La coprogettazione fra potenzialità e illusioni

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ANNO XLIV MARZO 2014 Prospettive Sociali e Sanitarie N. 1.2MARZO 2014 Supplemento al n. 1, inverno 2014 INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA: RACCOMANDAZIONI PER L’USO GOVERNANCE DEI SISTEMI INFORMATIVI SOCIALI IN FRIULI ASSISTENZA EDUCATIVA AGLI STUDENTI DISABILI A LAINATE GRUPPI INTERCULTURALI CON RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI 1.2 LA COPROGETTAZIONE FRA POTENZIALITà E ILLUSIONI

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«La parola chiave è “coprogettazione”, strumento da usare per “avere più servizi sul territorio” con le stesse risorse. In concreto significa far sedere al tavolo tutti i protagonisti del terzo settore, mettere assieme idee e risorse (anche umane) e costruire un progetto condiviso.»

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anno xlIV marzo 2014

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integrazione sociosanitaria: raccomandazioni per l’uso

goVernance dei sistemi inFormatiVi sociali in Friuli

assistenza educatiVa agli studenti disaBili a lainate

gruppi interculturali con richiedenti asilo e riFugiati

1.2

la coprogettazione Fra potenzialità e illusioni

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n. 1.2 anno xlIV marzo 2014

Supplemento al n. 1, inverno 2014

DirezioneEmanuele Ranci Ortigosa (direttore responsabile)Ugo De Ambrogio, Sergio Pasquinelli (vicedirettori)

CaporedattoreFrancesca Susani ([email protected])

redazioneClaudio Caffarena, Ariela Casartelli, Diletta Cicoletti, Valentina Ghetti, Graziano Giorgi, Francesca Merlini, Daniela Mesini, Maurizio Motta, Paolo Peduzzi, Franco Pesaresi, Dela Ranci Agnoletto, Edoardo Re, Remo Siza, Giorgio Sordelli, Patrizia Taccani

Comitato scientificoPaolo Barbetta, Alessandro Battistella, Luca Beltrametti, Paolo Bosi, Annamaria Campanini, Maria Dal Pra Ponticelli, Maurizio Ferrera, Marco Geddes da Filicaia, Cristiano Gori, Antonio Guaita, Luciano Guerzoni, Francesco Longo, Gavino Maciocco, Marco Musella, Franca Olivetti Manoukian, Giuseppe A. Micheli, Nicola Negri, Fausta Ongaro, Valerio Onida, Marina Piazza, Costanzo Ranci, Chiara Saraceno, Maria Chiara Setti Bassanini, Antonio Tosi

ContattiVia XX Settembre 24, 20123 Milanotel. 02 46764276 – fax 02 46764312www.prospettivesocialiesanitarie.it

Ufficio abbonatiTeresa Albanese ([email protected])

abbonamento 2014ccp n. 36973204IBAN IT57 J076 0101 6000 0003 6973204

€ 59,00 (privati); € 69,00 (ass. di volontariato e coop. sociali); € 89,00 (enti); € 96,00 (estero). L’abbonamento decorre dal 1º gennaio al 31 dicembre.

Prezzo per copia: € 7,50 (arretrati € 12,00)

Progetto grafico e impaginazioneRiccardo Sartori

registrazioneTribunale di Milano n. 83 del 5-3-1973

ISSn 0393/9510

È vietata la riproduzione dei testi, anche parziale, senza autorizzazione.

Foto di copertina cbPrayitno Hadinatawww.flickr.com/prayitnophotography

Editoriale1 La coprogettazione fra potenzialità e illusioni

U. De Ambrogio, C. GuidettiIntegrazione sociosanitaria

3 L’integrazione tra sociale e sanitario. Raccomandazioni per l’usoS. RicciSistemi informativi

7 La governance dei sistemi informativi sociali. Evoluzione e sviluppo in Friuli Venezia GiuliaM. Lisetto, M. Marcolin, P. TomasinDisabilità

12 Assistenza educativa agli studenti disabili. L’esperienza del Comune di LainateL. Bianchimigrazioni

17 Gruppi interculturali. Sperimentazione metodologica con richiedenti asilo e rifugiatiS. Di PietroInfanzia e adolescenza

21 La costruzione del rapporto del Servizio Tutela Minori con la ScuolaC. Vencato, R. Barsotti, E. Muraroaffido e adozione

24 Sostegno alla famiglia di origine nell’affido etero-familiareM. B. M. Brunetti, A. OlivieriIntercettazioni

30 Il terzo escluso. Cosa ci dicono i numeri sulla povertà in ItaliaA. Simonazzi, P. Villa notizie

32 Accadde domaniG. Rusmini

prospettiVe

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Progettazione sociale

Per coprogettazione tra enti pubblici e soggetti privati si intende una ”modalità di affidamen-to e gestione della realizzazione di iniziative e interventi sociali attraverso la costituzione di una partnership tra pubblica amministrazione e soggetti del privato sociale”. La coprogettazione costituisce infatti un modello di relazione tra sog-getti pubblici e soggetti privati in ambito sociale ed è trattata e regolata da normative nazionali (l. 328/00, DPCM 30/3/2001) e regionali.

Ad esempio, in Regione Lombardia, così come in altre Regioni, sono state emesse nel 2011 le “Linee guida per la semplificazione ammini-strativa e la valorizzazione degli enti del terzo settore nell’ambito dei servizi alla persona e alla comunità” (DGR IX/1353 e IX/12884). In tali linee guida la coprogettazione è così definita:

«La co-progettazione ha per oggetto la defi-nizione progettuale d’iniziative, interventi e attività complesse, tenendo conto delle priorità strategiche evidenziate e condivise dall’ente pubblico, da realizzare in termini di partnership tra quest’ultimo e i soggetti del terzo settore individuati in conformità a una procedura di selezione pubblica. […] La co-progettazione rappresenta una forma di collaborazione tra PA e soggetti del Terzo Settore volta alla realizzazione di attività e interventi mirati e tempestivi per rispondere ai bisogni locali della persona, della famiglia e della comunità e, come tale, diviene rilevante che venga regolamentata negli accordi di pro-gramma per l’attuazione dei Piani di Zona.»

La coprogettazione va pertanto iscritta fra le modalità opportune ed efficaci per promuovere quel “welfare locale comunitario” di cui insisten-temente si parla in questi anni come modello di possibile sviluppo dei sistemi di servizi alla persona.

In questo contesto, in relazione alle crescenti difficoltà finanziarie, diversi enti locali stanno intraprendendo la strada della coprogettazio-ne per la realizzazione di progetti e interventi in ambito sociale, per superare la tradizionale modalità di affidamento esternalizzato tramite gara e per sviluppare nuove modalità di collabo-razione più efficaci.

Tale processo è però ancora in una fase incerta e attraversa alcuni rischi. Significativo, in questa direzione un recente articolo del Corriere della sera, cronaca di Brescia, del 4/2/2014, nel quale, a proposito della programmazione dei servizi sociali del territorio si afferma che:

«La parola chiave è “coprogettazione”, stru-mento da usare per “avere più servizi sul territorio” con le stesse risorse. In concreto significa far sedere al tavolo tutti i protago-nisti del terzo settore, mettere assieme idee e risorse (anche umane) e costruire un pro-getto condiviso.»

Come si può facilmente intuire quella citata suo-na come affermazione un po’ semplicistica e per certi versi pericolosa, che rischia di trasformare una potenziale opportunità (la coprogettazione) nella illusione che tale strumento possa risolve-re i problemi di bilancio che oggi gli enti locali stanno attraversando e che quindi venga utiliz-zata senza nessun pensiero strategico e in forme anche poco adatte o del tutto inadeguate.

Facciamo un po’ d’ordine: Lo strumento della coprogettazione ha la •funzione di allargare la governance delle politiche sociali locali per corresponsabiliz-zare maggiormente i soggetti in campo e per rafforzare il senso di appartenenza verso i progetti e i programmi di politica pubblica promossi. Attraverso tale modalità si vuole migliorare l’efficienza e l’efficacia delle azioni in campo nel welfare comunitario. La coprogettazione non ha, di per sé, lo scopo •di allargare il perimetro delle risorse finan-ziarie a disposizione del sistema. Questo può essere un valore aggiunto se alla coprogetta-zione si abbina il cofinanziamento, laddove è possibile.

La coprogettazione non prevede però di per sé sempre forme di cofinanziamento, tanto più che in una strategia di allargamento del peri-metro delle risorse disponibili per il welfare, gli interlocutori principali non sono tanto quelle organizzazioni del terzo settore che gestiscono dei servizi, che difficilmente possono disporre di significative risorse aggiuntive a quelle del proprio mantenimento, ma altri “investitori”

La coprogettazione fra potenziaLità e iLLusioni

Sempre più frequentemente da parte di rappresentanti degli enti pubblici e dei sog-getti del terzo settore sentiamo dire che, nei tempi difficili che stiamo vivendo, una parola chiave è la coprogettazione fra pubblico e privato sociale, e anche osservatori e studiosi cominciano a proporre riflessioni e articoli che inquadrano lo sviluppo dei sistemi di welfare locali in una prospettiva di coprogettazione.1

Ugo De Ambrogio

Cecilia Guidetti

IRS, Milano

Note 1 Alcune delle riflessioni

qui proposte le dobbia-mo al percorso di auto-valutazione del progetto “Valorizzazione delle risorse”, che stiamo conducendo con il Co-mune di Milano – set-tore famiglia e minori, in un’ATI composta da Coop. Comin, Coop. Diapason, Consorzio SIS, Coop. Spazio Aperto Servizi, oltre che da IRS.

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Progettazione sociale

potenziali quali le aziende for profit (nell’ottica della responsabilità sociale di impresa), le fonda-zioni bancarie, le fondazioni private, ecc.

Le risorse che attraverso la coprogettazione, i diversi soggetti in campo possono mettere in comune sono semmai risorse del capitale socia-le (conoscenze e competenze) o infrastrutturali (sedi, strutture) che possono fornire vantaggi nel-la realizzazione dei progetti e che non sono neces-sariamente da includere nelle voci di spesa.

La coprogettazione non va pertanto confusa e sempre abbinata al cofinanziamento, per evi-tare di attribuirle aspettative magiche: la copro-gettazione è essenzialmente un’opportunità di lavoro fra più soggetti responsabili e disposti ad assumersi una funzione pubblica, che con-corrono alla costruzione e gestione delle politi-che sociali di un territorio, al fine di allargare la governance di tali politiche pubbliche e rendere migliori servizi ai cittadini.

A questa prima chiarificazione ne va aggiun-ta una seconda: non basta mettere insieme soggetti pubblici e del terzo settore perché si produca una buo-na coprogettazione. Questa va condotta con attenzione e rigore metodologico per renderla efficace ed evitare effetti boomerang.

Oggi, almeno in alcune regioni, sono normati in modo preciso gli atti e le procedure amministrative per la progettazione, che cioè consentono all’ente pubblico, partendo dalla definizione delle priorità strategiche di intervento, di stipulare convenzio-ni con i soggetti co-pro-gettanti (partner), ma è invece assai scarsa la riflessione sulle migliori modalità e metodi per fare coprogettazione, anche tenendo conto del-le difficoltà che la relazione di partenariato fra soggetti diversi e per certi versi “asimmetrici” comporta.

Le esperienze di coprogettazione che vanno moltiplicandosi negli ultimi tempi, sono dunque oggi sollecitate a sviluppare riflessioni e valuta-zioni sul nuovo modello di relazione pubblico-privato che lo strumento della coprogettazione porta con sé.

Sia gli enti locali sia i soggetti del privato sociale si trovano, infatti, ad agire in una cornice che supera il tradizionale rapporto committente fornitore e che li interroga e li pone davanti a questioni sia relative al significato della co-pro-gettazione, sia connesse alle modalità operative e interorganizzative e alle strategie relazionali da mettere in campo.

Le domande in mente, per le quali ancora non disponiamo di risposte chiare, ma che ritenia-mo importante che chi si avvia sulla strada della coprogettazione si ponga, sono:

Qual è il senso della coprogettazione tra •pubblico e privato in ordine allo sviluppo di interventi sociali e come si può distribuire tra

questi soggetti la responsabilità della realiz-zazione e dell’efficacia degli interventi?Quali sono gli oggetti e gli ambiti di interven- •to per i quali la coprogettazione può diventa-re uno strumento privilegiato e quali invece quelle aree di azione rispetto alle quali non è possibile o utile per l’ente pubblico porsi in una relazione di partnership? Quale può essere il grado di pre-definizione •dell’oggetto di intervento da parte dell’en-te pubblico che consenta di mantenere un equilibrio tra la necessità di individuare con il bando di gara, i soggetti più adeguati alla creazione della partnership e quali invece le questioni che è utile lasciare “aperte” così da renderle oggetto in una effettiva interazione progettuale di partenariato? Quali sono i modelli di • governance più ade-guati a mantenere anche in corso di realiz-zazione del progetto una relazione di parte-nariato senza ricadere in una tradizionale

relazione tra committente e fornitore?

Quali sono gli stru- •menti operativi e le solu-zioni organizzative utili a mantenere tale equilibrio (ad esempio, il co-coordina-mento pubblico-privato, la creazione di gruppi di lavo-ro misti, ecc.) pur all’inter-no di un quadro in cui l’ente locale si trova ad avere un potere decisionale differen-te dai propri partner, e dun-que in un quadro di “part-nership asimmetrica”?

Come rappresentare e •gestire la dialettica interna a un terzo settore compo-sto da organizzazioni auto-

nome e, su alcuni terreni anche concorrenti, che nelle coprogettazioni sono aggregate in ATI (associazioni temporanee di impresa) o Consorzi? Come costruire linguaggi comuni e strategie •condivise fra soggetti che provengono da cul-ture organizzative diverse (ad esempio più strutturate e burocratiche quelle pubbliche e più spontaneistiche e, a volte, paternalistiche quelle del terzo settore)? Questi i principali e stimolanti temi su cui

va posta attenzione e sviluppato un dibattito, perché vi è un significativo bisogno di riflessio-ni e orientamenti. La coprogettazione richiede infatti un cambiamento culturale da costruire sia attraverso un inquadramento teorico meto-dologico, che attraverso la sperimentazione pra-tica e la diffusione di tali esperienze. Si tratta, crediamo, di considerarne in particolare l’im-patto sul lavoro sociale, e sui sistemi di offerta di ciascun territorio, e anche di considerare le soluzioni organizzative più opportune per met-tere in campo virtuosi processi di partenariato fra soggetti diversi e per certi versi “asimmetrici” quali sono l’ente pubblico e il terzo settore.

Prospettive Sociali e Sanitarie intende pro-muovere e ospitare tale dibattito. #

La coprogettazione va iscritta fra le modalità opportune ed efficaci

per promuovere quel “welfare locale

comunitario” di cui si parla come modello di sviluppo dei sistemi di

servizi alla persona

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Integrazione sociosanitaria

UNa “corNIce” Per evItare la dIsINtegrazIoNe

L’incontestabile unitarietà della persona e, quin-di, dei suoi bisogni di salute dovrebbe essere rafforzata dalla consapevolezza che il posizio-namento di una persona nel continuum della domanda tra sociale e sanitario varia nel tempo, in base all’età e a quelli che verrebbe da chiama-re “discriminanti” invece che determinanti di salute1 nel contesto sociale, economico, lavora-tivo, relazionale e anche valoriale per la singola persona.

