La crisi come occasione di scardinamento dell’autarchia ... · paradigma dell’autosufficienza....

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La crisi come occasione di scardinamento dell’autarchia dei servizi territoriali per i Rom Per una cooperazione con le risorse del territorio in un progetto condiviso di integrazione di Alice Buoli Matteo Romanato Paper for the Espanet Conference “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in Europa” Roma, 20 - 22 Settembre 2012 Alice Buoli Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP), Politecnico di Milano e-mail: [email protected] / [email protected] tel: +39 – 3498722998 Matteo Romanato Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP), Politecnico di Milano e-mail: [email protected] / [email protected] tel:+39 – 3332704109

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La crisi come occasione di scardinamento dell’autarchia

dei servizi territoriali per i Rom Per una cooperazione con le risorse del territorio in un

progetto condiviso di integrazione

di

Alice Buoli Matteo Romanato

Paper for the Espanet Conference “Risposte alla crisi. Esperienze, proposte e politiche di welfare in Italia e in

Europa” Roma, 20 - 22 Settembre 2012

Alice Buoli Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP), Politecnico di Milano e-mail: [email protected] / [email protected] tel: +39 – 3498722998 Matteo Romanato Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DiAP), Politecnico di Milano e-mail: [email protected] / [email protected] tel:+39 – 3332704109

INDICE

1. Abstract.

2. Contesto di ricerca: La minoranza Rom, la crisi, le risposte del territorio e delle istituzioni. 1. Ambito di ricerca. 2. Metodologia.

3. Abitare l'esclusione: i campi rom: dal “cordone sanitario” intorno ad una

“popolazione spazzatura” alla lotta per le risorse. 1. Nomadi: da stanziali ad abitatori provvisori ed intermittenti. 2. Risposte pubbliche: campo, sgombero, espulsione. 3. Il meccanismo di integrazione transizionale: accesso dei Rom alle risorse. 4. Il conflitto per le risorse di tipo puntuale: l’istruzione. 5. La scuola: da risorsa contesa a strumento di integrazione.

4. Microstorie: 1. I L’edificazione in area propria (via Monte Bisbino), figura:

l’automutilazione. 2. l campo nomadi legale (via Novara), figura: il recinto. 3. Il campo nomadi abusivo (Baraccopoli Rubattino), figura: il percolamento.

1. Abstract. In un momento di crisi economica che investe il paese i margini di manovra delle strutture pubbliche sul territorio sembrano contrarsi enormemente. La risposta della collettività è ipotecata dalla paura di perdere condizioni di benessere fin qui raggiunte. In questa dinamica pericolosa il diverso: l’immigrato, il nuovo arrivato, il soggetto in situazioni di marginalità sociale rischia di essere percepito come un concorrente, un “competitor” per il lavoro, per lo spazio, per le risorse. Quali momenti di interazione nello spazio urbano hanno i Rom con gli Italiani? Come affrontano le istituzioni la compresenza delle due comunità? Come intervenire ora che la scarsità di risorse sembra investire prepotentemente il sistema del welfare? Per rispondere a questi quesiti si è intrapreso un lavoro di indagine sul territorio periurbano milanese orientato a definire, mediante osservazione, campionamenti e interviste, un insieme di microstorie relative ad un panorama il più possibile vario delle diverse modalità di reazione alla crisi da parte di istituzioni, associazioni, mondo del volontariato. Il quadro delle risposte alla domanda (o meno) di integrazione e alle richieste di tutela può costituire una base efficace per valutare la capacità delle istituzioni di infrangere il muri della diffidenza e la praticabilità dei percorsi di integrazione culturale sul lungo periodo. La ricerca sul campo ha preso quale parametro fondante l’istituzione scolastica e il suo complesso rapporto con l’intorno sociale e la stratificazione istituzionale. Tale complessità è stata intrecciata con le diverse modalità di ancorarsi al territorio delle popolazioni rom quali la baraccopoli abusiva, il campo di iniziativa comunale e la residenza di proprietà. “Cases studies” come rispettivamente via Rubattino, via Novara e via Monte Bisbino a Baranzate/Milano sono stati i capisaldi di questo percorso. A ciò si è poi aggiunta la ridefinizione del ruolo dell’attore pubblico, stimolato (o meno) dal meccanismo di ottenimento/utilizzo della risorsa (pubblica/privata, finanziaria/umana etc…). Particolare attenzione è stata data a quei casi in cui l’apertura al territorio ha consentito una risignificazione del ruolo dell’istituzione che forzando il proprio mandato ha potuto superare il paradigma dell’autosufficienza. Sono emerse quindi diverse figure interpretative territoriali che agiscono a diversi livelli: relazionale, sociale o spaziale in grado di orientare il processo sia verso il fallimento (o la stabilizzazione) che verso il successo, successo che in qualche caso si è espresso ad un livello più ampio della stessa istituzione, quello propriamente comunitario. 2. Contesto di ricerca: La minoranza Rom, la crisi, le risposte del territorio e delle istituzioni. 2.1 Ambito di ricerca. L’ambito della presente ricerca è costituito dagli insediamenti della popolazione rom nel territorio metropolitano della città di Milano. Lo scopo non è stato tanto quello di recensire il numero o la distribuzione delle concentrazioni residenziali dei Rom quanto verificare le reazioni che al contorno questi insediamenti hanno generato innescando processi virtuosi o viziosi. La domada di fondo è stata pertanto come e se la presenza di tali “enclaves” etniche nel tessuto variegato della città post-industriale abbia registrato momenti di ridefinizione del rapporto tra residenti storici e Rom nella fase dell’attuale crisi economica. Indubbiamente la ricerca di sicurezza (identitaria, economica, personale) si acuisce in un periodo che vede cambiamenti di lunga durata prendere piede nella contemporaneità. L'aumento delle paure legate all'incremento del conflitto sociale può acuirsi in periodi di crisi, generando desiderio di “protezione” e di sicurezza da parte di alcune fasce della popolazione e fenomeni di ulteriore esclusione di chi già vive ai margini in condizioni abitative precarie. Ma è altrettanto vero che in un periodo di crisi la sostenibilità della segregazione e/o

dell’autosegregazione acquista una dimensione non sempre praticabile nell’ottica di un progressivo assottigliarsi delle risorse pubbliche e private.

Fig. 1 Campo Rom comunale Via Idro 62. 2.2. Metodologia. Nel caso dei Rom nel nostro paese la necessità di “scomparire” agli occhi degli abitanti ha generato una serie di meccanismi di nascondimento, in parte condivisi con la generica marginalità sociale, che ha comportato notevoli difficoltà nell’indagine. Una baraccopoli Rom è di per sé evidente ed è in grado di attirare attenzione, rifiuto e repulsione quanto più essa denuncia la sua alterità nelle coordinate spaziali. Pertanto non è stato una caso se spesso quella che a prima vista appariva solo come una baracca provvisoria per attrezzi di un pensionato in prossimità di un orto abusivo, per giunta abbandonata, non si sia rivelata poi la sede di un’unità familiare allargata in grado di ospitare 10-15 persone. Anche quelle che a prima vista sembravano villette un po’ kitsch alla periferia de paese, quasi irraggiungibili attraverso un contraddittorio sterrato anziché un viale alberato come ci si aspetterebbe in questi casi, si sono poi rivelate residenze Rom.

