La crisi del fordismo e i modelli produttivi flessibili · Il fordismo si estese in tempi e gradi...

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La crisi del fordismo e i modelli produttivi flessibili GIORGIO MORGANTI [email protected]

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La crisi del fordismo e i modelli produttivi flessibili

GIORGIO MORGANTI [email protected]

La crisi del fordismo e i modelli produttivi flessibili Con la political economy comparata si manifesta una

ripresa di interesse e di impegno della sociologia economica a livello macroeconomico, stimolata dalle difficoltà e dalle trasformazioni dello stato sociale keynesiano. Contemporaneamente, però, prende forma una problematica teorica e di ricerca che si colloca più a livello microeconomico e si misu-ra con i cambiamenti, non meno rilevanti, nell’organizzazione delle imprese e dei processi produttivi. È quanto esamineremo in questo capitolo, partendo dalla crisi del modello «fordista»,e dallo sviluppo delle nuove forme produttive «flessibili».

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Nel corso del ‘900 si è affermato un modello di

organizzazione economica, spesso definito «fordista», o «fordista–taylorista», che ha raggiunto l’apice soprattutto nel ventennio successivo alla seconda guerra mondiale. Tale modello si basa su grandi imprese le cui caratteristiche principali si possono cosi sintetizzare:

Le IMPRESE SONO INTEGRATE VERTICALMENTE (cioè includono al loro interno diverse fasi produttive che prima erano svolte da aziende distinte), sia a valle anche al momento della distribuzione, sia a monte, nel controllo delle materie prime necessarie alla produzione (in molti casi l’integrazione a monte si estende anche ai servizi di ricerca e sviluppo). Ciò fa sì che cresca anche la dimensione complessiva delle imprese;

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Le IMPRESE SONO IMPEGNATE NELLA PRODUZIONE DI MASSA, cioè nella

produzione di beni standardizzati prodotti in grande quantità con macchine specializzate, con minori costi grazie alle economie di scala ed alle nuove tecnologie;

La PRODUZIONE È REALIZZATA CON MANODOPERA SCARSAMENTE QUALIFICATA e con un’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO «TAYLORISTICA», cioè fortemente parcellizzata. Il lavoro è diviso in compiti semplici e ripetitivi che limitano l’autonomia degli operai. La separazione tra concezione-progettazione dei prodotti ed esecuzione è netta e rigida, e l’impresa funziona come una grande organizzazione burocratica basata sul controllo gerarchico. Ruolo del management è coordinare, integrare e controllare il complesso delle attività produttive. Vi è quindi una separazione tra la proprietà dell’impresa e gestione delle attività, che è invece affidata a dirigenti specializzati.

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Non bisogna però immaginare che il modello si affermi

uniformemente in tutti i settori produttivi e che si diffonda con la stessa intensità e con gli stessi tempi in tutti i paesi industrializzati.

Non è sempre possibile introdurre in tutti i settori produttivi il modello della grande impresa e della produzione di massa: l’impiego delle tecnologie necessarie è, infatti, molto costoso e richiede investimenti in macchinari che possono produrre solo determinati prodotti, che danno remunerazione solo se c’è un mercato che li assorbe. Ci sono diversi tipi di produzioni (beni non standardizzati o di elevata qualità, macchine speciali) a domanda limitata o estremamente variabile (leggasi: moda) in cui ciò non è possibile, per cui c’è uno spazio anche per imprese più piccole, a gestione tradizionale.

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA A ciò è collegato il fenomeno delle subforniture, per

cui aziende grandi commercializzano beni in realtà prodotti da imprese minori, attraverso le quali coprono fasce di domanda più instabili, dovute a variazioni cicliche o risparmiano sul costo del lavoro in fasi del processo produttivo più semplici e a elevato impiego di manodopera;

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Un secondo aspetto da considerare è costituito dai

TEMPI DI DIFFUSIONE DEL FORDISMO e il suo RADICAMENTO NEI DIVERSI CONTESTI NAZIONALI, che variano sensibilmente per fattori di natura istituzionale (grado di chiusura dell’economia nazionale, differenziazione dei gusti e degli stili di vita – legato a sua volta al tipo di stratificazione sociale ed alla cultura nazionale).

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Non è un caso che il fordismo sia nato in America e

si sia radicato più rapidamente in quel contesto, caratterizzato da elevato tasso di immigrazione, carenza di manodopera specializzata, alto livello di infrastrutture di comunicazione (ferrovie). Ciò rendeva le imprese particolarmente favorevoli all’introduzione di metodi di produzione come quelli fordisti–tayloristi, che consentivano il rapido impiego di manodopera immigrata a bassa qualificazione, con sensibili risparmi di costo.

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Per l’assenza o carenza di questi fattori, il fordismo

arriverà più tardi e in forme più limitate in EUROPA, dove persisteranno maggiormente forme di produzione legate a imprese di piccole dimensioni, spesso concentrate territorialmente e tra loro integrate nei c.d. «distretti industriali» Marshalliani.

Il fordismo si estese in tempi e gradi diversi fuori dagli Stati Uniti, ma le sue caratteristiche furono segnate dalle esperienze nazionali, (tipologia della proprietà e della gestione delle imprese, rapporti con la finanza, organizzazione interna delle imprese e del lavoro, rapporti con lo stato…).