Se non altro per questo si dovrebbe svilup-pare un sistema fortemente integrato di servizi sanitari e sociali, in grado di garantire continu-ità e appropriatezza nelle azioni e, per questo con una strutturazione integrata rispetto a programmazione, organiz-zazione, gestione e costi di servizi e interventi.

Invece abbiamo diviso questa unità che è/sarebbe inscindibile, non solo fram-mentando le risposte, ma soprattutto separando la responsabilità istituzionale delle prestazioni, dei costi, delle competenze tra “sani-tà” e “sociale”, tra Comuni e Aziende sanitarie. Lo spar-tiacque è quel DPCM 8 ago-sto 1985 e, in qualche modo, da allora si è dovuto parlare di integrazione tra sociale e sanitario, si è dovuto cerca-re di ricomporre (in genere senza riuscirci) ciò che è stato spacchettato.

In questi anni il divario si è allargato per una serie di asimmetrie:Asimmetria istituzionale. Da una parte il non

aggiornamento dei LEA sanitari (e quindi anche sociosanitari), ma soprattutto la man-canza dei Livelli essenziali e uniformi delle prestazioni sociali (LIVEAS) previsti dalla l. 328/00: differente esigibilità tra diritti sani-tari e diritti sociali.

Asimmetria amministrativa. La diversa natura giuridica di Comuni (titolari delle prestazio-ni sociali) e Aziende sanitarie (titolari delle competenze sanitarie) pone seri problemi in tutte le regioni italiane, anche in relazione al diverso rapporto di questi enti con le ammi-nistrazioni regionali.

Asimmetria finanziaria. Storicamente conso-lidata, con trasferimenti sanitari e sociali dal governo centrale alla periferia in rapporto anche di 100 a 1, e con una struttura della spesa sanitaria molto più rigida e stabile di quella sociale.

Asimmetria organizzativa. Riguarda l’articola-zione dei servizi: molto più strutturata, sta-bile e dedicata (anche se rigida) quella della sanità e molto più leggera, flessibile, polifun-zionale e precaria quella del sociale.

Asimmetria professionale. Con uno squilibrio tra il numero dei profili delle professioni sani-tarie e la mancanza dei profili delle professioni sociali, ma anche nel “numero” degli operato-ri, con difficoltà di collaborazione aggravate dalla diversa tutela e garanzia contrattuale

nelle due aree di servizio alla persona.A questo va aggiunto che, a un quadro normativo nazionale sostanzialmen-te coerente, anche se non compiuto, le Regioni han-no legiferato, anche in forza delle modifiche costituzio-nali del 2001, sviluppando diversi “modelli”, o comun-que modalità anche molto diverse di integrazione tra sanità e sociale.

La situazione attuale è caratterizzata da altri ele-menti di preoccupazione soprattutto per il cittadini fragili (anziani non auto-sufficienti, persone con

sofferenza psichiatrica, disabili fisici e psichici, bambini e ragazzi), che rappresentano i desti-natari privilegiati dell’integrazione tra sociale e sanitario: la frequente non esigibilità dei diritti, anche per un forte arretramento culturale e della sensibilità comune verso la solidarietà sociale; il progressivo taglio di finanziamenti che, al di là delle contabilità di bilancio, ha riguardato l’orga-nizzazione e la stabilità dei servizi sociali e dei servizi di assistenza sanitaria territoriale e di prevenzione, meno strutturati rispetto all’assi-stenza ospedaliera; la disomogeneità degli inter-venti, anche per la carenza di percorsi assisten-ziali integrati tra sociale e sanitario realmente progettati e realizzati in modo condiviso.

In questo contesto che può facilmente porta-re a un futuro senza integrazione sociale e sani-

L’integrazione tra sociaLe e sanitario raccomandazioni per l’uso

Stefano Ricci

Dirigente integrazione sociosanitaria, ARS Marche

Note 1 Un interessante punto

di vista: Maciocco G., “I determinanti della salu-te. Una nuova, originale cornice concettuale”, saluteinternazionale.info, 25 gennaio 2009.

Sviluppare un sistema integrato per la

programmazione, l’organizzazione, la

gestione e i costi di servizi e interventi, in grado

di garantire continuità e appropriatezza

nelle azioni

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Integrazione sociosanitaria

taria perché non ci sarà più molto da integrare, soprattutto sul versante sociale, è doppiamente necessario avere una “cornice” unitaria di riferi-mento: per mantenere alta l’attenzione su una dimensione che rimane imprescindibile nella promozione e nella tutela della salute di ogni cittadino; per aiutare i servizi sanitari e sociali a ricomporre l’unità della persona fragile.

Una “cornice” costituita da una batteria di raccomandazioni interessanti e indicazioni operative ai diversi livelli (amministrativo/istituzionale, organizzativo/gestionale, profes-sionale) è rappresentata dalla Raccomandazione SIQuAS 2012 “La qualità nell’integrazione tra socia-le e sanitario”.2

le Idee ed I PrINcIPI foNdaNtI

L’attuazione dell’integrazione sociosanitaria ha seguito percorsi carsici e frammentati fin dalla legge di istituzione del Servizio sanitario nazio-nale, la l. 833/78, di cui era uno degli scopi, il salto al D.lgs 229/99 e ai due DPCM del 2001 (quello del 14 febbraio e quello del 22 novembre), con l’“in-termezzo” sociale della l. 328/00, e poi, sostan-zialmente, più nulla a livello nazionale.

A livello di Regioni, dire che si è andati “in ordine sparso” è un eufemismo, perché se sono diversi tutti i Servizi Sanitari Regionali, rico-noscere e comparare i contenuti e le modalità dell’integrazione sociale e sanitaria nei terri-tori è un rebus di difficile soluzione. I risultati ottenuti sono stati, comunque, scarsi, per cui alcuni professionisti e soci SIQuAS hanno rite-nuto opportuno predisporre un percorso con l’obiettivo e la speranza di “fornire contenuti e argomenti perché l’integrazione sociosanitaria riprenda il suo cammino con un coinvolgimento corale di tutti i diversi attori per garantire risul-tati diffusi”.

Le Raccomandazioni sull’integrazione tra sanità e sociale si fondano su una serie di principi che si è cercato di tradurre in elementi di conoscenza/comprensione e in indica-zioni operative :

affermare la centralità •della persona e garanti-re il rispetto del diritto di fruizione dei servizi sanitari e sociali;garantire equità di acces- •so e di prestazioni tra reti sanitarie, sociosani-tarie, socio-assistenziali e sociali;garantire la presa in carico e la continuità del- •le cure e dell’assistenza;passare da un approccio di cura a quello di •tutela della salute;non medicalizzare i disagi e le fragilità sociali; •garantire informazione, consenso e traspa- •renza verso i cittadini;favorire l’ • empowerment dei cittadini sia sin-goli che associati nei processi di cura e di assistenza;garantire forme di sussidiarietà verticali e •

orizzontali tra gli attori istituzionali e non delle filiere assistenziali;sviluppare un sistema integrato dei servizi •sociali e sanitari alla persona che, mante-nendo al settore pubblico le funzioni di indi-rizzo, orientamento e monitoraggio, verifica, valorizzi la presenza del terzo settore e della società civile negli ambiti della consultazio-ne, della concertazione, della coprogettazio-ne, della cogestione/corresponsabilità, del controllo partecipato.

Il Percorso logIco e I coNteNUtI

La salute è l’esito delle “relazioni” tra sistemi in cui è inserita la persona (famiglia, ambiente, for-mazione e scuola, lavoro, giustizia e legge); fra questi la “sanità” e il “sociale” sono quelli per cui l’integrazione è essenziale per le forti intercon-nessioni e la difficoltà di distinguere il livello di separazione.

In effetti i bisogni sociali e sanitari di ogni persona variano nel tempo e questo comporta implicazioni rispetto alla necessaria continuità e all’appropriatezza delle risposte. Pur nella possi-bilità di distinguere le competenze istituzionali rispetto a costi, integrazione, programmazione, gestione di servizi e interventi risulta evidente che l’integrazione sociale e sanitaria deve trova-re forme di prossimità che esprimano compiuta-mente l’indispensabile unitarietà dell’approccio e delle modalità operative.

La stessa individuazione dei “soggetti privi-legiati” delle prestazioni integrate tra sanità e sociale (minori, donne, famiglia, anziani, disabi-li, pazienti psichiatrici, persone con dipendenza da alcool, droghe e farmaci, malati terminali, per-sone con patologie da HIV) da parte della norma-tiva nazionale, evidenzia come sia la “fragilità” la dimensione peculiare dell’integrazione, nella consapevolezza che proprio queste tipologie di

persone hanno più biso-gno di specifiche modalità di “presa in carico” e “con-tinuità dell’assistenza”, caratterizzate da globalità e interdisciplinarietà.

Anche il “percorso assistenziale” tra i diversi destinatari degli interven-ti e le tipologie dei servizi (di sostegno e accompa-gnamento, ambulatoriali/territoriali, domiciliari, semiresidenziali, residen-ziali, per le emergenze) deve qualificarsi, nel senso

dell’integrazione, per l’unitarietà sostanziale e la garanzia della continuità rispetto alle varie fasi dell’intensità assistenziale: intensiva, estensiva, di lungo assistenza. Un altro aspetto importante nel rapporto tra sanità e sociale è la ricerca delle coerenze tra la cornice dell’azione sociosanitaria integrata sul territorio e la progettualità indi-vidualizzata degli interventi sociosanitari sulle persone.

Nel panorama territoriale molto differenzia-to è possibile identificare due dimensioni costi-

La situazione attuale è preoccupante,

soprattutto per il cittadini fragili, che

sono i primi destinatari dell’integrazione tra

sociale e sanitario

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Integrazione sociosanitaria

tutive dell’integrazione tra sanità e sociale.I contenuti dell’integrazione, cioè la declina-

zione e la contestualizzazione territoriale delle tipologie di prestazioni sociosanitarie definite dal D.lgs. 229/99 (prestazioni sanitarie a rile-vanza sociale, prestazioni sociali a rilevanza sanitaria, prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria), che possono distribuirsi lungo un asse con due polarità: quella “sistemi-ca” da un lato, caratterizzata da un approccio organico e coerente rispetto a settori di inter-vento e tipologie di servizi ed interventi, e quella “set-toriale” dall’altro, che inve-ce prevede livelli e modalità di integrazione diversi, più o meno articolati e conso-lidati, tra sanità e sociale rispetto agli interventi in favore delle diverse catego-rie di destinatari.

Le modalità dell’inte-grazione, cioè l’architettu-ra organizzativo/gestiona-le del rapporto tra sanità e sociale, anch’esse distri-buite lungo un asse con due polarità: quella “strut-turale”, dove è definita la configurazione rigorosa di un sistema integrato sociosanitario che regola responsabilità, com-petenze, procedure, che si confronta con quella “funzionale”, distinta dall’attenzione alla ope-ratività concreta nello spazio comune a sanità e sociale.

Le Raccomandazioni hanno individuato uno schema concettuale che non definisce univo-camente la buona o la cattiva integrazione tra sanità e sociale, in quanto opportunità e rischi esistono per ognuna delle possibili “tipologie/classificazioni” dei modelli regionali che posso-no essere delineati, ma può essere utile per:

individuare gli elementi caratterizzanti l’in- •tegrazione tra sanità e sociale;definire i fattori di successo da riproporre ed i •pericoli da evitare per consolidare il processo di integrazione tra sanità e sociale;favorire il dialogo ed il confronto sull’integra- •zione tra sanità e sociale;comprendere i diversi orientamenti regionali •e le operatività effettive sull’integrazione tra sanità e sociale;orientare scelte per migliorare l’integrazione •tra sanità e sociale.

È importante cercare le “parole dell’integrazio-ne”, perché l’integrazione sociosanitaria costitu-isce un argomento di complesso inquadramento e difficile sistematizzazione, data la vastità di ogni ambito che la riguarda, le interconnessioni con molte aree del welfare, la variabilità dei modelli normativi e organizzativi, la scarsa standardiz-zazione sul piano concettuale ed operativo. Le Raccomandazioni hanno messo in luce come sia difficile trovare una definizione condivisa del concetto di integrazione, con la compresenza di diversi modelli tratti sia dal mondo degli affari sia dal settore sanitario; per questo, in appendi-ce, alle Raccomandazioni è stato approntato un

glossario che fornisce indicazioni e descrizioni per molti dei termini utilizzati nell’ambito del vasto tema dell’integrazione sociosanitaria, richiamandosi alla normativa e alla letteratura scientifica esistente; non è un documento chiuso ed esaustivo, ma un contributo a sviluppare una terminologia condivisa su questa tematica com-plessa, aperto agli arricchimenti di altri esperti e operatori.

La questione della qualità dell’integrazione tra sanità e sociale, con riferimento a criteri e

requisiti necessari è uno dei nuclei elaborativi delle Raccomandazioni. La quali-tà nei servizi alla persona ha, nel corso di questi ulti-mi anni, fatto propri alcuni principi:

prendersi cura della •persona e non solo curarla;

centralità della per- •sona: rispetto d’identità, volontà e scelte;

partecipazione al pia- •no di cura del paziente, dei familiari, delle assi-stenti familiari, delle reti informali di cura (vicinato, volontariato);

relazione tra pari tra paziente e professioni- •sta nella comunicazione, nell’ascolto e nella narrazione;anamnesi sociosanitaria, valorizzando anche •le opportunità delle moderne tecnologie;percorsi d’inclusione psicologica, sociale, •economica, lavorativa.

L’integrazione sociosanitaria è un aspetto deter-minante, nel prendersi cura di una persona, ma anche un tassello di una rete più ampia di aiuto anche perché, come si è scritto, privilegia le per-sone fragili, per le quali è richiesta un’integra-zione tra diversi settori: prevenzione primaria, secondaria e terziaria, assistenza qualificata alla cronicità, sostegno alle fragilità economiche, sociali, anagrafiche, garanzia e tutela dei diritti di cittadinanza.

Per loro s’intrecciano le più recenti condivi-sioni delle scienze mediche e sociali: necessità di individuare i determinanti di salute nel con-testo sociale, economico, lavorativo, relazionale e anche valoriale per la singola persona; l’impor-tanza del contesto nel determinare la riuscita o meno dell’inclusione al termine di un vulnus sociale e/o sanitario; le persone dipendenti sia-no essi anziani, disabili o bambini, traggono il massimo beneficio dalla relazione di cura con i propri familiari e tra questi e i professionisti.

Questi principi e concetti di qualità dell’in-tegrazione sociosanitaria si traducono in alcuni criteri e indicazioni operative non esaustive ma esplicative sviluppati dalle Raccomandazioni, rispetto a due contesti per i quali si identificano alcuni requisiti determinanti:Il contesto delle aree di intervento

adeguate politiche/azioni di prevenzione (in •relazione al livello coinvolto);adeguate politiche/azioni di inclusione. •

Il contesto professionale e organizzativo

Note2 È possibile scaricare la

prima release della Rac-comandazione con gli allegati dal sito www.osservatoriosanita.it

I bisogni sociali e sanitari di ogni

persona variano nel tempo e ciò necessita

attenzione rispetto alla necessaria continuità e all’appropriatezza

delle risposte

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Integrazione sociosanitaria

la continuità assistenziale; •l’idoneità dei luoghi della cura; •l’accessibilità. •

Nelle Raccomandazioni è stato elaborato anche un utile sistema di autovalutazione dei progetti di integrazione sociale e sanitaria (anche questo in appendice) a partire dal modello per l’eccellenza della European Foundation for Quality Manage-ment (EFQM).3 Il modello, basato su nove dimen-sioni, delle quali cinque sono fattori strutturali e di processo e quattro sono risultati, ripropone, in maniera più articolata, le tre dimensioni di Donabedian: Struttura, Processo, Esito.

l’UtIlItà e l’oPeratIvItà PossIbIlI

Nel futuro dell’integrazione tra sanità e sociale non può esserci un modello unico di riferimento.