Fig. 2 Campo Rom comunale Via Bonfadini 39. Un meccanismo simile, che si potrebbe definire di “nascondimento cautelativo”, opera anche presso le istituzioni. L’attore pubblico infatti, anche quando si fa carico del problema insediativi dei Rom tende a non scontrarsi con l’opinione pubblica. Per esempio se dei terrapieni coperti di vegetazione possono essere visti come il frutto di uno sbancamento cantieristico solo ad un più attento esame appaiono come un campo rom autorizzato con casemobili o roulottes etc… Persino la mappatura dei campi legali presentata nelle pubblicazioni ufficiali tende a figurare nello spazio la loro

localizzazione molto più periferica di quanto non sia in realtà. Per questi motivi l’indirizzo metodologico ha dovuto ricorrere alla mediazione di quegli operatori che sono stabilmente in contatto con i residenti i quali rifiutano spesso il contatto e la supervisione di elementi che non godono ancora della loro fiducia. Attraverso i sopralluoghi è stato possibile approfondire con maggiore dettaglio la situazione di singole realtà, anche allo scopo di verificare (o smentire) i risultati delle prime indagini. Sono state individuate, quindi, alcune “figure” emergenti dal territorio, non riconducibili a caratterizzazioni formali, ma piuttosto a modalità di accostamento e compresenza dei materiali urbani osservati e delle pratiche abitative ad essi connesse. In particolare sono state assunte tre microstorie corrispondenti a tre figure territoriali. 1/ Automutilazione. via Monte Bisbino (Baranzate). 2/ Recinto. via Novara (Milano). 3/ Percolamento. Via Rubattino (Milano).

3 Abitare l'esclusione: i campi rom: dal “cordone sanitario” intorno ad una “popolazione spazzatura” alla lotta per le risorse. 3.1 Nomadi: da stanziali ad abitatori provvisori ed intermittenti. Buona parte di quelli che si definiscono oggi “nomadi” sono in realtà popolazioni di etnia “Rom”, il più delle volte originarie dell’est-Europa, insediate da tempo sotto forma di comunità etnicamante ben riconoscibili dal resto della popolazione. Con tali gruppi etnici “ospitanti” intrattenevano rapporti comunque complessi e spesso conflittuali ormai da secoli. Spesso infatti una “specializzazione” professionale (calderai, fabbricanti di mattoni, allevatori di cavalli etc..) si sovrapponeva ad una condizione sociale disagiata che andava a definire sottilmente una discriminante a più livelli. In ogni caso la cosiddettà “Zigania”, un quartiere abitato da Rom, affiancato al quartiere della popolazione maggioritaria dell’area, era ed è spesso in questi contesti un elemento ricorrente del paesaggio al pari degli “shtetl” ebraici d’anteguerra(1). Stanziali nella loro terra, queste popolazioni legate da vincoli familiari patriarcali, sono state spinte a partire dalla loro sede sia dalle vicende belliche, sia dalla progressiva marginalizzazione di attività economiche non compatibili con il progresso tecnologico. Non è inutile qui ricordare come “ I mestieri tradizionali sono entrati in crisi in un processo che si è accelerato con gli anni Settanta man mano che la moderna economia di mercato faceva scomparire i residui spazi economici “arcaici” (2). La popolazione nomade, giunta in situazioni di grave disagio in Italia, al pari e forse più degli immigrati irregolari, ha subito un processo classico di espulsione dalla città compatta. In questo caso non pare errato sostenere che, come i territori periurbani hanno accolto spazi “spazzatura” quali inceneritori, depuratori, impianti di rottamazioni etc….allo stesso modo sono diventati un luogo verso cui si è potuto confinare la funzione di discarica sociale per quelle popolazioni “indesiderate” dalla compagine cittadina e perciò allontanate(3).

Fig. 3 Rom in transito. Le modalità di aggregarsi delle comunità straniere in un paese ospitante nel processo di immigrazione e la loro configurazione spaziale sono ormai note. Tale disposizione, nel caso dei Rom, si fonda anche sulla particolare struttura comunitaria dei legami parentali e su una diffidenza atavica nei confronti dei “Gagi” (non Rom n.d.r.) ma questa “segregazione attiva” finisce con il sovrapporsi ad una “segregazione passiva” operata dalla società maggioritaria che ritiene intollerabile, pericolosa, antitetica la presenza diffusa sul proprio territorio di una gruppo etnico da cui si sente minacciata (4).

Ma la minaccia non viene però eliminata dall’auto-isolamento informale (che spesso acquisisce i caratteri dell’invisibilità proprio per non destare reazioni) tanto che tali spazi vengono sgomberati più o meno spesso fino a rendere strutturale la provvisorietà della presenza Rom. Anche il risultato del confinamento forzato (campi nomadi comunali) comunque mantiene un carattere minaccioso (proteste di abitanti, manifestazioni etc…) che si sostanzia della medesima matrice (5). L’abitabilità dello spazio per queste popolazioni acquista dunque, nelle periferie in cui vengono confinate, le caratteristiche della provvisorietà e dell’intermittenza. Provvisorietà perché, anche come testimoniano i contatti presi con gli operatori, i successivi sgomberi dei campi interessano in definitiva sempre le spesse persone che ormai orbitano, di baraccopoli in baraccopoli, attorno al capoluogo sulla scia delle espulsioni. Intermittenza perché sia il desiderio di ritornare ai luoghi natii, sia l’appoggiarsi nelle difficoltà a parenti nel resto d’Europa, sia la spinta ad investire i propri risparmi nel villaggio d’origine una volta raggiunta una somma adeguata comporta un’estrema variazione numerica della popolazione “nomade” intorno alla città compatta. 1) Luciani A.,”Un popolo senza territorio e senza nazionalismi: gli zingari dell’Europa orientale, in A. Roccucci (a. c.), "Chiese e culture nell’Est europeo", Ed. Paoline, Milano 2007. 2) Cuomo C. “Ma come fanno a vivere questi Zingari” in Opera Nomadi di Milano, “Gli Zingari”, a.c. A. Arlati, F. Manna, C. Cuomo, “Il Calendario del popolo”, 52. 1997. 3) Raffestin “Pour une géographie du pouvoir”, des Libraires Techniques, Paris 1981. 4) A.Dal Lago “Non-persone”, Feltrinelli, Milano, 1999. 5) M. Foucault “Securité, territoire, population”, Seuil-Gallimard, Paris 1997.

3.2 Risposte pubbliche: campo, sgombero, espulsione. La baraccopoli-Rom quindi somma in sé più funzioni: da un lato è una codifica spaziale di una comunità che tende a riunirsi ai suoi simili con dinamiche che operano a diversi livelli ma dall’altro è anche il luogo dell’abitare precario e emergenziale. Dal punto di vista dell’attore pubblico l’istituzione di campi “nomadi”comunali è stata vista innanzitutto come uno strumento amministrativo (il principale nell’affrontare il problema) orientato essenzialmente al controllo di una popolazione ritenuta “inintegrabile riproponendo spesso sotto forme degradate un modello culturale (non sempre reale) che si ritiene proprio di quella popolazione. Pertanto il degrado sociale, culturale, igienico di un modello in definitiva segregante contribuisce a creare quella che Brunello ha definito un’”Urbanistica del disprezzo”( 6) che lega ad un territorio limitato, marginale, spesso sovraffollato, in continua tensione tra gruppi etnici a volte nemici. In definitiva in questi luoghi si attua una segregazione da parte di un contesto che ritiene tali abitanti incompatibili con la presenza e le attività di chi si percepisce il proprietario legittimo del territorio. Vale la pena indagare quali siano le modalità con cui questa incompatibilità si manifesta nella città contemporanea. Clara Cardia(7) ha individuato nella “domanda di sicurezza” almeno quattro livelli di intensità che muovono le scelte e le motivazioni dei cittadini residenti:

1) In primo luogo la domanda di sicurezza investe a livello più elevato la paura di essere vittima di intimidazioni, atti violenti o aggressioni a beni o persone.