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Fordismo a livello micro e stato sociale keynesiano a

livello macro sono comunque strettamente legati. È proprio tenendo conto di tale integrazione che si possono meglio cogliere i fattori di crisi del modello fordista a partire dagli anni ’70:

SATURAZIONE DEL MERCATO DEI BENI DI MASSA; ACCRESCIUTA CONCORRENZA DEI PAESI DI NUOVA

INDUSTRIALIZZAZIONE, con più basso costo del lavoro nelle produzioni più semplici e di minore qualità;

IMPENNATA DEI PREZZI DEL PETROLIO E DELLE MATERIE PRIME;

FINE DEL REGIME DI CAMBI FISSI (e conseguente maggiore instabilità sul mercato internazionale);

ESPLOSIONE DELLA CONFLITTUALITÀ INDUSTRIALE NEI PRIMI ANNI ’ 70.

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA

La crisi del modello fordista si manifesta diversamente nei vari paesi, a seconda delle capacità del contesto istituzionale di frenare il conflitto industriale e di mantenere una politica di regolazione della domanda tale da garantire condizioni di maggiore stabilità (in ogni caso, anche in contesti di tipo neocorporativo le tendenze di trasformazione del fordismo non sono state frenate).

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA Oltre a quelli elencati, altri motivi che hanno mandato via via in

crisi questo modello sono legati alla maggiore domanda di beni di maggiore qualità nei paesi ricchi, vuoi per l’aumento dei redditi, vuoi per il formarsi di nuovi gruppi sociali istruiti che sviluppano nuovi stili di vita e modelli di consumo. Ciò contrae ulteriormente lo spazio per il mercato dei beni di massa tradizionali (la domanda è sempre più sostitutiva che aggiuntiva).

Un secondo elemento favorisce e incentiva il tentativo di spostarsi verso una produzione più diversificata e di qualità è dato dall’introduzione dele NUOVE TECNOLOGIE ELETTRONICHE (calcolatori, macchine a controllo numerico) che permettono di programmare il macchinario in modo da poterlo utilizzare per compiti e prodotti diversi. Ciò consente un sensibile abbassamento dei costi della produzione flessibile, per cui diventa possibile produrre beni non standardizzati di elevata qualità, in serie limitate, a costi più bassi.

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA In tal modo è possibile vendere beni di elevata qualità, prodotti

in quantità limitate e soggetti a rapido cambiamento, per i quali i consumatori sono disponibili a pagare prezzi più elevati, sfuggendo anche alla concorrenza dei paesi a più basso costo del lavoro in produzioni di massa, più semplici e di bassa qualità.

Naturalmente, questo non vuoi dire che la produzione di massa e il modello fordista siano abbandonati dalle imprese dei paesi più sviluppati. Da questo punto di vista sono da prendere in considerazione due tendenze che possono variamente combinarsi tra loro;1- l’uso delle nuove tecnologie per riadattare il modello fordista e 2- la spinta alla multinazionalizzazione (per cui le grandi imprese della produzione di massa, investendo direttamente all’estero e specie nei paesi in via di sviluppo, cercano di ritrovare le condizioni di vantaggio prima presenti nei paesi più avanzati: un mercato in crescita e condizioni di più basso costo del lavoro).

CRISI E TRASFORMAZIONE DEL MODELLO FORDISTA In conclusione, possiamo dunque rilevare che, specie a

partire dagli anni ’70, si è assistito a un processo di diversificazione e pluralizzazione dei modelli produttivi. Su questo fenomeno influisce in misura significativa il contesto istituzionale nel quale le imprese operano: per comprendere i motivi per cui alcuni paesi o alcune regioni si sono riadattati più rapidamente e più efficacemente non basta dunque guardare al livello macroeconomico e al ruolo dello stato, ma occorre prendere in considerazione l’interazione tra imprese e ambiente sociale nel quale sono inserite. Ed è proprio su questo terreno che si sviluppa una ripresa della sociologia economica anche a livello micro, che analizza in particolare i rapporti tra contesto istituzionale e nuovi modelli produttivi flessibili.

MODELLI PRODUTTIVI FLESSIBILI E CONTESTO ISTITUZIONALE I primi ad affrontare in maniera organica il modello della

specializzazione flessibile, in contrapposizione a quello fordista della produzione di massa sono stati Piore e Sabel, nel 1984. Alla produzione di beni standardizzati di massa, fatta con macchine specializzate e manodopera semi-qualificata, viene contrapposta la SPECIALIZZAZIONE FLESSIBILE, caratterizzata dalla produzione di beni non standardizzati con macchine utilizzabili per modelli diversi, realizzati con manodopera più qualificata.

L’accento è posto in particolare sulle nuove tecnologie elettroniche che riducono, come abbiamo già notato, il costo della produzione flessibile e diversificata. La specializzazione flessibile coinvolge anche le grandi imprese in trasformazione, specie in paesi come la Germania e il Giappone, anche se le maggiori possibilità che questo processo apre sono per le imprese più piccole.