Sono accettabili e, probabilmente, necessari gradi di integrazione diversi tra i servizi sanitari e i servizi sociali, ma serve raccordo e coordina-mento, partecipato e condiviso, cioè governance a livello sia regionale sia locale.

Tra frammentarietà e unitarietà le Racco-mandazioni hanno provato ad identificare le dimensioni dell’integrazione sociale e sanitaria da “comporre” per le diverse forme della integra-zione sociale e sanitaria, “possibile” e “necessa-ria”, valorizzando soprattutto il ruolo dei “livelli” regionali e locali.

Il futuro dell’integrazio-ne tra sanità e sociale dovrà essere una specie di Tan-gram dove i “pezzi” sono quelli (7) e sono “fissi”, per garantire la necessaria cor-nice unitaria nazionale, ma le “combinazioni” saranno diverse per costruire dise-gni progettuali adeguati ai diversi contesti territoriali regionali:1. Assetto istituzionale/

territoriale dell’inte gra-zione.

2. Programmazione inte-grata sociale e sanitaria.

3. Accesso, valutazione, presa in carico e conti-nuità dell’assistenza.

4. Assetto organizzativo/gestionale dell’inte-gra zione.

5. Processi, percorsi, pro cedure. 6. I modi dell’integrazione professionale.7. Integrazione sociale e sanitaria nei settori di

intervento.

Nelle Raccomandazioni si tratteggiano i conte-nuti dei “pezzi” del Tangram dell’integrazione sociale e sanitaria, utili per (ri)organizzare in una logica unitaria contenuti e modalità dei percorsi di integrazione nei territori regionali e locali.

Le “raccomandazioni” del documento pro-posto dalla SIQuAS, abbastanza consistente, ma agile, e supportate dalle due appendici e da molti allegati, si sostanziano, alla fine, in “solo” 41 sol-lecitazioni, declinate in rapporto alle funzioni:

Politico-istituzionali (32); •Organizzativo-gestionali (6); •Professionali (3). •

“Pochi” suggerimenti che sintetizzano e con-cretizzano i principi ed i contenuti analizzati e sviluppati nelle pagine precedenti individuan-do, unitariamente, precise e puntali dimen-sioni dell’integrazione, tra funzioni, livelli e destinatari.

In effetti, le articolazioni delle funzioni individuate, a loro volta, sono e possono essere collegate:

da un lato, ai livelli, concettuali e operativi: •macro, meso e micro, che garantiscono la con-tinuità, la sussidiarietà orizzontale e le coe-renze di sistema necessarie;dall’altro i soggetti chiamati prioritariamen- •te a rendere operative ed efficaci.

L’auspicio, anche personale, è che le Raccomanda-zioni possano costituire uno strumento di costruzione dell’integrazione sociale e sanitaria necessaria e pos-sibile, contro il “si salvi chi può” e le “guerre tra poveri”, rischi concreti di un sistema (dis)integrato tra servizi sanitari e servizi sociali, troppo sbilanciato sulle logiche economicistiche e poco attento ai diritti del-le persone (soprattutto di quelle che fanno più fatica). Questo sarà possibile solo se i “portatori di interesse”, oltre ai “soggetti” cui sono indirizzate le Raccomanda-

zioni, coglieranno con sincerità, onestà e umiltà che solo insieme, nel rispetto reciproco, si potrà migliorare la condizione di salute di tutti. #

Note 3 European Foundation for Quality Management,

www.efqm.org, gennaio 2012.

tavola 1 lo schema della raccomandazioneLivelli funzioni oggetto delle raccomandazioni soggetti cui sono indirizzate le raccomandazioni

Macro Politico-istituzionaleGoverno nazionale (macro 1) Istituzioni: Stato - Regioni - Enti locali Politici e funzionari e livello europeo e nazionaleGoverno locale (macro 2) Politici e funzionari amministrativi regionali ed enti locali

Meso Organizzativo-gestionaleGestione organizzativa (meso 1) Enti gestori: Aziende sanitarie -

Servizi sociali enti locali - AltriDirettori generali - Staff (ASL/AO)- Dirigenti amministra-tivi Servizi enti locali

Gestione professionale (meso 2) Gruppi professionali: nella fase di pianifica-zione organizzativa e professionale Gruppi professionali (Servizi, Società scientifiche)

Micro Professionale Attività assistenziale (micro) Professionisti: nelle fasi di implementazione e valutazione degli interventi Professionisti (singolarmente e/o team operativi)

Sono accettabili e necessari gradi di

integrazione diversi tra i servizi sanitari

e i servizi sociali, ma serve raccordo e coordinamento,

partecipato e condiviso

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sistemi informativi

I sistemi informativi per il sociale hanno costi-tuito il tema di un recente workshop dedicato al confronto tra le esperienze in corso nei Ser-vizi sociali dei Comuni (SSC) del Friuli Venezia Giulia.1 L’occasione si è rivelata un’interessante opportunità per avviare una riflessione sull’evo-luzione e lo sviluppo dei sistemi informativi sociali in regione alla luce del dibattito esisten-te sul tema (Castegnaro, 2010; Carli Sardi, Bar-neschi, 2009; Deriu, 2009; Mariano, 2009). Pur focalizzandosi sul particolare contesto della Regione Friuli Venezia Giulia, l’articolo presenta alcune questioni e sfide di interesse generale sui sistemi informativi che tutti i Servizi sociali, così come pure altri comparti della pubblica ammi-nistrazione, si trovano oggi a dover affrontare per migliorare la propria capacità di risposta nel sempre più complesso sistema di welfare.

evolUzIoNe deI sIstemI INformatIvI NeI servIzI socIalI IN ItalIa: UN INsIeme dI PercorsI localI

Nel corso dell’ultimo decen-nio, anche sulla spinta dei contenuti della l. 328/00, lo sviluppo dei sistemi infor-mativi in ambito sociale ha segnato una notevole acce-lerazione in tutto il territo-rio nazionale (Castegnaro, Pasquinelli, 2010). Tuttavia, la riforma costituzionale del 2001 ha di contro frenato lo sviluppo del Sistema infor-mativo dei Servizi sociali (SISS) a livello nazionale (Nappi, 2010), disegnando un sistema “quasi federale” che ha prodotto un com-plesso sistema di relazioni tra il livello statale e quelli locali per quanto riguarda i flussi informativi (Sgritta, 2003). Solo negli ultimi anni si è cominciato a sviluppare un coordinamento centrale, che costituisce ad oggi l’embrione del SISS.2

In buona sostanza, se si analizza l’evoluzio-ne storica della nascita e sviluppo di strumenti di raccolta ed elaborazione dati nel sociale, ci si accorge presto di come il tema si sia sempre pre-sentato come una questione locale, sin dai primi tentativi degli anni ’80 (in seguito al decentra-mento sancito dal DPR 616/77 (Madama, 2008). Ben prima della l. 328/00 si potevano quindi con-tare innumerevoli esempi di sistemi informativi

funzionanti sul territorio e diversi riferimenti normativi locali.3

Nel corso del tempo questi sistemi si sono andati perfezionando, seguendo tuttavia tra-iettorie disomogenee: da ricerche occasionali su progettazioni specifiche e/o gruppi target, nate spesso al di fuori di progettualità struttu-rali e quindi poco utili a fini di monitoraggio e programmazione, all’istituzione di Osservatori e allo sviluppo di Cartelle sociali informatizzate (CSI), che hanno da più parti costituito l’ossa-tura del SISS (Teselli, 2007). Inoltre, sempre più Regioni stanno imbastendo o sviluppando siste-mi informativi (generali o tematici) standardiz-zati a livello di intero territorio e strutturati nel tempo (Castegnaro, Pasquinelli, 2010).4

L’esperienza della Regione Friuli Venezia Giu-lia sembra in questo senso di particolare interes-se: essa infatti è stata tra le prime realtà locali a prevedere lo sviluppo di un sistema informativo sociale nel proprio ordinamento giuridico (LR 33/88, art. 9, c. 1) e, quasi contemporaneamen-

te, a lavorare per lo svilup-po di un sistema regionale di raccolta dati omogeneo. Come vedremo, nel corso di oltre vent’anni tale sistema si è evoluto ed articolato, ruotando prevalentemen-te (ma non esclusivamen-te) attorno allo sviluppo della CSI e dei suoi modu-li aggiuntivi. Parallela-mente, l’evoluzione delle tecnologie informatiche e l’aumentata dotazione infrastrutturale in uso nei SSC ha permesso lo svilup-po di sistemi informatiz-zati locali che andassero a

“coprire” i fabbisogni informativi e le funzioni di supporto non comprese nella CSI.

La complessità che ne è derivata individua un notevole fermento e una sempre maggiore attenzione alle funzioni di programmazione, ma individua anche ampi spazi di integrazione che rappresentano le sfide per il futuro prossimo dei sistemi informativi sociali.

l’esPerIeNza del frIUlI veNezIa gIUlIa: dalla cartella al sIstema INformatIvo socIale

In Friuli Venezia Giulia, la consapevolezza dell’importanza di riconsiderare il modo di trat-

La goVernance Dei sisteMi inforMatiVi sociaLievoluzione e sviluppo in friuli Venezia giulia

Miralda Lisetto

Dottore in servizio sociale, Provincia di Pordenone

Mario Marcolin

Paolo Tomasin

Dottori in Information systems and organisa-tion, e-labora

Note 1 L’iniziativa, realizzata in

data 18 dicembre 2012, è stata promossa da In-Soft in collaborazione con l’agenzia formativa ForSer.

2 Si veda, ad esempio: Nomenclatore, SINA, SIBNA.

3 Tra il 1988 e il 1999, ri-ferimenti al SISS erano presenti nella legislazio-ne di ben sette Regioni (Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Toscana, Abruzzo, Emilia-Ro-magna, Umbria e Basi-licata) e delle Provincie autonome di Trento e Bolzano (CISIS, 2004).

4 Una recente ricerca dell’IRS mappa esperien-ze di questo tipo in Pie-monte, Liguria, Provin-cia Autonoma di Trento, Friuli Venezia Giulia, Toscana, Marche, Vene-to, Emilia-Romagna e Puglia.

Sistemi informativi locali che concorrono,

si intersecano, si sovrappongono, si sostituiscono o

corrono paralleli al SISS regionale e ai

suoi strumenti

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sistemi informativi

logiche hanno poi permesso il passaggio dalla cartella sociale basata su Access a quella sul web, pur non sostituendo completamente la cartella sociale cartacea, che rimane tuttora strumento operativo per diversi professionisti del SSC.

Con il consolidamento della base dati della CSI è stato poi possibile per la Direzione regiona-le, dal 2008, lo sviluppo di un sistema di business intelligence per l’estrazione e l’elaborazione dei dati raccolti a livello locale, fornendolo nel bien-nio successivo a tutti gli ambiti distrettuali del territorio.

Il prodotto finale realizzato costituisce oggi l’elemento fondamentale del SISS regionale, pur presentando margini di miglioramento ancora interessanti. Tuttavia, i suoi maggiori pregi si possono riscontrare a livello professionale, cul-turale e organizzativo. Da un lato infatti il per-corso di sviluppo della CSI ha messo a confronto interessi, pressioni, culture professionali e orga-nizzative che, in assenza di soluzioni giudicate legittime e funzionali da tutte le parti, avrebbero potuto entrare reciprocamente in collisione, pro-ducendo effetti indesiderati sotto il profilo sia dell’efficienza che dell’efficacia dei servizi e degli interventi. Dall’altro il percorso ha sviluppato nella comunità professionale l’attenzione e la cura del dato informativo come parte integrante della propria attività; ha prodotto uno strumen-to di dialogo tra tutti i Servizi della regione; un mezzo di lettura delle problematiche emergen-ti e di profilatura tipologica sia dell’utenza che degli interventi ed ha, non ultimo, evidenziando gli aspetti di complessità del lavoro nel settore, attraverso un processo che ha lasciato spazio al metodo oltre che al risultato.

Come risultato, l’informazione veicolata ha permesso al SSC l’implementazione di una plu-ralità di funzioni utili non solo alla professione, ma anche alle organizzazioni di appartenenza e agli interlocutori esterni secondo modalità più puntuali ed appropriate.

PoteNzIalItà e lImItI della csI

La CSI, per come si è strutturata nel tempo (vedi tavola 1), rappresenta dunque l’ossatura portan-te del SISS del Friuli Venezia Giulia. A 6 anni dalla sua implementazione online si può provare quin-di a fare un bilancio rispetto alle sue funzioni di utilità e di come queste si innestino nel lavoro sociale e di programmazione.

Per poterlo fare è necessario tenere in consi-derazione ciò che la CSI permette di fare e ciò per cui viene utilizzata nella pratica, considerando i flussi informativi che da essa si sviluppano.

Bisogna innanzitutto ricordare che la CSI non è studiata per rendicontare il lavoro sociale, ma per rappresentare problemi e interventi gestiti dal servizio sociale. In tal senso, non può essere con-siderata uno strumento di “efficientamento” del lavoro professionale, non disponendo di funzio-nalità di snellimento dei percorsi di presa in carico dell’utenza.5 Pur tuttavia, il processo di “digitaliz-zazione dell’utente” (Marcolin, 2012), ovvero la traduzione delle caratteristiche delle persone in carico nelle griglie del sistema, ha indubbiamen-te avuto un positivo effetto di standardizzazione

tare l’informazione in funzione della gestione della casistica, della programmazione dei servizi e delle esigenze di accountability, si è sviluppata verso la fine degli anni ’80 ad opera della comu-nità professionale degli assistenti sociali. L’intu-izione fu quella di partire dalla cartella sociale, i cui dati si presentavano all’epoca fortemente destrutturati, con elevati livelli di soggettività e scarsamente comparabili (Fazzi, 2006), per giungere a farne il fondamento del sistema infor-mativo sociale e lo strumento elettivo per capire la funzionalità del Servizio sociale e delle attività svolte dalle istituzioni territoriali locali.

Fin dal 1987, un gruppo di lavoro composto da assistenti sociali del territorio, operatori dell’area informatica e funzionari della Regione, integra-to in un secondo momento da alcuni consulenti esterni, ha raccolto questa sfida, cercando di tra-mutare lo strumento utilizzato dall’assistente sociale per documentare e gestire l’attività svolta, in uno strumento con finalità conoscitive e pro-grammatorie per l’intero SSC e il SISS regionale.

Alla costruzione e alla messa in uso partecipa-ta di una prima cartella cartacea ha fatto seguito, nel 2000, una cartella informatizzata, che ha per-messo di approfondire la questione della deter-minazione delle regole nomenclaturali, delle tecniche e dei principi di classificazione, nonché delle procedure e delle norme che le regolassero. In tal modo si è cercato di dare definizione alla struttura del linguaggio del servizio sociale, con-dividendola con l’intera comunità professionale del Friuli Venezia Giulia, seguendo il principio secondo il quale chi fornisce informazioni deve trovare un senso e aspettare benefici da ciò che fa, evitando l’imposizione di standard di raccol-ta che la renderebbero più faticosa o inefficace (Castegnaro, Pasquinelli, 2010).