2) In secondo luogo, scendendo gradualmente di intensità, si manifesta il disagio dovuto alla rottura dei codici di comportamento ritenuti accettabili dalla società (sputare o orinare in pubblico, accattonaggio aggressivo etc….).

3) La terza dimensione riguarda la rottura del codice di cura del territorio (pulizia delle strade, illuminazione dello spazio pubblico etc…).

4) La quarta investe la “percezione dell’insicurezza”, non l’insicurezza come tale con cui non sempre v’è un legame effettivo. Il legame forte è in questo caso piuttosto con lo spazio urbano ritenuto squallido, con la mancanza di frequentazione del quartiere etc…)

5) La quinta ha a che vedere con la paura in senso soggettivo e articolato, non legata ad una effettiva pericolosità del contesto spaziale o sociale dell’intorno.

Fig. 4 Rom sul territorio.

Se poniamo attenzione alle problematiche imposte spesso dalla presenza dei Rom nei nostri contesti urbani vediamo come bene o male tutte queste dimensioni siano toccate. Purtroppo infatti fenomeni di danni al patrimonio (o a persone, nel caso di soggetti deboli), di accattonaggio molesto, problemi di igiene e di degrado del territorio circostante i campi (spesso caratterizzati da squallore diffuso), per non citare ataviche percezioni di pericolo legata alla comunità Rom sono tutti elementi che concorrono a caratterizzare la presenza di queste popolazioni in maniera negativa. In più, a differenza dell’immigrato generico, di cui viene percepita comunque una qualche utilità sociale quando questa si traduce in un’attività lavorativa, una presenza discreta, un rispetto delle leggi e un’assenza di rivendicazioni il soggetto rom non può godere di un seppur minimo credito da parte della società che dovrebbe accoglierlo(8). Pertanto è evidente che l’insediamento rom assuma sempre più di frequente nelle nostre città la connotazione di uno spazio “radioattivo” per eccellenza. Una sorta di buco nero che crea il vuoto al proprio intorno, degrada e assorbe nel suo squallore quello che lo circonda tanto da essere quindi respinto ai margini della città, tenuto a bada tramite un ferreo “cordone sanitario” repressivo, il cui destino è spesso di abbinarsi a veri spazi “spazzatura” gli unici con cui può condividere una soluzione di marginalità senza creare troppo scontento. Inevitabile, anche ciò testimoniato dalle interviste con gli operatori del volontariato che la politica strumentalizzi una tale situazione di paura e repulsione. Il passo conseguente infatti non può che essere l’eliminazione di questo spazio dal contesto abitato: una “bonifica sociale” che assume i connotati ormai noti dello “sgombero forzato”. La distruzione dello spazio fisico fonte di contaminazione. Tale operazione di chirurgia sociale (spesso fittizia) prelude inevitabilmente poi al salto di scala costituito dall’espulsione di tale popolazione: in pratica uno sgombero non più dalla baraccopoli (confinata) ma dallo spazio esteso e continuo del territorio urbano e nazionale. 6) Brunello P. “L’urbanistica del disprezzo. Campi rom e società italiana”, Manifestolibri, Roma, 1996. 7) Clara Cardia “Urbanistica per la sicurezza”,In “Territorio” n°32/2005 8) Ambrosini M. “Sociologia delle Migrazioni”, Il Mulino, Bologna, 2005.

3.3 Il meccanismo di integrazione transazionale: accesso dei Rom alle risorse. Nel contrastare gli assunti diffusi nel capitolo precedente si può invocare il principio che non vi siano etnie intrinsecamente refrattarie alla convivenza civile constatando come la messa in campo di strategie di sopravvivenza nella marginalità, pur variando a seconda delle comunità e dei luoghi, assuma connotati più contingenti che strutturali(9). Abbastanza assodato resta perciò come la non integrabilità che si ritiene tipica dei rom appaia spesso una forma aprioristica di rifiuto di quel carattere “transazionale” che investe ogni forma di integrazione. E’ quindi il caso di studiare le modalità con cui il popolo Rom si relazione con l’intorno sociale e territoriale in cui va ad insediarsi

Fig. 5 Propaganda di estrema destra (rumena)contro i Rom. Quali sono le risorse a cui ricorrono i Rom nella città contemporanea della crisi? Essenzialmente, dai colloqui con i volontari emerge che i Rom ricorrono a scuola e pronto soccorso come principali legami con figure istituzionali che erogano servizi sul territorio. L’accesso al pronto soccorso è dettato soprattutto dalla constatazione che la loro condizione di clandestini non comporta necessariamente la denuncia per cui si va al pronto soccorso anche per situazioni non gravi ma grazie alle quali riescono ad ottenere medicinali a basso costo”(10). Paradossalmente per malattie più gravi come l’epatite A o altro non sempre si riesce ad agganciare la comunità per un percorso di cura strutturato per il quale a volte si ricorre ad un rientro nel paese d’origine. Anche la scuola può spesso avere una percezione falsata della sua funzione. E’ questo il caso di molti genitori rom che, almeno in una prima fase, hanno iniziato a mandare i figli a scuola per poter ottenere il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 31 del d.l. 286/1998 (11) e anche qui la continuità didattica non sempre riesce a realizzarsi (almeno nei primi tempi) per una mancata introiezione delle funzione didattica (e non strumentale) della scuola se non per l’opera dei volontari che frequentano il campo. La posizione dei Rom nei confronti della scuola resta infatti di difficile definizione apparendo piuttosto sfumata e, agli occhi di un osservatore esterno, non priva di contraddizioni. Infatti da un lato iniziano a percepirne l’utilità in quanto capace di dotare i ragazzi di quegli strumenti che consentano loro muoversi con una certa autonomia nel mondo che li circonda. Ma d’altro canto diffidano fortemente di un’istituzione che, a loro dire, può inculcare valori diversi da quelli della cultura d’origine e allontanarli dalla comunità di appartenenza.(12). Ma al di là della limitatezza di questi approcci e della manifesta strumentalità del ricorso a figure e istituzioni territoriali è da notare che tali contatti sono il primo gradino che consentesi agganciare, anche marginalmente queste popolazioni. In una società come quella Rom dove il rapporto interpersonale basato sulla fiducia o sulla parentela è pressoché l’unica forma di legame valido

anche piccoli gesti semi-strutturati come questi possono essere cruciali. Basti a questo proposito pensare come il matrimonio rom sia valido non tanto per la presenza di un qualche ministro del culto (cattolico, ortodosso o musulmano) quanto dal riconoscimento che il gruppo clanico allargato testimonia in occasione della festa di nozze che raccoglie infatti come spettatori-testimoni una rete di parenti estesa spesso a livello continentale. 9) Revelli M. “Fuori Luogo. Cronaca da un campo Rom”, Bollati Boringhieri, Torino 1999. 10) Tosi A. “Vivere ai margini, un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia”, Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2007. 11) Tosi A. “Vivere ai margini, un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia”, Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2007. 12) Morelli B. “La scolarizzazione dei Rom e dei Sinti. Educazione o diseducazione”, dal sito http://sucardrom.blog.tiscali.it,2006.