MODELLI PRODUTTIVI FLESSIBILI E CONTESTO ISTITUZIONALE Si possono individuare tre aspetti che gli studi successivi, contribuiranno a mettere meglio a fuoco: 1. Il primo riguarda la possibile persistenza della

produzione di massa nei termini prima ricordati del neofordismo;

2. Il secondo aspetto si riferisce alle forme di specializzazione flessibile praticate dalle grandi imprese, oltre che dalle piccole, con la loro trasformazione interna e la maggiore apertura a rapporti di collaborazione con imprese esterne;

3. Il terzo, infine, ha a che fare con l’analisi più approfondita e dettagliata dei fattori istituzionali che consentono le forme di cooperazione tra management e lavoratori e quelle tra le imprese, necessarie per l’emergenza e il funzionamento dei modelli flessibili a elevata capacità innovativa, buone condizioni di lavoro lti l i

PICCOLE IMPRESE E DISTRETTI INDUSTRIALI II fenomeno dei distretti di piccole e medie imprese, concentrati in alcune regioni, è stato riscontrato in diversi paesi. In qualche caso si trattava di aree già caratterizzate da strutture produttive di questo tipo, che vengono però coinvolte in una fase di forte dinamismo, in altri emergono invece delle nuove concentrazioni di aziende e specializzazioni produttive. Indipendentemente dal settore («tradizionale» o «moderno»), perché si parli di distretti industriali devono esserci due requisiti essenziali: È necessario che il processo produttivo sia divisibile in fasi

diverse, tecnicamente separabili, in modo da consentire la specializzazione delle piccole imprese per fasi o componenti;

Si tratta di produzioni soggette a elevata variabilità quantitativa e qualitativa della domanda, che richiede forme di organizzazione flessibile,

Particolare interesse ha suscitato il fenomeno in Italia, data la sua diffusione, anche se tendenze simili sono state segnalate anche in alcune regioni tedesche (es. Baden-Württemberg), in Svezia, in alcune zone del Giappone, della Francia, della Spagna, o anche in aree degli Stati Uniti (es. Silicon Valley in California).

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Nel corso degli anni 70 si nota una forte crescita delle

piccole imprese, particolarmente concentrata nelle regioni del centro e del nordest. Quest’area verrà definita come Terza Italia, per distinguerla dal nordovest, cioè dalle zone della prima industrializzazione e delle grandi imprese, e dal sud dove il processo di industrializzazione era rimasto fortemente limitato. Queste piccole imprese presentano la particolarità di essere concentrate in sistemi locali di uno o più comuni vicini (e popolazione generalmente < 100 mila ab.).

In questi sistemi locali vi è un mercato del lavoro integrato, e un certo grado di specializzazione settoriale. Quando la specializzazione settoriale e l’integrazione tra le piccole imprese sono molto elevate e danno luogo a una divisione specialistica del lavoro, si formano i «DISTRETTI INDUSTRIALI».

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA In un distretto sono dunque localizzate molte

imprese di piccola dimensione, ciascuna delle quali si specializza in una particolare fase o nella produzione di una particolare componente del processo produttivo. Solo un numero ridotto di aziende ha però rapporti diretti con il mercato finale, e sono quelle che ricevono gli ordini, decidono la quantità e la qualità dei beni da produrre e ne affidano la realizzazione concreta ai produttori di fase, coordinando l’intero processo.

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA L’indagine sui distretti ha contribuito, in particolare, a

evidenziarne due aspetti peculiari: 1. La capacità di rispondere in modo flessibile ai

cambiamenti del mercato si basa non solo sull’uso delle nuove tecnologie da parte delle singole aziende, ma soprattutto sui rapporti di cooperazione;

2. La capacità di innovare e migliorare la qualità dei beni prodotti è sostenuta dall’esistenza di economie esterne alle singole aziende ma interne all’area in cui esse sono localizzate: manodopera e collaboratori specializzati, servizi e infrastrutture, ma anche fattori immateriali che influiscono sulla produttività e che Marshall chiama «atmosfera industriale», che si caratterizza per la circolazione e diffusione rapida di conoscenze e informazioni.

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Un aspetto importante di questo fenomeno è proprio

quello costituito dalla DISPONIBILITÀ DI RISORSE COGNITIVE che si formano nel tempo e portano a «conoscenze tacite» o a un «sapere contestuale», cioè a un saper fare diffuso, a un linguaggio condiviso che consente di adattare agli specifici problemi produttivi il «sapere codificato» delle conoscenze scientifico-tecniche.

Accanto a queste componenti cognitive, ve ne sono altre di tipo normativo, quali la COOPERAZIONE all’interno delle aziende, e tra le diverse imprese.

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Quanto alle origini, tre fattori istituzionali sono cruciali per lo sviluppo dell’economia diffusa e dei distretti: 1) Una RETE DI PICCOLI E MEDI CENTRI nei quali vi erano tradizioni

artigianali e commerciali diffuse, dalle quali sono venute in larga misura le risorse di imprenditorialità per le piccole imprese (in molti casi è stato importante il ruolo di buone scuole tecniche locali);

2) Esistenza di RAPPORTI DI PRODUZIONE IN AGRICOLTURA prima dell’industrializzazione (mezzadria e piccola proprietà contadina), che ha sostenuto la formazione originaria di un’offerta di lavoro flessibile, a costi ridotti, e con conoscenze e motivazioni congruenti con lo sviluppo di piccola impresa;

3) Forte presenza nelle aree in questione di TRADIZIONI E ISTITUZIONI POLITICHE LOCALI legate al movimento cattolico e a quello socialista e comunista, che hanno anzitutto contribuito a rafforzare un tessuto fiduciario molto importante per lo sviluppo di piccola impresa e, in secondo luogo, hanno influenzato le relazioni industriali e l’attività dei governi locali. Il modello di relazioni industriali ha cosi assunto un carattere cooperativo e localistico.

