori differenze sono tra le zone delle peri-ferie a nord e a est della città, nonché gran parte del centro antico, carat-terizzate da un’elevata densità abitativa, case in affitto e situazioni di de-grado abitativo, e le zone occidentali e in parte del centro, con case diproprietà e una densità abitativa non molto elevata.

I servizi considerati nell’ambito della nostra ricerca sono collocatinella municipalità 2, ma hanno un bacino di utenza che si riferisce all’in-tero contesto cittadino.

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertànel contesto considerato

Se consideriamo gli interventi a favore delle persone in gravi situazioni dipovertà possiamo rilevare che in Campania il sistema di offerta può essereripartito in due principali macrocategorie: il Reddito di Cittadinanza(RdC) e le misure di contrasto alla povertà estrema. Alla prima possono

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essere ricondotti anche altri interventi economici diretti ad alleviare tem-poraneamente la condizione di bisogno delle persone e delle famiglie po-vere, principalmente misure rivolte agli ex detenuti, che nel complessotrasferiscono quote di risorse molto ridotte e per giunta solo in eventualitàeccezionali.

Il RdC è stato istituito con la Legge regionale 2/2004. L’art. 38 dellaLegge regionale 1/2007 decreta la proroga di un altro anno, sebbene conuna riduzione delle risorse economiche investite. Come è noto, la Cam-pania risulta, anche secondo gli ultimi dati disponibili, una delle regioni apiù alta incidenza di povertà relativa, seconda solo alla Sicilia, con inci-denze di povertà intorno al 27% a fronte del dato nazionale, ormai stabileda qualche anno, intorno all’11%. Il numero delle famiglie povere cam-pane, già elevato, cresce sensibilmente al crescere del numero dei compo-nenti familiari e dei figli presenti in famiglia, al punto che attualmente ri-sulta povera circa una famiglia con tre o più figli minori su due. Questodato mostra quanto risulti necessario programmare interventi di contrastoalla povertà volti a interrompere il circolo vizioso, che limita le opportu-nità di vita complessive di un numero elevatissimo di minori. Il RdC cam-pano costituisce lo strumento principale attraverso cui è possibile interve-nire sulle famiglie e sugli individui poveri sia attraverso il trasferimentoeconomico di un reddito parziale, ma regolare nel tempo, sia attraversol’offerta di servizi e interventi per l’inclusione specifici. Nella sola città diNapoli hanno presentato domanda per il RdC circa 34mila famiglie, ma,date le risorse economiche disponibili, è stato possibile includere nellasperimentazione poco meno di 3500 famiglie, che ancora risultano benefi-ciarie della misura, essendosi prodotto nel tempo un numero di uscite enuove entrate in graduatoria complessivamente di poco conto. Questodato testimonia la difficoltà di pensare a questo provvedimento come auno strumento di promozione dell’uscita dalla povertà, sia per l’entità de-cisamente modesta del trasferimento economico (circa 350 euro al mese),sia per il carattere cronico e di lungo periodo della povertà cittadina. I datidi monitoraggio raccolti nel corso della seconda annualità del provvedi-mento testimoniano peraltro quanto il RdC, a dispetto della sua scarsa en-tità, abbia consentito a tre famiglie beneficiarie su quattro di integrare lespese alimentari quotidiane e dunque di garantire una dieta adeguata asalvaguardare le condizioni di salute di un discreto numero di minori. La

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dimensione promozionale non sembra invece funzionare: il RdC diventadi fatto uno dei modi per sopravvivere nella povertà.

I Programmi di accompagnamento sociale avviati a Napoli in coinci-denza con l’avvio della seconda annualità del RdC hanno visto l’attiva-zione di sportelli dedicati ai beneficiari della misura nelle municipalitàcittadine, gestiti con il coinvolgimento di soggetti del terzo settore. Glisportelli hanno il compito di orientare e facilitare le persone nell’accessoal sistema dei servizi, trasferendo informazioni utili ed eventualmenteaccompagnando verso il servizio territoriale più idoneo a rispondere albisogno specifico. L’azione di segretariato sociale è stata integrata conuna specifica e individualizzata elaborazione di un Programma di ac-compagnamento sociale per un numero ridotto di famiglie beneficiarie,per le quali si rendeva necessaria una più intensa azione di supporto inragione della problematicità dei bisogni familiari complessivi. QuestiPiani hanno principalmente realizzato azioni a favore dei minori pre-senti nelle famiglie beneficiarie: promozione dell’inserimento scolastico,azioni a sostegno del recupero scolastico, inserimento in programmi disocializzazione ecc.; ma anche azioni a favore dei componenti familiariadulti, nella forma di recupero della scolarità e di ingresso in progetti fi-nalizzati al conseguimento del titolo dell’obbligo scolastico.

Gli interventi vengono definiti a partire da un bando. Fra i trasferi-menti economici straordinari vanno citati i contributi a famiglie di dete-nuti e liberati dal carcere: si tratta di contributi di modesta entità (uncontributo di 102,90 euro una tantum per gli ex detenuti e di 102,90euro ogni due mesi per le famiglie di detenuti senza figli minori; nel casodi presenza di figli è previsto il convitto), richiesti però da un numero re-lativamente elevato di persone. Il maggiore punto di debolezza della mi-sura, oltre l’esiguità del trasferimento, riguarda i tempi di istruttoriatroppo lunghi che spesso impediscono agli ex detenuti di arrivare a ri-scuotere il sussidio e che per giunta contrastano nettamente con il carat-tere di emergenza del contributo stesso.

Per quanto riguarda le misure di contrasto alla povertà estrema e inparticolare il sistema di offerta relativo ai senza dimora va citato in primoluogo il Centro di prima accoglienza che realizza attività di accoglienza,come il riparo notturno, l’alimentazione e la fornitura di generi di primanecessità, alle persone senza dimora. L’unità mobile di pronto intervento

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sociale opera su tutto il territorio metropolitano con l’uso di un camper at-trezzato e con l’impiego di otto operatori professionali. Infine, Casa Gaia(oggetto del nostro studio di caso), un centro di seconda accoglienza cheha la finalità di permettere ai senza dimora, che hanno già compiuto unpercorso di recupero, di sperimentare nuove forme di residenzialità, inuno spazio relazionale diverso, entro il quale possono emergere nuove di-namiche comportamentali con l’obiettivo di un reale inserimento sociola-vorativo.

Numero dei beneficiari Mesi di durata

Centro di Accoglienza notturna 110 12prima accoglienza

Umpis Unità mobile di strada 4660 (contatti) 12

Casa Gaia Gruppo appartamento 10 12di secondo livello

Il Comune di Napoli ha inoltre istituito il servizio di Anagrafe convenzio-nale per i cittadini senza dimora della città. Tutti coloro che non sono inpossesso di una residenza possono chiedere l’iscrizione anagrafica pressola via Alfredo Renzi, via intitolata a una persona senza dimora mancataqualche anno fa. Questo servizio consente di usufruire dei diritti derivantidella residenza che consistono nella possibilità di essere presi in carico daiservizi sociali (tessera sanitaria, sussidi, Cps-Centri psicosociali, Sert-Ser-vizi territoriali per le dipendenze ecc.). Ciò consente di evitare il bloccoanagrafico (condizione che si verifica se la cessata residenza viene denun-ciata da terzi o in occasione dei censimenti). Al fine di evitare che tuttequeste persone possano appartenere al bacino di utenza del medesimo di-stretto sanitario, in sede di assegnazione della residenza si affida il numerocivico di via Alfredo Renzi corrispondente al numero del distretto sani-tario della zona dove la persona generalmente vive.

Per le persone senza dimora sono disponibili anche due servizi realiz-zati dalla Caritas diocesana, con il contributo del Comune: il Binariodella solidarietà e Casa Giovanna Antida.

Quadro di sintesi del sistema di offerta per persone senza dimora:

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Il primo, situato presso la stazione ferroviaria, è un centro diurno cheoffre ascolto, pronto soccorso medico, distribuzione pasti, docce e guar-daroba, laboratori di socializzazione e creatività.

La Casa Giovanna Antida si occupa invece di accoglienza di donnesenza dimora a seguito di un colloquio presso il centro di ascolto del Bi-nario della solidarietà. Offre nove posti per l’ospitalità notturna e laprima colazione. Va infine sottolineato come la diffusione e il caratterecronico del fenomeno povertà su scala cittadina rendano piuttosto diffi-cile valutare le ricadute delle azioni intraprese, che necessariamente,

Fonte: Piano di zona 2007-2009.

Il Tavolo di lavoro convocato nell’ambito della predisposizione del Piano dizona 2007-2009 ha evidenziato quanto segue:

• «una discrepanza tra domanda effettiva e domanda soddisfatta soprattutto conriferimento agli adulti in difficoltà, che si aggiunge a una più generale difficoltàdi rilevare la domanda potenziale o sommersa di servizi. Lo scarto tra domandapotenziale, effettiva e soddisfatta è emerso in maniera particolarmente evidentein occasione della sperimentazione del RdC;

• un uso talvolta improprio di alcuni servizi come il Centro di prima accoglienzache deve farsi carico anche di soggetti con problematiche che richiedono forme ditrattamento specifico come alcolisti, ex tossicodipendenti, persone con gravi di-sagi psichici. Si rende necessario aumentare l’offerta di utenti per questo servizio,garantendone il pieno utilizzo nell’intero arco della giornata;

• una centralità di bisogni, come quello della casa e del lavoro, che non possono es-sere risolti esclusivamente nel quadro della programmazione prevista dalla328/2000 in quanto richiedono uno stretto raccordo con le politiche migratorie,economiche e abitative;

• la necessità di rafforzare la presenza e il ruolo dei Centri territoriali permanenti(Ctp) per l’istituzione e la formazione in età adulta anche attraverso un piùstretto raccordo con iniziative svolte a livello comunale;

• l’importanza di accompagnare le persone in difficoltà, e in particolare gli ex dete-nuti, in percorsi di inserimento sociale e professionale anche mediante progettiindividualizzati e/o di costituzione di piccole cooperative».

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date le risorse economiche disponibili, finiscono per avere un carattereselettivo.

Si registra un massiccio impegno e un numero sempre crescente diassociazioni e cooperative sociali che agiscono a favore dei minori e che,nella maggior parte dei casi, gestiscono progetti di titolarità del Co-mune. Infatti, a seguito della Legge 285/1997, sono sorte in ogni circo-scrizione molte realtà di educativa territoriale o comunque interventi ri-volti alla fascia minorile che, nonostante non rappresentino una rispostaesaustiva alla complessa e numericamente consistente realtà minorile na-poletana, hanno alimentato una maggior attenzione verso la problema-tica e una maggior consapevolezza sui diritti dei minori, sia da parte deicittadini sia da parte delle istituzioni stesse.

Pertanto, la sensibilizzazione del territorio e delle istituzioni ha facili-tato il riconoscimento e l’espressione dei bisogni e di conseguenza sonoaumentate le richieste di aiuto, tra cui il collocamento in strutture ade-guate di minori e famiglie in difficoltà. Vi è comunque il rischio che i sud-detti interventi restino frammentari, parcellizzati, legati spesso a un eventoe difficilmente trasformati in servizi stabili.

Nell’ambito della concertazione prevista nella definizione del Piano dizona il terzo settore cittadino è stato coinvolto, con una funzione preva-lentemente tecnica, allo scopo di fornire il proprio contributo al processodi definizione delle azioni, delle metodologie e degli interventi da realiz-zare per il triennio. Questo modello di collaborazione, realizzato a livellocentrale è stato riprodotto, laddove possibile, su scala territoriale.

Precedentemente il coinvolgimento del terzo settore avveniva soprat-tutto grazie alle Consulte territoriali, che hanno offerto un’opportunitàdi partecipazione, riflessione e confronto sulle politiche sociali, ma acausa della loro natura eterogenea e per il confine, talvolta ambiguo econtraddittorio, tra interesse particolare, sapere settoriale e bene collet-tivo, hanno spesso assunto un carattere di particolare complessità.

Inoltre, per facilitare il processo di costruzione delle reti territoriali, ilComune di Napoli ha stipulato una convenzione con il Centro servizi alvolontariato di Napoli e provincia.

Va comunque osservato che la maggior parte dei servizi offerti dalComune di Napoli vengono gestiti in collaborazione con il terzo settorea seguito di gare d’appalto e bandi.

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3. La Fondazione Massimo Leone Onlus: assistenza e reinserimento

La Fondazione Massimo Leone è stata legalmente costituita nel maggio1994 come evoluzione della storia di volontariato attivo prestato dai fon-datori presso quello che oggi è il Centro di prima accoglienza (ex dormi-torio pubblico) di Napoli. Ciò è stato reso possibile grazie a un lascitoda parte della famiglia Leone. Scopo statutario è fornire una rispostaconcreta al problema dei senza dimora nell’ambito della Regione Cam-pania, con particolare attenzione al territorio napoletano, su cui grava lamaggior parte del fenomeno.

Gli interventi promossi dalla Fondazione si prefiggono come obiet-tivo quello di fornire un aiuto a coloro che si trovano a vivere in condi-zioni di marginalità, cercando di mettere al centro di ogni progetto l’im-portanza della dignità dell’essere umano. L’intento è promuovere lapresa di coscienza dei diritti e doveri che rendono una persona real-mente inserita nel contesto sociale.

Negli ultimi anni, come già evidenziato, si assiste a un generale au-mento della popolazione senza dimora: in particolare il dato significa-tivo consiste nell’incremento del numero delle donne e degli immigrati,nonché nel complessivo abbassamento dell’età anagrafica. La continuamodificazione del fenomeno richiede un impegno in termini di osserva-zione, analisi dei dati e riformulazione dei servizi offerti che devono es-sere costantemente ricalibrati. A questo scopo la Fondazione MassimoLeone ha istituito il Centro studi e ricerche (di cui fanno parte un’edu-catrice, una psicologa e una sociologa). Il centro ha il pregio di legare illavoro quotidiano e concreto di relazione con le persone senza dimoraalla riflessione sulle problematiche relative alla homelessness, consen-tendo di orientare gli interventi nel modo più efficace e funzionale pos-sibile.

Il Centro studi e ricerche ha anche il mandato di analisi dei dati rac-colti attraverso l’attività dei servizi della Fondazione, allo scopo di for-nire una migliore conoscenza e approfondimento delle cause che hannoprodotto i bisogni, al fine di promuovere: «studi sull’emarginazione aNapoli, campagne informative e di sensibilizzazione e pubblicazioni di-vulgative, organizzazione di convegni atti allo scambio di esperienze traesperti ed operatori nel campo dell’emarginazione, indagine statistica e

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lettura sociologica del fenomeno, ed infine cicli formativi per volontaritenuti da psicologi che operano all’interno della Fondazione».

La Fondazione Massimo Leone offre diversi servizi, la cui peculiaritàconsiste nella contiguità, non solo topografica, con i servizi offerti dalComune di Napoli, e in particolare con il Centro di prima accoglienza.In essa lavorano dieci operatori stipendiati e trenta volontari.

Nel dettaglio i servizi della Fondazione sono:Centro di assistenza sanitaria polispecialistica ambulatoriale. Si tratta

di un servizio a bassa soglia, atto a fornire le cure urgenti e a svolgerecampagne di prevenzione, quali: vaccinazioni, igiene orale e prevenzioneantitubercolare. Il centro polispecialistico è ubicato nel medesimo sta-bile del Centro di prima accoglienza del Comune di Napoli, i pazientiche vi si rivolgono sono essenzialmente ospiti del centro medesimo. Vilavorano medici, a titolo volontario, e i macchinari e le forniture sonostati donati alla Fondazione Massimo Leone.

Attività laboratoriali di alfabetizzazione, cuoio, ceramica e informatica.La sede è la piccola chiesa sconsacrata di Santa Maria La Palma a pochipassi dal Centro di prima accoglienza. L’intento è offrire gli spazi, separatidal centro, per imparare a ricostruire relazioni sane, dove poter riacquisirel’abitudine al lavoro, al rispetto delle regole, alla convivenza. Tali labora-tori sono aperti alla città, in concreto però vi accedono essenzialmente gliospiti del Centro di prima accoglienza e comunque l’affluenza è piuttostoesigua (nel 2007 hanno frequentato i corsi 26 persone).

Centro di assistenza legale. Nasce dalla collaborazione con l’associa-zione Avvocato di strada di Napoli, che fornisce gratuitamente consu-lenza professionale in ambito civile, penale e amministrativo ai soggettisenza dimora sul territorio della città di Napoli, operando, come in altrerealtà in Italia, essenzialmente presso la stazione ferroviaria su segnala-zione degli enti che prestano assistenza ai senza dimora.

Centro di ascolto. Il servizio viene offerto nella stessa sede dove sisvolgono i laboratori. Gli ascolti sono effettuati da una psicologa e daun’educatrice (le stesse persone che si occupano del Centro studi e ri-cerche) con le modalità proprie di uno sportello, con possibilità di ac-cesso spontaneo o su invio da parte di altri enti pubblici o privati. Le per-sone senza dimora vengono ascoltate, accompagnate e monitorate conl’intento di rinforzarne il profilo psicologico e motivazionale. Si tratta

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principalmente di ospiti del Centro di prima accoglienza che vengono«agganciati» attraverso le attività laboratoriali e con cui si riesce a in-staurare una relazione di fiducia, condizione indispensabile perché siconcretizzi un percorso di attivazione e responsabilizzazione.

Casa Gaia. È un centro di seconda accoglienza, che ospita 12 per-sone, dove si offre la possibilità di tornare a vivere in una dimensione fa-miliare, condividendo con gli altri le responsabilità della gestione dome-stica, imparando a risentire, come proprio, uno spazio fisico che possadiventare anche un luogo di emozioni. Si trova in uno spazio concessodalla diocesi all’Opera Don Calabria e affidato alla Fondazione MassimoLeone. Lo scopo è quello di creare, attivamente e concretamente, le con-dizioni per un reale reinserimento sociolavorativo.

Possiamo dire che il percorso auspicato sarebbe quello di fare inmodo che gli ospiti del Centro di prima accoglienza frequentino un la-boratorio, entrino in relazione con il Centro di ascolto, vengano accoltiin Casa Gaia dove, attraverso un metodo volto alla condivisione del pro-getto e alla responsabilizzazione individuale, nonché allo sviluppo di co-munità, si renda attuabile l’inserimento sociale della persona.

4. Il Centro di prima accoglienza, l’ex dormitorio pubblico: una «casa» da osservare

Per studiare il caso della Fondazione Massimo Leone, e in particolare CasaGaia, non si può prescindere da una breve analisi del Centro di prima ac-coglienza del Comune di Napoli. Come si evince dal paragrafo precedente,infatti, la collaborazione tra Fondazione e Comune è molto stretta e prendeforma proprio attraverso l’attività del Centro di prima accoglienza.

Il dormitorio pubblico nasce nel 1880 presso il monastero del DivinoAmore, ubicato nel centro storico di Napoli; nel 1903 viene redatto lostatuto dell’Associazione generale napoletana di pubblica beneficenzaper il mantenimento dei dormitori. Nel 1925 l’Associazione ottiene il ri-conoscimento di «ente morale». In quell’occasione viene redatto un Re-golamento interno che non è mai stato modificato fino al 2004. Nel 1978l’assistenza ai senza dimora inizia a essere erogata dall’amministrazionecomunale che svolge tale attività, ancora oggi, attraverso l’assessorato agli

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Affari sociali e il Servizio alle politiche di inclusione. Dal 1951 nel dormi-torio abitano e svolgono le attività di assistenza le suore Poverelle di Ber-gamo, che hanno però sempre rifiutato incarichi direzionali.

Negli anni ottanta il dormitorio attraversa un periodo difficile: nel1982 viene inviato un rappresentante del Comune con il compito di di-rettore del dormitorio; nel 1984 difficoltà amministrative e diverse de-nunce anonime contro dipendenti accusati di abusi coinvolgono la strut-tura. Nel 1985 viene invece stipulato un accordo tra Caritas diocesana eComune di Napoli per la formazione e l’inserimento, all’interno del dor-mitorio, di un gruppo di volontari della Caritas coordinato dalla supe-riora delle comunità delle suore Poverelle, per rendere ufficialmenteoperativo il volontariato all’interno dell’ente. Da allora si sono svilup-pate le opere di assistenza collegate al dormitorio (centri diurni, mensaecc.) e anche il Comune si è mostrato sempre più sensibile nei confrontidelle politiche assistenziali.

Nel 1994 viene costituita, con forma giuridica, la Fondazione Mas-simo Leone, sulla spinta del desiderio di dare stabilità e continuità neltempo all’impegno di questo gruppo di volontari intenzionati a lavorarecon i senza dimora, sostenuti e animati da motivazioni umane, sociali ecristiane. Nei primi anni di attività la Fondazione Massimo Leone pro-testa per le condizioni del dormitorio pubblico (spazi enormi, ma gelidie spogli, con pochi posti letto e servizi igienici ubicati a troppa distanzaecc). Viene presentato e approvato un progetto di ristrutturazione nel-l’ambito dell’utilizzo dei fondi europei per il recupero del centro storicodi Napoli. I lavori durano quattro anni, ma la struttura non viene maidel tutto abbandonata, si procede a una ristrutturazione per aree e cosìfacendo una porzione della stessa rimane sempre operativa.

La riduzione dei posti dovuta a questi lavori di ristrutturazione hafatto peraltro emergere una realtà fino ad allora trascurata: le perma-nenze all’interno del dormitorio pubblico erano prive di monitoraggio,molte persone vivevano lì da decine di anni, a volte anche nonostanteuna possibilità economica che offriva alternative. Le suore e i volontari,con gli operatori della Fondazione Massimo Leone, iniziano a discuteresul significato del concetto di «dignità» per quelle persone che, datroppi anni ormai, erano abituate a vivere senza più diritti e che, a volte,senza una propria identità sociale, si accontentavano di ricevere un

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pasto caldo senza ricercare più una propria intimità domestica. Ne de-ducono l’importanza di operare in una struttura che offra a tutti un realesenso di rispetto, abbandonando il concetto di assistenza ottocentesco.

Con l’inaugurazione, a seguito della ristrutturazione avvenuta il 19novembre 2003, viene cambiato il nome da dormitorio pubblico aCentro di prima accoglienza (Cpa). La nuova struttura ambisce a effet-tuare un lavoro che vada incontro alle persone, accogliendole nella co-struzione di progetti atti a offrire un reale aiuto per il superamento delleproblematiche che hanno generato la perdita di una propria dimensionedomestica e familiare.

La nuova organizzazione ha previsto un nuovo Regolamento interno,che al primo articolo recita:

Il Centro di prima accoglienza di via De Blasis 10 è una struttura del Co-mune di Napoli in cui vengono svolte attività socioassistenziali consistentiin interventi di primo contatto e di pronta accoglienza in favore delle per-sone senza dimora, che permette in primo luogo di rispondere ai loro bi-sogni emergenziali – quali il riparo notturno, il vitto e la fornitura di altrigeneri di prima necessità – e, in secondo luogo, di avviare una prima fasedi «aggancio», alla quale far seguire altri momenti di orientamento ai ser-vizi, di vera e propria presa in carico, per l’elaborazione di percorsi di ac-compagnamento e reinserimento sociale. Vengono, altresì, svolte attivitàdi aiuto nei confronti di quanti, vivendo in situazioni di momentaneo di-sagio sociale, risultano privi di un luogo di ricovero.

La struttura opera con personale comunale, coordinato da un responsa-bile, anch’egli dipendente del Comune. Per lo svolgimento dei fini isti-tuzionali è prevista la stipula di convenzioni con associazioni di volonta-riato o ordini religiosi.

L’équipe sociale (prevista dall’art. 3 del Regolamento) è composta dalresponsabile del Cpa, da un rappresentante religioso e da uno, o piùmembri, di organizzazioni di volontariato operanti presso la struttura (at-tualmente questo incarico è ricoperto dalla psicologa e dall’educatrice checollaborano con la Fondazione Massimo Leone, sia come Centro studi ericerche, sia come Centro d’ascolto). A essa spetta il compito di assicurareil benessere degli ospiti, provvedendo all’ascolto delle loro problematiche

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e a fornire loro un aiuto finalizzato alla ricostruzione dei rapporti paren-tali, laddove possibile, e al reinserimento sociale e lavorativo.

Dopo la ristrutturazione il Cpa ha 92 posti letto divisi in reparto uo-mini e reparto donne, più altri 18 posti per le emergenze che possonoessere occupati da persone che si presentino spontaneamente, o segna-late da operatori della «rete sociale» del Comune di Napoli.

Possono accedere al Cpa solo persone maggiorenni, prive di alloggioe che non abbiano compiuto i 65 anni di età. Questo requisito è l’unicoostativo all’accoglienza ed è stato posto al fine di indirizzare le personeanziane verso servizi più indicati per le loro esigenze e per lasciare postoa quell’utenza, per lo più giovane, che non ha la possibilità di ricovero instrutture alternative.

Un altro criterio fondamentale, che è stato introdotto, è quello dellatemporaneità dell’ospitalità: può avere durata di tre mesi, prorogabileper altri tre, fino a un massimo di un anno. Tale termine non è però tas-sativo, l’équipe sociale propone il percorso accogliendo le richiesta dellapersona e monitora la situazione, ricalibrando gli obiettivi e, di conse-guenza, la tempistica, se necessario. Si può affermare che il principio ditemporaneità svolge essenzialmente un ruolo di stimolo per raggiungeregli obiettivi operativi del progetto personalizzato.

I servizi che il Cpa offre sono: accoglienza notturna in camere da 3posti con bagno, servizio di mensa a pranzo e cena, sale comuni desti-nate alla socializzazione, deposito bagagli, lavanderia e assistenza spiri-tuale in carico alle comunità delle suore Poverelle.

5. Studio di caso: Casa Gaia

Casa Gaia nasce il 22 dicembre 2005 con l’intento di offrire l’opportu-nità di forme di residenzialità di secondo livello, per coloro che sonostati inseriti in programmi individuali da parte della Fondazione Mas-simo Leone e abbiano mostrato una forte spinta motivazionale. Comegià spiegato, l’utenza è quella intercettata dal Centro di ascolto, che hasede presso la chiesetta di Santa Maria la Palma.

L’obiettivo generale di Casa Gaia è promuovere la dignità delle per-sone che soffrono a causa della grave emarginazione grazie a:

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• il rispetto e il riconoscimento delle risorse e delle capacità, anche seminime, dell’altro attraverso la relazione e i piccoli gesti quotidiani;

• l’attivazione di una rete di servizi e di una rete sociale attorno allapersona per rispondere ai suoi reali bisogni;

• la promozione dei progetti personali di vita autonoma;• la possibilità di sperimentare programmi di inserimento sociale e la-

vorativo successivi alla fase di emergenza e accoglienza;• il superamento di permanenze prolungate degli ospiti presso i centri

di accoglienza presenti sul territorio.

Grazie alla disponibilità di uno spazio operativo, sito in Vico SantaMaria Avvocata in Foria, concesso dalla diocesi di Napoli all’Opera DonCalabria e affidato alla Fondazione Massimo Leone che, in collabora-zione con il Comune di Napoli, ha provveduto a ristrutturare e arredare,è stato possibile creare un ambiente confortevole, conditio indispensa-bile per far partire il nuovo progetto.

La comunità alloggio Casa Gaia prevede l’utilizzo dei seguenti locali:

• tre camere da letto;• salone per i momenti di socializzazione;• cucina con ampio angolo cottura;• un piccolo laboratorio per la produzione dei manufatti degli ospiti;• una stanza riservata all’ascolto, al counselling, alle riunioni d’équipe;• un ingresso autonomo;• gli spazi esterni e il giardino.

La struttura di accoglienza può ospitare un numero massimo di 10/12ospiti e prevede l’accompagnamento da parte di operatori e volontariche monitorano costantemente le attività.

I processi di attivazione e responsabilizzazione caratterizzano il mododi lavorare della Casa: tutte le decisioni inerenti la gestione della casa, enon solo, vengono discusse in équipe e «compartecipate» con gli ospiti.

Il metodo di progettare gli interventi «con» (e non «per») i destina-tari, è utile per prestare attenzione alle continue variazioni del disagio,alle diverse modalità di appartenenza, agli aspetti organizzativi e alle ca-pacità di aggregazione dei soggetti disagiati.

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Coloro che accedono al secondo livello di accoglienza sono invitati arispettare alcune regole di convivenza, necessarie per instaurare una rela-zione fondata sul rispetto dell’altro e sulla capacità di mantenere l’equili-brio indispensabile per la compartecipazione alla vita domestica. Il regola-mento previsto è articolato in diversi punti, ognuno dei quali determina lostile di comportamento all’interno della struttura, sia per quanto concernegli aspetti puramente organizzativi, sia per quelli più legati ai rapporti tragli ospiti e al monitoraggio del percorso effettuato. Le aree sono: «il go-verno della casa, le relazioni, le mansioni domestiche, la temporalità, il la-voro come strumento di dignità e guadagno, l’accompagnamento, gli orarie la scansione temporale delle attività, le accettazioni e le dimissioni».

La temporalità è molto importante, sia per poter stimolare il gruppoal momento accolto in casa, sia per dare la possibilità ad altri ospiti se-guiti dalla Fondazione di accedere al secondo livello di accoglienza.

Il tempo di permanenza previsto per ciascun ospite presso la strut-tura è variabile in base alle esigenze dei singoli utenti, può essere antici-pato o prorogato dall’équipe educativa in base al livello di autonomiaraggiunto, ma non superare i 18 mesi.

Considerando che, al fine di incentivare le dinamiche di gruppo, gliingressi e le uscite vengono scaglionati nel tempo, ma evitando convi-venze con persone di gruppi precedenti o successivi, ciascun «ciclo»comporta un intervento di almeno due anni.

La struttura di accoglienza è autogestita in tutte le dimensioni orga-nizzative domestiche (pulizia personale e degli ambienti quali cucina elavanderia e cura degli spazi esterni e giardino). Per le spese gestionali siprevede un minimo contributo da parte di coloro che dispongono di unreddito, mentre per chi è ancora in una fase di avviamento al lavoro lespese sono a carico della Fondazione.

Risulta molto importante, per accedere alla casa-famiglia, la possibi-lità di assumere un impegno lavorativo che sia fonte di guadagno. Il la-voro costituisce il grande scoglio da superare per raggiungere una di-mensione di reale integrazione, soprattutto nel territorio di Napoli eprovincia (diversamente da altre zone d’Italia dove l’ostacolo maggioresembra essere rappresentato dalla casa).

La Fondazione opera tenendo conto di questa esigenza e fornendoun servizio di tutoraggio con la collaborazione dei volontari e la supervi-

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La modalità di intervento è formalizzata come segue:La presa in carico degli ospiti accolti in casa prevede le seguenti attività:

1. La verifica e ri-definizione dei Pei e del Per (Progetto educativo individualizzatoe di rete): che ha permesso all’ospite la coscientizzazione, la gestione e l’attiva-zione delle risorse personali e di quelle della rete formale/informale (Per) nel-l’ottica del lavoro di rete e di empowerment.

2. La partecipazione ai momenti di lavoro di gruppo in Casa attraverso: a) incontrisettimanali di verifica sull’andamento della casa (aderenza alle regole, ai tempi eai compiti in casa, gestione degli spazi) sulla gestione delle relazioni tra gli ospiti etra ospiti e operatori (interventi di coscientizzazione delle proprie emozioni, dellagestione più funzionale ed efficace delle relazioni e dei conflitti interpersonali); b)incontri settimanali sul benessere psicofisico attraverso il lavoro con le life skills(acquisizioni di nuove capacità relazionali e nuove strategie di coping e problemsolving quali il decentramento, l’introspezione, la negoziazione, l’ascolto, la co-municazione efficace, secondo il metodo di apprendimento basato sul cooperativelearning); c) incontri bisettimanali di discussione su tematiche emerse ed eviden-ziate in casa dagli ospiti e/o dagli operatori; d) incontri settimanali di animazionee socializzazione con il contributo di volontari della Fondazione; e) colloqui indi-viduali: motivazionali, di sostegno psicologico, di coscientizzazione e di conteni-mento, di supporto al Per, di orientamento lavorativo, percorsi di counselling, la-voro con il metodo della narrazione autobiografica.

3. L’accompagnamento alle strutture pubbliche e private del territorio ampliando larete di supporto e le risorse disponibili presenti sul territorio, per la cura della per-sona, per il disbrigo pratiche e documenti, per l’orientamento lavorativo.

4. Il coinvolgimento, l’attivazione e la mediazione familiare, rafforzando la rete na-turale di fronteggiamento.

5. L’accompagnamento a un graduale inserimento dei nuovi ospiti in Casa, attra-verso incontri di gruppo e individuali, per la conoscenza del progetto e degliospiti che già vivono l’esperienza, valutandone le reciproche attese e gestendonepositivamente l’ingresso.

L’équipe della Casa si riunisce ogni dieci giorni e con la supervisione del responsabiledella Casa per osservare, monitorare, sostenere e accompagnare gli ospiti nel loroprogetto educativo attraverso le attività quotidiane, la relazione, l’accompagna-mento, l’ascolto attivo.

L’équipe psicosociale verifica e riformula mensilmente con l’ospite il proprio pro-getto educativo, inoltre stabilisce le nuove accoglienze con modalità e tempi specificie concordati.

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sione degli operatori. Il servizio consta di un aiuto attivo nella ricercadel lavoro, di un accompagnamento ai colloqui preliminari all’assun-zione, di un monitoraggio per il mantenimento dell’impegno assunto.

La valutazione dei risultati degli interventi avviene attraverso il moni-toraggio dei percorsi personalizzati, la precisazione degli obiettivi inter-medi e finali previsti e la riflessione epistemologica relativa alle modalitàd’intervento e alla possibilità di riformulare il piano educativo. Questolavoro costante è svolto dal gruppo di lavoro del Centro studi e ricerchee ciò ha prodotto una traccia scritta della progettazione, della riformula-zione e delle valutazioni delle attività di Casa Gaia.

6. L’esperienza maturata con il primo gruppo di ospiti

Pare interessante ripercorrere come ha avuto avvio l’attività di Casa Gaia ecome sia stato svolto il lavoro con il primo gruppo di ospiti della struttura.

Nella composizione di questo primo gruppo sono stati tenuti in con-siderazione diversi elementi fondamentali. Innanzitutto si tratta di per-sone che, sebbene avessero raggiunto una certa disponibilità economica,non sarebbero state in grado di gestire in maniera autonoma un apparta-mento, in quanto non avevano ancora recuperato un rapporto adeguatocon l’organizzazione quotidiana di una propria dimensione domestica.Si è valutato il fattore caratteriale, inserendo nel progetto tutte personepronte a una socializzazione basata su di un piano relazionale sereno ecapaci di costruire rapporti nel rispetto delle esigenze dell’altro.

Il gruppo formatosi è risultato molto eterogeneo e si possono indivi-duare tre differenti aree d’intervento, in base alle quali si è pensato di farpartire il primo gruppo di persone che ha intrapreso questa nuova espe-rienza in casa-famiglia:

• una prima area ha riguardato un gruppo di quattro persone che,prima di accedere al secondo livello di accoglienza, erano state già in-serite in percorsi riabilitativi al lavoro (due con un’assunzione rego-lare, due svolgendo lavoretti di carattere artigianale);

• una seconda area è stata destinata a quelle persone che avevano di-mostrato un particolare impegno durante il percorso di recupero

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svolto tramite le attività laboratoriali, ma ancora particolarmente di-sorientate per quanto riguardava l’elaborazione di una presa direttadella propria indipendenza, in quanto troppo legate a una cultura as-sistenzialistica;

• uno spazio è stato dedicato ad alcune persone che si sono trovate avivere una delicata condizione di salute, che avevano bisogno di unposto riparato nel quale poter seguire cure mediche specifiche e vi-vere una serena convalescenza.

Trovandosi a operare per un gruppo totalmente maschile, afferente a unafascia d’età estesa dai 35 ai 60 anni, potrebbe risultare impropria anche lastessa denominazione di casa-famiglia. In realtà il principio posto alla basedi questo nuovo servizio è stata proprio la necessità di ricreare un clima diconvivenza tipico dell’ambiente familiare, per poter consentire alle per-sone coinvolte di rivivere, dopo anni, l’idea di una dimensione domestica,trovandosi quotidianamente in un luogo che non somigliasse più a un entedi accoglienza, ma semplicemente a una «casa condivisa». Si voleva tra-smettere il desiderio di avere uno spazio autonomo, di gestire un proprioambiente, di occuparsi di sé e delle proprie cose, di rientrare in quella di-mensione che convenzionalmente viene definita «normalità».

Il gruppo di partenza ha visto l’ingresso di 9 persone. Si è lavorato findal principio sull’adempimento delle mansioni domestiche. Per i primimesi c’è stata una distribuzione dei compiti a rotazione, ognuno ha do-vuto svolgere determinati incarichi per poter anche imparare ad acqui-sire una determinata autonomia. Molto importante è stato permettere aognuno di cucinare per il gruppo, in quanto la condivisione del pranzorappresenta un momento comunitario.

Dopo aver permesso a ognuno di recuperare dimestichezza con lefaccende domestiche, si è concesso al gruppo di poter scegliere qualimansioni ognuno volesse svolgere, rispettando il criterio che tutti doves-sero compartecipare alla vita domestica, trovando un equilibrio inchiave autonoma, rispettando così la dinamica di gruppo.

Ovviamente un discorso differente è stato riservato alle due personeche avevano avuto accesso alla casa per motivi medici e che si trovavanoin stato di convalescenza a causa di un’operazione cardiaca e per unacura chemioterapica.

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Purtroppo un ospite è mancato dopo poco più di due mesi. Questoevento ha generato una forte reazione emotiva, tutti hanno partecipatocon dolore all’evento. Il messaggio positivo che è traslato è stata la possi-bilità di poter trascorrere gli ultimi giorni della propria vita in una di-mensione familiare, nel calore di un letto senza doversi preoccupare didove trascorrere la giornata, o dove dover andare a mangiare e avendoaccanto delle persone che in qualche modo possano rappresentare unpunto di riferimento.

La gestione del tempo è stata necessariamente differente per ognisingolo ospite. Coloro che avevano un regolare lavoro hanno seguitol’impegno quotidiano richiesto anche in base alle esigenze lavorative.Per questo motivo il gruppo ha deciso di cenare, anziché pranzare in-sieme, proprio perché a una certa ora vi era la sicurezza che tutti fosserorientrati in casa e la possibilità di condividere il pasto era garantita.

Un altro aspetto su cui gli operatori hanno lavorato con gli ospiti hariguardato la gestione del denaro. Spesso si è verificato che, pur avendola possibilità di un guadagno, gli ospiti del Cpa non riuscissero a rispar-miare neanche il minimo indispensabile per ipotizzare un’uscita dal per-corso assistenziale. In Casa Gaia gli ospiti sono invitati ad aprire unconto corrente per i risparmi personali, ma soprattutto vengono coin-volti nel computo delle spese domestiche. Per poter vivere da soli è ne-cessario essere in grado di conseguire un’effettiva consapevolezza del-l’ammontare delle spese di base per potersi gestire in maniera autonomae, soprattutto, per non andare incontro a un nuovo fallimento che po-trebbe risultare molto demotivante.

Agendo su aree d’intervento diverse è stato molto difficile far passareil concetto che ognuno dovesse impegnarsi a realizzare il proprio pro-getto, evitando di cadere in paragoni fuorvianti con i percorsi seguitidagli altri, in quanto gli obiettivi da raggiungere erano ovviamente moltodiversi per chi avesse già un’indipendenza lavorativa, per chi avesse bi-sogno di orientamento e per chi, invece, necessitasse di cure mediche(esulando per il momento da un qualsivoglia progetto sociolavorativo).

L’avvio di Casa Gaia, quindi anche del primo gruppo, ha seguito dipoco il momento storico che ha visto il passaggio da dormitorio pub-blico a Cpa del principale ente di accoglienza del Comune di Napoli.Parte delle persone che sono entrate in casa-famiglia hanno vissuto una

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lunga permanenza presso il dormitorio; ecco perché è stato importantelavorare su un distacco graduale da un’idea distorta di politica assisten-ziale, facendo maturare nei beneficiari un desiderio di ricerca di auto-nomia e di indipendenza.

Il primo gruppo di ospiti ha ormai concluso l’accoglienza in CasaGaia. Considerando la complessità e la gradualità del percorso di recu-pero e reinserimento sociolavorativo, gli operatori hanno ritenuto op-portuno accompagnare e mantenere contatti con alcuni ospiti attraversovari strumenti informali e/o strutturati. Per alcuni di essi sono state pro-grammate visite nel contesto lavorativo, o presso la propria abitazione;per altri, contatti telefonici con l’utente e/o con la rete familiare o con ilcaregiver; con altri, invece, sono stati attivati colloqui strutturati o di te-rapia sistemico-relazionale di coppia. Questa ricerca di relazione co-stante con le persone caratterizza il lavoro di Casa Gaia e in generaledella Fondazione Massimo Leone.

7. Conclusioni

Ciò che maggiormente colpisce nell’osservare gli interventi che la cittàdi Napoli offre in termini di inclusione sociale, in particolare per i senzadimora, è la stretta collaborazione tra il Comune e il privato sociale. Ilrapporto che lega le due entità è caratterizzato da una sorta di reciprocadipendenza: gli interventi dell’uno presuppongono quelli dell’altro.Questa situazione apparentemente è la condizione ideale per un pro-ficuo lavoro di rete, ma approfondendo l’argomento sorgono alcuneperplessità. Sembra, infatti, che le idee e le modalità di intervento inno-vative e ricche di contenuti, che caratterizzano le attività della Fonda-zione Massimo Leone, non promuovano buone prassi in grado di «trai-nare» anche gli interventi pubblici; piuttosto pare che questi ultimi rie-scano a frenare la spinta propulsiva propria degli interventi privati.

Nonostante gli sforzi di modernizzazione compiuti dal Centro diprima accoglienza del Comune negli ultimi quindici anni, permangonostretti legami con il passato, sia da un punto di vista organizzativo, sia daun punto di vista di approccio metodologico alle tematiche dell’inclusionesociale. Nel Centro è ancora molto forte la presenza della comunità reli-

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giosa che da sempre vi opera e offre assistenza spirituale. Inoltre, dalpunto di vista educativo, nella pratica gli ingressi nel Cpa avvengono conla seguente modalità: la persona senza dimora che chieda ospitalità, se vi èdisponibilità di letti, viene accolta nei 18 posti adibiti alle emergenze; ilgiorno successivo il direttore del Cpa convoca il nuovo ospite per un col-loquio, nel quale viene verificata la sussistenza dei requisiti, vengono spie-gate le «regole» del Centro e viene richiesto di attenersi alle stesse.

La dinamica dell’accoglienza è particolare e in un certo senso rove-sciata rispetto a quanto ci si possa aspettare: non c’è un filtro che pongadelle condizioni per accedere ai servizi, bensì la persona viene «aggan-ciata» attraverso i servizi offerti a prescindere dal suo grado di attiva-zione, con l’aspettativa che con il tempo si producano le condizioni perun intervento maggiormente indirizzato al reinserimento sociale. Comegià osservato, la vera e propria presa in carico viene effettuata a distanzadi tempo, e non da parte del personale del Cpa, bensì dal Centro diascolto della Fondazione Massimo Leone e solo per alcune persone.

Mentre per la prima accoglienza sussiste una discreta disponibilità diposti e la selezione è minima, per la seconda accoglienza i posti disponi-bili sono pochi e le condizioni sono più restrittive. Vengono accolte solole persone per le quali è realmente ipotizzabile un progetto di reinseri-mento sociolavorativo. Su questo incidono peraltro anche le rilevantidifficoltà legate al mercato del lavoro a Napoli.

La notevole differenza tra questi due livelli di accoglienza (in unanno 110 accoglienze presso il Cpa e 10 in Casa Gaia) non è peraltrosupplita da altri servizi rivolti a coloro che presentano maggiori diffi-coltà o situazioni più complesse, cronicizzando le permanenze in Cpa.

Inoltre, mentre nel Cpa l’accoglienza ha un carattere soprattuttoemergenziale e per certi versi assistenziale, in Casa Gaia viene privilegiatal’attenzione alla persona e la relazione educativa. Quest’ultima si contrad-distingue per il metodo di lavoro volto alla promozione di ciascuno degliospiti, con un percorso verso l’autonomia flessibile e personalizzato.

L’esperienza di Casa Gaia, per quanto piccola e circoscritta, hadunque una portata rilevante per il metodo adottato e per il suo valoretestimoniale. Sarebbe importante arrivare a una modellizzazione, così dapoter replicare il modello, sia nella città di Napoli sia in altri contesti si-mili. Questo permetterebbe di creare una maggiore offerta di servizi che

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consentano di ridefinire il Centro di prima accoglienza come una primafase temporanea di allontanamento dalla strada.

Infine, la Fondazione Massimo Leone si avvale di un numero significa-tivo di volontari. Una risorsa del genere favorisce lo sviluppo di una reteinformale che oltre ad agire positivamente sulla persona offrendole delleopportunità di inserimento lavorativo, abitativo e di relazione, permette disensibilizzare i cittadini a una cultura dell’accoglienza, facilitando i pro-cessi di inclusione. La possibilità di offrire un aiuto diretto, di conoscere efrequentare gli ospiti permette un sempre maggiore coinvolgimento deivolontari stessi e di quanti vengono a conoscenza del loro operato, abbat-tendo così i pregiudizi e alimentando circuiti virtuosi. Anche per questoaspetto l’esperienza della Fondazione ci sembra emblematica di come sipossa creare un circuito virtuoso tra promozione delle persone ospitate,professionalità degli operatori e coinvolgimento dei volontari.

BIBLIOGRAFIA

Caliendo A.R., Paturzo M.G. e Tatarella G. (2008), Storie... senza dimora. Ilmondo degli homeless a Napoli, Poligrafica F.lli Ariello, Napoli.

Comune di Napoli (2009), Piano di zona di Palermo 2007-2009, Napoli.Le Mura G. (2001), Nomadismo urbano: una scelta o una marginalità sociale?,

Poligrafica F.lli Ariello, Napoli.Pugliese E. (2006), Nord e Sud, Donzelli, Roma.

SITOGRAFIA

www.comune.napoli.itwww.fondazionemassimoleone.it

INTERVISTE

Intervista 1: Funzionario servizi sociali Comune di Napoli.Intervista 2: Assistente sociale Fondazione Massimo Leone di Napoli.Intervista 3: Sociologa Fondazione Massimo Leone di Napoli.Intervista 4: Direttore Centro di prima accoglienza.

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3. Tra accoglienza senza confini e progetti miratiIl caso di Palermodi Alessandra De Bernardis e Martina Tombari

1. Il contesto

Palermo, si affaccia sul «più bel promontorio del mondo», come lo de-finì Goethe, tra Monte Pellegrino e Capo Zafferano, lungo il pendiodella Conca d’Oro. Oggi però è soprattutto una città desiderosa di ri-scatto da un’immagine troppo legata ai fenomeni mafiosi e tesa a ritro-vare l’antico splendore, si pensi per esempio ai rilevanti investimenticompiuti negli ambiti del restauro degli edifici storici e della cultura. Sipone altresì come uno dei principali centri d’affari e di commerci del ba-cino del Mediterraneo è candidata a diventare nel 2010 capitale del-l’Euro-Mediterraneo.

La storia della città è peraltro segnata dalle lotte contro la mafia e ilbanditismo di Salvatore Giuliano, che ebbe il suo regno nella zona diMontelepre vicino Palermo. Nella lotta alla mafia sono stati colpiti uo-mini dello Stato come Boris Giuliano, il generale Carlo Alberto DallaChiesa, il presidente della Regione Siciliana Pier Santi Mattarella e magi-strati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Gaetano Costa e RoccoChinnici, fino ad arrivare a don Pino Puglisi, martire nella difesa dei de-boli nei quartieri degradati di Brancaccio e Settecannoli.

A Palermo si registra una densità abitativa di circa 4500 abitanti perkmq. Il territorio è suddiviso in 8 circoscrizioni che comprendono 25quartieri. La città ha una struttura policentrica, poiché durante l’espan-sione a macchia d’olio novecentesca vennero inglobati altri centri ur-

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bani preesistenti. Questi piccoli agglomerati abitativi sono le cosiddette«borgate storiche», ormai poco distinguibili all’interno del tessuto ur-bano (per esempio, Mondello e Arenella). Il terremoto del 1968 hacomportato cambiamenti notevoli nell’assetto cittadino: nel centro sto-rico alcuni quartieri distrutti non sono mai stati ricostruiti, mentre nellevecchie borgate ai margini della città sono stati costruiti palazzoni incartongesso, destinati agli sfollati. Questo ha portato allo sviluppo di al-cune zone periferiche nelle quali le istituzioni sono pressoché assenti eprevalgono i circuiti della criminalità organizzata, che talvolta gestisceaddirittura alcuni servizi primari (si pensi, per esempio, al sostegnodelle famiglie nel caso il padre sia in carcere per un delitto di stampomafioso) e così facendo si garantisce un bacino di manodopera facil-mente ricattabile.

Nei dieci anni intercorsi fra il censimento 1991 e il censimento 2001,la popolazione residente a Palermo è progressivamente diminuita, finoad assestarsi, al 2001 (anno dell’ultimo censimento) a 686 722 persone.A fine 2006 la popolazione residente risulta essere ulteriormente calatadi quasi 3 punti percentuali.

È invece aumentato il numero delle famiglie censite: 233 557, oltre14mila in più rispetto al 1991. Quest’ultimo dato, se comparato al calodella popolazione, rispecchia una diminuzione del numero medio dicomponenti familiari: da 3,17 del 1991 si è infatti passati a 2,94 compo-nenti per famiglia. In particolare, è sensibilmente aumentato, rispetto al1991, il numero di famiglie con uno o due componenti: si è passati dal37,1% del totale al 42,7%. È invece sensibilmente diminuito il numerodelle famiglie numerose, con cinque o più componenti: si è infatti pas-sati dal 18% del 1991 al 12,5% del totale nel 2001.

La composizione percentuale della popolazione per classi d’età hasubito un processo di inversione verso un modello tipico delle societàoccidentali e industrializzate. Infatti, anche a Palermo la natalità negliultimi vent’anni è in diminuzione e l’invecchiamento della popolazione èun fenomeno in costante aumento. La fascia di popolazione più nume-rosa è quella tra i 25 e i 44 anni, anche se i dati rilevano un progressivoinvecchiamento della popolazione.

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2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertànel contesto considerato

Sul fronte del sostegno agli adulti in situazione di grave difficoltà e/o arischio di emarginazione, dal gennaio 2007 il Piano di zona ha peraltroattivato l’Unità organizzativa emergenze sociali, un servizio sovracirco-scrizionale con l’intento di supportare minori, adulti e anziani soli o ab-bandonati, che versano in condizioni di estremo degrado in circostanzetraumatiche e improvvise che impediscono il normale svolgimento dellavita. L’Unità cerca di rispondere tempestivamente attivando interventi«tampone» e di contenimento per la tutela delle persone riducendo il di-sagio. Il servizio offre la reperibilità sulle ventiquattr’ore e collabora conle forze dell’ordine, l’autorità giudiziaria, l’Ausl, per tutte le esigenzeinerenti lo svolgimento del compito istituzionale.

Per i nuclei familiari e le persone che versano in gravi difficoltà econo-miche è previsto un contributo economico per poter provvedere alle in-combenze legate alle primarie necessità di vita. L’assistenza economicapuò essere di tipo continuativo, temporaneo o straordinario. I requisitid’accesso sono: residenza nel territorio cittadino, reddito al minimo vi-tale; in particolare, per l’assistenza continuativa, occorre dimostrare l’in-capacità lavorativa parziale o totale, di tutti i componenti del nucleo fami-liare o per motivi di salute o per età; per la temporanea, la perdita im-provvisa della fonte di guadagno e l’iscrizione nelle liste di collocamento;per la straordinaria, il verificarsi di un evento eccezionale che compro-metta esigenze essenziali di vita tali da incidere sul bilancio familiare.

Per le donne in difficoltà è prevista l’accoglienza in due struttureprotette di tipo familiare a seguito di relazioni del competente serviziosociale o su provvedimento dell’autorità giudiziaria. Casa rifugio per levittime di violenza e/o maltrattamenti e Casa di accoglienza per le donnein difficoltà, gestanti e ragazze madri. Il servizio, gestito da enti del terzosettore in regime di convenzione con l’amministrazione comunale, hauna capienza di 32 donne, oltre i casi urgenti disposti dall’autorità giudi-ziaria.

Nel 2006, in convenzione con una cooperativa sociale che fa riferi-mento alla Caritas diocesana, è stata attivata la Locanda del Samaritano,un servizio di accoglienza residenziale notturna per 20 persone senza di-

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mora, con mensa, ascolto e segretariato sociale, docce, oggetto del no-stro studio di caso.

Nell’ambito dell’inserimento lavorativo è stato invece proposto nel2007 il progetto «Rise», a seguito della positiva sperimentazione, sul ter-ritorio del Distretto 42, del progetto Equal «Sole», realizzato sul terri-torio della Provincia di Palermo dal marzo 2003 al giugno 2005. Essomira inoltre a realizzare nuove modalità di intervento e cooperazione traistituzioni con finalità uguali, rivolte a target diversificati a favore deiquali si prevede un progetto condiviso di inserimento sociale individua-lizzato. Lo scopo del progetto è istituire un sistema permanente di inclu-sione sociale e lavorativa finalizzato al recupero e all’inserimento lavora-tivo delle fasce più discriminate della società presenti nella città di Pa-lermo, attraverso il supporto del partenariato progettuale, pubblico/pri-vato, che opererà tramite un unico modello operativo, adottato, nonsolo dai tre Centri di iniziativa previsti dal progetto, ma anche da tutti iServizi di inclusione sociolavorativa (Sisl) attivati sia a livello settorialeche a livello territoriale.

Il progetto si basa sull’offerta di circa 50 borse lavoro a persone a ri-schio di esclusione sociale ed economica, domiciliate a Palermo: adultiin espiazione di pena, giovani sottoposti a provvedimenti dell’autoritàgiudiziaria minorile e/o a rischio di coinvolgimento in attività criminose,tossicodipendenti, donne vittime di violenza e di abusi.

Per quanto riguarda le persone immigrate, oltre alcuni sportelli diconsulenza e orientamento a Palermo, a Piana degli Albanesi, il Di-stretto ha realizzato un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifu-giati. La struttura è finanziata dal ministero dell’Interno, mentre il Co-mune di Palermo compartecipa ai costi. Il Centro può ospitare fino a unmassimo di 20 persone, richiedenti asilo o rifugiati, di entrambi i sessi,appartenenti a categorie vulnerabili.

In particolare, il progetto del Comune di Palermo è rivolto a soggettivittime di tortura. Dei 20 posti, 14 sono a disposizione del Servizio cen-trale, con sede a Roma, 6 sono destinati al Comune di Palermo. In treanni il flusso di beneficiari è stato di circa 16mila persone. Le presta-zioni offerte consistono in vitto, alloggio, fornitura di generi di primanecessità, consulenza legale, psicologica e sociale, accompagnamento aiservizi.

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Per le fasce più deboli della popolazione sono state attivate diverseiniziative in collaborazione con il privato sociale e il volontariato, in al-cuni casi a seguito di una convenzione, in altri con contributi occasionalida parte del Comune.

In primo luogo, il Comune sostiene la Missione Speranza e Carità diBiagio Conte, di cui parleremo diffusamente in seguito, con contributioccasionali. Inoltre, nel centro storico opera il Centro Sant’Anna, cheoltre alle attività specialistiche a favore dei minori e delle loro famiglie,offre accoglienza e sostegno immediato alle persone che vivono in situa-zioni di emergenza legate ai bisogni primari. Il bacino di utenza delCentro non è solo quello afferente il centro storico, ma comprendeanche altre circoscrizioni, sino all’estrema periferia, mediante servizi so-ciali professionali, di segretariato sociale e consulenza psicologica. Tragli interventi giornalieri è bene ricordare come il Centro Sant’Annaprovveda all’erogazione di generi alimentari, abbigliamento, generi far-maceutici, latte pediatrico, omogeneizzati. Per quanto riguarda i servizispecialistici, sono rivolti ai minori e alle loro famiglie e promuovono atti-vità ludico ricreative e di consulenza, promuovendo sostegno e educa-zione alla genitorialità.

Compito del Comune di Palermo e delle singole municipalità è dunquequello d’individuare e selezionare i bisogni, gestire le risorse conside-rando l’opportunità dell’affidamento a terzi, progettare in integrazionecon le altre istituzioni e, in particolar modo, costruire sistemi efficaci dicontrollo della qualità dell’offerta dei servizi e l’affidabilità degli inter-venti dei soggetti terzi. L’Azienda unità sanitaria locale, contestualmente,dovrà attendere alla risposta sanitaria che le compete e garantire sistemidi controllo dell’efficacia e dell’efficienza dei Servizi sanitari a rilevanzasociale proposti (Piano di zona del Distretto 42).

La maggior parte dei servizi realizzati nell’ambito del Piano di zona èstata affidata a enti del terzo settore tramite procedimenti di evidenzapubblica previsti dalla normativa statale o regionale. Se consideriamoper esempio l’ambito degli interventi a favore dei minori in difficoltà,possiamo osservare che il Comune di Palermo è in contatto con almenocentotrenta realtà diverse del terzo settore.

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Diversi progetti prevedono una stretta collaborazione con spazi dicoprogettazione e/o confronto sia con altri enti istituzionali coinvoltinella realizzazione del servizio stesso sia con i partner del terzo settore.

Emblematico in tal senso può essere considerato il Welfare Lab (La-boratorio per lo sviluppo del welfare locale). Il laboratorio intende rea-lizzare uno «spazio culturale e tecnico» da mettere a disposizione degliorganismi di governo del welfare locale, per facilitare il rafforzamentodel Piano di zona, con compiti di consulenza e di supporto al serviziodella programmazione distrettuale.

Il Tavolo di coordinamento prevede la partecipazione attiva e il coin-volgimento dei dipartimenti sociali di tutti i Comuni che compongono ilDistretto, con l’aggiunta della Ausl, nonché degli organismi di governoistituzionale e tecnico del welfare locale, come il Comitato dei sindaci e ilGruppo di piano.

Il team comprende un numero limitato di tecnici qualificati per il sup-porto esterno, in coordinamento con le équipe tecniche dei comuni delDistretto. È inoltre previsto un Forum di cittadinanza, che coinvolgegruppi-target di cittadini, rappresentati dalle associazioni locali del pri-vato sociale, dagli enti terzi e dalle organizzazioni ecclesiali, oltre che dagliorganismi sindacali.

Un’altra forma di scambio tra i diversi attori sociali è costituita dalCoordinamento servizi immigrati, rifugiati e rom, nato nel 2006 percreare un punto di riferimento unico per immigrati e operatori istituzio-nali e non, che a vario titolo si occupano della problematica al fine disviluppare circuiti virtuosi di crescita civile e nuovi processi di integra-zione. L’intento è di dare unità, coerenza, razionalità, efficienza ed effi-cacia a qualsiasi intervento in favore degli immigrati.

Il Coordinamento immigrati dovrebbe promuovere una sorta di con-fluenza delle indicazioni politiche più generali con le esigenze raccoltedagli operatori di base, consentendo di formulare piani di lavoro taratisulle reali domande dei beneficiari e collocati all’interno di un’otticacomplessiva. Questo anche grazie alla costituzione di una banca dati(con schede trasversali e modulari). Il Coordinamento svolge anche fun-zioni di monitoraggio, verifica e valutazione delle azioni per l’area immi-grati poste in essere dal Piano di zona. Significativo è il coinvolgimentoprevisto di quattro rappresentanti delle comunità straniere. Il Coordina-

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mento è costituito da un organismo centrale, da cui si diramano le arti-colazioni operative e decentrate sul territorio in base alle questioni da af-frontare e alle esigenze riscontrate.

Se da un lato possiamo rilevare l’intento senz’altro positivo di ricer-care forme di collaborazione e confronto, va tuttavia sottolineato che inalcuni ambiti il Comune sembra delegare al terzo settore cittadino unaserie di interventi, soprattutto quelli di carattere più emergenziale e assi-stenziale, quali mense, pronta accoglienza, docce, distribuzione di ge-neri di prima necessità. Inoltre, molti enti del terzo settore hanno sotto-lineato che il coinvolgimento, così come previsto nei documenti pro-grammatori, in realtà non è mai stato realizzato.

A detta della Caritas diocesana, «l’applicazione della legge-quadro n.328 in Sicilia è ancora limitata a un insieme di atti amministrativi, senza chevi sia un organico disegno programmatico e normativo. Pertanto, la ge-stione delle risorse è scollegata dai programmi degli Enti locali, la cuiinerzia dà luogo a larghe azioni di supplenza regionale, quasi mai organichecon le azioni locali» (Golesano 2009). Di conseguenza, «le parti politiche,economiche e sociali pur riconoscendo l’utilità di questo strumento e le suericadute sul territorio, non hanno a oggi integrato: identità, volontà di par-tecipazione, relazioni sociali, concretezza progettuale, programmatica eoperativa. Le risorse di persone e di pensiero non hanno certamente po-tuto contribuire al meglio per raggiungere gli obiettivi sperati». Secondol’autore dell’articolo una delle maggiori difficoltà nell’attuazione dellaLegge 328/2000 sarebbe la carenza di informazione, nonché di compe-tenze specifiche delle istituzioni e della formazione delle strutture nonprofit. Le associazioni hanno denunciato di non venire coinvolte ai tavolitematici territoriali, e sottolineato che non sempre c’è corrispondenza traazioni progettuali e bisogni emersi nei tavoli tecnici distrettuali specifici.

3. La Missione Speranza e Carità

Fratel Biagio Conte: il carisma di «un medievale folle di Dio»

«La Missione nasce dall’esperienza profonda di chi ha incominciato acercare la verità, la vera libertà e la vera pace, distaccandosi dal mondomaterialistico e consumistico.

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Stanco della vita mondana che conducevo, ho sentito nel cuore di la-sciare tutto e tutti; me ne andai via dalla casa paterna il 5 maggio del1990 a 26 anni, con l’intenzione di non tornare più nella città di Pa-lermo, perché questa città e società mi avevano tanto ferito e deluso [...].Pian piano, cominciai a capire il progetto «Missione»: dedicare la miavita per i più poveri dei poveri [...].Fu un’esperienza forte e cominciai a chiedere aiuto a tutti, e andai purealla Curia di Palermo dal Cardinale Pappalardo, il quale capì quel gio-vane che andò a bussare alla sua porta e decise di venire alla stazione percelebrare una messa insieme a tutti i fratelli ultimi sotto i portici dellastazione; è stato un momento indimenticabile che mi incoraggiò molto esoprattutto aprì gli occhi della città sui tanti fratelli poveri che vivevanoper strada, non considerati da nessuno, come se fossero scarto e rifiuto.Da questa esperienza alla Stazione Centrale di Palermo, decisi di nontornare più a casa dei miei genitori, per condividere per sempre la miavita con i fratelli ultimi, inizia così la Missione che sentii di chiamareMissione di Speranza e Carità.Si scopre un progetto di Dio sconvolgente, ricco di Speranza e Carità,che a distanza di 19 anni dal suo nascere ha coinvolto e continua a coin-volgere uomini e donne di ogni ceto sociale, anche capaci di cambiareradicalmente il loro modo di vivere per diventare missionari e missio-narie della Speranza e della Carità, per operare nei luoghi di emargina-zione delle grandi metropoli.(Presentazione in www.pacepace.org)

La Missione Speranza e Carità nasce nel 1991, sotto i portici della sta-zione centrale di Palermo a opera di fratel Biagio Conte, missionariolaico.

Il fine della Missione è l’accoglienza e il «donarsi» ai poveri dellacittà, ovvero a tutti quelli che rimangono ai margini della società: bar-boni, vagabondi, giovani sbandati, alcolisti, ex detenuti, prostitute, pro-fughi, immigrati, in Missione vengono chiamati tutti «fratello» e «so-rella» senza alcuna distinzione.

Attualmente la Missione accoglie e assiste circa 900 persone in tre co-munità grazie al lavoro di 6 missionari, alla collaborazione fattiva deglistessi fratelli e sorelle accolti e al contributo di oltre 400 volontari: me-

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dici, infermieri, avvocati, ingegneri, insegnanti, casalinghe, pensionati estudenti.

Come accennato, la Missione Speranza e Carità opera in tre comu-nità: due destinate all’accoglienza maschile e una all’accoglienza didonne sole, o mamme con bambini.

Dopo due anni di attività presso la stazione centrale di Palermo fratelBiagio Conte ha chiesto alle istituzioni il vecchio disinfettatoio comu-nale, abbandonato da trent’anni, per poter ospitare i fratelli che assi-steva per strada. Poiché le richieste non trovavano risposta, così come ildigiuno di fratel Biagio Conte durato dodici giorni, è iniziata una paci-fica occupazione dei locali dell’ex disinfettatoio comunale di via Archi-rafi. Questa struttura era mancante di tutto (porte, finestre, servizi igie-nici). Il 23 maggio 1993 è iniziata la ristrutturazione di questi locali edopo circa cinque anni i locali di via Archirafi sono diventati un luogoaccogliente dove oggi trovano alloggio circa 160 fratelli senza dimora.

Con il passare degli anni sono aumentate le richieste di accoglienzafemminile. Con l’aiuto dei volontari è stata allora individuata la strutturadell’ex convento di Santa Caterina di via Garibaldi, abbandonato e disa-bitato da circa ventiquattro anni.

A seguito di una protesta pacifica, lunga e silenziosa (fratel BiagioConte ha camminato un anno scalzo) e grazie all’intervento della curia,nella persona del cardinale di Palermo Salvatore De Giorgi, il Comuneha concesso in comodato d’uso una parte della struttura. I fratelli e ivolontari si sono impegnati a ristrutturare e rendere abitabili le stanzetrovate in uno stato di grave degrado e così, l’8 dicembre 1998, è ini-ziata l’accoglienza femminile della Missione Speranza e Carità, cheoggi accoglie circa 140 sorelle tra donne sole e mamme con bambini.

Dal 2001 la Sicilia è investita dall’emergenza profughi; sulla scorta diquesta nuova e inaspettata necessità, nel 2002 fratel Biagio Conte hachiesto l’uso dell’ex caserma dell’aeronautica di via Decollati, una vastaarea ormai in disuso da più di quarant’anni. L’Arma dei carabinieri, pro-prietaria di questo spazio, si è opposta fermamente, ma anche in questaoccasione fratel Biagio Conte ha fatto ricorso al digiuno e all’occupa-zione pacifica dei locali. Dopo qualche mese, grazie alla solidarietà dicittadini, associazioni, parrocchie e all’aiuto della Chiesa di Palermo edella Regione Sicilia, l’Arma dei carabinieri ha concesso l’uso di metà

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dell’area in questione che è stata denominata La Cittadella del Povero edella Speranza, dove oggi sono accolti circa 600 fratelli provenienti davarie nazioni del mondo.

Davvero «non ci sono limiti...»: all’aumentare della domanda fino aoggi è corrisposta una sempre maggiore offerta di spazi e assistenza per lepersone che bussavano alla porta di fratel Biagio Conte. Così come non cisono limiti o condizioni per essere accolti o assistiti dalla Missione.

Le comunità sono dotate di cucina e di una mensa dove vengono di-stribuiti tre pasti al giorno (complessivamente circa 2600 pasti algiorno).

Inoltre si presta l’assistenza medica e farmaceutica mediante ambula-tori gestiti da medici volontari che garantiscono prestazioni di base e vi-site specialistiche: oculistiche, otorinolaringoiatriche, odontoiatriche,dermatologiche e pediatriche.

Oltre alle persone ospitate, la Missione offre assistenza a circa millefamiglie indigenti della città, attraverso l’erogazione di beni di prima ne-cessità, in particolar modo quando siano presenti bambini e neonati (ve-stiti, cibo, latte pediatrico ecc.).

Grazie all’opera del volontariato prestato da artigiani e liberi profes-sionisti, sono stati allestiti diversi «laboratori»: la falegnameria, l’officinadel fabbro e del saldatore, l’officina meccanica, la lavorazione artigianaledel cuoio, della ceramica e della scultura, l’angolo per il riciclaggio dellacarta e del cartone, la sartoria e la lavanderia professionale, il forno dovesi sfornano i biscotti e il pane per le tre comunità (circa 250 kg di pane algiorno). Lo scopo è offrire la possibilità di imparare a esercitare un me-stiere, un’arte, o di impegnarsi con piccoli lavori artigianali.

Dal 1993 è attivo il servizio denominato Missione Notturna: ognisera un camper con un gruppo di 7 volontari (250/300 persone cheruotano nel giro di un anno) percorre un itinerario prestabilito, co-prendo tutta la città. Il camper è munito di thermos (con latte e tècaldi), medicine (di primo soccorso), cibo, coperte, vestiti che vengonoofferti ai fratelli che si incontrano. La Missione Notturna nasce con loscopo di raggiungere nella notte le persone che dormono in strada edonare loro la possibilità di un contatto per non farli sentire esclusidalla società, mantenendo allo stesso tempo il rispetto della loro vitaprivata.

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«La Missione ha sempre vissuto di Provvidenza», come afferma fratelBiagio Conte: i lavori di ristrutturazione, manutenzione e le spese perportare avanti le comunità vengono sostenute esclusivamente con le do-nazioni di benefattori (singoli cittadini, associazioni, fondazioni, gruppiscout, scuole, gruppi parrocchiali) provenienti da tutta l’Italia oltre alcontributo del Banco alimentare. La Chiesa e le istituzioni pubbliche(Regione e Comune) sostengono l’opera della Missione saltuariamenteattraverso contributi occasionali, ma non è stata attivata alcuna conven-zione né sostegni economici continuativi.

I missionari e i volontari tengono particolarmente a sottolineare ilfatto che l’azione della Missione non è volta solo all’assistenza, bensì am-bisce al recupero della dignità di quanti si sono trovati ai margini dellasocietà e che spesso vengono considerati irrecuperabili.

È indubbio l’impegno profuso affinché le persone che vengono aiu-tate possano ritrovare ascolto, comprensione e un sincero sentimento difratellanza: colpisce l’attenzione per la persona, il rispetto della suastoria e della sua provenienza. Emblematico è un punto di preghiera chevede esposte le icone di tutte le religioni, simbolo di una convivenzapossibile.

Va però aggiunto che non è questo il luogo che può offrire percorsivolti all’inclusione sociale dal punto di vista dell’autonomia abitativa elavorativa. Qui le persone possono «tirare il fiato» dalle fatiche della vitadi strada, dell’immigrazione e della povertà, senza pressioni e senzafretta, ma le prospettive non appartengono al mandato della Missione,l’atteggiamento è, in un certo senso, fatalista. Forse per questo motivo,nonostante l’opera di fratel Biagio Conte sia incredibilmente funzionalealla gestione delle emergenze sociali nella città di Palermo, non esiste la-voro di rete con gli enti locali o strutture del terzo settore. La rete c’è,ma è con le persone, nei quartieri cittadini e nelle altre città della Sicilia;è fondata su un sincero sentimento di solidarietà che con interventimolto concreti fratel Biagio Conte ha saputo insegnare e diffondere: laMissione fa parte del sentire della città, i missionari sono avvertiti comecoloro che davvero fanno qualcosa per chi soffre, in modo indipendentedalle dinamiche dei poteri forti.

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4. Studio di caso: la Locanda del Samaritano. L’impegno del Comune e il lavoro del privato sociale

Come spiegato in precedenza il Comune di Palermo, con il Piano dizona del Distretto sociosanitario 42, azione 25, ha cercato di offrire unarisposta a bisogni primari delle persone senza dimora con un servizioapposito: «Lo scopo del servizio consiste nell’offrire condizioni minimedi sussistenza e di dignità alle persone prive o quasi di reddito, che vi-vono in condizioni di estrema marginalità sociale, senza fissa dimora oche necessitano di una pronta accoglienza.