Nel 2007, le rinnovate potenzialità tecno-

tavola 1 struttura csI

fonte: ricostruzione degli autori.

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sistemi informativi

dei linguaggi, di riflessività sui trattamenti e di programmazione dei casi attraverso un processo continuamente reiterato a diversi livelli (di area, di ambito distrettuale e di regione).

Un discorso diverso, sebbene legato a doppio filo, va fatto per la funzione di supporto alla pro-grammazione. La CSI è strutturata in modo tale da avere un set rigido di dati obbligatoriamente registrabili e uno facoltativo.6 Oltre a ciò, il per-corso partecipato di costruzione e revisione del sistema (Balestrucci, Molinari, Zenarolla, 2010) ha garantito un discreto livello di coerenza dei dati raccolti. Nel corso degli anni e attraverso le successive modifiche, la CSI è quindi ora in gra-do di fornire elementi utili alla programmazione regionale e locale. Ciò nonostante essa, al pari di analoghi strumenti di rendicontazione in uso nei Servizi (Castegnaro, 2010), soffre ancora su due versanti, quello dell’affidabilità del dato e quello della completezza.

Sull’affidabilità incidono i margini di libertà nell’inserimento dati, una residua ambiguità nell’interpretare le categorie e la tempestività di registrazione. Si può stimare che vi sia un livello di attendibilità elevato sulle caratteristi-che strutturali degli utenti in carico (anagrafica, profilo) e sulle problematiche prevalenti, men-tre maggiori fragilità sono rilevabili a livello di interventi e loro specifiche.

Nell’operare quotidiano questi limiti vengo-no in parte superati, a livello di ambito distret-tuale, attraverso la consultazione degli archivi amministrativi. Questo tema apre alla secon-da criticità, ovvero la completezza del dato in funzione gestionale. In effetti, sebbene la CSI sia strutturata per innestare sulla parte tecni-co-professionale i contenuti propri delle altre componenti del sistema secondo un sistema di accesso selettivo, tali funzioni non sono anco-ra implementate, e non è quindi utilizzabile da operatori che non siano assistenti sociali e/o i responsabili di servizio. Questo si ripercuote sul-la funzione di programmazione tramite l’impos-sibilità di una gestione economico-finanziaria dei casi e la carenza di informazioni sulla presa in carico integrata. Sebbene l’amministrazione regionale abbia allo studio soluzioni a tali limiti, la standardizzazione delle prassi e dei sistemi di rendicontazione territoriali ha finora costituito un nodo irrisolto, stimolando l’inevitabile fiori-tura di sistemi di rendicontazione e informativi paralleli nei differenti contesti locali.

Considerato quanto più sopra illustrato, i punti di forza, di criticità e le potenzialità del sistema vanno sicuramente ricercate nell’attuale “prodotto CSI”, ma anche nel processo che ne ha accompagnato lo sviluppo e nei percorsi paral-leli che ne sono derivati. La complessità che ne è scaturita sembra ora richiedere uno sforzo di governo per armonizzare e connettere il princi-pale strumento del SISS con le svariate fonti di dati che vi si sono affiancate.

I sIstemI INformatIvI attUalmeNte IN Uso NeI servIzI socIalI deI comUNI

Nel 2012, l’avvio del secondo ciclo di predisposi-zione dei Piani di Zona ha consentito la realizza-

zione di una rilevazione dei sistemi informativi in uso nei 19 SSC del Friuli Venezia Giulia.7 La ricognizione si rivela particolarmente utile per comprendere la recente evoluzione e lo stato dei sistemi informativi a livello locale, che si sono dimostrati ben più articolati di quanto una rap-presentazione meramente istituzionale possa far apparire (Balestrucci, Molinari, Zenarolla, 2010). Non solo, la diversa qualità delle infor-mazioni raccolte evidenzia un’attenzione e un presidio disomogenei nella gestione dei dati,8 e una conoscenza tecnica dell’argomento ancora limitata.9

Dalle informazioni raccolte emerge innanzi-tutto che la CSI e il relativo applicativo per l’estra-zione dei dati, benché ne rappresentino il cuore e la sua parte principale, non esauriscono la stru-mentazione per il trattamento informatico dei dati oggi in uso nei SSC: il servizio di assistenza domiciliare si è dotato di software dedicati (sia istituzionali che acquisiti sul mercato privato); alcuni servizi residenziali e per minori stanno sperimentando propri applicativi, scollegati dalla CSI; alcuni SSC hanno poi affiancato alla CSI altri software per il trattamento della stessa casistica o per integrare l’informatizzazione di dati e procedure di tipo economico e ammini-strativo strettamente collegate al servizio,10 non consentiti dal software istituzionale prodotto da Insiel SPA.11

In secondo luogo, i SSC impiegano (per atti-vità quali ad esempio, il protocollo, la gestione del personale, il controllo di gestione, ecc.) i software in uso presso il proprio ente gestore.12 Tali software non sempre coincidono con quello degli altri Comuni associati, complicando l’inte-roperabilità dei sistemi dell’ambito distrettuale e le prassi in uso ad opera del personale.

Note 5 Ci si riferisce, ad esempio, a procedure automatizzate di produzione documentale

amministrativa, strumenti di gestione del percorso personalizzato (lettere all’uten-te, promemoria di appuntamenti), ecc.

6 I primi sono contrassegnati con un asterisco rosso e comprendono i dati anagrafici e le informazioni principali di ciascuna sezione (profilo, problematiche, progetto, interventi); a titolo di esempio, nella sezione sulle disabilità è obbligatorio il campo “disabilità Sì/No” e la specificazione della presenza di certificazione ex l. 104/98, mentre sono facoltativi i dati relativi all’invalidità, all’accompagnamento, alla demenza.

7 La rilevazione sui sistemi informativi ha costituito una sezione delle schede anagra-fiche dei SSC predisposte come documentazione allegata ai Piani di zona 2013-2015.

8 Accanto a SSC che hanno inserimento nell’organigramma una specifica unità orga-nizzativa e/o la posizione di responsabile del sistema informativo, ve ne sono altri dove tale unità è assente o ricoperta dal/la Responsabile del SSC.

9 Lo si evince, in particolare, dalle imprecisioni nella denominazione di software, dall’accuratezza e completezza delle informazioni fornite.

10 I principali software sul mercato privato sono DATASAN Socialis, gestionale per il so-ciale prodotto dalla società Insoft SRL in uso presso 6 SSC, e Welfare Go della società WEGO SRL.

11 Insiel SPA è la società informatica controllata dalla Regione Autonoma Friuli Vene-zia Giulia dedicata allo sviluppo delle soluzioni informatiche per la gestione delle pubbliche amministrazioni. Essa non ha tuttavia il monopolio delle soluzioni adot-tate dagli enti pubblici, in quanto sono presenti anche altre società (per esempio, Halley Friuli SRL) con propri software per la gestione degli uffici demografico, ragio-neria, segreteria, tributi e tecnico.

12 È bene ricordare che in Friuli Venezia Giulia gli enti gestori dei SSC sono di tre tipi: Comune; Azienda per i Servizi sanitari (ASS); Azienda pubblica dei Servizi alla per-sona (ASP). Uno dei più diffusi applicativi per il controllo di gestione è GesPeg, pro-dotto dal Comune di Pordenone.

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sistemi informativi

In terzo luogo, i SSC sono chiamati a imple-mentare diverse banche dati online, nazionali o regionali, per l’erogazione di contributi e servizi la cui competenza è stata trasferita dai singoli comuni all’ente gestore o per finalità meramen-te statistiche. Alcuni esempi in tal senso sono il portale regionale Carta Famiglia, il sistema OCA (Osservatorio regionale sulla condizione abita-tiva), le schede ISTAT.

Inoltre, è prassi comune presso i SSC l’uso di numerosi fogli di calcolo e banche dati, costruite internamente e più o meno strutturate. Spesso si tratta di strumenti per la raccolta provvisoria o intermedia di dati da inserire in altri applicativi, ma in alcuni casi diventano i depositari unici e finali di preziose informazioni.

Infine, nei SSC si fa ancora massiccio ricor-so ad un tentacolare e poco esplorato sistema informativo non informatizzato: cartelle sociali cartacee, verbali, schede di valutazione e modu-listica varia.

Accanto a questo mosaico di sistemi di raccol-ta e informazione, bisogna citare, sebbene non siano stati oggetto di mappatura puntuale, siti e portali internet, ormai largamente diffusi.

Nonostante le lacune della rilevazione si evince uno stato dei sistemi infor-mativi in uso nei SSC del Friuli Venezia Giulia piuttosto comples-so e articolato, caratterizzato dalla presenza di soluzioni informati-che multiple (di origine pubblica e privata), nonché da un’evoluzione territorialmente disomogenea dettata soprattutto da urgenze e fabbisogni operativi non sempre adeguatamente e tempestivamen-te raccolti dal livello istituzionale regionale.

PrINcIPalI sfIde Per Il fUtUro

La ricognizione effettuata riporta dunque un panorama frastagliato di sistemi informativi locali che concorrono, si intersecano, si sovrap-pongono, si sostituiscono o semplicemente corrono paralleli al SISS regionale e ai suoi stru-menti. Tale complessità suggerisce alcune sfide importanti per il futuro dei singoli sistemi infor-mativi locali, del SISS del Friuli Venezia Giulia così come per quello delle altre regioni:La sfida della qualità del dato e dell’informa-

zione; da quanto emerso sembra auspicabile un ulteriore processo di omogeneizzazione dei criteri di inserimento dati, uno sforzo sul versante del loro costante aggiornamento e della possibilità di confrontarli tra territori e livelli amministrativi diversi, arricchendo-li con informazioni qualitativamente dense sull’utenza.13 Affidabilità, tempestività e comparabilità sono sfide che valgono tan-to per la raccolta del dato (CSI, SINA, INBA, Nomenclatore socio-sanitario, ecc.) quanto per le elaborazioni e le rappresentazioni delle informazioni.

La sfida dell’integrazione per la gestione del sociale; ovvero coniugare le esigenze degli operatori sociali coinvolti nell’erogazione

di interventi e servizi con quelle ammini-strative, contabili e di programmazione; il proliferare di sistemi di raccolta diversificati pone infatti problemi di dispersione, scarsa reperibilità, incomparabilità dell’informazio-ne tra territori. Sistemi informatizzati che raccolgono informazioni diverse sull’utenza potrebbero essere resi in grado di “comuni-care” con uno sforzo congiunto tra Comuni, enti gestori e Regione.

La sfida dell’integrazione tra diversi sistemi informativi; l’articolo 25 della LR 6/06 stabi-lisce che “la Regione assicura il collegamento del SISS con il sistema informativo sanitario, nonché con i sistemi delle altre aree dell’inte-grazione sociale e dispone le necessarie con-nessioni con la rete dei sistemi informativi delle Province, dei Comuni e degli altri sog-getti pubblici e privati […]”; sebbene questa sfida attenga al livello regionale, il processo di avvio dei Piani di Zona 2013–2015 ha evi-denziato quanto questa integrazione, benché fondamentale, sia piuttosto disattesa anche a livello locale.

La sfida della funzione di utilità; la maggior parte della letteratura sul SISS pone l’accento sulle funzioni che esso può ricoprire a sup-porto della programmazione/pianificazione dei servizi e degli interventi (profili, moni-toraggio, verifica, rendicontazione e valuta-zione). Rimangono però spesso trascurate due funzioni altrettanto importanti, ovvero quella del supporto operativo a chi impiega quotidianamente lo specifico applicativo (agevolandolo nel proprio lavoro) e quella all’utente. Nel complesso degli applicativi mappati, CSI inclusa, solo un’esigua parte di essi ricopre tali funzioni, e anche per questo motivo l’attività di inserimento dati soffre di una certa discontinuità e approssimazione.

La sfida della partecipazione; questa sfida riguarda principalmente la permeabilità del sistema da e verso l’esterno. Ad oggi i flussi informativi da/verso il privato sociale e la cittadinanza sono ancora a uno stato pri-mordiale, con un uso scarso di piattaforme interattive, web 2.0 e open data.14 Una super-ficiale ricognizione dei siti internet degli enti gestori e della Regione dimostra chiaramente quanto questa sfida sia oggi poco considerata, benché molteplici siano ormai le esperienze di open data caldeggiate dall’Agenda digitale delle pubbliche amministrazioni.

Governance dei sistemi informativi in uso. L’analisi svolta richiama con forza la necessi-tà di spostare l’attenzione dai “sistemi infor-mativi sociali” ai diversi “sistemi informativi in uso nei servizi sociali”; solo una gestione complessiva di tutte le diverse componenti predisposte al trattamento dei dati e delle informazioni presenti nei SSC consentirà di affrontare adeguatamente le sfide sopra identificate.

Raccogliere queste sfide in un momento sto-rico legato a contingenze critiche proprio sul versante sociale, appare una scelta obbligata per assicurare alle politiche sociali un sistema informativo governato che permetta di otti-

Bisogna assicurare alle politiche sociali un sistema informativo governato, che permetta di ottimizzare risorse sempre più scarse

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sistemi informativi

mizzare risorse sempre più scarse, in scenari in cui diverrà ineludibile produrre modificazioni strutturali e culturali, e dove le decisioni dovran-no essere adeguatamente supportate riducendo significativamente l’incer-tezza. Diversamente dal passato sarà necessario pertanto un impegno più determinato e convergente, da par-te di operatori e decisori politici, nel sostenere tale scelta e nell’assicurare il necessario supporto professionale e finanziario. #

Note13 Per esempio inserendo informazioni e

rappresentazioni grafiche delle reti fa-miliari e relazionali.

14 Una significativa eccezione in regione è stata la piattaforma CORO per la ge-stione partecipata del PDZ 2006–2008 dell’ambito distrettuale di Cervignano del Friuli (UD), iniziativa realizzata grazie ad un progetto di e-democracy co-finanziato dal CNIPA (Centro nazio-nale per l’informatica nella pubblica amministrazione).

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Libricarlo alfredo clerici, Laura Veneronila PsIcologIa clINIca IN osPedaleil Mulino, Bologna, 2014Punto d’incrocio fra la soggettività del paziente e quella dell’equipe, fra l’oggettività della malattia e gli aspetti istituzionali, l’attività di psicologia clinica in ospedale è oggi un ambito di intervento di crescente rilevanza. Il professionista che in tale contesto fornisce la propria opera di consulenza è chiamato ad affrontare la complessità dei fenomeni che agiscono sul paziente nel corso delle cure mediche. Il volume offre gli strumenti utili per comprendere i vissuti che si accompagnano alla malattia in ottica fisiopatologica, psi-copatologica, psicologica e relazionale.