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Gli ENTI LOCALI, a loro volta, hanno garantito quei servizi

sociali che hanno favorito la flessibilità del lavoro, e hanno spesso fornito alcuni servizi e infrastrutture essenziali per lo sviluppo.

Questo quadro culturale e istituzionale è importante anche per comprenderne la logica di funzionamento. Anzitutto, è evidente che la produzione richiede un elevato grado di cooperazione tra le imprese e tra imprenditori e lavoratori all’interno delle unità produttive. Per quel che riguarda per esempio la subfornitura, esiste certo un’elevata concorrenzialità all’interno delle singole fasi produttive, ma questa è mitigata da meccanismi di cooperazione per cui il committente o il subfornitore non massimizzano l’utilità a breve termine. Ciò consente vantaggi reciproci a medio e lungo termine.

Queste forme di cooperazione, che integrano i meccanismi concorrenziali, si fondano quindi su un tessuto fiduciario sostenuto dagli elementi culturali e istituzionali prima ricordati.

I DISTRETTI INDUSTRIALI IN ITALIA Forme di cooperazione sono presenti anche nel mercato

del lavoro: la produzione dei distretti richiede, infatti, un’elevata flessibilità interna, in termini di orari e straordinari, ma anche di disponibilità a svolgere compiti diversi e a contribuire alla qualità della produzione, o un’elevata mobilità del lavoro tra le imprese.

Col tempo, è cresciuta anche una specifica forma di regolazione politica del mercato del lavoro, per cui sia le relazioni industriali che l’azione dei governi locali hanno favorito l’accettazione sociale del modello di sviluppo attraverso meccanismi di redistribuzione del reddito prodotto, che si affiancano a quelli di reciprocità, legati alla famiglia e alle reti parentali. In questo senso la COSTRUZIONE SOCIALE DEL MERCATO è un aspetto cruciale del successo dei distretti nella specializzazione flessibile.

DISTRETTI E ISTITUZIONI I principali tratti comuni ricavabili dalle ricerche sui

vari paesi hanno evidenziato che i distretti industriali orientati alla produzione flessibile sono legati a specifiche risorse cognitive e normative. In particolare si possono sottolineare gli aspetti seguenti.

Per quel che riguarda gli ASPETTI COGNITIVI, vi sono due ordini di fattori che influiscono sulle conoscenze e sulla formazione dell’imprenditorialità: Importanti tradizioni artigianali precedenti, alimentate

anche da buone scuole tecniche e da altre istituzioni formative;

Vicinanza di istituzioni di ricerca pubbliche o private (legate anche a grandi imprese) e in particolare dalla presenza di importanti università che sviluppano intensi scambi con le imprese.

DISTRETTI E ISTITUZIONI Una CAPACITÀ DI COOPERAZIONE E LA DISPONIBILITÀ DI UN

TESSUTO FIDUCIARIO, in genere influenzate da identità locali distinte (politiche o di tipo etnico) che si riproducono nel tempo;

IMPORTANZA DELLE RISORSE COGNITIVE e normative non solo per lo sviluppo di tipo distrettuale, ma anche per la sua riproduzione nel tempo;

Un’ELEVATA CAPACITÀ DI COOPERAZIONE E ANCHE UN COINVOLGIMENTO CRESCENTE per migliorare la qualità da parte dei lavoratori, che dà loro forti motivazioni a mettersi in proprio o, in alternativa, un’elevata flessibilità più contrattata e compensata.

Possiamo dunque concludere che il successo nell’adattamento dei distretti industriali alle sfide esterne deriva principalmente dalla capacità degli attori locali di continuare a interagire efficacemente per trovare nuove soluzioni, per produrre nuovi beni collettivi da cui dipende il benessere della società locale.

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE Come i distretti industriali, anche le grandi imprese,

hanno cominciato a trasformarsi sperimentando modelli di produzione flessibile. Sebbene questo processo non si diffonda ovunque e con le stesse caratteristiche, è possibile identificare alcuni tratti idealtipici del nuovo modello.

Il PUNTO DI PARTENZA è costituito dalla crescente instabilità e frammentazione dei mercati: mancando la prevedibilità che era un requisito essenziale del modello fordista, l’investimento in macchinari specializzati diventa rischioso per i rapidi cambiamenti della domanda e l’obsolescenza dei prodotti; si comincia dunque a sperimentare una riorganizzazione per offrire più prodotti e per modificarli rapidamente in funzione di ciò che verrà domandato dal mercato.