In concreto il servizio garantisce: • accoglienza notturna, igiene personale, un pasto caldo, lavanderia,

fornitura abbigliamento;• collegamento e attivazione della rete dei servizi territoriali, pubblici e

del privato sociale, al fine di sostenere le persone che accedono alservizio nell’intraprendere un percorso di reinserimento sociale o ditrovare aiuto per il superamento delle difficoltà.

Popolazione target:• uomini e donne adulti, privi del tutto o quasi di reddito, privi di un

valido sostegno familiare, che vivono in condizioni di estrema preca-rietà o senza fissa dimora, o che per situazioni contingenti si trovanoall’improvviso privi di un alloggio».Il Centro, denominato Locanda del Samaritano, è stato inaugurato

dal cardinale De Giorgi il 27 giugno 2006 a seguito di aggiudicazione digara alla cooperativa sociale La Panormitana della Caritas diocesama diPalermo. La struttura è ubicata nei locali di un ex complesso monasticodi suore benedettine sito in vicolo San Carlo 62, nei pressi di piazza Ri-voluzione, nel centro della città (circoscrizione 1), concessa in comodatod’uso dalla Caritas alla cooperativa.

Il Centro può ospitare 20 persone (5 donne e 15 uomini), siano essi dinazionalità italiana o provenienti da altri paesi della Comunità europea oextracomunitari. Per come è progettato, come vedremo in seguito inmodo più dettagliato, per accedere al servizio è necessario che gli ospitisiano autosufficienti o abbiano almeno una capacità residua di autonomiae non presentino patologie relative alle dipendenze (tossicodipendenza,alcol-dipendenza attiva) e patologie gravi di natura psichiatrica.

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Possono avanzare richiesta di ospitalità, attraverso un primo contattotelefonico con l’assistente sociale del Centro, i servizi sociali dislocatinelle 8 circoscrizioni cittadine e altre strutture, quali ospedali, parroc-chie cittadine, Ausl, centri che gravitano attorno alla stessa Caritasnonché la persona interessata direttamente. L’assistente sociale valuteràl’opportunità della presa in carico in sede di colloquio.

Il centro offre:• un servizio notturno: accoglienza, docce, lavanderia, pasti (cena e co-

lazione), fornitura indumenti e materiale igienico-sanitario;• un servizio diurno: sportello di ascolto e segretariato sociale con l’as-

sistente sociale, supporto psicologico, nonché la possibilità di usu-fruire della contigua mensa della Caritas diocesana.La cena e la colazione sono servite all’interno della struttura, per il

pranzo gli ospiti che desiderano possono usufruire della mensa gestitadalla Caritas che è aperta alla città, per un massimo di cinquanta pasti algiorno, ed è ubicata in un’altra ala dello stesso palazzo. La spazio diascolto e di segretariato sociale è attivo mezza giornata tutti i giorni, ilcolloquio avviene previo appuntamento con l’assistente sociale. Per chine fa richiesta c’è anche la possibilità di seguire un percorso di terapiapersonalizzato con la psicologa.

Le figure professionali che vi lavorano sono: un’assistente sociale,una psicologa, cinque ausiliari/animatori per le ore notturne (ogni serauno per gli uomini e una per le donne), quattro persone del servizio ci-vile e cinque volontari.

L’ospitalità è offerta per un tempo massimo di sette giorni prolunga-bile, per motivi eccezionali e giustificati, in relazione alle problematicheche emergono.

La struttura della Locanda del Samaritano è un appartamento spa-zioso e accogliente, composto da un’ampia cucina, la sala da pranzo, unasala televisione e un’altra sala più adatta a momenti di socializzazione,quattro stanze da letto e due bagni per la zona uomini, due stanze e unbagno per la zona donne. Gli animatori e gli ospiti si trovano alle venti,cenano insieme e trascorrono la serata vedendo film, facendo giochi disocietà o semplicemente chiacchierando attorno al tavolo; al mattino glianimatori svegliano gli ospiti, preparano loro la colazione ed entro leotto tutti devono lasciare la casa.

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La rigidità degli orari, l’assenza di un centro diurno e l’intenso turnover imposto dalla temporaneità molto ridotta delle permanenze com-portano alcune inevitabili conseguenze.

Innanzitutto non è possibile che siano gli ospiti a occuparsi delle fac-cende domestiche e della preparazione dei pasti, perché questo comporte-rebbe difficoltà e lungaggini incompatibili con l’organizzazione e la tempi-stica imposta dagli orari. È certamente un’occasione persa per gli ospitiper socializzare, sentirsi responsabilizzati e utili, o semplicemente impa-rare o re-imparare come si tiene una casa. In secondo luogo, le dinamichedi gruppo e i processi di auto-mutuo aiuto scattano e diventano virtuosiattraverso una conoscenza reciproca approfondita. In questa situazione,invece, i compagni di stanza e di casa cambiano troppo spesso perché pos-sano attivarsi dinamiche di questo tipo. Sebbene si sia cercato di rendereelastica la regola dei sette giorni di permanenza e siano state organizzatealcune occasioni per approfondire la conoscenza e «fare gruppo» (peresempio: gite fuori porta o serate in pizzeria), la difficoltà permane.

È inoltre evidente che in sette giorni, rinnovabili fino a quindici(come informalmente avviene), è difficilmente ipotizzabile un progettosulla persona che possa tradursi in un percorso di autonomia abitativa elavorativa; in concreto, però, per le persone che al momento dell’acco-glienza hanno un pensiero organizzato orientato a questo tipo di reinse-rimento sociale, si imbastisce un progetto rivolto alla ricerca del lavoro ela permanenza può durare anche sei mesi.

Per quanto concerne le procedure di monitoraggio, il Comune ha af-fidato ai soggetti coinvolti nella realizzazione del progetto le verifiche in-terne, imponendo alcuni indicatori come criteri di valutazione:

• «Obiettivi raggiunti dai progetti individualizzati elaborati in favoredei soggetti interessati.

• Riunioni di équipe periodiche sui singoli casi.• Riunioni interistituzionali tra i servizi coinvolti nelle attività.• Numero di persone che accedono ai diversi servizi offerti.• Somministrazione di questionari all’utenza per valutare il livello di

gradimento.• Percentuale di soggetti che dalla struttura di primo livello sono pas-

sati a quella di secondo livello.1

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• Percentuale di soggetti che hanno superato la condizione di margina-lità sociale».

Nella fase di rifinanziamento, prevista per la fine del 2009, la valutazioneverrà effettuata dal servizio sociale professionale del Comune di Pa-lermo, che dovrà elaborare adeguati sistemi di verifica e monitoraggiodelle azioni progettuali allo scopo di valutare il livello di raggiungimentodegli obiettivi previsti dall’Azione.

Ulteriori verifiche sulla validità del servizio, secondo il Comune, sipotranno ottenere attraverso i contatti con le forze dell’ordine che do-vrebbero registrare una riduzione del numero di soggetti dediti all’ac-cattonaggio e senza dimora.

Esperienza maturata dopo due anni di attivitàSebbene l’assistente sociale responsabile della Locanda sia in costantecontatto con l’assistente sociale del Comune responsabile del progetto,fino a oggi il controllo è stato esclusivamente interno. Va dato meritoalla coordinatrice e a tutta l’équipe della Locanda dell’impegno profusosia per superare i nodi di criticità che il progetto, così come voluto dalPiano di zona, riportava (per esempio: accoglienza solo notturna, per-manenze troppo brevi), sia per quanto concerne il sistema di valuta-zione, la formazione interna, la creazione di ambiti di confronto tra ope-ratori, il monitoraggio costante sulle attività e la rendicontazione dellestesse all’amministrazione.

La tavola riportata alle pp. 115-116 sintetizza i risultati conseguiti dagiugno 2007 a oggi.

Il lavoro d’équipeÈ stato svolto un notevole lavoro sulla comunicazione tra gli operatori.Le équipe puntano a promuovere confronti e scambi di opinioni co-struttivi, e questo certamente consolida il senso di appartenenza e laspinta motivazionale sul lavoro.

I punti di forza emersi e condivisi si possono riassumere così: fonda-mentale importanza del supporto economico della Caritas (comodato

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Tra accoglienza senza confini e progetti mirati. Palermo 117

dei locali, ristrutturazione, corsi di formazione per operatori); caratteri-stiche differenti degli operatori dell’équipe da un punto di vista profes-sionale e di capacità lavorative; possibilità di creare interventi persona-lizzati per ogni ospite atti alla rimozione totale o parziale del disagio(spesso forzando le linee guida del progetto e proponendosi come unicoobiettivo il miglioramento delle condizioni di vita dei beneficiari). Ipunti di debolezza invece sono: invii impropri da parte dei servizi socio-sanitari pubblici e privati della città e della provincia; impossibilità diaccoglienza diurna per situazioni di malattia e/o improvvisi infortuni(influenza, indisposizione ecc.); scarse risorse istituzionali e non; ritardinei pagamenti da parte del Comune.

Come già rilevato, uno sforzo considerevole consiste nell’organizza-zione di momenti, rivolti ai membri dell’équipe, sia di conoscenza perso-nale sia di riflessione sui casi e sui nodi problematici che possono emer-gere in fase di realizzazione del servizio. I temi affrontati negli incontrisono stati: la professionalità e i compiti di ogni operatore; l’organizza-zione della struttura (orari, tempi, categorie di persone da accogliere,obiettivi ecc.); la documentazione del centro (diario di bordo, scheda in-gresso e dimissioni, scheda presenze, diari di intervento sociale, schededati ecc.); l’osservazione sugli ospiti (schede e scambi di dati oggettiviosservati sulle persone ospitate); discussione sulle diverse situazioni per-sonali degli ospiti (caratteristiche e conflittualità).

Il lavoro di condivisione e confronto costante ha sviluppato strategieper la programmazione futura che tengano in considerazione le azionirealizzate nel corso di questi due anni e tentino di superare i nodi pro-blematici così identificati:

1. «Analizzare le cause e le problematicità dell’esclusione sociale e dellepoche risorse esistenti nella nostra città per i senza fissa dimora;

2. Reperire e «inventare risorse possibili»;3. Organizzazione dell’azione caritativa:

• spazio di ascolto;• qualificare le funzioni dei diversi operatori;• strutturare il lavoro d’équipe;• costruire rapporti di fiducia con le persone ospitate;• valorizzare le capacità di ciascuno;

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118 Costruire cittadinanza

• stimolare al cambiamento;• costruire interventi alla persona che aiutino la stessa a un percorso

di autonomia;• supportare materialmente ed economicamente alcuni, per l’avvio

dell’autonomia (contributi affitto, pagamento biglietto viaggio, as-sistenza materiale di arredo casa, assistenza al disbrigo praticheecc.) (scheda di verifica 2007-2008).

Il lavoro di reteIl progetto previsto dal Comune prevede il «collegamento e l’attivazionedella rete dei servizi territoriali, pubblici e del privato sociale, al fine disostenere le persone che accedono al servizio nell’intraprendere un per-corso di reinserimento sociale o di trovare aiuto per il superamento delledifficoltà».

In concreto, l’assistente sociale responsabile della struttura e la psico-loga operante al suo interno hanno tenuto i contatti con i servizi socialiterritoriali, Comune, ospedali, servizi per immigrati, Ausl, centri diascolto, associazioni sia nell’ambito delle segnalazioni delle persone daospitare, sia per la ricerca di altre risorse a supporto delle persone.

Si è tentato di creare un collegamento maggiormente strutturato congli altri enti del privato sociale, in particolare si è organizzato un in-contro di raccordo con i centri di accoglienza per i senza dimora (Mis-sione Speranza e Carità e il Centro a bassa soglia Casa dei Giovani) masembra che, più che a promuovere una fattiva collaborazione, l’incontrosia servito a comprendere le modalità di lavoro reciproche e la possibi-lità di invii di utenti da un centro all’altro.

5. Conclusioni

Osservando che cosa offre la città di Palermo in termini di inclusione so-ciale per fasce deboli della popolazione e in particolare per i senza di-mora, si osserva l’esistenza di un doppio binario, uno istituzionale, laLocanda del Samaritano, foriero di impegno e professionalità, ma nonsufficiente per rispondere in modo adeguato alle esigenze del territorio e

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Tra accoglienza senza confini e progetti mirati. Palermo 119

un secondo, La Missione Speranza e Carità, spontaneo, plasmato sullenecessità delle persone, ma non suffragato da una pianificazione orga-nizzativa o da riflessioni di carattere sistematico sull’opportunità degliinterventi messi in atto.

Dal punto di vista del cammino di promozione sociale che la cittàpuò offrire, viene da immaginare che, a un periodo di ospitalità presso laMissione, durante il quale la persona sollevata dalle difficoltà della vitadi strada, riesce a dedicarsi più a se stessa, possa o debba seguire un pe-riodo presso la Locanda durante il quale, con l’aiuto delle professiona-lità e il supporto dell’auspicata rete con i servizi del territorio, si offrauno sbocco verso l’autonomia abitativa e lavorativa. In realtà le cose soloraramente sono così lineari.

Il progetto della Locanda del Samaritano è stato voluto dal Co-mune, del resto era sorprendente che la quinta città d’Italia per abi-tanti, la più vicina ai tanto chiacchierati «sbarchi» di clandestini, nonavesse un centro d’accoglienza pubblico, eppure le risorse a esso desti-nate risultano inadeguate, sia per numero di utenti raggiungibili (20posti letto su tutta Palermo), sia per il tipo di servizi che si riescono afornire. Il lavoro è da inventare, così come il reperimento dei fondi ne-cessari per poter davvero garantire opportunità agli ospiti. Va dato attodello sforzo professionale degli operatori: un impegno non solo con-creto ma soprattutto di riflessione sull’esistente e di progettazione e rin-novamento per il futuro. La Locanda ha le potenzialità per sviluppare ilknow how, ma la provenienza pubblica, sia dell’idea progettuale, sia deifinanziamenti, imbriglia la possibilità di inventiva. Va detto che, se nonesistesse la Missione di fratel Biagio Conte, il Comune sarebbe costrettoa rispondere al problema dei senza dimora con ben altre risorse: 900persone che trovano un riparo ogni notte a costo zero non è poco.

Nelle strutture di accoglienza il turn over di ospiti è visto come in-dice di successo dell’intervento, sebbene sia importante avere un ri-mando su ciò che fanno gli ex ospiti a distanza di un determinato lassodi tempo. Ciò per la Locanda è possibile solo per coloro per cui si im-posta un progetto personalizzato di qualche mese che conduca la per-sona a una situazione di autonomia, ma come già osservato questa è l’ec-cezione. Presso la Missione la temporaneità delle permanenze non è av-vertita come una condizione necessaria e ogni ospitalità segue un pro-

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120 Costruire cittadinanza

prio percorso. Inoltre, anche il feed-back, se c’è, è spontaneo, fondatosulla relazione che rimane attiva anche una volta conclusa l’accoglienza.In nessuno dei due casi è stato pensato come studiare gli esiti delle per-manenze, ed è difficile comprendere se, quando una persona conclude ilsuo percorso, sia davvero avviata verso l’autonomia.

Come già accennato, gli approcci di rete tra le istituzioni e il terzosettore, o tra i diversi enti del privato sociale, svolgono a Palermo unafunzione di conoscenza reciproca e di reperimento di nuove possibilitàper utenti già in carico, ma non si può affermare che vi siano formestrutturate di concertazione degli interventi o di analisi condivisa per laprogettazione.

Presso la Locanda è attivo un filtro all’accoglienza fondato, da un latosulla lettura e sulla comprensione dei bisogni della persona, dall’altrosullo sforzo di attivare la persona stessa, responsabilizzandola rispetto aipassi da compiere, in particolare, rispetto alla ricerca del lavoro e dellacasa. Situazione diversa è quella della Missione: la persona viene accoltain quanto tale e ciascuno con il tempo trova il modo per rendersi utile,per dimostrare la propria riconoscenza, ma il rischio di dipendenza e pas-sività dei destinatari dalle risorse offerte dalla Missione esiste.

La caratteristica della realtà palermitana che stupisce maggiormente èl’informalità degli interventi in favore dei senza dimora, quasi che il pro-blema non fosse avvertito come una reale emergenza, e al di là dell’im-pegno assunto al Comune attraverso la Locanda, si accetta che la que-stione sia gestita attraverso azioni solidaristiche spontanee e non profes-sionali.

Nel campo delle politiche sociali del Comune, peraltro, lo sviluppodi progettualità innovative sembra limitato da difficoltà economiche eorganizzative. Vi sono altresì diversi interventi, soprattutto promossi dalterzo settore a partire da finanziamenti pubblici e privati, incentrati pre-valentemente su ragazzi e giovani.2

Va notato che questa marcata attenzione nei confronti dei ragazzi edei giovani è motivata dal rilevante coinvolgimento in Sicilia dei minoriin attività criminali a opera delle organizzazioni mafiose. Nei registridegli indagati per appartenenza mafiosa delle procure minorili della re-gione tra il 1990 e il 2001 sono state registrate 119 segnalazioni per 98minori, con un trend in aumento negli ultimi anni. Il fenomeno pertanto

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Tra accoglienza senza confini e progetti mirati. Palermo 121

non appare residuale: negli anni 2002-2004 le procure siciliane hannodenunciato 47 procedimenti a carico di 38 minori. Nell’analisi dei casi(Padovani e Mattina 2006) è possibile individuare tre tipologie di gio-vani radicati nell’area della criminalità organizzata. Un primo gruppo ècostituito dai figli dei mafiosi, che introiettano fin dall’infanzia gli orien-tamenti del modello mafioso. Un secondo gruppo raccoglie coloro chenon fanno parte delle famiglie dei clan, ma gravitano attorno a essi con-dividendone gli obiettivi. Infine, al terzo gruppo appartengono quei mi-nori che vengono adescati e «prescelti» per le loro potenziali capacitànell’effettuare attività malavitose.

Se quindi possiamo convenire sull’importanza di interventi a carat-tere preventivo, rivolti alla popolazione minorile, rileviamo nel con-tempo che poco viene fatto per gli adulti in difficoltà, soprattutto per al-cuni ambiti segnati dall’emergenza. Si pensi agli immigrati, che nellamaggior parte dei casi sono «di passaggio» da Palermo verso il NordItalia, ma che necessitano di risposte ai bisogni primari, o ai senza di-mora. Se consideriamo le percentuali di distribuzione di tutte le risorsedell’ultimo Piano di zona del Distretto sociosanitario 42, possiamo no-tare che il 35% è destinato alle persone adulte e minori con disabilità, il19% agli anziani, il 19% alle famiglie, l’11% ai minori, il 5% alle per-sone con dipendenze, il 5% agli immigrati, il 3% alle donne in difficoltàe il 3% alla gestione del sistema (Piano di zona del Dss 42 di Palermo-Riequilibrio al 31 dicembre 2009). 3

A fronte delle scarse risorse disponibili per fronteggiare l’emargina-zione degli adulti, la necessità trova una prima risposta attraverso inter-venti informali: Biagio Conte «toglie le castagne dal fuoco» al Comune(e alla società locale) rispetto all’ospitalità dei senza dimora, ma in modoautonomo, senza interfacciarsi con le istituzioni.

Ciò detto va riconosciuto che la Missione Speranza e Carità, pur at-traverso un approccio premoderno alle problematiche sociali, riesce amettere in atto alcune dinamiche positive assai sorprendenti. Attraversoil sentimento sincero di fratellanza che si instaura tra missionari, volon-tari, persone accolte e in un certo modo anche oltre, nella cittadinanza,si sviluppano relazioni e coinvolgimento della società, e quindi modalitàinformali di integrazione. Un’integrazione senza progetto, senza sistema,senza rete, ma tuttavia non priva di razionalità ed efficacia. Resta per

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122 Costruire cittadinanza

contro un senso di vuoto rispetto alla distanza tra questo modello di ri-sposta e le dimensioni della domanda.

BIBLIOGRAFIA

Conte B. e Pilati G. (2006), La città dei poveri, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani.Golesano M. (2009), «Politiche sociali in Sicilia», in InformaCaritas, Palermo

gennaio-febbraio.Padovani A. e Mattina G. (2006), Ne vale la pena?, Paruzzo editore, Caltanisetta.Comune di Palermo (2009-2011), Piano di Zona Dds 42 di Palermo, Palermo.

SITOGRAFIA

www.comune.palermo.itwww.pacepace.org

INTERVISTE

Intervista 1: Funzionario responsabile Piano di zona di Palermo.Intervista 2: Responsabile Caritas diocesana.Intervista 3: Presidente Missione Speranza e Carità.Intervista 4: Assistente sociale della Locanda del Samaritano.Intervista 5: Funzionario servizi sociali Comune di Palermo.

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4. Lavorare per l’integrazione sociale in un contesto di risorse calantiIl caso di Romadi Fabio Zuccheri

1. Il contesto

Negli ultimi anni nel Lazio si è registrata una costante crescita demo-grafica, dai 5,14 milioni di abitanti del 1992 si è passati ai circa 5,6 mi-lioni attuali.1 La crescita maggiore si è riscontrata nella provincia diRoma, con un aumento di 251mila abitanti, soprattutto grazie al feno-meno migratorio.

Il numero di stranieri residenti nel Lazio è passato, infatti, da 275 065nel 2006 a 330 146 nel 2007, con un aumento del 20%. Nella provinciadi Roma si è passati da 228 205 a 278 540 stranieri residenti ufficiali, perun aumento del 22,1%. Le stime della Caritas diocesana di Roma, cheincludono anche gli irregolari, per il 2008 parlano di 500 007 stranieripresenti nel Lazio (il 13,6% di tutti gli stranieri in Italia), di cui 431 418nella provincia di Roma.

A livello occupazionale il Lazio, con una percentuale di occupati del59,7% (2007), ha mantenuto un significativo ritardo rispetto alle regionidel Nord (66,7%) e perfino all’interno dell’area del Centro Italia(62,3%), riuscendo a essere solo di poco sopra alla media nazionale del58,7%. La provincia di Roma ha in realtà un livello occupazionale supe-riore alla media (61,9%), mentre le altre province sono sotto la media. Aogni modo, Roma si colloca solo al sessantesimo posto tra le provinceitaliane come livello di occupazione, nonostante una crescita rispetto al2004 del + 6,3%.

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Mediamente il Lazio si caratterizza per i buoni livelli economici, la-vorativi e patrimoniali rispetto alla media italiana, presentando peròvarie situazioni di disagio e d’incertezza.

Roma si estende per 1285,30 kmq e ha una popolazione, al 31 di-cembre 2007, di 2 705 603 abitanti.

L’aumento di popolazione negli ultimi anni è da legare, come giàmenzionato, soprattutto alla crescita della popolazione straniera. In talsenso va rilevato che il trend di natalità tra gli italiani che abitano aRoma è negativo (– 0,2%), mentre quello degli stranieri è molto positivo(+ 7,6%).

Nonostante i dati positivi in relazione all’occupazione e al patri-monio, a Roma è presente una forte concentrazione di ricchezza e un li-vello di povertà significativo, con un sostanziale processo di rischio diesclusione sociale in aumento per le fasce più svantaggiate della popola-zione. Secondo quanto riportato dalla Caritas diocesana di Roma,170mila famiglie stanno vivendo una situazione economica difficile esono spesso indebitate, mentre circa 750mila persone avrebbero pro-blemi economici. Questo dato riguarda maggiormente i genitori soli, glianziani, le famiglie numerose e gli stranieri. Inoltre, in città le fasce conmaggiore rischio di esclusione sociale sono i senza dimora, le personecon dipendenze, i rom e i disabili fisici e mentali.

A Roma si stimano circa 2mila persone che vivono in strada e 3-4milache vivono in alloggi precari o di fortuna. Nella maggior parte dei casi sitratta di maschi fra i 39 e i 60 anni, anche se si riscontra un sostanzialeaumento di giovani senza dimora. I senza tetto hanno spesso problemipsichiatrici e di alcolismo, un fenomeno, quest’ultimo, in aumento, so-prattutto fra i giovani, a cui fa da contraltare la diminuzione della tossi-codipendenza, che rimane tuttavia un fenomeno rilevante.

La situazione dei senza dimora è tra l’altro collegabile al primato diRoma come città con gli affitti più cari d’Italia; la casa mediamente pesasul reddito familiare per il 30,7%. Nel 2007 sono stati 1873 i nuclei fa-miliari con sfratto esecutivo di cui il 20% costituiti da anziani.

A Roma, al 1º gennaio 2008, vivevano 269 649 cittadini stranieri, il9,5% del totale della popolazione della capitale, con un aumento ri-spetto al 2006 del 7,6% (Menghi e Rosati 2009). Quella straniera è unapopolazione giovane, di età tra i 25 e i 44 anni nel 55,2% dei casi,

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Lavorare per l’integrazione sociale in un contesto. Roma 125

mentre per gli italiani che vivono a Roma tale percentuale è del 29,7%(Villani 2008). Gli stranieri rappresentano l’8,7% degli occupati aRoma; di questi il 51,2% sono donne2 e, nella maggioranza dei casi, svol-gono lavori non qualificati3 e ricevono stipendi bassi.

I cittadini stranieri sono presenti in tutti i municipi, ma sono concen-trati soprattutto nei municipi I (11,7%), XX (8,2%) e VIII (7,9%). Le co-munità più rappresentate sono quella romena, seguita da quella filippina,polacca e peruviana. I rom, prevalentemente di nazionalità romena, sem-brano incontrare le maggiori difficoltà nel processo di integrazione: il loroinserimento abitativo, scolastico e lavorativo risulta problematico.

A Roma e provincia vive infine un elevato numero di disabili, all’in-circa 130mila persone, per la maggioranza anziani sopra i 65 anni.Inoltre, si stima che più di 40mila persone soffrano di disagi mentali, dicui diversi sarebbero a rischio di esclusione sociale.

La città di Roma è divisa in 19 municipi.4 Fra i municipi si trovano irioni del centro storico e i 35 quartieri di nuova urbanizzazione. I muni-cipi sono nati nel 2001 al posto delle circoscrizioni con lo scopo di de-centrare le autorità locali. Essi hanno maggiore autonomia gestionale, fi-nanziaria e contabile rispetto alle precedenti circoscrizioni e una piùestesa capacità decisionale in merito all’economia e urbanistica locale.

I municipi VIII e X a sudest di Roma costituiscono una zona popolare,periferica e con un diffuso disagio sociale.

Nel X vivono 180 989 persone, mentre nell’VIII, il municipio più po-poloso di Roma, si trovano 214 396 abitanti, così che i due quartieri in-sieme registrano un numero di residenti maggiore di città come Firenzeo Bologna. Nel municipio VIII la tendenza alla crescita demografica ècontinuata negli ultimi anni, con un incremento medio che raggiunge le2mila nuove iscrizioni all’anno. In questo municipio, inoltre, i minori e igiovani al di sotto dei 29 anni hanno un peso percentuale molto rile-vante e il tasso di natalità è il più elevato in assoluto della capitale(11‰). Il municipio X ha invece attraversato un processo inverso, conun costante, anche se lieve, decremento della popolazione (– 0,87% trail 2003 e il 2006).

La tipologia urbanistica del municipio X si divide tra una parte anord, nella zona più centrale, in cui prevalgono alti edifici e pocoverde, e una a sud, più periferica, in cui si trovano spesso aree verdi e

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prevalgono sia case basse, in parte nate abusivamente, sia quartieri mo-derni. In esso sono ubicati l’aeroporto di Ciampino, gli studi di produ-zione cinematografica di Cinecittà, e l’ippodromo Le Capannelle, oltrea diversi centri commerciali. Nell’VIII negli anni si sono verificati di-versi fenomeni di abusivismo edilizio; case monofamiliari sono sorteaccanto a grandi palazzi di edilizia popolare di recente edificazione,come Tor Vergata e Tor Bella Monaca, e a spazi riservati alla coltiva-zione. A Tor Vergata si trovano la Seconda Università e numerosi isti-tuti di ricerca, tra cui il Cnr. Alcune ex borgate sono attualmente og-getto di Piani particolareggiati di recupero (Programma di recuperourbano Tor Bella Monaca) e di Programmi integrati (Programma inte-grato Lunghezzina-Via Donegani).

La questione sociale in questi quartieri popolari e periferici di Romaè particolarmente difficile, come si legge nel Piano regolatore sociale2008-2010 redatto dalle amministrazioni dei municipi VIII e X. Nelprimo di essi, secondo le stesse autorità locali, gli indicatori confermanoche la qualità della vita è in ultima posizione rispetto agli altri municipi.La popolazione appartiene a fasce economiche medio-basse, il redditopro capite è agli ultimi posti della classifica cittadina e si registra il piùbasso indice di indipendenza economica. Il municipio X si trova in unasituazione migliore, ma va distinta la parte più vicina al centro rispetto aquella più periferica, che mostra molte similitudini con le condizionidell’VIII.

Un dato allarmante riguarda l’invecchiamento della popolazione, acui si accompagna l’aumento del numero dei disabili. Nel municipio X lepersone che hanno tra i 65 e gli 84 anni sono il 18,4% della popolazione,mentre solo il 30% di essa ha tra 0 e 29 anni. Ne consegue anche che nel35,7% delle famiglie vive un anziano, con tutte le implicazioni socialiche ciò comporta. D’altra parte, il 16,5% delle famiglie è monogenito-riale e si trova spesso a rischio povertà se non viene sostenuto dalle poli-tiche sociali. Inoltre, particolarmente a rischio sono i minori del muni-cipio VIII, con un elevato aumento dei ragazzi coinvolti in reati, conun’incidenza superiore agli altri municipi.

Una situazione spesso problematica, in questi contesti difficili, ri-guarda la convivenza tra cittadini italiani e stranieri. Gli stranieri cheabitano questi quartieri in maggioranza sono giovani e provengono so-

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prattutto dalla Romania. Il problema della loro integrazione e, in diversicasi, della loro regolarizzazione, ha rilevanti ripercussioni sociali. Nelmunicipio VIII è inoltre presente anche un campo nomadi. In questocontesto, l’emergenza sociale si concentra sulla popolazione rom, laquale resta separata dal resto degli abitanti per motivi sia socioecono-mici che di pregiudizio.

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

Le politiche sociali del Lazio si concentrano sulla popolazione definitadall’art. 3 della Legge regionale 34/2006 come non autosufficiente. Sitratta di anziani, disabili o qualsiasi altro soggetto che non può provve-dere alla cura della propria persona né mantenere una normale vita rela-zionale senza l’aiuto di altri. Tra i servizi si trovano l’assistenza domici-liare integrata sanitaria e sociale e il sollievo alle famiglie che hanno unapersona non autosufficiente in casa, inclusa l’assistenza domiciliare diventiquattro ore. Esistono inoltre strutture socioassistenziali come asilinido, rifugi per donne maltrattate ed edilizia residenziale pubblica. In-terventi più specifici sono previsti in alcuni casi con la creazione di isti-tuzioni ad hoc come l’Ufficio delle politiche per l’handicap della Pro-vincia di Roma, nato nel 2004.

Le spese per le politiche sociali nel Lazio hanno ammontato, nel2005, a 750 milioni di euro; 42 milioni da parte degli enti provinciali e715 da quelli comunali. I valori medi delle spese dei comuni laziali è di125 euro per abitante, al decimo posto tra le 22 regioni italiane. Il rap-porto delle spese per il sociale sul budget globale è del 4% per le pro-vince e il 9,7% per i comuni. Queste percentuali sono comunque supe-riori alla media nazionale (2,2% per le province e 8,7% per i comuni).In particolare, l’impegno finanziario delle province per le politiche so-ciali è secondo proporzionalmente solo a quello della Sardegna (4,1%della spesa totale), mentre la spesa dei comuni è al settimo posto rispettoalle altre regioni.

Le prestazioni di assistenza sociale si concentrano sui disabili congravi handicap fisici o psichici e anziani in situazione di estremo disagio.

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Gli invalidi civili nel Lazio sono il 14,2% dei beneficiari di redditi pen-sionistici rispetto al 13,2% di media in Italia. Un numero maggiore si haanche tra gli anziani che ricevono contributi in quanto non economica-mente sufficienti (6,4% nel Lazio, 4,6% in Italia).

Nel Lazio sono per lo più singole amministrazioni comunali a offrireservizi sul territorio piuttosto che forme associative intercomunali comei consorzi. Le cooperative sociali integrate nel 2007 erano solo 704; 18,5ogni 10mila imprese, a Roma solo 16 ogni 10mila. Molto più numerosesono le associazioni di volontariato; quelle iscritte al registro regionalesono passate da 835 del 2000 a 1600 nel 2007. Queste associazioni aRoma sono 1028, ma la loro incidenza percentuale sulla popolazione co-stituisce il dato regionale più basso, con 25,6 associazioni ogni 100milaabitanti. I settori in cui si concentrano le associazioni sono i servizi so-ciali, l’ambiente, la sanità e la cultura.

All’interno dei municipi X e VIII si svolgono svariati interventi a fa-vore delle persone svantaggiate. Si ha però la tendenza a suddividere leattività per minori, anziani, disabili, adulti in difficoltà e famiglie nonprovando a creare politiche trasversali che possano avere effetti positivicontemporaneamente su diverse fasce di utenti. I servizi riguardano, tral’altro, l’assistenza domiciliare a minori, anziani e disabili e i centri pergli anziani. Secondo quanto riportato nel Piano regolatore sociale delmunicipio VIII per il 2008-2010, un ostacolo alle possibili nuove strategienelle politiche sociali è rappresentato dal fatto che «in questo territorio èmolto radicata la cultura dell’assistenzialismo, per cui il disagio socioe-conomico in cui versa molta parte della popolazione viene tradotto inuna domanda esplicita di assistenza economica». Questa situazione si ri-scontra anche nel municipio X, dove le persone assistite economica-mente sono aumentate, tra il 2002 e il 2006, del 76,37%, così chesembra difficile parlare di politiche di attivazione in questi contesti.

Per quanto riguarda la collaborazione tra enti, il Piano regolatore so-ciale del municipio VIII sottolinea come «il livello di integrazione istitu-zionale non sia sempre presente e che, quando è presente, è spesso limi-tato a pochi settori; solo per quanto riguarda le politiche per la tuteladella salute il processo di integrazione a livello istituzionale sta viag-giando di pari passo, grazie a uno sforzo che le due Istituzioni stanno fa-cendo da oltre un anno». Inoltre, non si riscontrano particolari reti tra

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istituzioni pubbliche e Ong; la collaborazione sembra essenzialmentesporadica e legata a singoli eventi.

Un problema significativo, come esplicitato dalle autorità dei due mu-nicipi, sono i continui tagli al settore sociale effettuati dalla giunta comu-nale. Per esempio, nel municipio X, tramite comunicato stampa, si è de-nunciato che si sono definitivamente esauriti i fondi per l’assistenza ai mi-nori inviati dai tribunali nelle case-famiglia del territorio; che non ci sa-ranno più risorse per pagare il personale di sostegno agli alunni disabili;che non ci sarà più un euro per l’assistenza domiciliare per le persone di-sabili; infine, che dall’inizio dell’estate non vengono erogati i sussidi aglianziani a basso reddito. Anche il municipio VIII ha denunciato i pesantitagli al bilancio fatti dal Comune. In questa situazione le associazioni qualila Comunità di Capodarco svolgono un ruolo fondamentale per potercontinuare a fornire l’assistenza necessaria ai disabili e alle persone in dif-ficoltà nei quartieri a sudest di Roma e dar loro una possibilità di integra-zione e autonomia tramite l’inserimento lavorativo.

3. L’associazione Comunità Capodarco di Roma

La Comunità di Capodarco svolge interventi sia nell’ambito assisten-ziale/riabilitativo sia in quello di inserimento al lavoro a favore delle per-sone con disabilità fisica o psichica, i rom, gli ex detenuti, gli ex tossico-dipendenti e i giovani che hanno commesso reati. Essa ebbe origine nel1969 a Capodarco di Fermo, nelle Marche. Negli anni seguenti la Co-munità divenne un’associazione nazionale, aprendo varie sedi in Italia.Nei primi anni settanta un gruppo della comunità si trasferì a Roma ecreò la Comunità Capodarco di Roma Onlus, attualmente formata da125 soci. L’assemblea dei soci elegge il consiglio della Comunità il qualea sua volta nomina il comitato esecutivo, il presidente e il vicepresidentecon un mandato rinnovabile ogni tre anni.

La Comunità offre vari servizi in diversi ambiti, compresa la residen-zialità e, come menzionato, l’inserimento lavorativo. Ogni servizio ha uncoordinatore, ma tutti rispondono all’esecutivo della comunità. Lo staffè composto da diversi professionisti (medici, fisioterapisti, educatori,operatori sociali, psicologi del lavoro), da giovani che svolgono il ser-

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vizio civile volontario, soci dell’associazione che partecipano alle attivitàdella Comunità e volontari, sia giovani sia pensionati. Purtroppo, negliultimi anni si riscontra un minor numero di presenze di giovani, siacome partecipanti del servizio civile sia come volontari.

Lo scopo dell’associazione è che ognuno diventi protagonista dellapropria vita e si emancipi per quanto possibile dai bisogni di assistenzain modo da poter condurre un’esistenza indipendente. Si cerca pertantodi fronteggiare ogni forma di emarginazione e di esclusione sociale conrisposte adeguate alle situazioni individuali a favore dello sviluppo inte-grale della persona e alla sua completa partecipazione alla vita socialedel suo quartiere nella sua città. A tal fine, le campagne di sensibilizza-zione a queste tematiche costituiscono parte integrante degli impegnidell’associazione.

Le sedi e le attività principali della Comunità a Roma si trovano neimunicipi X e VIII. Ma opera anche in altri municipi con singoli progetti,spesso di natura occasionale.

L’opera di mediazione della Comunità con il territorio circostante e lacreazione di reti istituzionali e informali costituiscono un’attività trasver-sale di ogni servizio dell’associazione. La Comunità fa in modo che i suoipartecipanti vivano il quartiere e si facciano conoscere dalla popolazionelocale. In particolar modo, si prova a coinvolgere i giovani del quartierecon incontri organizzati con le scuole e gli scout. Durante l’anno si presen-tano le attività al pubblico e alle istituzioni locali per informarli, sperandodi coinvolgerli in qualche modo nelle azioni della Comunità. Vengono or-ganizzate mostre e manifestazioni con il municipio, le parrocchie e la Co-munità di Sant’Egidio; inoltre ogni anno si preparano svariate iniziativenatalizie. Le attività di incontro e i servizi della Comunità portano anchealla creazione di una rete di solidarietà sociale con realtà della pubblicaamministrazione (Regione, Comune e municipi) e del privato sociale comela Comunità di Sant’Egidio, la Croce rossa e le parrocchie. La Comunità fainoltre parte di coordinamenti più ampi, alcuni occasionali e altri struttu-rati come il Centro nazionale coordinamento comunità di accoglienza(Cnca), creando così occasioni di scambio con altre strutture impegnatenello stesso ambito.

In quest’ottica di negoziazione tra persone svantaggiate e a rischioemarginazione sociale e la realtà territoriale si innesta il Centro di inte-

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grazione sociale (Cis) sito nel municipio VIII, nella difficile zona di TorBella Monaca. Il Cis è nato dopo che negli anni ottanta alcune case po-polari furono assegnate a disabili seguiti dalla Comunità e a partire daquesta occasione si è cercato di fornire servizi per tutti i residenti. Il Cispropone attività di aggregazione, di laboratorio e di mediazione nel con-testo territoriale alle quali partecipano 150 adolescenti e giovani, 75 di-sabili, 80 adulti e 150 anziani. Inoltre esso organizza interventi di so-stegno per giovani che hanno commesso reati o con difficoltà scola-stiche. Infine, dispone di una biblioteca specializzata su tematiche so-ciali e giovanili e ha attivato, presso la sede del municipio delle Torri,uno sportello di segretariato sociale e consulenza legale.

L’associazione sostiene le proprie attività tramite diverse fonti di fi-nanziamento, quasi tutte derivanti dal pubblico. Il finanziamento privatoha una parte marginale nella composizione del budget, tra il 4 e il 5% almassimo, è privo di continuità e non è legato a nessun progetto in parti-colare.5 Questo dato non è casuale, ma è una chiara scelta dell’associa-zione, secondo la quale questi bisogni dovrebbero essere finanziati dallacollettività. L’entrata finanziaria maggiore per la Comunità è relativa allerette riconosciute dalla Regione per chi frequenta il centro riabilitativoper disabili. Inoltre, sono previsti fondi comunali che sostengono le case-famiglia e finanziamenti da parte dei municipi interessati alle attivitàsvolte dalla Comunità. Altri finanziamenti dipendono da bandi o progettiannuali e da finanziamenti dell’Unione europea tramite la Regione.

In generale, si riscontra una sempre più marcata carenza di fondi do-vuta ai tagli dei finanziamenti pubblici. Per esempio, dal 2 febbraio 2009alcuni servizi della Comunità sono stati chiusi e altri sono stati ridotti acausa del taglio da parte della Regione Lazio del 18% dei contributi per lespese sanitarie, mentre le quote dei rimborsi sono ferme al 2001. La ca-renza di fondi porta anche a svolgere piccoli progetti a breve termine,senza continuità, il cui impatto resta molto limitato. Inoltre, si riscontranoparametri sempre più rigidi imposti ai servizi dai finanziamenti in rela-zione agli utenti, al personale e ai luoghi da utilizzare. Per questo motivogli operatori parlano di «gabbie» imposte ai servizi, le quali rendono diffi-cile un impatto dei servizi trasversale a diverse categorie di persone.

Negli ultimi anni si è riscontrato un incremento di stranieri che si ri-volgono alla Comunità. La loro situazione presenta di frequente aspetti

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spesso più critici rispetto a quella dei disabili e degli ex carcerati italianipoiché di solito si inserisce in un contesto di minore protezione sotto ilprofilo degli aiuti sociali e familiari, a volte anche a causa della man-canza di documenti, e rende questa fascia di persone maggiormente vul-nerabile. Ci si trova quindi ad affrontare il problema di un ancor più dif-ficile reinserimento nella società e nel mondo del lavoro.

I servizi della Comunità si dividono in residenziali (all’interno dellacomunità e nei gruppi-famiglia) e diurni. La mission della Comunità sibasa su alcune parole chiave: accoglienza, condivisione e progettualità.Chi viene accolto deve convivere con gli altri e dare una mano per quelloche è capace di fare, viene coinvolto nella costruzione di un proprio pro-getto di vita fino a raggiungere l’autonomia. Questo implica un processodi responsabilizzazione e partecipazione delle persone che vivono nellaComunità, all’interno della quale tutti occupano un ruolo e hanno deicompiti da svolgere. Alcuni diventano membri attivi della Comunitàstessa, assumendosi incarichi e responsabilità dirette. Questo coinvolgi-mento ha origine nella stessa creazione dell’associazione, fondata dapersone disabili che volevano uscire di casa e dalle istituzioni tradizio-nali, rifiutando l’assistenzialismo come principio fine a se stesso a favoredi una spinta al fare e a rendersi per quanto possibile indipendenti. LaComunità quindi incoraggia, soprattutto tramite attività di pressione daparte dei pari, ognuno ad attivarsi per quanto può e a non essere pas-sivo, a compiere tutto ciò che può fare da solo senza chiedere aiuto, aprovare comunque a vedere se è in grado di svolgere ogni compito comelavarsi, riordinare, pulire e fare il bucato in modo autonomo. Ognuno siattiva secondo le proprie capacità e collabora con gli altri; per esempio,le persone con disabilità fisica svolgono attività di sostegno per quellecon problemi mentali, per le quali spesso è più difficile essere autonome.

Per fornire ai disabili, ma anche a diverse persone a rischio esclu-sione sociale, una maggiore possibilità di partecipazione e di autonomia,sono stati apprestati alcuni servizi formativi, seguiti da duecento allieviall’anno. La formazione è legata al mondo del lavoro per dare la possibi-lità in seguito a queste persone di un inserimento sociale e lavorativo.L’Agenzia formativa della Comunità è accreditata dalla Regione Lazioper svolgere attività formative finanziate dal Fondo sociale europeo ecollabora con servizi sociali, sanitari e di istruzione del territorio. Nelle

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classi si svolgono lezioni teoriche, esercitazioni e lavoro di laboratorio.Una rete fra le imprese e il sistema della formazione consente l’attiva-zione di tirocini formativi e di orientamento. Oltre alla formazione dibase, la Comunità offre anche una formazione superiore e continua perdiplomati, laureati e operatori. Capodarco formazione sociale è il settoredell’Agenzia formativa della Comunità impegnato nella formazione dioperatori sociali e volontari e nel fornire ai professionisti del campo con-tinui aggiornamenti con corsi di qualifica e post-qualifica. Ogni annovengono formati circa 150 operatori di strada, mediatori interculturali eoperatori sociosanitari e svolti corsi di aggiornamento per educatori pro-fessionali e psicologi.

Infine, all’interno della Comunità si trovano servizi volti a sostenerele persone verso l’autonomia. All’interno del centro diurno sono pre-senti i Laboratori sociali che ospitano 75 disabili psichici medio-graviche hanno tra i 20 e 45 anni. I partecipanti hanno vari tipi di deficit dellefunzioni intellettive e patologie di ordine psichiatrico ed emotivo-rela-zionale. I Laboratori fanno parte integrante delle altre attività residen-ziali e diurne della Comunità e hanno una funzione sia occupazionale siaespressiva e relazionale, con un’attenzione particolare alle competenzenecessarie per una vita autonoma nell’ambito familiare. I Laboratorihanno differenti tipi di produzione, in modo da offrire diverse possibi-lità ai disabili di lavorare nell’ambito che è più congeniale ai loro inte-ressi e alle loro capacità. Si producono artigianalmente la pasta, la cera-mica, oggettistica e pelletteria e si effettuano lavori di restauro e stampa.I prodotti vengono poi venduti per finanziare le attività, senza però en-trare in un sistema di produzione commerciale.

I percorsi educativi, riabilitativi e di laboratorio mirano a garantireagli ospiti della comunità e a coloro che frequentano i centri diurni lamaggiore autonomia possibile e, se le condizioni lo consentono, unpieno rientro nella società e nel territorio di provenienza. In alcuni casi,queste attività portano all’inserimento lavorativo. Infatti, come vedremodi seguito, la Comunità si attiva, tramite un centro apposito e lo svi-luppo di cooperative, per aiutare le persone disabili ed emarginate a en-trare nel mercato del lavoro.

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4. L’inserimento lavorativo: il Sil, le cooperative e la scolarizzazione dei rom

Per favorire l’inclusione sociale di fasce della popolazione svantaggiatecome disabili, rom e giovani con problemi di dipendenze o devianti, ènecessario, nei limiti del possibile, che questi riescano ad avere un’ade-guata scolarizzazione e formazione e riescano a inserirsi nel mondo dellavoro, così da poter prepararsi un percorso verso l’autonomia e l’indi-pendenza. Tramite la Comunità, ogni anno, 100 giovani con disabilitàpsicofisica vengono formati e avviati al lavoro, 75 disabili sono impe-gnati in 5 laboratori sociali, 850 bambini e adolescenti rom e sinti ven-gono coinvolti nel Progetto di scolarizzazione, 200 giovani a rischioesclusione sociale partecipano a programmi educativi, formativi e cultu-rali e 35 disabili sono occupati nelle 6 cooperative sociali e integrate ade-renti al Consorzio Alberto Bastiani promosso dalla Comunità. Si trattaquindi di diversi servizi gestiti da 300 tra operatori, collaboratori, volon-tari e giovani che svolgono il servizio civile.

A Roma, si riscontra un bassissimo inserimento lavorativo delle per-sone disabili, sebbene la Legge 68/99 preveda chiari metodi e obblighidi inserimento lavorativo. Nel 2006 nel Lazio 73 663 disabili eranoiscritti alle liste di collocamento, 50 862 nella provincia di Roma. Tra il2004 e il 2006 sono stati avviati al lavoro 3 disabili ogni 100 iscritti, soloil 7,5%. Si evince quindi che le quote previste dalla Legge 68/99 spessonon vengono raggiunte e le aziende preferiscono pagare le multe, lequali, peraltro, vengono usate per finanziare i progetti di inserimento la-vorativo dei disabili come il Servizio di inserimento lavorativo (Sil).

Il Sil dell’associazione si rivolge a tutte le fasce a rischio di esclusionesociale e in particolare ai disabili iscritti nelle liste di collocamento ob-bligato e ai lavoratori svantaggiati segnalati dai servizi territoriali. Nel Sillavorano cinque persone, tutte laureate in psicologia. Esso opera tramiteprogetti, ai quali accede tramite bandi e gare, finanziati di volta in voltada enti pubblici quali la Provincia di Roma, il Comune di Roma, la Re-gione Lazio. Tramite il nuovo ordinamento del servizio di collocamento,il Sil offre un orientamento nel mercato del lavoro e opera come un’a-genzia del lavoro favorendo l’incontro tra aziende e persone in cerca dioccupazione utilizzando la propria banca dati e la metodologia del col-

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locamento mirato. Il Sil, inoltre, sensibilizza e supporta le aziende sog-gette all’obbligo della Legge 68/1999 nella stipula delle convenzionipreviste dall’art. 11 con i Centri per l’impiego. Lo scopo delle sue atti-vità è l’inserimento sociolavorativo come inclusione sociale e promo-zione della persona attraverso l’inserimento mirato. Questo prevede l’at-tuazione di una procedura divisa in quattro fasi: reperimento e sensibi-lizzazione delle aziende; selezione e abbinamento dei candidati; inseri-mento in azienda e tutoraggio; monitoraggio e valutazione. Il modello diintervento è basato sul parallelismo delle azioni rivolte da un lato allapersona e dall’altro all’azienda. L’intervento si basa sulla premessa chesoltanto una conoscenza approfondita della storia della persona può ga-rantire il successo dell’inserimento lavorativo. È quindi necessaria un’or-ganizzazione flessibile per poter differenziare l’intervento in funzionedelle caratteristiche della persona, alla quale si offrono il sostegno e laconsulenza utili per la costruzione di un percorso individualizzato mi-rato alla sua integrazione lavorativa.

Un ulteriore fattore fondamentale per il raggiungimento degli obiet-tivi del Sil è l’integrazione con il territorio e lo sviluppo di azioni coordi-nate tra i vari servizi sociali, formativi e educativi e tra il sistema dell’im-presa e quello dell’impresa sociale per favorire l’inclusione sociale. Il Silha perciò predisposto un sistema integrato di servizi, al centro del qualec’è la persona con il suo progetto e percorso individuale, basato su un si-stema territoriale costituito da scuola, centri di formazione professio-nale, centri per l’orientamento e l’inserimento lavorativo, servizi sociosa-nitari e sistema delle imprese, dando vita a una rete territoriale. Nel mu-nicipio X, la rete territoriale interessa non solo i disabili, ma personecome ex tossicodipendenti ed ex detenuti e coinvolge i servizi territorialisociali, sanitari e per le tossicodipendenze.

Il Sil predispone diverse attività di tirocinio mirate all’assunzione perpersone delle fasce deboli che si trovano in un periodo di transizionepostformativo o di disoccupazione postlavorativa, organizzando anchepercorsi di accompagnamento per l’inserimento lavorativo attraverso ti-rocini. L’inserimento lavorativo delle persone svantaggiate dipende na-turalmente dalle loro capacità psicofisiche e dalle loro esperienze. Sipossono avere inserimenti lavorativi anche all’interno della Comunità,come, per esempio, con la funzione di centralinisti.

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Per giovani in condizioni di difficoltà create da disabilità o da situa-zioni di disagio sociale e/o familiare, inviati al Sil dai servizi territoriali,sono previsti tirocini di orientamento e formativi. Questi giovani neces-sitano di comprendere quale sia il loro potenziale e i loro interessi lavo-rativi e hanno bisogno di imparare, in primo luogo, competenze trasver-sali orientative, comunicative e relazionali, e, in seguito, tecniche e cono-scenze specialistiche. Il metodo del Sil, come precedentemente de-scritto, si basa sulle situazioni individuali, quindi questo percorso è fles-sibile a seconda dei casi. I tirocini formativi hanno come scopol’acquisizione da parte dell’utente di competenze specifiche coerenti coni progetti professionali definiti dalla persona e prevedono anche stage.Per le persone che, avendo completato il percorso formativo, sono in at-tesa di una collocazione lavorativa o non hanno prospettive di accedereal mondo del lavoro con uno degli usuali rapporti regolati dalle formecontrattuali, ma necessitano di mantenere attive e sviluppare le propriecapacità, di socializzare, vengono invece previsti tirocini «di manteni-mento». Infine, il tirocinio mirato è rivolto al lavoratore e all’aziendasoggetta agli obblighi della Legge 68/99, in convenzione con il Centroper l’impiego, quando si presenta la necessità di un inserimento di un la-voratore che necessita di tutoraggio o l’adeguamento delle competenze edelle capacità professionali del lavoratore stesso alle necessità produttivee ai processi aziendali.

I risultati fin qui ottenuti dal Sil e dal suo metodo di intervento sonopositivi, sebbene una maggiore evoluzione del contesto di intervento euna migliore collaborazione da parte delle aziende sul territorio potreb-bero portare a successi ancora maggiori. Dal giugno 1999 al marzo 2009540 persone hanno svolto almeno un tirocinio; 2415 hanno partecipatoad attività di orientamento; 258 hanno effettuato un tirocinio di forma-zione e orientamento o di mantenimento; 282 hanno svolto un tirociniomirato secondo la Legge 68/1999. Infine, il dato più importante, 299persone sono state collocate in azienda tramite assunzione diretta o at-traverso il tirocinio mirato.

Oltre al Sil, come strumento di inserimento lavorativo di persone di-sabili e di giovani emarginati, negli anni sono state fondate, attraverso laComunità, una serie di cooperative integrate legate al Consorzio AlbertoBastiani Onlus. Al Consorzio aderiscono le cooperative sociali: Agricol-

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tura Capodarco (agricoltura biologica e ristorazione), Lapemaia (recu-pero e riciclaggio tessuti), Edera (produzione di pasta all’uovo), EdilService (manutenzioni e ristrutturazioni edilizie), Ermes (gestione ser-vizi e progetti a favore degli immigrati). È stata poi attivata la coopera-tiva sociale Manser che opera nel settore pulizie. Queste cooperative de-rivano direttamente dalla Comunità, ma dal momento della loro crea-zione lavorano in piena autonomia giuridica e gestionale.

I primi tentativi risalgono a diversi anni addietro con la creazione dicooperative di ceramica e di elettronica. Essendo le cooperative dei verie propri soggetti commerciali indipendenti e legati alle logiche di mer-cato può succedere, come è effettivamente successo con queste primedue esperienze, che le cooperative non reggano la concorrenza e falli-scano.

La possibilità di collaborazione tra persone disabili e altre a rischioemarginazione porta a interessanti scambi tra le due realtà oltre a divi-sioni funzionali del lavoro. Per esempio, i primi, che magari si trovanosu una carrozzella, tagliano i tessuti dei vestiti raccolti dai secondi grazieai cassonetti per la raccolta degli indumenti usati.

Nell’ambito delle attività formative è stata creata una cooperativache si occupa della scolarizzazione di bambini presenti negli insedia-menti rom e sinti che si trovano in diversi municipi di Roma. Benefi-ciari del servizio sono circa 900 bambini e adolescenti e, in modo indi-retto, le loro famiglie. Il servizio è improntato, come tutte le attivitàdella Comunità, a favorire un percorso di autonomia invece che di assi-stenzialismo e ad assicurare il protagonismo e la valorizzazione dei par-tecipanti. Le attività di scolarizzazione per bambini e adolescenti romnon cercano quindi semplicemente di garantire il compimento dellascuola dell’obbligo, ma tendono anche a far sì che una volta terminatoquesto percorso formativo essi siano in grado di essere autonomi e ca-paci di partecipare attivamente alla vita della società. Viene inoltresvolto un ruolo di mediazione con le famiglie e il territorio, volto a fa-vorire la partecipazione di tutti i soggetti interessati e la loro mutuacomprensione. Infine, spesso ex partecipanti ai programmi sono impie-gati come collaboratori della cooperativa6 o in altre situazioni di media-zione culturale, così che il programma, da un lato favorisce, tramite l’i-struzione, la futura possibilità dei giovani rom di inserirsi nel mondo

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del lavoro, mentre, dall’altro, offre possibilità concrete ad alcuni di lorodi svolgere, terminato il percorso, lo stesso lavoro di mediazione a cuihanno partecipato.

Infine, l’associazione opera anche per l’inserimento abitativo deipropri utenti. Una volta avviato in un percorso lavorativo, infatti, un di-sabile può più facilmente intraprendere quello dell’autonomia abitativa,come è successo per esempio negli anni ottanta con l’inserimento dimolti di questi lavoratori nelle case popolari di Tor Bella Monaca. Re-centemente ci sono stati altri progetti come «Abitare insieme» volti adaiutare l’acquisto di case da parte di queste persone. In alcuni casi la ca-pacità lavorativa non coincide altresì con la possibilità di vivere in modoautonomo e quindi il lavoro serve soprattutto come mezzo per attivarsi,per migliorare la propria esistenza e le capacità relazionali.

5. Conclusioni

Roma, e in special modo i suoi quartieri periferici come i municipi VIII eX, mostra diverse problematiche rispetto all’inserimento sociale e lavora-tivo di persone a rischio esclusione come i disabili fisici e psichici, i rome i giovani ex detenuti o ex tossicodipendenti. Di fronte a queste situa-zioni, l’intervento pubblico sembra sempre più restio a fornire, in mododiretto, risposte concrete, anche a causa dei tagli al bilancio. Queste ven-gono spesso demandate, attraverso finanziamenti e convenzioni, fre-quentemente senza soluzione di continuità, a realtà del privato socialequali l’associazione Comunità di Capodarco di Roma.

L’esperienza sul territorio della Comunità di Capodarco può aiutare,al di là dello specifico, a comprendere quali tipi di intervento nell’am-bito dell’inserimento lavorativo possano aiutare le persone emarginate acompiere un percorso che porti all’impiego e alla piena autonomia.

Per quanto riguarda il Sil si possono sottolineare alcuni importantiaspetti del suo metodo di lavoro che possono essere usati in diversi con-testi. Il primo aspetto comprende un approccio flessibile e individualesulla persona coinvolta, in modo da riuscire a preparare il percorsogiusto, basato sulle sue capacità ed esigenze. Un secondo aspetto ri-guarda la capacità di integrare i servizi (formativi, sociali, sanitari, lavo-

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rativi) pubblici e privati e il territorio in cui si opera, così da predisporresia una rete di servizi sia una rete territoriale formata da aziende e coo-perative sociali, servizi sociosanitari, centri per l’impiego, centri diorientamento e formazione e autorità locali. Rilevante è anche l’espe-rienza di diversi tipi di tirocinio: orientativo, formativo, di manteni-mento e mirato, i quali sono disposti in modo da affrontare le diversefasi ed esigenze del percorso legato all’inserimento lavorativo.

In questo contesto si svolge anche il parallelismo delle azioni rivolte,da un lato, alla persona e, dall’altro, all’azienda. Il Sil opera come unavera agenzia del lavoro, non offre semplicemente un collocamento qual-siasi per le fasce svantaggiate, ma si impegna a reperire posti di lavoro al-l’interno delle aziende collocandovi i lavoratori più consoni all’occupa-zione offerta di modo da porre la giusta attenzione sia alla domanda siaall’offerta di lavoro, così da assicurare la necessaria soddisfazione perentrambi. Questo metodo professionale, che tiene presente anche le ne-cessità delle aziende oltre a quelle del lavoratore, evita che si innesti unprocesso di assunzione da parte delle aziende che abbia solo un ap-proccio assistenziale. Operare come un’agenzia del lavoro è un passoavanti rispetto alla vecchia idea del collocamento di persone emarginatecome «favore» da ottenere dalle aziende o facendo esclusivamente levasu obblighi legislativi.

La Comunità ha inoltre sviluppato un’altra forma di inserimento la-vorativo attraverso le cooperative. Queste impiegano persone con di-versi tipi di problemi, come la disabilità o la difficoltà di inserimentonella società dopo un periodo di dipendenze o di reclusione carceraria,dando loro una possibilità di inserimento lavorativo non fine a se stessoma all’interno di un processo produttivo in cui è necessario raggiungeredei risultati se si vuole mantenere l’attività in funzione. Come nel casodel Sil, il lavoro non viene visto come una semplice occupazione da for-nire a persone svantaggiate, ma come fonte di responsabilità, di parteci-pazione e di attivazione. Le cooperative devono competere sul mercatoper sopravvivere, perciò tutte le persone che ci lavorano sono responsa-bilizzate a dare il meglio e a contribuire con le proprie capacità alla loroproduzione e al loro funzionamento.

Infine, la cooperativa che si occupa della scolarizzazione dei bambinirom si contraddistingue rispetto ad altri interventi analoghi per la possi-

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bilità che offre ad alcuni dei ragazzi seguiti di diventare essi stessi prota-gonisti impegnandosi come operatori nella cooperativa stessa.

Nonostante questi lati positivi, bisogna anche segnalare alcune debo-lezze dell’intervento della Comunità. La sostenibilità finanziaria e lacontinuità degli interventi rappresentano un aspetto critico. Infatti, la ri-duzione dei finanziamenti da parte della pubblica amministrazione ri-chiede alle realtà del terzo settore una progressiva differenziazione delleforme di finanziamento, con il ricorso al sostegno delle fondazioni o deiprivati. L’associazione non sembra, a oggi, dare particolare rilievo all’at-tività di fund raising, raccogliendo la maggior parte delle proprie risorsefinanziarie da rette e convenzioni con enti pubblici e questo rende parti-colarmente difficile la sostenibilità dei suoi interventi.

BIBLIOGRAFIA

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Comune di Roma (2007), Vivere a Roma. Un’indagine sulla qualità della vita per-cepita dai cittadini romani, Roma.

Menghi B. e Rosati R. (2009), I residenti stranieri nel Comune di Roma, in Uffi-cio di Statistica e Censimento del Comune di Roma Osservatorio Romanosulle Migrazioni, Roma.

Municipio VIII di Roma (2008), Piano regolatore sociale per il 2008-2010, Roma.Municipio X di Roma (2008), Piano regolatore sociale per il 2008-2010, Roma.Unione delle Province del Lazio (2008), Rapporto 2008 sullo stato delle provin-

cie del Lazio, Eures, Roma.Villani C. (2007), Le imprese romane e la sfida dei mercati: caratteristiche e ten-

denze del sistema produttivo della capitale, Servizio studi socio-economici distatistica del Comune di Roma Osservatorio romano sulle migrazioni, Roma.

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SITOGRAFIA

www.capodarcoroma.itwww.comune.roma.itwww.istat.it

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Lavorare per l’integrazione sociale in un contesto. Roma 141

www.romacivica.netwww.romamunicipiodelletorri.it/www.romastatistica.it

INTERVISTE

Intervista 1: Vicepresidente della Comunità Capodarco di Roma.

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5. Promuovere occasioni di lavoro e di cultura in un vecchio quartiere operaioIl caso di Torinodi Massimiliano Cossi

1. Il contesto

Il mercato del lavoro piemontese sta attraversando, come accade delresto in tutte le altre regioni italiane, una profonda crisi, accompagnatada una marcata fase recessiva. Il ricorso agli ammortizzatori sociali e lafruizione delle ferie disponibili da parte dei rispettivi impiegati, ha con-sentito alle imprese più robuste e strutturate di gestire la loro attivitàeconomica senza grandi stravolgimenti fino alla fine del 2008. Il pro-blema, tuttavia, si presenterà con le sue numerose implicazioni nel 2009,quando si renderà necessario procedere a una fase di programmazionesegnata dalle incertezze legate a una congiuntura assai sfavorevole. Èpossibile considerare il 2008 alla stregua di un anno di transizione, amezzo, per così dire, fra il trend di crescita inaugurato alla fine del 2005e la discesa che ci apprestiamo a descrivere.

Analizzando i dati offerti dalla rilevazione continua delle forze di la-voro, limitatamente al periodo compreso tra gennaio e settembre 2008,il Piemonte evidenzia il persistere di una tendenza negativa cominciatanella seconda parte del 2007. A farne le spese è stata l’occupazione nelsettore industriale e in quello agricolo, che ha determinato un non tra-scurabile incremento dei livelli di disoccupazione. Ciononostante, inuna prospettiva generale il saldo è positivo, giacché raggiunge le 14milaunità. Ciò è essenzialmente dovuto all’espansione dei servizi non com-merciali, che in qualche modo hanno consentito di controbilanciare la

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contrazione del settore primario e del secondario. I timori maggiori siaddensano intorno al sistema produttivo.

Nella crisi verificatasi tra il 2003 e il 2005, si è riusciti a contenere i li-cenziamenti attraverso il ricorso agli stessi ammortizzatori sociali; attual-mente, viste le proporzioni assunte dal fenomeno recessivo, sembra chele misure di protezione succitate non costituiscano una strategia ade-guata. In Piemonte, una parte consistente dell’aumento complessivo èdovuta alle donne, specie a quelle occupate nell’area «altri servizi»,benché nel ramo industriale siano soprattutto loro i soggetti colpiti. Qui,esse rappresentano un quarto degli occupati, nonostante il 60% deiposti di lavoro persi riguardi proprio esponenti del sesso femminile. Acausa di una riduzione dei consumi, la flessione ha colpito anche il com-mercio, dove è in atto un processo di cambiamento, che vede le impresecon dipendenti in calo, a vantaggio delle piccole aziende a gestione fami-liare o individuale. Il confortante andamento nel settore delle costru-zioni, probabilmente, si accompagna a dinamiche di emersione dellamanodopera straniera, che prima lavorava «in nero». Come sottolineanogli analisti dell’Istat, infatti: «Nel secondo trimestre 2008 il numero dioccupati ha fatto registrare un aumento su base annua dell’1,2%, in mo-derato rallentamento rispetto al recente passato. Il risultato incorpora ilforte incremento della popolazione straniera registrata in anagrafe do-vuto soprattutto ai flussi in entrata di cittadini neocomunitari».1

Se le cose stessero effettivamente così, sarebbe difficile non concludereche gli immigrati non siano già presenti in Italia, come irregolari. In Pie-monte, al 1º gennaio 2008 si è registrata una crescita straordinaria dellapopolazione romena: da 59 400 a 102 500 in un solo anno.2 Di questi, circa74mila sono residenti nella provincia di Torino. Dal 2007 al 2008, in-somma, l’incremento sarebbe del 72,6%. Se consideriamo gli stranieri nelcomplesso, questa regione ha raggiunto le 310 500 presenze, facendo regi-strare un’impennata del 23% sul dato risalente a gennaio 2007.

Il tasso di occupazione maschile si attesta al 65,1% e, nel biennio 2006-2008, è cresciuto assai lentamente. Quasi certamente, non riuscirà a rag-giungere quota 70% entro il 2010, come previsto dalle strategie europee;nemmeno quello femminile arriverà al 60%, traguardo previsto tra dueanni, poiché, dopo un incremento di un punto percentuale tra il 2004 e il2006, la crescita procede a ritmo ridotto.3 Sotto questo profilo, mancano

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poco più di tre punti percentuali e la meta potrà essere almeno avvicinata.In relazione alla fascia afferente ai lavoratori cosiddetti «vecchi»,4 bisognasottolineare un gap ancora maggiore. I progressi conseguiti non risultanocerto sufficienti e in ogni caso appaiono ancora lontani dagli obiettivi sta-biliti dalle politiche comunitarie di active ageing. Peraltro, la sopraccitatasituazione congiunturale sembra autorizzare un certo ottimismo.

La crescita dell’occupazione in Piemonte, stando ai rilievi effettuatidall’Istat nel settembre 2008, ha luogo a un ritmo non certo in linea conla tendenza del Centro-Nord Italia. L’incremento è stato dello 0,7% ecoincide con la metà di quello delle regioni settentrionali. Il dato sispiega essenzialmente con la caduta occupazionale nell’industria insenso stretto, che invece non si avverte nelle aree più industrializzate delpaese, in particolare nel Nordest, dove i tassi sono in aumento, inveceche in diminuzione.5

Anche il livello di disoccupazione, com’è facile immaginare, è au-mentato. Nel 1997 era stato raggiunto un picco negativo del 10%; poi, èincominciata la ripresa fino al 2006, con il 4%. Nel 2007, esso ha ripresoa crescere di nuovo e nel 2008 ha raggiunto il 5%. Quanto ai valori asso-luti, nei primi nove mesi di quest’anno le persone in cerca di un lavorosono salite da 78mila a 94mila, con una prevalenza delle donne (53mila)sugli uomini (41mila) e di coloro che hanno già maturato esperienze oc-cupazionali rispetto a chi era alle prime armi. Non ci sono dubbi, co-munque, sul fatto che la situazione sia collegata in maniera diretta alladiminuzione degli addetti del comparto industriale.

Un saggio concreto della crisi cui abbiamo più volte fatto riferimentoè dato dal numero di procedure di assunzione registrate dai Centri perl’impiego, sempre relativamente al biennio 2007-2008, con una netta in-versione di tendenza negativa nel luglio 2008, che culmina nel crollo deimesi di ottobre e di novembre seguenti.

Il calo dell’industria è già evidente nel febbraio 2008, vale a dire nelprimo semestre. Tra gennaio e giugno, la contrazione della domanda èdel 6,6%; tra luglio e settembre sale al 31%, fino a raggiungere un picconegativo di – 43% a novembre. Uno sguardo ai valori assoluti, ci mettedi fronte a una perdita di 8mila assunzioni nel primo semestre 2008, di9mila tra luglio e settembre, di 14 400 tra ottobre e novembre. Pur concomprensibili oscillazioni, il settore dei servizi ha tenuto fino a set-

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tembre (2008) e cedendo solo nell’ultimo bimestre, perdendo più di7mila avviamenti al lavoro.

Le agenzie di somministrazione (+ 5,5% tra il gennaio e il marzo 2008rispetto allo stesso periodo nel 2007) accusano un calo consistente nel se-condo trimestre (– 0,3%), subiscono un duro colpo nel terzo (– 14,7%) eun crollo nel bimestre ottobre-novembre (– 38,1%).

Si salvano dalla pesante recessione i rapporti di lavoro parasubordi-nato e a progetto, concentrati nel terziario, in specie negli ambiti delle atti-vità culturali, fieristiche, della formazione professionale, dei call center,della sanità e dell’assistenza, ma insieme quelli di natura occasionale, per-lopiù di breve durata e relativi al settore alberghiero. Questi ultimi, anzi,sono cresciuti da 2500 a 4400 unità fra ottobre e novembre 2008 rispettoall’anno precedente. In questo periodo, sono andati incontro a un incre-mento gli occupati dell’agricoltura, del lavoro domestico, della sanità edello spettacolo. Contenuta, tutto sommato, è la contrazione nel com-mercio e nell’attività di alberghi e ristoranti (– 6%), mentre il metalmecca-nico e il chimico6 perdono il 48%, i trasporti poco meno del 30% e l’istru-zione il 21,5%. Rispetto alla cassa integrazione, i dati Inps a disposizionearrivano fino all’agosto 2008. Senza dubbio, tuttavia, le proporzioni dellacongiuntura autorizzano a parlare di un aumento, nell’ultimo trimestre(2008), della Cig ordinaria, di cui hanno ampiamente usufruito il gruppoFiat, come pure alcune imprese che ne hanno fatto un utilizzo più mo-desto nel biennio 2006-2008. Le richieste di cassa integrazione guadagnistraordinaria in deroga, però, gestite in prima persona dalla Regione, nonpossono che allinearsi al generale clima recessivo.