M. palumbo Il Processo dI valUtazIoNefranco angeli, Milano, 2012Il processo di valutazione, primo volume di autore italiano di introduzione generale all’argomento, delinea il quadro di riferimen-to nel quale si colloca l’attività di valutazione delle politiche, dei programmi e degli interventi pubblici. Particolarmente attento all’analisi dei processi decisionali nelle organizzazioni pubbliche, il testo propone una chiave di lettura applicabile ai programmi di vasta portata come agli interventi più specifici, capace di orientare le molteplici scelte metodologiche ed operative che il valutatore deve compiere nella sua quotidiana attività professionale. Il testo risulta utile in particolare a chi svolge attività di progettazione e valutazione in campo sociale, educativo e delle politiche del lavoro.Ricco di riferimenti alla letteratura internazionale in materia, il volume presta particolare attenzione alle procedure in uso a livello europeo, codificate in occasione della recente riforma dei Fondi Strutturali (2000-2006), che vengono esposte criticamente nella seconda parte del testo. Arricchito da un saggio di apertura di Nicoletta Stame e completato da un’ampia bibliografia, è un testo che non mancherà di suscitare l’attenzione degli studiosi e professionisti, pur essendo fruibile da un pubblico più vasto.

f. comunello, e. BertifattorIa socIaleerickson, trento, 2013Questo libro nasce dall’esperienza vissuta nella costruzione e nello sviluppo di una fattoria sociale, dove giovani apprendisti con disabilità imparano e lavorano fianco a fianco con gli educatori nei campi, nei laboratori, in cucina. La fattoria sociale raccoglie la sfida di realizzare un contesto competente di sostegno, in grado di coniugare logiche apparentemente incompatibili, come solida-rietà e mercato, allo scopo di accompagnare i ragazzi verso l’acquisizione del ruolo di adulto lavoratore, interrompendo il circolo vizioso dell’assistenzialismo che li obbliga a essere «eterni bambini». Le riflessioni proposte danno la misura della profonda connessione tra pratica e teoria, sia nel percorso di crescita del singolo apprendista, sia nel progetto globale della fattoria, dove la cornice teorica dà senso all’operatività e la pratica (sorretta da un’os-servazione esperta) sostanzia e stimola la riflessione.

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«La scuola è aperta a tutti» Costituzione italiana, art. 34

Il diritto all’istruzione e all’inclusione1 scolastica per gli studenti con disabilità trova la sua pie-na espressione nel percorso legislativo iniziato con la promulgazione della Costituzione (artt. 3 e 34), proseguito negli anni ’70, in particolare con il D.lgs. 517/77, e poi con la legge 104/92, una tappa fondamentale che ha sancito una volta di piú il diritto per i bambini con disabilità ad essere accolti a scuola (artt. 12 e 13), ad essere istruiti secondo le proprie possibilità e a partecipare alla vita degli istituti in tutte le sue articolazioni.

La normativa prevede inoltre che gli enti locali assicurino il diritto all’inclusione scola-stica e sociale (l. 104/92, art. 10), mentre suc-cessivi articoli della stessa legge affermano che “l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handi-cappata nell’apprendimento, nella comunicazio-ne, nelle relazioni e nella socializzazione” (art. 12, comma 3) e che “nelle scuole di ogni ordine e grado, fermo restando […] l’obbligo per gli enti locali di fornire l’assistenza per l’autonomia e la comunicazione personale degli alunni con han-dicap fisici o sensoriali, sono garantite attività di sostegno mediante l’assegnazione di docenti

specializzati” (art. 13, comma 3).È dunque previsto l’affiancamento agli stu-

denti di altro personale fornito dagli enti locali, con compiti diversi e complementari a quello dei docenti curriculari e di sostegno.

Un ulteriore elemento è stato specificato quando è stata formalizzata la differenza tra assistenza di base e assistenza specialistica: il protocollo di intesa del 2000 tra MIuR, ANCI, uPI e Unione nazionale delle Comunità ed enti mon-tani, prevede infatti che l’assistenza di base agli studenti con disabilità sia da attribuirsi al perso-nale ausiliario delle scuole (profilo collaboratore scolastico) ed è intesa come “l’ausilio materiale agli alunni portatori di handicap nell’accesso dalle aree esterne alle strutture scolastiche e nell’uscita da esse, in cui è ricompreso lo sposta-mento nei locali della scuola”, oltre alle “attività di ausilio materiale […] per esigenze di partico-lare disagio e per le attività di cura alla persona ed ausilio materiale nell’uso dei servizi igienici e nella cura dell’igiene personale dell’alunno disa-bile” (Note al Protocollo di Intesa, 30/11/2001).

Agli enti locali rimane la competenza nel fornire “l’assistenza specialistica da svolger-si con personale qualificato sia all’interno che all’esterno della scuola […] Si tratta di figure quali, a puro titolo esemplificativo, l’educatore professionale, l’assistente educativo, il tradut-tore del linguaggio dei segni o il personale para-medico e psico-sociale (proveniente dalle ASL), che svolgono assistenza specialistica nei casi di particolari deficit” (Note al Protocollo di Intesa, 30/11/2001).

Il diritto all’istruzione e all’inclusione scola-stica è stato poi nuovamente confermato nel-la Convenzione ONu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia con la legge 18/2009 e di cui a titolo esemplificativo riporto parzialmente l’art. 24, comma 1: “Gli Stati parti riconoscono il diritto all’istruzione delle persone con disabilità. Allo scopo di realizzare tale diritto senza discriminazioni e su basi di pari opportu-nità, gli Stati parti garantiscono che il sistema educativo preveda la loro integrazione scolastica a tutti i livelli […]”.

Poco dopo l’approvazione del protocollo di intesa MIuR/ANCI, il principale obiettivo nell’avvicinarsi al servizio di assistenza educa-tiva specialistica agli studenti con disabilità, è stato conoscerne il funzionamento e verificare i requisiti del personale impiegato, assicurando la presenza di educatori professionali al fianco dei docenti e degli allievi.

assistenza eDucatiVa agLi stuDenti DisaBiLiL’esperienza del comune di Lainate

Luca Bianchi

Assistente sociale spe-cialista, referente Area Persone con disabilità, Comune di Lainate

Obiettivo dell’articolo è raccontare l’esperienza di organizzare e gestire, con gli Istituti comprensivi di Lainate e con le cooperative sociali incaricate, il servizio di assistenza educativa specialistica agli studenti con disabilità.La competenza dei Comuni circa l’assistenza specialistica a favore degli stu-denti con disabilità è prevista in diverse norme di leggi e il confronto tra diversi soggetti che si occupano di disabilità in questo ambito – famiglie, Istituti com-prensivi, Servizi sociali del Comune, uonpIA, cooperative sociali, enti di for-mazione – ha portato a buoni risultati, che si sono concretizzati in strumenti e prassi operative frutto di una riflessione non priva di ostacoli, ma con un unico obiettivo: garantire l’inclusione scolastica degli studenti con disabilità.La formazione comune insegnanti/educatori, il protocollo di intesa scuole/Comune, l’elaborazione di un registro di osservazione degli studenti con disa-bilità, la partecipazione attiva degli educatori alla vita delle classi, sono un buon risultato, ma siamo consapevoli che sono solo un passaggio verso un ulte-riore miglioramento del servizio. Rimangono alcuni problemi: la contrazione di risorse, la difficoltà di gestire classi numerose con alunni che, pur in assenza di certificazione, richiedono particolare attenzione da parte dei docenti; e ancora il confronto quotidiano tra insegnanti educatori, le richieste delle famiglie e le particolari caratteristi-che che ogni situazione porta con sé. Ci stiamo interrogando sul futuro del servizio, pensando anche a nuove moda-lità organizzative, consapevoli che il particolare momento che vive il welfare italiano porta con sé anche concreti rischi di involuzione, ma costituisce un’op-portunità per progettare, innovare e rinsaldare la rete.

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Il secondo passaggio importante è stato richiedere alle cooperative sociali appaltatrici una figura di coordinamento dedicata al servi-zio, in grado di rispondere in tempi ragionevoli alle esigenze e agli imprevisti quotidiani, con funzioni amministrative (conteggio ore, sosti-tuzioni operatori) e competenze tecniche, al fine di entrare nel merito dei progetti educativi e di essere di supporto a educatori e insegnanti.

Queste brevi considerazioni sul coordina-mento e sulla qualifica degli operatori possono apparire oggi banali, ma sono requisiti necessari a cui è stata posta sempre più attenzione, affin-ché venissero corrette alcune prassi a mio parere non sempre adeguate ad un servizio delicato e complesso.

Dopo aver lavorato per diverso tempo a que-sti aspetti, a seguito della disponibilità di un finanziamento (2006), il Comune di Lainate ha proposto ai docenti di sostegno di alunni della classe terza della scuola secondaria inferiore un corso di formazione, dal titolo “La bussola e la mappa – l’orientamento e l’integrazione sociale”, finalizzato ad aprire un confronto e a riflettere insieme sull’importante momento dell’orienta-mento dopo la scuola dell’obbligo.

Il tema era emerso durante le riunioni dei Gruppi di Lavoro per l’Integrazione Scolastica nelle scuole lainatesi (GLH, previsti dall’art. 15 della l. 104/92), e raccogliendo questo segnale in accordo con la cooperativa sociale appaltatrice del servizio abbiamo elaborato un progetto che a partire dalle esperienze dei docenti potesse essere un’occasione per discutere su come arri-vare all’orientamento nel pieno rispetto della persona e scegliere con le famiglie.

Negli incontri, a cui hanno partecipato una decina di professori e condotti alternativamente dal coordinatore del servizio, da una pedagogista consulente, da un’assistente sociale dell’uONPIA di Rho e da me in quanto assistente sociale inca-ricato di seguire l’attività, ciascuno ha potuto portare al gruppo di lavoro gli aspetti positivi e le criticità delle proprie prassi.

Discutere di orientamento significa parlare di valutazione delle capacità acquisite dallo stu-dente negli anni di scuola e delle sue aspirazioni e inclinazioni. Una buona fase orientativa prevede perciò diverse competenze legate alla didattica, alla pedagogia e alla capacità di mostrare ascolto ed empatia. Un vero e proprio momento con-sulenziale, tanto più fondamentale perché dalle scelte susseguenti dipende in molti casi il futuro dello studente.

Le conseguenze concrete di questa serie di incontri con gli insegnanti di sostegno sono sta-te due: l’elaborazione di un registro delle attività degli studenti con disabilità e di un protocollo di intesa tra il Comune e gli Istituti Comprensivi di Lainate per la gestione dell’assistenza speciali-stica nelle scuole.

Il registro è nato proprio dall’esigenza sopra accennata di osservare, misurare e valutare i progressi degli studenti nel corso del tempo e apportare modifiche ai progetti educativi anche in base a quanto rilevato da tutte le figure vicine agli alunni. Nella sua prima stesura aveva al pro-prio interno una serie di griglie di osservazione

circa le autonomie dello studente e l’interazio-ne di quest’ultimo con l’ambiente, dati utili per averne una conoscenza diretta e suggerire il per-corso di elaborazione del progetto educativo.2

L’osservazione ripetuta negli anni seguen-do lo schema inserito nel registro avrebbe dato preziose informazioni sui risultati raggiunti, sui punti di forza e di debolezza; la proposta ini-ziale era che questo documento coprisse l’arco di tempo che va dall’ultimo anno della scuola dell’infanzia sino all’ultimo anno della scuola secondaria inferiore.

Un elemento importante concerneva lo spazio riservato ai docenti curriculari e alle aspettative della famiglia, cioè ai risultati da raggiungere e ai progressi attesi, con lo scopo di coinvolgere il più possibile ogni singolo attore nella costruzione del progetto educativo.

Dopo diverse stesure e sperimentazioni, il registro è stato introdotto all’inizio di quest’an-no scolastico in uno dei due istituti comprensivi di Lainate e la sua versione finale, confrontata con quella iniziale, è stata rivista secondo le esigenze e le osservazioni proposte dai docen-ti. Ne vengono utilizzate due versioni: una per la scuola primaria e una per la scuola seconda-ria inferiore. Gli insegnanti dell’altro istituto comprensivo hanno invece elaborato schede di osservazione proprie e un proprio modello di progetto educativo.

Il risultato importante non è tanto avere uno strumento codificato e ufficiale, quanto l’avere contribuito a diffondere e socializzare tra gli insegnanti curriculari e di sostegno, e tra gli edu-catori, il valore che l’osservazione, la progetta-zione e la verifica portano con sé, a cui aggiungo aver condiviso l’importanza di dedicare tempo, competenze ed energie all’ascolto di famiglie e studenti.

L’altro documento prodotto grazie al con-fronto tra e con gli insegnanti è stato il protocol-lo di intesa tra il Comune di Lainate e gli Istituti comprensivi, finalizzato a regolamentare il coor-dinamento del servizio di assistenza educativa

Note 1 In riferimento al servizio di assistenza specialistica agli studenti con disabilità ho

scelto di utilizzare il termine “inclusione”, salvo dove sono riportati testi di autori o leggi. “[…] le differenze tra integrazione e inclusione […] potrebbero essere definite nel modo seguente: rispetto alle finalità l’integrazione mira ad ottenere risultati nell’ambito dell’autonomia, della comunicazione, della socializzazione e dello scam-bio relazionale attraverso il reperimento di risorse, spazi e sostegni, mentre l’inclu-sione tende al superamento delle barriere alla partecipazione e all’apprendimento” (Medeghini, Valtellina, 2006). E ancora: “L’inclusione richiede quindi di ricomporre in un quadro unitario tutti gli ambiti che […] intervengono nel processo biografico formativo: la famiglia, la scuola, i servizi , le associazioni, ma anche le reti informali della società, come i gruppi, i compagni di classe, il vicinato, i conoscenti che a vario titolo interagiscono con la persona disabile” (ibidem).

2 Il registro si inserisce nel solco del modello proposto dall’OMS attraverso l’ICF (Inter-national Classification of Functioning), che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. “Questa classificazione riguarda le caratteristiche della salute di tutte le persone, non solo quelle con disabilità, in relazione al conte-sto delle specifiche condizioni di vita individuali e alla loro interazione con i ‘fattori ‘ambientali’. In questo senso, si tratta della più compiuta classificazione centrata sul soggetto come ‘essere sociale’, in quanto sposta i termini della questione dalla menomazione alla vita dell’individuo misurata in rapporto al contesto specifico che può rappresentare un fattore di miglioramento o di ostacolo” (Schianchi, 2012). Per la realizzazione del registro un ringraziamento particolare va a Marco Zanisi, educa-tore professionale e a Raffaella Marazzini, pedagogista, rispettivamente direttore e consulente della coop. Serena di Lainate, www.serenacoop.org

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specialistica agli studenti con disabilità.Il protocollo definisce il servizio, riprenden-

do la normative, e stabilisce i compiti del Comu-ne e delle scuole, regolamentando le comunica-zioni (chi sono i referenti), scadenze e aspetti amministrativi (fogli ore mensili). Soprattutto ribadisce la possibilità che gli educatori parteci-pino ai consigli di classe, agli incontri con i ser-vizi specialistici e con le famiglie, e ne sancisce la piena collaborazione alla stesura del progetto educativo.

Nel 2010 il Protocollo d’intesa Istituti com-prensivi/Comune è stato rinnovato senza sostanziali modifiche e la sua diffusione tra gli insegnanti e gli educatori ne ha fatto un punto di riferimento condiviso e uno strumento utile a definire confini amministrativi e professionali.

Abbiamo riscontrato la necessità di regolare questi aspetti, alcuni dei quali già presenti nelle normative di riferimento, affinché i docenti e i nostri operatori fossero ben consapevoli del pas-saggio intercorso da assistenti a educatori, cioè professionisti con precise competenze pedagogiche, da spendere con gli insegnanti per i ragazzi, inte-grate con obiettivi e saperi rivolti alla didattica, occupati in un ruolo ad alta funzione pubblica.