3.4 Il conflitto per le risorse di tipo puntuale: l’istruzione. Sotto questo aspetto il problema va osservato anche dal punto di vista si chi è “fuori dal campo nomadi” In un periodo di crisi finanziaria globale infatti è chiaro come i residenti storici, che nel tempo hanno acquisito livelli di benessere diffuso, si sentano ora minacciati in quelle che credevano conquiste consolidate dal punto di vista sociale, economico, ambientale etc…A maggior ragione bisogna considerare come l’accesso alle risorse del territorio da parte dei Rom venga visto da chi questi servizi nel tempo ha contribuito a costruirli. Se la crisi non è “falsificabile” due sono le possibili tendenze in atto da verificare. Da un lato si potrebbe prospettare una tendenza all’ esacerbarsi della conflittualità, in un periodo di risorse decisamente scarse, con un irrigidimento delle proprie posizioni di preminenza in seno alla società da parte dei residenti storici sul territorio. Dall’altro in virtù di un probabile livellamento verso il basso del livello sociale di una quota consistente di questa popolazione potrebbe nascere un ammorbidimento delle posizioni vuoi per una mancanza di alternative valutabili (troppo costose), vuoi per una necessaria richiesta di costruzione di una comunità inclusiva in grado di rafforzare le tutele già scarse che la compagine pubblica può offrire. Comunità che, sul lungo periodo, potrebbe anche incominciare a comprendere la società Rom a partire almeno dagli elementi già inoltrati sul processo di integrazione innescando quel meccanismo “transazionale” già accennato. Da questo punto di vista si può affermare che l’istituzione scolastica costituisca un servizio territoriale “strategico” e insieme “sensibile”. “Strategico” in quanto che la scuola è stata ed è il principale attore di politiche di integrazione di stranieri e nuovi arrivati nel nostro paese dopo essere stata negli ultimi 50 anni il principale veicolo di promozione sociale della popolazione italiana. Tappe fondamentali dal punto di vista dell’integrazione scolastica sono la circolare ministeriale 207/1986 che impone l’obbligo scolastico ai bambini rom e parimenti alla scuola l’obbligo di favorire la frequenza di questi alunni e le circolari 301/1989, 205/1990 fino alla 73/1994 che ribadiscono la natura interculturale del processo di integrazione. Pur nella settorialità degli interventi è chiaro quindi che la scuola è forse l’unica istituzione in grado di agganciare a vari livelli e con risultati discontinui la popolazione nomade e di metterla in contatto stretto con i residenti storici. Tale aggancio diviene sempre più necessario se teniamo presente, come già accennato, che la società tecnologica e post-industriale “è sempre più estranea ed aliena rispetto al mondo rom, che in essa non trova più spazi di sopravvivenza dignitosa”.(13). Basti pensare a questo proposito come molte famiglie rom in occasione della crisi economica hanno intrapreso un processo di migrazione verso Germania e Italia anche, a loro dire, per offrire un’occasione ai propri figli. “Sensibile” in quanto è un servizio uniformemente diffuso sul territorio (qualche difficoltà permane nelle scuole montane o in piccole isole) con un servizio qualitativo abbastanza omogeneo sul territorio nazionale se non per le risorse materiali e le strutture (che dipendono dall’autorità locale) quanto per il livello di competenze base che per legge deve fornire in maniera indifferenziata in tutto lo spazio di sua competenza (l’esame di stato ha valore legale in ambito nazionale e certifica la preparazione dello studente). La maggioranza della popolazione italiana infatti continua a ricorrere alla scuola pubblica dell’obbligo e all’interno di essa si incontrano e confrontano le diverse classi sociali, le diverse componenti culturali e le diverse provenienze etniche. Permanendo quindi l’istruzione dei figli un investimento di primaria importanza la scelta della scuola, il rapporto con quanto avviene tra le mura dell’istituto, con il progresso didattico della classe e con le tensioni che in essa si possono verificare possono essere lette come barometro delle modificazioni e delle difficoltà che i residenti storici si trovano a dover gestire sia con i neo-arrivati sia con quelli che, come abbiamo visto, sono definiti gli “inintegrabili”: i Rom.

13) Scalia M. “Le comunità sprovviste di territorio, i Rom, i Sinti e i Caminanti in Italia”, Ministero dell’Interno-Dipartimento per le libertà civili e immigrazione, Roma 2006.

3.5 La scuola: da risorsa contesa a strumento di integrazione. Come abbiamo visto la scuola italiana si è presa in carico la popolazione Rom già da tempo e questo è testimoniato da numerose iniziative prese in sedi istituzionali come il ministero dell’istruzione e il provveditorato che opera a livello provinciale 14).

I processi in atto nella scuola, come rilevati dalla presente ricerca rivelano strategie ed esiti differenti e articolati (anche contraddittori), che sembrano delineare scenari oscillanti. La risposta delle strutture presenti sul territorio configura una quadro variegato di cui si possono rintracciare le diverse matrici e i diversi esiti. Vi sono in atto infatti molteplici soluzioni e direzioni di processo in base alle tipologie di risposta che in diversi casi sono state approntate. Tra queste è possibile comunque riconoscere le forme progressive di adattamento alla crisi (così come pure gli elementi di criticità). Un primo caso analizzato riguarda la scuola media statale "G.Galilei" del comune di Baranzate che accoglie i ragazzi nomadi dell’insediamento di via Monte Bisbibino. Un primo sguardo problematico sul contesto testimonia la difficoltà delle istituzioni a rapportarsi con quest’area che i nomadi hanno realizzato abusivamente su suolo di proprietà. Trovandosi le abitazioni nel comune di Milano, pur avendo accesso dal comune di Baranzate, quest’ultimo ente istituzionale, appellandosi alla forma del diritto, non considera di sua competenza il quartiere rom che si affida comunque al suo territorio per i servizi tra cui la scuola. Questa a sua volta pur accettando i ragazzi nell’attuare il processo di integrazione percorre i canali istituzionali preposti che in un periodo di taglio delle risorse aggiungono la scarsità dei fondi all’indubbia rigidità delle procedure, delle figure, degli attori. Il risultato è una notevole criticità ad innescare un processo virtuoso per cui si registra addirittura un abbandono della scuola media da parte delle popolazioni residenti che si dirigono in un altro comune. Il secondo caso, quello della scuola Benedetto Marcello di via Benjamen Constant a Milano che accoglie i nomadi di via Novara, registra un discreto successo seppur limitato all’istituzione stessa. Le modalità di approccio sono qui alquanto diverse. Innanzitutto si procede ad una consultazione con i presidi delle altre scuole per suddividere la popolazione studentesca su più unità al fine di non creare masse critiche all’interno delle classi nell’ottica che i Rom non sono dell’istituto ma della città. In secondo luogo per i processi di integrazione si ricorre ad un’apertura al territorio ricorrendo a fondi e sistemi di cooperazione allargati a più soggetti. Gli stessi responsabili del processo pur denunciando il taglio di risorse pubbliche si dichiarano ormai consapevoli che il loro ruolo è (anche) quello di ricercatori e distributori di fondi in un dialogo continuo con la città e le sue istituzioni. A differenza del caso precedente il successo formativo non registra l’esodo della popolazione italiana che, pur con difficoltà, sta imparando a gestire la convivenza anche all’interno della scuola. Il terzo caso è quello del pieno successo delle scuole elementari di via Feltre, via Cima, via Pini a Milano che hanno accolto i Rom della baraccopoli di via Rubattino. In questo caso il processo di avvicinamento della popolazione nomade alla scuola è stato gestito dai volontari in maniera graduale con un dialogo continuo e mediato in varie forme (incontri, sportelli aperti nella scuola stessa etc…) per rassicurare i genitori italiani. Il risultato è stato non solo una accettazione piena da parte degli abitanti ma anche, in occasione degli sgomberi cui è stato soggetto il campo, una manifestazione di solidarietà concreta (cibo, generi di prima necessità, coperte, alloggi in casa dei cittadini). Ciò ha fatto emergere un desiderio di socialità che ha coinvolto per la prima volta anche i Rom. In questo caso la scuola si è posta quindi anche come centro territoriale e di raccolta di queste esigenze (oltre che dei beni donati dalla comunità) qualificandosi come l’istituzione chiave, aperta al territorio in grado di incanalare la fiducia di entrambe le popolazioni. In pratica la scuola è

divenuta il centro della socialità obbligata in cui il processo di conoscenza tra i due soggetti è avvenuto in maniera articolata, flessibile, disarticolando e scavalcando, anche grazie alla crisi stessa, quelle rigidità del sistema che hanno reso prigioniere altre istituzioni. Il processo ha quindi per un certo verso “forzato” il compito istituzionale della scuola che però, allargandosi al territorio ha riversato gli effetti positivi di un incontro interpersonale tra maestre, genitori e alunni sullo spazio sociale del quartiere facendosi promotrice di una vero processo di integrazione, anche opponendosi ad altre istituzioni pubbliche che intendevano strumentalizzare politicamente la vicenda. 14) Csa di Milano “Minori nomadi nelle scuole di Milano e provincia” rilevazione di Aprile 2005.