Dalle indicazioni della Commissione regionale per l’impiego, proven-gono utili indicazioni sul flusso di iscrizioni alle liste di mobilità. Ri-spetto al 2007, il 2008 segna un incremento di 800 unità, passando da15 920 a 16 700; il che si traduce, in termini percentuali, in un aumentodel 4,9%, dovuto in primo luogo non agli addetti del tessile e dell’abbi-gliamento, già presenti negli ultimi anni a testimonianza di un settoreduramente colpito, ma a quelli del settore metalmeccanico.

In Piemonte le politiche del lavoro sono espressione di un mix trapubblico e privato, fermo restando la distinzione che vede il primo im-pegnato essenzialmente nella programmazione, nella direzione e nel fi-nanziamento degli interventi, e il secondo in un ruolo esecutivo, ma non

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solo. A quest’ultimo, infatti, a seconda dei casi competono mansionioperative o più propriamente afferenti alla sfera progettuale, comeavremo modo di mostrare sinteticamente in seguito.

Una prima precisazione, proprio riguardo al lavoro, deve essere fattaa proposito di due ambiti strettamente legati, ma certo non coincidenti:quello formativo e quello di ricollocazione. Le politiche che mettono alcentro l’apprendimento per tutto l’arco della vita (lifelong learning) par-tono dal presupposto che i cittadini, quali che siano l’età, il ceto profes-sionale o la condizione sociale abbiano il diritto di acquisire maggioricompetenze, in vista soprattutto dell’occupabilità, dell’adattabilità e del-l’invecchiamento attivo. Non è detto, quindi, che il training formativodebba giocoforza precedere il reinserimento lavorativo; è sufficiente enecessario che metta l’individuo nelle condizioni di ampliare il proprioventaglio di possibilità, incrementando le opportunità di reimpiego.

Gli interventi di formazione continua sono di tre tipi: a iniziativa in-dividuale, aziendale e bilaterale. La formazione a iniziativa individuale sirivolge a occupati o a disoccupati e dà la priorità a coloro che si trovanoin cassa integrazione, ordinaria o straordinaria, agli over 45 e a chi pos-siede una qualifica di basso profilo. Gli utenti dispongono di un vou-cher, a parziale copertura dei costi, che può essere speso scegliendo al-l’interno di un catalogo predisposto da ciascuna provincia in accordocon le agenzie formative accreditate.7

Le azioni promosse dalle aziende, in buona parte finanziate dalFondo sociale europeo (Fse), mirano essenzialmente alla riqualificazionedelle competenze dei lavoratori occupati e disoccupati del settore pub-blico e di quello privato, con particolare riferimento agli ambiti organiz-zativo-gestionale, tecnico-tecnologico, produttivo, dei servizi alla per-sona. Gli interventi a iniziativa bilaterale riguardano solo i lavoratori oc-cupati. Benché si tratti di individui percettori di reddito e non di disoc-cupati, è opportuno collocare le suddette iniziative entro il quadro dellepolitiche del lavoro, dal momento che il loro obiettivo è quello di mi-gliorarne la qualità. Il caso più interessante è dato dai fondi interprofes-sionali: le imprese versano, tramite l’Inps, un contributo pari allo 0,30%della retribuzione lorda dei loro dipendenti. Tali fondi, poi, possono es-sere utilizzati per la riqualificazione del personale delle aziende chehanno aderito ai fondi medesimi.

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Sul fronte delle politiche attive del lavoro, si colloca anche l’educa-zione permanente degli adulti, sia formale sia informale. Il suo obiettivoconsiste nell’agevolare il reintegro del soggetto nel sistema dell’istru-zione o della formazione professionale, ma insieme nel consentirgli diacquisire competenze spendibili nel mondo del lavoro o nella società ci-vile. Rispetto all’educazione formale, l’organo competente è il Centroterritoriale permanente per l’educazione degli adulti, presente con di-versi uffici in differenti zone della regione. Ai Centri, gli interessati con-segnano le rispettive domande di istruzione e formazione, che vengonopoi valutate; segue la stipula di un patto formativo tra il richiedente e ilCentro stesso, che contempla la definizione di un percorso ad hoc, contanto di tempi e modalità di frequenza. È evidente la presenza diun’ampia flessibilità, che dipende essenzialmente dalla porzione di terri-torio considerata e dai bisogni espressi dall’utenza.8

Completano il quadro l’istruzione e la formazione superiore (Ifts), cuinormalmente si accede con il diploma conseguito alle scuole secondarie.

Il fulcro delle politiche attive del lavoro, però, è costituito dalle inizia-tive di ricollocazione nel tessuto produttivo. Dopo il D.lgs 469/1997, cheha provveduto a una riforma del collocamento pubblico, la Legge196/1997, che ha istituito le agenzie interinali, la già citata Legge Biagi e ilD.lgs. 276/1993, con cui sono nate le Agenzie per il lavoro, in Piemonte lasituazione è profondamente cambiata rispetto al passato, nella direzionedi una integrazione tra enti pubblici e privati. Le azioni miranti al reim-piego degli adulti si muovono essenzialmente in due direzioni: a) inter-venti sperimentali; b) interventi di interesse nazionale e regionale.

Nel primo gruppo rientrano il Programma d’azione per il reimpiego(Pari), l’IC Equal e i progetti finanziati dal Piano operativo regionale(Por) – Obiettivo 3.

Per quanto concerne il Progetto Pari, in Piemonte sono nati sportelligestiti da Italia Lavoro, l’agenzia per le politiche dell’occupazione facentecapo al ministero del Welfare, che hanno coinvolto principalmente addettiin cassa integrazione straordinaria o in mobilità, poi soggetti svantaggiatiprivi di indennità o sussidi: donne, immigrati, over 45. Da un lato, si èproceduto a un monitoraggio della situazione delle persone coinvolte; dal-l’altro, nell’ottica dell’autoattivazione, è stato chiesto di partecipare a per-corsi di formazione o a qualsiasi azione volta al reimpiego degli interessati.

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Ciascuna di esse ha beneficiato di un voucher formativo. Insomma, ri-cerca attiva di un lavoro, orientamento e formazione finalizzata al rein-gresso nella realtà produttiva si sono sviluppati in sinergia, sostenuti dal-l’idea che, in certi casi, è necessario considerare il problema della ricollo-cazione ancor prima di essere licenziati. Si tratta di una misura preventiva,denominata outplacement. L’azienda che sta per chiudere i battenti sele-ziona un professionista o una società, che seguono un lavoratore elabo-rando un bilancio delle competenze e costruendo un nuovo progetto dicarriera.9 Nell’economia del discorso, le province hanno costituito unarete che poneva i Centri per l’impiego in una posizione strategica, vista laconoscenza degli stessi relativamente al mercato del lavoro.

Nell’ottica dell’integrazione delle politiche, si è mossa anche l’iniziativaEqual, con l’obiettivo di migliorare le competenze della popolazione attivae di collocarla più facilmente nel mercato del lavoro, in caso di bisogno. Ilavoratori interessati, così come emerge dagli specifici progetti Equal presiin considerazione, sono essenzialmente gli addetti delle imprese tessili emeccano-tessili,10 specie del distretto biellese, e gli over 45.11 Nel primocaso, onde contenere il disagio conseguente ai processi di riorganizzazioneaziendale attuati, le azioni implementate hanno interessato diversi livelli: isistemi pubblico e formativo del territorio, le imprese, le parti sociali e isoggetti a rischio di emarginazione, come si può ricavare dalla tavola 5.1.

Tav. 5.1. Azioni del progetto «L3 Lifelong Learning Club»

Rafforzamento della capacità di lettura e di gestione dei trend occupazionali del sistema pubblico e del sistema formativo del territorio, sia in termini quantitativiche qualitativi (professionalità richieste, emergenti ecc.).

Crescita di una cultura d’impresa che valorizzi le risorse umane.

Rafforzamento delle capacità di monitoraggio e di governo delle dinamiche occupazionali, proprio delle parti sociali.

Intervento sulle fasce di lavoratori a rischio di emarginazione, per fornire loro servizi personalizzati di orientamento, formazione e ricollocazione.

Fonte: Regione Piemonte, Ricollocarsi nelle crisi. Politiche attive nei contesti di crisi inPiemonte. Lavoratrici e lavoratori adulti: problemi e prospettive, 2008, p. 39.

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Riguardo agli over 45, il proposito è quello di migliorare la conoscenzadelle potenzialità e delle capacità degli stessi, insieme alla percezione, daparte delle aziende, del suddetto target, in modo che non venga più con-siderato un fattore di resistenza rispetto allo sviluppo.

Infine, sul fronte del reinserimento di lavoratori provenienti da aziendein crisi12 si deve ricordare soprattutto il progetto «Un euro per abitante».Realizzato in due edizioni, una nel 2005 e una nel 2006, esso ha interessatola provincia di Torino ed è stato realizzato anche con fondi provenienti dalFse,13 per rispondere principalmente alla crisi della Fiat.

La vocazione industriale di Torino è ben evidente già a partire dalla Se-conda guerra mondiale, poiché i settori maggiormente connessi con le at-tività belliche hanno ricevuto grande impulso dalle esigenze produttive le-gate al conflitto medesimo. In particolare, nel capoluogo di regione si è re-gistrato un considerevole afflusso di manodopera operaia non specializ-zata, proveniente dalle campagne circostanti e, in misura non trascurabile,dal Veneto. Alla fine del 1942 il consistente movimento migratorio hafatto di Torino il maggiore centro manifatturiero italiano. Con l’affermarsidell’industria moderna, legata soprattutto allo sviluppo del settore metal-meccanico, l’antica capitale del Regno sabaudo ha assunto una connota-zione peculiare, a causa del ruolo determinante ricoperto dalla Fiat. Nel1943 la casa automobilistica contava circa 50mila dipendenti; ciò le con-sentì di influire non poco sulla strutturazione urbanistica, come si puòevincere dalla nascita dei numerosi quartieri operai costruiti nelle adia-cenze delle fabbriche.

I numerosi bombardamenti, che colpirono Torino fra l’autunno del1942 e la primavera del 1945, costrinsero più della metà dei residenti adabbandonare le proprie abitazioni; l’anno più duro fu il 1943. Nel pienodelle ostilità, però, la città riassunse la propria fisionomia con una certarapidità, favorita dalla grande disponibilità di manodopera che, come ab-biamo ricordato poc’anzi, dalle aree rurali e dal Nordest d’Italia si river-sarono in città: nello stesso 1943, il numero complessivo di immigrati siattestò intorno alle 465mila unità, benché il 23,6% di tale quota fosse co-stituito da pendolari giornalieri. Pur nella precarietà determinata dallecircostanze, costellata peraltro da una serie di scioperi che si tennero nelmarzo 1943 e nello stesso mese del 1944, il Comune diede un forte se-gnale di vitalità, ben più sollecito di quelli prodotti da altri centri urbani

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del Nord. Torino, infatti, divenne la prima città italiana dove il municipiosi adoperò per la costruzione di numerosi complessi edilizi popolari.

Il grande sviluppo della Fiat negli anni cinquanta stimolò una nuovaondata migratoria che, rispetto alla precedente, coinvolse un consistentenumero di famiglie provenienti dall’Italia meridionale. Il fenomeno as-sunse ben presto proporzioni mai conosciute prima, al punto da sfuggiredi mano agli amministratori locali, determinando seri problemi in or-dine al reperimento degli alloggi e all’implementazione dei servizi dibase. Nel 1961 Torino era diventata irriconoscibile, con il suo milione diabitanti e l’acquisizione di una funzione strategica, sotto il profilo eco-nomico, per l’intero paese. Le lotte operaie, che da lì al ventennio suc-cessivo furono al centro della vita civile, conferirono ai sindacati unruolo fondamentale all’interno delle aziende, nonostante il duro colpoinferto dalla crisi petrolifera e dagli «anni di piombo». Nel periodo incui in Europa e nel mondo prese piede una concezione maggiormenteinformata ai principi del liberismo, il capoluogo piemontese ricevettenuovo impulso dal rilancio del mercato dell’automobile, che fece regi-strare utili record, anche se, come nel resto d’Italia, il prodotto internolordo cominciò a dipendere in maniera sempre più evidente dall’affer-mazione del settore terziario.

L’ingresso nel nuovo millennio, inoltre, è stato segnato dal consoli-darsi di un terzo movimento migratorio, questa volta a opera di indi-vidui provenienti soprattutto dal Nordafrica e dall’Est europeo, partico-larmente visibile in alcuni quartieri urbani.

L’area metropolitana, attualmente, comprende dieci circoscrizioni,per un totale di 909 345 residenti (Istat 2008), con un incremento dello0,4% rispetto al 2007: 115 809, il 12,7% del dato complessivo, sonostranieri. Anche in questo caso, a distanza di un anno è evidente un au-mento, benché più consistente (+ 11,4%). La situazione demograficadella provincia di Torino, al pari di quella riguardante Cuneo e Novara,si segnala per saldi migratori importanti e per saldi naturali tra i menonegativi della regione. Questi ultimi, si attestano intorno al – 0,8‰14

(Istat 2007). Il considerevole afflusso di immigrati, tra il 2007 e il 2008, èindicativo di una tendenza più generale verificatasi a livello regionale, edipende dall’ingresso della Romania nell’Unione europea (2007), che haconsentito la regolarizzazione di un cospicuo contingente, in precedenza

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privo del permesso di soggiorno. I romeni sono passati dalle 25 688 pre-senze del 2006 alle 41 159 del 2007 (+ 60,2%), per raggiungere le 47 771del 2008 (+ 85,9% rispetto al 2006 e + 16% rispetto al 2007; Istat 2008).Se si considera che gli stranieri UE residenti nella provincia di Torino am-montano a 52 571 unità (Istat 2008), si può concludere che gli stessi ro-meni incidano per il 90,8%. Per quanto concerne coloro che sono rego-larmente registrati all’anagrafe, ma provengono da nazioni del Vecchiocontinente non UE, le statistiche Istat (2008) documentano 11 022 pre-senze, con una netta prevalenza albanese (49,2%). Tra gli africani, si de-vono segnalare 30 169 unità, in particolare provenienti dal Marocco(58,9%)15 e in misura più contenuta dall’Egitto (11%) e dalla Nigeria(9%; Istat 2008). Tra gli americani, figurano 12 441 residenti stranieri,perlopiù peruviani (57,1%) e tra gli asiatici, quantificati in 9513 pre-senze, spiccano i cinesi16 (47,3%; Istat 2008).

Uno sguardo alle categorie più fragili della popolazione mostra comei nuclei composti da donne sole siano cresciuti del 3,2% tra il 2003 e il2007.17 Nello stesso arco temporale, quelli costituiti esclusivamente dauomini sono aumentati del 6,7%.18 Al 31 dicembre 2008 le rilevazioniIstat indicano che, su 441 551 famiglie censite, quelle monogenitoriali aTorino sono 40 596.19 Gli anziani, vale a dire il 23,8% dei residenti nelComune, fanno segnare una crescita dell’1,34% rispetto al 2007, a testi-monianza di una società locale che invecchia (al 31 dicembre 2008 l’in-dice di vecchiaia raggiungeva il 200,3) e che annovera, in questa cate-goria, circa il doppio dei giovanissimi. Il tasso di fecondità è di 1,3 figliper donna. Ciò manifesta con evidenza il non trascurabile contributofornito proprio dagli immigrati che, come si è ricordato in precedenza,con le nuove nascite mantengono in positivo il saldo demografico, al dilà delle difficoltà generate da una convivenza talvolta difficile con gli au-toctoni.

Il quartiere Barriera di MilanoPoco prima dell’Unità d’Italia, il Comune di Torino provvide alla co-struzione di una cinta muraria davvero imponente, edificata per consen-tire la riscossione della tassa daziaria sui beni che i commercianti intro-ducevano in città. Al di fuori delle mura, che fungevano da spartiacque

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tra la città e la campagna, si trovava Barriera di Milano. Nell’arco di unsecolo, l’area subì una cospicua serie di cambiamenti che la portarono,nel secondo Novecento, a ospitare grandi fabbriche, rendendola uno deiluoghi emblematici del movimento operaio italiano. A partire dagli anniottanta, però, lo scenario è mutato nuovamente: i condomini, i centricommerciali e le imprese operanti nel terziario avanzato hanno preso ilposto delle industrie. Da un punto di vista amministrativo, il quartiereBarriera di Milano fa parte della circoscrizione VI del municipio torinesee si estende nella zona Nordest del medesimo. L’estensione di 25,20kmq ne fa l’unità territoriale più ampia della città e una delle più popo-lose. Barriera di Milano è formata da quattro rioni: Montebianco, Mon-terosa, Maddalene e Cimitero. Nonostante la posizione geografica e lastruttura urbanistica facciano pensare a una periferia, la zona è pocolontana dal centro, raggiungibile in pochi minuti per la presenza di unasviluppata rete di servizi di trasporto. Dal punto di vista edilizio, «Duepossono essere le sistemazioni: o una vecchia casa di ringhiera o un con-dominio di quelli alti che andavano di gran moda tra la fine degli anni’60 e l’inizio degli anni ’80» (Ciampolini 2007, p. 76).

In genere, comprare casa, o affittarla, è possibile a prezzi contenuti;ciò spiega l’alta percentuale di immigrati residenti. Le aree verdi sonoscarsamente presenti; per questo, si parla di barriera grigia. I parchiSempione e Colletta, poi, costituiscono una delle più evidenti espres-sioni del disagio: specie nel primo, è facile trovare siringhe per terra ospacciatori intenti a vendere la loro merce, di giorno o di notte.

I dati dell’ufficio anagrafe di Torino – i più aggiornati risalgono al2005 – a proposito di Barriera di Milano parlano di 48 726 residenti. Ilvalore assoluto è assai consistente, ma quello percentuale chiarisce ancordi più la situazione: quasi il 5,5% della popolazione dell’intero comuneproviene da qui, mentre la circoscrizione VI, nel suo complesso, è com-posta per il 46% di persone del quartiere di Barriera. Per ogni kmq visono 15 194 abitanti. Concretamente, per fare qualche raffronto, la den-sità è superiore di tre volte rispetto a quella del comune e di quattro, separagonata al resto della medesima circoscrizione VI. In totale, i nucleiresidenti ammontano a 22 924, benché la grande maggioranza (39,79%)sia costituita da un solo individuo e solo nel 3% dei casi sia possibiletrovare famiglie con 5 persone o più. Gli over 30 incidono, più o meno,

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per il 30%; il 50% dei residenti ha un’età compresa tra i 30 e i 65 anni eil 19,9% appartiene alla fascia anziana. Quest’ultimo dato, per quantorappresentativo, è inferiore di oltre tre punti se confrontato con quellodell’intero municipio (23,4%). Gli immigrati regolari raggiungono il16,1% a Torino, la media è dell’8,6%, nel resto della VI circoscrizionel’11%; le nazionalità più rappresentate, in termini numerici, sono il Ma-rocco (28,9%) e la Romania (25,6%).20

Com’è avvenuto nel resto d’Italia, l’immigrazione dal Sud delmondo di questi ultimi decenni ha preso il posto di quella che, neglianni cinquanta del secolo scorso, è partita dal Mezzogiorno del nostropaese, alimentando l’industria del Nord fino alla metà degli anni set-tanta. In certi casi, le condizioni di vita sono talmente precarie che le fa-miglie non riescono a condurre un’esistenza decorosa e necessitano del-l’intervento dei servizi sociali, che qui sono raggiunti da un alto numerodi richieste di aiuto. Se è vero che gli stessi servizi sociali affermano che,nel corso degli anni, le urgenze sono diminuite, non si può negare chesiano stati introdotti criteri più restrittivi: «a fronte di un aumento dellepersone che arrivano con [...] richieste di aiuto, corrisponde una dimi-nuzione dei casi che possiedono i requisiti per potervi accedere»(Ciampolini 2007, p. 92).

Ciò significa che le nuove povertà non sono rilevabili attraverso i ter-minali istituzionali, ma emergono in buona parte attraverso i centri diascolto parrocchiali.21

Barriera di Milano è sempre stato un quartiere con una forte voca-zione industriale. Quando il settore secondario faceva registrare tassi dicrescita, anche il livello di benessere dei suoi abitanti migliorava sensi-bilmente. Attualmente la situazione è cambiata. La crisi verificatasi nel-l’ultimo decennio si è riverberata pure sull’attività commerciale in modopesante. I negozi «vengono aperti e chiusi con grande facilità, i vecchicommercianti spesso chiudono i battenti e vengono aperti nuovi esercizigestiti da stranieri» (ivi, p. 100).

Senz’altro, la costruzione di nuovi supermercati ha influito non pocosulla sorte dei piccoli esercenti, i cui figli hanno preferito impiegarsi insettori diversi da quello dei genitori, contribuendo involontariamentealla cessazione dell’esercizio paterno. In ogni caso, le zone maggior-mente attive sono individuabili in corrispondenza di corso Giulio Ce-

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sare, corso Vercelli e corso Palermo. Nel primo, è possibile trovareanche merce di alta qualità, senza contare che i residenti possono sce-gliere senza difficoltà tra un’ampia rosa di prodotti merceologici, mastanno affacciandosi sulla scena, come accade in corso Vercelli, nume-rosi negozi gestiti da cinesi o da africani, specie nei campi della ristora-zione e dell’abbigliamento, che offrono prodotti a prezzi concorrenzialie ottengono un riscontro positivo in termini di vendite.

Barriera di Milano possiede anche due mercati rionali: uno in piazzaCrispi, nelle adiacenze del quale si allestiscono sovente mostre, attivitàculturali e feste, grazie soprattutto alle recenti iniziative di ristruttura-zione; un altro in piazza Foroni, che ospita quasi duecento ambulanti edè circondato da più di sessanta negozi affacciati sulla piazza medesima.La vitalità di un tempo è testimoniata pure dalla presenza di numerosiistituti di credito, una decina nell’arco di un chilometro. La Banca San-paolo, per citare l’esempio più prestigioso e radicato nel territorio, haassistito direttamente ad alcuni cambiamenti che si sono manifestati inprimo luogo attraverso le caratteristiche dei conti correnti: il 60% ac-ceso da cittadini italiani, il 40% da stranieri. Sono aumentati i conti consaldo negativo, riconducibili essenzialmente a immigrati, che pur perce-pendo regolarmente uno stipendio, non riescono a far fronte alle nor-mali esigenze della vita quotidiana (ivi, pp. 102-103).

Il Tavolo di osservazione sulle problematiche occupazionali della SestaCircoscrizione. Rapporto di ricerca e sintesi del percorso di costituzione delTavolo (Ronconi 2004), curato da Susanna Ronconi, consulente dell’as-sessorato al Lavoro, alla formazione e allo sviluppo di Torino, offre al-cuni importanti spunti di riflessione riguardo ai temi del lavoro stesso edella formazione. Dallo studio sopra ricordato, i cui dati, purtroppo,non vanno oltre il 2004, emerge come le categorie che fanno più fatica atrovare un impiego siano gli uomini over 45 e le donne over 40. Gli over45, non di rado esclusi dal mercato del lavoro, talvolta sono utenti già incarico ai servizi sociali, talaltra possiedono sì un reddito, ma esso non èsufficiente a garantire la sussistenza per sé e la propria famiglia. È questoil caso dei cosiddetti «lavoratori poveri», che in certi casi riescono a tro-vare un’occupazione ricorrendo alle agenzie interinali. In genere, co-storo sono capifamiglia e unici percettori di reddito all’interno del nu-cleo. La loro scolarità è decisamente bassa, le loro carriere sono discon-

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tinue, come esiguo è il bagaglio di competenze accumulato nel corsodegli anni. Non bisogna trascurare, poi, il fatto che queste famiglie sitrovino in molti casi in situazioni di vera e propria urgenza, sia socialesia familiare.

Le politiche attive del lavoro richiedono ai disoccupati uno step for-mativo che solleva più di un dubbio negli over 45. Non pochi credonoche si tratti di un’attività inutile, di un impedimento burocratico, diqualcosa che richiede un impegno non indifferente, senza la certezza ditrovare un impiego. Come fare, poi, per conciliare periodo formativo eapprovvigionamento dei beni necessari alla sussistenza? La povertà,quindi, è frequentemente associata a disagi di tipo diverso, che nell’in-sieme contribuiscono all’insorgere di una vasta area di problematicità.Riguardo alle donne, con particolare riferimento a quelle che hannocompiuto più di 40 anni e provengono essenzialmente da altri paesi, sideve ancora sottolineare il tasso di scolarizzazione basso, unitamente aun’altra serie di questioni. Si tratta di donne che lavorano quando pos-sono e come possono, all’insegna della flessibilità. Non possono vantareun curriculum professionale qualificato e, realisticamente, non nutrononemmeno particolari aspettative per il futuro. Si dedicano perlopiù adattività di cura o cercano lavoro come addette alle pulizie, a patto checiò non impedisca loro di dedicare il tempo necessario alla famiglia cuiappartengono. Insomma, è possibile parlare di un lavoro just in time contutti i crismi, dequalificato e poco pagato (ivi, p. 106).

Nel complesso, Barriera di Milano rientra in quelle aree che potremmodefinire emiferie, cioè parti di città situate a ridosso del centro. Non sonocosì centrali da stimolare investimenti, ma neanche così periferiche: Bar-riera dista circa dieci minuti dalla piazza principale della città. D’altrocanto, le emiferie assistono ai cambiamenti in atto in modo passivo, senzaeccessivo protagonismo. Immigrazione, alta disoccupazione, insuccessoscolastico e basso livello di scolarità ne sono i caratteri distintivi, unita-mente alla non trascurabile dipendenza dai servizi sociali e alla presenza diun disagio ben visibile. Ora che le fabbriche sono chiuse, al quartiere èpreclusa la funzione aggregante e produttiva di un tempo. La società civilee la Chiesa locali mostrano un sensibile disorientamento, i canali di rap-presentanza sociale sono venuti meno. La sfida attuale, piuttosto, è quelladi mettere a profitto le opportunità rappresentate dai nuovi «residenti»,

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senza perdere di vista le radici solidali che hanno sempre contraddistintoil quartiere stesso (Magatti 2007).

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

A partire dalla metà degli anni novanta, la città di Torino ha avviato unaserie di interventi sui temi del recupero e della rigenerazione urbana. Ciòè avvenuto dopo la crisi industriale, che ha lasciato in dote alla città piùdi 6 kmq di aree dismesse, ma ha fatto seguito anche alla crisi relativa adalcuni quartieri storici di Torino. In tal senso, Porta Palazzo e San Sal-vario, per fare due esempi, sono diventati stereotipi di conflittualità. Sulfinire del Novecento hanno preso il via, come si è accennato sopra, pro-cessi di recupero e di riqualificazione, rivolti sia alle emiferie22 urbane(Porta Palazzo,23 San Salvario24) sia alle aree riservate all’edilizia residen-ziale pubblica: i Programmi di recupero urbano,25 i Contratti di quartiere,le Azioni di sviluppo locale. Pertanto, la città, insieme a circoscrizioni,Agenzia territoriale per la casa (Atc) e soggetti privati impegnati nel so-ciale, ha inaugurato, nel 1997, il progetto «Periferie»,26 con l’obiettivo dilimitare e, se possibile, prevenire, situazioni di potenziale esclusione so-ciale e di degrado fisico-ambientale. Nel 2001 è stato istituito il SettorePeriferie, un organismo incaricato di gestire e coordinare le azioni avviatenei differenti ambiti territoriali e, nel mese di dicembre 2003, è nato in-vece il Settore coordinamento progetto «Urban 2».27 Suddiviso in cinqueunità operative, esso si è dotato di un Piano di attività cui sono affiancateiniziative trasversali sui temi dell’intercultura, del teatro, della comunità,dell’abitare sociale e del protagonismo giovanile.

Torino è stata uno dei primi esempi, in Italia, di programmazionepartecipata nell’ambito dei servizi sociali, della quale reca testimonianzail Piano dei servizi sociali 2003-2006.28 Vi hanno partecipato tutti i sog-getti politici, istituzionali e sociali del territorio. In virtù della Legge328/2000, testo normativo di riferimento per la realizzazione del sistemaintegrato di interventi e servizi sociali, si è individuato nel Piano di zonauno strumento idoneo a collegare soggetti pubblici e privati, servizi so-ciali e sanitari, in un’ottica di integrazione. Il Piano dei servizi sociali

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mostra, in maniera evidente, come, per la comprensione di taluni feno-meni, sia fondamentale la conoscenza della concreta attività quotidianadei servizi medesimi.

L’analisi del contesto e il confronto tra gli operatori pubblici e privatiafferenti al settore sociosanitario, in base al già ricordato Piano dei servizisociali 2003-2006, hanno posto al centro, tra gli altri, il tema della fami-glia. Si è ritenuto di doverla sostenere attraverso il potenziamento deiconsultori e il monitoraggio delle Asl, in modo che queste ultime si ser-vissero di personale qualificato, senza dimenticare la consulenza da pre-stare nei casi di disagio psichico, gli interventi di recupero educativonelle circostanze legate alla devianza minorile e l’aiuto ai disabili che nonavessero ancora compiuto la maggiore età. Per quanto attiene agli adulti,gli interventi hanno puntato a migliorare e a sviluppare ulteriormente lerelazioni tra amministrazione comunale, Asl, Sert, Dipartimenti salutementale, amministrazione penitenziaria, associazioni di volontariato eterzo settore, al fine di migliorare i percorsi comunicativi e di creare si-nergie e collaborazioni tra gli interlocutori coinvolti. Ciò è risultato op-portuno poiché i bisogni originati da dipendenze, difficoltà psicologico-relazionali, disoccupazione ecc. hanno costretto un numero sempre cre-scente di persone a entrare nel circuito assistenziale.

Quanto agli stranieri, il Piano dei servizi sociali auspica la costitu-zione di un Organismo di coordinamento cittadino, che eroghi servizi diinterpretariato linguistico-culturale in ambito sanitario. Per coloro chedimorano temporaneamente in Italia, invece, si è pensato alla stipula diaccordi interistituzionali tra Comune, Regione, Provincia e Asl, così darendere possibile la fruizione di prestazioni sanitarie per gestanti emadri, sino a sei mesi di vita del bambino, per individui caratterizzati daproblematiche psichiatriche o da dipendenze in genere, anche nell’otticadella costruzione di progetti di rimpatrio assistito.

3. Il consorzio Kairòs

Il consorzio Kairòs è nato a Torino nel 2001, per iniziativa di 6 coopera-tive sociali che operano nel settore dei servizi alla persona e dell’inseri-mento lavorativo sull’intero territorio provinciale. Si tratta di imprese che

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svolgono la loro attività senza fini di lucro, attive nella promozione di per-corsi di inclusione sociale. In alcuni casi, le cooperative stesse vantano piùdi vent’anni di esperienza. Quando il consorzio è stato costituito, imembri aderenti, nel precisare i principi guida dell’azione comune, hannoscelto di privilegiare la sussidiarietà, la democrazia, la mutualità, la solida-rietà, il dono e, naturalmente, la centralità della persona. Il raggiungi-mento del bene comune, affermano, non deve essere solo compito delloStato, ma una responsabilità dell’intero contesto, esplicitata attraverso lapartecipazione, il confronto e il consenso. La necessità di condividereesperienze, di trasferire competenze, di progettare in maniera condivisa edi sostenere i soggetti in difficoltà, poi, hanno sviluppato delle modalitàd’azione solidali, territorialmente radicate nell’area del Torinese.

Concretamente, negli ultimi otto anni il consorzio si è mosso lungocinque fronti: politiche attive del lavoro, sviluppo dell’imprenditoria so-ciale, erogazione di servizi alla persona, sviluppo di comunità e inseri-mento lavorativo, come risulta dalla tavola 5.2.

Politiche attive del lavoro

Sviluppo di imprenditoriasociale

Servizi alla persona

Servizi alle persone: informazione, formazione e consu-lenza orientativa, accompagnamento al lavoro, tutoring,promozione e gestione di tirocini, inserimenti lavoratividi persone svantaggiate, gestione di iniziative in favoredei lavoratori precari e rivolte alle nuove professioni.

Servizi alle imprese: ricerca, selezione e collocamento mi-rato di personale, ex. Legge 68/1999, ricollocazione, pro-mozione e gestione di tirocini, formazione finalizzata al-l’inserimento in azienda.

Elaborazione di progetti nell’ambito delle pari opportu-nità, formazione, sostegno alla creazione di nuova im-presa sociale, consulenza amministrativa, fund raising,supporto alle progettazioni complesse.

Essi sono rivolti a minori, giovani, famiglie, persone condisabilità fisiche e/o psichiche, anziani, tossicodipen-

Tav. 5.2. Settori d’intervento e azioni erogate dal consorzio Kairòs

Settore d’intervento Azioni specifiche

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Nel maggio 2007 l’assemblea dei soci ha eletto il Consiglio di ammini-strazione attualmente in carica, nel quale figurano il presidente,29 il vice-presidente,30 l’amministratore delegato31 e tre consiglieri.32 All’iniziodello stesso anno, le 14 imprese sociali consorziate, legate a Confcoope-rative, hanno consentito a Kairòs di fatturare quasi 11 milioni di euro,per un totale di 600 soci e 480 persone occupate. Nel 2001 lavoravano in150. Il deciso passo in avanti era in linea con la crescita della coopera-zione sociale in Piemonte, che poteva vantare 30 consorzi attivi, mezzomiliardo di ricavi e 30mila persone inserite nel mercato del lavoro.L’80% del fatturato proveniva dal settore pubblico e l’utile non supe-rava l’1%, vale a dire 150mila euro circa. Pertanto, la quota da reinve-stire era piuttosto marginale. In quel periodo, oltre al core business rap-presentato dallo sviluppo sostenibile del territorio e dall’inserimento la-vorativo di persone svantaggiate (assistenza anziani, emarginati, disabiliecc.), sono sorti i primi laboratori creativi di produzione orientati almercato, a partire dall’informatica fino all’ingegneria naturalistica.

Sviluppo di comunità

Inserimento lavorativo

Fonte: www.consorziokairos.org.

denti, soggetti in restrizione di libertà, prostitute, indi-vidui affetti da Hiv. I servizi si strutturano attraverso lagestione di comunità alloggio, convivenze guidate, centridiurni, residenze assistenziali flessibili, assistenza domici-liare, assistenza domiciliare integrata, asili nido, puntigioco, attività educativa territoriale, unità di strada, ani-mazione e aggregazione giovanile.

Housing sociale, commercio equo-solidale, programmi diriqualificazione sociale e recupero urbanistico di aree de-gradate, interventi di sviluppo di comunità, ricerca sociale.

Gestione di aree verdi, ingegneria naturalistica, imputa-zione ed elaborazione dati, servizi contabili e amministra-tivi, servizi di gestione del personale, gestione di callcenter, ristorazione e catering, attività di manutenzione esgombero locali, servizi di pulizia, importazione lavora-zione e commercializzazione del caffè.

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Sul fronte dell’housing sociale, nel 2007 Kairòs ha presentato un pro-getto denominato «Abitare la comunità», che consisteva nell’acquisto diappartamenti da parte di cooperative del consorzio, da immettere sul mer-cato immobiliare a un prezzo calmierato, 35-50% in meno rispetto alle ta-riffe vigenti, in modo che potessero fruirne soprattutto le fasce deboli. Lagestione degli stabili è stata affidata a una cooperativa multistakeholderformata, cioè, da inquilini, cooperative, lavoratori e da una fondazione.Attualmente, gli appartamenti sono 11, di cui 10 di proprietà e 1 in affitto;il valore dell’investimento ammonta a 440mila euro. A titolo d’esempio,una casa di 60 mq, che sul mercato richiederebbe mediamente l’esborsodi 480 euro mensili (a Torino), è data in locazione a 220 euro. Degli 11 ap-partamenti di cui sopra, 7 sono stati affittati a persone anziane con bassoreddito, 1 a una ragazza madre, 1 a una giovane coppia, 1 è stato utilizzatoper l’accoglienza temporanea e 1 per i servizi all’infanzia.33

Il (re-inserimento) lavorativo. L’esperienza di Pausa CaféUna delle cooperative del consorzio Kairòs, impegnata da anni nel set-tore delle politiche sociali, è Pausa Café. Attiva entro i confini del quar-tiere Barriera di Milano ma anche all’esterno, nel 2004 ha avviato unasingolare iniziativa, mirante al reinserimento lavorativo di persone svan-taggiate. Il progetto cui il referente34 e i suoi collaboratori hanno datovita consisteva nell’apertura di un centro di torrefazione, capace di coin-volgere sia i detenuti sia gli ex ospiti delle case circondariali Lorusso eCotugno di Torino e Morando di Saluzzo. Nella prima, cinque personeche scontano in carcere la loro pena sono state assunte dalla cooperativaomonima, nel rispetto del contratto nazionale di categoria, riuscendo atostare 82mila chili di caffè l’anno, per un totale di 5mila confezioni almese. La materia prima proviene soprattutto da Huehuetenango, loca-lità del Guatemala associata a Slow Food, e da altre aree dello stessocontinente, colpite da una situazione di disagio diffuso.

A distanza di cinque anni, il medesimo referente di Pausa Café, ha po-tuto affermare con soddisfazione:

Con questo progetto stiamo dimostrando che la solidarietà può far rimacon crescita. Da un lato c’è il recupero, grazie al lavoro vero, di persone

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che scontano la pena in carcere e il sostegno, pagando il giusto prezzo aicontadini dell’America centrale. Dall’altro c’è una vera e propria impresache, dopo una prima fase di start up con il contributo della FondazioneCrt, può sopravvivere con le proprie gambe. I nostri prodotti sono ven-duti dalla grande distribuzione. Coop in prima fila, le botteghe equo-soli-dali e punti vendita di Slow Food.

Il carattere commerciale dell’operazione ha fatto sì che i lavoratori fos-sero affiancati, specie nella prima fase, da esperti del settore quali GuidoGobino,35 l’inventore dei Minigiandujotti Turinot, e da Andrea Trinci,36

perché fosse garantita un’adeguata formazione sul campo. In questomodo, la cooperativa ha potuto perseguire due obiettivi strettamente le-gati tra loro: da un lato, una progettualità di tipo sociale ed economico,connessa allo sviluppo equo e solidale; dall’altro, l’inclusione di soggettisvantaggiati.

Oltre che in Guatemala, dove lavora con le popolazioni locali e conle realtà del terzo settore impegnate nella produzione del caffè e delcacao, Pausa Café ha ampliato il raggio d’azione stabilendo rapporti conalcuni produttori del Messico e della Costarica. La strategia è semplice:si acquistano direttamente dai contadini le materie prime, provocandoun cospicuo abbassamento dei prezzi, che necessariamente lievitereb-bero in presenza di ulteriori processi di intermediazione (e di specula-zione) e renderebbero la merce poco competitiva sul mercato.

Il contratto di vendita, invece, stipulato qualche mese prima dellaconsegna, risponde a una logica di tipo fiduciario. Se i coltivatori non di-sponessero del denaro in anticipo, non sarebbero in grado di finanziarele loro attività37 e avrebbero minori opportunità di riuscita, di fronte allastrenua competizione alla quale partecipano imprese con maggiori ri-sorse. La lavorazione del cacao, per esempio, è controllata da un ri-stretto novero di multinazionali,38 che ne determinano il costo al detta-glio. Di conseguenza, l’unica chance, per le piccole aziende, consistenell’offrire agli acquirenti generi alimentari di prima qualità a un costocontenuto.

Perciò Pausa Café ha scelto di agire senza far ricorso a mediatori, ap-poggiandosi ai Presidi internazionali di Slow Food,39 che le forniscono lamerce da importare nel nostro paese. Giunto nel capoluogo piemontese,

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il caffè è immediatamente soggetto al procedimento di torrefazione nellesedi operative presenti sul territorio, ubicate nei due penitenziari. I re-clusi, cimentatisi in un’occasione di crescita professionale e di reinseri-mento sociale, operano al fianco degli esperti, che svelano loro i segretidel mestiere. Uno degli esiti più significativi, secondo Marco Ferrero,dovrebbe essere la rieducazione di chi sta «dietro le sbarre», o quanto-meno la sensibile diminuzione del rischio di recidive. Ma non è tutto.Fondamentale è pure la sensibilizzazione dei lavoratori alle problema-tiche delle popolazioni del Sud del mondo, che maggiormente patisconogli squilibri economici provocati dalla globalizzazione.

Terminata l’esperienza del carcere, costoro trovano nella specializza-zione professionale un prezioso alleato per affrontare le paure legate alreinserimento, che li proietta in una seconda fase alquanto delicata: «Perquesto motivo il progetto di Pausa Café prevede la possibilità di offrire acoloro che hanno avuto modo di cominciare il percorso lavorativo intramoenia, di proseguirlo una volta tornati in libertà, attraverso la parteci-pazione attiva all’interno della cooperativa in qualità di soci lavoratori»(cfr. www.pausacafe.org).

Sono passati cinque anni da quando l’associazione L’insieme,40 for-mata da un gruppo di viticultori delle Langhe e del Roero, ha accettatodi versare circa 28mila euro «a fondo perduto» per consentire l’imple-mentazione del progetto. Tutto è partito da lì, nella speranza di giovarealla causa di altri coltivatori e artigiani. Lo sforzo è stato evidentementepremiato, visto che oggi le politiche di sviluppo della cooperativa, dinuovo nel segno della diversificazione, hanno portato all’erogazione diservizi di ristorazione eticamente orientati, in linea con i principi dell’e-cogastronomia, della legalità e della valorizzazione delle specialità culi-narie locali, i cui ingredienti sono rigorosamente certificati dal Panieredei prodotti tipici della provincia di Torino. Il personale, anche inquesto caso, è costituito da individui che si trovano in condizioni di vul-nerabilità: ex detenuti o carcerati, ai quali è stato concesso di lavorare al-l’esterno per motivi legati alla buona condotta.

Oltre al catering, è necessario citare un’ulteriore iniziativa imprendi-toriale, denominata Chiosco Pausa Café, che ha permesso l’apertura diuna caffetteria proprio di fronte al carcere delle Vallette,41 così da offrireun sostegno e un luogo d’incontro ai parenti dei detenuti, a coloro che

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beneficiano di misure alternative alla detenzione e agli operatori i quali,all’occorrenza, possono anche consumare un pasto freddo.

Tutto appare semplice e lineare, benché la riuscita dell’iniziativa abbiarichiesto l’attivazione di una complessa strategia di partnership tra il mini-stero di Grazia e giustizia, che ha concesso le necessarie autorizzazioni,Coop Italia per le operazioni di commercializzazione42 e Slow Food. Il di-rettore del carcere, Pietro Buffa, all’inizio era un po’ scettico sulle possibi-lità di realizzazione di una simile impresa:

Quando mi hanno proposto questo progetto, dice, pensavo fosse troppodifficile da realizzare. Ma in questi mesi mi sono ricreduto. Con altre atti-vità, all’interno della nostra realtà si sono creati una quarantina di posti dilavoro. Ora [...] Kairòs gestisce la mensa interna e insegna così il mestieredi cuoco ai detenuti. E non manca una falegnameria, mentre un gruppo [dicarcerati] è impegnato nella trasposizione dal cartaceo al formato elettro-nico dei documenti (Padovani 2005, p. 41).

Sul fronte della torrefazione, i risultati ottenuti sono di assoluto rilievo:un pacchetto di caffè del peso di 250 grammi costa circa 4 euro, unprezzo che lo rende competitivo rispetto ad altre confezioni della stessaqualità. Ciascuna busta, infine, reca impresso il marchio Fair Trade delCommercio equo e solidale. Agli imprenditori del Centro e del Sudame-rica viene corrisposta una somma pari ad almeno il doppio di quantoavrebbero ottenuto se avessero stipulato un accordo con i principaliprotagonisti del mercato. Si aggiunga che, a tutela del consumatore, èpossibile trascrivere il codice di tracciabilità rinvenibile sul pacchettostesso e digitarlo nell’apposita sezione presente sul sito di Pausa Café,per ricavare una serie di dati interessanti, quali le generalità di chi haraccolto la materia prima, di chi l’ha tostata e degli incaricati della distri-buzione.

Questo, in sintesi, è il lavoro di Pausa Café, una delle realtà affe-renti al consorzio Kairòs che opera in un’ottica internazionale e si af-fianca ad altri soggetti, anch’essi parte del medesimo consorzio, attivisul territorio (vedi box nella pagina seguente), rendendo il Piemonteuno dei «laboratori» del terzo settore più interessanti e fecondi a li-vello nazionale.

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Quando la cultura genera integrazione: il progetto «Intrecci di cultura»

«Intrecci di cultura» ha avuto il proprio battesimo ufficiale il 20 marzo 2008,quando il consorzio Kairòs ha inviato alle associazioni della circoscrizione VI diTorino una lettera d’invito, nella quale si esplicitava il desiderio di collaborareattivamente con tutte le realtà del terzo settore della zona, e non solo, con unaspeciale attenzione per quelle operanti nel quartiere Barriera di Milano. Si vo-leva creare uno spazio dedicato ad attività culturali nell’area dei bagni pubblicidi via Agliè. L’elemento innovativo, ovviamente, non era costituito dalla pro-grammazione delle attività culturali, quanto piuttosto dal significato che venivaconferito al termine «cultura». «Cultura», insomma, significava in primo luogoincontro, relazione, scambio tra italiani e non. Tra aprile e giugno, Kairòs haproposto alcuni laboratori, ma, da giugno in poi, sono state le persone benefi-ciarie e le stesse associazioni territoriali a individuare alcuni possibili temi datrattare o eventi da realizzare. All’inizio, si è partiti organizzando piccole feste.Gli abitanti della zona portavano cibo fatto in casa; in un secondo momento, si èpassati alla strutturazione di veri e propri corsi di cucina etnica e regionale, acorsi d’italiano e di arabo gratuiti; infine si è pensato di allestire delle mostred’arte.Dalla fine del 2008, l’arte ha guadagnato una posizione sempre più centrale. Ibagni e le docce situati al secondo piano sono stati ripuliti e ristrutturati con lacollaborazione di una cooperativa marocchina. Tonichina, che con Rambo, Ro-main ed Erika43 anima «Intrecci di cultura» e funge da «direttore artistico», rac-conta che ormai si procede al ritmo di un’esposizione al mese, grazie alla quale sioffre una buona visibilità ad artisti italiani e stranieri, che inaugurano le mostresempre in coppia. La gente s’immagina di trovare pannelli, cataloghi, supportimultimediali, come avviene di solito. Presso i bagni pubblici di via Agliè, invece,l’approccio è completamente diverso. La gente transita per un lungo corridoio,ai cui lati si aprono, da una parte e dall’altra, dei minuscoli ambienti, i singolibagni, appunto. Curiosando qua e là, i visitatori possono ammirare le tele fissateai muri, compreso quello del camminamento principale, rivestito con piccoli tes-sere di mosaico. In genere, sia chi espone sia chi organizza ha alle spalle storied’immigrazione e d’integrazione ben riuscite.Un dato di particolare importanza, presente fin dall’inizio, riguarda l’applica-zione del principio dello sviluppo locale partecipato. Storicamente, tale principioè stato seguito nella realizzazione e nell’implementazione di opere architetto-niche: a Torino, è capitato che gli abitanti di un quartiere venissero consultati re-

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4. Conclusioni

Una delle chiavi di lettura del presente studio di caso è quella del mu-tamento. Tra il secondo dopoguerra e gli anni ottanta del secoloscorso, Barriera di Milano era un quartiere a forte vocazione indu-striale. Nell’ultimo ventennio le fabbriche hanno lasciato il posto aicondomini, ai negozi e ai centri commerciali. I residenti e le istituzioni,tuttavia, sembrano aver subito il cambiamento, senza mostrare ecces-sivo protagonismo. Tutto ciò ha avuto ripercussioni sul cuore dellacittà. Barriera di Milano, infatti, è a pochi minuti dal centro; i trasportiurbani funzionano in modo adeguato, rendendo agibile il collega-mento tra quello e le zone site in una posizione più decentrata. Di qui,la difficoltà nel definire periferico il quartiere che stiamo conside-rando. Più corretto, forse, sarebbe parlare di «emiferia», termine cheenfatizza la collocazione intermedia tra ciò che è interno e ciò che, alcontrario, si situa a ridosso delle aree più esterne. Si tratta, insomma,di una sorta di cintura.

L’analisi della documentazione redatta dal Comune di Torino, in par-ticolare dal settore dei servizi sociali, indurrebbe a pensare a una dimi-

lativamente a diversi progetti, per i quali era richiesto un parere. Nel quartiereFalchera, per esempio, dieci anni fa si è deciso di ricostruire completamente la piazza principale. Tre erano le proposte selezionate da un gruppo di tecnici, ma lascelta finale è stata lasciata ai residenti, nella convinzione che fossero loro i veri«fruitori» dello spazio pubblico. Nel caso di «Intrecci di cultura», il criterio dellosviluppo locale partecipato è stato declinato in un’ottica sociale: un gruppo, cheper ora si attesta intorno alle dieci persone, si riunisce periodicamente per discu-tere dell’organizzazione dei vari eventi legati ai bagni pubblici.44 L’elemento che su-scita maggiore interesse è quello riguardante la composizione dell’assemblea, for-mata per una metà da stranieri, alcuni, in precedenza, erano utenti e per l’altrametà da italiani; l’età è variabile. Benché prevalgano i giovani, vi sono anche dueanziani italiani, che abitano proprio di fronte allo stabile di via Agliè. Si tratta, in-somma, di un evidente caso di attivazione da parte della cittadinanza, dove s’in-trecciano culture differenti, generazioni distanti tra loro, sostenute da una realtà, ilconsorzio, che funge da mediatore tra i cittadini stessi e Barriera di Milano.

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166 Costruire cittadinanza

nuzione del disagio nelle sue più varie manifestazioni. Ma sarebbe un er-rore limitarsi alle statistiche ufficiali, tanto più che gli stessi servizi con iltempo hanno elaborato criteri maggiormente selettivi per individuare lepersone che si trovano in condizioni di difficoltà. Pertanto, per avereuna visione sufficientemente chiara del problema, è necessario integrarei dati precedentemente citati con quelli provenienti dalle parrocchie,punti di osservazione privilegiati, dai centri di ascolto dislocati in diversipunti del territorio e dalle associazioni afferenti al privato sociale, che aTorino possono vantare una tradizione ampiamente consolidata.

Nel complesso, però, le fasce sociali più deboli portano con sé unalto tasso di multiproblematicità: chi non ha un impiego, non di rado ègià in carico ai servizi sociali e il suo livello di scolarità risulta estrema-mente basso. Le politiche attive del lavoro, nei suoi confronti, non eser-citano alcuna forma di attrazione, poiché la priorità è rappresentatadall’obbligo di garantire la sussistenza al proprio nucleo familiare.Questi non accetta facilmente di partecipare ad azioni di riqualifica-zione delle competenze, specie se prevedono step formativi; di norma,non coglie il valore di un investimento a medio o a lungo termine, ma èinteressato al conseguimento di un vantaggio immediato, in forma mo-netaria.

Una delle presenze più significative che operano all’interno del quar-tiere è garantita dal consorzio Kairòs, attivo da ormai otto anni su varifronti. La natura consortile dell’organizzazione ha consentito agli opera-tori di costituire una rete particolarmente sviluppata, che collega tra loropersone, competenze e specifici servizi: alla persona, alle politiche del la-voro, allo sviluppo di comunità, all’inserimento lavorativo ecc., in unaprospettiva integrata. Qualche difficoltà è inevitabilmente sorta a causadell’utile che è possibile reinvestire, il quale non supera l’1%.45

Pausa Café è una delle cooperative del consorzio, che opera sia nellarealtà di Barriera di Milano sia nei quartieri limitrofi. In questa sede è statoscelto di mettere in risalto un progetto ancora in corso di realizzazione, maattivo da ormai cinque anni, che coniuga il reinserimento lavorativo equello sociale di una categoria che non si potrebbe non definire svantag-giata: quella dei detenuti. I punti di forza dell’iniziativa sono notevoli, apartire dall’acquisizione di una professione, unitamente a diversi step for-mativi effettuati on the job, con alcuni docenti d’eccezione: personaggi ce-

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lebri dell’imprenditoria alimentare, piemontese e non (Andrea Trinci, mae-stro della torrefazione, è toscano). La strategia vincente, tuttavia, risiedenella capacità di aver costituito una rete di partner, ciascuno essenziale nel-l’esercizio delle proprie funzioni, che ha permesso alla cooperativa di inse-rirsi in un mercato dominato solitamente dalle multinazionali. In primis,non si poteva prescindere da un’elevata qualità della «materia grezza», ilcaffè e il cacao; ma il processo di lavorazione nemmeno poteva subire ec-cessive parcellizzazioni, che ne avrebbero compromesso la competitività intermini di costi. Ecco, allora, che si è pensato di coinvolgere i carcerati,proponendo loro un lavoro e, a un tempo, cercando di recuperarli sotto ilprofilo sociale, incrociando, per così dire, locale e globale: gli istituti peni-tenziari del Torinese e i coltivatori delle piantagioni di Huehuetenango.

BIBLIOGRAFIA

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zionali della Sesta Circoscrizione. Rapporto di ricerca e sintesi del percorso dicostituzione del Tavolo, Assessorato Lavoro formazione sviluppo, Torino.

Magatti M. (a c. di) (2007), La città abbandonata, il Mulino, Bologna.Padovani G. (2005), «Un buon caffè dietro le sbarre aiuta a vivere», in Specchio,

6 agosto.

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6. Interventi di inclusione per gli immigrati marginali Il caso di Barcellonadi Elena Dragonetti

1. Il contesto

Barcellona, capitale della Catalogna, è la seconda città spagnola comepopolazione, superata solo da Madrid. La città è suddivisa in dieci di-stretti, che permettono un’amministrazione maggiormente decentraliz-zata e prossima alla cittadinanza. Essi sono Ciutat Vella, Eixample,Sants-Montjuïc, Les Corts, Sarrià-Sant Gervasi, Gràcia, Horta-Gui-nardó, Nou Barris, Sant Andreu e Sant Martí.

Questa divisione origina dalle successive fasi storiche di sviluppo dellacittà. Ciutat Vella (Città Vecchia) è l’antico centro cittadino. L’Eixamplecorrisponde alla zona creata dall’espansione del centro che si generò dopola demolizione delle mura che proteggevano la città, mentre il resto dei di-stretti corrisponde ai municipi che circondavano l’antica città e che si inte-grarono a Barcellona nel corso del XIX e del XX secolo. Ogni distretto èformato da diversi quartieri che hanno una marcata personalità e una tra-dizione storica differente.

La Catalogna è regione autonoma e si rifà a una lunga tradizione cuiantecedenti più lontani risalgono al Medioevo: la Diputación del Ge-neral de Cataluña. Nel corso della guerra civile, il regime repubblicanodel 1931 instaurò la Generalitat moderna che si tornò a istituire con latransizione democratica.

Lo Statuto di autonomia è la norma istituzionale di base che defi-nisce i diritti e i doveri della cittadinanza, le istituzioni politiche, le loro

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competenze e le relazioni con lo Stato e i finanziamenti della Genera-litat. Questa legge fu votata con referendum nel 2006 e il nuovo testo so-stituì lo Statuto approvato nel 1979.

Tanto la Costituzione spagnola quanto lo Statuto configurano i muni-cipi come istituzioni di grande rilevanza all’interno dell’organizzazione de-mocratica.

Il Distretto è l’organo che governa il funzionamento locale delle zonedella città ed è retto da un consiglio, a cui prendono parte rappresen-tanti di entità e associazioni del territorio e anche cittadini a titolo indi-viduale. L’obiettivo è quello di favorire le relazioni del Comune con lacittadinanza, attraverso udienze pubbliche del Distretto e attraversocommissioni di lavoro tematiche che realizzano studi di attività e di set-tore con l’obiettivo di guidare le politiche.

Il distretto preso in considerazione è quello di Ciutat Vella, che sicompone a sua volta di quattro grandi quartieri che si distinguono an-cora oggi per caratteristiche urbanistiche e sociali marcate e differenti.

Ciutat Vella è il primo distretto della città: ha una popolazione di113 154 abitanti (2006), con una densità di 251,79 abitanti per ettaro ecorrisponde, sia storicamente che geograficamente con il centro dellacittà.

Parlare di Ciutat Vella significa parlare della storia di Barcellona, unacittà che è vissuta circondata dalle mura fino all’anno 1859 e che oggi è ilterritorio circondato dai grandi viali che sostituirono la cinta muraria(avenida del Parallel, las rondas, la calle de Pelai, el paseo de Lluís Com-panys y el parque de la Ciutadella).

Nella parte più meridionale del distretto si trova Barceloneta, il quar-tiere più recente, creato a metà del XVIII secolo per ri-alloggiare coloroche erano stati sfollati dalla Ribera a causa della costruzione della Ciuta-della; a ponente il Raval, che fu la zona popolatasi nel corso della rivolu-zione industriale del XIX secolo. Nel centro si trova il Barrio Gotico, l’in-sediamento urbano più antico di Barcellona e a levante Sant Pere, SantaCaterina e la Ribera, l’estensione medioevale della città.

Il territorio urbano di Ciutat Vella è un grande contenitore di ten-sioni e conflitti strutturali, relazionali e sociali che analizzeremo qui diseguito passando attraverso le fasi di costruzione storica dell’identitàcontemporanea del distretto.

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Il caso da noi preso in considerazione si situa nella zona della Ribera.Sant Pere, Santa Caterina e la Ribera sono quartieri che mantengono an-cora oggi la struttura medioevale. Strade strette, curve, ritorte e intrecciaterimangono fortemente ancorate ad attività radicate fin dalle origini, peresempio il lavoro tessile, oggi trasformato da attività artigianale a commer-ciale. Sant Pere, Santa Caterina e Sant Augustí sono nomi che fanno riferi-mento alle grandi istituzioni religiose un tempo presenti nella zona, di cuioggi la chiesa di Sant Pere de les Puelles resta la sola testimonianza.

A sud, più vicino al mare, è situato il quartiere della Ribera, anticaVilanova del Mar, nato intorno alla basilica di Santa Maria del Mar,centro della vita signorile della città dal XIII al XIV secolo. Centro pul-sante della vita commerciale fino al XVI secolo, il quartiere conobbe unprogressivo degrado con la diminuzione dei traffici marittimi nel Medi-terraneo, a favore di quelli oceanici verso le Indie Occidentali e con lademolizione di metà delle abitazioni a causa della costruzione della Ciu-tadella nel Settecento. Sempre nel XVIII secolo si installarono delle mani-fatture di tessuti che portarono a un’espansione produttiva e a una con-seguente domanda di manodopera, tanto che con il tempo la crescita de-mografica e la densità abitativa nella zona arrivarono a estremi incon-trollabili e furono la causa di numerose epidemie.

La situazione di degrado e la creazione del vicino quartiere ottocen-tesco dell’Eixample fecero confluire nel quartiere fasce di popolazionemeno abbienti, in prevalenza costituite da immigrati, che sostituirono gliabitanti precedenti, attratti da condizioni abitative migliori. Inoltre, lefabbriche tessili presenti, data la mancanza di spazio, si spostarono nelRaval o fuori dalle mura cittadine.

Diversi interventi urbanistici tentarono di migliorare le condizioni sa-nitarie e sociali della Ciutat Vella, con l’apertura di grandi viali nell’intentodi razionalizzare le maglie viarie. Tuttavia, tali interventi, seppur mossi dabuone intenzioni, sconvolsero gli assetti del distretto, accentuandone lamarginalità e l’esclusione. Solo a partire dalla fine del secolo scorso l’am-ministrazione iniziò a pianificare riforme volte a mantenere il vecchio tes-suto urbano ristrutturando i vecchi edifici. Questa politica urbanistica haportato tra l’altro all’attuale rinascita di Ribera come zona d’arte e diverti-mento, grazie anche alla sua riscoperta da parte di artisti indipendenti esperimentali, per cui vengono aperti locali e gallerie d’arte.

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Inoltre, in questi ultimi anni il governo regionale della Catalogna hastanziato una serie di finanziamenti per la riqualificazione dei quartieri diSant Pere e Santa Caterina, volti al miglioramento dello spazio pubblicocreando zone verdi e riqualificando delle strutture per uso collettivo.

Da un punto di vista demografico, il distretto si caratterizza per unarilevante presenza di immigrati, che costituiscono (Departament d’E-stadística 2006) oltre il 20% della popolazione totale. Si tratta dellazona con maggior densità di popolazione immigrata e un tasso di vulne-rabilità più alto rispetto alla maggior parte degli altri quartieri.

In questo intreccio di lingue, culture e tradizioni diverse, in cui coesi-stono la città portuale, la città moderna attiva e propensa verso l’Europa ela città del divertimento notturno (Castellanos 2002) si situa l’esperienzadi cui parleremo.

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

A seguito del Piano nazionale di inclusione sociale del 2001, nel 2005 ilComune ha approvato un Piano strategico per l’inclusione sociale, in cuidefinisce le linee di attuazione per la lotta contro la marginalità. In questoPiano vengono definiti i cosiddetti «collettivi socialmente vulnerabili», tracui sono inseriti i minori, le famiglie a rischio, gli stranieri, i senza dimora,le persone con disabilità e gli anziani in condizioni di fragilità.

Nel 2008 sono state accolte 4485 persone nell’ambito dei servizi resi-denziali del programma comunale, di cui fanno parte diversi tipi di centri diaccoglienza, hotel, pensioni e appartamenti per l’inclusione. Sono stati al-tresì recentemente incrementati i servizi di mensa sociale e i centri diurni.

Inoltre, nell’ottica di migliorare i servizi offerti alle persone in situa-zioni di disagio, il Comune ha incentivato la collaborazione con le realtàdel privato sociale tramite la creazione di una rete istituzionale (Sis) conl’obiettivo di coordinare e monitorare i diversi interventi sociali. A talfine il Comune promuove il volontariato come forma di partecipazioneal benessere sociale da parte dei cittadini.

Nel caso più specifico del Distretto il documento di riferimento cheriassume l’obiettivo generale delle politiche urbane e sociali è il Plan del

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Districto 2008-2011 in cui si dichiara la volontà di «migliorare i canali dicomunicazione e partecipazione della cittadinanza che diventa semprepiù esigente e corresponsabile».

Ritorna spesso nei documenti ufficiali dell’amministrazione locale iltema della partecipazione attiva dei cittadini nella pianificazione e nell’at-tuazione delle politiche sociali, reso possibile con la decentralizzazione.

Il Programma di attività del Distretto (Pad) «è il documento che rac-chiude l’impegno dell’amministrazione con i cittadini e le cittadine» eche elenca quartiere per quartiere le risposte concrete che si daranno neltriennio 2008-2011 ed è, a detta dell’amministrazione stessa, «un pattoper la costruzione comunitaria del quartiere».

Il processo di elaborazione del Programma delle attività del Distrettodi Ciutat Vella è stato un’opportunità unica per formare corresponsabilitàcomune e protagonismo attivo nel progetto che si è presentato. La meto-dologia partecipativa-comunitaria di raccolta del bisogno, analisi e proget-tazione delle risposte, ha fatto emergere l’importanza data al senso di ap-partenenza e di identità territoriale degli abitanti del quartiere. A dettadegli amministratori questo è il presupposto fondamentale di una miglioreintegrazione e coesione sociale in grado di prevenire i problemi inerenti lagrave marginalità. In quest’ottica è inserito l’impulso dato all’autorganizza-zione cittadina nell’ambito della creazione di luoghi di diffusione di un’i-dentità storica.

L’obiettivo dell’amministrazione pubblica, che coinvolge operatorispecializzati, con la funzione di dinamizzatori-attivatori territoriali èquella di un «accompagnamento di cittadini e cittadine che sono i veriesperti nel proprio quartiere». In quasi ogni quartiere sono quindi statiattivati servizi di sviluppo e mediazione comunitaria che intendono gui-dare gli abitanti del quartiere, suddivisi per gruppi e/o associazioni, nel-l’individuare soluzioni a problemi concreti e trovare canali di comunica-zione con le istituzioni. Inoltre il Comune prevede anche un progetto dicomunicazione in rete per facilitare la conoscenza delle iniziative realiz-zate nei diversi quartieri e per incrementare la visibilità delle differenticomponenti della rete sociale del territorio.

Il Comune intende altresì ristrutturare e conservare spazi comuni neipalazzi e negli edifici a uso abitativo del centro storico per incrementareluoghi attivi di partecipazione e buon vicinato.

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La politica di valorizzazione delle strutture e delle risorse preesistentinel territorio, migliorandone funzionalità e uso, ha lo scopo ultimo difarle diventare luoghi gestiti sempre di più dai cittadini secondo i propribisogni. Una potenzialità del distretto è la notevole quantità di struttureriqualificate nel tempo mantenendo un uso strettamente sociale, peresempio il centro civico, l’ateneu...

In questa linea di intervento si situa la riprogettazione dei centri edu-cativi per la comunità, modificandone modalità e tempi di apertura peraumentare la potenzialità come spazio di incontro pubblico.

3. Il progetto di accoglienza nel Barrio de la Ribera

Cepaim è un consorzio di enti e associazioni spagnole che lavorano indieci comunità autonome e hanno come obiettivo «l’azione integralecon migranti» dal 1994 (Cepaim 2007). La sua organizzazione a oggi è informa di consorzio, ma si è sviluppata ed è cambiata nel tempo sia nellerealtà consorziate sia nella struttura organizzativa: si sta infatti per con-vertire in fondazione.

Il consorzio è stato creato con la finalità di gestire progetti europei,che per anni hanno rappresentato la base delle attività del consorziostesso. Con il tempo, Cepaim ha operato per diffondere le buone prassisperimentate, attraverso convenzioni con l’amministrazione pubblica.Per esempio, è stata istituita la prima rete di centri di inserimento lavo-rativo e sono stati sviluppati progetti nell’ambito della partecipazione edella cooperazione allo sviluppo.

Le aree di intervento sono l’accoglienza, l’inserimento lavorativo, lasensibilizzazione, la partecipazione, le pari opportunità e la cooperazione.

Il progetto qui considerato prevede l’accoglienza in appartamento dipersone – con o senza documenti – immigrate che incontrano difficoltàdi accesso alla casa, di giovani in situazioni di disagio e di senza dimora.

Secondo la legge spagnola un immigrato entrato illegalmente nel paesepuò essere detenuto in un Centro di internamento per stranieri per unmassimo di quaranta giorni, dopo di che la persona deve essere lasciata inlibertà. Il ministero del Lavoro e del servizio sociale ha tra l’altro predi-sposto centri di accoglienza umanitaria e di emergenza, per una perma-

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nenza di quindici giorni e la possibilità di mettersi in contatto con i fami-liari che risiedono già nel paese e sono disponibili a prendersi in carico ilnuovo arrivato.

Nel 2006, a seguito dell’intenzione da parte del ministero di metterein atto un intervento più integrale che non si limitasse all’accoglienza diemergenza, Cepaim ha presentato un progetto che comprende un in-sieme articolato di interventi oltre all’accoglienza in emergenza, volti al-l’inserimento sociale degli immigrati senza documenti. Questo pro-gramma comprende oltre l’accoglienza umanitaria, il lavoro sia con lacomunità di appartenenza sia con quella locale.

Un altro progetto rivolto alle persone immigrate prive di documenti èdenominato «Asentamiento». Con esso si intende raggiungere coloro chevivono in luoghi non adatti ad abitazione, in case occupate o grandi accam-pamenti, per dare loro una possibilità di uscita. Il programma prevede unprimo lavoro di contatto, l’analisi delle opportunità abitative, il contatto ela sensibilizzazione della popolazione del quartiere dove vengono effettuatigli inserimenti, il sostegno alle reti di supporto informali nonché l’eroga-zione di beni di prima necessità durante un primo periodo. Il centro di ac-coglienza, qui considerato, che viene utilizzato nelle ore diurne anche comepunto d’ascolto per le persone intercettate anche con questi progetti.

L’appartamento nel quale è situato il centro, è ubicato all’interno di uncondominio del centro del quartiere e dall’esterno non si coglie alcunsegno che identifichi la presenza di una casa di accoglienza. Esso consistein un piccolo disimpegno nell’ingresso, due uffici allestiti con postazioni dicomputer, una grande sala da pranzo adibita a zona giorno, la cucina e lecamere. Il centro è allestito per 14 posti, disposti in due grandi stanze, sud-divise in spazi da 3 o 4 posti letto ciascuno, tramite pareti in legno, in ma-niera spartana ed economica. L’accoglienza ha una durata che va da un mi-nimo di tre a un massimo di sei mesi. Durante la permanenza vengono co-perte le necessità di base: alloggio, alimentazione, trasporto, telefono.

L’équipe è multidisciplinare e multiculturale ed è formata da un’opera-trice, proveniente dal Ghana, che si occupa di pari opportunità e delleproblematiche legate alla migrazione al femminile, da una figura di assi-stente socioassistenziale di origine ecuadoriana, un educatore della Costad’Avorio, uno psicologo sociale catalano, coordinatore, con il compitoinoltre di tenere i rapporti con il territorio, e un collaboratore senegalese

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volontario con funzione di mediatore culturale e per la presenza notturna.Quest’ultimo ha iniziato a collaborare con l’associazione nel 2007 incambio dell’alloggio con il ruolo di mediatore culturale e di gestore dellaquotidianità della casa (del regolamento, della mediazione con i vicini). Adetta degli operatori la sua funzione è molto importante dato che condi-vide non solo il suo luogo di vita e soggiorno – la casa – con gli altri immi-grati, ma anche la condizione di precarietà legale ed economica. Eglisvolge tra l’altro un importante ruolo di guida e di modello per i ragazzigiovani appena arrivati, «che chiama “questi africani” e che non semprecapisce appieno nei comportamenti e nelle decisioni, perché egli ormai sisente europeo» (Intervista 4).

L’utenza è formata da persone immigrate appena giunte in Spagna,da giovani arrivati dai Centri di internamento per stranieri e da adultisenza tetto che risiedono in città, da più tempo. Il presupposto per poterusufruire del programma è di non provenire da altri paesi europei.

Si può parlare di un intervento di bassa soglia che utilizza il mutuoaiuto, il lavoro per gruppi più che quello individuale e il lavoro di rete ter-ritoriale. Gli operatori del centro aiutano le persone accolte nelle pra-tiche necessarie a ottenere i documenti, e le aiutano a conoscere la legi-slazione spagnola sull’immigrazione (perché ognuno capisca la propriasituazione e le proprie possibilità di regolarizzarsi), a frequentare corsidi lingua e ad avere un domicilio che consenta loro di accedere alle curesanitarie. Vengono inoltre organizzati gruppi tematici di confronto suproblemi inerenti la condizione di immigrato e un gruppo di orienta-mento psicosociale che consente di ripercorrere l’itinerario migratorio,le aspettative, le disillusioni, i traumi.

Riguardo la sfera lavorativa gli operatori dicono di «muoversi sulle viedell’informale». Un esempio è l’esperienza di contatto con le associazionidi immigrati che risiedono al di fuori di Barcellona, dove la pressione delleautorità giudiziarie e della polizia è meno intensa, per poter conoscere di-versi modelli di insediamento degli immigrati. A Villafranca trovano la-voro nell’agricoltura, a Villanova nelle infrastrutture turistiche, a Granol-lers nell’industria. Questi confronti permettono agli operatori coinvolti dicreare occasioni di apprendimento «tra pari». Grazie alla maggiore espe-rienza, infatti, persone che hanno compiuto lo stesso itinerario migratoriopossono trasferire conoscenze ai nuovi arrivati.

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Un punto fondante dell’intervento è quello del supporto allo svi-luppo di reti formali e informali che possano aiutare le persone accoltenel quotidiano.