La valorizzazione del ruolo degli educatori dal mio punto di vista ha per-messo di evidenziare anche il lavoro degli insegnanti, maggiormente orientato alla didattica, anche se la contaminazione è inevita-bile: i docenti, insegnan-do, educano; gli educatori, occupandosi di pedagogia a scuola, non possono non lavorare con la didattica e prescindere dal contesto.

Determinante allora è socializzare la cultura dell’inclusione e tornando alla realtà lainatese, i frutti di questo confronto positivo che ha coin-volto molte persone ai diversi livelli (assessorato, dirigenti, assistente sociale, docenti, coordina-tori, educatori) sono stati riscontrati nella pro-gettazione degli interventi e nelle restituzioni alle famiglie, e in tutta quella parte di relazioni che avvolge un servizio così complesso, che si sono evolute in una direzione di via via maggiore collaborazione.

Da sottolineare il rilevante lavoro svolto dai coordinatori del servizio e dagli insegnanti referenti nelle scuole, per aver trasmesso agli educatori e ai docenti l’estrema necessità di con-frontarci e conoscerci, di mettere a disposizione dell’altro le proprie competenze.

Va detto però che l’esito degli interventi, pur regolamentati e strutturati, spesso dipende dal rapporto che si instaura nella micro-equipe tra insegnanti ed educatori, a ribadire che il funzio-namento delle reti, a ogni livello, passa attra-verso le persone, prima che dalle regole o dalle istituzioni.

Mentre il numero degli studenti seguiti aumentava (così come il budget a disposizione

ma non purtroppo le ore erogabili), in linea con la filosofia del servizio, il Comune di Lainate ha proposto nel 2009 una nuova attività formati-va per gli educatori e gli insegnanti, con questi obiettivi:

informare docenti ed educatori dei diritti dei •disabili e delle loro famiglie, con particolare attenzione all’ambito formativo/scolastico;facilitare la comunicazione tra docenti, edu- •catori e famiglie;acquisire elementi per rendere più fluida que- •sta comunicazione;sollecitare un confronto tra docenti ed •educatori.

In sintesi, abbiamo cercato di aumentare anco-ra la qualità del servizio, occupandoci di comu-nicazione, a partire dai diritti delle famiglie; l’esperienza ci ha sempre confermato che ogni momento di confronto tra gli operatori porta dei benefici, le persone si contaminano e si conosco-no: così facendo ciascuno comprende meglio il lavoro e le competenze dell’altro e la collabora-zione ne beneficia.

Questa formazione è stata costruita con esperti della Lega per i diritti delle persone con

disabilità (LEDHA) e del Centro di Psicologia e Ana-lisi Transazionale (CPAT).

I contenuti si sono foca-lizzati sulla Convenzione ONu per i diritti delle per-sone con disabilità, su que-stioni perciò etiche e deon-tologiche, e sulla necessità di garantire una progressio-ne nell’applicazione di que-sti diritti, avvicinando la prassi al dettato delle nor-me; abbiamo discusso inol-tre dell’approccio centrato sulla famiglia nella disabi-lità e su alcuni elementi di Analisi Transazionale che

risultano particolarmente efficaci nella comu-nicazione tra operatori e con le famiglie.

Una parte di questi incontri è stata dedicata a mettere in luce i compiti e gli accordi che legano insegnanti ed educatori a scuola, comune, fami-glie, a partire dal concetto, utilizzato in analisi transazionale, di contratto3 e di contratto a più mani,4 così come definiti da Eric Berne e da Fani-ta English.

Mentre il mandato degli insegnanti è risulta-to sufficientemente chiaro (in estrema sintesi, riferito alla didattica, all’apprendimento, alla responsabilità pedagogica), il contratto degli educatori è stato più difficile da definire: quali sono gli obiettivi, i mezzi, qual è la relazione coi docenti.

Ci siamo chiesti cosa sia l’assistenza speciali-stica citata nei documenti del Ministero e quali sono le competenze che distinguono l’educatore dall’insegnante.

Abbiamo trovato le risposte nel lavoro svol-to ogni giorno, che ci consente di tracciare una direzione: gli educatori hanno le competenze per valutare le caratteristiche cognitive ed emotive degli studenti, possono individuare le strategie

L’esito degli interventi spesso dipende dal

rapporto tra gli attori, a ribadire che il funzionamento delle reti passa attraverso le persone, prima che da regole o istituzioni

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erogate, ma non quelle destinate a ciascun allie-vo (tavola 2).

L’elemento da sottolineare è che una discreta parte delle pur ridotte ore settimanali rischiano di non essere utilizzate, a causa di assenze degli studenti o degli educatori, o perché il calendario scolastico viene modificato e ci sono perciò gior-ni di vacanza non previsti.5

Questo avanzo ha rischiato di creare proble-mi sia alla programmazione del servizio che alle cooperative appaltatrici, non in grado di garan-tire un numero di ore certe ai propri educatori,

per facilitarne l’apprendimento, la socializzazio-ne, l’acquisizione di autonomie; possono concor-rere a fare ipotesi per il futuro. In tutto questo l’educatore è inserito in una rete ben strutturata: insegnanti (di sostegno e curriculari), cooperati-va (coordinatore), Servizi sociali, Servizi specia-listici, famiglie, formatori, supervisori.

Il dettato del contenuto delle normative relative all’assistenza specialistica è stato inter-pretato e ridefinito a partire dalle competenze di ognuno, dalle difficoltà che si incontrano nel quotidiano e dalle strategie e dal sapere che uti-lizziamo per superarle.

Le cooperative titolari dell’appalto hanno poi ripreso questa impostazione circa un anno dopo questi incontri, ancora con la collaborazione di un esperto del CPAT, ribadendo alcuni concet-ti già visti insieme e dedicando alcune ore alla discussione di casi e situazioni vissute in prima persona dagli operatori. L’iniziativa delle coope-rative, tenute alla formazione e alla supervisione del personale, si è mantenuta perciò all’interno delle caratteristiche del servizio, che attribuisce importanza alla comunicazione tra operatori e cittadini, e sollecita i professionisti a lavorare insieme, incoraggia la trasparenza delle decisio-ni, ne auspica la massima condivisione possibile, in particolare coi genitori.

Man mano che il servizio è progredito e cre-sciuto, anche in fase di elaborazione dei capito-lati di appalto le richieste del Comune si sono orientate nella valutazione dei progetti a richie-dere alle ditte partecipanti di mettere in rilievo, oltre alla capacità organizzativa e di costruzione degli interventi, i riferimenti teorici e deontolo-gici, le modalità di realizzazione delle attività, comprese formazione supervisione per gli ope-ratori; grande importanza, infine, è stata data al coordinamento del servizio e alla collocazione dello stesso nella rete dei servizi territoriali, tan-to quanto alla messa in evidenza delle ricadute dell’intervento supportivo sul progetto per la vita adulta dei cittadini con disabilità (progetto di vita).

Il problema della gestione delle risorse si è però fatto sicuramente sentire, considerato che negli anni siamo passati dal garantire 8–10 ore a settimana in media a ciascun bambino alle 6 attuali, che, seppur sommate a quelle degli insegnanti di sostegno, sono appena sufficienti a permettere di incidere sul PEI annuale. Que-sta difficoltà legata allo stanziamento dei fondi è direttamente connessa con l’impossibilità di determinare da un anno scolastico all’altro il numero degli studenti da seguire e per i più sva-riati motivi la griglia dei nominativi si compone di solito verso la fine di luglio e quindi in tempi non compatibili con la formulazione del bilancio comunale. La questione viene affrontata cercan-do di prevedere quale sarà il trend di crescita e con opportune variazioni di bilancio.

La tavola 1 riporta i dati dal 2005. Come si vede, a parte un anno (2010) in cui vi è stata una diminuzione di persone seguite, il nume-ro di allievi è in crescita costante, con aumenti importanti da un anno all’altro, come testimonia il passaggio dal 2011 al 2012. Una crescita che attiene anche le risorse economiche e le ore totali

tavola 1 variazione numero studenti

anno infa

nzia

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riore

seco

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2005 9 4 5 1 19 0 192006 6 8 4 1 19 3 22 15,792007 5 10 4 4 23 4 27 22,732008 7 12 7 5 31 4 35 29,632009 5 15 11 6 37 6 43 22,862010 4 17 9 4 34 7 41 -4,652011 * 7 20 17 5 49 7 4 60 46,342012 6 23 17 8 54 6 3 63 5,00Note: * 2 bambini della scuola primaria e un ragazzo delle superiori trasferiti in corso d’anno. ** In alcune situazioni (in genere fuori dal territorio comunale) le scuole rice-vono un contributo per organizzare in autonomia il servizio. ° Dall’a.s. 2011/2012 l’or-ganizzazione del servizio e il trasferimento delle risorse dalla Provincia è in capo ai singoli territori (nell’ambito di Rho è titolare l’Azienda Consortile Sercop, il numero si riferisce ai soli studenti lainatesi).

tavola 2 risorse destinate al servizioa.s. 2010/2011 ore erogate a.s. 2011/2012 ore erogate a.s. 2012/2013 ore erogate

€ 179.270,00 7.369 € 236.588,29 10.008 € 266.401,67 11.509Note: Gli importi comprendono anche I contributi alle scuole. Per l’a.s. 2012/2013 si tratta dell’importo impegnato.

Note 3 Il contratto è definito come “un esplicito impegno bilaterale per un definito corso

d’azione” (Berne, 1966); due sono gli elementi fondanti del contratto: uno attiene al contenuto e uno invece “è un elemento di processo, la contrattualità, e si riferisce piuttosto alla definizione del rapporto terapeuta paziente che Berne definisce ‘bila-terale’ e che, probabilmente, ha a che fare con la concezione del rapporto che sta alla base dell’Analisi Transazionale” (Rotondo, 1986). La contrattualità sembra garan-tire quella dimensione dinamica che il contratto, in una relazione tra due persone, terapeuta e paziente, deve possedere se vuole realmente essere frutto di una scelta bilaterale e non un’imposizione: “possiamo parlare di contrattualità bilaterale, quindi, se parliamo di qualcosa che avviene in un rapporto intersoggettivo, conte-stualizzato, in uno spazio e in un tempo” (ibidem).

4 I contratti triangolari o multipli sono stati elaborati da F. English e sono uno stru-mento per esaminare i rapporti tra individui e organizzazioni o tra organizzazioni e permettono di analizzare, per esempio, quali accordi sono stati presi tra com-mittente, formatori e partecipanti: “Quando si offre un servizio (tipo giornata di studio o workshop) a un’organizzazione che presenta come clienti persone che ne fanno parte, non è sufficiente rispettare il contratto stipulato con l’organizzazione. È altrettanto importante informarsi sui contratti intercorsi tra l’organizzazione e i futuri partecipanti” (English, 1992).

5 “Se si analizza il numero di ore prestate dall’assistente educativo-culturale o assi-stente ad personam (AEC) – figura professionale specifica per l’alunno con problemi di autonomia e pagata dagli enti locali – si evidenzia che gli alunni non autonomi in tutte le attività considerate (spostarsi, mangiare, andare al bagno) dispongono mediamente di circa 9 ore settimanali di assistenza sia nelle scuole primarie sia in quelle secondarie. Per gli alunni con limitazioni minori di autonomia le ore medie scendono intorno alle 3 per entrambi gli ordini scolastici” (ISTAT, 2013).

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incorrendo nel pericolo di aumentare le fisiolo-giche percentuali di turnover.

Anche su questo aspetto i coordinatori delle cooperative e gli insegnanti, appoggiati dai ser-vizi specialistici e con l’autorizzazione del Comu-ne, hanno proposto di utilizzare parte di queste ore “avanzate” fuori dalla scuola.

Gli educatori hanno cominciato ad affiancare alcuni studenti al domicilio, sia durante le nor-mali attività della scuola, sia quando quest’ulti-ma era chiusa, come durante le vacanze di Natale o in estate. Non solo: dietro richiesta di alcune famiglie gli educatori scolastici hanno supporta-to dei bambini anche al centro estivo parrocchia-le, mentre da circa due anni dove ritenuto par-ticolarmente utile, gli operatori incontrano gli studenti la settimana prima che inizi la scuola, con l’idea di riprendere i contenuti, riavvicinare i ragazzi al clima scolastico e dare continuità al lavoro svolto nell’anno precedente.

Il servizio di assistenza educativa agli studen-ti con disabilità ha perciò trovato negli anni una buona stabilità, grazie al lavoro svolto e all’in-staurarsi di prassi operative condivise, anche e soprattutto nella comunicazione tra quanti ne sono coinvolti.

Si stanno valutando forme organizzative alternative: dagli Istituti comprensivi è parti-to il suggerimento di avere in ogni scuola degli educatori di riferimento, per facilitare l’organiz-zazione degli orari e il flusso di comunicazioni, agevolare la conoscenza e l’affiatamento con i docenti, ridurre l’incidenza di variabili come le assenze degli operatori e il tempo che questi impiegano negli spostamenti.

È una possibilità che vorremmo vagliare,

anche se il pericolo è di mettere a repentaglio la continuità educativa tra un ciclo e il successivo (oppure quando un bambino cambia scuola), per non parlare di problemi di gestione del personale da parte delle cooperative appaltatrici.

In conclusione l’esperienza raccontata è ricca di momenti positivi, che si sono alternati ad altri più faticosi, fisiologici quando sono coinvolte tante persone con professionalità, temperamen-ti e appartenenze diverse.

In più di dieci anni di lavoro però, con la volon-tà e la professionalità di ciascuno e con l’obiettivo chiaro di migliorare lo stare a scuola dei bambini e dei ragazzi con disabilità, abbiamo costruito un sistema che ha una propria identità e che è rico-nosciuto a pieno titolo nella cultura della rete, da cui sono nate altre idee, per collaborazioni, nuovi servizi e nuove possibilità formative.

Per questo motivo un ringraziamento specia-le va a tutti coloro che in questo percorso sono stati presenti, con la loro professionalità, le loro proposte e la loro dedizione. #

disabilità

bibliografiaBerne E., Principi di terapia di gruppo, Astrolabio, Roma,

1986English F., “I contratti triangolari e multipli”, Neopsiche,

17-18, 1992ISTAT, L’integrazione degli alunni con disabilità nelle scuole

primarie e secondarie di primo grado statali e non stata-li, 25/01/2013

Medeghini R., Valtellina E., Quale disabilità?, Franco Angeli, Milano, 2006

Rotondo A., “La contrattualità in analisi transazionale”, Neopsiche, 8, 1986

Schianchi M., Storia della disabilità, Carrocci, Roma, 2012

Librir. Maggian I servIzI socIoassIsteNzIalI carocci faber, roma, 2013 Questo testo fa parte di una sorta di trilogia la cui prima edizione, del 1990, riportava stralci di leggi, piani, regolamenti, direttive e circolari emanati dalle varie Regioni in materia socio assistenziale dopo il decentramento avviata dal D.P.R. 616/1977. La seconda edizione, pubblicata nel 2001, ha descritto la situazione dei servizi socio assistenziali a poche mesi di distanza dall’ema-nazione della legge 338/2000.Con questa terza edizione si fa il punto sul sistema integrato di interventi e servizi sociali, quale si è venuto a realizzare nei vari terri-tori regionali dopo la modifica, approvata nel 2001, del titolo V della Costituzione. Come nelle precedenti stesure, il libro riporta gli standard dei servizi socio assistenziali tratti dalla legislazione regionale e da esperienze di enti locali, allargando il campo ad alcuni servizi sociosanitari e socioeducativi.Il volume è rivolto agli studenti universitari dei corsi di Servizio sociale, ai dirigenti e responsabili dei servizi, agli assistenti sociali , agli educatori, ai volontari, alle cooperative sociali e alle altre imprese che gestiscono servizi alla persona.