4. Microstorie: 4.1 L’edificazione in area propria (via Monte Bisbino), figura: l’automutilazione.

La localizzazione di famiglie Rom sull’area di via monte Bisbino trae origine da un insediamento spontaneo poi radicatosi in seguito all’acquisto dell’area. Questo caso è stato ampiamente studiato in letteratura(15). L’accesso all’insediamento avviene dal comune di Baranzate attraverso un’area di proprietà industriale che nasconde alla vista l’insediamento. L’area però è posta interamente in territorio milanese. La dicitura “Via Monte Bisbino” infatti è stata data in pratica al prolungamento della strada autonomamente costruita dai residenti in territorio milanese (che quindi ufficialmente non esiste a Milano). Pertanto il comune di Baranzate ignora totalmente questa parte di territorio che ufficialmente non è di sua competenza (ma che funzionalmente grava su di esso) in un processo quasi obbligato che potrebbe essere definito di “automutilazione”. Una delle prime figure ad intervenire nel quartiere è stato Maurizio Pagani (Presidente di opera Nomadi Milano) che riporta in merito le sue considerazioni: “Nel quartiere di via Monte Bisbino il primo passo di un processo di integrazione risale al 2008 quando, in seguito all’ordinanza Berlusconi sorge l’esigenza di mandare i propri figli a scuola al fine di avere una forma di protezione, in quanto extracomunitari, di fronte alle possibili istanze di espulsione. Anche se noi, come opera nomadi, attualmente non siamo più presenti all’interno dell’insediamento possiamo dire di essere stati i primi a passare il confine circa 15 anni fa. Una donna rom che già agiva da legame con il vicino carcere di Bollate ha intrapreso una forma di contatto anche con la scuola. Purtroppo però non si è mai riusciti a far corrispondere all’interno delle famiglie una rottura di comportamenti per cui queste reindirizzavano i ragazzi verso forme illecite di vita.” La complessa situazione territoriale-amministrativa è testimoniata anche dagli operatori di pubblica sicurezza locali. Un agente intervistato in merito riferisce: “Il problema della presenza nomade va distinto tra i residenti fissi e gli occasionali che arrivano in occasione di sgomberi per esempio. Il numero resta piuttosto elevato comunque. Purtroppo non rispettano le regole: quasi mai sono a posto con i documenti. Spesso ci sono minorenni alla guida. Nel caso di incidenti stradali con fuga del conducente spesso si tratta di nomadi. Ce ne accorgiamo perché le macchine sono spesso intestate a prestanomi (più di 200 veicoli) anche italiani. Il rapporto con la cittadinanza non è dei più felici. Per esempio ci sono furti in appartamento durante tutto l’anno. Noi non possiamo entrare nel campo in quanto non territorio comunale a meno che non si tratti di fragranza di reato. Altri problemi possono essere causati da

comportamenti che non sono reato ma che creano tensione come la presenza di 10-15 giovani di fronte ad un bar. Recentemente i tagli ci sono stati e sono pesanti. Noi cerchiamo di ottemperare comunque al nostro dovere. Strutturiamo il servizio su due turni per cui non abbiamo la copertura serale ma facciamo comunque gli straordinari a Natale e nel periodo estivo o in occasioni particolari. In ogni caso cerchiamo sempre l’integrazione con le forze del comune di Milano.” Attualmente anche le difficoltà di comunicazione e collaborazione tra attore pubblico (scuola e comune) e Rom sono notevoli come testimonia l’indagine sul territorio. Per esempio la consegna di lettere alle famiglie avviene per mezzo dell’affidamento a mano all’alunno stesso ma non c’è mai un report effettivo dei genitori. Se poi viene mandata una lettera ufficiale a qualche famiglia la risposta da Milano è che la via non esiste e da Baranzate che la via è a Milano. La comunicazione risulta difficile soprattutto per l’erogazione dei servizi. I servizi che la popolazione nomade richiede sono essenzialmente la mensa scolastica e il pre- e il post-scuola. Si tratta di servizi offerti alla scuola elementare: nel primo caso c’è un servizio di ristorazione, nel secondo la possibilità di lasciare i bambini prima dell’inizio della scuola (dalle 7:30 alle 8:30, il pre-scuola) e dopo la fine delle lezioni (dalle 16:30 alle 18:00, il post-scuola). I nomadi lo richiedono ma poi spesso non pagano. Comunque si è sempre cercato di venire incontro alle famiglie Rom. Nel caso della mensa delle elementari anche se ufficialmente sono sospesi dal servizio nessuno ha mai rifiutato di dare da mangiare ai bambini anche perché la mensa è obbligatoria. Il quadro della presenza rom nella scuola comunale è qui molto complesso. I disagi sono grandi ma in concreto l’aspetto più problematico risulta l’alto numero degli studenti rom in proporzione nelle classi. In tutto l’istituto (comprese la scuola dell’infanzia che pochi Rom però frequentano) ci sono su circa 900 alunni almeno una sessantina di Rom. Ciò significa una presenza di 5 o 6 ragazzi per classe alle medie difficilmente gestibili. Molti sono bocciati per le assenze, la mancanza di studio etc…quasi mai hanno il materiale scolastico con sé. Raramente terminano il percorso di studi e poi a 16 anni passano al CPT di Limbiate (istituto per adulti in grado di far conseguire la licenza con un programma limitato). Un grosso problema è la mancanza di risorse. Una fonte di finanziamento deriva del progetto “Persepolis” della Fondazione Cariplo. Si tratta di un’articolazione con strutture del territorio (cooperative, oratorio) per l’integrazione degli stranieri usta per mandare figure educative nei periodi di doposcuola al campo. Anche il provveditorato contribuisce con una cifra ai progetti di contatto con i ragazzi (nell’ambito dei contesti a forte processo immigratorio) ma è una risorsa spalmata sui tre ordini di scuola per cui alla fine sui tratta di poche ore. Recentemente è stata avanzata la richiesta di passare da scuola “a forte processo migratorio” a scuola “a rischio migratorio” che necessiterà anche dell’approvazione del comune e della prefettura per poter accedere ad un regime particolare. Il problema più grave risulta però nel rapporto con gli Italiani. Da un lato infatti la crisi fa aumentare l’insicurezza. In questi ultimi tempi c’è stato tra la popolazione italiana un crescendo graduale del numero di richieste di riduzione del costo della mensa (padri di famiglia licenziati etc…) per cui ormai il 40% ha una tariffa agevolata. Il taglio delle risorse ha poi determinato la riduzione dei servizi per cui per esempio il servizio di sostegno educativo per i ragazzi disabili lo offre il comune solo quando può. D’altro canto i genitori italiani si lamentano dell’utenza scolastica e la diminuzione è quantificabile per esempio già alle elementari dove si registra la differenza tra gli alunni “obbligati” che per bacino d’utenza afferirebbero all’istituto scolastico di competenza e quelli che poi effettivamente si iscrivono o tra gli iscritti alle elementari e il passaggio alle medie.