La durata dei percorsi presso il centro dipende molto dalle tappe cheprecedono l’arrivo al centro stesso: se per esempio la persona provieneda un Centro di prima accoglienza facilmente viene inviata ad altri ser-vizi per ottenere più tempo per il percorso di conoscenza delle risorse edel territorio.

Per facilitare le possibilità di uscita è stato progettato un programmadenominato «Hogares». Il presupposto fondante di questo intervento,come peraltro di molte delle attività realizzate da Cepaim, è che «la veraintegrazione si può ottenere solo attraverso il collettivo» (Intervista 8).Per prima cosa si contatta la comunità di appartenenza, la maggior partedegli immigrati, infatti, si sposta perché ha famiglia o conoscenti inSpagna. Se questi ultimi non sono in grado di sostenere la persona simette in atto il programma di accoglienza in uno degli appartamenti. Seinvece rimangono capacità residue del «collettivo», si tende a valoriz-zarle: i compatrioti prendono in carico la persona e per un primo pe-riodo l’associazione paga alla famiglia che accoglie un contributo econo-mico per il mantenimento della persona con l’obiettivo che in brevetempo (sei mesi rinnovabili) riesca a raggiungere un maggiore grado diautonomia.

Il percorso prevede inoltre la possibilità di usufruire di appartamenti diseconda accoglienza. Il ruolo dell’associazione consiste principalmentenell’intermediazione con i privati che affittano appartamenti, in alcuni casiessa anticipa la caparra necessaria, sempre nel ruolo di accompagnamentoe facilitazione del percorso verso l’autonomia.

Relazioni istituzionali e punti di criticitàSi identificano due tappe nella storia di Cepaim. In una prima fase, tra il1994 e il 1999, ha gestito programmi europei di formazione e ciò ha per-messo tra l’altro sia di sviluppare una stretta relazione con la pubblica am-ministrazione spagnola, sia di individuare buone prassi di intervento suitemi riguardanti l’immigrazione per riproporle nella realtà spagnola (peresempio, grazie ai Progetti Equal).

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A partire dal 1999, con la costituzione della prima rete di inseri-mento lavorativo, si è sviluppata una seconda fase nella quale preval-gono gli aspetti operativi e gestionali. A tal fine Cepaim ha definito unapropria struttura, e l’organizzazione è cresciuta rapidamente.

In questa doppia direttrice della sperimentazione e dello sviluppo, al-cuni progetti vengono accolti prima dai bandi europei e poi dalle poli-tiche statali.

Va inoltre sottolineato l’intento di Cepaim di rinforzare le reti e le capa-cità preesistenti dei gruppi di immigrati e di conseguenza dei singoli.Questo è anche uno degli elementi di criticità di tale metodologia di inter-vento, dato che punta prevalentemente sulle risorse preesistenti dell’u-tenza che è peraltro molto fragile. Ciò si è reso evidente in particolare que-st’anno a seguito della crisi economica: molte famiglie che avevano presoin carico persone grazie alla mediazione dell’associazione non ce l’hannopiù fatta a sostenere tale carico e nel contempo i finanziamenti pubblici,statali, che coprono più della metà del costo totale dell’intervento sono ve-nuti meno. Questo ha portato alla riduzione drastica delle possibilità d’in-tervento per il 2010.

Un altro aspetto rilevante consiste nella volontà dell’associazione disostenere l’autorganizzazione dei gruppi di immigrati. A questo propo-sito nel 2009 alcuni operatori di Cepaim hanno preso contatto con al-cune associazioni di immigrati senza permesso di soggiorno. Questo in-contro ha facilitato la nascita di una nuova associazione, denominataNomadas del siglo 21, di cui alcuni utenti e gli operatori del centro diaccoglienza si sono resi promotori.

Nomadas porta con sé una scommessa, appoggiata dallo stesso Ce-paim, sulla capacità di incidenza politica di gruppi e collettivi compostida persone senza permesso di soggiorno. Essa ha preso le mosse con l’o-biettivo di avere una funzione di dialogo con le istituzioni, per poterdare voce agli immigrati irregolari in materia di programmazione dellepolitiche a loro destinate. Per questo Nomadas ha attivato gruppi for-mativi sulla situazione legale, organizzato concerti di autofinanziamento,mediato con la polizia e con la popolazione del quartiere, manifestatoper la depenalizzazione della vendita illegale di cd.

Dietro tutto questo vi è tra l’altro un processo importante di em-powerment delle persone, non a titolo individuale ma collettivo, poiché

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possano diventare rappresentative di se stesse al fine di rendere più diffi-cile la stigmatizzazione e l’esclusione.

Un altro punto di forza del progetto nel suo complesso è dettato dalfatto che è possibile tenere un duplice canale con le istituzioni politiche: daun lato Cepaim, nelle sue vesti formali e con la partecipazione burocratico-amministrativa, e dall’altro Nomadas, più libera da legami con le istitu-zioni, più agile dunque e con un importante riscontro di opinione pub-blica (Intervista 5).

In un momento come questo di crisi economica e di «giro di vite» delgoverno socialista, orientato a una politica più restrittiva, i movimenti per idiritti civili degli «irregolari» sono molto difficili da sostenere, anche sel’associazione fa di questo un obiettivo a lungo termine, mentre ce ne sonoaltri a breve e medio termine, come quelli più individuali, di coperturadelle necessità di base che continuano ad avere un ruolo di primaria im-portanza nell’attuale progettazione (Intervista 8). Tra questi l’ambito dellaricerca lavorativa. L’inserimento lavorativo è sempre più difficile, data lacrisi economica di quest’ultimo periodo, ma come linea strategica Cepaimcerca di facilitare e organizzare al meglio quello che c’è, ovvero i diversimodi possibili per eludere la situazione legale (che ha tempi più lunghi perregolarizzarsi) e per raccogliere piccoli proventi da attività lavorative possi-bili nel contesto specifico: che sono soprattutto la raccolta e vendita di ma-teriali di riciclo e la vendita ambulante di cd. Per esempio nel primo casol’associazione ha proposto di comprare un furgone che permetta di orga-nizzarsi in gruppi e dall’altra parte l’associazione sostiene e partecipa a ma-nifestazioni contro la repressione della vendita ambulante (per evitare chela polizia sequestri la merce).

In quest’ottica il problema del reinserimento sociale è affrontato daCepaim attraverso una metodologia che si può definire a cerchi concen-trici. Si parte dal centro, dalle necessità primarie individuali. Peresempio ci sono dei casi in cui si può lavorare solo su questo livello,anche se non è sufficiente per giungere a una completa autonomia; poic’è il piano dei documenti, della formazione e della sanità, che forniscedegli strumenti e risulta dunque molto importante ma ancora non defi-nitivo. In seguito, vi è il lavoro comunitario, con la comunità di acco-glienza, per esempio con le associazioni di quartiere e con le organizza-zioni della comunità migrante. Infine, c’è l’ultimo grande scoglio, rap-

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presentato dalla ricerca di un lavoro e di una casa, che sono i problemipiù complessi nella situazione specifica.

Un aspetto critico di questa linea d’intervento consiste nella sua di-pendenza dai finanziamenti pubblici. È il caso di molti programmi comequello di «Hogares», che non saranno finanziati quest’anno poiché, acausa della crisi, sono diminuiti i finanziamenti.

Un altro punto di criticità degli interventi di Cepaim concerne il fattoche, puntando molto sulla solidarietà dentro il «collettivo migrante», datoil momento di grave crisi economica, quest’ultimo non è più in grado disostenersi da solo perché ha una stabilità di per sé più fragile (Intervista 8).

Dato che i limiti sono soprattutto legati alle condizioni esterne, poli-tiche ed economiche, del paese e i programmi dell’associazione hannouna forte dipendenza dalle politiche pubbliche, la strategia futura di Ce-paim si concentrerà sul potere negoziale nei confronti dell’istituzionepubblica statale e municipale per continuare ad avere un sostegno.

Nei progetti futuri di Cepaim affiora inoltre la necessità di attuarelinee di intervento in quartieri specifici per incidere localmente, focaliz-zando i programmi verso i temi della convivenza della cittadinanza ingenerale. Non operando quindi solo su gruppi specifici di immigrati, masu tutta la popolazione, per poi poter affrontare anche i problemi speci-fici del gruppo interessato, partendo però dal presupposto della media-zione comunitaria.

La scommessa dell’associazione è pertanto integrare il Piano politicodel governo autonomo sullo sviluppo di interventi comunitari locali con lecompetenze di mediazione interculturale di Cepaim, poiché è stato valu-tato che è molto difficile in questi interventi creare una vera e propria co-municazione tra gruppi di cittadini spagnoli e i «collettivi» degli immigrati.

La difficoltà si riscontra soprattutto nel momento della messa in co-mune delle esigenze dei singoli, nella relazione quotidiana di vicinato traindividui e gruppi informali.

Per questo è di fondamentale importanza l’esperienza di autorganiz-zazione come quella di Nomadas, che avvicina persone di diverse prove-nienze culturali e religiose, autoctoni e immigrati, intorno al tema delladifesa dei diritti dell’uomo.

Va altresì notato che il governo e il Comune puntano entrambi sullafattibilità della messa in atto di un modello integrato di partecipazione

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che si attua nei piani di sviluppo comunitari locali di cui Barcellona èpromotrice all’avanguardia.

I Piani integrali comunitari, iniziativa delle amministrazioni comunalisu base zonale, hanno come obiettivi: coinvolgere i cittadini nella vita pub-blica promuovendo la corresponsabilità tra Stato e società civile sugliaspetti che riguardano la qualità di vita della popolazione nel suo insieme;realizzare pianificazioni dello sviluppo locale a lungo termine; promuovereil coordinamento tra istituzioni e risorse; essere d’aiuto alle amministra-zioni per superare le divisioni rigide settoriali tra le diverse aree di inter-vento; definire più chiaramente il ruolo dei cittadini.

Elementi indispensabili sono «l’accordo sociale» (Font e Blanco2003) e il consenso politico. Al primo devono partecipare tutti gli attorisociali (gli abitanti, i sindacati, le imprese, gli educatori, gli operatori sa-nitari, i politici, gli immigrati...), mentre con il secondo si cerca un ap-poggio di tutte le forze politiche locali e regionali per garantire la realiz-zazione dei Piani. Per la realizzazione dell’intervento va in seguito costi-tuita un’équipe comunitaria interdisciplinare, interculturale e intersetto-riale, che ha il compito di coordinare le differenti risorse esistenti. Lametodologia di lavoro usata in tutto il processo è partecipativa e interat-tiva. L’informazione è un elemento centrale per fare in modo che tutta lapopolazione possa prendere parte alle decisioni con sufficienti strumentidi conoscenza delle situazioni. Vi sono inoltre continui processi valuta-tivi in itinere che coinvolgono tutta la popolazione.

Per sostenere questo modello di intervento, definito dopo anni di pra-tica e di analisi, Cepaim si basa su una impegnativa attività di studio che vadalla valutazione formale e informale delle buone prassi europee agli studidi tipo descrittivo e di taglio più antropologico, che puntano sulla raccoltae illustrazione di situazioni reali di marginalità della città, come peresempio la ricerca effettuata a partire da più di 400 interviste a personesenza permesso di soggiorno per analizzare le condizioni di vita e di lavoro.

BIBLIOGRAFIA

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SITOGRAFIA

www.bcn.eswww.nomadasdelsiglo21.org

INTERVISTE

Intervista 2: Docente di Politiche pubbliche della Uab e direttore dell’Igop(Istituto di ricerca sul governo e le politiche pubbliche).

Intervista 4 e 5: Coordinatore del Centro di accoglienza di Cepaim.Intervista 6: Professore di sociologia presso la Uua e membro dell’Igop.Intervista 8: Responsabile del Centro di accoglienza di Cepaim.Intervista 9: Responsabile della comunicazione del Casal des Infants.

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7. Donne protagoniste in un quartiere difficile Il caso di Berlinodi Cecilia Trotto e Fabio Zuccheri

1. Il contesto

La Repubblica federale tedesca ha assunto l’attuale assetto il 3 ottobre1990, quando la Repubblica democratica tedesca si è unita alla Federa-zione tedesca occidentale, così che alla precedente Germania Ovest si èaggiunto il 30% in più di territorio, il 20% in più di popolazione ecinque Länder. La popolazione della ex Germania Est veniva da una so-cietà socialista completamente diversa da quella occidentale sotto moltipunti di vista, così che l’integrazione nel sistema capitalista di questa po-polazione è stata, e tuttora rimane, per molti aspetti problematica.

La Germania ha circa 8 milioni di immigrati che costituiscono l’8,5%della popolazione. La comunità turca è quella più numerosa, con oltre 2milioni di persone, il 2,4% dell’intera popolazione. Gli altri immigratiprovengono per la maggior parte dall’ex Jugoslavia, dall’ex Unione Sovie-tica, dall’Africa, dall’Italia, dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Polonia e dal-l’Austria (Federal Ministry of Labour and Social Affairs 2006). Vi sonoanche piccole minoranze nazionali di circa 60mila membri, come i danesie i sinti. Nel paese predominano le religioni cristiano-cattoliche e prote-stanti. La minoranza religiosa più significativa è quella musulmana, laquale conta oltre 3 milioni di fedeli (di cui il 78% sono turchi), mentre lacomunità di fede ebraica è ridotta a sole 75mila persone (ibid.).

Gli immigrati possono essere suddivisi in cinque categorie: guestworkers, rifugiati, richiedenti asilo politico, stranieri di origine tedesca

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ed ebrei provenienti dall’ex Unione Sovietica. Queste ultime due cate-gorie di immigrati ricevono aiuti e sussidi speciali. Oltre al costanteflusso migratorio di lavoratori stranieri, dopo la riunificazione, con lalegge di compensazione di guerra del 1993, il governo federale intro-dusse un piano di immigrazione a favore delle comunità tedesche che vi-vevano all’estero, producendo nel primo periodo di applicazione fino a220mila ritorni all’anno. Una simile misura fu presa per le comunitàebraiche che vivevano nei paesi post-sovietici, favorendo l’arrivo in Ger-mania di oltre 200mila persone (Radtke 2003). Il diritto d’asilo fino al1993 era molto liberale, ma dopo le 438mila domande ricevute nel 1992,a seguito della guerra nella ex Jugoslavia, la legge è diventata più restrit-tiva, con una conseguente sostanziale diminuzione delle domande. In-fine, negli anni scorsi si sono verificati rilevanti flussi migratori interni,principalmente dall’Est all’Ovest del paese, ma anche viceversa, soprat-tutto con lo spostamento della capitale da Bonn a Berlino.

L’aspetto urbanistico del paese rispecchia l’antico periodo prece-dente al 1871, in cui la Germania era divisa in diversi Stati sovrani. Visono molti centri regionali attorno ai 500mila abitanti (Francoforte,Stoccarda, Dortmund, Essen, Düsseldorf, Brema, Hannover, Lipsia,Dresda e Norimberga e altri ancora); tre grandi città, come Amburgo(1 770 629 abitanti), Monaco (1 311 573) e Colonia (995 397), e una me-tropoli, Berlino (3 416 255), tornata a essere capitale della Germania(www.citypopulation.germany.de). Questi centri sono stati in gran partericostruiti dopo la Seconda guerra mondiale, a causa delle devastazioniprovocate dai bombardamenti angloamericani e, soprattutto Berlino e lecittà dell’Est, hanno avuto un nuovo impulso edilizio e di infrastrutturein seguito all’unificazione.

Per quanto riguarda la situazione sociale, la Germania sta vivendo unperiodo difficile, in parte a causa dei costi della riunificazione e in partea causa dei mutamenti socioeconomici in atto nel paese. La disoccupa-zione negli ultimi anni si è attestata attorno al 11% circa, una media alta,soprattutto se rapportata al dato che indica che più di un disoccupato sutre è senza lavoro da almeno un anno e uno su cinque da almeno dueanni (Federal Ministry of Labour and Social Affairs 2006), così che il 5%dei tedeschi adulti è disoccupato a lungo termine. La disoccupazione hamarcate connotazioni generazionali, regionali ed etniche. I giovani con

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un basso livello di istruzione, gli anziani, gli abitanti della Germania Este gli immigrati presentano percentuali di disoccupazione più alte ri-spetto alla media nazionale. In particolare, il problema della disoccupa-zione è pressante per gli stranieri, in quanto la popolazione immigrata èmolto più giovane di quella tedesca, vive prevalentemente in grandicentri urbani e proviene da famiglie numerose, spesso a basso reddito ea basso livello di istruzione. Inoltre, gli immigrati soffrono in alcuni casidi discriminazione istituzionale, che può arrivare a colpire perfino laterza generazione, spesso a causa della mancanza dei requisiti necessariper ricevere aiuti statali (Haisken DeNew e Sinning 2007).

I tagli allo Stato sociale hanno indebolito specialmente le famiglie nu-merose e quelle monogenitoriali, contribuendo in tal modo ad aumen-tare il livello di vulnerabilità di queste categorie familiari, soprattuttoper quanto concerne l’aspetto abitativo. Il problema della mancanza dialloggi e di abitazioni adeguate è molto sentito in Germania, anche se ilgoverno è sempre stato attivo su questo fronte, considerando un dirittodi ogni cittadino quello di vivere in un’abitazione dignitosa. Tuttavia, lagrande richiesta di alloggi e le difficoltà economiche hanno contribuito atenere alto il numero dei senza dimora che, nel 2004, si aggirava ancorasulle 292mila unità, una cifra considerevole, anche se contenuta rispettoa quella di 530mila unità registrata nel 1998 (Federal Ministry 2006).

Infine, gli aspetti urbanistici, economici e sociali meritano di essereanalizzati tenendo conto delle due diverse aree geografiche nelle qualiera diviso il paese fino al 1990. Nonostante gli elevati investimenti delloStato federale a favore delle aree economicamente depresse dell’Est delpaese, nella ex Germania Est le città sono in genere meno moderne e fun-zionali che nell’Ovest, l’economia e il tasso di disoccupazione sono ancorain lenta ripresa, mentre il livello di inquinamento ambientale resta allar-mante. Lo smantellamento dello Stato assistenziale socialista – che preve-deva diversi aiuti sociali, soprattutto per le madri lavoratrici, come asilinido gratuiti e scuole a tempo pieno – e i bassi livelli di risparmio conti-nuano a rappresentare una situazione di disagio per le famiglie che vi-vono in questa zona del paese.

Berlino è una città-Stato quindi, oltre a essere una municipalità, co-stituisce anche un Land. È la città tedesca più popolosa (3 416 255 abi-tanti, 3818 abitanti per kmq) e il Land più densamente popolato. Qui si

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riscontrano i problemi sociali sopraelencati (disoccupazione, immigra-zione, rischio povertà, mancanza di alloggi) a un livello più pronunciatodella media nazionale. A seguito della costruzione del Muro nel 1961,Berlino è stata a lungo il simbolo della divisione Est-Ovest del paese.L’abbattimento del Muro nel 1989 ha portato alla fine delle «due Ber-lino» e a una nuova fase nella storia della città che, ritornata a essere lacapitale della Germania unita, è capace di mostrare in sé sia i lati positivisia quelli negativi della nuova Germania, le sue complessità e le sue con-traddizioni.

Dopo la riunificazione e il conferimento di status di capitale, a Berlinosono stati intrapresi moltissimi investimenti volti a promuovere cambia-menti a livello urbanistico e di infrastrutture, come la costruzione dinuovi grattacieli e palazzi governativi in stile moderno. Il sistema di tra-sporto pubblico è stato rafforzato, anche se la richiesta è molto alta, vistoche circa il 50% della popolazione di Berlino non possiede un’auto. Laparte Est di Berlino ha cambiato completamente faccia rispetto al 1989:tantissimi nuovi edifici sono stati costruiti, molti altri sono stati ristruttu-rati, mentre centri commerciali e cinema multisala sono sorti in ognizona. Il costo delle abitazioni è aumentato notevolmente, spingendo di-verse famiglie a lasciare la città o a spostarsi in altri quartieri. Diversezone dell’Est hanno subito il piano di «risanamento» previsto dal go-verno; altre sono diventate importanti mete turistiche e siti di scene arti-stiche alternative. Dato che negli ultimi anni Berlino è stata un enormecantiere, la sua peculiarità e la sua anima sono in costante flusso, tantoche la città non sembra aver assunto ancora un aspetto definitivo.

La nuova Berlino è diventata un importante centro economico-com-merciale e un polo artistico e di tendenza, improntato alla tolleranza ealla diversità. Tuttavia, la situazione sociale mostra in maniera evidentela presenza di diversi elementi di disagio. Il livello di criminalità e vio-lenza è piuttosto elevato per gli standard tedeschi. Il tasso di disoccupa-zione negli ultimi anni non è mai sceso sotto il 10%, con punte fino al16-17%, e riguarda soprattutto i cittadini della parte Est, i cui posti dilavoro sono drasticamente diminuiti dopo l’unificazione, e gli stranieri.Come si è visto nel quadro generale del paese, una parte significativa diquesta disoccupazione è a lungo termine, fatto, questo, che aumenta i ri-schi di povertà e di esclusione sociale. Nel 2006 circa 500mila berlinesi,

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all’incirca 1 su 7, vivevano sotto la soglia di povertà (560 euro al mese direddito per persona), con quasi 1 bambino su 3 che viveva in uno statodi indigenza. Non a caso, metà dei sussidi vengono spesi per bambini egiovani sotto i venticinque anni. Il numero di genitori soli è aumentatodal 28,7% al 37% delle famiglie, con picchi fino al 40% a Berlino Est.Questo dato è allarmante, in quanto i genitori soli sono generalmente amaggior rischio di povertà. Ciò è anche dovuto alla scarsa presenza diasili, che bastano solo per il 35-40% dei genitori soli. Pertanto, il 45%delle madri sole è costretto a rimanere a casa, mentre il 28% dipendedall’assistenza statale. Un maggior rischio di povertà lo corrono anche lefamiglie numerose, le quali in gran parte sono costituite da immigratiche spesso già si trovano in una situazione economica difficile.

Gli stranieri residenti a Berlino sono 477mila, il 14,1% della popola-zione (Intercultural Cities Project 2006). Questa numerosa comunitàstraniera, in cui predominano i turchi, è molto giovane, ha generalmenteun livello di istruzione e capacità professionali basse e a volte mancaanche delle capacità linguistiche per inserirsi nel mercato del lavoro enella società tedesca. Il numero di disoccupati e di persone dipendentidai sussidi è circa il doppio tra gli stranieri che tra i tedeschi (FederalMinistry 2006). Il rischio di povertà è aggravato dal basso livello di istru-zione e di formazione professionale: il 41% degli stranieri non possiede,infatti, alcuna formazione professionale, rispetto invece al 18% dei tede-schi; il 15% non ha mai finito la scuola, rispetto invece all’1,5% dei te-deschi (Engel 2007). La maggioranza degli stranieri di Berlino è di se-conda e terza generazione, e ciò rende quindi ancor più necessaria un’a-nalisi sulle cause che rendono così difficile il loro processo di integra-zione. Certamente il fatto che in Germania prevalga tuttora, malgrado lariforma del 1999, il concetto di ius sanguinis rispetto a quello dello iussoli 1 costituisce un ostacolo, non solo burocratico, ma anche psicolo-gico, all’integrazione degli stranieri.

La suddivisione in quartieri (Bezirk, o più comunemente Kiez) di Ber-lino è passata, dal 1º gennaio 2001, da 23 a 12. I quartieri, pur essendoentità ben definite, con consigli, sindaci e autorità amministrative pro-prie, organizzati in un municipio, non hanno uno status legale separato esono soggetti all’amministrazione cittadina e statale. Uno di questi quar-tieri, su cui concentreremo la nostra attenzione, è Neukölln.

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Neukölln è l’ottavo quartiere di Berlino e la sua composizione è ri-masta invariata dopo la riforma del 2001. È uno dei quartieri più grandie si trova nella parte sudest della città. È esteso per 44,93 kmq e nel 2005aveva una popolazione di 305 915 abitanti (Joint Action CoE e UE2008). Neukölln è tra le comunità più povere dell’intera Germania, conun reddito medio tra i più bassi in assoluto (Kolland 2008). La comunitàstraniera è molto popolosa, rappresentando circa un terzo degli abitantidel quartiere (fino al 50% nella parte nord). Significativa è la presenzadella comunità turca, tanto che i berlinesi si riferiscono a Neuköllncome alla «Piccola Turchia» mentre, di conseguenza, i turchi del quar-tiere chiamano Neukölln «Piccola Istanbul». Invece Sonnenallee, un im-portante snodo commerciale del distretto, è tanto denso di insegne inarabo da essere chiamato «Striscia di Gaza».

Dal programma della UE «Social Cities/Neighbourhood Manage-ment» Neukölln è stato definito un quartiere «dallo sviluppo problema-tico accompagnato da una forte mobilità». È un distretto popolare, a cuispesso ci si riferisce come al «Bronx di Berlino»2 o all’equivalente dellazona centro-sud di Los Angeles. Neukölln è generalmente considerato unghetto per poveri, disoccupati, senza tetto e stranieri. Senza mezzi termini,è spesso riferito dai media come il quartiere peggiore di Berlino e unadelle zone più degradate della Germania. I berlinesi degli altri quartieri e ituristi evitano questa zona della città, in cui si registra un alto tasso di cri-minalità, alcolismo e uso di droghe. A Neukölln il numero di furti e at-tacchi alle persone è triplicato dal 1990, mentre la violenza giovanile è au-mentata del 105% e i giovani registrati come «criminali recidivi» dalla po-lizia sono passati da 48 a 148 negli ultimi due anni (Intervista 1).

Neukölln è stato ed è tuttora un quartiere proletario, ben poco inte-ressato dai mutamenti sociali e urbanistici avvenuti negli ultimi anninella città, che hanno invece cambiato volto alle altre zone di Berlino.Molti lavoratori stranieri giunti in Germania come guest workers hannonegli ultimi anni perso il lavoro nelle fabbriche senza però fare ritorno alpaese di origine come inizialmente previsto dal governo. Le loro scarnecompetenze professionali e il basso livello di istruzione concorrono a farsì che per queste persone sia molto difficile trovare una nuova occupa-zione. La disoccupazione nel quartiere è del 23,4%, con picchi fino al38% nella parte nord. Il 23,7% degli abitanti di Neukölln è considerato

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povero (il 40% nel Nord) e quasi un terzo della popolazione, 88 300persone, il 15,% dell’intera capitale (nessun altro quartiere di Berlino siavvicina a questo livello), dipende dai sussidi sociali (1 persona su 2sotto i 25 anni), mentre il 22% della popolazione è indebitata (Süllke2008). Il quadro sociale è perciò assai deprimente e non lascia spazio adubbi circa la criticità del quartiere.

Questa situazione difficile è riscontrabile anche nel sistema scola-stico. Molte delle 81 scuole del quartiere vengono definite «da horror»per via delle violenze3 che vi accadono, nonostante la presenza di metaldetector all’entrata, oltre che per il pessimo livello di insegnamento e diintegrazione.4 Le difficoltà linguistiche sono evidenti: nella parte Norddel quartiere, in cui i bambini delle elementari la cui lingua madre non èil tedesco sono il 79,9% e, in alcune scuole, raggiungono perfino il 95%(Joint Action CoE e UE 2008), mentre solo il 2% degli insegnanti pro-viene da un background etnico-culturale straniero o ha competenze spe-cifiche nel campo dell’insegnamento a figli di immigrati, poiché le no-mine e i curricula vengono decisi a livello centrale dal Land e quindi nonrispecchiano le necessità locali (Süllke 2008). Il 75% degli studenti nonpaga i libri di testo per via dello stato di indigenza nel quale vivono le fa-miglie. I genitori tedeschi, preoccupati della scarsa qualità dell’istru-zione scolastica a Neukölln, tendono a iscrivere i propri figli a scuole dialtri quartieri, diminuendo ancor più le possibilità di integrazione deibambini stranieri. Tre giovani su quattro nel Nord del quartiere non fi-niscono la scuola o prendono il diploma con il minimo dei voti (ibid.).La situazione dell’istruzione degli adulti non è migliore, visto che il 30%non possiede alcun diploma scolastico (Kolland 2008).

D’altra parte, il quartiere è ben collegato con il resto della città, gli af-fitti bassi attraggono molti giovani, studenti e artisti e perciò la vita not-turna e alternativa si sta sviluppando rapidamente. Molti edifici sono instile Gründerzeit e in apparenza non mostrano segni di degrado. Bi-sogna infine sottolineare, come spesso rimarcato in diversi ambiti, chel’emergenza sociale sembra coinvolgere soprattutto la parte nord delquartiere, mentre la zona a Sud, che racchiude anche aree residenziali,appare caratterizzata da un maggiore benessere sociale.

Se si cammina per la principale via commerciale del quartiere, Karl-Marx-Allee, dove si trovano tanti piccoli negozi e bar, si incontra un gran

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numero di senza tetto, alcolizzati e gruppi di giovani senza lavoro che pas-sano le loro giornate in strada. In questo quartiere è difficile sentire par-lare il tedesco. Da un punto di vista etnico, Neukölln è il quartiere più va-riegato della capitale. Vi abitano 67 500 persone, provenienti da 160 paesi,che non possiedono cittadinanza tedesca: 53mila provengono dall’Europa(25mila turchi, 6800 polacchi, 5700 serbi, 1900 bosniaci), 6800 dall’Asia,2mila dall’Africa e 1400 dalle Americhe. Le stime inerenti ai residenticlandestini si aggirano attorno ai 10mila individui (Joint Action CoE e UE2008). Vi sono approssimativamente 60mila persone di fede musulmana;nel quartiere si trovano 20 delle 80 moschee presenti a Berlino. Moltissimistranieri che risiedono nel quartiere sono disoccupati, una stima parla diuno su due (Pötzl 2008). Nella parte nord del quartiere la situazione è an-cora più grave, con il 50% della popolazione composta da immigrati le-gali5 e circa il 10% da immigrati illegali (Kolland 2008).

Il problema linguistico è molto sentito, dato che buona parte della po-polazione straniera non parla tedesco in modo corretto, o non lo parla af-fatto. La scarsa conoscenza della lingua determina una significativa bar-riera all’inclusione sociale e all’inserimento nella vita lavorativa e ha im-portanti ripercussioni anche sulla vita scolastica della zona. Questa situa-zione è favorita dal fatto che, in alcune zone del quartiere, parlare il te-desco non è necessario per sopravvivere. Si possono persino usare lepagine gialle in lingua turca, in modo tale da non dover ricorrere, nem-meno per esigenze di tipo quotidiano, a codici linguistici diversi dallapropria lingua madre. A proposito della separazione linguistica e cultu-rale delle comunità straniere in questa zona, il sindaco del quartiereHeinz Buschkowsky ha parlato – provocatoriamente – della presenza diuna «società parallela». D’altra parte, uno studio del 2006 di Allensbachdimostra come il 98% dei tedeschi abbia una visione negativa dell’Islam edei musulmani, confermando in tale maniera l’esistenza di pregiudiziverso queste minoranze (ibid.). Tuttavia, la comunità islamica di Neuköllnnon è così omogenea come potrebbe sembrare a prima vista. È divisa fraturchi, mediorientali e magrebini, tra persone provenienti da grandi cittàcome Istanbul e Beirut e altre da aree rurali della Turchia e del Marocco etra immigrati di diverse generazioni e collocati a differenti livelli di inclu-sione sociale. Ogni intervento a favore dell’integrazione degli stranierideve tenere presenti queste diversità.

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La popolazione del quartiere è la più giovane di Berlino, con 54 900abitanti che non superano i 21 anni. I giovani sono in grande maggio-ranza stranieri. Come notato in precedenza, spesso i giovani stranierisono vittime di un circolo vizioso: lasciano presto la scuola e non en-trano nel mondo del lavoro e quindi, anche a causa di difficoltà lingui-stiche e della mancanza di capacità professionali, restano esclusi dallasocietà tedesca. Molti non hanno uno status legale preciso o mancanodella cittadinanza. Questa situazione crea un ulteriore ostacolo alla loropartecipazione attiva alla vita della comunità.

Neukölln è pertanto un quartiere caratterizzato dalla presenza di gio-vani, stranieri, poveri e/o disoccupati, spesso appartenenti a famiglie nu-merose. Le problematiche sociali sono chiaramente interconnesse: lalingua tedesca non viene usata nei contesti familiari perché spesso sonoproprio i genitori i primi a non conoscerla; ciò comporta difficoltà di in-serimento a livello scolastico, tali a volte da causare l’abbandono dellascuola, che a sua volta compromette l’inserimento lavorativo e alimentaal tempo stesso situazioni di dipendenza dai sussidi sociali. Si tratta diuna situazione interconnessa al punto tale da passare in maniera direttadai genitori ai figli. Si riscontra perciò il bisogno di un percorso di inte-grazione che assuma un ruolo centrale rispetto a tutte le altre questioni(Intervista 1).

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

La Germania ha una lunga tradizione di protezione sociale che risale alperiodo bismarckiano della fine del XIX secolo. Questo modello di Statoprevede un’assistenza sociale che assicuri un tenore di vita decente perchi non può permetterselo a causa della disoccupazione, del basso red-dito, delle condizioni fisiche o familiari. Ciò è possibile tramite un si-stema di assicurazioni obbligatorie, di tassazione e di aiuti sociali diretti.Per quest’ultimi vengono testati gli effettivi bisogni dei richiedenti. Lemunicipalità sono incaricate di fornire assistenza sociale e aiuto a tro-vare lavoro ai disoccupati, ma è il governo federale a pagare i sussidi. Al-cuni aspetti fondanti di questo sistema sono il diritto a un’abitazione di-

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gnitosa, l’aiuto alle famiglie con figli e il sostegno all’inserimento socialee lavorativo per i disabili. Le politiche sociali sono finanziate più o menoequamente dagli organi statali ai loro diversi livelli e dai datori di lavoro.

Negli anni novanta questo sistema di sicurezza sociale era diventatotroppo oneroso per le casse dello Stato tedesco, soprattutto a causa dellasua estensione alle aree povere dell’Est del paese e a causa dell’invec-chiamento della popolazione. Oltretutto, il vecchio sistema sembravanon favorire l’inclusione sociale dei beneficiari, poiché si aveva la perce-zione che questi tendessero ad accettare passivamente gli aiuti e a nontrovare gli incentivi necessari per superare i motivi dei loro bisogni di as-sistenza da parte dello Stato.

Alla fine degli anni novanta le spese sociali erano arrivate a costare an-nualmente un terzo del Pil del paese. L’aumento dei costi e i problemi le-gati all’unificazione condussero a un lento processo di cambiamento, cul-minato nel 2004 con l’implementazione delle riforme preparate dallacommissione Hartz. A seguito di queste riforme venne introdotto un si-stema di interventi sociali più rigoroso, basato sui diritti e i doveri dei cit-tadini verso lo Stato sociale, capace di diminuirne i costi. Il sistema socialecontinua ad avere come obiettivo la prevenzione del rischio di povertà, manon punta più ad assicurare ai cittadini la continuazione dello stesso te-nore di vita anche in caso di perdita di impiego o altre emergenze.

La parola chiave adottata per queste riforme è stata «attivazione».Per esempio, le politiche sociali riguardo i disoccupati prevedono menofondi assistenziali, ma un maggiore aiuto a rientrare nel mercato del la-voro tramite corsi, training e processi di lifelong learning. I sussidi ai di-soccupati vengono erogati dallo Stato solo a condizione che essi cer-chino effettivamente lavoro e accettino le proposte di impiego. Questo siriferisce specialmente ai giovani, agli immigrati o agli anziani, che sonoda lungo tempo dipendenti dai sussidi di disoccupazione. Invece di oc-cupabilità, come criterio per i disoccupati, viene usato quello di capacitàdi lavorare, aumentando così la possibilità di richiedere a queste personedi accettare un impiego. Tali cambiamenti, se da un lato spingono a unamaggiore occupazione e a una diminuzione delle spese dei sussidi, dal-l’altra portano a un maggior rischio di povertà per chi, come gli stranierio gli abitanti delle zone dell’Est, si trova costretto ad accettare lavori abasso reddito o a rinunciare, a un certo punto, ai sussidi. Sono stati ap-

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prontati interventi quali la creazione di corsi di apprendistato per gio-vani svantaggiati, la promozione dell’imprenditorialità e l’integrazionedell’economia locale con le politiche di occupazione. Le questioni delmercato del lavoro e dell’occupazione sono gestite a livello centrale tra-mite i Centri per l’impiego, ma diverse responsabilità sono state affidateanche a livello locale insieme ai compiti di assistenza sociale e di svi-luppo economico.

Il nuovo corso delle politiche sociali tedesche è stato espresso dalla«Strategia nazionale per la protezione sociale e l’inclusione sociale 2006-2008». I concetti chiave espressi nel documento per le politiche socialisono responsabilizzazione e partecipazione. La solidarietà deve esserebilanciata, nonostante i tagli delle spese ai sussidi e alle pensioni, conl’attivazione delle persone che ricevono i benefici, mantenendo co-munque un livello di sicurezza sociale per gli anziani, le persone a bassoreddito e le famiglie con figli, come il periodo di congedo dal lavoro permaternità, gli assegni familiari, gli asili nido e il supporto all’istruzionedei figli. I Länder e le autorità locali hanno comunque una certa discre-zionalità e si possono concentrare maggiormente su certi gruppi svan-taggiati o in difficoltà piuttosto che altri. Tra i punti fermi delle politichesociali tedesche si segnala la lotta alla povertà infantile («Nessun bam-bino deve rimanere indietro») e l’aiuto ai giovani in difficoltà tramite iprogrammi di attivazione «Promuovere e richiedere». Infine, diversefondazioni sono finanziate dallo Stato per aiutare i disabili e, nell’otticadella responsabilizzazione, dar loro la possibilità di inserirsi nel mondodel lavoro attraverso training e corsi specifici, l’abbattimento di tutte lebarriere architettoniche e la definizione di quote speciali riservate ai di-sabili nei posti di lavoro.

La questione della presenza di stranieri in Germania è stata seria-mente affrontata solo recentemente attraverso la legge del 2005, con ilriconoscimento ufficiale della Germania come paese di immigrazione, ladefinizione legale dello status di immigrati residenti in Germania e l’isti-tuzione di programmi obbligatori di insegnamento della lingua, di inte-grazione e di orientamento professionale (Intervista 3). Nel 2006 è statovarato il Piano nazionale di integrazione per gli immigrati. I progetti diintegrazione prevedono classi supplementari di lingua e cultura tedescache mirano a ridurre il gap di conoscenze tra gli stranieri, specialmente

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nelle nuove generazioni, per le quali la priorità è fornire gli strumentiper essere competitivi nel mercato del lavoro. Sono stati aperti diversisportelli su tutto il territorio nazionale per favorire l’inserimento degliimmigrati. Alcuni progetti di inclusione mirano a coinvolgere non solostranieri, ma anche tedeschi; altri mirano invece a includere nella societàspecialmente le donne straniere, spesso lasciate in secondo piano all’in-terno delle loro comunità.

A parte questi programmi specifici, il paradosso della strategia di in-clusione sociale per gli stranieri è che questa si debba poggiare soprat-tutto su istituzioni esclusive che servono solo i possessori di cittadinanzao residenza tedesca e non tutti gli abitanti, lasciando così spesso gli im-migrati, senza cittadinanza o senza altri documenti, privi di adeguati so-stegni (Radtke 2003). Oltretutto, le autorità locali possono decidere divolta in volta quali siano le loro priorità e quindi possono trascurare gliaiuti agli stranieri che, non avendo in diversi casi diritto di voto, hannoun minore peso politico rispetto alla comunità tedesca.

Poiché la Germania è uno Stato federale, le questioni sociali vengonotrattate su tutti e tre i livelli (federale, Land e municipale) con distinzionisui diritti e doveri e sulle diverse entrate fiscali. La responsabilità del-l’applicazione delle politiche sociali è demandata alle amministrazionidei Länder e a quelle locali. Tuttavia, le principali attività di welfare –tranne l’istruzione scolastica, che resta di competenza del Land – sonogestite dalle comunità locali. Le autorità locali si occupano di istituireasili, corsi di lingua, centri occupazionali, training, benefici alle famigliee, tramite fondi del governo federale, approntano scuole a tempo pieno.Quindi, i vari servizi sociali di aiuto, di occupazione e di integrazione,che riguardano specialmente i giovani, gli stranieri, gli anziani, i disabilie le famiglie con figli, sono di primaria competenza degli organi locali.Le questioni legate alle politiche migratorie, alle normative generali e aifinanziamenti sono gestite in prima istanza dal governo federale, mentreai Länder compete la formulazione della legislazione e dei programmiche devono essere implementati a livello locale.

Particolare attenzione è stata recentemente rivolta a segmenti di ag-glomerati urbani considerati problematici. Nel 1999 è stato lanciato ilprogramma federale e dei Länder «Quartiere con un bisogno speciale disviluppo», che interviene in modo interdisciplinare dove si verificano in-

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trecci di problemi sociali, economici e urbanistici in alcune zone dellecittà e che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vitadei residenti, compresa la questione abitativa, puntando ad attivare e in-tegrare le popolazioni del quartiere. Tra il 1999 e il 2005 il progetto, fi-nanziato e gestito da tutti e tre i livelli amministrativi della Germania, hatoccato 392 aree e 267 municipalità. Vi sono inoltre altri programmi diazione, come quelli della Città sociale (Nrw) che, stimolando la parteci-pazione, mirano a sviluppare politiche locali per la casa, l’occupazione, el’istituzione di centri sociali e culturali in diversi quartieri.

Le Organizzazioni non governative (Ong) negli ultimi anni hanno au-mentato il loro peso specifico e la loro partecipazione ai programmi e aidocumenti stilati dal governo federale e dai Länder. Le principali Ong alivello nazionale sono: la Caritas, Diakonie, la Congregazione ebraica, laCroce rossa, l’Associazione dei lavoratori e la Pariteta (un’organizzazioneombrello per piccole Ong che si occupano di tematiche specifiche).

A Berlino si riscontra una grande attività da parte delle Ong, spessoin collaborazione con le autorità di quartiere. Berlino partecipa ai pro-grammi del Social Cities/Neighbourhood Management che fanno partedel programma della UE «Urban II» e sono intesi a facilitare l’inclusionesociale degli strati più bassi della società e delle minoranze etniche. Nelcaso di Berlino, questi aspetti riguardano specialmente le comunitàturche in alcuni quartieri della città. Fondamentale in questi progetti è lapartecipazione di Ong locali gestite dai turchi stessi. I team del Neigh-bourhood Management hanno un ufficio in ogni zona interessata e orga-nizzano incontri con i cittadini, le Ong, le istituzioni ed esperti di tema-tiche sociali e di integrazione, creando così una rete e cercando di atti-vare e responsabilizzare i residenti attraverso la loro inclusione nel pro-cesso decisionale del programma.

A Neukölln il Neighbourhood Management ha 9 sedi, che divente-ranno 11 a breve, di cui 8 nella zona nord, in cui si concentrano gli im-migrati, e solo 1 nella zona sud. La municipalità di Neukölln offre il ser-vizio necessario di amministrazione e coordinamento degli uffici. I teamdel Neighbourhood Management propongono progetti locali per mi-gliorare la convivenza delle comunità e la partecipazione dei cittadini at-traverso la presenza di Comitati di zona, in cui tutti i residenti hanno lapossibilità di intervenire, e con la stesura del relativo Action Plan. Tra-

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mite il proprio budget, che è fornito al 50% dalla UE, al 25% dal go-verno federale e al 25% dal Land, i team possono fornire finanziamentida 500 a 5mila euro per piccoli interventi volti al miglioramento delquartiere. Questi vengono spesso svolti da manodopera su base volon-taria. Oltre ai team di Neighbourhood Management, diversi progetti so-ciali sono operativi a Neukölln grazie alla presenza di oltre cento Ong,all’attivismo dei cittadini (il 40,2 % dei residenti fa volontariato per aiu-tare il quartiere a svilupparsi e integrarsi) e alle numerose iniziative pro-mosse dall’amministrazione locale.

La municipalità di Neukölln è molto attiva nel proporre e supportareprogetti sociali e nel coordinare attività di formazione, istruzione e im-prenditoria locale. La strategia utilizzata dalla municipalità per trasfor-mare un progetto in azione concreta segue una prassi definita, partendodal presupposto che le zone di coordinamento locale siano ritenuteidonee alla gestione dei progetti. Questo riconoscimento è stato confe-rito dal governo federale a Neukölln nel maggio 2003. La gestione e l’at-tuazione dei progetti a livello locale rientrano nel programma europeo«Capitale locale per scopi sociali» coordinato, a livello europeo, dalFondo sociale europeo per l’Occupazione, gli affari sociali e le pari op-portunità e, a livello nazionale, dal ministero per la Famiglia del governofederale. Quest’ultimo delega a sua volta un ente nazionale per il coordi-namento e l’attuazione dei programmi. A livello di municipalità, la ge-stione dei progetti spetta al sindaco di quartiere.

Il budget della municipalità (500 milioni di euro all’anno circa) è de-stinato in gran parte a servizi regolati per legge; il rimanente viene inparte usato, unitamente a finanziamenti provenienti dal Fondo socialeeuropeo, dalle fondazioni e dal Neighbourhood Management, per favo-rire l’inclusione sociale dei ceti più deboli e degli stranieri. A tal fine,presso le istituzioni di quartiere nel 2002 sono stati istituiti l’ufficio delRappresentante per la migrazione e l’integrazione e il Comitato sulle mi-grazioni. Nel 2007-2008 il budget assegnato alle politiche sociali è statodi 2 107 041 euro. Sempre nel medesimo periodo, le persone che hannoricevuto sussidi sono state 6161, di cui il 66% donne e il 34% giovani.Nel 2008 il Consiglio della municipalità di Neukölln ha fatto affiggeredavanti alla fermata della metropolitana la dicitura: «Neukölln-Luogodella Diversità», per esibire un segnale chiaro a favore del multicultura-

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lismo. I progetti a favore dell’inclusione sociale sono gestiti direttamentedalla municipalità attraverso la società Neukölln Marketing und Serviceche, prima di approvare formalmente i diversi progetti, vaglia costi eaderenza agli obiettivi attraverso un comitato costituito da rappresen-tanti delle zone di coordinamento dei progetti, delegati dell’amministra-zione locale e protagonisti delle Ong del quartiere. Durante il periodo diattuazione del progetto, la società Neukölln Marketing und Service con-trolla l’attuazione dei progetti approvati e il loro stato di avanzamento.

Il fatto che Neukölln sia considerato un caso estremo per l’inclusionesociale in Germania spinge diversi individui, associazioni e istituzioni aprofondere uno sforzo speciale per migliorare la situazione locale. È si-gnificativo che ogni anno, durante la settimana europea di Berlino,venga allestita a Neukölln la manifestazione «Capitale locale per scopisociali», nella quale attori locali, enti promotori di progetti e cittadinipossono prendere visione dei progetti attuati nel quartiere durantel’anno per favorire l’inclusione sociale. Le attività e le forme di collabo-razione tra società civile e istituzioni pubbliche sono così numerose emultiformi che potrebbero essere illustrate in un capitolo a parte. Quipresentiamo in breve un quadro generale di alcune di esse.

Tramite la municipalità, si è costituito un network tra diverse orga-nizzazioni e istituzioni. Il sopra citato Comitato sulle migrazioni si in-contra ogni mese nella sede del municipio. Partecipano agli incontri 28membri: 12 rappresentanti delle Ong, 6 delle istituzioni scolastiche, dipolizia e di welfare, 6 dei partiti e infine 4 della municipalità. A questesedute spesso partecipano degli ospiti che aiutano ad accrescere la possi-bilità di scambio di informazioni e di esperienze, comprese quelle legatealla raccolta di fondi. La rete istituzionale composta da municipalità, po-lizia e dai team di Neighbourhood Management coopera insieme con leOng, comprese quelle legate a specifiche comunità minoritarie, per far sìche le informazioni circolino e che nessuna famiglia del quartiere ri-manga isolata (Intervista 2). La polizia ha istituito un corpo speciale, ilGruppo di lavoro per l’integrazione (Agim), in cui poliziotti di originestraniera collaborano per l’inclusione sociale dei gruppi etnici emargi-nati e per questo più sensibili a eventuali sirene fondamentaliste. Di-verse attività delle Ong sono realizzate in collaborazione con i centri perl’impiego, finanziati a livello federale e di Länder, per favorire l’alfabe-

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tizzazione, l’apprendimento del tedesco, la fomazione professionale,l’inserimento nel mondo del lavoro e l’imprenditorialità degli stranieri.

Neukölln partecipa al progetto del Consiglio d’Europa «InterculturalCities» che unisce istituzioni locali e Ong nello sforzo di favorire l’integra-zione e l’interculturalità. Attraverso questo progetto, nel 2007 e 2008 sonostati lanciati diversi programmi per promuovere l’integrazione socialedegli immigrati e per incentivare la diversità e la tolleranza, come peresempio la «Campagna di Neukölln per il rispetto e la democrazia». Que-st’ultima aveva lo scopo di coinvolgere i giovani in attività artistiche a so-stegno della democrazia, mentre i residenti venivano incoraggiati a scri-vere o a produrre fotografie a favore della diversità e della tolleranza. Ilconsiglio culturale di zona ha promosso e tuttora promuove un approcciointerculturale e la partecipazione degli immigrati ai suoi programmi. Ilprogetto «Impresa Neukölln per lo sviluppo di potenziali luoghi turistici»mira a promuovere gli aspetti positivi del quartiere, anche attraverso un fil-mato promozionale dal titolo Neukölln Always Comes Around Differently:300 Seconds Neukölln, girato con l’apporto di protagonisti locali. Si cercadi attrarre investimenti in alcune zone attraverso una rete di rapporti trapersone d’affari di differenti gruppi etnici. Diversi festival culturali sonoorganizzati ogni anno. Alcuni di questi, come il Carnevale di Neukölln, ilfestival internazionale, e il festival multietnico «48 Ore Neukölln», orga-nizzato tramite un network di artisti e di animatori culturali, attirano per-sone dall’intera città e anche da fuori Berlino.

Oltre a quelli sopra citati, sono presenti nel quartiere interventi più spe-cifici. Nelle scuole sono stati istituiti vari servizi, come il tempo pieno ecorsi di mediazione dei conflitti. Vengono organizzati corsi di lingua te-desca per genitori di bambini delle elementari concepiti in modo da farpartecipare i genitori assieme ai propri figli e iniziative rivolte ai genitoriper prevenire la violenza giovanile. Diverse attività sono promosse dalle au-torità locali per aumentare le capacità linguistiche della popolazione delquartiere in collaborazione con le associazioni di immigrati, come peresempio il programma «Tedesco come seconda lingua», presso la scuolaper adulti Otto Sühr. Il centro per l’istruzione degli adulti di Neuköllnoffre corsi di integrazione, di lingua e di alfabetizzazione per immigranti erifugiati. I rappresentanti delle persone disabili del quartiere hanno for-mato una rete con le organizzazioni di immigrati per una campagna a fa-

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vore degli immigrati disabili, volta ad aiutarli anche dal punto di vista lin-guistico e informativo. Le autorità di zona collaborano con la Caritas peraiutare gli immigrati anziani. Inoltre, sono stati approntati servizi di so-stegno ai lavoratori autonomi stranieri e a favore della cosiddetta «eco-nomia etnica».

Tra le Ong è attiva la Fondazione civica Neukölln, che è gestita da di-versi gruppi di immigrati e promuove le pari opportunità. La Fonda-zione comunità di Neukölln, istituita nel 2005, è un network per il la-voro di comunità. L’associazione Cittadini aiutano cittadini offre inveceun servizio base di informazione in lingua araba e turca nel municipiodel quartiere. La Fondazione cittadini di Neukölln racchiude rappresen-tanti del mondo del lavoro, della cultura, delle Chiese e della politica epromuove la partecipazione degli abitanti al miglioramento della vita diquartiere. La Casa dei giovani avvocati di Neukölln aiuta gratuitamente ibambini, i giovani e le loro famiglie ad affrontare eventuali problemi le-gali. L’Associazione dei lavoratori (Awo) svolge diversi progetti sociali afavore dei giovani e dell’integrazione. Tramite finanziamenti da parte dalgoverno federale è stata costituita la Casa interculturale e multigenera-zionale, dove si incontrano persone di tutti i paesi e generazioni e ven-gono svolti vari corsi e progetti per il tempo libero. La Caritas, Diakoniee la comunità islamica sono attive nel campo sociale e svolgono diversiprogrammi nel quartiere. In seguito analizzeremo in modo specifico leattività di Diakonie a Neukölln, come esempio di organizzazione pre-sente sul territorio capace di proporre progetti innovativi a favore del-l’inclusione sociale.

3. Diakonie-Neukölln

Diakonie è un’organizzazione di assistenza sociale della Chiesa prote-stante tedesca. Rappresenta un’unione di diverse istituzioni che operanoin diversi campi e in diversi luoghi della Germania e del mondo, com-prendendo ospedali, asili, ospizi per anziani e ostelli per giovani. Noncostituisce un apparato gerarchico, ma è un’organizzazione decentraliz-zata in cui l’elemento comune è l’appartenenza alla Chiesa protestante.Diakonie è pertanto più simile a una federazione che a un organismo

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unitario come la Caritas.6 Il suo raggio di azione rispecchia la diffusionedella religione protestante in Germania. Oltre ai finanziamenti governa-tivi, Diakonie riceve fondi da donazioni tramite un’intensa attività difund raising e, in minima parte, direttamente dalla Chiesa protestante(Intervista 4). Diakonie ha rappresentanti a livello istituzionale che svol-gono attività di lobby e partecipano a diversi gruppi di lavoro su tema-tiche sociali e di integrazione.

Diakonie offre «diversi servizi in diversi luoghi per diverse persone»(Intervista 3). I suoi programmi si occupano di anziani, giovani, bam-bini, immigrati, poveri, disabili, senza tetto, madri sole e malati. Tut-tavia, per principio Diakonie è aperta a tutte le persone che sentono bi-sogno di aiuto. Il suo lavoro è basato principalmente su progetti checoinvolgono volontari, personale interno e professionisti esterni. Perquanto riguarda il reclutamento di personale volontario, Diakonie,sempre in relazione alla sua appartenenza alla Chiesa evangelica, haun’agenzia chiamata Charisma, che attrae volontari in tutto il paese. L’o-rientamento di Diakonie è inserire i volontari solo in progetti nei qualihanno particolari competenze e motivazioni.

Lo spirito dei programmi di Diakonie è quello di attivare la cittadi-nanza, di «aiutare a capire come farsi aiutare e aiutare se stessi». Alcunidei progetti che fanno riferimento a Diakonie sono legati alla Chiesaevangelica. Si tratta in particolare di: «Vetk» (Supporto per la vita quoti-diana dei bambini), «Vekp» (Supporto per la sanità) e «Fej» (Aiuti pergiovani problematici). Diversi progetti sono svolti tramite contratti si-glati con le autorità federali e statali per fornire servizi alla popolazione,spesso di fatto facendosi carico di servizi di solito prestati da enti pub-blici, come i centri di consulenza riguardo il nuovo sistema assicurativo.Un altro servizio svolto su base nazionale è il Patenmodell che tramite456 JobPATEN (assistenti), aiuta l’inserimento lavorativo di giovani,spesso stranieri o disabili, attraverso l’orientamento, la formazione e ilsupporto operativo. Nel periodo che va dalla nascita del progetto al 19dicembre 2007, i JobPATEN hanno aiutato 1298 persone (342 a Berlino),ottenendo 501 inserimenti lavorativi (94 a Berlino). Un altro programmache mostra il modo di operare di Diakonie è il progetto «Die GEBEWO»chiamato «Reichtum 2» (Regno 2). Si tratta di un progetto nato il 2maggio 2007 che consente a 21 adulti alcolisti senza casa di essere rein-

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seriti nella società attraverso un periodo iniziale di inserimento in unastruttura idonea. Il reinserimento si basa sulla diffusione, tramite imedia, dell’iniziativa per stimolare famiglie e coppie di cittadini a «adot-tare» e prendersi cura direttamente di queste persone in difficoltà.

Nel caso specifico qui presentato del quartiere di Neukölln, Diakoniesvolge diverse attività in modo decentralizzato, con differenti edifici adi-biti a specifici servizi. L’idea di istituire i centri in luoghi diversi, inveceche avere un’unica struttura che comprenda tutti i servizi, fa parte, comeaccennato, del modus operandi di Diakonie. Questa suddivisione opera-tiva viene incontro alla necessità di posizionare le strutture nelle aree piùbisognose del quartiere, una soluzione particolarmente adatta perNeukölln dato che nel quartiere in genere gli abitanti «si muovono po-chissimo, quasi sempre a piedi, perciò bisogna portare i servizi vicino aloro» (Intervista 1). Le persone a cui sono indirizzati in special modo i ser-vizi nel quartiere sono quelle con problemi mentali, i disabili, i senza tetto,le persone affette da dipendenze, i bambini, i giovani, gli anziani, le fami-glie, i genitori soli e gli immigrati.

Diakonie si propone come centro interreligioso e interculturale. Seb-bene sia un’organizzazione legata a una Chiesa, la questione confessionalenon ha un ruolo discriminante nelle attività di Diakonie-Neukölln. Oltre-tutto, nonostante Berlino sia una città a orientamento protestante, nelquartiere solo il 22% della popolazione è membro della Chiesa prote-stante, mentre diverse comunità straniere sono di fede islamica (Intervista3). Nelle strutture di Diakonie si parlano molte lingue usate nel quartiere,quali il turco, l’arabo, il serbo-croato, il greco, il russo e il polacco.

Le attività principali di Diakonie-Neukölln sono suddivise in duecentri aperti al pubblico, oltre a diversi uffici e centri minori. Nel primo, lastazione di Diakonie-Neukölln, ci si occupa di questioni sociosanitarie.Vengono forniti servizi di informazione e di consulenza legale riguardo lequestioni sociali, di supporto per problemi di natura psicologica e per iperiodi pre e post-parto in caso di gravidanze difficili e sono erogati aiutiai genitori soli o alle famiglie numerose. Altri servizi sono esterni alla strut-tura, come visite domiciliari da parte di operatori sociali o infermieri, assi-stenza ai malati, accompagnamento ai disabili e anziani, servizio ambu-lanza per persone che necessitano di un trasporto speciale e assistenza fa-miliare per questioni domestiche o legate alla gestione dei bambini.

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Il secondo centro si occupa di giovani e di immigrazione, con diversiprogrammi di inclusione sociale e partecipazione. Qui l’atmosfera èquella di una scuola multietnica, con corridoi e scale in cui vi è un granviavai di persone, dove si ascoltano lingue diverse e si vedono tratti so-matici di ogni tipo. Si ha la sensazione di poter vivere appieno quella chesempre di più sembra essere la realtà multiculturale della società tedescae occidentale.

In questa struttura da oltre vent’anni sono presenti centri di ascolto econsulenza per immigrati in lingua turca, greca, polacca, russa, araba,francese e olandese. Lo staff dei centri ha lo stesso background etnicodelle persone a cui si rivolge, favorendo così la comprensione dei pro-blemi. Gli immigrati qui possono trovare aiuto circa questioni legali,educative, sociali e politiche. I centri sono aperti a tutti gli abitanti dellazona. L’idea è quella di coinvolgere tutti gli immigrati e gli abitanti delquartiere come un insieme e non in gruppi separati. Tuttavia, non si puòfare a meno di dover approntare servizi ad hoc per persone che non ab-biano sufficiente padronanza della lingua tedesca. Sono inoltre presentialcuni centri interculturali di quartiere, allestiti attraverso fondi federalie statali, che provvedono a creare spazi di incontro tra le varie comunitàe a predisporre classi di lingua tedesca, programmi di integrazione ecentri di orientamento occupazionale, come previsto dalla legge sull’im-migrazione del 2005. Sono presenti classi di lingua solo per donneturche e arabe, in cui si cerca di coinvolgere le partecipanti al di fuoridei tradizionali ruoli loro assegnati dalla comunità di appartenenza, at-traverso la socializzazione nella struttura. È attivo anche un centro di ri-ferimento per donne greche, la cui presenza rimarca il fatto come la que-stione di uguaglianza di genere assuma un ruolo importante nelle attivitàdi questa sede di Diakonie.

Oltre alla questione femminile, particolare attenzione è rivolta aibambini e ai giovani. In questa struttura si trova un centro di consulenzaper giovani immigrati con lo scopo di aiutarli a adattarsi al nuovo am-biente, a trovare il giusto corso di lingua, la scuola più adatta alle pro-prie esigenze o a inserirsi in un corso di formazione, in uno stage e a tro-vare un lavoro. Gli operatori aiutano i giovani a compilare documenti emoduli per le autorità tedesche. Sono affrontati problemi scolastici, le-gali, familiari e di dipendenze attraverso supporti psicologici e attività di

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gruppo. Nel centro vengono anche fornite informazioni ai genitori sulsistema di istruzione e si offrono consulenze familiari. Una particolareattenzione è dedicata al supporto scolastico pomeridiano per bambini indifficoltà e per ragazzi, in modo da aiutarli a impiegare proficuamente iltempo libero e a tenerli lontani dalla strada. Nella stessa struttura sitrova un centro di ricreazione e si tengono corsi di danza.

Un altro compito svolto da questa sede di Diakonie è quello di favo-rire l’integrazione delle comunità di tedeschi provenienti dall’ex UnioneSovietica. Gli operatori di Diakonie cercano di mediare con la comunitàdi quartiere facendo conoscere queste persone ai loro vicini e facendoliparlare tra di loro, per promuovere la loro inclusione sociale e realizzareun processo di integrazione non uni, ma bidirezionale tra i nuovi arrivatie i vecchi residenti (Intervista 3).

Come si è visto, Diakonie-Neukölln propone diversi programmi eprogetti a favore delle fasce più deboli della società e dell’integrazionedegli immigrati. Vi sono alcune strutture che racchiudono molti uffici ecentri di aiuto e di formazione di vario genere, inclusi interventi specificiper alcune comunità, per donne, bambini e ragazzi. Diakonie-Neuköllnmira a integrare gli immigrati tramite la loro partecipazione e responsa-bilizzazione e la negoziazione e mediazione con la comunità di quartiere.L’esempio più significativo e interessante di questo tipo di approccio sipuò riscontrare nel progetto «Madri di quartiere».

Esempio di progetto di Diakonie-Neukölln: «Madri di quartiere»Il progetto è stato ideato nel 2000 nell’ambito di una conferenza svoltasia Neukölln sulle problematiche legate al tema della disoccupazione, unadelle principali piaghe sociali del quartiere e un fenomeno sociale legatoalla scarsa qualificazione professionale, alle difficoltà linguistiche e albasso livello di istruzione particolarmente diffusi tra la popolazione stra-niera. L’idea di fondo è stata quindi quella di prevenire l’emarginazionee la povertà delle nuove generazioni di immigrati, partendo dalla base:dai bambini dell’età dell’asilo e delle elementari. Si è constatato come,fin dalla tenera età, si gettino le basi dell’esclusione sociale degli stra-nieri. Questi arrivano a scuola spesso senza conoscere la lingua tedesca ela realtà che li circonda e hanno difficoltà di apprendimento e di socia-

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lizzazione (Intervista 3). Questa difficile situazione di partenza portaspesso a scarsi risultati scolastici, i quali, conseguentemente, ostacolanol’inserimento nel mondo del lavoro e l’integrazione nella società tedesca.Il risultato è l’esclusione sociale, la povertà, la dipendenza dai sussidipubblici per il sostentamento e infine la riproduzione degli stessi disagiper la futura prole. Il ruolo di integrazione sociale tipicamente deman-dato alla scuola e alla famiglia in questo caso non funziona. A Neuköllnle scuole sono spesso luoghi dove le varie comunità etniche si dividono esi ghettizzano e dove si parla poco e male il tedesco. Nelle famiglie diimmigrati poveri che vivono di sussidi sociali spesso il bambino è l’unicomembro della casa a doversi alzare al mattino presto e manca la culturadel lavoro. Si riscontra inoltre una grande ignoranza della realtà tedescae del sistema educativo locale. I genitori in molti casi non possiedono leconoscenze linguistiche e non conoscono il funzionamento del sistemaper poter seguire l’andamento dei loro figli a scuola e per accertarsi chequesti frequentino le classi. Diverse donne arabe e turche arrivano dapiccoli centri del loro paese di origine in seguito al matrimonio e perciònon conoscono nulla della Germania, ignorano del tutto la lingua te-desca e non hanno mai lavorato e allevato un figlio in questo contesto(Intervista 3). Spesso i mariti costringono le loro mogli in un ruolo su-balterno, privandole della possibilità di apprendere nuove concezioni edi integrarsi nella realtà locale. Sono inoltre presenti nuclei familiari pro-venienti dal Libano che hanno vissuto per generazioni nei campi pro-fughi e che, fino al 2005, in qualità di rifugiati non potevano lavorare emandare i figli a scuola ed erano perciò rimasti segregati dalla società,mentre ora non solo possono, ma devono anche trovare un lavoro, impa-rare la lingua e provvedere all’istruzione dei figli.

Il progetto «Madri di quartiere» è stato strutturato nel 2003, ma èoperativo solo dal 2005, grazie al buon esito di un progetto pilota delfebbraio 2005, che ha permesso di ottenere i finanziamenti necessari. Ilprogetto parte dall’obiettivo di formare un network con i genitori perspiegare loro perché è importante mandare i bambini all’asilo e ascuola, rinforzando continuamente l’autocoscienza dei genitori nel rap-porto con i propri figli e allo stesso tempo con le autorità scolastiche lo-cali. Si innesca quindi un processo di negoziazione che porta alla parte-cipazione e alla responsabilizzazione dei genitori nell’istruzione e nella

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crescita dei loro figli, volto a porre le basi per l’inclusione sociale diquest’ultimi. L’obiettivo del progetto è fornire, tramite le madri diquartiere, le informazioni necessarie ai genitori su tutti gli aspetti ri-guardanti l’istruzione dei figli ed eliminare le false credenze, comequella che afferma che basta la televisione per far imparare il tedesco aifigli (Intervista 3).

Le madri di quartiere sono madri o nonne di origine araba, curda,turca o bosniaca che abitano a Neukölln e che, da una parte, hanno giàavuto l’esperienza di crescere un figlio nella realtà del quartiere,mentre, dall’altra parte, desiderano trovare un impiego. Quindi, il pro-getto attiva delle risorse locali e soprattutto ha la caratteristica fonda-mentale di aiutare famiglie non di lingua tedesca, tramite l’avallo dellapropria lingua madre, principalmente araba e turca. Il programma èpossibile tramite la partecipazione di diversi soggetti: Diakonie prov-vede a fornire alle madri di quartiere un training di sei mesi sulle tema-tiche necessarie, tramite sei collaboratrici pedagogiche, e una continuasupervisione; il centro per l’impiego fornisce lo stipendio alle madri7 ela municipalità, sotto forma di assessorato per lo Sviluppo del Land diBerlino, provvede al coordinamento e all’amministrazione del progetto.Il centro per l’impiego usa i fondi federali e statali, mentre Diakonie at-tinge da fondi statali e dal Fondo sociale europeo per pagare il propriopersonale.

Le partecipanti al programma durante il periodo di training impa-rano le nozioni basilari relative all’educazione e all’istruzione dei bam-bini, al funzionamento delle istituzioni prescolastiche e scolastiche aBerlino, alle dinamiche per rinforzare l’autocoscienza dei genitori nelrapporto con la scuola dell’obbligo e alle modalità per stimolare colla-borazioni il più possibile rispettose fra il personale docente e i genitori.Una volta terminato il periodo di training, le madri di quartiere visitanoa casa le famiglie di immigrati per dare consigli e informazioni riguardoqueste tematiche, utilizzando la lingua e i parametri culturali necessariper farsi comprendere e accettare da queste. Nello specifico, le madri diquartiere trattano dieci questioni durante dieci incontri con le famiglie:la scuola materna e il sistema scolastico, lo sviluppo sessuale dei bam-bini, la prevenzione di incidenti, i diritti dei bambini, il loro sviluppo fi-sico, lo sviluppo della parola, la prevenzione all’uso di droghe, l’educa-

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zione all’utilizzo dei media, lo sviluppo motorio e la nutrizione correttadei figli. Gli incontri sono strutturati in modo preciso e con scadenze re-golari. Durante le loro visite le madri di quartiere introducono anche iprincipi base della democrazia, dell’uguaglianza di genere e della pre-venzione alla violenza nel contesto familiare (Intervista 3).

Le madri di quartiere sono suddivise in diverse aree di Neukölln;ogni area ha il suo team che si incontra settimanalmente con un coordi-natore per affrontare i problemi riscontrati e trovare soluzioni per le si-tuazioni particolarmente difficili. Le partecipanti sono coinvolte in atti-vità formative anche dopo i sei mesi iniziali. Diakonie, per esempio, pre-para corsi per aiutare le operatrici a comunicare con le famiglie in modoappropriato, evitando di urtare la loro sensibilità, e per riuscire a usare ediffondere la grande quantità di informazioni che hanno ricevuto du-rante il periodo di preparazione.

Tra gli scopi principali del progetto vi è quello di motivare, attraversole madri di quartiere, le famiglie di immigrati a mandare i loro figli all’a-silo già all’età di due anni per favorire l’apprendimento della lingua el’integrazione sociale, così da essere meglio preparati ad affrontare lascuola. Spesso il compito non è semplice, giacché quasi sempre le madri,se non anche i padri, sono sempre a casa e quindi non vedono il motivodi spendere dei soldi per mandare i figli all’asilo. Un altro compito im-portante svolto dalle madri di quartiere, oltre alla diffusione di informa-zioni, è quello di coinvolgere e aiutare le famiglie a seguire i progressidei figli a scuola, fino ad andare loro stesse a parlare con gli insegnantidei bambini per capire meglio la situazione e spingere i genitori a inter-venire. Le madri di quartiere cercano anche di spingere le famiglie a uti-lizzare la biblioteca comunale e di convincere i genitori a giocare con iloro bambini almeno un’ora al giorno. Leggere ai propri figli, parlare egiocare con loro è utile anche se questo avviene in una lingua diversa daltedesco, poiché è provato che, se si impara bene la propria lingua, poi èpiù semplice impararne una seconda (Intervista 3).

Uno degli aspetti positivi del progetto è il fatto che le madri di quar-tiere riescano a diventare modelli di partecipazione e integrazione per lefamiglie di immigrati in generale e per le donne disoccupate di originestraniera in particolare. Percorrono il quartiere con una borsa e unasciarpa rosse, così da essere ben visibili alla comunità. Spesso diventano

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rappresentanti dei genitori nei consigli scolastici e prendono parte aiconsigli di zona. Questo aspetto aiuta anche a fornire sia al personaledocente, sia agli altri genitori del quartiere, competenze di tipo intercul-turale. Alcune madri di quartiere sono anche riuscite, tramite sussidi sta-tali, ad aprire un piccolo caffè in cui incontrarsi e rendere note le loro at-tività nella zona. Il sindaco di Neukölln contribuisce alla visibilità e al ri-conoscimento del ruolo delle madri di quartiere approntando una ceri-monia speciale per la consegna degli attestati a fine corso, attirando intal modo l’attenzione dei media e della cittadinanza.