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE Per le grandi imprese che vogliono sopravvivere si fa strada la necessità di

RIDURRE LA SEPARAZIONE TRA CONCEZIONE ED ESECUZIONE DEI PRODOTTI (tipica del fordismo), che rende la produzione di nuovi beni lenta, elaborata, e rigida. Si sperimentano così forme di decentramento dell’autorità, con unità operative più vicine agli stimoli del mercato ed in grado di operare rapidamente, e strutture centrali (più snelle) lasciate alle sole decisioni strategiche. Dal punto di vista finanziario, la grande impresa, spesso multinazionale, si trasforma in una holding che controlla altre società specializzate nei diversi prodotti;

CAMBIA L’ORGANIZZAZIONE INTERNA, e in particolare quella DEL LAVORO, e rimettendo in discussione i modelli tayloristi. La possibilità di produrre beni differenziati in serie brevi, con aggiustamenti continui rispetto alla domanda, porta alla necessità di eliminare risorse ridondanti. Si cerca dunque di ridurre gli scarti, i tempi morti e l’accumulo di scorte, sincronizzando il più possibile la produzione alla domanda proveniente dal mercato. Ciò richiede, al contrario di quella fordista-taylorista, una più attiva collaborazione e un maggior coinvolgimento della manodopera, che, per poter impiegare macchinari meno specializzati e polivalenti, devono essere più qualificati ed in grado di svolgere mansioni diverse, anche lavorando in gruppi che si compongono e scompongono a seconda delle esigenze produttive;

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE La grande impresa SI APRE ANCHE MAGGIORMENTE

ALL’ESTERNO, potenziando la collaborazione con subfornitori (spesso localizzati in aree di specializzazione produttiva) per la produzione di parti complementari, e concentrandosi più sullo sviluppo di alcune tecnologie chiave, sul design e sull’assemblaggio complessivo del prodotto finale. Per rendere poi più efficace il ruolo dei subfornitori, si tende a evitare che essi lavorino solo per la sola impresa madre, incoraggiandoli ad andare sul mercato (lavorando per più committenti, la loro capacità di apprendimento aumenta);

Come per i distretti, PARTICOLARE RILIEVO ASSUME IL CONTESTO ISTITUZIONALE (sottoforma di fattori cognitivi e normativi), che influisce sulla possibilità delle grandi aziende di adattarsi rapidamente ai modelli produttivi flessibili;

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE Vengono introdotte REGOLE ISTITUZIONALIZZATE CHE INCENTIVANO NEI

LAVORATORI UN COMPORTAMENTO COOPERATIVO, per cui il potenziamento delle capacità di apprendimento avviene attraverso una più intensa e più efficace cooperazione tra le varie strutture e i vari soggetti che lavorano nell’ambito dell’impresa. A sostegno della cooperazione, si promuove l’impiego a vita nelle grandi imprese (come in Giappone) o si tengono relazioni industriali con sindacati a livello cooperativo e concertativo; per lo stesso motivo vengono fatti investimenti in formazione professionale per più rapide ed efficaci forme di adattamento a nuove produzioni;

Un altro aspetto importante della strategia di potenziamento delle risorse cognitive per l’innovazione è costituito dall’APERTURA MAGGIORE ALLE COLLABORAZIONI ESTERNE, per cui le grandi imprese sono spinte a cercare contatti con reti di subfornitori specializzati, che sono di solito di piccole dimensioni, e sono localizzati in aree di specializzazione produttiva, o in veri e propri distretti, dove fruiscono di ampie economie esterne.

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE Nella sperimentazione di modelli flessibili c’è quindi

una certa convergenza tra la variante basata sui distretti e quella centrata sulle grandi imprese. Si allentano insomma i confini tra grandi e piccole imprese. Occorre però tenere presente che il fondamento del nuovo modello flessibile non è solo tecnologico, ma organizzativo. Sia per le grandi come per le piccole imprese, si sviluppa infatti un MODELLO ORGANIZZATIVO A RETE, fondato su un’estesa collaborazione tra aziende, che rompe la chiusura e l’integrazione verticale del modello fordista. In questo senso, i distretti possono essere visti come reti di piccole e medie imprese che tendono a formalizzarsi maggiormente nel tempo, mentre la grande azienda si trasforma in impresa–rete.

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE

LA TRASFORMAZIONE DELLE GRANDI IMPRESE Le reti funzionano come «SISTEMI DI APPRENDIMENTO», cioè come

insiemi di relazioni formali e informali che potenziano le capacità di rapido aggiustamento rispetto al mercato: non è più l’impresa a decidere i propri obiettivi produttivi e a imporli al mercato, ma è quest’ultimo, diventato frammentato e instabile, che impone processi di aggiustamento più rapidi e costosi. Le reti permettono di potenziare la velocità di aggiustamento e le capacità di apprendimento, e insieme di ridurre i costi dei nuovi prodotti, distribuendoli su un più ampio ventaglio di soggetti (e abbassando quindi i rischi). Le reti si possono costruire e possono funzionare più facilmente in questi contesti nei quali vi è un tessuto fiduciario che facilita la cooperazione, e dove vi sono istituzioni che possono generarlo e riprodurlo.

Per questo motivo la cooperazione rende le imprese – grandi e piccole – che vogliono perseguire modelli flessibili più dipendenti dall’ambiente sociale nel quale sono inserite (il modello fordista, al contrario, potenziava al massimo l’autonomia dell’impresa dall’ambiente esterno).

L’ECONOMIA INFORMALE L’economia informale, in prima approssimazione essa può

essere considerata come l’insieme di attività di produzione e distribuzione di beni e servizi che sfuggono in tutto o in parte alla contabilità nazionale; in altre parole, l’economia informale si identifica con quella invisibile o poco visibile. Questa definizione generale include però una serie di fenomeni molto diversi tra loro, che possono andare dalla pro-duzione familiare per autoconsumo, alla produzione industriale realizzata con lavoro non registrato, all’economia criminale dei traffici di droga.