Questo è un elemento centrale della crisi in atto: i genitori iscrivono in propri figli a Novate e Bollate. Di fronte alle vessazioni e alle minacce i genitori affermano chiaramente che se la scuola non sa risolvere i problemi ci pensano loro spostando i figli. Ogni anno almeno 20-25 alunni mancano all’appello di iscrizione della prima media: in pratica è una classe sulle 3 o 4 che si potrebbero comporre e che manca all’appello. 15) Riferimenti:

Tosi A. “Vivere ai margini, un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia”, Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2007.

Sarcinelli A. S. «Ce que tolérer veut dire. Une «quasi-exclave» habitée par des Roms aux portes de Milan (Italie)”. Institut de Recherche Interdisciplinaires sur les Enjeux Sociaux – Sciences sociales, politique, santé - (EHESS).

Tosi A. Ambrosiani M. “Favelas in lombardia. La seconda indagine sugli insediamenti Rom e Sinti. Rapporto 2008”. Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2009.

AA.VV. « Insieme a scuola. Alunni stranieri e attività interculturali nelle scuole della Lombardia. Seconda indagine”. Quaderni ISMU n°2/200, Milano 2000.

Augé M. “Tra i confini. Città, luoghi , integrazioni”, Mondadori, Milano, 2007. Campomofori F. “ Gli operatori dei servizi per gli immigrati: attori del policy making

locale?” in Ambroisini M. (a.c.) “Costruttori di integrazione. Gli operatori dei servizi per gli immigrati”, Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2006.

Comune di Milano, Prefettura di Milano “Patto per Milano sicura. Patto per la sicurezza urbana tra il Prefetto e il Sindaco di Milano, 18 Maggio 2007.

4.2 Il campo nomadi legale (via Novara), figura: il recinto.

Il campo nomadi comunale di via Novara 523 si situa poco oltre il “Bosco in città” all’uscita dell’abitato compatto delle città di Milano. L’area è piuttosto lontana e si trova in una posizione intermedia tra i due comuni di Milano e Settimo milanese che non risultano nemmeno visibili dal contesto. Si tratta di una caso già noto e studiato in letteratura(16). Quello che è importante qui richiamare è che si tratta di un campo classico che ripropone il modello segregazionale del recinto. La popolazione rom, indipendentemente dalle compatibilità interne, viene rinchiusa in uno spazio determinato fino a creare conflitti inevitabili. Un recinto al cui interno può dunque accadere di tutto purché “tutto” accada lì e non turbi la società ordinata che ne ha voluto l’istituzione. Pur in questo contesto difficile la scuola ha ottenuto buoni risultati applicando strategie articolate come vedremo. Per inquadrare meglio il fenomeno di un campo rom classico come via Novara è utile richiamare qui il parere di figure intellettuali che da tempo si occupano di Rom e razzismo. Alfredo Alietti (Docente di Sociologia del Territorio presso l’Università di Ferrara) riporta in merito al razzismo contemporaneo interessanti considerazioni: “Il rifiuto del diverso, nella fattispecie dei Rom, con eventi anche drammatici di ostilità, lanciano un grido d’allarme sulla crisi della matrice antirazzista della nostra società. Il razzismo contemporaneo non si pone più su un piano biologico ma si è spostato concentrando le sue mire sull’etnia e sulla cultura di certe popolazioni ritenute “in integrabili” con la nostra civiltà. Inoltre il diverso è un “competitor” per le risorse scarse (case popolari, minacce dovute alla microcriminalità etc…). Nel caso dell’immigrazione dal Sud negli anno 60/70 c’erano grandi agenzie integratrici che oggi non ci sono più (PCI, DC, parrocchie) per cui il meccanismo non solo non funziona più ma oggi non è neppure considerato vergognoso considerarsi totalmente oppositivi all’insediamento di Rom e Sinti.” E ancor più nello specifico sulla crisi e l’antiziganismo: “Nell’ottica di presentare il diverso come un configgente per le risorse sul territorio non si può non riconoscere che la crisi economica contribuisce ad esaltare il razzismo. Lo stesso antirazzismo è negli ultimi tempi caduto nella trappola di coltivare il suo orticello. Per esempio non parla mai di disuguaglianze sul territorio. Se consideriamo per esempio il tema della risorsa abitativa vediamo come spesso venga veicolato il messaggio che propone l’immigrato o il Rom come l’usufruttuario finale dell’housing sociale. Il messaggio è falsato perché se da un lato le domande degli stranieri sono il 40% le richieste poi effettivamente accolte sono solo il 2%-3%. Anche la scuola, che potrebbe rispondere al problema e che propone un modello interculturale non funziona. Il multiculturalismo di fondo non può funzionare perché, in definitiva, oscura e segrega a sua volta il tema della lotta per le disuguaglianze sul territorio che, per certi versi, solo il terzo settore sa ormai tematizzare.”

Una personalità inoltre che a lungo si è occupata di Rom nel contesto milanese, e quindi figura obbligata di riferimento, è Antonio Tosi (Docente di Sociologia dell'Ambiente e del Territorio presso il Politecnico di Milano. Facoltà di Architettura). In merito a questo tema Tosi sostiene che: “La presenza dei Rom sul territorio è sostanzialmente limitata e spesso poco visibile. Anche se le baraccopoli sono spesso costituite da parte popolazione immigrata non-Rom il meccanismo di segregazione della popolazione nomade affonda le radici nell’antiziganismo che in questi ultimi tempi (non solo in Italia) si è esacerbato. E’ difficile dire se la segregazione spaziale di queste popolazioni sia aumentata o meno dato che le dinamiche spaziali non sono sempre speculari alla marginalizazzione. Certo è che la “costruzione collettiva del nemico” ha fatto un balzo in avanti negli ultimi 4-5 anni e i Rom sono al vertice della piramide come sostiene Vitale(17)”. In merito alla crisi del welfare e Rom nel sistema scolastico il parere di Tosi risulta molto critico: “Nella popolazione italiana la competizione per le risorse in seguito alla crisi verte soprattutto sul lavoro e si confronta con gli immigrati regolari e non. Con i nomadi la questione pare più sfumata anche se è certo che i tagli del welfare colpiscano anche la scuola la quale non è comunque una risorsa scarsa. I bambini Rom vanno in genere in un numero di scuole ristretto (la più vicina o la più ospitale) e si concentrano in pochi istituti per cui casomai il conflitto è limitato nello spazio più che essere diffuso a livello nazionale. E’ da notare però che i meccanismi del pregiudizio non derivano dalla prossimità (per esempio a Ponticelli i manifestanti non sapevano nemmeno dove fosse il campo nomadi): il problema viene costruito dall’opinione pubblica. Il razzismo “popolare” funziona di più se si mantiene la distanza per cui il livello di allarme presso l’opinione pubblica è stato formato da media e partiti politici. Il conflitto etnico non è un conflitto di prossimità ma si gioca a scala nazionale. Ne consegue che se io faccio interagire la prossimità posso mettere in crisi il meccanismo. Così si riescono a disarmare anche gli imprenditori politici del razzismo che hanno responsabilità enormi in questo campo come ha chiarito recentemente il rapporto Hammarberg(18)” Scendendo nell’analisi puntuale del caso di via Novara e del rapporto con l’istituzione scolastica gli operatori nel campo restituiscono un quadro variegato. Secondo quanto raccolto la frequenza scolastica dei ragazzi del campo nomadi di via Novara si aggira sul 75%-85%. La maggior dispersione si trova nella fascia delle medie mentre grosse fasce, se non di mancata scolarizzazione, di scarsa istruzione si manifestano nella generazione dei ventenni che non hanno potuto frequentare a causa della guerra. In media dal campo arrivano 8-9 ragazzini con una media di uno o due per classe esclusi quelli da altri campi. Quello che queste famiglie chiedono alla scuola è soprattutto un’istruzione professionale sul lungo periodo mentre, a differenza delle famiglie italiane che chiedono spesso uno spazio di cura per i minori, grosse resistenze si manifestano ad affidare ad estranei i bambini specie se molto piccoli. In pratica non c’è la cultura di far uscire dalla famiglia chi non è autosufficiente (bambini di 3 anni alla scuola materna). Una notevole spinta è però garantita comunque dal desiderio di mantenere comunque i figli in uno spazio che sia al di fuori di un contesto degradato. Problemi si manifestano nell’istituzione scolastica a seguire il ragazzino Rom non sempre per cattiva volontà. Ciò è dovuto anche alla situazione scolastica che ha pochi mezzi da metter in campo (classi numerose, problematiche, quartiere di periferia…etc…). Vi sono stati in passato momenti di pressione da parte dei genitori italiani sugli insegnanti per allontanare i ragazzi Rom (sempre in maniera informale mai ufficiale). Anche se molto dipende dalla volontà del singolo sicuramente i tagli hanno influito sul sistema. Per esempio recentemente