Nel periodo che va dal 2006 al 2008, sono state formate 159 madri diquartiere. Quelle attualmente attive sono 115, di cui 92 retribuite con uncontratto di lavoro annuale e 23 retribuite a forfait. Le famiglie rag-giunte nel periodo preso in esame sono state 1457. Ciascuna di queste èstata visitata dieci volte dalle madri di quartiere. I risultati sono finorapositivi, anche se si basano su valutazioni qualitative fornite dalle stessemadri di quartiere. Le operatrici hanno segnalato un alto livello di igno-ranza da parte delle famiglie riguardo le tematiche trattate e l’effetto po-sitivo delle informazioni da loro divulgate. L’unico dato quantitativopresente riguarda un campione di 80 famiglie: di queste, 56 hanno di-chiarato di aver mandato il proprio figlio all’asilo in anticipo rispetto alleproprie convinzioni, a seguito dell’intervento delle madri di quartiere. Aogni modo, avendo ottenuto buoni risultati il progetto ha già ricevuto ifinanziamenti per poter procedere, ampliando perfino il target di inter-vento, per tutto il 2009-2010. Diakonie-Neukölln ha già ottenuto contri-buti per il valore di 3,8 milioni di euro per finanziare l’intero progetto,così che mira ad arrivare a coinvolgere nel 2009-2010 3mila famiglie, in-cludendo anche ragazzini fino ai dodici anni. Lo scopo è fornire sup-porto anche nella fase cruciale della preadolescenza e radicare maggior-mente il ruolo delle madri di quartiere all’interno delle istituzioni scola-stiche. Un altro obiettivo per il nuovo biennio del progetto è allargarel’area geografica di intervento, toccando tutta la zona nord di Neuköllne il quartiere adiacente di Gropiusstadt.

Uno degli aspetti più positivi del programma è la progressiva costitu-zione di una rete tra i soggetti coinvolti (Diakonie, municipio e centroper l’impiego) e altri istituti pubblici e privati. Per esempio, l’aziendaprivata di raccolta rifiuti ha chiesto e ottenuto che, nei corsi di forma-

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zione delle madri di quartiere, possa intervenire un loro esponente chespieghi il principio della raccolta differenziata; in cambio di una sponso-rizzazione di 3mila euro per le borse rosse delle operatrici e per il mate-riale di formazione e addestramento da consegnare poi alle famiglie. Ilcorpo di polizia invia un suo membro per spiegare alle partecipanti iprincipi della prevenzione e della sicurezza, mentre il tribunale dei mi-nori si interessa affinché vengano spiegati il bisogno della partecipazionescolastica e i rischi del diffondersi della criminalità giovanile. Molte altreorganizzazioni, come la Lega antifumo e la Tutela contro la violenzasulle donne, spingono per poter partecipare alla formazione delle madridi quartiere, così da poter far pervenire i loro messaggi a famiglie di im-migrati, spesso chiuse rispetto alla società tedesca.

Il progetto «Madri di quartiere» mostra quindi la capacità diDiakonie di promuovere programmi insieme ad altri enti e di saper coin-volgere la comunità e diverse istituzioni nel suo sforzo di favorire l’inte-grazione dei figli degli immigrati, cercando di eliminare i futuri disagidelle nuove generazioni fin dalla tenera età. I concetti di responsabiliz-zazione, attivazione, partecipazione e negoziazione sono presenti inquesto programma e coinvolgono sia le donne, che svolgono il lavoro dimadri di quartiere, sia le famiglie a cui si rivolgono. Le prime hannol’opportunità di lavorare e di trasmettere le proprie conoscenze e capa-cità di mediazione, le seconde vengono spinte a conoscere e interagirecon la realtà circostante attraverso l’aiuto delle operatrici e a prendersicura dell’integrazione e dello sviluppo dei propri figli all’interno dellasocietà tedesca. Il progetto è in continua espansione e, nei prossimi anni,dovrebbe estendersi e perfezionarsi grazie alle esperienze fin qui accu-mulate. Certamente sarebbe utile non solo raggiungere un maggior nu-mero di famiglie, ma che anche altre comunità fossero coinvolte, così daevitare di lasciare anche le più piccole comunità (per esempio, quellairaniana o afgana) isolate.

4. Conclusioni

La Germania, Berlino e in particolare il quartiere di Neukölln mostranocome le problematiche relative all’integrazione e all’inclusione sociale

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degli immigrati non si risolvano semplicemente con il passare delle ge-nerazioni. Al contrario, la povertà, la disoccupazione, la dipendenza daisussidi e l’esclusione vengono riprodotti di generazione in generazione,formando un circolo vizioso da cui è sempre più difficile uscire per glistranieri residenti in Germania. Questa situazione rappresenta un mo-nito per paesi di più recente immigrazione come l’Italia, dove interventispecifici dovrebbero essere approntati al più presto in modo da evitare ilriprodursi di situazioni di disagio e isolamento, come quella che si ri-scontra nel quartiere di Neukölln.

Diakonie-Neukölln fornisce un esempio di come si possa provare adaffrontare e prevenire queste situazioni tra le comunità immigrate. Fon-damentale è la presenza di centri di intervento nelle diverse zone delquartiere, in modo da poter operare direttamente ovunque ce ne sia bi-sogno, invece di attendere che le persone si rivolgano a una struttura cen-tralizzata, lontana dalla realtà in cui vivono.

Un secondo aspetto significativo è rappresentato dalla collabora-zione con le diverse istituzioni pubbliche, con cui si possono suddivi-dere i ruoli e le responsabilità, nonché la formazione di reti con queste ealtre iniziative private. È inoltre importante predisporre programmi didiverso tipo, alcuni mirati a certi gruppi di immigrati o a certe categoriedi persone, come donne o giovani, altri invece aperti a tutti e che cer-chino di coinvolgere anche la comunità tedesca attraverso un’opera dimediazione.

Come si è visto nel caso delle madri di quartiere, tramite un’azionedi rete è possibile predisporre progetti in cui si riesca a ottenere undoppio risultato: da un lato attivare persone straniere attraverso un im-piego, dall’altro intervenire, tramite queste, in contesti di famiglie di im-migrati che diversamente non sarebbe stato possibile coinvolgere. Inquesto modo i genitori diventano partecipi e responsabili dell’integra-zione dei propri figli, con lo scopo di evitare di riprodurre sui minori glistessi disagi e problemi che hanno ostacolato il loro inserimento nellasocietà.

Naturalmente, un intervento sulle nuove generazioni è fondamentaleper interrompere il pericolo di un circolo vizioso presente nelle comu-nità di immigrati che spesso porta all’esclusione sociale, ma resta il pro-blema di riuscire a coinvolgere un numero significativo di famiglie e di

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trovare soluzioni anche per le persone adolescenti o adulte, soprattuttonell’area dell’occupazione. Se il tessuto sociale in cui crescono i bambiniimmigrati rimane pervaso da problemi di disagio sociale, la loro integra-zione non solo rimane problematica, ma potrebbe portare anche ascontri e incomprensioni all’interno delle famiglie.

Anche la questione dei finanziamenti rimane una nota dolente. Seb-bene diverse soluzioni siano state trovate tramite reti con istituzioni esponsor, il programma «Madri di quartiere» ha incontrato, sin dall’i-nizio, diverse difficoltà operative. Un programma che mira ad avere unimpatto sul futuro delle comunità di immigrati richiederebbe una mag-giore sostenibilità finanziaria e una crescente capacità di intervento,giacché, come abbiamo visto, le comunità straniere, e in particolar modoquelle musulmane, non costituiscono un insieme omogeneo di cultureed esperienze.

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INTERVISTE

Intervista 1: Rappresentante per gli Affari europei e internazionali dell’Ufficiodel sindaco del municipio di Neukölln-Berlino.

Intervista 2: Rappresentante per Migrazione e integrazione dell’Ufficio del sin-daco del municipio di Neukölln-Berlino.

Intervista 3: Social Manager di Diakonie-Neukölln di Berlino.Intervista 4: Ufficio centrale di Diakonie di Berlino.

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8. Forme e livelli delle strategie di attivazione Il caso di Londradi Viviana De Luca

1. Il contesto

Dopo un decennio di crescita economica, il Regno Unito ha iniziato adavvertire nel corso del 2008 gli effetti della crisi finanziaria ed econo-mica mondiale. Il mercato immobiliare è stato il primo a risentirne;dopo anni di rilevante incremento, i prezzi delle case hanno raggiuntoun picco alla fine del 2007 e da allora sono diminuiti drasticamente.Dopo aver colpito il settore dei servizi finanziari, la crisi si è poi estesaad altri settori dell’economia portando il Regno Unito alla recessione.Gli effetti sull’occupazione sono pesanti: il tasso di disoccupazione regi-strato nei primi mesi del 2009 è il più alto dal 1997.

Prima di essere colpito dalla crisi, il Regno Unito stava vivendo unperiodo di stabile crescita dei livelli occupazionali, grazie anche a poli-tiche del lavoro attive, che hanno favorito il reingresso nel mondo del la-voro di alcune fasce deboli come i genitori soli, le persone disabili e i la-voratori in età avanzata. Tra il 1997 e il 2007 l’occupazione è cresciuta di3 milioni di unità e nello stesso periodo le richieste di contributi di di-soccupazione si sono dimezzate (UK Government 2008). La crescita deilivelli occupazionali ha avuto luogo soprattutto nel settore dei servizi, lacui espansione è andata di pari passo con il processo di deindustrializza-zione avviato negli anni settanta e ottanta.

Questa riconfigurazione produttiva e occupazionale ha tuttavia av-viato anche significativi processi di segmentazione del mercato del lavoro

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e di differenziazione nei livelli di reddito. Accanto alle attività terziarie adalta produttività del settore finanziario e assicurativo, si è sviluppato unampio settore di servizi a bassa produttività e a bassa qualificazione dellavoro che ha assorbito gran parte dei soggetti in via di re-inserimento nelmercato occupazionale.

Il trade-off tra espansione occupazionale nei servizi e flessibilizzazione deirapporti di lavoro ha avuto come esito, soprattutto in questo paese, certa-mente l’ingresso nel mercato del lavoro di soggetti più marginali rispettoai tradizionali segmenti centrali; ma anche la crescita dei livelli di disu-guaglianza nella redistribuzione all’interno del terziario tra occupazioniad alta produttività e alto reddito e impieghi scarsamente qualificati e abassa retribuzione (Ciarini 2008, p. 137).

Queste caratteristiche dell’economia e del mercato del lavoro del RegnoUnito sono state particolarmente evidenti nella capitale, dove la ricon-versione dal settore manifatturiero a quello dei servizi è avvenuta drasti-camente. Si stima che a Londra, dal dopoguerra a oggi, vi sia stata unaperdita di 750mila posti di lavoro nel settore manifatturiero, di cui quasi400mila solo dal 1984 a oggi. Al contrario il settore dei servizi, in parti-colar modo quelli finanziari, è stato fino al 2008 in continua crescita e hafatto in modo che Londra partecipasse per il 18% al Pil del paese e al15% della sua occupazione (Gla 2008). A Londra come in altre globalcities (Sassen 1991), tuttavia, l’espansione del settore dei servizi finan-ziari ha anche esacerbato le disuguaglianze e la polarizzazione sociale edeconomica.

Nella metropoli lavorano persone con gli stipendi più alti del paesea fianco di lavoratori che percepiscono salari che sono di fatto al disotto della soglia di povertà, se messi in relazione al costo della vita; nel2004 nella capitale si percepivano in media 13,46 sterline all’ora, ma il21% dei londinesi non raggiungeva le 7sterline all’ora (London Equali-ties Commission 2007). Secondo una stima del Dipartimento del la-voro e delle pensioni il 27% delle famiglie che abitano a Londra vivesotto il livello di povertà;1 questa stima arriva fino al 34% in alcuniquartieri. Alle disuguaglianze di reddito contribuisce certamente lasproporzione nei livelli di formazione all’interno della popolazione

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londinese. Oltre il 50% degli abitanti della capitale non ha le compe-tenze matematiche e linguistiche che ci si aspetta da una persona cheha completato il ciclo delle scuole primarie, e 600mila londinesi nonhanno alcun titolo di studio. D’altra parte è cresciuta a Londra, finoalla recessione, la richiesta di personale qualificato. Secondo un son-daggio del 2006 circa il 43% dei posti di lavoro sono occupati da per-sone con almeno un titolo di studio universitario di primo livello esembra che questa tendenza andrà crescendo; sempre di più, dunque,la mancanza di una formazione adeguata inciderà sulla possibilità diaccedere al mercato del lavoro.

Alla polarizzazione geografica della povertà ha contribuito anche ilmercato immobiliare che, fino al recente crollo, ha visto i prezzi dellecase aumentare in maniera sproporzionata rispetto ai salari e con untasso di crescita differenziato a seconda dei quartieri. L’aumento dise-guale nei prezzi delle case, insieme alla distribuzione poco omogeneadi edifici di edilizia pubblica, ha contribuito al formarsi di comunitàseparate, o addirittura segregate, che rischiano di rimanere intrappo-late in circuiti di povertà e deprivazione. D’altro canto, gran parte dellecase popolari londinesi sono state vendute dalle autorità durante glianni ottanta senza che vi fossero nuovi investimenti per la costruzionedi case a canone moderato. Di conseguenza negli ultimi anni è aumen-tato il numero di famiglie che vivono in abitazioni temporanee e il nu-mero di persone senza dimora: tra aprile 2007 e marzo 2008 le organiz-zazioni che si occupano di senza dimora sono entrate in contatto per lestrade con 4077 persone, il 10% in più rispetto all’anno 2005-2006(Chain 2008).

Neanche il recente crollo dei prezzi ha facilitato l’accesso alla casa,almeno negli strati più poveri della popolazione; anzi, a causa della crisidei mutui e dell’aumento della disoccupazione, accendere un mutuo èdiventato più difficile e aumenta il numero di persone che, non riu-scendo più a pagare il mutuo, rischia di perdere la casa (GovernmentOffice for London 2008). La crisi sembra dunque inevitabilmente ali-mentare le disuguaglianze che già nel periodo di crescita economica sistavano delineando.

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2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

Negli ultimi tre decenni il sistema di welfare del Regno Unito è stato ca-ratterizzato da un’accentuata residualità delle prestazioni sociali, un in-tervento pubblico limitato e una tendenziale impostazione di mercato;«tra Stato, mercato, e famiglia, in questo paese è il mercato a rappresen-tare il principale meccanismo di integrazione sociale» (Ciarini 2008, p.131). In particolare, le politiche per il lavoro promosse negli ultimi de-cenni dai governi conservatori prima, e laburisti dopo, si sono caratteriz-zate per uno stringente sistema di condizionalità finalizzato alla ridu-zione della spesa sociale e delle forme di dipendenza passiva dai contri-buti di disoccupazione.

I governi conservatori si sono mossi in due direzioni: da una partehanno promosso importanti sgravi fiscali per rendere più conveniente lapartecipazione al mercato del lavoro rispetto alla fruizione passiva deisussidi, e dall’altra hanno irrigidito le condizioni di accesso ai sussidi ri-ducendo di conseguenza il numero dei fruitori. A fare da sfondo a questaresidualità delle prestazioni, per cui solo coloro che si collocano al disotto di una certa soglia possono accedere al sistema di protezione, èstato promosso un discorso pubblico che stigmatizzava la condizione deldisoccupato dipingendolo come colui che vive alle spalle dell’assistenza eche invece deve essere spinto a reintegrarsi nel sistema produttivo.

Questo tipo di discorso ha permesso ai governi conservatori di pro-muovere un sistema di assistenza fortemente condizionato che ha difatto spinto molte persone disoccupate ad accettare qualunque tipo dilavoro fosse loro offerto, indipendentemente dal tipo di occupazione,contratto e retribuzione; ha poi promosso una concezione della disoccu-pazione come condizione individuale, minimizzando le responsabilitàdel sistema economico e la necessità di interventi di assistenza.

Se in questa concezione la disoccupazione non è un fenomeno struttu-rale connesso al funzionamento del sistema economico, ma dipende so-prattutto dalle biografie di vita dei singoli che scelgono la condizione didipendenza dalle prestazioni assistenziali, invece della ricerca di un im-piego, la risposta in termini di policy non è tanto la solidarietà organiz-

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zata dello stato, ma la riduzione delle prestazioni, il ricollocamento im-mediato nel lavoro e l’individualizzazione del rischio sociale (ivi, p. 132).

Le riforme dei governi conservatori hanno dunque inciso sui livelli occu-pazionali, ma hanno anche contribuito a creare la categoria dei cosiddetti«poveri che lavorano», i working poors, ovvero coloro che pur essendo in-seriti nel mercato del lavoro rimangono al di sotto della soglia di povertà.

Sotto questo aspetto i governi laburisti hanno introdotto alla fine deglianni novanta alcuni elementi di discontinuità, promuovendo programmivolti a ridurre i livelli di povertà tra i lavoratori. Questo è stato realizzato,da una parte attraverso l’innalzamento dei salari minimi e, dall’altra, inve-stendo sulla formazione professionale, in modo da consentire a coloro chesi venivano a trovare fuori dal mercato del lavoro di accedervi nuovamentecon competenze in più da spendere. Anche il carattere stigmatizzante delleprecedenti riforme è stato attenuato, mentre si è cercato di ampliare i ca-nali d’accesso al mercato del lavoro, prestando maggior attenzione ai bi-sogni e alle aspirazioni dei singoli soggetti o gruppi di riferimento.

Tra gli interventi più significativi merita di essere menzionato il NewDeal, un articolato piano di azioni di reinserimento sul mercato del lavoroper diverse categorie di soggetti vulnerabili, disoccupati di lungo periodo,giovani, persone con disabilità e genitori soli, attraverso percorsi che inclu-dono il supporto nella ricerca dell’occupazione, il sostegno al reddito e allaformazione professionale. Negli interventi promossi dal New Deal per-mane l’elemento di condizionalità: il supporto è offerto a fronte di un im-pegno nella ricerca attiva di un’occupazione da parte del soggetto che sti-pula con l’amministrazione pubblica un vero e proprio contratto. Al sog-getto non si offre tuttavia come unica possibilità il rientro immediato nelmercato del lavoro, ma gli si dà la possibilità di scegliere tra lavoro sussi-diato, formazione, lavoro nei servizi di pubblica utilità e attività di volonta-riato. Questa possibilità di svolgere un’attività di volontariato all’internodel percorso di accompagnamento al lavoro è particolarmente importanteper i soggetti più vulnerabili, in quanto può costituire un passaggio gra-duale verso il rientro o l’ingresso nel mondo del lavoro, fornendo ai parte-cipanti competenze che poi potranno spendere successivamente.

Un’altra riforma del periodo laburista che merita attenzione è la ri-strutturazione dei servizi per l’impiego, finalizzata a integrare, in un unico

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sistema, la gestione dei sussidi di disoccupazione e quella dei contributiprevidenziali, previsti per le persone in condizione di disoccupazione. Inquesto modo le azioni mirate ad accompagnare il soggetto verso il mer-cato del lavoro possono integrare percorsi di orientamento e di forma-zione professionale a interventi di assistenza sociale e di sostegno in casodi disagio psicologico. Questa integrazione tra politiche sociali e del la-voro è stata ampliata più recentemente anche al sostegno abitativo. Nel2006 è stata proposta una riforma del sistema degli housing benefits inmodo da rendere i sussidi per la casa maggiormente compatibili con l’in-serimento nel mercato del lavoro. La riforma, per esempio, evita che co-loro che rientrano nel mercato del lavoro debbano inoltrare una nuova ri-chiesta di contributi per l’abitazione e offre maggiore garanzia sugli aiutiche riceveranno una volta trovata l’occupazione (Department of Workand Pensions 2006).

Un cambiamento significativo portato dalle nuove politiche attive è ilpassaggio dal government alla governance del welfare, un sistema in cuinon è più solo lo Stato a progettare e gestire gli interventi di welfare, matutti gli attori che vi partecipano, compreso il mondo del volontariato edel terzo settore. Idealmente in questo sistema il terzo settore non do-vrebbe ricoprire un ruolo puramente esecutivo, sostituendosi allo Statonella gestione dei servizi; al contrario, «all’eterogeneo e ricco mondodell’associazionismo e del terzo settore è consegnato un compito strate-gico di “connettore sociale”: dal coinvolgimento diretto dei cittadini “al-l’avvistamento” anticipato delle problematiche emergenti, dalla speri-mentazione di modalità innovative di risposta ai bisogni sociali, al moni-toraggio del settore pubblico» (Ascoli 1997, p. XIII). Il ruolo che i sog-getti del volontariato sociale e del terzo settore effettivamente possonoricoprire dipende nella pratica da numerosi fattori, tra cui sicuramentele modalità con cui le loro attività vengono finanziate.

Questo elemento porta a considerare più da vicino come le politichepromosse dai governi si traducono poi a livello locale; l’analisi dellostudio di caso ha proprio questo scopo. In generale, tuttavia, si può affer-mare che le politiche di welfare to work promosse dai governi laburistihanno ampiamente allargato le possibilità di reinserimento e previsto unmaggior bilanciamento tra formazione e lavoro, tra lavoro per il mercatoe attività di impegno volontario, promuovendo di conseguenza una mag-

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giore personalizzazione degli interventi. Il fine ultimo è rimasto, co-munque, sempre l’inserimento lavorativo e il contenimento degli inter-venti di assistenza. Permane dunque il rischio di un «inserimento for-zato» dei soggetti nel mercato del lavoro e di uno sbilanciamento in fa-vore del raggiungimento dei target stabiliti a scapito dell’attenzione ai bi-sogni e alle aspirazioni della persona. Le attività promosse a tutti i livelli,dalle associazioni che gestiscono i servizi passando per i Centri per l’im-piego fino agli enti locali, sono legate al raggiungimento di target da cuidipende poi l’ammontare e il tipo di destinazione delle risorse econo-miche erogate dal centro del sistema politico-amministrativo. Ciò inevita-bilmente condiziona il personale di queste strutture che se da una partedeve dare ascolto ai bisogni, ai tempi e alle aspirazioni dei soggetti, dal-l’altra si trova costretto a raggiungere i target prefissati nei tempi stabiliti.

L’equilibrio tra dipendenza inerte e attivazione forzata non è facile datrovare, ma è necessario. Se lo stato di dipendenza passiva rischia di ali-mentare l’esclusione sociale (Rosanvallon 1997) ed è anche oggi sempremeno sostenibile dal punto di vista economico, l’attivazione forzata fi-nisce per ignorare i desideri, le motivazioni e le possibilità del soggetto,ledendo il concetto di autonomia che costituisce il pilastro stesso diqueste nuove politiche; non solo, rischia anche di renderle poco efficaci.Perché se pure il reinserimento nel mercato del lavoro avviene secondole modalità e i tempi stabiliti, permane il rischio che il soggetto non siain grado di mantenere l’occupazione e che ricada nel bisogno di assi-stenza. «Spesso le persone coinvolte in questi programmi riescono arientrare in qualche modo nel mondo del lavoro, ma per il tipo di forma-zione erogata e il percorso seguito hanno una probabilità di ricadutanelle maglie dell’assistenza più alta» (Ciarini 2008, p. 150).

Coerentemente con l’obiettivo finale dell’inserimento nel mercatodel lavoro, l’attenzione, almeno fino a tempi recenti, è stata posta piùsulla promozione dell’occupabilità che sulla formazione continua.Questo tipo di politiche ha indubbiamente portato a raggiungere i risul-tati attesi in termini di inserimento nel mercato del lavoro e riduzionedegli interventi di assistenza, ma ha anche lasciato basso il livello di com-petenze disponibili sul mercato del lavoro e di conseguenza la qualitàdell’occupazione creata. Dopo più di un decennio dalle prime riformelaburiste vi è ancora un’elevata percentuale di working poors e di per-

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sone non adeguatamente formate, e le disuguaglianze nell’accesso al la-voro e nelle retribuzioni persistono. È lo stesso governo a dichiarare, al-l’interno del rapporto sulle strategie per la protezione e l’inclusione so-ciale nel triennio 2008-2011 (UK Government 2008), che vi sono circa5,2 milioni di persone in età attiva che non sono adeguatamente for-mate. Nello stesso rapporto il governo dichiara tuttavia di avere inten-zione di diventare un leader mondiale nella formazione entro il 2020.

La formazione è dunque al centro delle più recenti riforme promosse,così come l’idea che l’obiettivo non debba essere solamente quello direinserire velocemente le persone nel mercato del lavoro, ma di fare inmodo che possano accedere a lavori ben pagati, che offrono la possibilitàdi rimanere occupati e di crescere professionalmente.2 D’altra parte per-mane, nelle politiche promosse negli ultimi anni dal governo, l’idea chel’assistenza debba essere inserita in una rigida cornice di diritti e respon-sabilità in modo da rendere attivi nella ricerca del lavoro coloro che in-vece tenderebbero a fruire passivamente dei sussidi. Un discorso a parteviene fatto tuttavia per i soggetti più vulnerabili che non sono in grado dilavorare. L’idea è che questi soggetti abbiano diritto a essere assistiti esupportati, pur senza ricadere nell’assistenza passiva. L’obiettivo è rifor-mare il sistema d’accesso ai sussidi, in modo da essere in grado di stabi-lire più accuratamente le capacità lavorative di ogni soggetto e focaliz-zarsi su che cosa ognuno è in grado di fare più che sui suoi limiti.3

Rimane da verificare come questa visione, che soprattutto all’internodei servizi che si occupano di persone con problemi di salute mentale sirealizza nel recovery approach, può e viene riconciliata con la generaletendenza a misurare i risultati attraverso il raggiungimento di target sta-biliti, attraverso gli hard outcomes, come vengono chiamati nel RegnoUnito. Il rischio è che l’inclusione sociale e la partecipazione attiva allasocietà rimangano in larga misura legate all’inserimento nel mercato dellavoro. Se infatti il ruolo dell’inclusione lavorativa è ormai riconosciutodai più come elemento centrale nella lotta all’esclusione, bisogna ricor-dare che l’essere inseriti nel mercato del lavoro non basta a garantirel’accesso alle reti sociali, a dare un orizzonte di senso alla vita delle per-sone e a rafforzare l’identità soggettiva, specialmente se si tratta di man-sioni mal retribuite, precarie e stigmatizzate. Allo stesso modo la man-canza di lavoro non è di per sé fattore di esclusione, se il soggetto può

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sentirsi incluso sul piano sociale attraverso altre forme di appartenenza eattività (Colasanto e Lodigiani 2008). Ridurre l’inclusione sociale e lacittadinanza attiva al lavoro porta a rendere la non autosufficienza eco-nomica uno stigma e di conseguenza amplificare la divisione tra chi stadentro e chi sta fuori (Bauman 2007). La partecipazione al mercato dellavoro è solo un tipo di inserimento; vi sono anche l’inserimento educa-tivo, formativo e civico (Ferrera 1998). E la formazione dovrebbe aiu-tare i soggetti a sviluppare, non solo le competenze necessarie per acce-dere al mercato del lavoro, ma soprattutto la capacità di scegliere il pro-prio ambito di attivazione, rivendicando anche il diritto di esprimeredissenso e uscire dalle condizioni poste (Colasanto e Lodigiani 2008).

3. Il caso studio: St Mungo’s

St Mungo’s ha iniziato a occuparsi dei senza dimora quasi quarant’anni fae oggi è la più grande organizzazione londinese di questo settore. Ogninotte St Mungo’s ospita nelle sue strutture 1428 persone e per gestire isuoi cento progetti si avvale di oltre 800 operatori e 200 volontari. Le atti-vità sono finanziate per la maggior parte con fondi pubblici. Le personeaccolte nelle strutture sono fruitori dei sussidi statali per la casa, attraversoi quali i senza dimora pagano un affitto alle strutture in cui vengono ac-colti. St Mungo’s riceve inoltre fondi dal governo attraverso il «Suppor-ting People Grant», un programma promosso dal governo nel 2003 peraiutare i soggetti vulnerabili nel percorso verso l’autonomia abitativa. Unapiccola parte dei finanziamenti infine è di natura privata, in prevalenzadonazioni. Nonostante il nome faccia riferimento al santo patrono dellacittà natale del suo fondatore, l’organizzazione non è a sfondo religioso.

St Mungo’s è stata scelta come caso studio perché ci permette di os-servare sul campo la messa in atto di alcune politiche di nuova genera-zione da cui è possibile trarre interessanti spunti di riflessione. In primoluogo St Mungo’s lavora, in linea con le politiche di welfare to work delRegno Unito, per promuovere l’attivazione dei propri utenti, attraversola formazione e il supporto all’occupazione. Questa associazione già nel1986 lanciava «Steps» (Skills, Training, Employment and PlacementService), il primo programma del Regno Unito di sostegno attivo al la-

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voro e formazione professionale per i senza dimora e nel 1990 promuo-veva la prima Clubhouse, un progetto di accompagnamento all’occupa-zione per le persone con disagio mentale.

Nel 2007 l’associazione ha ufficialmente adottato il recovery ap-proach, un nuovo modo di lavorare con i soggetti vulnerabili che ha spo-stato l’attenzione dai bisogni alle aspirazioni, focalizzandosi sulle capa-cità delle persone più che sui loro limiti. Come dichiara il direttore diuno dei progetti presi in analisi, «il recovery approach è il modo in cui StMungo’s ha lavorato per anni, solo che non era mai stato formalizzatoprima. Ancora oggi alcune organizzazioni che lavorano con la stessautenza non hanno ancora adottato questo approccio». Nel 2008 infineSt Mungo’s ha lanciato «Pathways to Employment», un ambizioso pro-gramma che mira a fornire ai residenti delle proprie strutture non solo lecompetenze necessarie per reinserirsi nel mercato del lavoro, ma anchela possibilità di sperimentare nuove attività per cercare di scegliereforme di lavoro che hanno valore per i singoli soggetti.

Dei numerosi progetti promossi nella capitale britannica da St Mungo’ssi è scelto di analizzarne due: «Cedars Road», nel distretto di Lambeth e«Endell Street», in Camden. La scelta di studiare alcuni progetti inprofondità, più che l’organizzazione nel suo complesso, è stata dettatadalla volontà di analizzare direttamente le strutture considerate, cono-scere i luoghi e i volti, e osservare da vicino le interazioni quotidiane al-l’interno delle strutture. Si è scelto invece di analizzare in particolare idue progetti sopramenzionati perché, messi a confronto, ci permettonodi riflettere su alcuni aspetti chiave delle politiche fin qui discusse. Ledifferenti caratteristiche dei distretti in cui si sviluppano i due progetti lipongono di fronte a problematiche e opportunità diverse; in particolare,emergono due diversi modi di lavorare in rete con gli enti e le comunitàlocali. Questi due approcci al lavoro di rete determinano anche diversivincoli nel raggiungimento dei target stabiliti e influenzano pertanto illavoro svolto dallo staff all’interno delle strutture.

St Mungo’s Cedars Road Hostel, Lambeth, LondonLambeth4 è uno dei tredici distretti della inner London, la zona centraledella città ed è il secondo per estensione. Lambeth è anche uno dei di-

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stretti più densamente popolati di tutto il paese e uno dei più degradatidella capitale. Rispetto al resto della città in questo distretto risiede unapopolazione più giovane e diversificata dal punto di vista delle originietniche. Durante il secondo dopoguerra, infatti, a Lambeth si stabilì unanumerosa comunità di origini caraibiche seguita poi da una crescentecomunità africana e portoghese.

Come molti dei distretti della inner London, Lambeth è estremamentepolarizzato al suo interno. Circa il 40% dei suoi abitanti ha un’alta scola-rizzazione e il reddito medio si colloca al di sopra della media nazionale;ma il 21% dei residenti non ha alcun titolo di studio mentre la media nellacapitale è del 14%. A Londra, d’altra parte, cresce la richiesta di lavora-tori qualificati e la mancanza di un titolo di studio rappresenterà sempredi più un ostacolo all’inclusione lavorativa; da una ricerca svolta nel di-stretto si stima che già oggi il 37% delle imprese che hanno sede a Lam-beth fatichi a trovare manodopera qualificata. Il risultato di queste disu-guaglianze è che Lambeth, nonostante un elevato numero di soggetti inetà attiva, ha un tasso di occupazione al di sotto della media londinese.

La povertà e la disoccupazione diffuse nel distretto influenzano tuttigli altri aspetti della vita dei residenti. A Lambeth solo il 36% della po-polazione possiede una casa; nel resto di Londra la media è del 55% enel Regno Unito del 68%. I prezzi degli affitti sono pertanto una que-stione di primaria importanza; un residente su cinque identifica questocome uno dei maggiori problemi. L’autorità locale ha messo a disposi-zione negli ultimi anni centinaia di case a canone moderato, ma l’altadensità di abitanti e l’elevato tasso di povertà fa sì che la domanda sia dimolto superiore all’offerta. Inoltre, il 18% delle famiglie vive in condi-zioni abitative inadeguate e vi è un’alta percentuale di persone che vi-vono in strada o in strutture temporanee.

Anche le condizioni sociali e lo stato di salute della popolazione resi-dente a Lambeth sono tra i peggiori dell’intera capitale e contrariamentea quanto è accaduto in altri distretti, come a Camden, dal 2004 lo statodi privazione della popolazione residente a Lambeth è aumentato. Lapercentuale di bambini e adolescenti che vivono in povertà è più altadella media così come il tasso di mortalità infantile, di abbandono scola-stico e di giovani tra i 16 e 18 anni che non sono né a scuola né al lavoro.Lambeth ha anche uno dei più tassi più elevati di persone con problemi

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di salute mentale e la metà di questi ha anche problemi di dipendenza daalcol o droghe. I fattori generalmente associati con il disagio mentalesono evidenti nel distretto: alta densità abitativa e un alto tasso di de-grado e povertà, criminalità, tossicodipendenza, disoccupazione e per-sone senza dimora. Il 56% dei senza dimora a Lambeth ha problemi ditossicodipendenza, una percentuale più alta di quella di tutti gli altri di-stretti messi insieme.

L’ostello di Cedars Road si trova lungo una delle principali arterie chetaglia la città da sud a nord; Cedars Road è anche la via che segna a est ilconfine del distretto di Lambeth. Prima che St Mungo’s prendesse in ge-stione l’ostello, l’imponente edificio in stile vittoriano era un dormitoriopubblico per senza dimora; nel 1995, il governo decise di dare in gestionela struttura a St Mungo’s. Nelle parole del responsabile dell’ostello:

Il Dipartimento per la sicurezza sociale ha deciso di dare in gestionemolti dormitori pubblici a organizzazioni del terzo settore perché costa-vano troppo. Questa struttura era veramente mal gestita. Basta pensareche allora come adesso la struttura ospitava 120 persone, però adessotutti i nostri ospiti hanno una stanza privata, mentre allora erano tuttegrandi camerate. La maggior parte dei dormitori pubblici inoltre eraaperta solo per i mesi invernali. Poi però si sono accorti che quandoqueste strutture chiudevano la gente tornava in strada e allora hanno de-ciso di tenerle aperte tutto l’anno. Così sono nati gli ostelli.

È ancora il governo a finanziare queste strutture, ma il sistema è profon-damente cambiato. Invece di offrire un’accoglienza gratuita nei dormi-tori, oggi il governo dà a coloro che non hanno la possibilità di pagareun affitto dei sussidi, gli housing benefits, attraverso i quali i singoliutenti pagano un quota agli ostelli. L’idea è che queste strutture deb-bano rappresentare il passaggio dalla strada all’autonomia abitativa, nonlimitandosi pertanto ad accogliere i senza dimora, come succedeva neidormitori pubblici, ma supportando i soggetti nel loro percorso di riabi-litazione psicofisica e nella ricerca di un’occupazione.

Cedars Road ospita un’utenza particolarmente vulnerabile, anche perun distretto in cui la percentuale di disagio psicofisico tra i senza dimora ègià mediamente alta. Il 93% degli utenti ha problemi di dipendenza da

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alcol o droghe e il 61% soffre di disagio mentale (Lane 2005). Cedars Roadha, infatti, fin da subito deciso di accogliere tutti, senza alcun filtro; anzi, siè scelto proprio di rivolgersi a tutti coloro che nessun’altra struttura acco-glieva. Questo tipo di scelta incide inevitabilmente sulla possibilità di rag-giungere quegli hard outcomes su cui tutto il sistema viene valutato. O me-glio, i responsabili di Cedars Road si sono resi conto che il bisogno deisenza dimora di Lambeth era prima di tutto un bisogno di salute.

Prima di discutere nel dettaglio gli interventi messi in atto dallo staffdi questo ostello occorre tuttavia aprire una piccola parentesi. Può sem-brare infatti strano parlare di senza dimora di un determinato quartiere;per loro natura i senza dimora sembrano non avere legami con uno spe-cifico territorio. Non hanno un domicilio. A Londra, tuttavia, la possibi-lità di provare un legame con il territorio è di fondamentale importanzaperché gli housing benefits vengono erogati dalle autorità distrettuali airesidenti. Prima di poter accedere a questi fondi ed essere accolti negliostelli bisogna dunque provare di avere un legame con il territorio.Questo avviene quando lo staff di St Mungo’s segnala per almeno trevolte la presenza di un soggetto nel distretto.

Cedars Road è, dal punto di vista sanitario, un ostello all’avanguardia.Oltre a offrire all’interno della propria struttura un servizio di medicinadi base, in questo ostello è stato avviato da poco più di un anno un inno-vativo servizio di cure intermedie, il primo nel Regno Unito per i senzadimora. L’offerta di un servizio di medicina di base, interno all’ostello,vuole rispondere alle difficoltà che spesso gli utenti incontrano nell’acce-dere ai servizi e che li spinge, in molti casi, semplicemente a non curarsi,fino a quando il loro stato di salute non diventa tanto urgente da doversirecare al pronto soccorso. Il fatto di non avere un indirizzo permanenteostacola la possibilità di avere un medico di base; d’altra parte sembrache molti medici siano riluttanti a registrare i senza dimora, sia per que-stioni economiche (vengono pagati sulla base dei target raggiunti), siaperché intimoriti da un’utenza così complessa e bisognosa (ibid.). Se-condo lo staff di Cedars Road, molti dei loro utenti sono comunque inuna situazione psicofisica tale da non riuscire neanche a raggiungere lestrutture sanitarie pubbliche. L’opzione di un servizio interno alla strut-tura è sembrata dunque quella che tutelava maggiormente il bisogno disalute dei beneficiari.

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Il servizio di cure intermedie interne all’ostello, invece, è stato il risul-tato di un lungo e articolato percorso di consultazione con diverse realtàdel quartiere. Al fine di valutare la necessità di un servizio di cure inter-medie e di progettarne la realizzazione è stato formato un gruppo, TheHomeless Intermediate Care Steering Group, formato da rappresentantidell’azienda sanitaria locale, del terzo settore e delle organizzazioni divolontariato che lavorano con i senza dimora. Attraverso diverse inter-viste a medici, infermieri, personale degli ostelli e utenti, si è cercato diindividuare i bisogni locali e realizzare di conseguenza un servizio cheoltre a salvaguardare la salute dei soggetti interessati rafforzasse la colla-borazione tra l’azienda sanitaria locale e i servizi del privato sociale. Lascarsa conoscenza reciproca tra i servizi sanitari e le organizzazioni delprivato sociale, insieme alla difficoltà nello stabilire le connessioni localidi un senza dimora e alla mancanza di strutture appropriate verso cui di-mettere le persone dopo un periodo di cure ospedaliere, rende le dimis-sioni ospedaliere in molti casi difficoltose. Dopo lunghi ritardi le per-sone vengono dimesse senza che sia stato pianificato un intervento dicure post-ospedaliere e, spesso, i senza dimora passano direttamentedall’ospedale alla strada, con evidenti ricadute in termini di salute.

La decisione di aprire un servizio di cure intermedie all’interno dell’o-stello è stata condivisa con tutto il gruppo. L’alternativa era quella diaprire un servizio dedicato all’interno delle strutture ospedaliere, ma èstata scartata perché, come spiega il responsabile di Cedars Road, «proba-bilmente molte persone non avrebbero più utilizzato i normali servizipubblici e si sarebbero rivolte continuamente a questo servizio, che inveceè rivolto a un numero ristretto di persone con bisogni molto specifici».

L’idea, infatti, è di rivolgersi a persone che altrimenti ricorrerebbero acure ospedaliere non necessarie e che poi probabilmente resterebbero inospedale per mancanza di alternative. L’intervento avviene invece all’in-terno dell’ostello. In questo modo il personale infermieristico, che gestisceil servizio, può contare anche sull’aiuto del personale dell’ostello che, oltread avere già un legame con i soggetti, ha anche indispensabili competenzenella relazione con i problemi di dipendenza e di disagio mentale, chemolte di queste persone presentano. Il lavoro congiunto tra personaleospedaliero e staff dell’ostello permette inoltre di costruire un ponte tra iservizi specialistici per i senza dimora e i servizi sanitari pubblici.

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L’intervento è individualizzato e finalizzato all’autonomia del sog-getto; l’obiettivo è dare un supporto intensivo per un breve periodo ditempo (massimo sei settimane) in modo da aiutare la persona a pren-dersi cura di sé in maniera indipendente.

Nonostante sia di fatto un servizio a bassa soglia, che lavora su grandinumeri (120 persone) e si rivolge a un’utenza multiproblematica, CedarsRoad prevede al suo interno un articolato percorso, che ha come fine ul-timo l’autonomia dei suoi utenti. Le persone più vulnerabili vengonoospitate in una zona dell’ostello in cui possono ricevere maggiore assi-stenza e usufruire di una mensa. Chi invece è già in grado di vivere inmaggiore autonomia ha a disposizione una cucina in condivisione conaltri utenti. Vi sono poi alcuni monolocali in cui è possibile sperimentareuna vita pressoché indipendente. In tutte le diverse sistemazioni, gliutenti sono liberi di entrare e uscire senza restrizioni.

Per favorire l’avanzamento delle persone lungo il percorso lo staff la-vora con grande impegno con i soggetti più vulnerabili sulle basic livingskills: fare la spesa, cucinare, relazionarsi con il vicinato. Il progetto «TheGreat Escare», invece, si rivolge a chi si accinge a lasciare l’ostello per an-dare a vivere in autonomia; attraverso una serie di laboratori e incontrivengono discusse e condivise le principali difficoltà che si incontrano nelgestire un’abitazione. Per chi è in cerca di un’occupazione, infine, lo staffdel progetto «Pathways to Employment» offre interventi personalizzati emirati a supportare il soggetto nella ricerca di attività, retribuite o non,che lo aiutino ad acquisire competenze e a riguadagnare fiducia in sestesso. In effetti per molte di queste persone l’inserimento nel mercatodel lavoro è ancora un’opzione lontana, come ci racconta un membrodello staff dell’ostello: «Le opportunità per persone spesso non qualifi-cate e vulnerabili non sono molte. E il rischio, una volta trovato il lavoro,è di non riuscire a mantenerlo. Molto più spesso invece riusciamo a inse-rire i nostri utenti in attività di volontariato. È importante perché li ria-bitua ad avere dei ritmi, delle responsabilità, a sentirsi parte di qualcosa».

Tutte le attività promosse all’interno dell’ostello sono finalizzate adaiutare le persone a riprendere il controllo della propria vita, a renderlesoggetti attivi e partecipi nel definire il proprio percorso verso l’auto-nomia. D’altra parte la scelta di rivolgersi ai più vulnerabili e non porrefiltri di alcun tipo nell’accesso all’ostello rende particolarmente difficile

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il raggiungimento di obiettivi, come l’inserimento lavorativo o il pas-saggio dall’ostello a un’abitazione indipendente. Lo stesso responsabiledell’ostello, un uomo di grande esperienza nel settore, afferma conmolta franchezza:

Anche se qui abbiamo il servizio «Pathways to Employment» c’è un’ele-vata percentuale di nostri utenti che non è nelle condizioni neanche peraccedere a questo servizio. E con quelli che partecipano il lavoro che fac-ciamo è aiutarli a riflettere su quello che vorrebbero fare; prestare moltaattenzione alle aspirazioni e alle vocazioni. Spingerli verso un’occupa-zione qualunque ci può aiutare a raggiungere dei target e allentare lepressioni di coloro che ci finanziano; ma se poi dopo poco il lavoro lo la-sciano o lo perdono per noi è un fallimento. Sta tutto nella maniera incui misuri i risultati.

Il tipo di utenza che Cedars Road accoglie e il fatto di lavorare su grandinumeri pone inoltre un’altra grande sfida: la relazione con il vicinato epiù in generale con il quartiere. Lo staff dell’ostello ha dedicato fin da su-bito molte energie a instaurare un buon rapporto con il vicinato, parteci-pando a numerosi incontri per far conoscere le proprie attività e ascoltarei bisogni, le paure e le problematiche vissute dagli abitanti del quartiere.Effettivi episodi di comportamento antisociale, di spaccio e di disturbo sisovrappongono a paure e pregiudizi attraverso cui gli abitanti guardanoagli utenti dell’ostello, rischiando di creare un clima di reciproca diffi-denza. Capita spesso al personale dell’ostello, mentre è in giro per lestrade, di assistere ad atteggiamenti discriminatori nei confronti dei senzadimora, come capita anche di trovare utenti dell’ostello in un tale statoconfusionario e caotico da costringere il personale di St Mungo’s a chie-dere l’intervento delle ambulanze o delle forze dell’ordine. Anche con iservizi di pubblica utilità lo staff di Cedars Road ha dovuto trovare degliaccordi, per esempio con i pompieri:

Perché qui capita molto spesso che si attivi l’allarme anti-incendio; bastache qualcuno accenda una sigaretta o bruci qualcosa in cucina. Dopo unpo’ di volte che i pompieri uscivano inutilmente abbiamo trovato un ac-cordo: quando scatta l’allarme un membro dello staff ha la responsabilità

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di controllare che cosa succede. Se, come spesso accade, è un falso al-larme abbiamo la possibilità di disattivarlo in modo che loro non deb-bano venire inutilmente.

Sono piccoli accorgimenti, ma aiutano a non alimentare le tensioni sociali.Cedars Road è un progetto ambizioso portato avanti da uno staff

competente e molto motivato. La struttura ha 120 posti letto e sonosempre pieni. Anche a detta del personale intervistato lavorare con cosìtanti utenti rende il lavoro difficoltoso e l’impatto dell’ostello sul quar-tiere arduo da contenere. Anche lavorare con utenti che provengono di-rettamente dalla strada senza porre alcun filtro è impegnativo; ma inquesta scelta lo staff crede fermamente. Forse perché non è del tutto unascelta, in un quartiere che ha il più alto tasso di incidenza di disagiomentale e in cui il 56% dei senza dimora ha problemi di tossicodipen-denza. In questo contesto qualunque intervento che intenda lavoraresull’empowerment dei soggetti a cui si rivolge non può prescindere dal-l’affrontare in primo luogo il loro bisogno di salute. Lo staff di CedarsRoad tuttavia non vuole limitarsi a dare risposte ai problemi sanitari deisuoi utenti; l’obiettivo è mettere i soggetti nelle condizioni di poterprendersi cura di se stessi, e questo passa inevitabilmente attraverso lapossibilità di accedere ai servizi sanitari pubblici. Il lavoro di rete tra l’a-zienda sanitaria locale e lo staff di Cedars Road e in particolare il ser-vizio di cure intermedie gestito all’interno dell’ostello dal personaleospedaliero, garantisce agli utenti un servizio sanitario adeguato ai lorobisogni specifici, ma facilita anche la loro relazione con i servizi sanitaripubblici, mitigando i pregiudizi e le paure reciproche.

Rimane poi la necessità per i soggetti di lavorare sulle proprie compe-tenze, aspirazioni e possibilità al fine di trovare la via d’uscita dalla condi-zione di dipendenza. È un lavoro lungo e complesso che lo staff di CedarsRoad sostiene attraverso progetti mirati e innovativi. Certo gli hard out-comes sono difficili da ottenere; ma almeno in parte questo dipendedalle barriere oggettive che pone il mercato del lavoro nell’accesso aun’occupazione stabile, soddisfacente e remunerativa, almeno il neces-sario per potersi garantire un’abitazione e uno stile di vita dignitoso. Sepoi si guarda all’inclusione sociale in modo più ampio e non solo dalpunto di vista lavorativo, come inevitabilmente fa chi lavora a contatto

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con le persone più vulnerabili, allora anche il fatto che qualcun altro siimpegni in un’attività di volontariato o che vinca la propria battaglia conla tossicodipendenza diventa un hard outcome.

Endell Street, Camden, LondonAnche Camden si trova nella inner London, ed è comparabile a Lambethsia per estensione che per densità di popolazione. A Camden vivono moltistudenti, attratti dall’Università di Londra che ha sede nel distretto, e lapresenza di minoranze etniche è minore rispetto a Lambeth e alla medialondinese. Il 47% degli abitanti di Camden ha un titolo di studio alto e il65% della popolazione in età attiva è inserita nel mercato del lavoro(Camden Council 2007). In media gli abitanti nel distretto ricevono unaretribuzione oraria ben al di sopra della media londinese (16,4 sterline afronte di una media a Londra di 13,15 sterline) mentre la percentuale dipersone pagate meno di 7 sterline all’ora è ben al di sotto della media(10,2% rispetto a 17,1%) (Gla 2009).

Anche Camden, come la maggior parte dei distretti della innerLondon, racchiude in sé notevoli differenze socioeconomiche, ma negliultimi anni le disuguaglianze interne si sono notevolmente ridotte.Inoltre, diversamente da Lambeth, il livello di deprivazione a Camden èsostanzialmente diminuito dal 2004. In termini generali la popolazioneresidente sembra godere di buona salute e l’aspettativa di vita media èben più alta di quella della popolazione di Lambeth. A Camden, tut-tavia, si riscontra il più alto tasso di morti collegate all’assunzione dialcol di tutta la capitale e una forte incidenza di problemi legati alla sa-lute mentale, in particolar modo tra la popolazione di senza dimora, cheanche a Camden è numerosa.

Endell Street si trova nella parte più a sud di Camden, nel vero cuoredi Londra. I più importanti college universitari distano poche centinaiadi metri; Trafalgar Square è a pochi passi e le vie dello shopping di Co-vent Garden sono proprio dietro l’angolo. Dalla strada è difficile imma-ginare che in uno degli edifici di Endell Street sia ospitato un ostello perpersone senza dimora. Anche arrivati davanti all’ingresso non si notanessun gruppetto di persone, nessun viavai. Solo una targa sulla portaindica che l’ostello di St Mungo’s si trova lì.

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Appena entrati si ha l’impressione di stare in uno dei più moderniostelli della gioventù. All’ingresso c’è la reception e una grande sala co-mune; più avanti si intravedono alcune aule e una sala computer. Tutto èaperto allo sguardo poiché tutti gli spazi sono delimitati da vetrate. L’o-stello di Endell Street, una ex scuola di proprietà di St Mungo’s, è statorinnovato di recente all’interno di «Places of Change» (Communitiesand Local Government 2006), il programma lanciato dal governo nel2006 con l’intenzione di rendere gli ostelli per i senza dimora dei luoghidi eccellenza, atti a trasformare le vite di queste persone. Con un investi-mento di 90 milioni di sterline, il programma ha interessato 150 progettiin tutto il Regno Unito; Endell Street è uno di questi.

Prima che fosse chiuso per un anno per consentire la ristrutturazione,Endell Street ospitava 120 persone circa, e a detta dello staff era molto si-mile a Cedars Road. Era un servizio a bassa soglia e ospitava di conse-guenza persone con problemi di alcolismo, tossicodipendenza e disagiomentale. Anche i contrasti con il vicinato erano accesi: il tipo di utenzadella vecchia Endell Street era visto come poco consono alla realtà dellaLondra turistica, del business e dell’eccellenza. Dopo numerose petizionie richieste di chiusura della struttura pervenute all’ente locale, cogliendol’opportunità lanciata dal programma «Places of Change», si è deciso ef-fettivamente di chiudere e di ricominciare in modo nuovo. A cambiareinfatti non è stata solo l’architettura dell’edificio, ma l’intera imposta-zione dell’ostello. Nel nuovo Endell Street i posti letto sono passati da120 a 55. L’accesso all’ostello, inoltre, non avviene più direttamente dallastrada; Endell Street è entrato a far parte di un sistema di accoglienzacentralizzato che fa capo all’ente locale, il Camden Borough Council.Chiunque abbia bisogno di accoglienza, dopo aver provato un legamecon il distretto di Camden, presenta la domanda all’ente locale che valutase e dove inviarlo.

Il sistema è organizzato in questo modo: il percorso che va dallaprima accoglienza all’autonomia abitativa è suddiviso in quattro fasi. Laprima fase è molto breve e serve a identificare i bisogni dell’utente e adattivare i servizi più adatti; la seconda fase prevede invece tempi piùlunghi, in cui il soggetto può stabilizzarsi e iniziare a pianificare insiemeallo staff degli ostelli il proprio percorso. La terza fase è destinata a co-loro che hanno problemi di tossicodipendenza o di salute mentale, a cui

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vengono offerti diversi servizi di supporto, dalla psicoterapia alla ridu-zione del danno, dalla disintossicazione alla riabilitazione. L’ultima faseè quella in cui il soggetto viene aiutato, attraverso un programma di for-mazione e di orientamento lavorativo, a muovere i primi passi verso l’au-tonomia. Tutti i posti letto degli ostelli, che fanno parte del sistema, ven-gono classificati in base a queste categorie. Il passaggio da una fase al-l’altra può anche significare lo spostamento in un diverso ostello; di-pende dalla disponibilità di posti e dal tipo di servizi richiesti. L’ostellodi Endell Street è stato organizzato durante il restauro in modo da com-prendere al suo interno tutte le quattro fasi. Il percorso è racchiuso nellastruttura stessa dell’edificio; ogni piano rappresenta una fase. L’ultima sitrova al piano più alto, dove ci sono cinque stanze con il bagno in ca-mera, la cucina in condivisione e una zona comune di fronte a una splen-dida vetrata che domina la città.

L’imponente ristrutturazione, insieme all’ingresso di Endell Street nelsistema centralizzato e le forti pressioni da parte del vicinato per impe-dirne la riapertura, hanno inevitabilmente portato a una più rigida sele-zione all’ingresso. Prima di poter accedere all’ostello, i senza dimora de-vono dimostrare di volersi impegnare per risolvere i propri problemi di di-pendenza e di avere intenzione di partecipare attivamente a programmi diriabilitazione e di formazione. Inoltre, viene effettuato un controllo per ve-rificare che i potenziali nuovi utenti non si siano fatti conoscere, almeno intempi recenti, dalle forze dell’ordine per reati legati al comportamento an-tisociale: consumo di alcol e droghe in pubblico, attività di spaccio o di ac-cattonaggio. Questa rigida selezione all’ingresso, insieme alla riduzione delnumero complessivo di utenti, fa sì che lo staff di Endell Street possa lavo-rare in maniera più efficace con coloro che sono in grado e hanno scelto dicogliere le opportunità offerte; il che include anche il fatto di vivere in unastruttura nuova e ben attrezzata. Come afferma Cristine, una psicologa diEndell Street: «la selezione in entrata fa sì che per noi sia molto più facilelavorare. Per esempio non avremmo mai potuto prima avere una sala com-puter così, dove c’è libero accesso ventiquattr’ore su ventiquattro. I com-puter sarebbero spariti dopo una settimana».

La presenza di un’utenza selezionata permette anche di far avanzarepiù facilmente i soggetti lungo il percorso nei tempi stabiliti e di raggiun-gere i risultati prefissati:

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Molte persone in questo ostello riescono a progredire e uscire da qui eritrovare una propria autonomia; ma questo è anche possibile perché laselezione viene fatta all’entrata. L’enfasi è solo sui «migliori». Il governovuole vedere il successo e tutto il nostro lavoro è finanziato sulla base diquesto successo. Quello che succede alle persone che non riescono astare al passo va in secondo piano... Le persone che una volta erano qui,oggi sono in altri ostelli, dove vengono messe insieme tutte le personepiù vulnerabili e con i problemi più complessi... gli ostelli per i «multie-sclusi», che tornano a essere dei dormitori per i senza speranze, ma lìnon ci sono i riflettori... d’altra parte per noi lavorare qui è veramentebello perché lavori con persone che hanno voglia di uscire dai loro pro-blemi e fare dei passi avanti.

Se da una parte, dunque, lavorare su un’utenza selezionata permette alsistema di funzionare in maniera efficiente e di vedere i risultati delle po-litiche di attivazione promosse, dall’altra rischia di isolare i più esclusi.Mentre da un lato si osservano i «risultati», dall’altro i «fallimenti» ven-gono dimenticati.

Anche i risultati raggiunti da un’utenza come quella di Endell Streettuttavia non sono per nulla scontati. È ancora Cristine a spiegare il perché:

Adesso le persone che vengono accolte sono selezionate; sono personeche hanno intenzione e sono pronte a riprendere in mano la propria vita.Il fatto di diminuire sostanzialmente l’abuso di droghe e alcol però ponenuove sfide. Quando c’è meno abuso di sostanze, il disagio mentaleviene in primo piano. Perché le dipendenze non sono altro che un modoper automedicare i disagi mentali; una volta tolti questi, esce il disagio esi può affrontare. Qui ci sono percentuali alte di disagio mentale. Il 45%delle persone qui ha problemi di salute mentale; almeno questi sono icasi diagnosticati.

Cristine, in quanto responsabile dell’area salute mentale di EndellStreet, lavora in stretto contatto con i servizi di salute mentale del di-stretto con cui si incontra regolarmente per parlare degli utenti e coordi-narsi sugli interventi. Questa condivisione è molto importante, perchécrea una continuità tra il lavoro svolto dagli operatori di Endell Street e i

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servizi pubblici. Da poco più di un anno St Mungo’s ha lanciato inoltreun innovativo progetto di psicoterapia. Per chi non ha un reddito, po-tersi permettere un percorso di psicoterapia è veramente impensabile;molti degli utenti di St Mungo’s non hanno mai avuto la possibilità diaccedervi. I risultati di questo progetto sono, a detta di tutto lo staff, ve-ramente straordinari e il livello di frequentazione è stato molto alto.

Un altro progetto innovativo promosso a Endell Street è quello dellostudio di registrazione. Il progetto fa parte del programma «Pathways toEmployment» e ha un duplice obiettivo: coinvolgere le persone in un’atti-vità creativa come la musica, che ha grandi virtù terapeutiche, e offrire allostesso tempo un’opportunità di formazione che possa diventare in un se-condo momento un’attività lavorativa. Alphius, il responsabile del pro-getto, spiega come si intreccino queste diverse finalità:

L’obiettivo è che la gente venga qui, partecipi e riprenda confidenza.Magari alcune persone si fermano a questo livello; ma il tentativo èanche quello di aiutare le persone a ritrovare una motivazione o a tro-varne una nuova. Per esempio ci sono persone che in passato hanno la-vorato nel mondo della musica e che attraverso lo studio ritrovano unapropria identità. Oppure persone che non ci hanno mai lavorato ma chescoprono qualcosa di nuovo che le interessa e in cui magari hanno ta-lento. Qui poi noi abbiamo la possibilità di formare le persone, dei tec-nici del suono, e rilasciare degli attestati di qualificazione. L’idea infine èquella di aprire lo studio ai gruppi musicali del quartiere e lasciare che inostri utenti lo gestiscano in modo da acquisire competenze che poi pos-sono servirgli anche nel mondo del lavoro.

Il fatto di aprire l’ostello alla gente del quartiere permette inoltre di lavo-rare sui reciproci pregiudizi, sulla paura dell’Altro. Da quando è statoriaperto Endell Street è stato fatto un intenso lavoro di relazione con il vi-cinato che a detta di Cristine sta dando buoni risultati: «quando abbiamoriaperto, dopo pochi giorni abbiamo fatto un open day invitando le per-sone a vedere il posto e a conoscere noi e i nostri utenti. Alcuni erano ve-ramente interessati, altri avevano grandi pregiudizi; molti non si aspetta-vano che i nostri utenti fossero quelli che sono e lo stesso per la struttura.Adesso molti sono contenti della nostra presenza nel quartiere».

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Oltre allo studio di registrazione ci sono poi altre attività che non sonodirettamente finalizzate alla formazione lavorativa. L’obiettivo è coinvol-gere le persone, renderle partecipi e aiutarle a trovare attività che le coin-volgano e in cui si sentano capaci. Questa è l’impostazione alla base del re-covery approach: porre l’attenzione su ciò che le persone sono in grado difare, più che concentrarsi sugli aspetti negativi, le dipendenze, i problemidi comportamento, il disagio mentale. Quello su cui lavora lo staff di StMungo’s è dunque cercare di aiutare i soggetti a trovare attività che lifanno sentire bene, siano il teatro, il giardinaggio o la musica:

Per esempio sabato c’è uno spettacolo qui a Endell Street in cui parte-cipano sia gli utenti sia i membri dello staff... ci sono molti spiriti arti-stici qui a Mungo’s... e poi l’idea è anche quella di abbattere certe bar-riere che ci sono tra utenti e staff... non guardare solo alle personecome utenti, ma come esseri umani che hanno competenze, abilità e in-teressi; e che hanno avuto una vita, che sia nella musica, nel teatro... iopenso che l’arte sia un’ottima via per creare relazioni tra le persone piùche parlare di quanto hanno bevuto o se hanno pagato l’affitto questasettimana.

Anche nel caso di Endell Street l’equilibrio tra la necessità di raggiun-gere i target richiesti dai finanziamenti e la volontà dello staff di non for-zare le persone lungo il percorso non è semplice da trovare:

Questo è quello che trovo difficile a volte con i grandi finanziatori, ilfatto che loro sono interessati solo ai successi concreti, misurabili, comeil numero di persone che hanno trovato un lavoro. Io penso che non siaquesta la questione, anche perché una persona può anche trovare un la-voro ma senza avere risolto le cose e poi perderlo o lasciarlo dopo poco.Lo stesso con il sistema dei pathways, del movimento tra piani. A volte lepersone si muovono velocemente, secondo i tempi stabiliti, ma poi al-cuni si ritrovano a cominciare tutto da capo perché non hanno risoltofino in fondo questioni che li riportano punto e a capo.

A Endell Street la pressione degli enti finanziatori è molto alta. I riflet-tori sono puntati su questi interventi perché sono progetti pilota su cui

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sono state investite risorse cospicue. Inoltre l’ostello si trova in un quar-tiere molto centrale, quindi anche molto visibile:

Noi cerchiamo di focalizzarci sugli utenti ma poi dobbiamo giustificare i ri-tardi con gli enti finanziatori, che però non li capiscono perché loro misu-rano il successo sui numeri e sui tempi. Noi seguiamo il recovery approach;però questo non è sempre conciliabile con i finanziatori, perché se lavoritotalmente sulle persone alcuni target non li raggiungi mai. Perché sempli-cemente non è pensabile stabilire un tempo standard necessario per un re-covery. Penso che sia veramente difficile, ma dobbiamo trovare un equili-brio. Sono soprattutto i manager e i responsabili a essere in difficoltàperché si trovano in mezzo tra lo staff che porta avanti le motivazioni tera-peutiche e i finanziatori che sollevano le questioni economiche.

Oltre ai tempi necessari per la riabilitazione, una delle maggiori diffi-coltà è proprio il reingresso di questi soggetti nel mercato del lavoro:

Molti clienti dell’ostello sono poco motivati nel cercare lavoro più che altroperché i lavori a cui riescono ad accedere sono lavori dequalificati e pagatipoco mentre l’affitto per vivere negli ostelli è piuttosto alto anche per viadell’extra supporto che ricevono. Quindi molti di loro pensano di viverecon i sussidi mentre stanno nell’ostello e poi quando troveranno casa cer-cheranno anche il lavoro. Ma non è così facile neanche dopo, perché aLondra gli affitti sono altissimi e le situazioni agevolate sono poche...

Questo tipo di considerazione è molto importante perché sposta l’atten-zione dall’individuo al contesto generale. Come abbiamo visto più voltein passato, il discorso politico dominante ha promosso una concezionedella disoccupazione come condizione individuale, celando di fatto lesue radici in un sistema economico e sociale contrassegnato da stridentidisuguaglianze. Il rischio è che lo stesso accada per i senza dimora; el’enfasi posta dal governo, ma anche da molte organizzazioni del privatosociale, sui traumi, le dipendenze, le malattie fisiche e mentali a cui sonosoggetti i senza dimora rischia di alimentare questa tendenza.

Come è stato spesso evidenziato, soprattutto nell’ambito dell’antro-pologia medica (Lock e Scheper-Hughes 1990), concepire i problemi so-

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ciali attraverso la lente dei corpi malati porta a negare le disuguaglianzesistemiche; all’interno dell’ideologia medicalizzante quello che necessitadi risposte collettive è rappresentato come un problema individuale cherichiede pertanto una risposta individuale. La rappresentazione dei senzadimora come persone soggette a problemi di salute mentale rischia di di-stogliere l’attenzione dalle responsabilità sociali: fino a quando i senza di-mora sono rappresentati in termini bio-medici come devianti, il loro vi-vere per la strada può essere «risolto» accogliendoli negli ostelli e spin-gendoli a intraprendere programmi di riabilitazione (Lyon-Gallo 2000;Mathieu 1993). Le disuguaglianze sistematiche a cui sono soggetti pas-sano così in secondo piano.

4. Conclusioni

In sintonia con l’impostazione delle politiche di welfare to work pro-mosse dai governi laburisti, St Mungo’s non si limita ad accogliere nellesue strutture centinaia di senza dimora della capitale, ma offre servizi in-novativi e calibrati sui bisogni di questa utenza che mettono al centro del-l’intervento la formazione e l’orientamento lavorativo. In particolare è in-teressante osservare come il maggior bilanciamento tra formazione, lavororetribuito e lavoro volontario previsto dalle politiche più recenti producaeffetti concreti sui servizi per i senza dimora.

Il progetto «Pathways to Employment» promuove, in entrambe lestrutture prese in analisi, azioni mirate a fornire ai soggetti non solo lecompetenze necessarie per reinserirsi nel mercato del lavoro, ma anchela possibilità di sperimentare nuove attività per cercare di scegliereforme di lavoro che hanno per loro un valore. E in entrambi i progetti,nonostante il differente bacino di utenza, i membri dello staff affer-mano che questo tipo di azioni è fondamentale. Perché promuoveresolo l’occupabilità potrebbe velocizzare l’ingresso dei soggetti nel mer-cato del lavoro, ma essendo inseriti in occupazioni dequalificate, malretribuite e precarie, sussiste un alto rischio di ricaduta nelle magliedell’assistenza. Non solo, promuovere attività a partire dai desideri,dalle vocazioni e dalle competenze dei soggetti vuole dire anche sup-portarli nel ritrovare fiducia in se stessi e nel ricostruire una propria

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identità, contribuendo in questo modo in maniera significativa allaloro inclusione sociale.

I due progetti presi in analisi inoltre, attraverso diversi programmi e ar-ticolati passaggi interni alle strutture stesse, seguono i senza dimora nelloro percorso verso l’autonomia. Dai progetti che lavorano sulle basic li-ving skills (cucinare, fare la spesa, gestire una casa), a quelli che preparanole persone ad affrontare gli aspetti economici e burocratici del vivere indi-pendente (richiesta di sussidi per la casa, gestione di affitti e bollette), ilpersonale degli ostelli supporta gli utenti lungo tutti i passaggi dalla stradaall’autonomia abitativa. Il rischio infatti è che il percorso di un soggetto siinterrompa bruscamente al termine della sua permanenza in una strutturadi accoglienza; o che al contrario le associazioni che accolgono i senza di-mora si trovino poi costrette a ospitare i soggetti oltre i termini, perchéquesti non sono pronti per vivere in totale autonomia e non vi sono solu-zioni intermedie. Nelle strutture di St Mungo’s i soggetti passano gradual-mente dalla primissima accoglienza, dove ricevono un intenso supporto, asoluzioni abitative pressoché indipendenti.

Attraverso un importante lavoro di rete con le realtà locali e il coin-volgimento di tutte le risorse e le competenze disponibili sul territorio,entrambi i progetti considerati sono in grado infine di offrire servizi cali-brati sui bisogni specifici della propria utenza e, allo stesso tempo, favo-riscono l’inclusione sociale dei senza dimora. I servizi e le azioni del pri-vato sociale possono infatti essere innovativi e d’eccellenza, ma solocoinvolgendo le realtà del territorio, i servizi pubblici, gli enti locali e lacittadinanza possono promuovere l’inclusione sociale dei soggetti a cuisi rivolgono. Nelle società contemporanee sempre più segnate da con-flitti sociali, svolgere un ruolo di mediazione tra i soggetti vulnerabili,spesso oggetto di pregiudizi e paure, e il resto della cittadinanza, assumesempre maggior importanza.

Sotto questo aspetto, tuttavia, i due progetti presi in analisi divergonoe ci mostrano due diversi modi di lavorare in rete. Cedars Road è unostello molto grande e a bassa soglia. Il suo impatto sul quartiere è inevita-bilmente alto; di conseguenza lo staff dell’ostello lavora da anni per creareuna relazione con la comunità locale, ascoltando le paure e le problema-tiche degli abitanti del quartiere e cercando di mediare tra questi e gliutenti dell’ostello. Un ruolo di mediazione viene poi effettuato dallo staff

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di Cedars Road anche rispetto ai servizi sanitari locali, facilitando l’accessoai servizi dei senza dimora e, più in generale, la loro inclusione sociale.

Endell Street era un ostello a bassa soglia di grandi dimensioni che,anche a causa della sua posizione nel centro di Londra, provocava vibrantidissensi e conflitti all’interno del quartiere. Costretto di fatto a chiudere,Endell Street ha poi avuto l’occasione, grazie a ingenti finanziamenti delgoverno, di rinnovare la struttura e riaprire, e ha iniziato una stretta colla-borazione con l’ente locale. Il nuovo Endell Street ospita oggi un numerodi utenti ristretto e riesce così a contenere il suo impatto sul quartiere.Questo è un punto chiave, perché la promozione dei soggetti vulnerabilinon può prescindere dalla loro inclusione nel tessuto sociale, ma questa ri-sulta più complicata quando prende le mosse da grandi strutture che con-centrano il disagio e che faticano a inserirsi nel tessuto urbano e sociale chele circonda. La scelta, più o meno obbligata, di accogliere a Endell Streetun’utenza selezionata ha contribuito poi ulteriormente a fare in modo chei servizi promossi all’interno dell’ostello portassero a risultati concreti, visi-bili e spendibili, anche agli occhi della comunità.

L’ingresso di Endell Street nel sistema centralizzato di ostelli delCamden Borough Council ha infine coinvolto più da vicino l’ente localenel promuovere azioni concrete a favore dei senza dimora; l’ente localesi è impegnato a mettere a disposizione del sistema di accoglienza mag-giori risorse ed è anche più coinvolto nella risoluzione dei problemi chei soggetti incontrano una volta usciti dagli ostelli, per esempio il pro-blema della mancanza di abitazioni a canone moderato nel distretto.

I risultati sono però stati ottenuti al costo di lasciare i più vulnerabiliin secondo piano. A Endell Street, prima del suo rinnovo, veniva accoltaun’utenza multiproblematica perché, come abbiamo visto, nel distrettodi Camden, nonostante la diffusione di ricchezza e benessere in moltezone, vi sono anche tassi di alcolismo e di disagio mentale molto alti.Quello che non è chiaro dunque è dove siano finite queste persone e chefine facciano tutti coloro che non riescono ad accedere a Endell Streetoggi. Il timore è che i soggetti più vulnerabili siano collocati in struttureper «multiesclusi», da cui poi faranno ancora più fatica a uscire. Moltidegli utenti di Cedars Road probabilmente finirebbero in queste «disca-riche sociali»; il fatto invece di essere accolti in un ostello dove, nono-stante tutte le difficoltà evidenziate, siano offerti i servizi e le opportu-

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nità per andare avanti, fa sì che una percentuale, anche se piccola, diquesti soggetti effettivamente ci riesca.