In questo senso, una definizione più specifica dell’economia informale, che permette di distinguere meglio le diverse componenti, si può basare su tre dimensioni: le modalità di produzione di beni e servizi, che possono essere legali o meno; il tipo di beni e servizi prodotti, che possono anch’essi essere leciti o meno; e infine l’orientamento al mercato della produzione.

L’ECONOMIA INFORMALE Se l’economia formale è allora costituita dalla produzione

destinata al mercato di beni e servizi leciti, realizzata secondo modalità che non violano la legge, l’economia informale è caratterizzata dalla mancanza di uno o più di tali requisiti. In particolare, possiamo definire:

ECONOMIA CRIMINALE la componente informale legata alla produzione illecita di beni e servizi (anch’essi illegali);

ECONOMIA NASCOSTA (o sommersa) quella che produce beni e servizi leciti, ma con modalità che violano in tutto o in parte la legge (es. con lavoro non registrato, evasione fiscale, ecc.);

ECONOMIA DOMESTICA (o comunitaria) quella orientata alla produzione legale di beni e servizi leciti, orientata non al mercato ma all’autoconsumo familiare, o al consumo di un gruppo sociale, o di una comunità;

L’ECONOMIA INFORMALE

METODI DI PRODUZIONE PRODOTTI ORIENTAMENTO AL MERCATO

ECONOMIA FORMALE Legali Legali Si

ECONOMIA INFORMALE:

• nascosta Illegali Legali Si

• criminale Illegali Illegali Si

• domestica-comunitaria Legali Legali No

Tab. 4.1. Economia formale e informale

L’ECONOMIA INFORMALE I confini tra la sfera formale e quella informale

dell’economia sono molto fluidi e variabili: perché la distinzione regga, è necessario che ci sia un’economia formale definita da regole giuridiche precise e applicate, che delimitano e organizzano le attività economiche per il mercato (in molti paesi del Terzo Mondo o in regioni arretrate, dove manca questo requisito, risulta difficile distinguere tra le due sfere). Singole componenti dell’economia informale possono poi intrattenere relazioni tra loro e/o con pezzi dell’economia formale

L’ECONOMIA INFORMALE A partire dalla seconda metà degli anni ’70

l’economia informale (in particolar modo quella domestica e quella nascosta), ha cominciato a diffondersi in maniera rilevante nelle regioni e nei paesi meno sviluppati, passando da indicatore di arretratezza e isolamento, ad opportunità di inserimento nei nuovi spazi aperti nella divisione internazionale del lavoro.

È però la presenza del fenomeno nelle aree più sviluppate a suscitare l’interesse della ricerca. Per la diffusione ed il funzionamento dell’economia informale in queste zone, (come nelle aree meno sviluppate), ricopre particolare importanza il ruolo di specifici fattori culturali e istituzionali.

L’ECONOMIA INFORMALE Non ci sono informazioni e misurazioni precise

sull’andamento dell’economia informale negli ultimi decenni, anche se sembra che il progressivo spostamento di attività informali verso la sfera dell’economia formale, verificatosi fino agli anni ’70 abbia subito un’inversione di tendenza, collegata sia alle difficoltà del fordismo e della produzione di massa che alle difficoltà dei sistemi di protezione sociale pubblici.

L’ECONOMIA INFORMALE Relativamente al primo aspetto (DIFFICOLTÀ DEL

FORDISMO e DELLA PRODUZIONE DI MASSA), l’ipotesi è che i problemi e le trasformazioni della produzione di massa alimentino l’economia informale: Direttamente per le difficoltà occupazionali legate alle

recenti spinte verso la deregolazione dei rapporti di lavoro;

Indirettamente, per la tendenza delle aziende a delocalizzare a settori di economia informale fasi o componenti della produzione (per renderla più flessibile a costi più bassi), favorite in questo dal miglioramento delle tecnologie di comunicazione e di trasporto.

Oltre che per il diffondersi del fenomeno del doppio lavoro.

L’ECONOMIA INFORMALE Per quel che riguarda le DIFFICOLTÀ DEI SISTEMI DI

WELFARE, questa ha portato ad incrementare l’auto-produzione familiare o comunitaria di beni e servizi come conseguenza della minore, o più carente, copertura pubblica. La domanda sociale, diventata peraltro più variegata, è stata così coperta da reti di economia domestica e comunitaria basate su scambi di aiuti e forme di reciprocità (c.d. «terzo settore») o sul volontariato;

L’ECONOMIA INFORMALE Oltre alle difficoltà occupazionali e al

ridimensionamento dei sistemi di protezione sociale pubblici, altri fattori che spingono verso una diffusione di attività legate all’economia informale sono: L’elevato costo del servizi finali offerti sul mercato,

per cui, anche grazie alle nuove tecnologie che mettono a disposizione strumenti per forme di auto-fornitura di tali servizi, i consumatori (attraverso il «fai da te», o attraverso scambi di aiuti che non passano per il mercato), sono in grado di risolvere problemi che altrimenti richiederebbero costi elevati (di manutenzione, riparazione, baby–sitting …).

L’ECONOMIA INFORMALE Sebbene le logiche che alimentano l’economia informale siano diverse e complesse,

c’è tuttavia un elemento che spesso le accomuna: il ricorso a forme di reciprocità (sottoforma di relazioni sociali di tipo familiare, parentale o comunitario) come modalità regolative prevalenti.