J. gillard, M. MarshallaNzIaNI all’arIa aPertaerickson, trento, 2013Il contatto con il mondo naturale è fonte di emozioni e sensazioni che ci fanno stare bene e sentire vivi, un’esigenza innata in ogni essere umano. Eppure a molte persone che soffrono di demenza, anche nelle migliori strutture di cura, questo indispensabile lega-me con la natura viene precluso, o concesso solo parzialmente.Questo libro, in modo semplice ma persuasivo, vuole mostrare come e perché occorra promuovere l’organizzazione di attività all’aria aperta per le persone con demenza, e dà voce alla testimonianza diretta di quanti hanno già fatto tali esperienze, traendone grandi benefici. Più che una presentazione tematica, Anziani all’aria aperta è una raccolta di idee e progetti interessanti realizzati in situa-zioni molto diverse tra loro, da laboratori creativi ad attività di agricoltura e orticoltura, passeggiate, percorsi di pet-therapy.Dai racconti e dalle esperienze degli autori, i familiari, i caregiver e le figure professionali che si occupano dell’assistenza a persone con demenza potranno trarre spunti e ispirazione per migliorarne la qualità della vita, rendendola più ricca e significativa, a partire da ora.

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Questo lavoro, durato circa un anno e mezzo, è nato nel centro polifunzionale maschile per richiedenti asilo e rifugiati politici di via Giorgi del Comune di Milano, gestito in appalto dal-la Cooperativa Farsi Prossimo. Questo centro accoglie trenta persone ed ha un’equipe socio-educativa formata da un responsabile part time, un’assistente sociale a quattordici ore due edu-catori a diciotto ore, cinque custodi che coprono i turni ventiquattro ore. Il centro può ospitare solo uomini maggiorenni richiedenti asilo, rico-nosciuti rifugiati o aventi protezione interna-zionale, offre un’accoglienza di primo livello ed è inserito in un circuito che sul territorio di Milano prevede quattro centri maschili per tre-cento posti totali e uno per donne sole o con figli minori di settanta posti.

La figura giuridica del rifugiato politico nasce nel 1951 con la Convenzione di Ginevra, dopo i soprusi verso alcuni gruppi etnici, religiosi e politici avvenuti durante la seconda Guer-ra mondiale: il rifugiato è infatti colui che fugge per-ché perseguitato a causa della sua razza, religione, opinione politica, naziona-lità o appartenenza a uno specifico gruppo sociale. Con il passare degli anni, a causa dei forti cambiamen-ti sociali a livello mondiale, sono nate accanto alla Con-venzione, una serie di pro-tocolli, atti e dichiarazioni internazionali a tutela, sia dei rifugiati che di tutte le popolazioni che vivono in uno stato di privazione dei diritti fondamentali. L’esperienza del rifugiato, che va dal momento in cui si avver-te il pericolo fino all’arrivo ed alla nuova vita nel paese di accoglienza, è caratterizzata da traumi sociali e psicologici derivanti dall’abbandono della propria casa, dal viaggio e dalla costante ricerca nel mantenere uno stato d’animo che per-metta di prendere decisioni e fare scelte sensate nella precarietà della sua situazione, in quanto deve affrontare un nuovo processo di socializza-zione che gli permetta di acquisire uno status ed un ruolo nella nuova società.

Il Comune di Milano, vista la particolarità dell’utenza ha deciso di dedicare un’ ufficio spe-cifico che negli anni ha sviluppato sempre di più un’attenzione per quelle che possono essere le

problematiche relative al percorso di integrazio-ne (non conoscenza della lingua, mancanza di un lavoro, di una casa, di status). Per supportare quindi il percorso di integrazione il servizio ha intensificato la collaborazione con realtà pub-bliche e del privato-sociale, dedite al sostegno psico-terapeutico e/o psichiatrico e all’inseri-mento lavorativo e che entrano a pieno titolo ad essere soggetti unici chiamati in causa durante il periodo di accoglienza all’interno dei centri polifunzionali. L’ufficio asilo è suddiviso in uno sportello di segretariato sociale in cui vengono fornite agli utenti varie informazioni che rispon-dono alle necessità primarie: vitto, alloggio, cure mediche e orientamento giuridico. Lo sportello centri di prima accoglienza, gestisce la lista di attesa per l’ingresso nei Centri Polifunzionali, informa sul significato dell’intraprendere un

percorso all’interno di tali centri e mantiene costanti rapporti con gli operatori per l’aggiornamento sulle situazioni e sulle attività dei singoli ospiti.

Il rifugiato che accetta di entrare nel centro, stipula con il Comune un contratto che prevede un’accoglienza di dieci mesi con l’assegna-zione di alcuni benefit qua-li tessera per il trasporto pubblico, copertura di tutti i pasti, kit per l’igiene per-sonale, la partecipazione a corsi di italiano, se ha un buon grado di comprensio-

ne della lingua a corsi di formazione e l’avvio di un percorso di inserimento lavorativo attraverso lo strumento della Borsa Lavoro.

L’equipe socio-educativa, che lavora all’in-terno del Centro polifunzionale ha il mandato di consegnare i benefit e di aiutare il rifugiato sia a prendere contattati con le agenzie esterne che offrono tali servizi, sia ad intraprendere un progetto che sviluppi attorno a sè una rete di per-sone e di servizi atte a potenziare le sue risorse. L’obiettivo di tale progetto è quello di inserire il rifugiato nel contesto territoriale e di renderlo autonomo nel minor tempo possibile.

In questi anni si è potuto osservare che offri-re progetti standardizzati ad un’utenza che in realtà necessita di una presa in carico personaliz-zata che coinvolge differenti servizi del territo-rio, può portare a un rifiuto del progetto stesso.

gruppi intercuLturaLisperimentazione metodologica con richiedenti asilo e rifugiati

Sabina Di Pietro

Assistente sociale, Coop. Farsi Prossimo

Il rifugiato politico è colui che fugge

perché perseguitato a causa della sua razza,

religione, opinione politica, nazionalità

o appartenenza a uno specifico gruppo sociale

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migrazioni

Difatti, in diversi casi, l’ospite abbandona il per-corso, oppure usa il Centro solo come un luogo di sosta e di passaggio per attivare una rete legata al gruppo di connazionali che, in questi casi, si sostituiscono in tutto agli operatori o, nel peg-giore dei casi, non adotta nessuna strategia per un cambiamento.

Tali progetti si conformano meglio alla tipo-logia di ospiti che indicativamente rispecchia queste caratteristiche:

sono appena arrivati in Italia o gravitano da •diversi anni sul territorio ma, non conoscono la lingua e non hanno seguito dei percorsi di integrazione tanto da avere le stesse peculia-rità dei neo-arrivati;hanno già ottenuto il riconoscimento dello • sta-tus di rifugiato o la protezione internazionale;hanno esperienze di lavoro significative; •non presentano fragilità legate per esempio •a torture, persecuzioni, al fallimento del pro-getto migratorio, all’età avanzata o alla gio-vane età, ecc.

Per tutti i motivi sopra elencati gli operatori che lavorano nei centri riscontrano quotidianamen-te le seguenti problematicità:

la complessità dei casi e l’obiettivo di integra- •zione e autonomia richiedono dei progetti socio-educativi individualizzati che neces-sitano di tempi maggiori di presa in carico, rispetto ai dieci mesi di accoglienza, e di con-seguenza un maggiore monte ore da dedicare loro; esigenza di trovare un punto di incontro tra •le richieste del rifugiato, tenendo conto del suo contesto culturale e dall’altro l’esigenza dell’operatore di dover offrire progetti che integrino la persona in breve tempo;difficoltà nel riuscire a reperire delle risorse •differenti da quelle previste da questa tipo-logia di accoglienza che possano essere più idonee ai bisogni propri dell’ospite;complessità del lavoro quotidiano con perso- •ne multiproblematiche e di differenti culture all’interno di un unico centro;esigenza di restituire agli ospiti la respon- •sabilità del proprio progetto e delle proprie azioni in un contesto di accoglienza che tende ad essere molto più assistenziale che emancipatorio; il territorio non sempre ha la capacità di •sostenere e assecondare le richieste di inte-grazione.

A fronte di ciò, si è pensato di provare ad intro-durre come nuova metodologia di lavoro lo strumento del gruppo (non di auto mutuo aiu-to) basato sulla relazione interculturale, che è lo strumento che permette il confronto, lo scambio e la condivisione reciproca. Questo tipo di meto-dologia non esclude una presa in carico indivi-duale dell’ospite ma si affianca ad essa, in modo tale da delegare al gruppo le risposte ad alcuni temi comuni come ad esempio il significato e i tempi della burocrazia per l’ottenimento di alcu-ni documenti.

Un ciclo di supervisioni ad hoc, effettuate pri-ma e durante la fase di sperimentazione, hanno aiutato l’equipe a focalizzare i punti principali su cui fondare questo tipo di lavoro:

la conduzione del gruppo deve essere fatta in •modo che ci sia una comunicazione intenzio-nale, anche attraverso la costruzione di stru-menti, tale da far succedere degli eventi; per creare intenzionalità è necessario condi- •videre l’oggetto e gli obiettivi che si vogliono raggiungere, favorendo la partecipazione e la gestione attiva dei partecipanti;avere un compito è un metodo per far succe- •dere quel qualcosa che il gruppo si era ripro-posto, ed aiuta sia a mantenere viva la relazio-ne sia ad interagire per creare un’esperienza comune.

I criteri di accesso vengono decisi a priori e dipendono non solo dall’obiettivo del gruppo ma anche dalle caratteristiche degli ospiti presenti (per esempio tempo di permanenza, conoscenza della lingua)

La co-conduzione è necessaria perché per-mette, in base alla metodologia di lavoro che dopo verrà esposta, di avere o due differenti pun-ti di osservazione o un’osservazione privilegiata, delle dinamiche del gruppo.

I gruppi possono essere di diverse tipologie.Gruppi animativi: per imparare a stare insieme

agli altri condividendo momenti di convivia-lità allo scopo di riempire dei tempi vuoti.

Gruppi per la condivisione delle regole: per imparare a capire e rispettare le regole, per creare uno spazio per la modifica delle stesse e per capire come gli ospiti vivono dentro la regola e come gli operatori devono far rispet-tare le stesse.

Gruppi culturali: per imparare di più della cultu-ra attraverso lo scambio e la conoscenza.

Gruppi sul progetto di vita: per imparare il significato di progetto di vita aiutandoli a capire quali sono le risorse che possono mettere in gioco, quali i limiti e quali le loro capacità, attraverso un confronto sulle aspet-tative future.

La sperimentazione è durata circa tre mesi ed è partita con gruppi sulla vita del centro e anima-tivi. Si è deciso di organizzare i gruppi in modo tale da: non avere delle regole di ingresso, non definire gli obiettivi, favorire una comunicazio-ne spontanea e non guidata, avere una co con-duzione dell’assistente sociale e dell’educatore, avere una cadenza quindicinale. Considerando il numero di ospiti e degli operatori, si è deciso di organizzare due gruppi da 15 persone ciascuno tenuti in due giorni diversi della stessa settima-na. Fin da subito si è vista una buona partecipa-zione relativamente al voler parlare delle proprie esperienze legate alla vita quotidiana nel centro, ai tempi per l’ottenimento dei documenti, alla difficoltà di trovare un lavoro, ma sono anche nate delle proposte inerenti al miglioramento di alcuni aspetti legati al regolamento del luogo che li accoglie. Infatti da questi primi gruppi sono emerse delle indicazioni che ci hanno portato a modificare alcuni aspetti organizzativi: auto organizzazione di turni di pulizia del centro nei giorni festivi, modifica di alcuni orari rispetto alla distribuzione dei pasti serali, dello spegni-mento delle luci e dell’uso di alcuni spazi comuni che sono effettivamente risultati più adeguati alle esigenze degli ospiti. Inoltre ha portato alla

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migrazioni

organizzazione di tre differenti eventi di cene a tema che ha visto il coinvolgimento di tutti gli ospiti indipendentemente dall’appartenenza culturale.

Nella seconda fase si è deciso di strutturare meglio i gruppi in modo tale da dare delle rispo-ste alle principali ansie che seguono la vita dei rifugiati all’interno dei centri: il lavoro e la casa. Anche questi gruppi non prevedevano delle regole di ingresso ed erano divisi in due gruppi da 15 persone ciascuno tenuti in due giorni diver-si della stessa settimana e con cadenza quindi-cinale. A differenza dei primi, si è prevista una scaletta (tavola 1) da condividere con i parteci-panti durante il primo incontro e modificabile in base a ciò che emergeva dal gruppo stesso. È stata anche introdotta una scheda di osser-vazione (tavola 2), compilata alternativamente dall’assistente sociale e dall’educatore che aveva il ruolo dell’osservatore. In questa scheda vengo-no annotate oltre alla presenze, le rappresenta-zioni esplicite e implicite che emergono rispetto al tema deciso, i registri comunicativi (quali temi creano conflitto e/o resistenze e quali sono i più facile da affrontare), l’evoluzione del gruppo (cosa il gruppo impara e quali sono i momenti di involuzione). Ad ogni incontro inoltre è sta-to dato un titolo e questo ha creato curiosità, ed essendo più chiaro l’obiettivo è stata anche più facile la conduzione dello stesso. Il gruppo è partito chiedendo ai partecipanti di raccontarsi rispetto al tema deciso e si è introdotto per la prima volta un “compito” che è stato utilizzato per costruire l’incontro successivo partendo dal loro punto di vista.

Analizzando questi primi incontri, focalizza-ti sul lavoro, sono emerse chiare le loro rappre-sentazioni sul tema che si possono riassumere in due punti principali: difficoltà di trovare un lavo-ro perché stranieri e per mancanza di amici che possono fare da referenti. Attraverso lo scambio e la conoscenza dei modi di cercare e trovare un lavoro in ogni paese di appartenenza e, trovan-do anche delle similitudini, tali rappresentazioni sono state modificate. Al termine degli incontri gli ospiti hanno socializzato che in qualsiasi par-te del mondo il titolo di studio e le esperienze sono importanti per trovare più facilmente un lavoro ben retribuito e abbastanza stabile, che ci sono delle nette differenze nel modo in cui si cerca lavoro per cui in Italia si dà molto impor-tanza al CV, alla presentazione ed al colloquio, momenti che generalmente vengono poco con-siderati e mal sfruttati. La partecipazione è gene-ralmente stata molto attiva, i momenti di stallo sono stati legati alle discussioni sulla crisi ed alla recessione di questo periodo storico che non fa intravedere prospettive positive. Molti hanno usato questi momenti come luogo per far emer-gere e condividere esperienze positive e nega-tive e la conseguente ansia per la mancanza di lavoro. L’osservazione degli atteggiamenti e dei racconti di alcuni ospiti che facevano intravedere malessere, ci hanno permesso di fare una presa in carico del singolo più mirata ed efficace.