Emergono infine alcune difficoltà che faticano a essere risolte ancheall’interno degli ostelli di nuova generazione, come Endell Street. Le ri-sorse, il minor numero di utenti, la selezione all’ingresso e i numerosiprogetti di attivazione promossi all’interno dell’ostello, insieme a unamaggior pressione sul rispetto dei tempi stabiliti e dei risultati prefissati,sicuramente hanno fatto in modo che all’interno di Endell Street il si-stema dei pathways, dei percorsi attraverso tutte le fasi che dalla primaaccoglienza portano all’autonomia, funzionasse per un certo numero diutenti. In altri casi tuttavia lo staff si trova costretto a infrangere le re-gole, anche a costo di dover poi rendere conto agli enti finanziatori deiritardi, perché «se lavori totalmente sulle persone certi standard non liraggiungi mai. Perché semplicemente non è pensabile stabilire un tempostandard per un recovery», come sostiene Alphius. Il rischio dunque èche per rispondere alle pressioni, la promozione dell’autonomia si tra-sformi in una «emancipazione forzata» e che uno degli effetti sia poi unmaggior rischio di ricaduta al piano inferiore, alla fase precedente.

Per attenuare il rischio di ricaduta, che oltre a incidere sul percorsodi recovery del soggetto rende poco efficiente il sistema di assistenza,sembra essere necessario un maggior bilanciamento fra l’attenzione aibisogni, ai tempi e alle caratteristiche del soggetto e la necessità di valu-tare i risultati ottenuti attraverso indicatori oggettivi. Le associazioni delterzo settore che tutti i giorni lavorano a fianco dei beneficiari possono edevono contribuire a definire le modalità degli interventi e valutarnel’efficacia. Quello che i casi studio sembrano suggerire è la necessità dinon valutare gli interventi esclusivamente sulla base dell’inserimento deisoggetti nel mercato del lavoro e di riconoscere, come condizioni indi-spensabili per l’inclusione sociale, la realizzazione delle potenzialità diogni soggetto e la capacità di scegliere il proprio ambito di attivazione.

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INTERVISTE

Intervista 1: Direttore del Cedars Road Hostel-Lambeth di Londra.Intervista 2: Operatore del Cedars Road Hostel-Lambeth di Londra.Intervista 3: Responsabile dell’Area salute mentale di Endell Street Hostel-

Camden di Londra.Intervista 4: Responsabile del Progetto «Pathways to Employment» di Endell

Street Hostel-Camden di Londra.

Forme e livelli delle strategie di attivazione. Londra 241

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9. Responsabilità sociale d’impresa e accoglienza dei senza dimora Il caso di Parigidi Massimiliano Cossi

1. Il contesto

Il mercato del lavoro francese si caratterizza per un tasso di disoccupa-zione che, nel 2006, raggiungeva il 10% circa. La rigidità del mercatostesso si accompagnava a una varietà di contributi e forme di tassazione,addebitate al datore di lavoro, che solo adesso comincia a esserne parzial-mente sgravato. Il governo, infatti, ha di recente intrapreso una stradaispirata a una maggiore flessibilità e a una politica di agevolazioni fiscalinei confronti delle imprese. La forma di disoccupazione più difficile dacombattere è quella che coinvolge soggetti senza un impiego da lungotempo, i giovani, specie se poco qualificati, e gli over 45, i cosiddetti «la-voratori anziani».

Attualmente, nonostante i cambiamenti sopravvenuti, ciò che emergecon sufficiente chiarezza è il ruolo centrale ricoperto ancora dallo Stato,talvolta a dispetto della sua esplicita adesione al principio di sussidiarietà.L’ente pubblico avoca a sé una vasta gamma di prerogative e di compe-tenze. La Repubblica è indivisibile, recita l’art. 1 della Costituzione, ma lasua organizzazione è decentrata. Secondo il Conseil constitutionnel, però,a essere decentrato è l’esercizio, non già la titolarità di una competenza.

L’art. 72 definisce il concetto di collettività territoriale, che trova ap-plicazione concreta nei Comuni, nei Dipartimenti, nelle Regioni le quali,prima del 2003, non erano state menzionate dal testo, nelle Collettività astatuto speciale1 e nelle comunità d’Oltremare, vale a dire gli ex possedi-

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menti coloniali. A partire dalla riforma del 2003, la Collettività a statutospeciale può comprendere, per esempio, uno o più Dipartimenti, inci-dendo sul loro sostanziale livello di autonomia. In Francia, insomma, ilpotere centrale fatica a concedere loro spazio e non può certo dirsi inlinea con un modello tipicamente federalista.

Il ministero del Lavoro e le sue ramificazioni territorialiIl ministero dell’Occupazione, del lavoro e della coesione sociale è unattore decisamente strategico sia sul fronte dell’occupazione, sia suquello del contrasto all’esclusione e all’emarginazione sociale. Sul terri-torio, è rappresentato dai Dipartimenti regionali del lavoro, dell’occupa-zione e della formazione professionale (Drtefp), creati nel 1995, con unaserie complessa di attribuzioni, come risulta dalla tavola 9.1.

Tav. 9.1. Principali compiti dei Dipartimenti regionali del lavoro, dell’occupazione edella formazione professionale (Drtefp)

Consolidamento delle politiche nazionali riguardanti il lavoro, l’impiego e la formazioneprofessionale; snellimento della struttura amministrativa, in vista di un’efficacia e di un’ef-ficienza maggiori; sviluppo di strategie capaci di regolare la formazione professionale, permigliorarne la qualità e monitorare l’uso delle risorse pubbliche a essa destinate.

A tali organismi compete anche la funzione che, in Italia, è propria degli Ispettorati dellavoro, la quale si estrinseca in un’opera di vigilanza, nei confronti dei comparti secon-dario e terziario, affinché siano rispettati la legislazione e gli accordi collettivi via via sti-pulati dalle parti interessate. I Drtefp, inoltre, fungono da consulenti per i datori di la-voro, per i dipendenti e le rappresentanze sindacali e sono delegati dallo Stato all’imple-mentazione di misure di politica attiva del lavoro.2

2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertà nel contesto considerato

In Francia le politiche attive del lavoro si riferiscono a specifici targetgroups, per ciascuno dei quali esistono obiettivi definiti e misure di at-

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tuazione dettagliate. I provvedimenti adottati, naturalmente, riguardanoe i datori di lavoro e i salariés. Per quanto concerne i primi, i dispositivimirano a favorire l’assunzione dei disoccupati. Ne sono un esempio l’in-troduzione di contratti agevolati, di aiuti ai proprietari delle imprese,nonché le azioni per incentivare l’assunzione di personale e le misure diriduzione degli oneri finanziari.

I contratti agevolati escludono i datori di lavoro dal versamento deglioneri sociali, ma insieme impongono all’ente pubblico di provvedere, al-meno in parte e sotto il profilo monetario, ai processi di riqualificazioneprofessionale del personale e all’incentivazione all’assunzione. Gli aiuti,di natura economica, sono concessi dall’Assédic, il centro per i sussidi didisoccupazione, e concernono coloro che assumono i percettori del-l’Aide au retour à l’emploi (Are)3 in grado di documentare la propriainattività da almeno dodici mesi.4 In tal caso, il contratto da stipularedovrà essere a tempo indeterminato o anche determinato, ma non infe-riore a un lasso di tempo pari a un anno solare.5 La somma sborsata dal-l’Assédic è erogata secondo una cadenza rateale e può durare fino a treanni; il suo ammontare è stabilito, in percentuale, rispetto allo stipendiocorrisposto al momento dell’assunzione.

Quanto alle agevolazioni per l’assunzione di personale, i target mag-giormente interessati sono i disabili e i giovani. Rispetto alle esenzioni ealle riduzioni, delle quali potrebbero beneficiare i datori di lavoro, in-fine, bisogna segnalare sgravi fiscali sui salari cosiddetti «bassi» e facili-tazioni per chi assume il primo dipendente, nella prospettiva dell’affer-marsi di uno spirito di creazione d’impresa.

Se si sposta il focus su chi è alla ricerca di un impiego, le misure sonoessenzialmente tre. Da un lato vi sono dispositivi di accompagnamentopersonalizzato all’inserimento professionale, dall’altro la formazione,dall’altro ancora azioni riguardanti l’inserimento nelle aziende.

Il tutto è incrementato attraverso l’introduzione di ulteriori misure,prima fra tutte il Piano di coesione sociale, avviato all’inizio del 2005.Esso, a sua volta, si compone di una ventina di programmi che conside-rano, in una prospettiva integrata, alcuni settori nevralgici quali l’im-piego, la sistemazione abitativa e l’accesso effettivo a un sistema checonferisca alle persone pari opportunità. Lo stanziamento dello Stato èdi 15 miliardi di euro, per un periodo di cinque anni.

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In secondo luogo, si devono ricordare i dispositivi a sostegno dei gio-vani, dalla prima infanzia fino ai 25 anni, a partire dalla Mission généraled’insertion, ideata per prevenire le situazioni di abbandono scolastico eper far sì che i ragazzi possano conseguire un diploma o una qualifica.Le principali iniziative, in tal senso, puntano sulla rimotivazione deglistudenti, sul sostegno allo studio e sull’accompagnamento al lavoro.

Attraverso le Missions locales, dedicate alla fascia d’età compresa trail 16 e i 25 anni6 proveniente da quartieri disagiati, i fruitori del servizioseguono un percorso d’inclusione sociale e d’inserimento lavorativo chesi declina come descritto dalla tavola 9.2, dove trovano spazio l’elabora-zione di progetti professionali, la definizione di piani formativi, misuredi sostegno e di ricerca di un’occupazione e altro ancora.

Tav. 9.2. Misure di inclusione sociale e di inserimento lavorativo implementate dalleMissions locales

Creazione di un progetto professionale; definizione di un percorso formativo, coerentecon il progetto di vita della persona e con le opportunità offerte dal mercato del lavoro;strutturazione di colloqui di lavoro, sotto forma di simulazione intermediazione tra im-prese e clienti ( job matching)

Quanto ai servizi per l’impiego, in Francia vi è una struttura dall’assettoassai centralizzato, dipendente dal ministero del Lavoro. L’Agence na-tionale pour l’emploi7 (Anpe), nata nel 1967, è gestita da rappresentanzeche fanno capo allo Stato, ai sindacati e agli imprenditori. Il suo diret-tore generale, nominato dal governo, è responsabile del bilancio ed è acapo di un organismo complesso con oltre 20mila dipendenti. L’organi-gramma dell’ente è di tipo piramidale e conta una Direzione nazionale,tante direzioni decentrate quante sono le regioni e diverse sedi provin-ciali. I lavoratori vengono collocati sia nel settore pubblico sia in quelloprivato; la principale attività consiste nella raccolta delle offerte prove-nienti dalle aziende e nella creazione di una banca dati contenente i no-minativi dei candidati a un impiego. Fino al 2005, l’Anpe deteneva informa monopolistica la gestione delle liste dei disoccupati. Dal 2004, in-vece, sono stati introdotti criteri volti al migliore utilizzo delle risorse

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umane, a seguito di un accordo stipulato con le stesse rappresentanzesindacali. In pratica, i servizi per l’impiego sono stati ridisegnati attra-verso la suddivisione dell’organizzazione in aree quali la consulenza allavoro, la supervisione e la direzione di servizi formativi ecc. In un’otticapiù operativa, le agenzie locali sostengono i lavoratori nella preparazionedei curricula, dei colloqui di lavoro e nella strutturazione di un progettoprofessionale. Nei casi in cui il placement risultasse particolarmente diffi-coltoso, è previsto un accompagnamento specifico, che implica l’elabora-zione di una vera e propria strategia d’azione, associata a un bilancio dellecompetenze e alla frequenza di corsi di formazione/(ri)qualificazione mi-rati. Di solito, questo tipo di servizio è destinato ai disoccupati di lungadurata.

Si deve inoltre ricordare che l’Anpe non limita il proprio intervento achi cerca un impiego, ma si rivolge contestualmente alle imprese, che,non di rado, affidano all’agenzia pubblica azioni di ricerca del perso-nale: dall’affissione di annunci alla preselezione dei candidati, dalla veri-fica dei titoli acquisiti per via formale (diplomi, qualifiche, attestati) almonitoraggio delle reali competenze di cui ciascuno è in possesso.8

3. Le activation policies in Francia e il loro intreccio con le politiche sociali

Le politiche del lavoro in Francia hanno tradizionalmente tutelato i la-voratori a tempo indeterminato (Castel 1995), a svantaggio di coloro chehanno intrapreso percorsi caratterizzati da minore certezza di mante-nere la propria occupazione nel tempo (Esping-Andersen 2002). La re-golazione del mercato del lavoro francese «si è caratterizzata per la pre-senza di forti rigidità a tutela del lavoro salariato a tempo indeterminato[...], lasciando invece maggiormente scoperto l’insieme dei gruppi lavo-rativi più ai margini dei settori centrali del mercato del lavoro, come ledonne, i giovani, o quei lavoratori caratterizzati da carriere lavorativepiù frammentate e instabili» (Ciarini 2008, p. 156).

Le prestazioni sociali non sono connesse al diritto di cittadinanza enon poggiano su alcuna base universalistica, ma dipendono dalla condi-zione professionale del lavoratore, in funzione di cui egli risulta più o

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meno tutelato. Tale situazione riposa sopra il principio in base al qualela protezione del lavoratore salariato dipendente si è tradizionalmentedeclinata nella tutela del maschio, vale a dire il capofamiglia con un’oc-cupazione stabile, dove ha prevalso una netta divisione di genere quantoai compiti di cura.

Il legislatore, in sostanza, ha legittimato una visione socialmente af-fermata non solo in Francia fino alla seconda metà del Novecento, cherelegava la donna in una posizione di retroguardia, facendone un capo-saldo del focolare domestico e riservando all’uomo l’onore e l’oneredell’impiego extra muros, che lo rendeva l’unico percettore di reddito.Nei suoi confronti, le stesse politiques du travail hanno coinvolto leparti sociali in una modalità inedita nel resto del Vecchio continente,quella del paritarisme: lo Stato, gli imprenditori e i sindacati hanno par-tecipato in prima persona alla regolazione di organismi paritetici, la-sciando ai sindacati medesimi un’ampia possibilità di movimento ed’influenza.9

Naturalmente, l’ente pubblico è intervenuto in diversi modi sotto ilprofilo fiscale, attuando interventi di ampio respiro in un’ottica solidale.Basti pensare alle consuete politiche passive, che tenevano completa-mente il campo fino a qualche anno fa, e ai nuovi approcci, che richie-dono un maggior coinvolgimento da parte del lavoratore, una sua attiva-zione. Egli non appartiene alla categoria di soggetti la cui attività è rego-lata dal paritarisme, quanto piuttosto a una fascia consistente della po-polazione attiva, esposta a una condizione di maggior vulnerabilità e de-stinataria dei programmi di reinserimento, denominati chantiersd’insertion. Questi, in genere, sono stati elaborati per i segmenti più de-boli del mercato, individui o famiglie, che hanno contribuito non pocoall’incremento del settore terziario. D’altro canto, i vincoli non si sonorivelati poi così stringenti rispetto all’utenza ed è stato mantenuto «unimpianto ancorato a una visione della protezione sociale che concepiscelo stato di disoccupazione come un fenomeno incidentale, indipendentedalla volontà del soggetto, e verso il quale è lo Stato che deve farsi caricodi porre rimedio» (ivi, p. 163).

Perciò, il principio di attivazione, a differenza di quanto accade in In-ghilterra, non prevede l’entrata in vigore di particolari meccanismi san-zionatori, qualora venisse disatteso, benché la fruizione dell’indennità di

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disoccupazione, per esempio, sia correlata al soddisfacimento di unaserie di requisiti, come risulta dalla tavola 9.3.

Tav. 9.3. Criteri per ottenere l’indennità di disoccupazione

1. Possesso di un inquadramento contrattuale per almeno 6 mesi nell’ultimo biennio.10

2. Assenza di licenziamenti, per quanto concerne l’ultima occupazione, a causa di motiviriconducibili al lavoratore.11

3. Registrazione presso gli uffici di disoccupazione.

4. Frequenza a un corso di formazione.

5. Possesso di un’età comunque inferiore ai 60 anni.

6. Possibilità di documentare la ricerca attiva di un impiego.

Attivarsi per ricercare un lavoro comporta la titolarità di un reddito mi-nimo. Ciò è avvenuto con il Revenu minimum d’insertion (Rmi), intro-dotto nel 1988, nonostante gli stessi vincoli non fossero tali, nemmeno inquesto caso, da far pensare al sistema di workfare britannico. La parolad’ordine era «occupabilità» e non «occupazione». Infatti, ne hanno ap-profittato in prima istanza i neodiplomati, che ancora erano in cerca diun impiego. Secondo i dati a disposizione, gli scenari più verosimili sonodue: da una parte, i fruitori del Rmi hanno trovato una strada per nongravare sull’economia delle rispettive famiglie, nell’attesa di entrare nelmercato del lavoro;12 dall’altra, gli individui che vi hanno fatto ricorso,almeno per il 20% dei casi, l’hanno intesa alla stregua di una misura pernon scendere al di sotto del livello di sussistenza, dal momento che si av-valgono di quella sovvenzione da più di tre anni (Barbier 2004).

L’insertion costituisce pure uno strumento per venire incontro a sog-getti interessati dal disagio, come i disoccupati di lungo corso. In parti-colare, sono le organizzazioni afferenti al terzo settore che si fanno ca-rico della loro assunzione, incentivate da significativi sgravi in ambitocontributivo.13 Il partenariato locale, come si cercherà di mostrare nellatrattazione dello studio di caso illustrato nelle pagine che seguono, è unodegli elementi qualificanti del sistema e coinvolge le amministrazioni lo-

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cali, insieme ad attori del privato sociale. I chantiers, al 2005, raggiunge-vano addirittura i 3300 insediamenti e a oggi rappresentano un punto divista privilegiato per osservare l’intreccio di politiche sociali, di attiva-zione e creazione d’impiego nel settore terziario. In Francia, le stesse as-sociazioni del privato sociale, con altre realtà for profit come le agenziedi lavoro temporaneo, agiscono secondo modalità differenziate. Si occu-pano di attività d’intermediazione di manodopera, lavorano attraversol’utilizzo di personale interno e costituiscono unità interne ad hoc, dediteal reclutamento del personale per le famiglie, che divengono i veri epropri datori di lavoro di colui che è impiegato a domicilio.

4. «Mission Solidarité»

«Mission Solidarité» è un progetto promosso dalle Ferrovie dello Statofrancesi (Sncf) fin dal 1993,14 con l’obiettivo di offrire un significativocontributo alle politiche territoriali di lotta contro l’esclusione sociale,nel tentativo di contrastare varie forme di precarietà che, mano a mano,emergevano dall’attenta analisi del fenomeno. Dal punto di vista orga-nizzativo, Sncf ha scelto di allearsi con alcuni protagonisti del privatosociale e con realtà ben radicate nel territorio, mantenendo sempre ilruolo di «ente capofila» e coordinando l’azione di questi ultimi. A par-tire dal 1993, infatti, si è proceduto alla realizzazione di centri di acco-glienza, diurna e residenziale, dedicati alle persone che, spesso impossi-bilitate nel pagare un affitto, si riversavano nelle stazioni per trovare unriparo. Sovente si trattava di individui, qualche volta di famiglie o diparti di esse, il cui reddito le poneva al di sotto della soglia di povertà.

Nel 2005, secondo le indicazioni dell’Istituto europeo di statistica(Eurostat),15 in Francia una persona poteva essere considerata povera atutti gli effetti se il suo reddito mensile era inferiore a 681 euro. Nel2006 l’Observatoire national de la pauvreté et de l’exclusion sociale(Onpes) ha stimato che i francesi al di sotto della soglia di povertà, sonocirca 7,9 milioni, vale a dire il 13,2% della popolazione. Ciò, natural-mente, non significa, almeno nella grande maggioranza dei casi, che gliinteressati vivano in una condizione di deprivazione totale, senza soddi-sfare i bisogni elementari, ma che «essi aspirano non solo a mangiare,

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ma anche ad avere un alloggio decente, a studiare o a lavorare [...] comegli altri».16 Soltanto una piccola parte di questo 13,2%, oltre ai problemieconomici, presenta un disagio ben più grave, causato dalla dipendenzada stupefacenti, da alcolici o da precarie condizioni psichiche, e cercaasilo nelle stazioni.

Qual è stata, in questi quindici anni, la strategia di Mission Solidaritéper venire in soccorso alle forme più estreme di povertà?

Sul piano operativo, le ferrovie francesi hanno deciso di affrontare l’ur-gence sociale attraverso l’implementazione di quattro dispositivi: a) équipemobili di aiuto; b) luoghi di accoglienza diurna; c) centri di accoglienzaper situazioni urgenti e d) centri di accoglienza per situazioni urgenti, ac-compagnate da azioni di reinserimento sociale.17 Nel primo caso, opera-tori, infermieri e volontari organizzano veri e propri tour nelle aree internee adiacenti alle stazioni, alla ricerca di persone che, di propria iniziativa,difficilmente si rivolgerebbero ai punti di ritrovo. L’aiuto consiste in unservizio di natura informativa, che descrive alla persona le diverse strut-ture cui potrebbe accedere.

Nelle stazioni particolarmente colpite dalla presenza dei senza tetto, laSncf sostiene delle maraudes, vale a dire delle ronde di operatori socialiche vanno alla ricerca di persone in situazione di grande difficoltà, peraiutarle e orientarle. Grazie alle maraudes, queste ultime possono essereindirizzate verso luoghi di accoglienza o strutture abitative (FondationSolidarité 2008a, p. 2).18

I luoghi di accoglienza diurna (Espace solidarité insertion, Esi) si rivol-gono a coloro che abbisognano di vestiario, servizi igienici, cibo, maanche di un sonno ristoratore.19 Nell’area parigina ne esistono tre, loca-lizzati presso la Gare de Lyon, la Gare du Nord e la Gare d’Austerlitz.Nella sola Gare d’Austerlitz, per esempio, è stato attrezzato uno spaziodi 200 mq, che consente di accogliere circa 70 persone al giorno. Volon-tari propongono ai senza tetto di assumere un pasto, di fare una doccia odi utilizzare una lavatrice per la biancheria. Inoltre, «laboratori per la ri-cerca di un impiego, un luogo di accoglienza e centri di arte-terapia sonostati aperti per aiutare queste persone a lottare contro l’esclusione»(ibid.).

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I centri di accoglienza per situazioni d’emergenza (Centres d’héber-gement d’urgence, Chu) consentono di pernottare per un periodo varia-bile, che in ogni caso non supera i tre giorni, offrendo anche il vitto,mentre i centri di accoglienza per situazioni d’emergenza, accompagnateda azioni di reinserimento sociale (Centres d’hébergement et de reinser-tion sociale, Chrs), assegnano un alloggio a singoli o a famiglie in situa-zioni di grande difficoltà, soprattutto economica, abitativa o relativa allecondizioni di salute. La durata dell’intervento varia da sei mesi a unanno. Quest’ultimo servizio contempla iniziative di reinserimento nellavita attiva e professionale. Ciascun Dipartimento, inoltre, dispone di unnumero pubblico gratuito che gli utenti possono contattare in caso di bi-sogno.20

Quindici anni d’impegno assiduo, senza soluzione di continuità,hanno permesso agli estensori del progetto «Mission Solidarité» di for-marsi un quadro della situazione molto preciso. Il vagabondaggio, nellestazioni e nelle zone limitrofe, è un fenomeno prevalentemente maschile(Fondation Solidarité 2008b, p. 6)21 e coinvolge per lo più individui ap-partenenti a una fascia d’età piuttosto avanzata (ibid.).22 Le condizioni divita, talvolta proibitive, hanno causato spesso problemi di natura fisica(ibid.)23 e psicologica, che hanno indotto le persone a consumare ingentiquantitativi di alcolici, nel tentativo di fuggire la miseria dell’esistenzaquotidiana. I senza dimora che gravitano intorno alle stazioni, inoltre,lasciano evidenti tracce di sé: cartoni per proteggersi, sacchi, bottiglievuote e altro ancora.

Gli operatori che li avvicinano cercano di persuaderli del fatto cheuna situazione del genere, oltre a essere incompatibile con le normali at-tività di una stazione, crea abitudini assai difficili da sradicare. Ferme re-stando le indicazioni sopradescritte, unitamente alle misure di acco-glienza cui si è fatto cenno, essi, con l’aiuto del personale in servizio,sono tenuti a compiere una serie di operazioni che scoraggino la perma-nenza dei clochards nelle stazioni medesime. In primo luogo devono alle-stire gli spazi in maniera che non si creino ambienti isolati e poco visi-bili, così che i senza tetto possano essere facilmente identificati e sianoscoraggiati dall’insediarsi. Poi sono invitati a richiedere in visione, ove sene verificasse l’opportunità, il biglietto ferroviario, per sincerarsi che gliastanti siano effettivamente fruitori del servizio. Infine, sono tenuti a de-

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dicarsi, più volte al giorno, alla pulizia dei luoghi ai quali i senza tetto ac-cedono con maggiore frequenza.

Il personale di «Mission Solidarité» può scegliere una tra queste duestrategie: da un lato, il ricorso ai «partner dell’emergenza sociale»; dal-l’altro il riferimento alla Sncf e alla Direction déléguée développementdurable, una sua emanazione. Per attivare la prima opzione, è necessarioprendere contatto con il Coordinateur citoyenneté et solidarité (Ccs),24

che offre il proprio contributo per pianificare incontri con il Ddass (Di-rection des affairs sanitaires et sociaux), i servizi comunali25 e, se è ilcaso, la polizia nazionale. Dopo l’analisi della situazione, l’incaricato for-mulerà una diagnosi finalizzata all’attivazione di un «dispositivo soli-dale», nella stazione o nel quartiere dove essa sorge. La seconda azionesi avvale dell’ausilio diretto di Sncf, che offre la propria consulenza eprepara la convenzione di partenariato con l’associazione specializzataritenuta più idonea.

In linea generale, la gestione di fenomeni così complessi nelle stazioninon è stata facile, per la necessità di conciliarli con la qualità del servizioferroviario, il vero e proprio core business di Sncf. Perciò, essa ha decisodi formare e di aggiornare costantemente il personale, insistendo sullavalorizzazione e lo sviluppo delle doti di empatia e delle capacità relazio-nali degli operatori, che oggi raggiungono le 1500 unità. I corsi hannoun taglio eminentemente pratico e i docenti, lungi dal soffermarsi suquestioni di natura teorica, illustrano e discutono casi concreti real-mente accaduti o situazioni verosimili, in maniera da fornire all’interes-sato strumenti utilizzabili. Il progetto avviato da Sncf, infine, non tra-scura nemmeno gli agenti di polizia ferroviaria, quelli della sicurezza e icontrollori, che quotidianamente interagiscono con gli individui porta-tori di disagio (ivi, p. 5).

I protagonisti dell’accoglienzaL’azione delle ferrovie dello Stato francesi, ente a partecipazione esclusi-vamente pubblica, si avvale dell’ausilio di alcuni partner specializzati,con i quali Sncf stipula una convenzione di durata annuale; l’accordo trale parti si rinnova tacitamente per altri 365 giorni, in mancanza di validimotivi che giustifichino il diniego di uno dei contraenti.

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Periodicamente le associazioni partner sono invitate agli incontrisulla sicurezza nelle stazioni (réunions-sûreté ) insieme alla polizia, nazio-nale e locale, e a tutti coloro che, in qualche misura, sono coinvolti nelprogetto. Inoltre, è presente un comitato direttivo,26 che raggruppa ilDdass, i Comuni interessati, Sncf e, ovviamente, le associazioni. Esso siriunisce almeno due volte l’anno, sulla base di un calendario preceden-temente definito, per consentire alle imprese coinvolte27 di fare il puntodella situazione e di apportare, se le circostanze lo esigono, i correttividel caso in corso d’opera.

Centre d’action sociale protestant (Casp)Tra i partner più importanti di Sncf si deve ricordare il Centre d’actionsociale protestant (Casp), un organismo creato in seno alla Chiesa rifor-mata francese all’inizio del Novecento. Da più di cent’anni il Casp èun’associazione riconosciuta di utilità pubblica e la sua filosofia s’ispiraad alcuni semplici principi. Innanzitutto,

la parola «Centro» non indica un luogo geografico, quanto piuttosto lapreoccupazione di esprimere la posizione centrale dell’uomo [...]. La suaazione si traduce in un impegno dove professionisti e volontari, donne euomini di buona volontà si associano per rispondere nel modo più appro-priato alle persone disperate che li sollecitano. Il [termine] «sociale» ri-manda in primo luogo a un’organizzazione che mette a disposizione un sa-pere e delle competenze per aiutare queste persone nei percorsi relativi ailoro progetti di vita, ponendoli deliberatamente come attori della loroemancipazione. La P di Casp si riferisce al coinvolgimento cristiano e ri-suona al pari di un atto di protesta di uomini e donne che dicono no da-vanti all’ingiustizia.28

In sintesi, gli elementi chiave sono la centralità della persona, specie diquella che vive in condizioni di disagio, la preparazione professionaledegli operatori, siano essi retribuiti o lavoratori a titolo volontario, el’approccio cristiano alla vita e alle azioni di contrasto all’ingiustiziasociale.

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A cent’anni dal riconoscimento del Casp come associazione di pub-blica utilità, il suo consiglio di amministrazione ha deciso di creare unafondazione, la Fdp-Fondation Casp, resa peraltro necessaria da unaserie di incombenze concrete da fronteggiare, quali la selezione e lascelta dei progetti innovativi in campo sociale, ai quali l’organizzazioneintende partecipare; la destinazione delle donazioni ricevute a progettidel Centre d’action sociale protestant e il coordinamento delle iniziativeall’interno della comunità protestante. L’esistenza di una fondazione,inoltre, rappresenta uno strumento che, almeno in parte, ha consentito econsente tuttora al Casp di non vincolare totalmente la propria azione acontributi di natura pubblica i quali, solitamente, vengono erogati persoddisfare precise azioni espressamente previste nei bandi, con l’effettodi limitare la libertà d’intrapresa.

Se la sua missione la porta a lottare contro la povertà, l’esclusione e ildisagio, gli strumenti per conseguire l’obiettivo sono identificabili nel-l’accoglienza, nell’aiuto e nell’accompagnamento al lavoro, senza distin-zione di religione, razza, ideologia o nazionalità, con particolare atten-zione a problematiche di ordine psicologico-morale, relazionale, giuri-dico, economico e spirituale. Da un lato, il Casp può essere definito ur-gentiste; dall’altro, promotore di azioni di inserimento lavorativo. E nonc’è contraddizione, poiché «questi due approcci, dal suo punto di vista[del Casp] sono complementari: l’urgenza, gesto umanitario, rispondealla prima necessità; l’inserimento [professionale] è una strategia sulmedio o sul lungo termine che mira all’autonomia della persona».29

Principalmente impegnato nell’area del Comune di Parigi, i suoi in-terventi si estendono talvolta all’intera Île de France. Nel 2007 impie-gava 215 persone retribuite, mentre i volontari erano 100 e si contavanoquasi 1000 donatori. Nello stesso anno, sono state assicurate 1,2 milionidi accoglienze notturne, 80mila pasti, 1000 visite mediche e 20mila col-loqui di orientamento o di avviamento al lavoro.

Per quanto concerne la collaborazione con le ferrovie dello Statofrancesi, il Casp è attivo su tre fronti: i centri di Paris Vaugirard, di PontCardinet e di Pantin. L’edificio di Paris Vaugirard si trova di fronte allastazione di Montparnasse e può accogliere, nella forma residenziale, 40persone.30 I beneficiari, ogni anno, sono all’incirca 250. Pont Cardinet èubicato nell’omonima stazione31 e dispone di 40 posti. Anche in tal caso,

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i fruitori del servizio raggiungono le 250 unità.32 Il complesso di Pantin,recentemente ristrutturato, offre asilo notturno a una cinquantina disenza tetto.33 Vi accedono soltanto uomini di età compresa tra i 18 e, disolito, i 50 anni,34 con una chiamata al 115, il numero telefonico di assi-stenza sociale valido su tutto il territorio nazionale, o contattando lostesso Casp. Pantin mette a disposizione le competenze di cui dispone inambito burocratico, giuridico, sociale e medico. In gran parte, i finanzia-menti provengono dallo Stato35 e, in seconda istanza, dal Comune di Pa-rigi o da donazioni private.

Il Secours catholiqueUn altro importante partner di Sncf è il Secours catholique, nato daun’idea di monsignor Jean-Baptiste Rodhain, un sacerdote francese chesvolse le funzioni di cappellano durante la Seconda guerra mondiale.36 Nelsuo intendimento, l’organizzazione si sarebbe dovuta adoperare «perdiffondere dappertutto, in Francia, una carità app licata alle moltepliciforme di povertà, senza distinzione di razza, religione o nazionalità».37

Dal 1962 il Secours catholique è un’associazione riconosciuta di utilitàpubblica. Attualmente, conta 97 delegazioni diocesane, 4020 équipe localie 64mila volontari, nella convinzione che la strategia di rete sia una dellepiù efficaci modalità per combattere il disagio. Oltralpe, esso partecipa anumerose iniziative destinate alle persone più vulnerabili: senza dimora,migranti, detenuti, disoccupati, famiglie in difficoltà. A livello internazio-nale, il Secours sostiene i programmi d’emergenza e quelli di sviluppo le-gati ai suoi partner europei, africani, asiatici e dell’America Latina.

Nel 2007, come recita il «Rapport d’activité»,38 le azioni di soccorsosono state 629 500, per un totale di 1 403000 persone coinvolte. In part-nership con Sncf, il Secours gestisce un centro di accoglienza nella Gared’Austerlitz, dedicato ai senza dimora. La novità più interessante, ri-spetto all’esperienza del Casp precedentemente illustrata, è la presenzadi un dipendente delle ferrovie all’interno della struttura, che ne assi-cura il collegamento con «Mission Solidarité». Agli indigenti che gravi-tano intorno alla stazione si aggiungono coloro che frequentano l’am-biente circostante. In principio, a tutti venivano distribuiti il pranzo e lacena; poi, a causa del numero degli utenti effettivi che raggiungevano il

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quartiere da ogni parte, il servizio è stato sospeso, dal momento che iproblemi organizzativi, sorti dalla nuova situazione, danneggiavano so-prattutto i veri destinatari. Il centro è dotato di docce, cucina, locali perlavare la biancheria, di una biblioteca e di un laboratorio di ceramica. Du-rante i pomeriggi, gli operatori organizzano regolarmente attività ricrea-tive, finalizzate alla socializzazione e all’acquisizione di nuove compe-tenze,39 senza trascurare lo sport.40 Le ferrovie hanno reso disponibile l’e-dificio, ristrutturandolo e facendosi carico delle spese di luce, acqua, gase riscaldamento. Per gli ulteriori investimenti, interviene in prima per-sona il Secours, che destina al progetto una somma pari a circa 34milaeuro. Com’è avvenuto nel caso del Casp, anche qui è presente un Co-mité de pilotage, incaricato della cogestione delle iniziative.

Il Movimento EmmaüsAnche il Movimento Emmaüs collabora stabilmente con le Ferroviedello Stato francesi. Esso fu fondato nel 1949 dal religioso Henri-An-toine Grouès, più noto come l’abbé Pierre, con l’obiettivo di aiutare ipoveri, gli esclusi, i rifugiati e le persone senza una dimora. Dopo l’ordi-nazione sacerdotale, avvenuta nel 1938, Grouès entrò a far parte dell’e-sercito francese in qualità di sottufficiale, in occasione della Secondaguerra mondiale. Leader della Resistenza, dopo il conflitto si dedicò allapolitica, con il consenso delle autorità religiose parigine.41 Pacifista e fa-vorevole al disarmo nucleare, l’abbé Pierre si batté alacremente per il ri-conoscimento dell’obiezione di coscienza. All’inizio degli anni cin-quanta, però, concluse la propria esperienza presso le istituzioni per de-dicarsi ai diseredati e ai senza tetto, nonostante la fama acquisita nelcontempo lo avesse posto al centro della vita nazionale e non solo. Avevaacquistato e ristrutturato un vecchio edificio, con l’obiettivo di consen-tire a un gruppo di giovani di ritrovarsi, pregare e confrontarsi. In se-guito, tuttavia, l’associazione cambiò fisionomia, assumendo i caratteridi un ente caritatevole, desideroso di aiutare gli ultimi a trovare una di-mora, a garantirsi un pasto caldo e a inserirsi nel mondo del lavoro. Ilmovimento ebbe ben presto grande successo e si presentò la necessità diacquistare nuove case di ospitalità. D’altro canto, dagli anni sessanta ilreligioso promosse numerosi incontri di giovani, interessati a un’espe-

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rienza comunitaria intensa, volta alla formazione di un pensiero critico,orientato a combattere l’ingiustizia e a diffondere le idee pacifiste. Inter-venne presso il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush senior, du-rante la guerra del Golfo, e non trascurò di sollecitare la massima caricaistituzionale francese, il presidente François Mitterrand, affinché pren-desse una posizione decisa in favore delle classi più disagiate.42 In que-st’ottica, e in chiave locale, deve essere letto l’accordo tra le ferrovie el’associazione, stipulato nel 1985. In particolare, fu la comunità EmmaüsNeuilly-Plaisance, in collaborazione con Emmaüs France, ad aprire uncentro di accoglienza di bassa soglia. Lì, sei membri che vi risiedevano inpianta stabile si dedicarono alla manutenzione di vecchi vagoni dellaSncf. Novanta persone senza casa potevano così evitare un inverno al-l’addiaccio, ricevendo giornalmente cibo e vestiti (anche da parte di ge-nerosi donatori parigini).

Oltre al Casp, al Secours catholique e al Movimento Emmaüs, numerosialtri partner sono impegnati nelle attività di accoglienza in capo alle fer-rovie dello Stato francesi. Tra questi, si devono ricordare almeno laCroce rossa francese, che mette a disposizione uomini e mezzi per inter-venti di soccorso e rianimazione nei pressi delle stazioni ferroviarie, el’Esercito della salvezza, un ente fondato in Inghilterra in piena rivolu-zione industriale, verso la fine dell’Ottocento, dal pastore WilliamBooth.43 Sia la Sncf, sia gli attori che questa è riuscita a coinvolgere nelprogetto «Mission Solidarité» condividono una filosofia basata su trepunti: prevenzione, lavoro e lotta contro l’esclusione sociale. Sul primofronte, non trascurabile è l’iniziativa che ha portato a sensibilizzare i gio-vani «ai rischi specifici cui si va incontro presso le stazioni ferroviarie[...]: è l’ambizione di un vero e proprio programma pedagogico» (Fon-dation Solidarité 2008b, p. 2).

Per quanto concerne il lavoro, «Sncf contribuisce alla coesione so-ciale, favorendo l’accesso all’insertion di persone disagiate per un pe-riodo piuttosto lungo, ma anche a giovani poco qualificati, per reinte-grarsi nel mondo del lavoro (ivi, p. 3).

Sul piano della lotta contro la povertà, infine, «Sncf si è misurata confenomeni di grave esclusione sociale, i quali si traducono nella presenzadi persone senza fissa dimora e senza domicilio nelle stazioni. Per conci-

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liare esigenze commerciali e solidarietà, l’impresa attua dei dispositivi dipresa in carico di queste persone, appoggiandosi a delle associazionispecializzate» (ivi, p. 4).

Ma è sul secondo aspetto che conviene ritornare, per meglio com-prendere le dinamiche e le logiche dell’insertion.

5. I chantiers d’insertion: il lavoro come strumento di reinserimento sociale

I chantiers d’insertion, come recita l’art. L. 322-4-16-8 del Codice del la-voro, sono dispositivi attuati da un ente pubblico o da un organismo didiritto privato senza fini di lucro, con l’obiettivo di assumere persone incondizioni di disagio e fragilità per favorirne l’inserimento lavorativo eprofessionale. Le attività, dunque, hanno un carattere di utilità sociale,poiché gli «atelier e chantiers d’insertion assicurano l’accoglienza, l’as-sunzione e l’avvio al lavoro su azioni collettive delle persone suddette[...] e ne organizzano il seguito: accompagnamento, inquadramento tec-nico e formazione, con il fine di facilitare la loro integrazione sociale e diricercare le condizioni di un inserimento professionale duraturo».44

I «cantieri» vengono aperti nelle aree site a ridosso delle stazioni fer-roviarie; il personale qualificato, che segue le persone senza dimora ocomunque in situazione di precarietà sociale, non ha solo competenze inambito lavorativo, ma pure sotto il profilo pedagogico-educativo. Laloro durata varia da sei mesi a tre anni. Diverse tra le organizzazioni pre-cedentemente ricordate – per esempio il Casp, Emmaüs e il Secourscatholique – sono di fatto titolari di azioni di reinserimento di senza di-mora e di clochards.

Rispetto alla persona bisognosa, l’insertion professionnelle è un modoper rimobilitarsi, scoprire nuovi mestieri, riprendere ritmi di vita cuinon si era più abituati, valutare se stessi, riqualificarsi e accedere a unimpiego che dura nel tempo. Per le ferrovie, invece, questo dispositivorisponde perfettamente alla necessità di salvaguardare il proprio patri-monio, ma insieme al bisogno di migliorare il livello dei servizi destinatiai clienti dei trasporti pubblici (Fondation Solidarité 2006, p. 2). I di-pendenti a tempo determinato sono coinvolti nella sistemazione degli

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spazi verdi (potatura di piante, livellamento di terreni ecc.) o nella ristrut-turazione di edifici (pittura, muratura, recinzione, demolizione ecc.).

Spettano a Sncf la definizione delle priorità riguardo alle opere da rea-lizzare, la formazione dei salariati e la realizzazione di un piano di preven-zione dei rischi che si corrono in cantiere. Le associazioni del privato so-ciale coinvolte sono responsabili dei fondi ricevuti, in particolare dell’usodegli stessi, che provengono dallo Stato, dagli enti locali o da altri posses-sori di fondi pubblici (Fondo sociale europeo, fondazioni ecc.). In linea diprincipio, il funzionamento di un cantiere dipende in larga misura dal tipodi attività svolta. Con un certo grado di approssimazione, tuttavia, si puòaffermare che il contributo delle ferrovie ammonti circa al 30% e si de-clini in termini di fornitura di materiali, necessari all’esecuzione delle atti-vità. Il restante 70%, a carico dello Stato o di altri partner pubblici, è alcontrario costituito da risorse di tipo economico.

Uno dei cantieri più interessanti è quello aperto per valorizzare la«piccola cintura parigina», costruita nella seconda metà dell’Ottocento.Realizzata intorno alla capitale, che circonda completamente, la cintura èstata il primo esperimento su rotaie della città. In principio sarebbe do-vuta servire per il trasporto delle merci; in un secondo tempo, però, si èdeciso di destinarla ai normali viaggiatori, dato il notevole successo ri-scosso presso l’utenza. L’entrata in servizio del sistema metropolitano,tuttavia, unitamente alla commercializzazione delle prime autovetture,siamo agli albori del XX secolo, determinarono un deciso calo dei passeg-geri. Fatta eccezione per il tratto Pont Cardinet-Auteuil, le corse vennerosoppresse a partire dal 1934.45 Parigi si ritrovò, di conseguenza, con unimmenso spazio, che cadde ben presto nell’abbandono più totale, dove sidepositarono rifiuti e si deturparono la flora e la fauna, creando una verae propria situazione di emergenza. Così, Sncf ha deciso di aprire un chan-tier d’insertion, coniugando la solidarietà con la tutela dell’ambiente.

L’obiettivo, com’è stato rilevato in precedenza, è sempre duplice: daun lato la valorizzazione del patrimonio ferroviario; dall’altro la promo-zione dell’inserimento professionale di soggetti cosiddetti «fragili». Ilprogetto della «piccola cintura parigina» s’inserisce nel più ampio con-testo della responsabilità sociale d’impresa delle ferrovie, le quali hannostipulato, nel 2005, un accordo nazionale con il ministero del Lavoro perl’inserimento di 700 persone nell’arco di due anni. I cantieri aperti si-

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multaneamente erano 5, dislocati in 8 arrondissements della capitale. Ifruitori dell’azione dovevano farsi carico della manutenzione, della ri-strutturazione e della gestione ecologica dei terreni, come pure dell’ab-bellimento degli stessi. Gli interventi, però, non si sono conclusi nel2007, giacché, nel 2006 le ferrovie hanno firmato un nuovo accordo conil Comune di Parigi per altri cinque anni. Nel caso che abbiamo menzio-nato, come in tutti quelli che fanno capo a Sncf, un’apposita commis-sione è incaricata di redigere un bilancio delle competenze certificatodelle persone impiegate, che compare in una sorta di portfolio a uso dieventuali futuri datori di lavoro.

6. Conclusioni

Uno degli aspetti più interessanti del presente studio di caso sembra es-sere lo stretto rapporto tra lo Stato, le ferrovie e alcuni importanti attoridel privato sociale, che collaborano in vista di un obiettivo comune: ilreinserimento socio-lavorativo di persone che, a volte, si trovano incondizioni di grave disagio. Ciò è ben visibile proprio attraverso i chan-tiers d’insertion,46 i cantieri aperti vicino alle stazioni, dove ciascuno hal’opportunità di sperimentarsi nuovamente sotto il profilo lavorativo,talvolta dopo anni di inattività, per tentare un faticoso ritorno alla vitanormale. Non sempre l’avventura è coronata dal successo, benché i ri-sultati conseguiti siano tutt’altro che trascurabili. Secondo uno dei re-sponsabili di Mission Solidarité, «il 50% di chi decide di aderire ai no-stri progetti, alla fine, ce la fa. L’altro 50%, purtroppo, ripiomba nel ba-ratro». Il lavoro, di solito, consiste nella sistemazione di grandi areeverdi o nella ristrutturazione di stabili appartenenti all’ente ferroviario.Perciò, come si è detto in precedenza, spettano a Sncf l’individuazionedelle priorità d’intervento, la formazione degli assunti a tempo determi-nato e la realizzazione di un piano di prevenzione dei rischi. Lo Stato,gli enti locali o altri soggetti erogatori di fondi pubblici, si pensi alFondo sociale europeo o alle fondazioni, versano alle associazioni diterzo settore, che mettono a disposizione personale professionalmentepreparato, somme in denaro spesso cospicue, di cui queste ultime sonoritenute responsabili.

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Responsabilità sociale d’impresa e accoglienza dei senza dimora. Parigi 261

Per quanto concerne l’accoglienza, le strategie implementate risul-tano alquanto differenziate, a seconda che le circostanze richiedanol’aiuto del pronto intervento, l’ospitalità diurna o quella notturna, che asua volta può essere d’urgenza o finalizzata al reinserimento sociale.Certo è che l’investimento di Sncf nel progetto «Mission Solidarité» èstato ed è tuttora davvero consistente: i dati a disposizione parlano di1500 operatori formati, compresi i controllori dei treni e le forze di po-lizia, che ogni giorno hanno a che fare con le concrete situazioni di di-sagio (Fondation Solidarité 2008a, p. 5).

Le associazioni del mondo non profit che hanno aderito alle inizia-tive sono ben 55, anche se nel testo si è fatta menzione delle 3 più signi-ficative, almeno sotto il profilo dei contributi offerti. Esse sono attive in32 stazioni dislocate nell’intero territorio nazionale. Cattolici e prote-stanti – lo Stato, come abbiamo visto, si appoggia prevalentemente a entidi matrice religiosa47 – collaborano senza alcuna preclusione, uniti daun’identica prospettiva in ordine alla centralità della persona, alla neces-sità di dotarsi di personale preparato e all’urgenza di affrontare il disagiosociale incalzante.

I centri di accoglienza, 6 in tutto, e gli agenti ferroviari distaccatinelle varie strutture48 testimoniano l’attenzione per un fenomeno di por-tata europea. In tal senso, la crescita dei problemi legati all’esclusione haindotto la stessa Sncf a considerare l’idea di associarsi ad altre realtàdella stessa filiera, per attuare una politica condivisa. A oggi, essa ha sta-bilito rapporti di collaborazione con FS,49 Snbc50 e Cfl,51 per offrire unarisposta più efficace ai problemi concernenti il disagio nelle stazioni. Unrisultato assai significativo, infatti, è stato raggiunto nell’ottobre 2008,con l’approvazione congiunta di una Charte pour le développement desmissions sociales dans les gâres.52

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INTERVISTE

Intervista 1: Responsabile di «Mission Solidarité».Intervista 2: Responsabile di Secours catholique.Intervista 3: Responsabile di Casp.Intervista 4: Responsabile del Movimento Emmaüs.

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10. Il lavoro con i senza dimora in una metropoli dell’Est Il caso di Varsaviadi Fabio Zuccheri

1. Il contesto

La Polonia ha una popolazione di 38 626 349 abitanti con una densità di124 abitanti per kmq. Il paese è diviso in sedici regioni. Ci sono tre livellidi amministrazione locale: la Regione, la Contea e il Comune. Dopo piùdi quarant’anni di regime comunista, nel 1989 la Polonia ha imboccatoun percorso di cambiamento verso la democrazia e il libero mercato,culminato nell’ingresso nell’Unione europea nel 2004.

L’attuale composizione demografica, urbanistica e i confini geograficidella Polonia sono il risultato degli sconvolgimenti subiti dall’invasionenazista e dal riassetto deciso dalle grandi potenze al termine della Se-conda guerra mondiale. La popolazione a oggi è decisamente più omo-genea di prima della guerra, le minoranze nazionali costituiscono solo il3,3% della popolazione. Tra queste la maggiore è quella tedesca (0,8%),seguita da quelle bielorussa (0,6%) e ucraina (0,6%). Di difficile censi-mento è la presenza della popolazione rom: si passa da stime inferioriall’1% ad alcune vicine al 4%.1

In Polonia sono tuttavia presenti diverse questioni legate all’emigra-zione sia interna dalle campagne alle città sia verso l’estero e all’immi-grazione da paesi extra-UE. Questi ultimi spesso considerano la Poloniacome una prima tappa di avvicinamento verso l’Occidente, come nelcaso dei richiedenti asilo politico, il cui numero è andato sensibilmenteaumentando negli ultimi anni e che per diversi motivi si ritrovano a

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dover restare nel paese. Peraltro, il numero di immigrati residenti in Po-lonia non è elevato e non viene percepito come un caso di emergenza so-ciale, anche perché molti di questi sono in realtà lavoratori stagionaliprovenienti da Bielorussia e Ucraina (Intervista 1). Più significativo è ilnumero dei polacchi che hanno lasciato il paese per andare a cercare la-voro all’estero.

Per quanto concerne l’aspetto urbanistico del paese, a parte Varsavia,la quale conta 1 707 981 abitanti, in Polonia prevalgono centri di mediedimensioni. Questa situazione è in parte dovuta al fatto che la popola-zione rurale ha sempre costituito una presenza significativa nel contestodemografico della Polonia. A oggi rappresenta circa il 38% della popo-lazione polacca. Se l’agricoltura occupa il 16% della forza lavoro delpaese, è però capace di produrre solo il 4,3% del Pil. Questa situazioneha profonde ripercussioni socioeconomiche, nonché politiche, inquanto la popolazione rurale è generalmente più esposta alla povertà diquella urbana: il valore degli indici di povertà nella Polonia rurale ècirca il doppio rispetto alle zone urbane (Pietka 2007, p. 1). Alle diffe-renze tra città e campagna si aggiungono importanti diversità regionali:le zone al Nord e all’Est del paese sono generalmente meno sviluppate ebenestanti rispetto a quelle centrali e a quelle del Sud (Ministry of La-bour and Social Policy 2006, p. 9).

La Polonia dalla fine del comunismo ha sofferto di un alto tasso didisoccupazione, che è arrivato a superare il 20% nel 2004, per poi dimi-nuire gradualmente fino al 6,7% nell’ultimo quadrimestre del 2008 (datidell’Ufficio statistico del governo polacco, 2008). Questo improvvisocalo della disoccupazione è dovuto non solo allo sviluppo interno, maanche al suddetto flusso migratorio dei polacchi verso i paesi occiden-tali, il quale è aumentato in modo elevato dall’ingresso del paese nell’U-nione europea. La disoccupazione colpisce soprattutto i più giovani, ar-rivando quasi al 40% per i polacchi tra i 18 e i 24 anni. Oltre alla popo-lazione giovanile, le persone con maggiore difficoltà nel mercato del la-voro sono gli over 45, le donne, i disabili,2 quelle con un basso livello diistruzione e quelle che vivono in campagna e nelle aree meno sviluppatedel paese (Ministry of Social Policy 2004, pp. 5-6). Il dato più allarmantein questo contesto è che circa la metà dei disoccupati lo è da lungotempo (Pietka 2007, p. 6). Questa situazione ha luogo a fronte di un si-

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stema di cassa integrazione della durata di soli tre mesi, mentre i sussidiper la disoccupazione coprono diciotto mesi e sono erogati solo se ven-gono soddisfatte certe condizioni, come l’attiva ricerca di un impiego.

Nel quadro occupazionale polacco degli ultimi anni un altro dato ri-levante riguarda altresì il basso numero di occupati: solo il 54,7% deipolacchi hanno un impiego.3 In parte questo dato è dovuto alle prece-denti politiche del governo che, per porre un freno al fenomeno della di-soccupazione legato alla ristrutturazione dell’economia dal sistema so-cialista a quello capitalista, hanno facilitato l’aumento del numero deipensionati e degli assegni di invalidità. Inoltre, la maggioranza di pensio-nati e invalidi vive in una situazione di diffusa difficoltà, in quanto l’in-flazione ha diminuito in modo significativo il loro reddito reale, inci-dendo gravemente sul loro tenore di vita, come per altro è accaduto adaltre fasce più deboli della società.

Dal 1989 al 2002 la percentuale di persone indigenti in Polonia è au-mentata dal 24,9% al 31% della popolazione (Ministry of Social Policy2004, p. 7). Secondo il ministero delle Politiche sociali, categorie a ri-schio di povertà (un’emergenza che riguarda un polacco su otto) e diesclusione sociale sono: i disoccupati, i malati a lungo termine, i disabili,le famiglie con molti figli, i genitori soli, gli anziani, le persone con unbasso livello di istruzione e quelle che vivono nelle zone rurali, nelle pic-cole città e nelle zone economicamente sottosviluppate del paese (Mini-stry of Social Policy 2004, p. 14). A questi si possono aggiungere gli im-migrati, i rom e i rifugiati politici. Per far fronte a questa crescita co-stante di strati di popolazione in condizione di indigenza, il governo falargo uso di programmi di assistenza sociale ma, nonostante gli aumentieffettuati nel 2004, i fondi sono rimasti insufficienti per affrontarequesta situazione (Wóycicka 2005, p. 7). Per esempio, secondo le stimeufficiali, i senza dimora in Polonia cono compresi tra le 30mila e le80mila persone, mentre le case sociali costituiscono solo lo 0,3% del to-tale delle abitazioni private, di fronte a un numero crescente di sfratti.4

Ai problemi occupazionali, di reddito, di abitazione e di inclusionesociale si aggiunge, causa ed effetto delle condizioni di difficoltà, l’alco-lismo, molto diffuso in tutto il paese e in tutte le fasce di età.

Varsavia si trova nella regione Mazowieskie, nell’Est della Polonia.Secondo quanto riferito da uno studio del ministero del Lavoro e delle

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politiche sociali effettuato nel 2005, questa regione è tra quelle che sof-frono meno il fenomeno dell’esclusione sociale rispetto alle condizionigenerali del paese, anche se alcune regioni del Sud e la Wielkopolskapresentano una situazione ancora migliore (Ministry of Labour and So-cial Policy 2006, p. 6). In particolare, per quanto riguarda il mercato dellavoro, il livello di inserimento della popolazione del Mazowieskie èconsiderato medio-alto e, a livelli assoluti, la regione offre la maggiorpercentuale di occupati (60,1%). Per quanto concerne invece l’inclu-sione nel consumo di beni e di servizi, la Mazowieskie è tra le regionicon la minore esclusione sociale, malgrado sia al tempo stesso caratteriz-zata da rilevanti problemi abitativi (ivi, pp 9-11).

Varsavia conta 1 707 981 abitanti (mentre l’area metropolitana contacirca 3 350 000 persone). La città, divisa in due dal fiume Vistola, costi-tuisce una contea ed è formata da diciotto Distretti, ognuno dei qualipossiede i propri organi amministrativi. Il sindaco è responsabile degliorgani esecutivi della città e della Contea. Lo status di capitale confe-risce al sindaco e al Consiglio di Varsavia ulteriori prerogative a livellorappresentativo.

La città di Varsavia è considerata il simbolo della rinascita polaccadopo la guerra, essendo stata gravemente danneggiata dai bombarda-menti nazisti nel 19445 e ricostruita negli anni successivi, da un lato rifa-cendo in copia alcuni palazzi storici nella città vecchia, dall’altro co-struendo grandi insediamenti abitativi di edilizia popolare costituiti daminiappartamenti, per far fronte alla massiccia migrazione dalle cam-pagne. Dopo la fine del comunismo nel 1989, Varsavia è anche diventatail simbolo del cambiamento economico, sociale e urbanistico avvenutonel periodo di transizione.

La città da sola produce il 12% delle entrate nazionali e attira ingentiinvestimenti stranieri. Il rovescio della medaglia è l’alto costo della vita e inparticolare degli alloggi. Durante il periodo comunista la città era un im-portante centro industriale, con acciaierie e fabbriche di macchine. Questeindustrie sono per lo più fallite o sono state ridimensionate dopo il 1989.Oggi Varsavia è importante come centro finanziario e come polo produt-tore di servizi high-tech, di elettronica e di attività bancarie ed assicurative.

La popolazione di Varsavia è, da un punto di vista etnico, alquantoomogenea, essendo scomparsa la numerosa minoranza ebraica, che co-

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stituiva circa il 30% della popolazione, a causa dello sterminio nazista.Sono tuttavia presenti un crescente numero di immigrati dall’ex UnioneSovietica e da paesi asiatici e africani. In quanto capitale della Polonia,Varsavia mostra i segni più evidenti dei cambiamenti urbanistici avve-nuti nel paese dalla fine del comunismo, con un nuovo skyline di gratta-cieli moderni impensabili vent’anni fa, a cui però fanno da contraltare ivecchi quartieri dormitorio costruiti nell’epoca comunista.

Un particolare problema si riscontra per quanto riguarda i senzatetto, molto numerosi in città. Se i dati ufficiali registrano fra i 3500 e i5mila senza dimora, le organizzazioni che lavorano con queste personestimano la loro presenza attorno alle 20mila unità (Intervista 2), datoche molti di loro non si registrano presso gli uffici di assistenza e rifiu-tano ogni contatto con gli enti istituzionali. In particolare, il numerodegli homeless aumenta durante l’inverno, per via delle molte migrazionidalle zone rurali, in quanto la città è generalmente considerata un luogopiù idoneo nell’offrire risposte a questa debole fascia di popolazione.

A Varsavia sono infatti presenti 76 organizzazioni che aiutano i senzatetto. Queste sono capaci di fornire ogni notte fino a 3mila posti lettoper chi ne avesse bisogno. Tra le organizzazioni più attive si trovano laCaritas, che predispone 80 posti letto per i senza dimora, il Gruppo diFratello Alberto, che ne allestisce 200 e infine Monar-Markot, oggetto diquesto studio, in quanto si tratta di una struttura in grado di approntareogni notte fino a 1500 posti letto.

Il concetto che meglio definisce la situazione socioeconomica di Var-savia è quello di «isole di povertà» (Intervista 1 e 2). A causa dello svi-luppo urbanistico, messo in moto dalla fine del comunismo, a Varsaviasono scomparse le precedenti divisioni tra quartieri popolari e residen-ziali. I notevoli investimenti degli anni scorsi hanno portato alla nascitadi centri commerciali e residenziali in zone una volta depresse, senzaperò eliminare del tutto le zone di povertà. Viceversa, in quartieri unavolta considerati ricchi sono emerse aree degradate accanto a quelle chehanno beneficiato dello sviluppo economico. Un esempio di questa si-tuazione si può fornire presentando il caso di due quartieri della cittàuna volta considerati all’opposto: Sródmiescie e Praga Poludnie.

Sródmiescie è il quartiere centrale della capitale, dove si trovano leambasciate e le istituzioni politiche, i negozi e i locali alla moda, oltre ai

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maggiori esercizi finanziari e commerciali. Molto denaro è stato inve-stito per far sì che il cuore di Varsavia diventasse moderno e funzionale.Tuttavia, anche in questo quartiere non mancano zone di povertà, cometestimoniato dall’elevato numero di homeless che vive nei dintorni dellastazione centrale. L’intervento di organizzazioni che lavorano nel socialeperciò si concentra anche in questo quartiere, che in teoria dovrebbe es-sere la zona più ricca e importante della capitale.

Una simile situazione in cui convivono benessere e povertà si può os-servare nel quartiere di Praga Poludnie, ubicato sul lato opposto dellaVistola rispetto a Sródmiescie. Praga Poludnie ha 185 077 abitanti e co-stituisce il secondo quartiere più popoloso di Varsavia dopo Mokotów.A lungo è stato considerato il «Bronx di Varsavia» (Quirk 2006), per viadell’elevata criminalità che contraddistingueva tale zona della città. Tut-tavia, si tratta di un quartiere di indubbio interesse storico-artistico pervia del fatto che è l’unica zona di Varsavia in cui è rimasta relativamentepreservata la maggior parte degli edifici originari del periodo tra le dueguerre. Negli ultimi anni per rendere la zona più sicura e attraente per ilturismo, la pubblica amministrazione di Praga Poludnie ha intrapresoun notevole sviluppo e ha in parte cambiato il profilo urbanistico delquartiere, sia favorendo l’edificazione di diverse aree residenziali di ar-chitettura moderna, sia ristrutturando il complesso residenziale di villecostruite negli anni venti e trenta in cui diverse ambasciate stranierehanno trovato la loro nuova residenza.

Praga Poludnie è quindi un quartiere dalle grandi contraddizioni,dove antica povertà e miseria coabitano con lo sviluppo recente dellacittà che continua anche ai giorni nostri e non riguarda solo l’aspettourbanistico, ma anche gli aspetti sociali del quartiere. Alla povertàestrema, a cui fa specchio la presenza di numerosi mendicanti, alcoliz-zati e criminali, si affianca il crescente arrivo di artisti, attirati dai bassiaffitti e dall’aria vagamente bohémien del quartiere, e di persone ab-bienti che abitano le zone residenziali monofamiliari del distretto.Anche per questo vecchio quartiere si può perciò adottare il concettodi «isole di povertà», che sembra poter caratterizzare la situazione diVarsavia.

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2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertànel contesto considerato

Le politiche sociali e urbanistiche in Polonia hanno subito una decisa tra-sformazione rispetto al periodo comunista, il quale prevedeva uno Statoassistenziale con un’idea di uguaglianza che però si attuava verso il basso.La sicurezza e l’inclusione sociale erano garantite dallo Stato accentratoreche obbligava i cittadini a partecipare alla vita sociale, salvo escludere co-loro che venivano considerati pericolosi per il regime. Ai cittadini era ga-rantita un’abitazione, anche se spesso si trattava dei blok, complessi resi-denziali in cemento in cui trova posto un gran numero di piccoli apparta-menti, e un lavoro, nella maggioranza dei casi sottopagato e poco qualifi-cato. In quel periodo si godeva di una sicurezza sociale diffusa ma di li-vello scadente, a cui si accedeva in cambio di un’accettazione delledirettive del Partito comunista alle quali bisognava uniformarsi, pena l’e-sclusione dai benefici statali, se non l’aperta repressione.

Dopo il 1989 le politiche sociali in Polonia incominciarono a subireun profondo cambiamento e a essere improntate su nuovi criteri. Nonera più lo Stato a garantire l’assistenza sociale per tutti, ma le politichesociali cominciarono a essere finanziate per metà dal governo e per metàdai datori di lavoro e dai singoli contribuenti. Durante la transizione, ifondi per le politiche sociali non furono diminuiti in relazione alla per-centuale di Pil. Tuttavia, poiché quest’ultimo subì un significativo de-clino, anche tali fondi decrebbero notevolmente. Ciononostante, comegià osservato, il governo aumentò il numero di beneficiari di pensioni edi assegni di invalidità come freno al disagio della straripante disoccupa-zione causata dalla radicale trasformazione del sistema economico.

Nella seconda metà degli anni novanta furono adottati diversi cam-biamenti, soprattutto legati all’esigenza di arginare le spese dello Stato.Si passò da applicazioni universali dei beneficiari, a cui tutta una cate-goria di cittadini come anziani e disabili poteva essere eleggibile, ad altrelegate alle effettive situazioni individuali che potevano essere testate inmodo oggettivo, limitando così la soglia massima di benefici ricevuti el’eleggibilità. I sostegni alle famiglie furono quelli più toccati dai tagli;passarono dal 2,3% del Pil del 1991 all’1,06% del 1998 (Pietka 2007,pp. 2-3). La riforma del 1998 connesse la disabilità, non alla condizione

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fisica, ma all’effettiva capacità di lavorare, mentre la riforma delle pen-sioni metteva queste in relazione ai contributi effettivamente pagati enon agli anni di lavoro. Nonostante tutto, la Polonia mantiene una dellepiù alte percentuali di spesa sociale in Europa, sopra il 20% del Pil.Questo dato è dovuto soprattutto alla spesa per le pensioni, che costi-tuisce più della metà del totale della spesa sociale, seguita da quella perle persone disabili. Alla fine, ben poco della spesa sociale resta per i di-soccupati, i servizi sociali e i benefici alle famiglie (ivi, p. 7). Questa si-tuazione ha altre ricadute sul versante sociale, poiché solo i benefici allefamiglie hanno un ruolo redistributivo tra la popolazione nel suo com-plesso, in quanto non sono legati a speciali categorie e non dipendonodalla passata situazione contributiva e di impiego, come nel caso dellepensioni o delle indennità di disoccupazione. In conclusione, i servizisociali non hanno abbastanza fondi per aiutare i poveri; le somme pre-viste sono troppo esigue e/o vengono erogate per troppo poco tempo,anche se nel 2004 i livelli minimi obbligatori sono stati aumentati ed èstata data maggiore autonomia finanziaria ai governi locali per interve-nire contro la povertà (ivi, p. 27).

Durante il processo di integrazione nella Unione europea il governopolacco non ebbe alcuna obiezione riguardo le questioni legate alle poli-tiche sociali; piuttosto era preoccupato di tenere bassi i costi di questeultime (Leiber 2006, p. 350). La Polonia quindi adottò senza alcun in-dugio l’open method of coordination e condivise gli obiettivi comuni diinclusione sociale e lotta alla povertà, come formulati dal Consiglio eu-ropeo di Nizza e dalla strategia di Lisbona. Questi obiettivi venneroespressi nella «Strategia nazionale per l’inclusione sociale» pubblicatanel 2004. Alla «Strategia» fece seguito l’Action Plan per l’inclusione so-ciale (2004-2006). L’Action Plan ha mostrato problemi di monitoraggioe coordinamento, ha avuto a disposizione un budget troppo esiguo e hapresentato complicazioni burocratiche; tuttavia vi sono stati dei buonirisultati per quanto concerne i programmi di inserimento al lavoro e diinclusione sociale per i giovani e per le persone in difficoltà (Wóycicka2005, p. 4). In questo contesto sono stati sviluppati i contratti sociali diattivazione tra le persone bisognose e gli operatori sociali, che preve-dono un accordo secondo il quale gli aiuti vengono forniti solo se il rice-vente si impegna a effettuare determinate azioni, come l’inserimento in

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corsi di training professionale. La politica di attivazione per i disoccu-pati prevede anche che i sussidi non possano durare più di diciotto mesie che se i beneficiari rifiutano, per due volte, una proposta di lavoro daparte del Centro di collocamento locale, i sussidi vengano sospesi.

Un importante cambiamento nelle politiche sociali e urbanistichepolacche fu costituito dalla maggiore responsabilità data alle ammini-strazioni locali alla fine degli anni novanta. Sebbene la Polonia rimangauno Stato centralizzato a livello finanziario e legislativo, nel 1999 fupromulgata una riforma volta a decentralizzare alcuni aspetti politico-amministrativi. Oltre ai governi regionali e di Contea (powiat), chesono responsabili per l’assistenza sociale, l’istruzione, i centri per immi-grati e il servizio sanitario locale, sono stati formati i Comuni (gmine)che possono essere costituiti da città, villaggi, aree urbane e rurali o dadiverse combinazioni di questi. Le gmine sono le principali autorità re-sponsabili per l’implementazione delle politiche di inclusione sociale eper i servizi ai cittadini, tra cui i centri per la famiglia. A questo pro-cesso di decentralizzazione si aggiunsero delle riforme, sempre nel1999, riguardo i servizi sanitari, i servizi sociali e i servizi per i disoccu-pati, sempre con l’intento di localizzare gli interventi. L’assistenza so-ciale è in parte finanziata anche dai governi locali ed è gestita da questi,mentre le politiche sui benefici alle famiglie sono formulate dallo Statocentrale, ma sono gestite dalle amministrazioni locali. In entrambi i casisono gli enti locali che devono verificare l’applicabilità dei benefici allesingole situazioni. Le politiche per l’inserimento nel mondo del lavorosono anch’esse gestite dagli enti locali. La decentralizzazione dei fondi,il cui totale viene però ancora deciso dal governo centrale, ha dato mag-gior lavoro alle amministrazioni locali per la verifica e il pagamento deibenefici, ma non ha favorito il lavoro sociale e l’integrazione (Pietka2007, p. 3).

I principali attori nelle politiche sociali in Polonia sono il ministerodel Lavoro e delle Politiche Sociali (specialmente il Dipartimento perl’inclusione e l’assistenza sociale e il Dipartimento del beneficio pub-blico), i centri per l’assistenza alle famiglie, che operano a livello diContea e gestiscono i benefici per alcune categorie e i centri sociali mu-nicipali, che amministrano i benefici, organizzano i servizi sociali e se-guono gli adulti e i bambini in difficoltà. A queste autorità pubbliche bi-

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sogna aggiungere le organizzazioni non governative (Ong), che per laPolonia costituiscono una novità rispetto al periodo comunista.

In Polonia sono attive 68 345 Ong. In particolare, si tratta di 45 891 as-sociazioni, 7210 fondazioni e 15 244 organizzazioni di ispirazione confes-sionale. Nel 2004 sono stati censiti 5,4 milioni di volontari in Polonia, il18,3% della popolazione adulta. La mancanza di fondi è spesso causa direstrizioni operative, a cui si cerca di far fronte con l’uso esteso di volon-tari, visto che solo un terzo delle Ong ha la possibilità di impiegare lavora-tori retribuiti. I fondi sono reperiti dal tesseramento, dalle fondazioni, dadonazioni individuali e da enti e compagnie private, dall’Unione europeae dall’eventuale 1% dei contributi fiscali annuali devoluti dai contribuentipolacchi desiderosi di farlo.6 La maggioranza dei fondi delle Ong provienea ogni modo dal settore pubblico. Dal 2005 la Fondazione dell’iniziativacivica regola la competizione per i fondi destinati a progetti delle Ong daparte del ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

Le attività delle Ong sono regolate dalla legge sul welfare del 1991 eda quella sul beneficio pubblico e sul volontariato del 2003. Questeleggi regolano lo status di associazione, le attività di organizzazionilaiche e cristiane e la loro possibilità di ricevere fondi. La maggioranzadelle Ong, il 38,6%, si dedica a turismo, hobby, sport e attività ricrea-tive, il 10,3% all’istruzione e ai minori, il 10% a cultura e arte, mentresolo il 10% delle organizzazioni si dedica ai servizi e all’assistenza so-ciale (tra questi, prevalgono i servizi a favore dei poveri e dei senza tetto)e l’8,2% alla salute (Klon-Jawor Association 2004).