si è potuto lavorare molto bene con una giovane insegnante precaria e molto motivata ma con grandi difficoltà e risultati limitati dal fatto che era assunta con un contratto rinnovabile di due mesi in due mesi. Questo ha ostacolato tantissimo il progetto per questi bambini. Le storie di successo sono quelle in cui le due ragioni (scuola e Rom) si incontrano. Nella crisi comunque i nomadi non possono fare a meno dei servizi essenziali quali istruzione, sanità, mediazioni per i documenti etc…Un dato interessante della crisi è che ha costretto giocoforza le donne a cercare un’occupazione per integrare il reddito. Infatti nelle famiglie Rom molto spesso gli uomini una qualche alfabetizzazione ce l’hanno (mai analfabeti al 100%) mentre le donne sono in situazione subalterna anche dal punto di vista della formazione che di necessità ora stanno cominciando a costruirsi uscendo così dalla tutela familiare. Da parte degli iNsegnanti della scuola l’impegno è comunque notevole per l’integrazione. La scuola è in rapporti molto stretti con la Caritas che gestisce il campo nomadi di via Novara. Un elemento importante nella gestione di questo istituto comprensivo (3 scuole materne, 2 elementari e 1 scuola media) è la partecipazione al “Tavolo territoriale” che è un’organizzazione dei presidi che operano sul territorio. Il presupposto da cui si parte è che i Rom siano della città non del singolo istituto per cui si procede di comune accordo nel distribuire il più possibile i ragazzi nelle varie scuole in modo da non avere concentrazioni eccessive tali da non risultare gestibili. L’obiettivo è di formare classi in cui non ci sia più di uno studente nomade. La continuità dell’impegno della scuola sul territorio ha comunque garantito nel tempo alcuni successi come l’inizio della frequenza scolastica sin dalle scuole materne, finora un ostacolo culturale molto grosso. Quasi tutti i ragazzi che riescono a diplomarsi proseguono comunque per un percorso di formazione professionale. I Rom non sono qui considerati una patologia. Nel tempo si è riusciti a non far sorgere problemi con gli italiani e i Rom hanno acquisito fiducia nella scuola per cui vengono a prendere le pagelle e a parlare con gli insegnanti.

Fig. 6 Scuola secondaria di primo grado Benedetto Marcello di via Benjamen Constant. La strategia perseguita è stata cercare di ottimizzare le risorse in periodo di crisi. Nello specifico si usano distacchi temporanei dall’insegnamento da parte del provveditorato proprio per Rom e stranieri. Sono stati messi in campo il “progetto successo formativo” (progetto per rimuovere gli ostacoli al successo di un ragazzo attraverso recuperi di italiano, tutoring etc…) e contatti con il territorio, Caritas, progetti per ragazzi a rischio etc… Dal taglio delle risorse la situazione è diventata chiaramente più complicata. Fortunatamente la scuola era già abituata a raccogliere fondi e risorse sul territorio in molti modi e questo ha permesso di attenuare gli effetti della crisi. La complessità della gestione è ormai tale che la scuola è divenuta anche una coordinatrice di risorse. Per esempio esiste il coordinamento del

POLOSTART (progetti di integrazione degli stranieri, anche non-neoarrivati, e dei Rom tramite laboratori di lingua italiana). Le maggiori difficoltà rispetto all’operatività degli insegnanti in seguito ai tagli (per cui prima c’era la possibilità di intervenire meglio) hanno spinto in questo caso ad intercettare, ovunque possibile, tutte le risorse del territorio: colleghi in pensione, parrocchie, servizi sanitari, centri di aggregazione giovanile decisamente con buoni risultati complessivi. 16) Riferimenti:

Tosi A. “Vivere ai margini, un’indagine sugli insediamenti rom e sinti in Lombardia”, Osservatorio regionale per l’integrazione e la multietnicità, fondazione ISMU, 2007

Video: “Via Novara 523. Storie di padri e madri rom”regia di Gaetano Maffia. Caritas Ambrosiana.

“I ragazzi e le ragazze di via Novara. L’avventura educativa in un campo Rom di Milano” in Dialogo, Caritas Ambrosiana, Milano 2011.

“Facce da slum, le città in(Visi)bili”. Un percorso esperienziale sulla vita nella baraccopoli. Dossier Caritas Ambrosiana 2011.

“Rom e Sinti in Lombardia: alcuni tratti distintivi della cultura, dell’istruzione e del lavoro.” Quaderno di documentazione a supporto dell’esame dei progetti di legge riguardanti le popolazioni nomadi o seminomadi nel territorio lombardo. Consiglio Regionale della Lombardia. Milano, aprile 2008

http://www.caritas.it/Documents/26/4360.html

17) Paola Arrigoni, Tommaso Vitale “Quale legalità? Rom e gagi a confronto” in Studi e ricerche, marzo 2008. 18) Hammarberg T., “Italian observations on the report by the commissioner for human rights of the council of Europe”, Rome, September 5, 2011.