In questo senso, con particolare riferimento alla componente dell’economia nascosta o sommersa, oltre alle condizioni già viste che incidono sul lato della DOMANDA, ovvero:

La ricerca di maggiore flessibilità nell’uso e nel costo del lavoro da parte delle imprese dell’economia formale;

Le nuove tecnologie di comunicazione e il miglioramento dei trasporti che fa-voriscono il decentramento e la delocalizzazione;

La frammentazione e la variabilità dei mercati che, insieme alle tecnologie flessibili, aprono spazi per produzioni informali in piccole imprese, per il lavoro autonomo e per quello a domicilio,

e di quelle dal lato DELL’OFFERTA di lavoro informale, ovvero Le difficoltà occupazionali e la riduzione delle forme di protezione sociale

pubblica, un ruolo cruciale alla diffusione dell’economia nascosta lo svolge il CONTESTO

ISTITUZIONALE, soprattutto quando interviene nel meccanismo di equilibrio tra domanda e offerta:

L’ECONOMIA INFORMALE RISORSE COGNITIVE: dove esistono conoscenze e

tradizioni di saper fare artigianali e commerciali autoctone (oppure importate attraverso l’immigrazione), è più facile che si organizzi un’imprenditorialità che crea e fa funzionare attività informali;

RISORSE NORMATIVE: vi sono, infatti, norme che ostacolano la domanda di attività informali e fattori che invece incoraggiano l’offerta (ad es., vincoli sono molto forti alle attività formali – rispetto alla produttività – e strutture di controllo di scarsa efficacia, portano ad un aumento della domanda);

RELAZIONI FIDUCIARIE: le reti di relazioni fiduciarie tra imprenditori, acquirenti e lavoratori favoriscono le transazioni (commerciali, di lavoro, di credito) nell’ambito dell’economia nascosta;

L’ECONOMIA INFORMALE RADICAMENTO TERRITORIALE: è un aspetto essenziale

di queste forme di economia nascosta, in quanto è nel territorio che si sviluppano meglio quelle reti di relazioni e di conoscenze che permettono la mobilitazione delle risorse (o le sanzioni di esclusione a carico di coloro che rompono i legami fiduciari), sia nei quartieri di grandi metropoli moderne – caratterizzate da comunità etniche e da gruppi di immigrazione a forte coesione interna – che in aree arretrate dove sono radicate comunità locali tradizionali, e dove la famiglia gioca un ruolo cruciale dal punto di vista economico (es. meridione di molti paesi mediterranei, latino-americani o asiatici).

LA VIA ALTA E LA VIA BASSA

I modelli produttivi flessibili contribuiscono ad accrescere, rispetto alla fase di egemonia del fordismo e della produzione di massa, la varietà delle forme di organizzazione economica. Per giungere alla flessibilità si possono identificare due vie, una alta ed una bassa: La «VIA ALTA» ALLA FLESSIBILITÀ, è basata sul

dinamismo, sull’innovazione, su condizioni di lavoro più favorevoli, su produzioni diversificate e sulla qualità. È centrata su reti di imprese (i distretti) o su imprese–rete ed è di particolare interesse per i paesi più sviluppati, in difficoltà nel competere sul solo fronte del costo del lavoro (e dei prezzi) con i paesi arretrati per produzioni standardizzate e semplici;

LA VIA ALTA E LA VIA BASSA La «VIA BASSA» alla flessibilità è invece quella che gioca

molto sul lavoro nero per rafforzare la competitività del prezzo in produzioni di minore qualità, quasi sempre radicate nell’economia nascosta, e quindi con evasione sia delle norme fiscali, sia di quelle che regolano i rapporti di lavoro.

Questa strada è certo più facile da percorrere, specie nella fase iniziale. Anche in questo caso il contesto istituzionale è in realtà importante: non basta, infatti, uno stato di disoccupazione diffusa, di carenza di reddito o di scarsa copertura del welfare, per generare attività flessibili legate all’economia informale. Esse richiedono un complesso di risorse cognitive e normative che non sono sempre presenti.

LA VIA ALTA E LA VIA BASSA In realtà, i confini tra queste modalità, entrambe in crescita, sono

molto fluidi e relativamente aperti: Perché spesso la via alta fa ricorso, per le produzioni più semplici, ad imprese

ad alta intensità di lavoro; Perché sono possibili percorsi di mobilità sia verso l’alto di sistemi

inizialmente basati sull’economia informale, sia di scivolamento verso il basso di quelli più consolidati.

La via alta è sicuramente la difficile da perseguire, anche può essere favorita dalle condizioni storiche socioculturali dei singoli territori e da scelte politiche dei soggetti locali, che costruendo delle istituzioni regolative contribuiscono a creare le condizioni per un allargamento della fiducia e della cooperazione .

Comunque, rispetto al fordismo, il rilievo assunto dai modelli flessibili tende ad accrescere le chances per gli attori locali di incidere sul loro destino attraverso un’azione politica consapevole, proprio perché valorizza di più la cooperazione come risorsa economica.

Ponendo, ad esempio, vincoli agli orientamenti volti a massimizzare gli interessi a breve, per esempio quelli delle imprese nei rapporti con i lavoratori, o quelli delle imprese nei rapporti tra loro.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Tra i modelli post fordisti, un’attenzione crescente ha

ricevuto negli ultimi anni la formazione di sistemi locali dell’innovazione.