Un maggiore ruolo alle Ong polacche, in relazione alle politiche so-ciali, è stato assegnato dal governo al momento del processo di formula-zione della Strategia nazionale per l’inclusione sociale, durante il qualediverse Ong sono state coinvolte nella stesura del testo finale insieme algoverno centrale, le amministrazioni locali e le organizzazioni interna-zionali, formando la task-force per la reintegrazione sociale. L’ActionPlan seguente prevede il coinvolgimento delle Ong nelle applicazionidelle politiche per l’inclusione sociale, così che il loro ruolo a livello na-zionale e locale è ormai consolidato. Con l’Action Plan per l’inclusionesociale si è realizzata la creazione di una rete tra le Ong, i cittadini e i go-verni locali per l’attuazione delle politiche di inclusione sociale a livellolocale. Questo ha contribuito a sviluppare le reti già esistenti tra enti

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pubblici e non governativi, grazie alla partecipazione di diverse Ong aiconsigli di contea e a quelli municipali.

La Mazowiecka è la regione che conta il numero più elevato di Ong,vista la presenza di 18,75 Ong per ogni 10mila abitanti. Varsavia, anchein qualità di capitale, accoglie numerosissime Ong.

3. L’Associazione Monar

L’Associazione Monar è stata fondata durante il periodo comunista, nel1978, da Marek Kotanski, psicologo e umanista, deceduto improvvisa-mente nel 2002, la cui figura carismatica ha notevolmente contribuito alsuccesso dell’organizzazione. I valori a cui si ispira Monar sono quellidell’aiutare gli altri, del dare a tutti un’altra possibilità, della giustizia,dei diritti umani e della dignità umana, oltre al rispetto verso se stessi egli altri. Il motto di Monar è «Non siamo noi a doverci adeguare almondo ma è il mondo che si deve adeguare a noi» (Intervista 2), inten-dendo che invece di accettare passivamente il dolore e le ingiustizie bi-sogna combatterle per cambiare lo stato delle cose. Monar si rivolge atutti, è un’organizzazione laica che non propone nessuna idea politica ofede religiosa, ma valori universali come quelli sopra citati.

Naturalmente il fatto che fosse attiva già nel periodo comunista ha inseguito portato molte critiche all’associazione, ma la sua cooperazionecon le autorità comuniste era necessaria per attivare un network a favoredelle persone svantaggiate. Lo statuto organizzativo di Monar è statopromulgato nel 1981, anno della legge marziale in Polonia, confer-mando il suo atteggiamento apolitico a favore degni emarginati. A ognimodo, la sua tradizione e le sue continue attività per aiutare i più debolihanno fatto sì che Monar sia conosciuta in tutta la Polonia.

Monar si rivolge a ogni persona a rischio di esclusione sociale come isenza tetto, i rifugiati, le persone dipendenti da droghe o alcol, i bambiniche vivono in contesti difficili, i malati, le persone affette da Hiv/Aids, lemadri sole e gli anziani. Le attività dell’associazione hanno luogo in diversicentri in tutto il paese. Nel 2005 41 688 persone hanno beneficiato dei 200programmi attivati da Monar. In generale, oltre 30mila persone sono se-guite dall’organizzazione ogni anno. I servizi si strutturano in particolar

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modo come assistenza sociale, servizi sanitari, strutture residenziali direinserimento, unità di pronto intervento, di consulenza e di terapia,nonché campagne di informazione e prevenzione.

L’associazione conta 524 membri, impiega 680 lavoratori retribuiti esi avvale di circa 150-200 volontari, a seconda delle esigenze dell’associa-zione, con picchi assai maggiori durante le campagne di prevenzione esensibilizzazione. Sono presenti diversi tipi di volontari: coloro che siimpegnano nelle comunità locali, studenti che svolgono uno-due mesi opiù di volontariato,7 persone che hanno commesso reati e sono statecondannate a svolgere lavori socialmente utili, volontari anziani e pen-sionati ex professionisti nel campo sanitario e odontoiatrico.

Sebbene Monar sia una struttura centralizzata, con sede principale aVarsavia, i fondi vengono utilizzati dalle varie sedi direttamente, anchese questo sistema è al momento discusso a causa dei suoi elevati costiamministrativi (Intervista 2). La maggioranza dei fondi di Monar, circa il30-40%, proviene da istituzioni pubbliche; in particolare, gli enti localipagano Monar per gli svariati servizi sociosanitari svolti. D’altra parte, ilfinanziamento pubblico prevede modalità specifiche che obbligano asforzi amministrativi ingenti. In quanto associazione senza scopo dilucro e finalizzata al bene pubblico, Monar è esente dal pagamento dicontributi. Gli altri fondi sono reperiti dai programmi UE come Equal,dal Fondo sociale europeo e dal fund raising nel settore privato. Tut-tavia, le campagne di promozione e raccolta fondi organizzate da Monarnon sono mirate ad attirare finanziamenti per l’intera associazione, ma araccogliere fondi per scopi ben precisi, come, per esempio, per aiutare ifigli delle persone senza dimora.

Le attività di Monar hanno avuto un costante sviluppo negli anni,fino a raggiungere una vastissima gamma di servizi per persone in situa-zione di disagio o tossicodipendenti. L’associazione era per l’appuntonata per contrastare il fenomeno, allora in piena diffusione, della drogapesante e i suoi effetti sulle persone. Nel 1979 fu aperto un servizio diriabilitazione per tossicodipendenti attraverso sportelli di consulenza,terapie individuali e di gruppo, strutture residenziali e supporto per i fa-miliari e i tossicodipendenti in prigione. Dal 1981 sono stati approntatiservizi di prevenzione come campagne antidroga e attività residenziali,mentre nel 1989 sono state avviate le iniziative per la riduzione dei danni

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legati all’uso di droghe come il diffondersi dell’Hiv. Una vera svolta siebbe con la fine del comunismo, quando altre attività nell’ambito socialesi resero possibili senza essere costretti a seguire le decisioni del partito.Nel 1993 furono preparati i programmi per l’inclusione sociale a favoredei senza tetto, delle persone sole, dei malati terminali, degli ex carceratie di chiunque si trovasse ai margini della società.

Oggi Monar possiede in Polonia 34 centri residenziali e 35 centri ria-bilitativi diurni riconosciuti dal ministero della Sanità. I servizi di riabili-tazione accolgono ogni persona in difficoltà per un anno o più. Monarha creato il Morkat (Movimento per la prevenzione della mancanza difissa dimora) a cui fanno riferimento 65 case-dimore. Si tratta sia di ri-fugi notturni sia di centri residenziali per poveri e senza tetto, uomini edonne, e per madri sole con i loro bambini. Tra le persone che vengonoaccolte sono presenti anche famiglie sfrattate e, tramite accordi con leautorità penitenziarie, gli ex detenuti. Qui, come verrà descritto nell’ul-tima parte del capitolo, i soggetti in difficoltà possono trovare una di-mora per soggiorni brevi o lunghi, dei servizi di reintegrazione che com-prendono unità specializzate nel lavorare con persone con problemi dialcol e droga, la possibilità di ricevere vestiti e pasti, di usufruire diinformazioni e consulenze e di rivolgersi a unità di supporto psicologicoe legale. Alle persone che non possiedono l’assicurazione sanitaria,Monar offre i propri servizi ospedalieri.

Altre attività di Monar sono legate alle campagne di prevenzione,come, per esempio, i giovani volontari contro le droghe che diffondonoinformazioni sui rischi provocati dall’utilizzo di sostanze stupefacenti.Molte campagne vengono svolte direttamente da persone che stanno se-guendo o hanno seguito le terapie riabilitative. Dal 1985 Monar hacreato il Movimento Cuori Puri composto da 400 studenti e 35 inse-gnanti che lavorano per la prevenzione dell’uso di sostanze stupefacentida parte dei giovani. Vengono poi effettuate campagne di responsabiliz-zazione, come quella che ha per slogan «Nessuno ti può aiutare se nonte stesso». Ulteriori campagne a livello locale sono a favore della BancaSos per la raccolta di cibo e indumenti da distribuire a chiunque nefaccia richiesta.

Infine, tramite il Fondo sociale europeo, sono stati finanziati negli ul-timi anni dei servizi a favore dei senza tetto e delle persone con dipen-

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denze tra cui corsi di lingua inglese, di computer, di guida, e trainingprofessionale scelti direttamente dai partecipanti. Una speciale enfasi èdedicata all’agricoltura. Monar ha creato diverse scuole di agraria.Ancor più significativa, fuori dalle città, è l’esperienza delle fattorie eco-logiche che accolgono i senza tetto delle varie regioni. Qui questi ultimipossono imparare un lavoro nel contesto agricolo mentre sono tempora-neamente assunti e alloggiati all’interno della fattoria che produce ali-menti di coltivazione biologica.

Monar è impegnata nelle campagne di mediazione con le comunitàlocali in cui vivono i tossicodipendenti e gli alcolisti in cura e i senzatetto. L’associazione cerca di coinvolgerle attraverso campagne di sensi-bilizzazione, incontri nelle scuole e nelle unità di consulenza. Le attivitàdi mediazione con le comunità locali si innestano nel contesto di coope-razione che Monar attua con queste e le autorità locali. Membri diMonar siedono nel consiglio comunale e di contea. A livello nazionale,l’associazione ha legami con i ministeri della Salute e del Lavoro e dellepolitiche sociali, con le amministrazioni penitenziarie e scolastiche.Monar ha consolidato la sua presenza in un network di Ong con cui ap-prontare progetti e richiedere finanziamenti.

Le reti dell’associazione non si limitano alla sola Polonia. Monar col-labora con diverse organizzazioni internazionali, come la Undp, ed è incontatto con organizzazioni in Inghilterra e in Olanda che curano le per-sone dipendenti da droga e alcol e i senza tetto, tra cui si trova un di-screto numero di cittadini polacchi che non hanno avuto fortuna nelcercare un lavoro o rifarsi una vita all’estero e non hanno il denaro o lecapacità per tornare in Polonia. Grazie alla collaborazione con altre Ongpolacche che organizzano l’aspetto logistico e di trasporto delle opera-zioni, Monar fa in modo di far tornare queste persone e di occuparsi diloro all’arrivo in Polonia. Inoltre, al di fuori della Polonia, Monar sup-porta i centri riabilitativi per adolescenti con problemi di droga inRussia. Tramite diversi programmi europei, come il programma «Leo-nardo Da Vinci», operatori di Monar trascorrono all’estero periodi diformazione mentre operatori e studenti stranieri svolgono uno stagepresso l’associazione. Infine, dal 2005 anche i cittadini stranieri possonodiventare membri di Monar, abbattendo così anche questa barriera allacooperazione internazionale.

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Per meglio comprendere nello specifico le attività di Monar pos-siamo ora passare all’esame alcuni servizi della sede principale di Monara Varsavia.

Monar a VarsaviaMonar è presente in tutta la Polonia, ma nella regione di Varsavia, laMazowieskie, svolge il maggior numero di attività. Rispetto al disagio so-ciale, Varsavia presenta una situazione caratterizzata, come si è detto, daisole di povertà nei suoi diversi quartieri. Per far fronte a questo Monarconsidera necessario attuare un approccio globale al problema dell’e-marginazione sociale, piuttosto che concentrarsi in alcune zone speci-fiche della città. Pertanto i suoi centri, presenti in diversi luoghi della ca-pitale, non servono solo le persone bisognose della zona in cui si tro-vano, ma si rivolgono a tutti gli abitanti della città. I centri sono «aperti atutti, perché i problemi sono dappertutto» (Intervista 2).

Monar-Varsavia si occupa in particolar modo di polacchi a rischio diesclusione sociale, come i soggetti affetti da dipendenza da droghe o daalcol e gli individui senza dimora. Non sono presenti invece interventispecifici a favore degli immigrati in quanto il loro numero è esiguo e disolito si tratta di lavoratori, anche a carattere stagionale, provenienti dal-l’ex Unione Sovietica i quali, «se per caso le cose non andassero bene, sene tornano nel loro paese di origine» (Intervista 2).

Oltre a un centro di disintossicazione per i tossicodipendenti, leazione più significative di Monar-Varsavia sono dirette verso i senzatetto che spesso coniugano una situazione di estrema indigenza con di-pendenze da alcol e droghe. Una prima importante sperimentazione siebbe nel 1997 quando venne lanciata l’iniziativa «La purezza importa»con la costruzione di una casa-bagno pubblico, all’interno della stazionecentrale in locali in disuso. Monar si adoperò per ristrutturare questispazi al fine di mettere a disposizione un’unità di aiuto sociale per i po-veri e gli homeless tramite la costruzione di bagni, spogliatoi, servizi dibarbiere e una mensa.

Tuttavia, la sperimentazione durò solo un anno perché alla fine le au-torità pubbliche negarono a Monar il permesso di appropriarsi deglispazi. Come vedremo in seguito, nel caso delle strutture residenziali pre-

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senti nel quartiere di Bial/ol/eka, la mancata collaborazione, o l’aperto di-sinteresse da parte delle autorità cittadine su questioni legate ai senza di-mora, pongono seri ostacoli al lavoro di Monar a favore di queste per-sone. Sembra che la municipalità consideri i senza tetto un pesoestraneo alla città, specialmente perché molti di loro provengono daaltre zone del paese, e desidera solo che si allontanino da Varsavia (In-tervista 2). Per esempio, le autorità locali nel 2008 hanno devoluto solouno zl⁄oty9 a persona per il cibo da destinarsi ai senza dimora con disor-dini mentali che vivono a Varsavia. D’altra parte predisporre una rete ef-ficiente di servizi a favore dei senza tetto potrebbe avere l’effetto op-posto di quello desiderato dalle autorità, ovvero attrarre ancora più po-veri ed emarginati verso la capitale.

Nonostante queste difficoltà, Monar ha continuato a profondere im-portanti sforzi a favore degli homeless. A Varsavia, grazie a Monar, cisono 1500 posti letto disponibili ogni notte e diverse unità di crisi e dipronto intervento vicino alla stazione centrale. I dormitori sono aperti atutti, a patto che ci sia, da parte delle persone destinatarie degli inter-venti, l’impegno a smettere di bere o drogarsi. Tuttavia, in inverno,quando la situazione diventa drammatica, in base alla disponibilità,vengono accettati tutti quelli che ne fanno domanda, basta che questinon bevano, o non si droghino, all’interno della struttura stessa. Gli in-terventi possono essere di una sola notte, di una-due settimane o delladurata di un anno o più, a patto che gli utenti si attivino. Per esempio,gli alcolisti senza tetto possono restare in ostello un anno se, avendosmesso di bere, dopo quattro mesi di permanenza si trovano un lavoro.

Si riscontrano meno problemi di collaborazione con le autorità localiper quanto riguarda i casi legati a dipendenze da droga e da alcol, inquanto considerati piaghe sociali nelle quali la provenienza delle per-sone non è annoverata tra le cause scatenanti. In questo caso la rete cheunisce Monar ad altre Ong, sebbene possano esserci dei contrasti ri-guardo ai metodi da usare nelle cure,10 e alle istituzioni pubbliche, tracui la polizia, è efficace nella sua azione comune per combattere il feno-meno delle dipendenze. Per esempio, si predispongono servizi di cura inaltre strutture qualora non sia possibile accogliere un individuo affettoda dipendenze direttamente presso la propria organizzazione e si ap-prontano insieme campagne di prevenzione contro la droga.

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Monar effettua un monitoraggio costante delle sue attività. I reportsono di solito compilati ogni mese, ogni metà anno e ogni anno, anche seciò spesso dipende dai fondi a disposizione. Dati quantitativi vengono in-viati annualmente al ministero della Sanità circa il numero di persone exdipendenti da droghe e alcol in cura e riguardo a coloro che hanno con-cluso il proprio percorso di terapia. Le persone che in passato sono stateseguite dai centri Monar vengono periodicamente contattate al fine di mo-nitorare eventuali difficoltà e problemi insorti. Purtroppo, per quanto ri-guarda i senza tetto, non sono stati finora trovati i fondi per finanziare unostudio sull’efficacia del percorso di riabilitazione (Intervista 2).

Dai report di Monar si evince come negli ultimi anni si sia registratoun calo delle domande per gli interventi di riabilitazione dei tossicodi-pendenti, per i quali non è più prevista la lista di attesa, e riguardo la ri-chiesta di aiuti dei senza dimora a Varsavia. Questo dato è legato alleemigrazioni verso i paesi dell’Unione europea dopo il 2004, in particolarmodo verso Gran Bretagna e Irlanda, e al calo della disoccupazione in-terna (Intervista 1). Chi poteva e voleva, negli ultimi anni, ha trovato unimpiego o è emigrato in cerca di migliori condizioni di vita. Negli ultimianni perciò si nota che, tra gli homeless, sono diminuite drasticamente lepersone abili al lavoro, così che in stragrande maggioranza i senza tettorimasti sono persone che non vogliono o non possono, a causa di dipen-denze, disabilità o disturbi mentali, cercare un impiego. Non deve tut-tavia essere sottostimato il problema legato al crescente flusso di rientrodi immigrati polacchi dall’estero, al quale a volte si accompagna il ri-torno a una situazione di miseria e di dipendenza.

Riguardo l’associazione, diversi miglioramenti sono possibili perquanto concerne il training, la qualificazione professionale (inclusaquella generale come la conoscenza della lingua inglese e dell’informa-tica) e il reperimento del personale, specialmente per quanto riguarda laricerca di volontari. Si deve cercare una nuova qualità di servizi, peresempio alcuni che combinino i problemi mentali e le dipendenze, unamaggiore cooperazione con le comunità e una migliore flessibilità deiservizi che comprendano più centri diurni, infrastrutture e fondi a di-sposizione (Intervista 2). A ogni modo, negli ultimi anni si sono potuteriscontrare una migliore sostenibilità dell’associazione, una più adeguataamministrazione, progettualità e budget e una più consona professiona-

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lizzazione dei servizi. Per quanto riguarda tutti questi aspetti fin quiconsiderati possiamo rifarci all’esperienza del Centro per l’aiuto umani-tario e la Casa per madri sole.

Esempio di intervento: il Centro per l’aiuto umanitario e la Casa per madri soleMonar-Markot ha allestito il Centrum Pomocy Blizniemu (Centro perl’aiuto umanitario) e una casa residenziale per madri sole nel quartieredi Bial/ol/eka, a nord della città. Non si tratta di un intervento rivoltoesclusivamente al quartiere;11 le strutture sono aperte a tutti gli abitantidi Varsavia e la loro ubicazione è dovuta a mere circostanze logistiche edi convenienza. Si tratta, infatti, di edifici affittati dal comune a prezzivantaggiosi. Nel Centro per l’aiuto umanitario trovano posto 258 uo-mini e donne senza tetto. La Casa per madri sole provvede a ospitare400 donne e bambini. Nelle due case il programma di attivazione pre-vede che, per poter continuare a soggiornare in queste strutture a lungotermine, gli inquilini non debbano assumere alcolici, usare sostanze stu-pefacenti e debbano contemporaneamente attivarsi a trovare un lavoro.

Lo scopo della permanenza in queste strutture, che può durare oltreun anno, è l’inclusione sociale: permettere a queste persone un ritorno auna vita indipendente. Si possono tuttavia riscontrare ulteriori fattori,come le malattie mentali, che portano ad allungare i tempi di residenzafino a quattro-cinque anni A seconda delle diverse condizioni fisiche epsichiche, le persone possono essere incoraggiate, ma non obbligate a la-vorare. Le case, infatti, sono concepite come una grande famiglia in cuiognuno contribuisce secondo le proprie possibilità (Intervista 2).

In queste comunità di auto-aiuto ognuno è responsabile della puliziadella propria stanza e, a turni, della pulizia degli spazi comuni. Le comu-nità si mantengono da sole: i membri pagano le bollette e provvedono afare la spesa attraverso il loro lavoro e le campagne di autofinanzia-mento. Ci sono volontari che, in cambio del posto letto, lavorano per lacomunità. Chi non ha un’occupazione deve provvedere a varie mansioniall’interno della casa. Ogni settimana gli abitanti si riuniscono per discu-tere e decidere tutti insieme le questioni relative alla convivenza e almantenimento dell’abitazione. Questa forma di autoregolamentazione

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funziona anche nel caso di decisioni difficili, come le sanzioni da appli-care a chi infrange le regole, quali per esempio il divieto di fare uso didroghe e alcol all’interno della casa. In queste assemblee vengono anchedecisi incarichi importanti come quelli dell’amministratore, che vieneretribuito dalla comunità, e del responsabile della sicurezza, il quale ha ildelicato compito di gestire le chiavi. A ogni modo, tutti hanno delle re-sponsabilità e devono seguire le regole della casa.

I membri della comunità sono aiutati dagli operatori sociali di Monara trovare un lavoro, a ricevere una pensione o l’indennità nel caso dei di-sabili e a preparare i documenti necessari per l’assistenza sociale e sani-taria. Monar mette a loro disposizione un servizio di consulenza legale.Inoltre, vi sono strutture sanitarie per le cure, la riabilitazione e la disin-tossicazione. Il fine ultimo resta quello di rendere queste persone capacidi svolgere una vita indipendente, e per questo Monar si impegna anchea sostenere i membri delle comunità a trovare una casa.

Il Centro per l’aiuto umanitario di Monar-Markot, in via Marywilska44a, era nato il 1º dicembre 1993 come ostello per i senza dimora. All’i-nizio 20 residenti gestivano professionalmente l’ostello per aiutare lepersone escluse dalla società. Adesso si tratta di un centro polifunzio-nale in cui trovano posto diversi edifici adibiti a svariati scopi. Le strut-ture possono ospitare circa 250 persone e sono rivolte a diversi gruppi disenza tetto: giovani fino ai 25 anni di età, anziani soli, malati e senza so-stegno, alcolisti, tossicodipendenti, malati di mente. Oltre a trattare iproblemi legati all’alcolismo, alla tossicodipendenza e all’aggressività, ilcentro aiuta queste persone a migliorare la propria condizione sociale, lasalute, le relazioni familiari, le loro capacità, il modo di vivere e il mododi rapportarsi con lo stress. Nelle varie strutture del centro si trovanoservizi di pernottamento e ostelli per giovani homeless, alcolisti senza di-mora che abbiano già concluso la terapia di base, persone con problemimentali; un dipartimento per la terapia contro le dipendenze e uno perla disintossicazione, e infine un ospedale.

Il servizio di pernottamento per giovani, maschi e femmine, senzatetto tra i 18 e i 25 anni è aperto dalle cinque di sera alle nove del mat-tino. Lo scopo è isolare i giovani da possibili contatti notturni con crimi-nali e tossicodipendenti che si trovano nelle strade. Nella struttura sonodisponibili 35 posti letto e delle docce; vengono servite la cena e la cola-

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zione e a volte vengono distribuiti vestiti e scarpe. I giovani accolti inquesto centro non presentano problemi di dipendenze, ma sono soggettia crisi psicologiche e sociali, non avendo né un lavoro fisso né un postostabile dove dormire. Non si tratta solo di dar loro la possibilità di dor-mire in un letto e di avere un pasto caldo, ma vengono anche forniti aiutidi natura psicologica, sanitaria, sociale e un’assistenza a trovare un la-voro e una sistemazione permanente.

Sempre per i giovani senza dimora è stato creato nel 2005 un ostello ascopo residenziale che offre 20 posti letto per uomini e donne. Qui vi ri-siedono giovani con problemi sia di natura psicologica sia di dipendenzada alcol e droga. La loro permanenza a volte è dovuta alla mancanza diun’assicurazione sanitaria, mentre altri sono in attesa, dopo la disintossi-cazione, di partecipare al programma di riabilitazione. A questi giovaniviene fornito un aiuto psicologico di gruppo e individuale, con lo scopodi aumentare le loro capacità sociali e di gestione dello stress e di fornireinoltre consigli legati a questioni sociali, legali, lavorative e di istruzione.Come sopra menzionato, la filosofia d’intervento è quella di responsabi-lizzare i ragazzi con compiti precisi all’interno dell’ostello e di far sì chesi creino un piano per una vita indipendente.

All’interno del Centro per l’aiuto umanitario di Monar-Markot sitrova il centro residenziale Dom Markot 3. Si tratta di una struttura re-sidenziale per i senza tetto che mette a disposizione camere da due, tre equattro posti con una capienza di 70 persone. Fino al 2005 era solo unacasa per homeless con i meccanismi descritti in precedenza, negli ultimianni sono stati inseriti al suo interno, tramite accordi con la municipa-lità di Varsavia, due programmi specifici: il centro residenziale per lariabilitazione di persone senza dimora con disturbi psichici e il centroresidenziale per la riabilitazione di persone senza tetto che hanno finitola terapia di base sull’abuso di alcool. Nel primo sono disponibili 10posti letto per persone con problemi mentali che però non hanno bi-sogno di restare in ospedale. Questi sono assistiti da volontari e da per-sonale professionale che provvedono ai servizi medici e psicologici dicui hanno bisogno. Il secondo prevede 35 posti letto per senza tetto chehanno finito la terapia di base contro l’abuso d’alcol, così che possanorimanere nella struttura per sei mesi e continuare un’attività di supportopsicologico di gruppo e individuale. Sono d’altra parte tenuti a frequen-

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tare gli incontri presso gli Alcolisti anonimi e a trovarsi un lavoro. Lavo-rare è una condizione indispensabile per poter restare nel centro resi-denziale per questi ex alcolisti. Monar li aiuta a trovare un’occupazione,ma se loro non dovessero accettarla o interrompessero il lavoro, dovreb-bero lasciare il centro. Oltre a questi programmi, all’interno della DomMarkot 3 sono anche previsti 25 posti letto per homeless che non sonoin grado di lavorare e di vivere una vita indipendente. La loro perma-nenza non è tuttavia passiva, anche a loro sono affidati dei compiti al-l’interno della casa. A volte questi compiti si tramutano in vere e pro-prie professioni.

Infine, nel 1995 nel Centro per l’aiuto umanitario è stato predispostoun ospedale che funziona come istituzione sanitaria indipendente. L’ospe-dale è aperto a tutti gli abitanti della Polonia senza discriminazioni epresta servizio ai senza tetto, a persone con problemi di dipendenze e a ri-schio emarginazione le quali, spesso, sono sprovviste dell’assicurazione sa-nitaria necessaria per essere curate nelle strutture pubbliche. Si trovano 27posti letto, tra cui 4 destinati alla disintossicazione da sostanze alcoliche.L’ospedale collabora con gli altri centri ospedalieri di Varsavia da cui ri-ceve pazienti privi di assicurazione sanitaria ma che necessitano di cureprolungate. Nella struttura è presente anche un dipartimento sanitariodiurno, uno studio dentistico e un dipartimento per la terapia contro gliabusi di alcol che tratta 40 pazienti senza dimora e senza assicurazionemedica. La terapia dura diciassette settimane. I partecipanti non possonobere alcolici o assumere droghe, altrimenti vengono allontanati. Per au-mentare la partecipazione e responsabilizzazione dei pazienti del diparti-mento, il soggetto destinatario degli interventi deve fare almeno cinqueore di volontariato alla settimana presso Monar.

Le stesse logiche di comunità descritte all’inizio di questo paragrafohanno luogo nella Casa per madri sole di Bial/ol/eka. Tuttavia, come ac-cennato prima, una nota dolente circa la situazione dei senza tetto a Var-savia è l’atteggiamento delle autorità cittadine. Questo, purtroppo, si èriscontrato nel caso della Casa per madri sole. Il Comune di Varsavia hadeciso di non rinnovare il contratto di affitto della struttura che ospita400 donne e bambini perché trova più conveniente riqualificare l’areaper poi affittarla o venderla a un prezzo vantaggioso. Non sono statefatte proposte alternative, quindi Monar sarà costretta a chiudere la

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struttura, disperdendone gli abitanti in altri centri fuori città o restituen-doli di nuovo alla strada.

4. Conclusioni

Varsavia, in quanto capitale di un paese ex comunista ormai entrato a farparte dell’Unione europea, vive diverse contraddizioni socioeconomiche.Da una parte, si riscontrano sostanziosi investimenti, un crescente benes-sere e la realizzazione di edifici e di infrastrutture moderni. Dall’altra, per-mangono situazioni di povertà unite a difficoltà e insicurezze legate princi-palmente al lavoro, alla diminuzione del welfare e alla questione abitativa.Queste contraddizioni sono presenti nei quartieri di Varsavia, dove, oltrea situazioni di sviluppo e cambiamento in stile occidentale, si riscontra lapresenza di isole di povertà. In particolare, in città vivono circa 20milahomeless, i quali trovano rifugio, per esempio, nella nuova e costosissimalinea di metropolitana, fornendo l’immagine di due realtà ben distintepresenti nella capitale polacca.

Di fronte a un atteggiamento spesso indifferente da parte delle auto-rità locali, organizzazioni private come la Caritas cercano di aiutare gliemarginati e i senza tetto a superare la loro situazione di estremo di-sagio. Monar-Markot, sia per i numeri sia per l’ampiezza di intervento, èl’associazione più attiva a Varsavia a favore degli homeless. Il suo ap-proccio al problema può essere utile come esempio di intervento inquesti casi tanto difficili e complessi, a fronte di una scarsa collabora-zione con le autorità pubbliche, le quali si limitano a fornire supportoper le questioni legate alle dipendenze da alcol e droga, ma evitano diimpegnarsi a favore dei senza tetto in quanto non desiderano che Var-savia diventi ancora di più una meta di disperati provenienti dall’interaPolonia.

Per quanto riguarda il suo modo di operare, Monar-Markot adottaun approccio flessibile a seconda dei casi. I senza tetto sono spesso af-fetti da altri problemi, come le dipendenze da alcol e/o droga, problemimentali e/o disagio psicologico e sociale. Vengono quindi utilizzati unmetodo e una collocazione diversa a seconda dei problemi e dell’età deisoggetti, i quali vengono trattati come individui con i loro diversi pro-

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blemi e peculiarità e non come una singola categoria disagiata compostada persone affette tutte dagli stessi sintomi ascrivibili alle medesime cause.Per quanto riguarda le dipendenze, si parte dal presupposto che questesiano il primo problema da eliminare per poi incominciare un percorso direinserimento nella società che porti queste persone a essere in grado divivere una vita indipendente. Ciò significa non fermarsi alla disintossica-zione, ma attuare un lungo programma che aiuti le persone a riacqui-stare i valori di una vita sana, dell’aiuto reciproco e dello stare insieme,valori universali che sono perseguiti dall’associazione senza alcun tipo didiscriminazione.

Questo tipo di approccio e di finalità di Monar-Markot si può riscon-trare nel Centro per l’aiuto umanitario di Varsavia. In questa struttura sitrovano situazioni flessibili riguardo la possibile durata della perma-nenza di una persona all’interno del centro, a seconda delle sue condi-zioni e comportamenti, così come si hanno diversi tipi di soluzioni(centro diurno, residenziale e ostello) a seconda delle esigenze delle per-sone. L’intervento sanitario, nel caso di dipendenze, malattie o disabilità,fa parte del percorso di reinserimento e non viene disgiunto da esso. Es-sendo, come già menzionato, la finalità del centro residenziale il pienorecupero dell’individuo a una vita attiva e indipendente, Monar-Markotadotta una chiara strategia volta a favorire il raggiungimento di questoobiettivo divisa in tre fasi. In primo luogo, responsabilizzare e renderepartecipi coloro che abitano nel centro residenziale adottando il prin-cipio di comunità di auto-aiuto in cui bisogna imparare a vivere insiemecome una famiglia, dove ognuno è responsabile di alcuni compiti e delfunzionamento e dell’applicazione del regolamento all’interno della co-munità, utilizzando il principio che ognuno debba contribuire alla co-munità come può e che nessuno debba essere completamente dipen-dente dagli altri. In secondo luogo, una volta raggiunte le condizioni psi-cofisiche necessarie, chi vuole rimanere per continuare il percorso all’in-terno del centro deve attivarsi e trovare un impiego, continuando a par-tecipare, e in questo caso contribuendo anche a livello finanziario, allavita della comunità; infine, Monar-Markot aiuta le persone ormai capacidi vivere in modo autonomo nella ricerca di un lavoro stabile e di unaabitazione, mantenendo i contatti anche in seguito. Queste tre fasi, uniteal supporto sanitario e psicologico, oltre alle varie possibilità di training

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e volontariato, fanno in modo che si possano realizzare le condizioni perl’inclusione in società di persone che prima si trovavano ai suoi marginiestremi.

Quindi, riepilogando, Monar-Markot dimostra come, nel caso deisenza tetto, sia necessario un approccio flessibile riguardo la durata e iltipo di assistenza a seconda delle esigenze della persona. Per esempio, ènecessario che l’intervento psicologico e sanitario venga abbinato, e nondisgiunto dall’obiettivo finale di includere queste persone nella società.Allo stesso tempo risulta necessario rendere partecipi, responsabilizzaree attivare le persone che sono inserite nel centro, e non considerarle ri-cettori passivi di aiuto, in modo da conferire loro una dignità e da pre-pararle a una vita indipendente.

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SITOGRAFIA

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INTERVISTE

Intervista 1: Ricercatore dell’Università di Varsavia ed esperto del Programmadi politiche sociali dell’Istituto di politiche pubbliche di Varsavia.

Intervista 2: Responsabile Ufficio relazioni internazionali di Varsavia.

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11. Dall’emergenza alla promozioneLa Fondazione Casa della carità di Milanodi Emanuela Geromini e Martina Tombari

1. Il contesto

Come ha scritto Stefano Boeri, Milano è città di soste temporanee espostamenti. Essa infatti si estende ben oltre i confini cittadini veri epropri in continui scambi con il proprio hinterland. «Un grande terri-torio che migliaia di individui e di famiglie abitano per ore, periodi, fasicicliche o intermittenti della propria vita, spesso spostando al suo in-terno l’ubicazione del luogo dell’abitare» (Boeri, Bregani e Porcaro2008, p. 69). Milano peraltro è anche una città in cui convivono moltimondi che tante volte sembrano paralleli: è un importante centro com-merciale e industriale, è il maggior polo italiano per i servizi e il ter-ziario, la finanza, la moda, l’editoria e l’industria, ma è anche crogiuolodi flussi migratori, insieme complesso di insediamenti residenziali, indu-striali e di «non luoghi», è uno dei maggiori centri universitari, editorialie televisivi, ma anche luogo dell’anomia e della solitudine di molti.Inoltre, se da un lato la città sembra perdere progressivamente abitanti,dall’altro si rileva ogni giorno un flusso enorme di persone che conflui-scono in essa.

La Casa della carità, che consideriamo in questo capitolo, si pone inmezzo alle molte contraddizioni della città fin dalla sua ideazione. Essanasce infatti dall’intuizione del cardinale Martini di desiderare per Milanoun luogo ospitale dove poter guardare alla città sollecitandola a dar corpoal bisogno di accoglienza, di solidità di legami e di coesione sociale.

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Le trasformazioni del tessuto sociale di Milano sono connesse al de-clino industriale del nostro paese e in particolare ai cambiamenti chehanno connotato l’area Nord-occidentale: la crisi della grande industria,la crescente terziarizzazione, la progressiva internazionalizzazione dell’e-conomia.

All’integrazione nelle reti internazionali finanziarie ed economiche,sembra peraltro contrapporsi una certa decadenza delle condizioni ge-nerali di vita di molti milanesi. La popolazione invecchia, trova meno fa-cilmente lavoro e spesso si tratta di occupazioni precarie, domanda econsuma di meno, il mercato abitativo spinge i giovani verso le periferie,il ceto medio che ha costituito un tempo l’ossatura della città sembra at-traversato da inquietudini e ansietà.

Peraltro dai dati statistici si evince che il noto fenomeno dell’invec-chiamento della popolazione, pur mantenendo livelli molto elevati, ha inparte attenuato i suoi effetti con la ripresa della fecondità e della natalitàgrazie alla presenza degli immigrati. Se nel 2001 si contavano 205,8 an-ziani ultra 65enni ogni 100 giovani tra 0 e 14 anni, nel 2007 se ne anno-verano 195,7. Sempre nel 2007, i bambini nati da madre straniera sonostati 3701, pari al 29,9%, mentre quelli con almeno un genitore stra-niero sono stati 4037, il 32,7% del totale dei nati residenti.

Se consideriamo invece la struttura delle famiglie da un punto di vistadei componenti possiamo rilevare l’ulteriore aumento di quelle composteda una o due persone. All’ultimo censimento erano rispettivamente il37,3% e il 31,2%, valori nettamente superiori a quelli nazionali (24,9% e27,1%). A dicembre 2007 gli stranieri residenti in città erano 175 997, conun’incidenza percentuale sulla popolazione residente del 13,6% (nel 2003era dell’8,5%). Tra di essi le quattro nazionalità più rappresentate erano leFilippine, l’Egitto, la Repubblica popolare cinese e il Perú.

Per quanto riguarda il lavoro, secondo l’Indagine sulle forze lavoro, nel2007 il tasso di attività era del 73,2%, quello di occupazione del 70,3%,mentre quello di disoccupazione risultava del 3,9%.

In base alle analisi sul reddito effettuate nell’ambito del progettoAMeRIcA (Anagrafe Milanese e Redditi Individuali con Archivi), il red-dito medio imponibile dei cittadini milanesi dichiaranti1 nel 2005 era di26 802 euro, ma il 42% dei dichiaranti percepiva un reddito imponibileinferiore a 15mila euro annui.

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2. Le politiche sociali a favore delle persone in situazioni di povertànel contesto considerato

Milano da molto tempo si è attribuita la qualifica di «capitale morale»del paese ed è stata scelta come sede della cosiddetta «Authority delvolontariato» (Agenzia nazionale per le Onlus). In città sono presenti50 associazioni riconosciute (con D.P.R.), 147 fondazioni ed enti mo-rali di diritto privato, 396 organizzazioni di volontariato,2 147 associa-zioni familiari (67 delle quali sono anche registrate tra le organizza-zioni di volontariato) e 210 cooperative sociali.

Nel 2002 il Comune ha avviato il Settore adulti in difficoltà, che sioccupa delle persone tra i 18 e i 60 anni, italiane e straniere, in condi-zioni di disagio. Agli adulti in difficoltà vengono offerti diversi serviziin collaborazione con l’Asl, le aziende ospedaliere, gli altri settori co-munali e gli enti del terzo settore: segretariato sociale per la presa incarico socioassistenziale, interventi di supporto psicologico o di ac-compagnamento educativo, sussidi economici, buoni sociali, borse distudio, inserimenti in comunità alloggio o in appartamenti protetti,mediazione al lavoro tramite il Celav (Centro di mediazione e orienta-mento al lavoro).

Per quanto riguarda le persone senza dimora, durante l’invernoviene attuato il «piano freddo», grazie al quale vengono approntatequattro strutture di pronta accoglienza notturna, in grado di ospitarefino a 800 persone. Inoltre, il Comune concede in comodato d’usouno stabile alla fondazione Fratelli di San Francesco a fronte della di-sponibilità, per tutto l’anno, di 100 posti letto per le persone grave-mente emarginate e un altro all’Associazione City Angels per l’acco-glienza temporanea di nuclei familiari privi di alloggio. Infine, sulpiano dell’accoglienza, la struttura comunale di viale Ortles offre 375posti letto, con un’utenza complessiva di 817 persone nel 2008.

Inoltre, negli ultimi anni è stato potenziato il servizio di assistenzatramite unità mobili, con cui gli operatori raggiungono le personesulla strada per offrire generi di prima necessità o sostegno psicolo-gico.

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3. La Fondazione Casa della carità A. Abriani

La Casa della carità nasce nel maggio 2002 per iniziativa del cardinaleCarlo Maria Martini, desideroso di lasciare a Milano un luogo in cui lacittà esprimesse attenzione agli «ultimi». Per la nascita della FondazioneCasa della carità è stata devoluta una parte dell’eredità lasciata dall’im-prenditore milanese Angelo Abriani.

La Casa della carità si pone l’obiettivo di accogliere e accompagnarein percorsi di integrazione le persone gravemente emarginate e nel con-tempo di divenire l’elemento di connessione, di integrazione, di scambiodi saperi e di esperienze che, a partire dalla testimonianza resa dagli ul-timi, può e deve costituire il perno della riflessione sullo sviluppo so-ciale, economico, culturale della città intera.

ATTIVITÀ DELLA CASA DELLA CARITÀ

OspitalitàL’ospitalità è il fondamento dell’esistenza della Casa della carità.

L’idea originale in tema di accoglienza e di ospitalità, è stata proprioquella di creare una casa, non una struttura. Si sviluppa nella sede di viaBrambilla 8/10, dove un piano è dedicato all’ospitalità di uomini constanze da sei posti letto e un bagno ogni due stanze, un piano per ledonne con stanze da tre posti letto e un bagno ogni due stanze. Il totaleè di circa cento posti letto comprese tre unità abitative di alloggi permamme e bambini collocate all’interno della Casa.

Dall’apertura della Casa a giugno 2009 sono state ospitate 1146 per-sone (18% italiane), di cui 265 rom accolti a seguito di sgomberi dicampi nella città di Milano. Delle restanti 881 persone accolte, il 51%erano uomini, il 34% donne e il 15% minori.

Le risorse umane impiegate per l’accoglienza sono: 10 operatori-edu-catori che impostano e monitorano il percorso educativo per l’ospite, 9volontari in affiancamento in ore pomeridiane e serali che si occupanodi aspetti pratici (cambio lenzuola, aiuto per uso lavatrici ecc.) e svol-gono attività con i minori ospiti della Casa (sostegno scolastico) e corsidi italiano individualizzati per gli adulti.

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Centro di ascoltoIl centro, gestito da un gruppo di volontari con la supervisione di unoperatore, è aperto cinque giorni alla settimana, al mattino.

L’ascolto è curato ogni giorno da due volontari in compresenza cheraccolgono i bisogni e le richieste delle persone. Il colloquio viene sinte-tizzato in una scheda di primo contatto che viene esaminata successiva-mente dal responsabile dell’accoglienza che orienta e valuta le possibilirisposte e l’eventuale ingresso nella Casa.

In sintesi, gli interventi effettuati dal centro di ascolto consistono nellarilevazione del bisogno manifestato e in un orientamento che può consi-stere in: domanda di accoglienza, orientamento lavorativo, assistenza le-gale, servizi informativi sull’immigrazione e orientamento ai servizi del ter-ritorio.

Le persone ascoltate dall’apertura della Casa fino al giugno 2009sono state 2874.

Le risorse impiegate sono un’assistente sociale responsabile e 9 vo-lontari presenti a turno cinque giorni alla settimana.

Docce e guardaroba È una forma di accoglienza minima, ma che restituisce dignità anche aquanti non possono essere ospitati nella casa. Offre un servizio essen-ziale per le persone che non hanno altre possibilità di cura di sé. Inoltre,è un’occasione di incontro che può servire per iniziare una relazione chemetta le basi di un’eventuale presa in carico più complessiva.

Il servizio docce è aperto tre giorni alla settimana e il guardaroba duegiorni al mese.

Con ogni persona viene effettuato un colloquio e viene rilasciato untesserino di riconoscimento, per ciascuno viene compilata una schedacronologica con indicati i vari servizi prestati.

Le persone accolte alle docce sono per l’80% uomini, per l’11%donne e per il 9% famiglie. Le aree di provenienza delle persone sonomolteplici, in prevalenza Nordafrica ed Europa neocomunitaria.

Le persone accolte alle docce fino a giugno 2009 sono state 945; co-storo possono usufruire della doccia tre volte alla settimana. Le risorseimpiegate sono un educatore, un giovane in servizio civile, 8 volontari.

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Casa nido All’interno della struttura sono stati pensati tre piccoli appartamenti in-dipendenti dove vengono accolte madri con bambini in condizione didisagio socioeconomico, con l’obiettivo di promuovere un percorso diautonomizzazione e di sostegno alla genitorialità.

Le accoglienze si possono suddividere in due categorie: accoglienzadi emergenza con una permanenza di due mesi al massimo; accoglienzacon progetti di autonomia con tempi di permanenza di massimo venti-quattro mesi.

Nel corso della loro permanenza le donne sono state supportate nellosviluppo di progetti formativi finalizzati ad acquisire una qualifica pro-fessionale migliore, nella ricerca del lavoro o nel consolidamento dell’atti-vità svolta. I bambini vengono inseriti in scuole della zona, mentre gli ado-lescenti proseguono la frequenza nella scuola dove sono iscritti, anche sefuori zona.

Progetto anzianiIl progetto vuole fornire un aiuto alle persone anziane che hanno difficoltàa uscire di casa e che vivono in una situazione di solitudine, offrendo mo-menti ricreativi e di animazione a coloro che desiderano trascorrere unaparte della giornata in compagnia, in un ambiente stimolante.

Sono stati messi a disposizione degli anziani del quartiere alcunispazi della Casa, così è possibile pranzare insieme in allegria, leggere ilgiornale, partecipare a iniziative tra cui film, teatro, giochi di società.Inoltre, è stata attivata una rete di volontari e di servizi alla persona perfar fronte alle loro necessità.

Unici criteri di accettazione sono l’età (minimo 65 anni) e il desideriodi far parte del gruppo.

La presenza media settimanale è di circa 50 persone; gli anziani chefrequentano il gruppo si collocano in una fascia di età compresa fra i 65e i 97 anni, con una prevalenza della fascia dagli 80 anni in su. Gli an-ziani seguiti a domicilio nell’ambito di un intervento di rete concordatocon i servizi sociali o i custodi sociali sono circa 40 all’anno.

Il progetto «Anziani» si è realizzato con il contributo dell’ammini-strazione comunale di Milano.

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Ambulatorio medico Il servizio medico-infermieristico della Casa della carità è stato attivatocontestualmente alla struttura. L’attività, oltre ai controlli sanitari legatiall’ingresso delle persone, riguarda anche le visite collegate al monito-raggio di situazioni specifiche di malattia o di controllo igienico-sanitario.

Dall’avvio dell’attività a giugno 2009, sono state effettuate circa 1700consultazioni complessive.

L’ambulatorio è aperto tre giorni alla settimana in orario serale dalle16 in poi. Vi operano tre medici generalisti e un’infermiera volontaria. Aintegrazione delle prestazioni dei medici generalisti sono attivabili su ri-chiesta uno specialista pediatra, uno specialista neurologo e una specia-lista ginecologa.

I medici sono inoltre a disposizione per esigenze particolari segnalatedagli operatori e per eventuali consulenze richieste dal centro di ascolto.

Ambulatorio di salute mentaleAnche l’ambulatorio per la consulenza di persone con disagio psichico ènato insieme all’attività di ospitalità per poter prendere in cura personeche manifestano una problematica psichica e non hanno soluzioni alter-native a causa di un difficile accesso ai servizi o per una mancata proget-tualità in situazioni multiproblematiche.

L’ambulatorio si occupa: della presa in cura degli ospiti residenti, conpsicoterapia e supporto farmacologico; delle prime visite di valutazione;dei rapporti con i servizi e le istituzioni;3 della presa in cura dei percorsidi uscita.

L’ambulatorio è aperto tutti i giorni in orario serale. Le visite sonoprogrammate secondo un calendario, ma una parte del tempo è dedicataad affrontare le emergenze e gli imprevisti quotidiani.

L’approccio che caratterizza gli interventi è di tipo sperimentale e in-centrato sulla relazione. È basato sull’idea che il disagio psichico è unaquestione che riguarda tutti, e non una malattia da stigmatizzare.

Il servizio ha due responsabili psichiatri e si avvale della collabora-zione di psicoterapeuti volontari e tirocinanti.

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Progetto «Diogene»«Diogene» è l’unico progetto che si occupa di senza dimora con disagiopsichico che vivono in strada e, per il suo carattere innovativo, è stato in-dicato dall’Organizzazione mondiale della sanità come progetto pilotadedicato agli homeless. Il servizio è rivolto ai senza dimora italiani e stra-nieri con problemi di salute mentale la cui situazione richiede un inter-vento psicosociale integrato e che hanno difficoltà a contattare le strut-ture pubbliche preposte alla cura del disagio psichico.

Attraverso le uscite serali delle unità mobili, composte da psichiatri opsicologi ed educatori, le équipe incontrano le persone che vivono instrada (stazioni ferroviarie, aeroporti, zone centrali) direttamente neiluoghi da esse frequentati.

Nel 2007 il progetto ha preso in cura 30 homeless con disturbi psi-chiatrici e ha attivato 20 nuovi contatti.

Progetto «So-Stare»«So-Stare» è un centro sperimentale di convivenza per la salute men-tale, basato sull’idea di residenzialità «leggera». L’intervento è impron-tato al valore dell’ospitalità e al senso di responsabilità e autonomia delsingolo. Chi entra a «So-Stare» intraprende un percorso che ha comeobiettivo il raggiungimento di una maggiore autonomia e il recupero delproprio benessere psico-fisico.

L’ospite è accompagnato da un’équipe di professionisti della salutementale che lavora per potenziarne le risorse ed elaborare per ognunoun progetto individuale.

La comunità residenziale può ospitare fino a un massimo di otto per-sone, sia uomini che donne, purché maggiorenni. Gli ospiti sono seguiti dadue operatori, uno psichiatra e uno psicologo nel ruolo di coordinatore.

Dall’apertura della Casa a giugno 2009 sono state ospitate 19 persone.

Assistenza legale e supporto avvocaturaLo sportello svolge la sua attività con l’obiettivo di offrire un servizio diorientamento legale rivolto agli ospiti, alle persone che arrivano tramiteil centro di ascolto e a quelle seguite nei vari progetti.

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In particolare, attiva contatti con avvocati specializzati nei diversicontesti giudiziari in cui è necessaria assistenza con patrocinio a spesedello Stato e si fa mediatore nei rapporti fra gli utenti e le istituzioni(Asl, tribunali competenti, questura ecc.) al fine di promuovere legalità etutela effettiva dei diritti.

Lo sportello è stato aperto nell’autunno 2006 con 1200 tra colloqui econtatti esterni. È aperto tre volte alla settimana e riceve per appunta-mento.

Corso di italianoHa lo scopo di aiutare gli ospiti stranieri ad apprendere la lingua italianache è condizione indispensabile per riuscire a trovare lavoro, nonché oc-casione di socializzazione e di dialogo.

Il corso si svolge normalmente una sera alla settimana, ma in caso dibisogni particolari il tutor con il suo allievo possono decidere di fare piùlezioni settimanali.

Quasi 200 persone hanno frequentato i corsi proposti con l’aiuto di12 tutor volontari.

In Casa della carità vengono inoltre organizzati corsi di alfabetizza-zione per persone analfabete nella madrelingua.

Consulenza e accompagnamento all’inserimento lavorativoL’intervento proposto dall’area lavoro in Casa della carità si sviluppa indue ambiti.

Il primo riguarda l’accompagnamento al lavoro degli ospiti e delle per-sone che si rivolgono al centro di ascolto. Esso prevede il bilancio di com-petenze professionali e personali con la relativa stesura del curriculumprofessionale; l’individuazione della formazione necessaria; l’orienta-mento al lavoro in base alle competenze e capacità individuali; il supportonella ricerca attiva del lavoro e contatti con le agenzie per il lavoro.

In quattro anni di attività circa 1500 persone sono state sentite perun primo colloquio, 510 sono state prese in carico per un inserimento la-vorativo. Di queste, 113 sono state inserite con contratti a tempo inde-terminato, 182 risultano occupate con contratti a termine.

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In secondo luogo l’area opera con progetti specifici. Per esempio nelcorso dell’anno 2007 è stato realizzato il progetto «Una rete per An-gela», rivolto a donne sole con figli minori a carico e con situazioni difragilità sociale, con l’obiettivo di un reinserimento sociolavorativo.Tutte le 10 utenti del progetto si sono reinserite nel mercato lavorativocon contratti a tempo indeterminato.

Da settembre 2008 si è avviato il progetto «Prometeo», volto all’in-clusione sociolavorativa di ex detenuti, che ha già raggiunto l’obiettivodi 5 inserimenti lavorativi stabili.

Area culturaL’attività di quest’area consiste in primo luogo nella promozione del-l’Accademia della Carità. Quest’ultima è l’ambito di studio, ricerca eformazione istituito dalla Casa della carità con l’obiettivo di promuoverela riflessione culturale sui temi del disagio sociale, dell’emarginazione edella povertà, a partire delle esperienze di accoglienza e ospitalità vissutenella Casa.

L’idea di un’Accademia della Carità nasce, infatti, dall’intento, forte-mente sostenuto dal cardinale Martini, di mantenere strettamente inte-grate azione sociale e ricerca culturale.

Dal 2004, ogni anno l’Accademia organizza percorsi formativi, semi-nari, convegni e attività scientifiche di ricerca avvalendosi della collabo-razione di docenti universitari, ricercatori e operatori del sociale.

In secondo luogo la Casa della carità in collaborazione con l’assesso-rato alla Cultura, culture e integrazione della Provincia di Milano hadato avvio, all’interno del progetto «Cultura del confine. Memoria e ter-ritorio», alla realizzazione di una Biblioteca del confine, un luogo di ri-cerca e documentazione sulle culture e sui paesi di origine degli ospitidalla Casa della carità e, più in generale, uno spazio di approfondimentodedicato alle metodologie di lavoro e di intervento in situazioni di mar-ginalità.

La Biblioteca si pone, inoltre, come punto di riferimento sul terri-torio, sia per la raccolta di documentazione sia in quanto risorsa per laricerca, per la cultura e per le proposte formative che sono nate e nasce-ranno all’interno della Casa della carità. Uno degli obiettivi della Biblio-

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teca è diventare una fonte di sapere e di esperienze non solo per gli ope-ratori della Casa della carità, ma anche per volontari, studenti, operatorisociali e ricercatori che nell’area metropolitana di Milano si occupano dimarginalità a diversi livelli disciplinari e professionali.

Nell’ambito della Biblioteca del confine trova inoltre spazio la Bi-blioteca di pubblica lettura, con l’obiettivo di favorire la formazioneculturale degli ospiti e diventare un luogo di socializzazione e di in-contro.

I progetti a carattere internazionaleL’area mondialità della Casa della carità è preposta alla comprensione eall’approfondimento culturale di fenomeni internazionali che incidononella vita dei singoli individui e nell’azione quotidiana dell’accoglienza.In particolare gli operatori di quest’area hanno sviluppato e supportatoprogetti in Sri Lanka, Senegal e Romania.

Il lavoro con i romIn questi anni di attività Casa della carità ha affrontato l’emergenza deglisgomberi dei campi rom nella città di Milano (Capo Rizzuto 2005, Ripa-monti 2006, San Dionigi 2007, cavalcavia Bacula 2009).

A partire da queste situazioni di emergenza si è cercato di superare lestrategie di intervento assistenzialiste, o all’opposto meramente espul-sive, per costruire un percorso realistico e dignitoso fatto di progressivaautonomia e responsabilizzazione dei rom, sostenuti nel diventare sog-getti attivi del loro percorso di uscita dalla marginalità.

In una prima fase, immediatamente successiva allo sgombero del lorocampo, a ognuna delle persone è stato garantito vitto e alloggio, nonchéuna particolare attenzione alla cura sanitaria e alla regolarizzazione deidocumenti, con l’obiettivo di porre le basi per costruire un rapporto edu-cativo con tutte le persone del gruppo. Questo è stato possibile svol-gendo inizialmente attività prevalentemente ricreative, che hanno favo-rito una conoscenza del contesto socioculturale in cui il gruppo è inse-rito, nonché la consapevolezza delle diversità culturali fino ad arrivare apercorsi di inserimento scolastico e percorsi educativi individuali per

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bambini e ragazzi e avvio al lavoro e all’autonomia abitativa per buonaparte degli adulti presenti.

L’accoglienza dovuta agli sgomberi ha coinvolto nuclei familiari perun totale di 323 persone, di cui 142 minorenni.

Inoltre, in seguito all’incendio che si è verificato nel campo nomadidel Comune di Milano di via Triboniano nel dicembre 2007, Casa dellacarità è stata coinvolta in un progetto di ricostruzione e gestione delcampo. Successivamente l’intervento si è esteso anche al campo di viaIdro con le stesse modalità di azione.

La presenza quotidiana degli operatori ha permesso una maggior co-noscenza delle persone che abitano le aree e, laddove c’è stata disponibi-lità da parte delle famiglie, si sono compiuti passi di comune accordo.

L’intervento di Casa della carità nei campi ha coinvolto 110 personenel campo di via Idro e 560 nel campo di via Triboniano, con interventidi inserimento scolastico dei minori, orientamento e inserimento lavora-tivo, supporto nell’ambito sanitario e legale.

L’ACCOGLIENZA

Riteniamo opportuno soffermarci maggiormente sull’attività principaledella Casa: l’accoglienza. Gli ingressi non vengono regolati in base a unalista d’attesa, ma a partire dai colloqui del centro di ascolto e dalle ri-chieste provenienti dai servizi cittadini (servizi sociali, ospedali, Sert,Cps...). Il principio che realmente domina gli ingressi presso la Casa èquello di individuare fra tutte le persone che hanno chiesto ospitalitàquelle che nella permanenza in via Brambilla possono trovare la migliorerisposta alla lora richiesta di aiuto.

Si ritiene fondamentale, per la buona riuscita del percorso di cia-scuno, che sia presente in Casa una miscellanea di situazioni. Come haaffermato un operatore: «la macedonia viene bene con tanta frutta di-versa». Difatti uno dei criteri di cui ci si avvale è la valutazione della ete-rogeneità della provenienza, delle problematiche, dell’età e del tipo didisagio di cui gli ospiti sono portatori. Questo principio consente di nondiventare una comunità specializzata per una categoria, ma aperta a ognipersona gravemente emarginata.

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Le persone segnalate svolgono, quindi, un secondo colloquio conl’assistente sociale, affiancata dalla psichiatra se necessario. In questasede viene valutata l’opportunità di una permanenza presso la struttura.

La sottoscrizione del regolamento richiesta al momento dell’ingressonon è un atto formale, bensì un principio cardine della Casa. Si tratta, in-fatti, di una realtà dove convivono, lavorano e prestano volontariato cosìtante persone e dove si incrocia una tale varietà di storie ed esperienze, chela capacità di rispetto e considerazione del prossimo diventa necessaria.Fondamentale è l’attenzione al pluralismo religioso: nella casa non ci sonoicone cristiane, l’unico luogo di culto è una cappella al secondo piano.

Il principio di temporaneità della permanenza è certamente fonda-mentale, sia per spronare la persona e avviare un percorso di autonomia,sia per poter prestare accoglienza a quante più persone possibile. Il pro-getto personalizzato viene concordato tra la persona e gli educatori edeventualmente riformulato nel caso in cui subentrino nuove esigenze.

Trattandosi, come già precisato, di una casa, è necessario che le re-gole che la governano siano condivise e gli ospiti siano resi edotti degliimpegni che assumono al momento dell’ingresso.

Dal regolamento interno si evince, oltre alle mere regole, lo spiritoche guida l’accoglienza sia dal punto di vista educativo sia dal punto divista umano.

L’AREA LAVORO

La situazione di fragilità in cui si trovano gli adulti esclusi dal mercatodel lavoro e i giovani inoccupati porta con sé il forte rischio di esclusionesociale. La Casa ha quindi pensato di investire sul sostegno alle personein termini sia di accompagnamento a una riprogettazione del propriopercorso lavorativo sia di consulenza nella ricerca del lavoro.

L’orientamento al lavoro non viene offerto solo alle persone ospitatenella Casa della carità, ma anche ai vari soggetti che a diverso titolo sonoseguiti dagli operatori, per esempio nei campi rom o con il centro diascolto.

Il piano di intervento utilizzato nella consulenza lavorativa speri-menta un modello di intervento che prevede orientamento, formazione,

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sostegno, accompagnamento e sperimentazione di inserimenti e occa-sioni lavorative, finalizzati all’autonomia. Si tratta quindi di elaborare unpercorso che possa rispondere coerentemente ai bisogni delle personeinserite, valorizzandone le competenze, ma rilevando nel contempo iloro punti di debolezza, per individuare le tappe di un percorso che su-peri gradualmente tali difficoltà.

Particolarmente interessante e proficua è anche la collaborazione conil Celav (Centro di mediazione e orientamento al lavoro del Comune diMilano) per l’attivazione di borse lavoro e tirocini formativi nei vari am-biti lavorativi della cooperativa, che ha portato anche ad alcuni inseri-menti lavorativi stabili.

Per facilitare l’inserimento lavorativo delle persone con fragilità,Casa della carità ha promosso la creazione di alcune imprese sociali. È ilcaso, per esempio, della cooperativa Lavoriamo che offre i propri serviziin numerosi settori di attività, tutti di basso profilo professionale, inmodo da essere più facilmente accessibili ai soggetti inseriti valorizzandole competenze e le attitudini di ciascuno. In particolare a oggi la coope-rativa è attiva nei settori della pulizia, delle tinteggiature d’interni, dellemanutenzioni edili, degli sgomberi e della gestione di laboratori artigia-nali con attività di tessitura e sartoria, di produzione di manufatti arti-gianali e artistici in ceramica.

Nel campo della ristorazione è stata invece attivata una società, la MrKatering, che oltre alla propria attività di catering, ha un contratto conCasa della carità per la gestione della mensa nonché per la formazione el’inserimento lavorativo di persone già seguite dalla Casa stessa.

Un’altra interessante esperienza di lavoro riguarda la creazione dellaBanda del villaggio solidale, nata dall’accompagnamento lavorativo dellepersone rom seguite dalla Casa. Valorizzando le capacità di alcuni diloro, si è pensato di creare un gruppo musicale che potesse essere un la-voro concreto. La loro musica rispecchia la cultura popolare romena: fi-sarmoniche e voci femminili, ritmi che nascono dall’incontro fra Orientee Occidente. Nel novembre 2005 è uscito il loro primo cd Original rombig band, prodotto dalla Casa della carità e sponsorizzato dal Gruppoferrovie dello Stato, che ha trovato spazio sia nelle riviste specializzatesia nelle emittenti radiofoniche. Da allora il gruppo ha iniziato a esibirsicon una certa frequenza suonando in molte città d’Italia.

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METODI E STRUMENTI DI LAVORO

Alla base del pensiero cha anima la Casa della carità vi è il principio percui ogni persona debba essere accolta, ascoltata e accompagnata ancheladdove la residenzialità non possa essere data o non sia richiesta.

Dall’esperienza maturata in questi primi cinque anni, possiamo indi-viduare alcuni metodi di lavoro che ricorrono nelle diverse attività e neiprogetti svolti.

Innanzitutto l’ascolto, dove avviene l’incontro effettivo tra chi operanella Casa e la persona che vi si rivolge, cosicché, partendo dalla domandaespressa, sia possibile individuare le necessità per superare gli ostacolispesso legati allo stato di emarginazione, legale o sociale. Ascolto anchecome strumento di lavoro: l’approccio parte dall’utilizzo della tecnica dicounselling/ascolto attivo per arrivare a ricondurre a un luogo unitario lestorie di vita delle persone incontrate. Il colloquio si è rivelato uno stru-mento della relazione di aiuto utile per offrire uno spazio dialogante eumanizzante, per informare, orientare, sostenere. Il colloquio finalizzato aprodurre relazioni di aiuto si basa sull’incontro con l’altro e sulla respon-sabilità verso l’altro. In questo contesto è la Casa che impara a domandaree ad ascoltare, mentre il suo interlocutore (l’ospite) è valorizzato per le ri-sorse che può immettere nel progetto in cui è coinvolto, non per i deficitda colmare. Il lavoro non è su di lui, bensì con lui.

In secondo luogo l’équipe di lavoro si è rivelata essere la parte strate-gica dell’operatività in Casa della carità. Il grande coinvolgimento nellarelazione di accoglienza delle persone impone agli operatori una con-tinua ridefinizione di ruoli e approcci nella relazione stessa.

Potremmo individuare due diverse équipe che operano nella strut-tura. Quella educativa, composta dagli operatori che quotidianamentelavorano a stretto contatto con gli ospiti della Casa e l’équipe allargatache raggruppa gli operatori coinvolti in interventi che potremmo defi-nire maggiormente specialistici (per esempio i medici, gli psichiatri, chieffettua orientamento al lavoro...).

In questa organizzazione risultano efficaci alcune strategie:

• multidisciplinarietà: la presenza di più professionisti che operanonella stessa struttura ha favorito la costruzione di un’ottica condivisa

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rispetto ai diversi problemi portati dalle persone. Tale condivisionerende possibile una progettazione in cui tutti gli operatori si identifi-cano negli obiettivi e nelle azioni. L’identificazione nelle azioni per-mette l’investimento emotivo e cognitivo sia nel concretizzarle, sianel valutare i risultati raggiunti per ri-progettare nuove azioni. Aquesto va aggiunto che i diversi apporti di ogni professionalità of-frono nella lettura del disagio una produzione di punti di vista origi-nali e inediti che accrescono le potenzialità dell’intervento e le com-petenze di tutti;

• metodologie flessibili: l’équipe educativa utilizza nella quotidianitàuna strutturazione leggera che tenta di essere ponte fra le esigenzedell’utenza e di una realtà che muta sempre più velocemente, e un si-stema organizzativo esterno che fatica a riadattarsi al cambiamento.Una metodologia leggera consente all’operatore di recuperare fan-tasia e capacità creativa nell’affrontare le diverse situazioni, andandooltre lo specialismo professionale. Gli operatori si trovano, così, a ge-stire funzioni «multiple»;

• ricomposizione dei servizi: l’équipe lavora in modo da uscire dallastrutturazione convenzionale dei servizi sul territorio basata sullesuddivisioni settoriali. I problemi del disagio e dell’emarginazionevengono in genere scomposti individuando diverse categorie diutenti distinti per età (minori, anziani, adolescenti...), per condizione(donne, giovani, immigrati...), per aree di problemi (handicap, tossi-codipendenza...). Nonostante si riconosca che le suddivisioni in-scritte nelle strutture e nel funzionamento dei servizi hanno avuto ehanno funzioni importanti per lo svolgimento del lavoro, per il man-tenimento delle organizzazioni e per suddivisione delle risorse (eco-nomiche, di struttura e di personale), la scelta in Casa della carità èstata quella di operare cercando, invece, di valorizzare i molteplici in-trecci;

• lavoro di rete, declinato in due accezioni: in base a un criterio geogra-fico e in base a un criterio metodologico. Nel primo caso si trattadella rete come articolazione dei servizi territoriali con i quali colla-borare, sia a livello formale sia a livello informale. Al secondo, invece,sono riferibili le dinamiche degli invii da e verso altri servizi.

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In questo caso l’attenzione metodologica riporta al lavoro di rete «sulla si-tuazione»: ovvero riconoscere nella domanda della persona le sue connes-sioni, ma anche ricostruire la storia del singolo con altri servizi a cui prece-dentemente si è rivolto per non disperdere il percorso già compiuto.

La caratteristica che, forse, contraddistingue il lavoro di Casa dellacarità nella rete di servizi è la «mobilità»; la scelta è quella di agire in unastrategia di rapporti tra pubblico-privato, sociale-sanitario che si muovaoltre la definizione di competenze, per andare verso lo sviluppo di rela-zioni, legami e comunicazione; l’incontro diretto della realtà con la suaoriginalità e vitalità.

Inoltre, si cerca di costruire o ricostruire le dinamiche affettive e di so-cializzazione spesso dimenticate o mai sperimentate al fine di restituireuno spazio, un ruolo, del tempo per la cura di sé. Questa rete viene offertaagli ospiti da operatori e volontari della Casa in una dimensione acco-gliente, quasi famigliare, che permette di sentirsi in relazione con qual-cuno: si tratta di una sorta di «residenza affettiva» (quella possibilità di ri-tornare e trovare uno spazio su cui ogni persona che è passata da Casadella carità può contare), che assume un valore educativo e terapeutico eche potremmo definire come uno dei cardini del metodo adottato nell’ac-coglienza.

4. Conclusioni

Osservando l’organizzazione, i servizi offerti e le caratteristiche dell’ope-ratività in Casa della Carità, si possono individuare alcune peculiaritàche rendono questa struttura in un certo modo necessaria alla realtà deiservizi di Milano.

Innanzitutto la facilità di accesso: la Casa sceglie di lasciar accedere lepersone alle diverse unità di offerta senza che sia necessario possederealcun requisito particolare e senza anteporre il criterio delle liste d’at-tesa. Questo è stato possibile sia grazie alla presenza di molteplici figureprofessionali in équipe, sia alla flessibilità che gli stessi operatori hannorispetto all’organizzazione del proprio lavoro. Per favorire l’accesso allaCasa si cerca di concordare, per esempio, spazi e orari per colloqui e in-contri per venire incontro a chi ne fa richiesta.

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Altra scelta determinante è stata quella di essere facilmente accessi-bile, anche fisicamente: la Casa offre la possibilità a ogni persona di en-trare e trovare qualcuno a cui porre la propria domanda e comprenderedove orientarsi per individuare il percorso migliore per la persona.Inoltre le varie attività sul territorio (pensiamo al progetto «Diogene» oal lavoro nei campi rom) consentono di avvicinare anche le realtà chenon sono in grado di raggiungere autonomamente la struttura.

Questo essere «a disposizione», però, presuppone una flessibilità delservizio che spesso si trova a scontrarsi con le rigidità del sistema d’offertacittadino. Ciò comporta, a seguito di una presa in carico sufficientementerapida da parte della Casa, una fatica a ricondurre all’ente pubblico la«competenza» rispetto alla situazione, sia per i tempi legati alle intermina-bili liste d’attesa per essere presi in carico, sia perché spesso non viene ri-conosciuto il percorso già intrapreso dalla persona utilizzando metodi al-ternativi di intervento e quindi non riconducibili facilmente agli schema-tismi proposti dal servizio, che sono spesso, già a priori, la causa dell’e-sclusione degli stessi utenti dalle prestazioni.

Ciò comporta che di frequente la Casa si veda costretta a mutare il pro-prio compito di lavoro e la propria organizzazione non solo per adeguarsialle caratteristiche e alle esigenze degli ospiti, ma anche per evitare che ilpercorso iniziato venga interrotto, «abbandonando» nuovamente la per-sona al proprio destino che, terminati i mesi d’accoglienza come da rego-lamento, significherebbe ritrovarsi nuovamente in strada.

Un’altra caratteristica della Casa della carità che la rende utile al sistemadi accoglienza di Milano è la capacità di essere una struttura di prima acco-glienza, relativamente ai numeri e all’organizzazione della permanenza, macon le attenzioni di una struttura di seconda accoglienza/comunità quali lapresenza di educatori, il lavoro di rete con i servizi, l’elemento relazionecome fondante nell’operatività. Spesso, infatti, i servizi territoriali, pubblicio del terzo settore, hanno riconosciuto alla Casa della carità la capacità diplasmarsi sulle esigenze della persona, anche quando la stessa non è ancorain grado di intraprendere un percorso comunitario in senso stretto o nonha l’autonomia, gli strumenti personali e le capacità per un inserimento so-ciale, lavorativo e abitativo di maggior autosufficienza.

D’altro canto questo «utilizzo» della Casa «al posto di» strutture concaratteristiche di maggiore tutela e accompagnamento individualizzato,

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comporta il rischio che essa divenga un punto di arrivo per alcune per-sone seguite dai servizi che non trovano altre soluzioni se non questa.

Nelle situazioni di vulnerabilità sociale maggiore (per esempio immi-grati appena arrivati sul territorio, persone con gravi disagi psichici, cit-tadini che diventano «trasparenti» per i servizi in quanto non sufficien-temente gravi o urgenti per essere considerati), supplire con l’acco-glienza alla mancanza di percorsi alternativi o semplicemente nuovi, fa sìche si depositi una sorta di «sedimento» nell’ospitalità che da un lato di-minuisce l’effettiva disponibilità di posti nella Casa e dall’altro richiedealla struttura uno sforzo ulteriore di mobilitazione per offrire anche aqueste persone un percorso e non un «posteggio».

Altra caratteristica che sicuramente rende Casa della carità elementoutile e funzionale alla città di Milano è la gratuità. Per scelta, non vienechiesto a nessuno un contributo economico, sia che si usufruisca dell’ac-coglienza, sia della consulenza medica, legale, psicologica, delle docceecc. Peraltro, la gratuità per la Casa non è un fatto meramente econo-mico, bensì un valore fondante, un criterio di ospitalità.