4.3 Il campo nomadi abusivo (Baraccopoli Rubattino), figura: il percolamento.

L’area della ex-baraccopoli di Via Rubattino si trovava in prossimità del quartiere di via Rubattino a ridosso del viadotto della tangenziale est di Milano. La baraccopoli è cresciuta sino a destare l’attenzione dell’amministrazione pubblica che ha risposto con una serie di sgomberi forzati. In questo caso la scuola ha agito come agenzia integratrice fungendo da mediatrice con la società civile e contribuendo a contaminare lentamente le due comunità in un processo che potrebbe essere definito di “percolamento”. Un fenomeno così eccezionale ha avuto grande eco recentemente e ha dato origine a interessanti studi e considerazioni in merito(19). Una delle personalità più direttamente coinvolte in questa esperienza è stato Stefano Pasta (esponente della comunità di S.Egidio) che in merito al rapporto tra crisi e rifiuto dei campi nomadi nel nostro paese esprime tutta la sua criticità: “In questi ultimi tempi di crisi il contrasto tra popolazione residente e cosiddetti “nomadi”, spesso confinati nei campi o nelle baraccopoli, sta assumendo molto chiaramente i connotati di una lotta tra poveri. Pensiamo a quanto è successo con i roghi nel campo rom di Ponticelli nel Maggio del 2008. in questo caso la scintilla che ha scatenato la rivolta tra la popolazione è stata il presunto rapimento di una bambina da parte di una donna rom poi rivelatasi falsa. Sicuramente c’era la mano della camorra ma è anche vero che a detta degli stessi abitanti si è trattato di una lotta tra poveri. Nelle parole di molti c’era anche una certa consapevolezza di questo aspetto per cui si diceva: “Già facciamo schifo noi…..con loro poi…”. Il che indica tutta la situazione di disagio dei certe fasce di popolazione in certi territori che di per sé non sono avvantaggiati. Si tratta di strati sociali medi e medio-bassi. La crisi comunque influisce anche dal punto di vista del taglio delle risorse scolastiche. La mancanza di fondi infatti implica che l’integrazione, che è un processo anche costoso, veda ridotti i suoi margini operativi. Per esempio il taglio degli insegnanti di sostegno, dei mediatori linguistici, la mancanza di libri di testo o il costo della mensa scolastica che influisce sempre più sulle famiglie anche italiane ha un suo peso. Nel caso della baraccopoli di via Rubattino abbiamo cercato attraverso il volontariato di scalfire questa situazione soprattutto con l’inizio di un percorso scolastico. All’inizio c’è stata molta diffidenza da parte dei genitori, se non ostilità. Alcuni genitori hanno scritto al ministro Gelmini come fosse possibile che la scuola italiana accettasse dei bambini con i pidocchi. Di conseguenza è stato necessario intraprendere un percorso di conoscenza attraverso degli incontri di formazione, uno alla settimana, con insegnanti, acli, parrocchie per sciogliere la diffidenza. Il fenomeno si è

poi andato affievolendo tanto che durante l’anno una delle bambine Rom è stata invitata ad una festa di compleanno. In quell’occasione la mamma è scoppiata a piangere dalla commozione.” Scendendo nell’analisi particolare della situazione nelle scuole del quartiere si deve riportare come la zona sia interessata da un forte processo immigratorio ma ormai si è già alla seconda generazione di stranieri. Questa parte di Milano comunque ha ancora un tessuto sociale solido con la parrocchia, le acli, L’ANPI etc…. Nella scuola di via Pini 3 ormai ci sono alunni di una trentina di nazionalità diverse. In tutte le tre elementari (Pini, Feltre, Cima) ci sono circa 800 iscritti di cui più o meno il 25% stranieri mentre i Rom sono non più di 25 (il 12% degli stranieri).

Fig. 7 Scuola elementare di via Pini 3. Il primo ingresso nella scuola dei bambini rom è avvenuto nel 2009 grazie alla comunità di S. Egidio e ai padri Somaschi. I bambini rom dopo una prima fase di diffidenza da parte loro verso la scuola si sono ben integrati e sono stati accolti molto bene dai compagni. Anzi questi ultimi erano disturbati dal fatto che spesso i nuovi arrivati uscissero con i mediatori per apprendere l’Italiano e chiedevano che stessero in classe: ad insegnargli l’Italiano avrebbero provveduto loro stessi. Con i bambini Rom non è stato facile all’inizio vincere le diffidenze ma alla fine il contatto ha sciolto le paure reciproche e si sono create grandi amicizie. Piano piano si è erosa la diffidenza del quartiere ed è cambiata la mentalità. Con l’inserimento a scuola si è frantumato il muro della non conoscenza. Si è innestata una catena virtuosa che ha coinvolto famiglie e insegnanti in grado di erodere i pregiudizi. Solo per fare un esempio: per fare fronte anche all’emergenza sanitaria del campo la scuola si sia attrezzata con delle docce per consentire ai bambini di lavarsi, acquistando anche una lavatrice con il contributo dei genitori per lavare i panni dei ragazzi. In questa occasione la scuola si è aperta a quella rete di supporto presente nel quartiere (acli, gruppi sportivi, parrocchie) e anche la diffidenza dei genitori è andata stemperandosi. I genitori rom infatti hanno iniziato a interloquire con le famiglie italiane attraverso la frequenza scolastica.

Fig. 8 Scuola elementare di via Cima 15. Tutto questo in un quadro non certo semplice. Pur non essendoci mai stato molto per i Rom è infatti innegabile che vi siano stati tagli al sistema scolastico. Le riduzioni di finanziamento nella scuola a seguito della crisi sono stati pesanti tagli soprattutto per le mediazioni. Ancor più drammatica la situazione per l’alfabetizzazione degli alunni stranieri. Mentre lo scorso anno il Comune aveva concesso 2500 ore su tutto il territorio di sua competenza ora ci sono solo 25 ore per tutte le scuole di Milano. La strategia del successo didattico in condizioni come queste è stata quindi la capacità di cooperare con il terzo settore con cui si è collaborato per inserire i ragazzi rom nella misura di uno per classe. Queste associazioni esterne alla scuola hanno preparato il lavoro e hanno formato gli stessi insegnanti. Una volta alla settimana era presente a scuola uno sportello per le famiglie e gli insegnati che ha molto tranquillizzato il contesto scolastico. Grazie a questo inserimento gestito in maniera costruttiva gli insegnanti hanno potuto lavorare anche con le famiglie in un rapporto di mediazione con i genitori. Il lavoro perseguito è stato infatti strutturato sulla prossimità, sul contatto diretto. I frutti di questo atteggiamento sono stati sorprendenti. In occasione dello sgombero del 19 Novembre fortunatamente il quartiere si è organizzato, chiedendo aiuto alle parrocchie e poi alle famiglie. La scuola, la serata dello sgombero, ha preso in carico i bambini e le loro mamme. Tutti i Rom sono venuti a scuola perché non sapevano dove andare e l’istituzione si è mobilitata. Le mamme italiane si sono fermate a scuola e il quartiere si è reso conto che i Rom sono persone. Poi le maestre hanno portato i ragazzi a casa loro con le mamme che solidarizzavano con gli sgomberati. Una chiara testimonianza di solidarietà è giunta da queste famiglie a tutta la città. Con il passare del tempo il gruppo di persone è aumentato e molte famiglie italiane hanno accolto in casa dei Rom costruendo legami così solidi che continuano tutt’ora. In occasione dello sgombero sono arrivati a scuola cibo, materassi, sacchi a pelo e ogni altro genere di mezzi donati da famiglie e istituzioni (specie i sindacati) che hanno hanno fatto diventare la scuola un centro di smistamento. Per usare le parole dei volontari: “Questo in pratica è diventato il luogo di costruzione della socialità”. 19) Riferimenti:

Giunpiero E., Robbiati F. (a.c.). “I rom di via Rubattino. Una scuola di solidarietà.” Edizioni paoline, Milano, 2011.

Calabrò A.R. “Il vento non soffia più. Gli zingari ai margini di una grande città”, Ledizioni, Milano, 2010.

Ciani P. “La comunità di S. Egidio e i minori rom e sinti” in “Minori e giustizia”. 2008 Tavolo Rom (a.c.) “Rom e Sinti: politiche possibili nell’area metropolitana di Milano.

Modelli e proposte”, Job, Milano, 2010. Anfossi F. “Rom: lo sgombero di via Rubattino, la vergogna di Milano” in “Famiglia

Cristiana” , 10 Dicembre 2009. Comune di Milano, “Sicurezza. Sgombero in zona Rubattino, 30 Gennaio 2008”. http://comitatoscuolapubblica.wordpress.com