I sistemi locali per l’innovazione sono caratterizzati dalla concentrazione in un particolare territorio di imprese di piccole e medie dimensioni specializzate in settori ad alta tecnologia, per il cui sviluppo è necessario un legame più stretto con i progresso-tecnico- scientifici.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Questi sistemi sono prevalentemente localizzati nei paesi

avanzati, e sono oggetto di particolare interesse perché rappresentano un percorso per poter competere con i paesi emergenti su un terreno nel quale contano meno i costi ( e in particolare quello del lavoro) e sono ovviamente più rilevanti. la qualificazione del capitale umano e la solidità delle strutture formative e di ricerca.

Tra i sistemi di piccola impresa in settori ad alta tecnologia, particolare rilievo assumono le biotecnologie, le produzioni di software e le telecomunicazioni, le produzioni legate ai media (film, televisione, ecc..). Si è parlato a tal proposito di distretti high tech.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Paradosso. Mentre da un lato ci si interrogava sulla

possibilità dei distretti classici di sopravvivere ai processi di globalizzazione e delocalizzazione, favoriti anche dalle nuove tecnologie della comunicazione, proprio alcuni settori di tali tecnologie sembrano svilupparsi assumendo la forma di sistemi produttivi locali di piccole imprese.

I settori interessati vengono di solito individuati in base a un elevato tasso di spese in ricerca e sviluppo e/o di impiego di personale in questa particolare attività.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Tra i settori nei quali si riscontrano queste caratteristiche

vi sono: industria aerospaziale, chimica e farmaceutica, biotecnologie, attività legate alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Questi settori sono accomunati da: 1. Divisibilità del processo produttivo; 2. Incertezza delle traiettorie tecnologiche, cioè il fatto

che le nuove tecnologie sono aperte ad esiti diversi e non ben delineati; questo rende più conveniente la sperimentazione in direzioni diverse, condotte da piccole imprese: come nel caso delle biotecnologie;

3. Elevata variabilità di mercato che richiede una continua ricombinazione flessibile dei fattori produttivi.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Per comprendere quali fattori possono spiegare la

concentrazione territoriale di piccole e medie imprese in settori high tech si debbono comprendere le economie esterne materiali e immateriali di cui possono godere le imprese radicate in un contesto locale e il tipo di beni collettivi che vengono più o meno intenzionalmente prodotti.

Le economie esterne dei distretti high tech sono in parte diverse da quelle dei distretti tradizionali.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech 1. La prima economia esterna è data dall’accesso alla

ricerca e possibilità di collegamento con strutture scientifiche e universitarie. Questa sembra essere una risorsa (bene collettivo) fondamentale sia per il continuo aggiornamento tecnologico, sia per la disponibilità nell’area di personale altamente qualificato che alimenta un mercato del lavoro locale con frequenti passaggi tra attività scientifiche e formative e impegni nel settore delle imprese. Tre tipi di istituzioni consentono di soddisfare queste condizioni: università, centri di ricerca indipendenti pubblici e privati, le strutture di R&S legate alle grandi imprese. Particolarmente importanti sono le comunità professionali, rilevanti per la circolazione delle informazioni, lo sviluppo di modalità di conoscenza tacita e di fiducia locale, il reclutamento di personale qualificato.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech 2- la seconda economia esterna è relativa alla

disponibilità di fornitori specializzati di beni e servizi per le imprese.

Particolarmente rilevanti per i sistemi locali è la presenza di operatori specializzati nel settore dei servizi. Oltre ai servizi legati ala R&S, un ruolo di notevole rilievo lo hanno i servizi finanziari, quelli di assistenza agli start up e quelli legati al marketing. La finanza specializzata, specie nella forma del venture capital, è cruciale per lo sviluppo di attività high tech, dal momento che gli investimenti in questi settori tendono ad essere più incerti e rischiosi.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Terza economia esterna è legata alla qualità del

contesto. Questa modalità chiama in causa la capacità dei soggetti istituzionali locali di produrre intenzionalmente beni collettivi attraverso processi di cooperazione efficace.

Naturalmente la disponibilità di aree adeguatamente attrezzate e a basso costo è importante per le piccole imprese. Generalmente sono presenti dei parchi tecnologici, variamente gestiti.

I distretti high tech si localizzano generalmente in città di medie dimensioni con ricche istituzioni formative scientifiche e culturali,

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech Vi sono due differenze rilevanti tra distretti high tech e

quelli classici: 1. Economie esterne legate alla generazione di

nuovi prodotti piuttosto che la loro riproduzione. Una volta scoperto un nuovo prodotto che funziona lo si può riprodurre a bassi costi. Il problema cruciale è la alla generazione di nuovi prodotti in settori in cui questo processo è più direttamente o indirettamente influenzati dal progresso scientifico. In questo senso si può parlare di una costruzione sociale dell’innovazione che è localmente radicata.

Sistemi locali dell’innovazione e distretti high tech 2- l’altre differenza è relativa alla prevalenza di città

di medie dimensioni e con un contesto scientifico-formativo e socioculturale di livello elevato che ospitano attività high tech.

Tuttavia le attività high tech non permeano il sistema locale nella misura in cui ciò avviene per le attività manifatturiere nei distretti.