D’altro canto, tendenzialmente per mantenere un’autonomia discelta e azione, nella maggior parte dei casi nemmeno ai servizi inviantigli utenti viene chiesto di pagare una retta per i servizi offerti dalla Casa.

Questo ha indubbiamente risposto a un’esigenza effettiva, per cui iservizi, costretti a tagli di bilancio a causa delle scarse risorse ricono-sciute dagli enti pubblici, si sono dovuti ritirare dal fornire alcune pre-stazioni riconosciute, però, come utili e necessarie dai beneficiari e daglioperatori stessi.

Tuttavia, il fatto di non dover nemmeno mantenere la relazione fi-nanziaria con la struttura ha spesso favorito l’allontanamento del ser-vizio, o meglio, il servizio ha «dimenticato» la persona che, una voltaospitata in Casa della carità e uscita da uno stato emergenziale che la po-neva in maggiore visibilità, acquisisce uno stato di quiete per cui diventadi fatto invisibile, in quanto non più problematica o disturbante. Unaparte del lavoro degli operatori consiste nel sollecitare i servizi affinchétrovino alternative o collaborino con la Casa nella definizione di un per-corso di autonomia.

In ultimo, occorre evidenziare la continua riformulazione e ridefini-zione che gli operatori, dall’équipe educativa a chi lavora in Accademia

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della Carità, cercano di affrontare a partire dalle esigenze incontrate edall’analisi del mutare del tessuto sociale e culturale nella città. A partiredai percorsi formativi proposti, passando dal lavoro di supervisionedelle équipe, arrivando alla ricerca di un sistema di monitoraggio e valu-tazione dell’operare in Casa della carità, si nota come venga riconosciutala necessità di dare lo spazio per la riflessione.

È importante poi cercare di comunicare a chi sta intorno alla Casadella carità un’immagine un po’ meno sfocata del lavoro che si svolge al-l’interno e della complessità dei problemi con cui si è in contatto. Attual-mente mancano i codici per descrivere quello che si fa e consolidare ap-procci innovativi nella risposta a bisogni, approcci che spesso sono intan-gibili, ovvero non hanno una base materiale (e quindi comprendono tuttoquello che va oltre il posto per dormire), ma che sono lo spazio sperimen-tato di negozialità, di contrattazione fra «erogatore e cliente» al fine di av-vicinare i loro punti di vista, responsabilizzare e avviare all’autonomia.

La missione della Casa della carità è stare in mezzo alle emergenze eaccogliere gli ultimi. Ciò comporta la necessità di elasticità: la scelta di in-tervenire o meno in una data situazione emergenziale spesso va assunta inmodo tempestivo e i risvolti della decisione non sono noti a priori. Ilpunto di forza di questo modo di lavorare consiste proprio nella libertàdi azione e nella capacità di inventare il tipo di intervento migliore peruna data situazione. «Plasmare» il progetto sul tipo di necessità e «rimo-dellarlo» perché sia sempre il più funzionale possibile alla situazione oalla persona in oggetto.

Il rischio di questa informalità di lavoro consiste nell’aleatorietà e di-screzionalità dell’intervento e del tipo di azione messa in atto; proprioper questo c’è uno sforzo costante di riflessione teorica. In questo am-bito è impossibile preventivare quali decisioni prendere dinnanzi a de-terminate emergenze; proprio perché l’ambito è quello del disagioumano e sociale, la teoria può essere formulata solo a partire da un ap-proccio induttivo.

Inoltre, il lavoro concreto consente di conoscere, in ogni forma possi-bile, la realtà che ci si trova ad affrontare e le dinamiche connesse, af-finché le esperienze di ospitalità della Casa, o altri progetti esterni a essa,costituiscano un punto di partenza per approfondire le riflessioni sullosviluppo sociale, economico e culturale di Milano.

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BIBLIOGRAFIA

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ConclusioniAccogliere attivamente: una sfida per la coesione socialedi Maurizio Ambrosini

Pochi sanno che l’espressione «welfare state» non venne coniata da poli-tici o intellettuali progressisti, bensì dall’arcivescovo di Canterbury, Wil-liam Temple, nel clima morale della Seconda guerra mondiale, in cui leChiese svolsero un ruolo notevole nel promuovere nella società britan-nica una mobilitazione sociale e politica in soccorso delle vittime dellapovertà (Rosanvallon 1997).

Le riforme propugnate da lord Beveridge, che diedero forma a quelleistanze, videro d’altronde la luce nello stesso periodo, quando lo sforzobellico diede impulso a un disegno di rifondazione della società, innome di una ritrovata solidarietà fra classi sociali diverse. Il pericoloestremo della catastrofe produsse un’innovazione sociale senza prece-denti. D’altronde, già nell’introduzione dei primi schemi di assicura-zione obbligatoria nella Germania di Bismarck, la volontà di prevenire ilpericolo delle rivolte operaie ebbe un peso non indifferente. Un cautoriformismo apparve più saggio del mero affidamento ai cannoni dell’e-sercito per mantenere l’ordine sociale. Con Beveridge, la politica andòoltre: nell’immane tragedia della guerra, ebbe la forza di immaginare unnuovo modello di società, fondato su un nuovo rapporto fra lo Stato e icittadini.

Nella crisi economica e sociale di oggi, avremmo bisogno di altret-tanto coraggio, lucidità e capacità innovativa. Raccogliendo in questocapitolo conclusivo i principali risultati della nostra ricerca, vorremmomostrare che già esistono esempi di strategie possibili, che affondano le

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radici nella mobilitazione della società civile e incontrano, con vari esiti,le responsabilità istituzionali.

Da queste esperienze di solidarietà attiva scaturisce altresì un ri-chiamo nei confronti di istituzioni politiche e opinioni pubbliche peruna diversa attenzione verso chi patisce maggiormente le conseguenzedella frammentazione sociale. Innovazione sul campo e sensibilizzazionesociale sono i due poli dell’azione della solidarietà organizzata nella bat-taglia contro la grave emarginazione: una battaglia mai definitivamentevinta, ma neppure perduta senza possibilità di scampo.

1. Beneficiari e contesti locali

Una prima riflessione concerne i beneficiari delle iniziative di reinseri-mento sociale studiate in questa ricerca. Possiamo parlare in termini ge-nerali di povertà estrema o di esclusione sociale, per riprendere il lessicoeuropeo a cui si è fatto riferimento nell’Introduzione. La mancanza diuna dimora degna di questo nome è un tratto pressoché costante, quasilo stigma che sanziona l’espulsione dalla società «normale». Quasisempre, questo è l’ultimo gradino di una carriera discendente, che passaattraverso la perdita del lavoro e della protezione familiare. Vi si ritro-vano persone molto diverse, a volte cresciute in contesti deprivati, altrevolte provenienti da situazioni di benessere, a volte sempre vissute aimargini della società, altre volte incappate in eventi che ne hanno com-promesso e fatto precipitare la condizione sociale. Spesso si tratta disoggetti che soffrono di un’accumulazione di fattori invalidanti, conun’incidenza considerevole di dipendenze e disagio psichico.

Sappiamo che stanno crescendo le resistenze sociali a farsi caricodella sorte di chi versa in situazioni estreme di disagio. Le popolazioniinsediate tendono a scavare un solco tra se stesse e gli esclusi, a difender-sene, a cercare di espellerli dai quartieri in cui abitano, come mostra ilcaso dei rom accolti nell’esperienza milanese della Casa della carità dacui abbiamo preso le mosse. Li considerano una minaccia per la sicu-rezza e un indebito carico sociale per un erario già in difficoltà. È quindidi vitale importanza che dalla società civile sorgano iniziative che simuovono nella direzione opposta, allargando il perimetro della solleci-

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Conclusioni 311

tudine verso gli altri: non solo i prossimi, o i simili, ma i più lontani e dis-simili, in quanto emarginati.

Le organizzazioni di solidarietà si collocano pertanto in una terra dimezzo, tra inclusi ed esclusi. Tentano di ricucire il tessuto di una societàlacerata, approntando misure di accoglienza e percorsi di recupero perchi ha perso l’orientamento. Si fanno portatrici di un’idea di giustizia edi diritti di cittadinanza più alta di quella oggi prevalente nelle opinionipubbliche (Ambrosini 2005).

Il contrasto giunge all’acme quando gli accolti sono rifugiati o immi-grati stranieri poveri, a volte privi di regolari autorizzazioni al soggiorno.Va ricordato in proposito che il fondamento implicito del progetto diwelfare state di Beveridge, come pure della teoria dei diritti di Marshall,era l’appartenenza alla comunità nazionale. Questa forniva la base mo-rale e giuridica per l’attribuzione di un pacchetto di benefici, volti asconfiggere la povertà nei suoi diversi risvolti, offrendo ai cittadini l’op-portunità di condurre una vita dignitosa. Dai diritti politici scaturivano idiritti sociali.

Nello stesso tempo, l’idea stessa di appartenenza alla comunità nazio-nale si rafforzava, rivelandosi foriera non solo di obblighi (obbedienzaall’autorità costituita, pagamento delle tasse, servizio militare, fino al sa-crificio della vita in guerra), ma anche di tutele e di vantaggi che accre-scevano le opportunità di condurre una vita dignitosa.

Quando entrano in scena gli immigrati, questo legame entra in crisi.Occorre decidere se e quanti benefici accordare a chi non appartienealla comunità nazionale, o comunque non ne è membro per diritto dinascita. Se poi perde anche l’elemento di legittimazione derivante dal la-voro, le sue prerogative si affievoliscono fino ad annullarsi.

Sono però pur sempre persone, titolari di diritti umani inalienabili, eper di più insediate sul territorio, spesso da molti anni, o addiritturanate e cresciute qui, nel caso delle seconde generazioni. L’idea di espel-lerle, rimandarle al loro paese, ammesso che l’abbiano, è tanto popolarequanto irrealizzabile, giacché gli immigrati raramente sono disposti atornare a casa da sconfitti. Nessun paese democratico ci è mai riuscito,e non ha mai nemmeno provato seriamente a farlo. I casi di relativosuccesso in materia si riferiscono tutti a regimi autoritari del Terzomondo.

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In questo vicolo cieco delle democrazie, strette fra chiusure politiche,pressioni a escludere da parte delle opinioni pubbliche, ossequio ai di-ritti umani solennemente riconosciuti nelle carte costituzionali e nei trat-tati internazionali, impossibilità pratica di attuare rastrellamenti edespulsioni di massa, trova spazio l’azione dei soggetti organizzati dell’ac-coglienza. Il loro intervento produce in alcuni casi l’accesso a diritti fon-damentali, come la salute o il nutrimento o un tetto, che le istituzionipubbliche riconoscono formalmente ma non riescono o non voglionoassicurare direttamente. In altri casi, come nell’esperienza di Barcellonaanalizzata nella ricerca, si muovono in quel terreno incerto e fluido incui l’irregolarità si mescola con la regolarità, o si transita dall’una al-l’altra, provvedendo servizi minimali e accompagnando le persone versole possibili porte d’accesso alle società riceventi. Anche se al lettore ita-liano potrà apparire strano, in Catalogna le politiche pubbliche sosten-gono iniziative solidaristiche rivolte ai «clandestini» arrivati via mare,dando loro un ricovero e seguendoli nell’apprendimento linguistico,nella conoscenza del territorio, nella presa di contatti con le comunità diconnazionali, nell’ottenimento dei documenti e dei servizi a cui possonoavere accesso, come quelli sanitari.

In altri contesti, le organizzazioni della società civile promuovono in-terazione e contatto tra persone e gruppi di origine diversa, cercando dimediare i conflitti e di valorizzare gli elementi positivi della convivenzain città, lo si voglia o no, più eterogenee del passato sotto il profilo et-nico, linguistico e religioso, come nel caso di Berlino.

Nella maggioranza delle esperienze analizzate, l’accoglienza non haconfini e non chiede passaporti. Le derive emarginanti possono coinvol-gere cittadini autoctoni, a volte con un passato di normalità, di lavoro epersino di benessere, immigrati con una storia di residenza più o menolunga, minoranze interne, sempre più spesso donne, persone anziane,minori non accompagnati. Le iniziative di recupero devono tener contodell’eterogeneità crescente dei richiedenti aiuto, e nello stesso tempo siorientano preferibilmente verso approcci universalistici, non segmentatiper origine o appartenenza. Potremmo dire che vista dal basso, l’area dellavulnerabilità sociale appare sempre più multietnica, intergenerazionale epersino democratica. L’idea di una contrapposizione tra «noi» e «loro»,tra i «nostri» poveri e quelli che dovrebbero appartenere a qualcun altro,

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è contraddetta dal coinvolgimento in esperienze simili, altrettanto dolo-rose e deprimenti.

Una seconda riflessione riguarda i luoghi in cui nascono e operano leesperienze analizzate. Non tutte hanno un preciso radicamento territo-riale e si insediano in un determinato ambito urbano per una moltepli-cità di fattori. Parecchie non hanno riferimenti spaziali circoscritti, e siinteressano di persone in difficoltà secondo logiche di attenzione a de-terminate situazioni e bisogni scoperti.

Da quelle più incardinate in quartieri considerati a rischio, viene unprimo messaggio: le periferie sociali, oltre a non essere necessariamentesituate ai margini delle metropoli, sono luoghi al plurale, in cui si con-centrano varie forme di disagio sociale, ma si esprimono anche risorse,legami e volontà di cambiamento. Ne è un esempio il quartiere diNeukölln a Berlino, ritenuto una delle aree urbane più degradate dell’in-tera Germania. Eppure, in quel quartiere prende forma una rigogliosavita associativa, con oltre cento organizzazioni non governative (Ong)attive sul territorio e collegate in rete con le istituzioni pubbliche locali,una diffusa partecipazione dei cittadini a svariate esperienze di volonta-riato (il 40% dei residenti ne è coinvolto), un intenso scambio culturaleinteretnico, che si esprime in iniziative come la «Campagna di Neuköllnper il Rispetto e la Democrazia», in cui i giovani vengono incoraggiati aprendere parte ad attività artistiche a sostegno della democrazia.

In ambito italiano, si può ricordare il caso del quartiere torinese diBarriera di Milano, in cui il consorzio Kairòs, oltre a promuovere attivitàdi inserimento occupazionale, attraverso il progetto «Intrecci di cul-tura» ha realizzato, presso i bagni pubblici, un luogo di incontro e dianimazione interculturale e intergenerazionale.

Non mancano neppure i casi di relazioni problematiche con il terri-torio, soprattutto quando si tratta di servizi di accoglienza per personeemarginate che vengono percepiti come disturbanti per la vivibilità delquartiere. È il caso per esempio di Londra, in cui gli operatori di StMungo’s dedicano un impegno specifico alla mediazione con i residenti,cercando di risolvere i conflitti e ridurre l’impatto degli elementi di ten-sione. Un ostello situato in un quartiere benestante è stato chiuso, ri-strutturato e riprogettato nella sua missione per superare le difficoltà diaccettazione. Più in generale, la mediazione con i residenti, la cura delle

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relazioni con il territorio, la promozione di contesti di maggiore sicu-rezza e vivibilità per tutti è un fronte su cui diverse organizzazioni sonodirettamente impegnate. Un esempio interessante è fornito dalla Casadella carità, in cui l’accoglienza delle persone in difficoltà si intrecciacon l’animazione degli anziani del quartiere, le attività culturali, la di-sponibilità di una biblioteca aperta al pubblico esterno oltre che agliospiti interni.

2. I rapporti con le politiche pubbliche

Un terzo aspetto di rilievo si riferisce ai rapporti tra le iniziative della so-cietà civile e i poteri pubblici. Il tema è indubbiamente controverso enon è questa la sede per approfondire il dibattito. Si possono soltanto ri-chiamare, per cenni schematici, alcune posizioni in campo:

• Una prima visione considera la società civile come luogo per antono-masia della produzione di dinamiche virtuose, di relazioni buone, dienergie creative anche nel rispondere alle emergenze sociali. Il si-stema pubblico non dovrebbe far altro che riconoscere, assecondaree favorire questa capacità di iniziativa del privato-sociale, rinun-ciando a invadere la società con le proprie logiche d’azione.

• Una visione per molti aspetti antitetica vede invece il sistema pub-blico come il luogo per eccellenza di produzione del bene comune, econsidera con diffidenza l’iniziativa privata, per quanto sociale, vistacome portatrice di logiche particolaristiche e di interessi inconfessati.Al più, considera le iniziative espresse dalla società civile come azionidi supplenza rispetto a un’azione pubblica inadeguata.

• Una terza posizione potrebbe essere definita pragmatica, ed è quelladi fatto prevalsa nei rapporti tra poteri pubblici e terzo settore nell’I-talia degli ultimi dieci anni: le iniziative provenienti dalla società ci-vile sono considerate una risorsa per abbattere i costi della forniturapubblica di una gamma di servizi sociali, o in altri casi come un tam-pone delle smagliature della copertura dei bisogni della popolazione,anche grazie alla loro capacità di mobilitare donazioni e prestazionivolontarie.

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Nella nostra ricerca sono emerse diverse configurazioni dei rapporti traauto-organizzazione dei cittadini e istituzioni pubbliche. Un caso di presadi distanza è rintracciabile a Varsavia, dove l’amministrazione locale nonsostiene le attività di accoglienza dei senza dimora e delle madri sole del-l’associazione Monar, perseguendo il tacito obiettivo di allontanare dallacittà le persone sgradite e suscettibili di rappresentare un carico sociale.

Un caso di sostegno declinante è individuabile a Roma, dove l’asso-ciazione Comunità di Capodarco, con le diverse cooperative associate,lamenta una restrizione degli aiuti dell’amministrazione pubblica locale.Da febbraio, alcuni servizi della Comunità sono stati chiusi e altri sonostati ridotti a causa del taglio da parte della Regione Lazio dei contributiper le spese sanitarie. Anche la progettualità si restringe, ripiegando supiccoli progetti a breve termine, senza continuità. Inoltre, le regole delsistema pubblico tendono a imporre parametri sempre più rigidi in rela-zione ai beneficiari, al personale e agli spazi utilizzati.

Una configurazione che prescinde, nella sostanza, dai rapporti con ilsistema pubblico, è rilevabile nel caso della Missione Speranza e Caritàdi Palermo: un grandioso sistema di accoglienza delle persone senza di-mora, su basi informali e spontanee, imperniato sulla figura carismaticadi un religioso, che vive grazie alla mobilitazione di centinaia di volon-tari, a donazioni private, alla partecipazione delle persone accolte, in as-senza di aiuti pubblici significativi. Si può suggerire che forse voluta-mente le autorità pubbliche preferiscono che agli emarginati provvedafratel Biagio, raccogliendo autonomamente risorse e contenendo i con-flitti che spesso accompagnano le iniziative volte ad accoglierli.

Si tratta di tre situazioni a loro modo emblematiche delle possibilitensioni tra accoglienza sociale e politiche pubbliche: allontanamentodei soggetti etichettati come indesiderabili, anche attraverso il mancatosostegno all’accoglienza; razionalizzazione e contenimento della spesasociale, che colpisce di fatto le iniziative del terzo settore; delega impli-cita a una carità di impronta premoderna, che consente alle istituzionilocali di non farsi carico delle persone soggette a grave emarginazione.

La maggior parte dei casi analizzati, tuttavia, mostra che l’assunzionedi iniziativa da parte di soggetti sociali si giova di sinergie con le istitu-zioni pubbliche locali, non solo in termini di finanziamenti, ma anchenella costruzione dei percorsi di accompagnamento e di interventi inte-

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grati a favore delle persone accolte. Come regola generale, il privato so-ciale riesce a operare bene dove anche i servizi pubblici operano bene, eviceversa: una dotazione di servizi e iniziative pubbliche efficaci favo-risce l’attività dei soggetti sociali. Il caso che meglio illustra queste inter-relazioni è quello di St Mungo’s a Londra. Questa grande Ong specializ-zata nel reinserimento delle persone senza dimora, non solo opera preci-puamente con finanziamenti pubblici, ma sviluppa i suoi articolati pro-getti di recupero e attivazione degli esclusi nella formazione, nel lavoroper il mercato, in lavori socialmente utili, in attività di volontariato, oltreche nel perseguimento di una progressiva autonomia abitativa, medianteuna fitta rete di rapporti con le autorità locali, i servizi sanitari, i centriper l’impiego e altri ancora. Si inserisce quindi efficacemente nei pro-grammi di welfare to work del governo britannico, che accordano ampiospazio alle istituzioni non profit e le coinvolgono nella governance degliinterventi. Nello stesso tempo, recupero e reinserimento si sviluppanoattraverso un’ampia gamma di iniziative, che dedicano attenzione alleaspirazioni e alle attitudini dei beneficiari.

In Italia, il caso di Bologna appare quello in cui è più visibile il rac-cordo tra iniziativa dal basso e politiche pubbliche. Il Comune svolge unruolo di coordinamento degli attori del privato-sociale, coinvolti anche alivello di programmazione e progettazione dei servizi, mediante il tavolodel welfare a livello municipale e tavoli tematici a livello di quartiere.Dal 1999 opera una Consulta sull’esclusione sociale, formata su impulsodi organizzazioni del terzo settore e riconosciuta come organismo con-sultivo. L’azione della cooperativa La Strada per l’inserimento lavorativodelle persone senza dimora si situa pertanto in un contesto territorialedotato di svariate iniziative e servizi, tanto pubblici quanto promossidalla società civile.

Non si può dire la stessa cosa a Napoli, ma anche in una realtà diffi-cile come quella partenopea esiste una rete minimale di servizi per la po-vertà estrema: un Centro di prima accoglienza, un’unità mobile dipronto intervento sociale che opera su tutto il territorio metropolitanocon l’impiego di un camper attrezzato, infine Casa Gaia (oggetto del no-stro studio di caso), che ha funzioni di seconda accoglienza, offrendoalle persone senza dimora, che hanno già compiuto un percorso di recu-pero, la possibilità di sperimentare nuove forme di residenzialità. Un

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esempio di buona prassi istituzionale viene proprio da Napoli: il serviziodi «Anagrafe convenzionale» per i cittadini senza dimora. Chi non è ingrado di dichiarare una residenza può chiedere l’iscrizione anagraficapresso la via Alfredo Renzi, via fittizia intitolata a una persona senza di-mora mancata qualche anno fa, accedendo così ai diritti derivanti dellaresidenza, ossia alla possibilità di essere presi in carico dai servizi sociali(tessera sanitaria, sussidi, Cps-Centri psicosociali, Sert-Servizi territorialiper le dipendenze ecc.). Ciò consente di evitare il blocco anagrafico, equindi l’esclusione di fatto dalla fruizione dei servizi per i quali è neces-sario il possesso di una residenza.

In una fase in cui la disponibilità di finanziamenti pubblici non sembradestinata a crescere, aumenta l’importanza della ricerca di fonti alternativedi finanziamento. Se il caso di Roma illustra le difficoltà a diversificare icanali di reperimento delle risorse, reiterando anche a livello di rappresen-tazione culturale la convinzione che siano i poteri pubblici locali gli uniciinterlocutori a cui fare appello, il caso di Parigi illustra un’esperienza incui è una grande impresa, sia pure a capitale pubblico (le ferrovie nazio-nali), a farsi carico del finanziamento dell’accoglienza dei senza dimora, inuna prospettiva che salda responsabilità sociale dell’impresa, ritorni di im-magine e miglioramento del decoro delle stazioni verso cui ineluttabil-mente tende a convergere una componente molto visibile della popola-zione priva di riparo. Ancora, le ferrovie francesi finanziano dei «cantierid’inserimento», operanti nella manutenzione degli spazi verdi e nella ri-strutturazione degli edifici, dando lavoro a oltre 200 persone in difficoltà.Sostengono poi all’interno delle scuole un grande progetto di sensibilizza-zione alle problematiche sociali, che ha raggiunto 160mila giovani nel2008. È un esempio significativo in cui interessi aziendali, sostegno alla so-lidarietà organizzata, promozione culturale della consapevolezza dellequestioni sociali si incontrano e si rafforzano vicendevolmente.

3. Accoglienza, accompagnamento, attivazione: la strategia delle tre A

Entrando maggiormente nel merito delle azioni volte al recupero e alreinserimento delle persone in difficoltà, la ricerca offre un vasto reper-torio di approcci e di pratiche all’insegna dell’attivazione e dell’emanci-

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pazione dei beneficiari. Se un filo rosso delle attività considerate può es-sere individuato nella personalizzazione del rapporto tra chi dà e chi ri-ceve sostegno, nella centralità della relazione e nello sforzo di aiutare lepersone a conseguire le forme di autonomia possibili, le esperienze ana-lizzate si differenziano, anche profondamente, nelle strategie adottate.Incidono certo variabili di contesto, risorse disponibili, cornice delle po-litiche pubbliche e dei servizi. Promuovere l’inserimento occupazionaledelle persone in difficoltà non è la stessa cosa a Londra rispetto a Pa-lermo o a Napoli.

Il concetto di attivazione può essere però declinato in modi diversi.L’esperienza più prossima a quella che potrebbe essere definita l’orto-dossia delle politiche sociali di nuova generazione è con ogni evidenzaquella di Londra. I due progetti analizzati si inseriscono a pieno titolonell’approccio del welfare to work: fornire aiuto alle persone emargi-nate, finalizzandolo al loro reinserimento nel sistema occupazionale. Mail principio dell’attivazione dei beneficiari si declina in modo più com-prensivo e raffinato di quanto sostengono i critici del modello. Si distin-guono anzitutto livelli diversi di accoglienza, con gradi differenziati diselettività, a seconda delle condizioni delle persone: nella nostra inda-gine, un ostello a bassa soglia e un servizio di accoglienza più avanzato,per ospiti che hanno già compiuto un percorso e si avviano all’auto-nomia. L’attivazione perseguita non coincide poi soltanto con la promo-zione dell’occupabilità e non si limita a fornire servizi formativi e diorientamento al lavoro. Nei percorsi personalizzati trova spazio il raffor-zamento delle abilità fondamentali per vivere autonomamente (dal cuci-nare al gestire un’abitazione, dalla domanda di sussidi al pagamentodelle bollette). È prevista poi la possibilità di sperimentare nuove atti-vità, per cercare forme di lavoro o di impegno sociale congeniali alleaspirazioni dei beneficiari, favorendo così tra l’altro il ritrovamento dellafiducia in se stessi e la ricostruzione di un’identità positiva. Attivitàcome la musica e lo studio di registrazione, la disponibilità di un labora-torio informatico a libero accesso, l’apertura dell’ostello di Endell Streetagli abitanti del quartiere, sono esempi di una declinazione non riduttivadel concetto di attivazione. Del resto, alle persone accolte e accompa-gnate verso l’autonomia non viene offerto soltanto lo sbocco di un’occu-pazione lavorativa, ma un ventaglio più ricco di opportunità di inseri-

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mento sociale, che comprende, come abbiamo già accennato, percorsiformativi, lavori socialmente utili, forme di volontariato. Ciò non signi-fica che gli operatori non avvertano pressioni efficientiste, soprattuttodal lato dei soggetti finanziatori, con la tendenza a valutare l’attività intermini di numero di inserimenti lavorativi realizzati e di tempi per ilconseguimento dell’autonomia. L’attenzione alle persone, con i loro per-corsi, i loro tempi di apprendimento e maturazione, le loro difficoltà e iloro arretramenti, è elemento di mediazione rispetto all’enfasi su suc-cessi misurabili.

Varsavia può essere considerata un caso intermedio su un’ipoteticascala delle politiche di attivazione. In forme più spontaneistiche, non in-quadrabili nell’ambito di politiche pubbliche coerenti, anche in questaesperienza l’accoglienza è propedeutica a percorsi di responsabilizza-zione e attivazione degli ospiti, compatibilmente con le loro condizioni erisorse. Qui le case di accoglienza dell’associazione Monar richiedonoun impegno preliminare ad abbandonare il consumo di alcol e sostanzestupefacenti. Si concepiscono come comunità di auto-aiuto in grado diautomantenersi: gli ospiti pagano le bollette e provvedono alle spese at-traverso il lavoro e le campagne di autofinanziamento. Chi non haun’occupazione provvede a varie mansioni all’interno della casa. Ognisettimana gli abitanti della casa si riuniscono per discutere e decidere in-sieme le questioni relative alla convivenza e al mantenimento dell’abita-zione che condividono. Sono sempre gli ospiti a scegliere l’amministra-tore, retribuito dalla comunità, e il responsabile della sicurezza, con l’in-carico di gestire le chiavi. A seconda delle diverse condizioni fisiche epsichiche, le persone sono incoraggiate, ma non obbligate a lavorare. Al-l’accoglienza si abbinano inoltre percorsi di riabilitazione psicofisica e,laddove necessarie, cure sanitarie presso gli ambulatori dell’associa-zione, oltre a servizi di consulenza legale e segretariato sociale. Il finenon è peraltro quello di offrire una residenza stabile, bensì di accompa-gnare le persone verso una vita autonoma, anche mediante l’aiuto nellaricerca di un’abitazione.

Un’esperienza molto originale, che conduce a un livello alquanto ele-vato l’idea del protagonismo degli esclusi, è quella della cooperativa LaStrada di Piazza Grande di Bologna. La cooperativa stessa è stata fon-data da persone che hanno conosciuto la vita di senza dimora, e la sua

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impostazione punta sulle capacità delle persone che provengono dallastrada: non solo come ospiti temporaneamente accolti, responsabilizzatiin compiti interni, avviati progressivamente all’autonomia, bensì formatiprofessionalmente per assumere il ruolo di animatori sociali, al serviziodi altri ospiti, passando dal ruolo di beneficiari a quello di attivatori diprocessi di promozione. Di qui l’originale figura degli «operatori pari»,ossia biograficamente prossimi ai senza dimora accolti, che lavorano af-fiancati agli «operatori dispari», ossia provenienti da percorsi formativiconvenzionali.

Un altro caso di attivazione attraverso la professionalizzazione e l’im-missione in un’attività sociale rivolta ad altri soggetti deboli è rintraccia-bile a Berlino: un numeroso gruppo di donne immigrate, con serie diffi-coltà di integrazione occupazionale, è stato formato per diventare pro-motore dell’inserimento scolastico precoce e di un’educazione dei mi-nori più adeguata al contesto tedesco presso altre famiglie immigrate,soprattutto turche, specialmente quelle di arrivo più recente e social-mente più marginali.

L’esperienza più lontana da un disegno di politica sociale di carattereinnovativo è invece riferibile a Palermo: si può parlare in proposito diuna forma di accoglienza premoderna, senza strutture organizzate esenza progetti. Ma anche qui si danno forme originali di coinvolgi-mento, di responsabilizzazione, di promozione del protagonismo dellepersone accolte. La Missione di Speranza e Carità attualmente accogliecirca 900 persone (senza dimora, ex detenuti, prostitute, profughi, im-migrati privi di risorse, tutti chiamati «fratelli» e «sorelle») in tre comu-nità, grazie al lavoro di 6 missionari, alla collaborazione delle personeaccolte e al contributo di oltre 400 volontari: medici, infermieri, avvo-cati, ingegneri, insegnanti, casalinghe, pensionati, studenti... Le sedidelle tre comunità sono strutture pubbliche abbandonate, occupate pa-cificamente o ottenute in comodato a seguito di lunghe e clamoroseazioni di protesta, poi ristrutturate con il lavoro di ospiti e volontari.Qui l’attivazione prende la forma della partecipazione diretta, secondole proprie capacità, alla vita delle comunità. Oltre all’autogestione dellenecessità quotidiane, grazie al volontariato di artigiani e liberi professio-nisti, sono stati allestiti diversi «laboratori»: la falegnameria, l’officinadel fabbro e del saldatore, l’officina meccanica, la lavorazione artigianale

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del cuoio, della ceramica e della scultura, l’angolo per il riciclaggio dellacarta e del cartone, la sartoria e la lavanderia professionale, il forno dovesi sfornano i biscotti e il pane per le tre comunità (circa 250 kg di pane algiorno). Lo scopo è offrire agli ospiti la possibilità di apprendere un me-stiere, oltre a provvedere alle necessità interne. Sebbene non siano pre-visti percorsi di inserimento occupazionale, anche in questa esperienzala professionalizzazione fa parte del processo di reintegrazione socialedelle persone accolte.

Il caso è interessante, al di là delle sue peculiarità, perché proponeuna risposta a una domanda latente: che significato può assumere lastrategia dell’attivazione in contesti economici depressi e mercati del la-voro stagnanti, nei quali è arduo trovare lavoro anche per persone chenon hanno alle spalle storie difficili e stigmatizzanti. Il caso di Palermoci dice che è possibile responsabilizzare, coinvolgere e attivare gliesclusi, anche quando sono limitate le possibilità di inserirli nel mercatodel lavoro.

Pure nell’esperienza di Napoli il reinserimento sociale degli emarginatigravi si scontra con i vincoli del contesto. Qui la strada imboccata dall’ini-ziativa considerata consiste in una marcata differenziazione della presa incarico: una prima accoglienza (pubblica) a soglia molto bassa, condizio-nata essenzialmente dalla disponibilità di posti letto, e una seconda acco-glienza (assicurata dalla Fondazione Massimo Leone) molto selettiva e ri-servata a un numero limitato di ospiti. Questa accoglienza si inserisce inun complesso di servizi che la Fondazione offre, spaziando dall’assistenzamedica alla consulenza legale, dall’ascolto psicologico alle attività forma-tive. Anche in questo caso il concetto di attivazione si declina in terminiampi, cominciando dalla gestione domestica, dalla compartecipazione allespese, dal riapprendimento della gestione del proprio denaro. Fin dall’in-gresso è comunque sottolineato l’obiettivo dell’inserimento lavorativo,perseguito con il sostegno degli operatori, e lo sbocco finale della pienaautonomia. La disponibilità di una rete di volontari è un peculiare puntodi forza, in quanto consente di stabilire un legame tra il contesto dell’acco-glienza e la società esterna, con ricadute positive anche sotto il profilo delreperimento di opportunità occupazionali per gli ospiti.

Anche in casi in cui l’inserimento lavorativo non rientra in un pro-getto globale di accoglienza, si possono cogliere spunti di rilievo. A To-

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rino, l’esperienza di reinserimento lavorativo dei detenuti realizzata daPausa Café ha come elemento peculiare l’appoggio di una rete di espo-nenti del mondo imprenditoriale e la collaborazione di un maestro dellatorrefazione. Attraverso il consorzio Slow Food, ha inoltre il merito dipromuovere rapporti commerciali «equi e solidali» con i produttori dicaffè dell’America Latina, realizzando un rapporto virtuoso tra promo-zione occupazionale di soggetti deboli locali e sviluppo del Sud delmondo. A Roma, l’associazione Comunità di Capodarco trae dalla suaesperienza di inserimento lavorativo dei disabili un know how che di-venta una risorsa al servizio di altre categorie di soggetti svantaggiati nelmercato del lavoro, in modo particolare attraverso il Sil, Servizio di inse-rimento lavorativo. Anche in questo caso, la collaborazione con gli attorieconomici si rivela decisiva, insieme all’attenzione alle persone da inse-rire, alle loro esigenze e aspirazioni.

Tirando le somme, possiamo individuare una polarizzazione tra ilprincipio dell’accoglienza indiscriminata, che trova nel caso di Palermola sua manifestazione emblematica, e il principio dell’attivazione dei be-neficiari, che ha nell’ostello di Endell Street a Londra la sua espressionepiù avanzata. Se nel primo polo predomina il principio del soccorsoumanitario, che sollecita ad assicurare un tetto, cibo, vestiario, servizi diprima necessità a chiunque bussi alla porta, nel secondo polo il prin-cipio è quello di un progetto di reinserimento condiviso, in base al qualel’ammissione è selettiva e finalizzata a un percorso di autonomia. Traquesti due principi sembra sussistere una correlazione inversa: quantopiù l’accoglienza è indiscriminata, tanto più diventa arduo immaginareprogetti personalizzati di recupero e inserimento sociale; viceversa,quanto più si punta su percorsi individualizzati verso l’autonomia, tantopiù appare necessario selezionare i beneficiari in grado di trarre profittodai servizi offerti.

Le altre iniziative si collocano su punti intermedi del continuum tra ilpolo dell’accoglienza caritatevole e quello dell’attivazione mirata. Entraqui in gioco in vario modo il terzo concetto chiave, quello dell’accompa-gnamento, ossia dell’attenzione alle persone e della costruzione di rela-zioni significative e orientate a promuovere fiducia in se stessi e negli altri,autostima, capacità di stare entro un sistema di regole, volontà di riscatto.La logica dell’accompagnamento insieme paziente ed esigente, della rela-

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zione terapeutica, della personalizzazione dei percorsi e dei risultati attesi,vede nella Casa della carità una declinazione particolarmente significativa.

4. Una responsabilità condivisa

Proviamo ora a trarre dal percorso di ricerca qualche riflessione di sintesi.In primo luogo, vale la pena di cogliere il significato, anche culturale,

della mobilitazione di vari soggetti organizzati delle società civili, traloro anche molto diversi per storia e ispirazione ideale, per il recupero eil reinserimento delle persone coinvolte in derive emarginanti. In unastagione in cui la recessione sembra indurire le menti e i cuori, sepa-rando individui e gruppi sociali, chiudendo le porte all’umanità che ap-pare in esubero, è motivo di speranza notare che sono al lavoro energiecreative e forze sociali che operano per costruire un tessuto sociale piùcoeso e inclusivo.

L’idea «moderna» di giustizia e cittadinanza sociale, imperniata sulruolo riformista dello Stato e dei suoi apparati, trova in questa mobilita-zione un vettore di innovazione. L’iniziativa dal basso per il riscatto degliesclusi non significa un ritorno indietro dell’orologio della storia, versoassetti in cui la carità privata tamponava precariamente le conseguenzedelle sperequazioni strutturali. Il nuovo welfare che si viene disegnandonon può fare a meno delle risorse della società civile e della partecipa-zione volontaria dei cittadini. Non solo perché allo Stato mancano imezzi, ma perché la gamma delle domande, l’accavallamento dei nodiproblematici, la complessità dei fattori vulneranti, richiedono interventimirati, in cui l’integrazione delle risposte necessita di un concorso diffusodi attori e di risorse locali. Soprattutto quando robuste componenti del-l’opinione pubblica chiedono alla politica misure di esclusione nei con-fronti dei soggetti ai margini (vagabondi, accattoni, rom, immigrati...),trovando sponde interessate a sfruttare elettoralmente i sentimenti di in-sicurezza e ansia per il futuro, diventa cruciale la funzione di mediazionesociale e di innovazione culturale degli attori della società civile. La loroazione promuove l’ampliamento delle concezioni della «comunità» datutelare, allentando la contrapposizione tra insediati ed esclusi. Special-mente nei quartieri più difficili, quando i soggetti della solidarietà orga-

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nizzata riescono a proporre un lavoro di rete con altri partner locali e aperseguire la partecipazione volontaria dei cittadini, il riscatto degliesclusi diventa catalizzatore della ricomposizione del tessuto sociale.

La solidarietà che scaturisce dal basso non si contrappone quindi alleconcezioni politiche della giustizia, semmai le sprona ad allargare ipropri confini e a farsi carico con maggiore impegno dell’inclusione deipiù deboli. Nello stesso tempo, le coadiuva nel lavoro di reintegrazionee spesso la anticipa, battendo strade nuove e sollecitando il concorso deicittadini. Di fatto, i risultati migliori si riscontrano, va ribadito, quandopolitiche pubbliche e iniziative della società civile camminano insieme esi integrano reciprocamente.

Da questo punto di vista, la ricerca ha posto in rilievo come le strategiedi recupero basate sull’idea di attivazione dei beneficiari già trovino uncospicuo repertorio di sperimentazioni nelle esperienze maturate dalle or-ganizzazioni solidaristiche proprio sul terreno più arduo, quello del rein-serimento sociale e occupazionale degli emarginati gravi. Troviamo nellavarietà delle esperienze considerate una sorta di filo rosso che configurauna strategia che abbiamo definito «delle tre A», in quanto basata sui trecapisaldi dell’accoglienza ben strutturata, dell’accompagnamento indivi-dualizzato, dell’attivazione in una pluralità di forme, sensibile alle condi-zioni del contesto e alle attitudini dei beneficiari. Le obiezioni circa le pos-sibili forzature dell’enfasi sull’attivazione, vista unicamente come inseri-mento lavorativo e ricondotta alla responsabilità personale dei soggettiaiutati, sembrano superate dalla ricchezza delle soluzioni messe in campo:l’attivazione perseguita è un principio flessibile e declinabile in una plura-lità di forme, è concepita in primo luogo come responsabilità organizza-tiva, dà luogo alla ricerca di svariate modalità di partecipazione attiva, finoal mutuo aiuto, al coinvolgimento nei processi decisionali, a forme di au-togestione e di professionalizzazione interna al servizio di altri.

Resta come un’ombra, che riconduce il discorso a scenari più com-plessivi. Le iniziative di reintegrazione promosse da attori sociali contri-buiscono alla mediazione dei conflitti e all’ampliamento del senso di re-sponsabilità per la coesione sociale. Se però mancano aperture e dispo-nibilità in altri ambiti delle società locali, l’azione di reintegrazione ri-schia di incepparsi e di non trovare sbocchi, ripiegando su se stessa. Par-ticolarmente emblematico al riguardo è il ruolo degli attori e delle

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Conclusioni 325

istituzioni economiche. Se è vero che l’attivazione non coincide necessa-riamente con il lavoro per il mercato, è però anche vero che l’autonomiaeconomica e il riconoscimento sociale passano in gran parte, nella nostrasocietà, attraverso lo svolgimento di un’attività remunerata e social-mente apprezzata. L’interessamento dei responsabili delle imprese, nonsolo quelle a vocazione sociale, riveste un’importanza cruciale per dareuno sbocco a tanti percorsi di recupero e avvio all’autonomia, costruiticon grande impegno da operatori e beneficiari.

Si avverte altresì, dopo l’infausta stagione dei lavori socialmente utili,ma fittizi, come surrogato all’occupazione indisponibile, l’esigenza so-ciale, analogamente a esperienze estere, di sussidiare attività lavorative o«cantieri d’inserimento» (caso francese) destinati alle fasce più disagiatee suscettibili di produrre risultati significativi per la collettività. Anchesu questo versante occorre più coraggio e fantasia istituzionale.

In altri termini, la missione del riscatto degli esclusi non può esserelasciata ad alcuni benemeriti protagonisti della solidarietà, ma necessitadi essere condivisa ben più diffusamente per arrivare a produrre i fruttisperati. E per rifluire nei rapporti sociali più ampi, irrobustendo quellospirito civico di responsabilità condivisa e di disponibilità a cooperareper obiettivi che vanno al di là del tornaconto individuale, di cui ogni so-cietà ha bisogno, come insegna Putnam, per funzionare adeguatamente.

BIBLIOGRAFIA

Ambrosini M. (2005), Scelte solidali. L’impegno per gli altri in tempi di soggetti-vismo, il Mulino, Bologna.

Marshall T.H. (2002), Cittadinanza e classe sociale, Laterza, Roma-Bari (ed. orig.1950).

Putnam R.D. (2004), Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cul-tura civica in America, il Mulino, Bologna.

Rosanvallon P. (1997), La nuova questione sociale. Ripensare lo Stato assistenzia-le, Edizioni Lavoro, Roma.

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Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare a Unidea – UniCredit Foundation che hareso possibile la ricerca e questo libro.

La nostra gratitudine va anche a tutti coloro che ci hanno dedicatotempo e attenzione: sia ai responsabili e agli operatori che ci hanno ac-colto nelle realtà oggetto della ricerca sia ai funzionari degli enti pub-blici e agli esperti che ci hanno supportato nella conoscenza dei contesti.

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Note

Premessa

1 Presidente della Fondazione Casa della carità.

Introduzione

1 Va notato che si tratta di diritti (pensione, assistenza sanitaria, assicurazione con-tro gli infortuni), collegati a una posizione regolare di occupazione alle dipendenze, lacui estensione agli immigrati deriva, fin dalle origini delle migrazioni moderne, dallapreoccupazione di evitare differenze di costo del lavoro, e quindi concorrenza sul mer-cato occupazionale tra lavoratori nazionali e stranieri.

2 Un esempio lampante riguarda l’assistenza agli anziani: a fronte di una dotazionedi servizi domiciliari e posti letto in residenze protette largamente inferiore alla mediaOcse, le famiglie italiane si sono spontaneamente organizzate inventando la figura del-l’assistente domiciliare coresidente (la cosiddetta «badante»), grazie anche alla disponi-bilità economica derivante da assegni di invalidità, accompagnamento e simili.

3 Anche in Italia, la Commissione nazionale di indagine sulla povertà istituita nel1984, dal 2000 è stata ridenominata Commissione di indagine sull’esclusione sociale.

4 Si può ricordare di passaggio che le istituzioni statali, in Italia come in decine dialtri paesi, già riconoscono e in una certa misura remunerano una forma di impegnosociale come il servizio civile volontario per i giovani.

1. Da assistiti a protagonisti. Il caso di Bologna

1 Il giornale di strada Piazza Grande è nato nel 1993 per iniziativa di un gruppo divolontari legati alla Camera del lavoro di Bologna e di alcune persone senza dimora che

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330 Costruire cittadinanza

vivevano nel dormitorio «Beltrame». Il successo riscosso è stato tale da aver contribuito,in concomitanza alla nascita del giornale, alla fondazione dell’Associazione Amici diPiazza Grande.

2 Massimo Zaccarelli è stato nel 1993 uno dei fondatori del giornale di strada PiazzaGrande e dell’Associazione Amici di Piazza Grande, oltre che uno dei fondatori, nel1997, della cooperativa sociale La Strada di Piazza Grande. Il riparo notturno gestitodalla cooperativa La Strada porta il suo nome, in commemorazione del suo grande impe-gno sociale e come riconoscimento dell’importante ruolo di mediazione svolto, all’inter-no del Comitato contro l’esclusione sociale, a favore delle persone senza fissa dimora ein condizione di grave disagio.

3 La citazione è tratta dal bilancio sociale del 2003 della cooperativa La Strada diPiazza Grande.

4 Art. 4, com. 2 del Decreto legislativo 381 del 1991 in materia di cooperative sociali.5 Enti e associazioni con le quali collabora La Strada di Piazza Grande: Lega delle

cooperative di Bologna, Consorzio Sic (Consorzio di iniziative sociali), cooperativaCsapsa (Centro studio analisi di psicologia e sociologia applicate), Rete Carracci eConsulta contro l’esclusione sociale. Inoltre, all’interno del gruppo Piazza Grande,collabora con la cooperativa sociale Fare Mondi e l’Associazione Amici di PiazzaGrande.

6 Tale associazione è nata in stretta collaborazione con il Consorzio Sic (Consorzio diiniziative sociali), con la cooperativa Csapsa (Centro studio analisi di psicologia e socio-logia applicate), con l’associazione culturale Kifasa e con le associazioni Gavroche, LaCarovana e Sea

7 Le diverse realtà coinvolte nella gestione dello Sportello Portici sono le seguenti:Provincia e Comune di Bologna, LegaCoop Bologna, Efeso (Ente di formazione per l’e-conomia sociale), Consorzio Sic (Consorzio di iniziative sociali), Consorzio Insieme,Consorzio Sol. Co. Imola, Centro servizi aziendale, Anastasis, Cides (Centro internazio-nale dell’economia sociale), Cefal (Consorzio europeo per la formazione e l’addestra-mento dei lavoratori), Csapsa (Centro studio analisi di psicologia e sociologia applica-te) e Opimm (Opera dell’Immaccolata).

8 I dati relativi ai lavoratori della cooperativa La Strada risalgono al 31 dicembre2008.

9 Il servizio (tavola 1.4) consiste nella riparazione di biciclette, messe a disposizioneda Atc (Azienda trasporti consorziali) per i cittadini, in circa una ventina di postazionisul territorio della città di Bologna.

10 Le fonti dei dati contenuti nella tavola 1.1 sono: http://www.cooplastrada.it; il bilan-cio sociale del 2003 a cura della cooperativa La Strada di Piazza Grande e l’intervista.

11 La fonte dei dati contenuti nella tavola 1.2 è: il bilancio sociale del 2003 a cura dellacooperativa La Strada di Piazza Grande.

12 Le fonti dei dati contenuti nella tavola 1.3 sono: http://www.cooplastrada.it; il bilan-cio sociale del 2003 a cura della cooperativa La Strada di Piazza Grande e l’intervista.

13 Le fonti dei dati contenuti nella tavola 1.4 sono: http://www.cooplastrada.it; il bilan-cio sociale del 2003 a cura della cooperativa La Strada di Piazza Grande e l’intervista.

14 Per un’analisi approfondita del corso di formazione, del suo significato e dei succes-si conferiti si rimanda al seguente indirizzo internet: http://operatoripari.splinder.com/

15 Gli enti promotori del progetto sono: Caritas diocesana, Opera Padre Marella,

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Note 331

Associazione Arc En Ciel, La Strada di Piazza Grande, Nuova Sanità, La Rupe, Il Petti-rosso e Associazione Mosaico di Solidarietà in qualità di capofila

16 I principali servizi con i quali collabora l’équipe degli operatori del riparo Zacca-relli nella progettazione di percorsi individuali sono i seguenti: Servizio sociale adulti delComune di Bologna, Servizio tossicodipendenze dell’Azienda Usl Città di Bologna,Sportello sociale delle opportunità, Centro di ascolto per italiani della Caritas, unitàd’aiuto, unità mobile e la struttura in via dei Ciliegi dell’Opera Padre Marella

17 Alcuni esempi di realtà del mondo cattolico e del privato sociale con cui gli opera-tori del dormitorio collaborano: Caritas diocesana, gruppo scout della parrocchia delSacro Cuore, Avvocati di strada, redazione del giornale di strada Piazza Grande, serviziomobile di sostegno, suore Canossiane.

18 Il servizio mobile di sostegno è gestito da operatori dell’Associazione Amici diPiazza Grande, con lo scopo di intercettare sulla strada i bisogni più urgenti dei senzadimora.

19 I dati sugli operatori del riparo sono aggiornati al 17 giugno 2009: gli operatori delRiparo Zaccarelli sono 13, di cui 2 operatori della cooperativa Nuova Sanità, 1 della coo-perativa La Rupe, 2 della cooperativa IT2, 8 della cooperativa La Strada.

20 Le fonti dei dati presenti nella tavola 1.5 fanno riferimento a: http://www.coopla-strada.it/zaccarelli.html; Istituto di ricerca e formazione per i servizi sociali (a cura di),Più di un riparo. Il Progetto Carracci dall’emergenza alla Casa del Riposo Notturno Massi-mo Zaccarelli, Bologna, 2004.

21 I dati relativi agli utenti del riparo notturno Massimo Zaccarelli risalgono al 31dicembre 2008.

2. Dalla prima alla seconda accoglienza. Il caso di Napoli

1 Consideriamo qui per «immigrati» le persone provenienti da paesi a forte pressio-ne migratoria.

3. Tra accoglienza senza confini e progetti mirati. Il caso di Palermo

1 Quest’ultimo non è stato a oggi attivato.2 È il caso, per esempio del progetto «Youthstart Pollicino», nell’ambito dell’Accor-

do di programma quadro «Recupero della marginalità sociale», volto all’inclusionesociale e lavorativa di giovani a rischio di devianza o del programma di prevenzione deldisagio minorile finanziato dal Pov 2000/2006, misura «Sicurezza per la legalità del Mez-zogiorno d’Italia».

3 Va peraltro osservato che questa distribuzione è influenzata dalla Circolare n. 1090del 27/03/2007, che stabilisce le percentuali di utilizzo delle risorse del Fnps 2004/2006e contribuisce a costituire l’ammontare complessivo a disposizione, destinando il 37%alle persone con disabilità e il 23% ai minori.

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4. Lavorare per l’integrazione sociale in un contesto di risorse calanti. Il caso di Roma

1 I dati qui presentati, salvo diversamente indicato, sono tratti dal «Rapporto 2008sullo stato delle province del Lazio» scritto dall’Eures per l’Unione delle province delLazio nel 2008.

2 Questi sono dati più elevati rispetto a quelli relativi alla media nazionale, secondoi quali il totale di occupati stranieri rappresenta il 6,5% totale e di questi solo il 38,5%sono donne.

3 Il 62% degli stranieri a Roma svolge un lavoro non qualificato, mentre solo il 6,1%ha un impiego che richiede un’alta specializzazione.

4 I municipi sono numerati dal I al XX, tuttavia il XIV non esiste in quanto nel 1992la quattordicesima circoscrizione è diventata il comune di Fiumicino.

5 Tuttavia, visti i crescenti tagli nei finanziamenti da parte delle amministrazioni pub-bliche ci potrebbe essere bisogno di un incremento in tal senso.

6 Bisogna notare che, a differenza delle altre, questa cooperativa è finanziata dal set-tore pubblico e non opera in un settore produttivo.

5. Promuovere occasioni di lavoro e di cultura in un vecchio quartiere operaio. Il caso di Torino

1 Istat: disoccupazione in forte aumento + 6,7%, http://www.italianews.it/index.php?option=com_content&task=view&id=2546&Itemid=363.

2 Per quanto concerne i cittadini romeni, si deve soprattutto ricordare l’aumentoesponenziale delle assunzioni da lavoro subordinato tra il 2007 e il 2008, quantificabilein un + 163%.

3 Tra il 2006 e il 2008, la crescita stessa è di mezzo punto percentuale all’anno.4 45-64enni.5 La regione, un tempo parte integrante del «triangolo industriale», sotto questo

profilo è andata incontro a un processo di ridimensionamento.6 Gomma e plastica.7 Le scelte si orientano perlopiù su corsi di informatica e di lingue.8 Sono pure previsti percorsi integrati con il sistema scolastico, in modo da acquisi-

re le competenze di base, da apprendere l’uso del pc o da approfondire le conoscenzelinguistiche.

9 L’azione non è finalizzata necessariamente alla ricerca di un lavoro.10 Cfr. Progetto Equal «L3 Lifelong Learning Club».11 Cfr. Progetto Equal «Ricomincio da 45».12 Intervento finanziato dal Por.13 Il progetto, per la parte finanziata dal Fse, rientra nel Por/Ob. 3, Misura A2, linee

3 e 4. 14 Il tasso di natalità è del 9,1‰, mentre quello di mortalità raggiunge il 9,9.15 I residenti che vengono dal Marocco (17 773), per valori assoluti sono secondi sol-

tanto ai romeni.

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Note 333

16 Si intendono, in tal caso, gli ex abitanti della Repubblica popolare cinese.17 Tale tipologia costituisce il 23,4% delle famiglie totali residenti nella Provincia di

Torino.18 Che incidono per il 17,9% sul totale dei nuclei residenti nella Provincia di Torino.19 Quelle monogenitoriali con minori sono 15 983, cioè il 3,1% in più rispetto al

2007. Tra queste, nell’87,5% dei casi il genitore è donna.20 Le stesse nazionalità compaiono nel quadro regionale sopra delineato, con una dif-

ferenza. A livello regionale, infatti, sono i romeni e non i marocchini a occupare la primaposizione.

21 I tre Centri di ascolto del quartiere Barriera di Milano si trovano presso la par-rocchia della Speranza, della Pace e di San Domenico Savio.

22 Termine con il quale si è soliti indicare delle aree che, in senso proprio, non appar-tengono al centro della città, ma nemmeno alla periferia. Per la precisione, esse s’inter-pongono tra l’uno e l’altra.

23 Per i processi di recupero e riqualificazione di Porta Palazzo si rimanda al Pro-getto «The Gate»: http://www.comune.torino.it/portapalazzo/.

24 Per quanto concerne il Piano di recupero nel quartiere di San Salvario, si riman-da ai seguenti siti: http://www.comune.torino.it/rigenerazioneurbana/ e, in particolare ahttp://www.sansalvario.org.

25 Per i Programmi di recupero urbano si rimanda al seguente sito:http://www.comune.torino.it/rigenerazioneurbana/recuperourbano/intro.htm.

26 Per quanto riguarda il Progetto Periferie della città di Torino, si rimanda al sitohttp://www.comune.torino.it/bilanciosociale/parte3/03_01_04.shtml.

27 Per il «Progetto Urban» 2 si rimanda a: http://www.comune.torino.it/bilancioso-ciale/parte3/03_01_05.shtml.

28 Divisione servizi sociali della città di Torino (a cura di), Piano dei Servizi Sociali2003-2006, Torino 2003, pp. 1-4. Per un confronto con la situazione degli altri Comuniitaliani si rimanda a: L’Indagine censuaria sugli interventi e i Servizi sociali dei Comuni,2005, in «Statistiche in breve dell’Istituto nazionale di statistica», 2005. Secondo i datirelativi al bilancio del 2003-2006, la spesa prevista dalla città di Torino per la gestionedei servizi sociali è di 193 milioni di euro, di cui 99 milioni a carico del Comune.

29 Mauro Maurino.30 Federica Clara.31 Guido Geninatti.32 Daniele Caccherano, Daniela Genta e Pietro Parente.33 Per ulteriori informazioni, si veda Kairòs, Abitare la comunità. Un progetto di Hou-

sing sociale, 2007, http://www.solidassistenza.it/index.php?option=com_docman&task=doc_view&gid=47.

34 Marco Ferrero.35 Guido Gobino è uno dei maestri italiani della lavorazione del cioccolato. Per

saperne di più, si veda il sito www.guidogobino.it.36 Andrea Trinci è il titolare di una piccola torrefazione artigianale di qualità, che

produce caffè e cacao. Dal 2004, collabora con Slow Food e dal 2005 ha accettato di farsicoinvolgere nel progetto realizzato presso il carcere di Torino. All’interno del carcereLorusso e Cotugno sono attivi anche laboratori per la lavorazione del cacao e della birra.

37 Senza contare che, ogni anno, la cooperativa versa loro il 50% degli utili.

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334 Costruire cittadinanza

38 Si tratta, per la precisione, di Mars (Usa), Philip Morris (Usa), Herskey (Usa),Nestlé (Svizzera), Cadbury-Schweppes (Regno Unito) e Ferrero (Italia).

39 La Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, con sede a Firenze, ha avvia-to, tra gli altri, un importante progetto che ha richiesto imponenti sforzi economici eorganizzativi. Tale iniziativa è consistita nell’istituzione di presidi, 280 in 37 paesi delmondo, nati per mantenere in vita i piccoli produttori, preservandoli dal rischio di dovercessare le rispettive attività in seguito alle pressioni esercitate dalle diverse aziende mul-tinazionali. Così facendo, si è potuta evitare l’estinzione di una serie di prodotti artigia-nali di altissima qualità. La Fondazione, inoltre, si prodiga costantemente per il miglio-ramento delle tecniche di produzione, per aggiornare i professionisti del settore, le cuiconoscenze divengono rapidamente obsolete, e per potenziare i mercati locali del Sud edel Centroamerica.

40 L’insieme è un’associazione Onlus di produttori di vino, nata per contribuire allavalorizzazione del territorio piemontese. Essa dedica particolare attenzione alla salva-guardia e alla promozione del patrimonio culturale locale, con specifico riferimento allacultura e alla tradizione contadina. Ciò avviene attraverso la pubblicazione di volumi edi testi di carattere divulgativo, l’allestimento di mostre, l’organizzazione di convegni edi ricerche, che prevedono anche l’erogazione di borse di studio e la collaborazione conenti pubblici e privati. Nel consiglio di amministrazione de L’insieme siedono sette socifondatori. Esiste inoltre un comitato scientifico formato da specialisti del settore agroa-limentare, da giornalisti e da collaboratori che si riunisce ogni anno per valutare le pro-poste giunte all’associazione, selezionando quelle da finanziare. L’elemento rappresenta-tivo degli sforzi comuni è un vino che prende lo stesso nome dell’associazione, ricavatoogni anno dalle migliori uve prodotte nelle singole aziende, sapientemente miscelate inpiccole quantità. Le uve Nebbiolo, Barbera e Dolcetto, i simboli di quella terra, sonospesso soggette a un processo di mescita, dove si fondono con Cabernet e Merlot sem-pre provenienti da vigneti delle Langhe.

41 Così viene chiamata solitamente la casa circondariale Lorusso e Cotugno di Torino. 42 Insieme ai punti vendita del commercio equo e solidale del Piemonte. 43 I primi tre sono nomi d’arte. I quattro giovani sono molto noti nel quartiere Bar-

riera di Milano.44 Ciò non avviene, invece, per quanto concerne la gestione dei bagni stessi, che la

circoscrizione VI ha appaltato al consorzio Kairòs.45 Equivalente a 150mila euro di utile.

7. Donne protagoniste in un quartiere difficile. Il caso di Berlino

1 In questo caso il concetto di appartenenza alla nazione è basato sulle origini etni-che piuttosto che sull’abitare in un determinato territorio.

2 Peter Wensierski in un editoriale per la rivista Der Spiegel nel 1997 definì Neukölln«il Bronx di Berlino, essendo pieno di gang di giovani violenti, pitbull, antisociali sfac-cendati e moschee».

3 Si registra di media un atto criminale penalmente perseguibile al mese.4 Nel 2006 una lettera con una richiesta di aiuto da parte degli insegnanti della scuo-

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Note 335

la professionale Rütli, dove l’81,4% degli studenti sono stranieri, fece grande scandalonel paese.

5 Il 40% turchi, 12% dagli Stati arabi, 11% polacchi, 10% ex jugoslavi, 8% russi ecirca l’8% senza Stato (molti di questi sono palestinesi).

6 Le differenze tra Caritas e Diakonie in qualche modo rispecchiano le differenzeorganizzative delle due Chiese anche in materia di culto: gerarchica e unitaria quella cat-tolica, autonoma e decentralizzata quella protestante.

7 Si tratta di un contratto di due anni a 1000 euro al mese per un impegno di 30 oresettimanali. In seguito, è previsto anche un contratto forfettario che paga 180 euro ogni10 visite a famiglia.

8. Forme e livelli delle strategie di attivazione. Il caso di Londra

1 Vengono collocate sotto la soglia di povertà le famiglie che vivono con uno stipen-dio al di sotto del 60% rispetto al national income distribution for households.

2 Si vedano Department of Work and Pensions, 2007a e Department of Work andPensions, 2008a.

3 Si vedano Department of Work and Pensions, 2007b e Department of Work andPensions, 2008b.

4 Le informazioni e le statistiche sul distretto di Lambeth sono state prese dallo Stateof the Borough Report pubblicato nel giugno 2008 dall’amministrazione distrettuale. Ilrapporto è disponibile sul sito http://www.lambeth.gov.uk/home.htm.

9. Responsabilità sociale d’impresa e accoglienza dei senza dimora. Il caso di Parigi

1 Si veda l’esempio della Corsica e della città di Parigi.2 Tra i compiti dei Drtefp vanno inoltre ricordati la predisposizione di approfondi-

menti per meglio comprendere le modalità di utilizzo delle indennità di disoccupazione,il controllo del flusso di richieste di lavoro a opera dei disoccupati, la partecipazione allediverse azioni formative, l’attuazione di politiche dedicate ai disabili.

3 Aiuto al reinserimento professionale, di tipo monetario.4 Il periodo scende a tre mesi, nel caso di persone in cerca di lavoro che abbiano rag-

giunto i 55 anni.5 E non superiore ai diciotto mesi.6 In possesso o meno di una qualifica.7 Agenzia nazionale per l’impiego.8 Per avviare e consolidare alcune best practices, l’Anpe incentiva anche scambi di

personale e di esperienze con agenzie europee simili, specie per quanto riguarda le cate-gorie maggiormente svantaggiate o a rischio di esclusione sociale.

9 Nonostante il tasso di sindacalizzazione, in Francia, si attesti tra l’8 e il 9%.10 In certi casi, le ore di formazione sono equiparabili – e quindi contabilizzabili – a

quelle di lavoro.11 Fatti salvi gravi motivi familiari o cambiamenti dovuti al semplice cambio di resi-

denza.

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12 Il 50% delle persone finanziate dalla Rmi si trova in questa situazione. 13 La popolazione attiva che sperimenta condizioni di disagio e, proprio per far fron-

te alle difficoltà, aderisce ai programmi d’insertion, percependo il cosiddetto «salariominimo», è quantificabile intorno al 10%.

14 Nel 2005, «Mission Solidarité» ha assunto la forma giuridica della Fondazione.15 Le elaborazioni Eurostat non tengono conto di rendite derivanti da eventuali

patrimoni. La cifra, con riferimento al 2005, sale a 885 euro nel caso di famiglia mono-parentale con un figlio minore di 14 anni e a 1022 se il giovane ha compiuto i 14 anni.Per una documentata panoramica sulle soglie di povertà in relazione ai componenti delnucleo domestico, si veda il sito dell’Observatoire des inégalités, disponibile all’indiriz-zo http:///www.Observatoire des inégalités2.mht.

16 Cfr. Observatoire des inégalités2.mht.17 Tutte e quattro le azioni sono gratuite per l’utenza.18 Le traduzioni dal francese all’italiano sono di chi scrive.19 Sncf ha partecipato alla creazione di tre punti di accoglienza e solidarietà, ubicati

a Metz, Strasburgo e Tours. Ciascuna sede viene in aiuto a circa 6mila persone ogni anno(Fondation Solidarité 2008a, p. 2).

20 A partire dall’inverno 2003-2004 le azioni di accoglienza e di assegnazione di unalloggio di emergenza, riservati a soggetti vulnerabili (in particolar modo a quelli chevivono sulla strada), sono state rafforzate da un dispositivo di legge, denominato Plangrand froid. Dal 2007-2008 si è proceduto ad alcuni cambiamenti: sono scomparsi i livel-li di «allerta» (ex livelli 1, 2 e 3), determinati su base nazionale in funzione della tempe-ratura atmosferica. I prefetti, valutando di volta in volta, prendono i provvedimenti piùopportuni. Inoltre, sono stati realizzati alloggi supplementari e, con stagioni dove la tem-peratura stazionava per diversi giorni sotto lo 0, il numero degli operatori del call centerdipartimentale è aumentato, per consentire lo svolgimento di un servizio più tempestivoed efficiente. Fondamentale si è dimostrata la collaborazione tra Météo France, la stessaprefettura e la Direzione degli affari sanitari e sociali, che, in alcune circostanze, hannoportato all’apertura anticipata delle medesime strutture supplementari.

21 Gli uomini sono circa il 75%; le donne il 25%.22 Il 50% circa dei senza dimora ha almeno 45 anni.23 Malattie della pelle, respiratorie ecc.24 Il Ccs è un organismo pubblico che interviene nel campo delle politiche riguar-

danti la responsabilità sociale d’impresa, quando quest’ultima è impegnata in azioni chene mettono in luce la responsabilità sociale. Esso costituisce una sorta di appoggio, unaiuto per offrire delle risposte concrete ai problemi che si presentano.

25 Per esempio, la polizia urbana.26 «Comité de pilotage».27 I partner.28 http://www.casp.asso.fr.29 http://www.casp.asso.fr.30 Fin dal 1994. La struttura è dotata di bungalow.31 Attivo dal 2003. Le abitazioni sono ricavate dalle cuccette di treni dismessi, ma in

buone condizioni.32 Le persone accolte, a Pont Cardinet, vengono accompagnate in un percorso di

reinserimento lavorativo.

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Note 337

33 Dal 1993, le ferrovie avevano allestito, nella stazione di Parigi Est, un luogo aper-to tutto l’anno e destinato a ospitare 40 persone al giorno; delle cuccette erano state tra-sformate in piccoli alloggi. Quando fece la propria comparsa il Tgv il centro venne tra-sferito a Pantin.

34 Non può accedere, naturalmente, chi non ha compiuto i 18 anni. Per l’età massi-ma, invece, non esistono limitazioni, benché i dati statistici a disposizione indichino chel’utenza non supera generalmente i 50 anni.

35 Nella fattispecie, è il Dass l’ente finanziatore.36 Tra il 1965 e il 1972, monsignor Rodhain fu anche presidente della Caritas Inter-

nazionale.37 http://www.secours-catholique.asso.fr.38 Consultabile direttamente sul sito http://www.secours-catholique.asso.fr.39 Attività teatrali, atelier di scrittura e scultura.40 Corsi di nuoto.41 Venne eletto deputato al parlamento transalpino.42 L’abbé Pierre appoggiò l’iniziativa del suo primo ministro, Laurent Fabius, quan-

do questi propose un sussidio per le fasce deboli ed emarginate, come i senza tetto.43 L’Esercito della salvezza aderisce alla Federazione protestante di Francia. Nelle

sue strutture, l’organizzazione accoglie coloro che non possiedono un letto per dormire,provvedendo alla preparazione di un piatto caldo per la sera e di una colazione, offertaal mattino, prima che i sans abri riprendano la via della strada. Esso possiede anche cen-tri di accoglienza diurna e partecipa a progetti di orientamento e inserimento professio-nali. Sul territorio nazionale, possiede più di 50 strutture, che fanno riferimento allaFondation de l’Armée du Salut.

44 Art. L. 322-4-16-8 del Codice del lavoro.45 Nel frattempo, la «piccola cintura» venne nuovamente destinata alla circolazione

delle merci, fino al 1993, anno in cui la linea stessa venne chiusa.46 Al 2008 se ne contavano 23, presidiati da una ventina di associazioni, per un tota-

le di 232 persone impiegate.47 Il Casp, il Secours catholique e il Movimento Emmaüs, per citarne solo alcuni.48 Al momento sono otto.49 Le ferrovie dello Stato italiane.50 La società nazionale delle ferrovie belghe.51 L’ente ferroviario lussemburghese.52 L’accordo è stato stipulato a Roma.

10. Il lavoro con i senza dimora in una metropoli dell’Est. Il caso di Varsavia

1 Si tratta di numeri esigui se confrontati con quelli di altri paesi dell’Europa centro-orientale come l’Ungheria, la Repubblica Ceca o la Slovacchia, dove si trovano percen-tuali di rom attorno al 6-8% della popolazione.

2 Solo il 24% dei polacchi disabili ha un’occupazione.3 In Polonia sono occupati il 63,1% degli uomini e il 47,1% delle donne.4 Per esempio, nel 2002 ci furono 33 634 sfratti, di cui 7631 eseguiti. Il 65% delle

persone che subirono lo sfratto si trovò per strada.

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338 Costruire cittadinanza

5 Su ogni dieci edifici della città otto furono distrutti.6 Quest’ultima fonte di entrate resta marginale. Ben pochi polacchi effettuano que-

sta scelta quando fanno la dichiarazione dei redditi. Ciò è dovuto soprattutto alla scarsainformazione che è stata fatta a riguardo di questa opzione (Intervista 1).

7 Spesso lo stage è il modo in cui poi viene selezionato il personale da inserire all’in-terno dell’associazione con un contratto di collaborazione (Intervista 2).

8 Si tratta di circa 22 centesimi di euro al cambio corrente.9 Ci possono essere diverse valutazioni sull’utilità o meno di alcune terapie, come nel

caso dell’uso del metadone (Intervista 2).10 Anche nel caso di Bial/ol/eka si trovano zone ex industriali e povere vicino a nuove

zone residenziali, così che si hanno diverse situazioni sociali ed economiche all’internodello stesso quartiere.

11. Dall’emergenza alla promozione. La Fondazione Casa della carità di Milano

1 Ottenuto dalla somma di tutte le fonti di reddito percepite e del credito di impo-sta, dalla quale vengono sottratti gli oneri deducibili e le deduzioni per l’abitazione prin-cipale.

2 Ex L.R. 1/2008.3 In particolar modo collaborazione con il Servizio di etnopsichiatria dell’ospedale

Niguarda.

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Finito di stampare nell’ottobre 2009presso Galli Thierry Stampa, Milano

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