La terza fase contempla dei gruppi che seguono l’andamento temporale della presenza dell’ospite all’interno del centro.

Si è prevista sempre la conduzione con osservazione, il compito per la preparazione del gruppo successivo, la scadenza quindicinale e l’inserimento di regole di accesso in base ai mesi di accoglienza o a delle caratteristiche peculiari dell’ospite spendibili nello specifico gruppo:

dopo il primo mese di permanenza un gruppo •di due incontri per la conoscenza dei singoli ospiti della loro storia migratoria, della cono-scenza del centro e della loro rappresentazio-ne rispetto al significato di vivere in un cen-tro di accoglienza e degli aiuti che si possono ricevere;tra il quarto ed il quinto mese un gruppo di •circa quattro incontri sul progetto di vita;tra il sesto e l’ottavo mese un gruppo di pre- •parazione all’uscita.

Il primo ciclo di incontri ha un duplice scopo: la prima parte è dedicata a mettere in comune il proprio percorso migratorio. A ogni ospite viene chiesto di raccontare quali sono state le tappe del suo percorso da quando ha lasciato la propria casa sino all’arrivo al centro. Spesso sono per-corsi molto lunghi sia in termini spaziali (han-no attraversato mediamente tre/quattro paesi a volte anche di più) sia in termini temporali ( a volte il percorso è fatto di tappe molto lunghe anche di anni). Chiediamo di raccontare anche come è avvenuto questo viaggio e nel frattempo che tipo di attività o di studio e/o di lavoro hanno fatto. Questi racconti permettono a noi di avere un primo quadro della persona, del suo vissuto, delle modalità con le quali si è relazionato con i vari ambienti che ha incontrato nel suo percorso. Da qui proviamo a capire se la “tappa Milano” è vista come punto di arrivo o come punto di pas-saggio verso altre mete. Questo è fondamentale

tavola 1 scheda di osservazionegiorno ___________ incontro n. __tema del gruppo __________________conduttore ___________________osservatore ______________________

partecipazioneregistri comunicativi:

osservazione contenuti/rap-presentazionenome cognome presente ritardo partecipata non partecip.

osservazioni generali: ______________________________________________

tavola 2 gruppi sul lavoroincontro Descrizione compito1 Descrizione dei prossimi incontri e della pro-

duzione di un documentoCom’è il lavoro nel tuo Paese, come si cerca, esiste un contratto, ecc., e che significato ha

Pensare alle reali differenze tra i loro Paesi e il nostro

2 Partendo dalle loro riflessioni, spiegazione delle differenze di com’è e cosa significa il lavoro in Italia

Come si cerca il lavoro in Italia? Punti impor-tanti nella ricerca di un lavoro

3 Partendo dalle loro riflessioni, carrellata sul-le agenzie di lavoro, modalità di ricerca del lavoro non a pagamento

Cosa significa fare un colloquio?

4 Partendo dalle loro riflessioni, il colloquio, cos’è, cosa implica, cosa chiedono, a cosa serve

Recuperare le diverse tipologie di contratto

5 Il lavoro in Italia, contratti Domande su tutto il percorso6 Raccolta delle domande e consegna di una

scheda riassuntiva del nostro lavoro

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per capire quale progetto costruire con la perso-na. Le risposte non sono sempre chiare perché ovviamente dipendono anche da una serie di fattori esterni che possono con il tempo con-dizionare la scelta, ma sono importanti perché diventano per noi il punto di partenza per il per-corso individuale. La seconda parte dell’incontro è invece dedicata a riprendere quelle che sono le regole fondamentali della convivenza all’interno del Centro e quali tipo di azioni/aiuti noi pos-siamo offrire durante il periodo della loro per-manenza. Anche questa parte si cerca di gestirla come se fosse una semplice conversazione così da dare a loro la possibilità di chiedere e capire meglio il contesto in cui si trovano.

Il secondo ciclo di incontri si basa sul concet-to di progetto, che spesso viene nominato sia allo sportello prima dell’ingresso nel centro, sia durante la permanenza ma soprattutto al temine dell’accoglienza. Considerando il difficile tema di discussione si è deciso di utilizzare la tecnica del braistorming attraverso la partecipazione attiva del conduttore, per arrivare ad una definizione condivisa di alcuni termini specifici quali pro-getto, contenuto, azioni ed obiettivo. Le rappre-sentazioni sono molto differenti in base all’area geografica di appartenenza, spesso il termine progetto è associato ad aiuti da parte di qualcuno e a concetti quali lavoro denaro, più difficilmen-te si associa alla propria vita e alla prospettiva nel futuro. La costruzione condivisa, anche con esempi pratici, del significato e del contenuto del progetto, aiuta a capire ed a trovare degli obietti-vi più soggettivi, ripercorrendo la propria storia ed i propri desideri. Il progetto si trasforma così in progetto di vita con degli obiettivi concreti e delle azioni più realistiche e legate al nuovo con-testo di appartenenza.

Il terzo ciclo di incontri ha lo scopo di prepa-rare gli ospiti all’uscita sollecitando la fase eman-cipatoria. Le rappresentazioni sul tema della vita post centro sono associate a concetti di accudi-mento e assistenzialismo, difficilmente si asso-ciano a una vita in completa autonomia. Attra-verso la spiegazione di quello che è il mondo delle accoglienze sul territorio, si cerca di far capire quali sono le reali possibilità di posti letto e le richieste economiche e di garanzie contrattuali per riuscire a reperire una soluzione alloggiativa. Spesso tali richieste non permettono all’ospite che lavora di inviare sostegno economico alla famiglia, questo crea un contrasto, generalmen-te di difficile comprensione e soluzione, tra l’esi-genza di sentirsi e di essere di aiuto per la propria famiglia e il vincolo di pagare mensilmente l’af-fitto. In questa faticosa fase, si sostiene l’ospite anche attraverso colloqui individuali.

Affiancati a questi incontri più specifici si è deciso di continuare a fare i gruppi animativi, per creare delle occasioni di convivialità allo scopo di migliorare la vita passata al centro e per rafforzare la partecipazione degli ospiti ad eventi ricreativi anche esterni al centro. In questo ambito rientra un gruppo tenuto da una volontaria che, per la giornata mondiale del rifu-giato del 2012, ha portato alla creazione di frasi e parole sull’esperienza del viaggio e sull’espe-rienza dell’essere rifugiati. Tale lavoro, raccolto

in una decina di quadri, è stato portato in mostra in diversi eventi ed è attualmente esposto presso il CP Giorgi.

Concludendo possiamo affermare che la metodologia del lavoro di gruppo ha mostrato alcuni aspetti positivi:

attraverso lo scambio delle esperienze indi- •viduali si riesce a mettere l’ospite di fronte al fatto di non essere solo e quindi imparare e condividere le difficoltà prendendosi cura delle proprie responsabilità; si è visto che rispetto alle proprie richieste l’ospite diventa meno delegante e riesce a condividerle molto di più con gli operatori;gli ospiti che frequentano i gruppi hanno la •possibilità di sperimentare nuove forme di socialità e l’occasione di creare relazioni più stabili e di aiuto tra di loro, sia durante i grup-pi che nella quotidianità;i gruppi interculturali, permettono anche agli •ospiti di eliminare pregiudizi verso culture altre facendo nascere una migliore conviven-za all’interno del centro;i gruppi permettono all’ospite di sviscerare •il desiderio di raccontarsi e di far conosce-re la cultura di appartenenza e di esprime-re la curiosità verso altre culture; questo è per l’ospite il modo di rendere partecipe tutti della sua storia e soprattutto di non dimenticarla. raccontare la propria storia, il modo di vivere •nel proprio Paese, come si vede e si pensa di un determinato argomento e avere un confronto su di esso permette all’ospite di arrivare ad avere una conferma o una modifica delle pro-prie rappresentazioni rispetto al tema affron-tato, come ad esempio rispetto al proprio di lavoro o all’idea di progetto di vita;l’esperienza del gruppo, come da un riscontro •positivo da parte dei servizi con cui collabo-riamo, è vissuta dagli ospiti in modo positivo e partecipato anche in contesti differenti dal centro polifunzionale dove questo strumen-to è utilizzato come metodo di confronto e di elaborazione progettuale;lo scambio interculturale che si instaura •all’interno del gruppo aiuta non solo l’ospite a capire meglio dove è collocato ma anche gli operatori a capire la cultura altra arricchendo la propria esperienza professionale a favore anche di interventi più specifici;avere la possibilità di contenere ed elaborare •alcune ansie in contesti gruppali permette di avere una presa in carico individuale più sostanziale migliorando così sia l’efficienza dell’intervento, in termini di rapporto ore e carico di lavoro, sia l’efficacia per maggiore qualità dell’intervento;

Per i motivi appena sopra descritti, si è deciso di proseguire e di potenziare questo tipo di lavo-ro metodologico, portando questa esperienza anche agli altri Centri polifunzionali. Inoltre, essendo una metodologia molto flessibile per-ché facilmente adattabile al contesto e alle per-sone che vi gravitano, potrebbero essere uno strumento utile in altri servizi quali Centri diurni, appartamenti di seconda accoglienza o housing sociali. #

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Le realtà dei Servizi per la Protezione e la Tutela dei Minori rappresentano uno dei più diversi-ficati panorami nei quali si declinano i servi-zi sociosanitari territoriali. Ogni ambito ha tradotto l’idea di efficienza e di efficacia nella tutela minorile in modulazioni organizzative e strutturali proprie. Seppure il corpus legislativo regionale consideri tale funzione all’interno dei mandati del consultorio familiare, sono diverse le aree territoriali che hanno effettuato speci-fici scorpori costituendo pressoché autonome modulazioni operative, variamente nominate. All’interno dell’Azienda uLSS 6 Vicenza questa variabilità ha caratterizzato fortemente lo svi-luppo delle modalità con cui l’attività è stata ed è svolta. I quattro distretti nei quali è, ancora, suddivisa l’Azienda, hanno dimostrato sensibili-tà, attenzioni, idee e, conseguentemente, tempi diversi rispetto alla funzione che è in capo agli enti locali, tali che allo stato attuale esistono 4 forme diverse di accordo tra Comuni e uLSS, attraverso i distretti, per la gestione della pro-tezione e la tutela dei minori. Le equipe si sono sviluppate con propri percorsi, sperimentandosi anche in attività varie, a seconda, sovente, delle sensibilità e delle relazioni esistenti tra Servizi, Comuni, scuole, autorità giudiziaria, ecc.

Nell’anno 2006 i Comuni del Distretto socio-sanitario Sud-est dell’uLSS 6 e la medesima uLSS hanno stipulato una convenzione con la quale si è costituito il Servizio per la Protezione e la Tute-la dei Minori (SPTM), convenzione che peraltro comprendeva, e comprende ancora, l’organizza-zione e la gestione da parte dell’Azienda uLSS del servizio sociale di base, aspetto questo non trattato nel presente scritto, ma portatore di importanti conseguenze nella gestione globale dei servizi socio-sanitari alla persona. Il servizio serve il territorio distrettuale abitato da 67.000 persone circa, divise in 20 piccoli Comuni; è collo-cato all’interno di una unità operativa complessa distrettuale Infanzia, Adolescenza e Famiglia, che comprende anche il consultorio familiare, il servizio per l’età evolutiva e l’attività di logope-dia. È composto da uno psicologo a tempo pieno, da due assistenti sociali a tempo pieno ed una a metà tempo, da un educatore professionale per metà tempo ed è diretto dal direttore della UO complessa di appartenenza.

In quegli stessi anni sono state promulgate le prime linee guida regionali per la definizione dei percorsi di tutela a favore dei minori in situazioni di rischio di pregiudizio e/o, a maggior ragione, di pregiudizio. Cruciale e centrale, in tali linee

Infanzia e adolescenza

guida, è la costruzione di una rete di supporto attorno ai minori carenti di cure, dove ciascun soggetto della rete è chiamato ad avere un ruolo attivo compartecipando alla realizzazione del progetto di tutela. Gli operatori del servizio, quindi, hanno ritenuto necessario, fin da subi-to, costruire con il territorio una comunicazione diretta, in particolare con le varie agenzie educa-tive e in primis con la scuola, coinvolgendola da un punto di vista metodologico ed operativo in incontri con l’equipe. Inizialmente ad essa era chiesto di potere programmare degli incontri di verifica circa l’inserimento scolastico dei minori in carico al Servizio, indicativamente alla fine del primo quadrimestre (novembre/dicembre) e alla fine dell’anno scolastico (aprile/maggio), con un insegnante referente della classe.

In questa fase di insediamento del SPTM nel panorama dei servizi sociali già esistenti, si è potuto riscontare un certo disorientamento degli interlocutori scolastici circa la specificità di tale servizio. Accadeva infatti che, durante lo svolgimento di suddetti incontri, spesso si per-deva di vista l’obiettivo del servizio per affron-tare i più svariati argomenti (rinnovo certifica-zioni, attivazioni di interventi riabilitativi quali logopedia e psicomotricità) e ciò comportava che sovente i colloqui si esaurivano, o venivano notevolmente ridotti, nell’esplicitazione delle competenze e dei ruoli dei diversi operatori e servizi, penalizzando tutti quegli aspetti relati-vi alla tutela del minore quali, per esempio, la frequenza scolastica, la cura personale e la colla-borazione della famiglia con la scuola, che risul-tavano la vera motivazione dell’incontro.

A tale situazione di disorientamento, vissuta sia dal personale scolastico che dagli operatori del SPTM, è venuta in aiuto la pubblicazione degli “Orientamenti per la comunicazione tra scuola e servizi sociali e sociosanitari per la protezione e tutela dei diritti dei bambini e dei ragazzi nel contesto scolastico” del 2008, redatti dall’Uffi-cio del Pubblico Tutore dei Minori del Veneto, in collaborazione con la Direzione regionale per i Servizi sociali e dell’Ufficio scolastico regionale per il Veneto e con il contributo dell’Università di Padova. Tali orientamenti hanno indotto gli operatori a proporre un’ipotesi di lavoro con i 9 Istituti Comprensivi presenti sul territorio, per individuare princìpi, criteri e procedure comu-ni per la segnalazione delle situazioni di rischio rilevate dagli insegnanti e al contempo per man-tenere una costante collaborazione scuola/ser-vizio nella gestione di tali situazioni.

La costruzione DeL rapporto DeL serVizio tuteLa Minori con La scuoLa

Claudio VencatoPsicologo, direttore

Riccardo BarsottiPsicologo, Servizio per la Protezione e Tutela dei Minori

Elena MuraroAssistente sociale, Ser-vizio per la Protezione e Tutela dei Minori

Unità organizzativa complessa Infanzia, Adolescenza e Fami-glia, Distretto socio-sanitario Sud-est, uLSS 6 Vicenza

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Infanzia e adolescenza

L’assunto di fondo che ha guidato il lavoro è stato il ruolo che il servizio stesso ha inteso assumere con la scuola, come con altri servizi/istituzioni: non una funzione di secondo livello, di prescrizioni, di informazioni (talora vissute addirittura come minacciose, sul tipo: “se non le osservate sono guai!”), talora di giudizio o di supervisore autoreferenziale, quanto invece di supporto ed integrazione con le competenze ed i saperi degli operatori scolastici, per individuare situazioni di minori a rischio e per confrontar-si sulla loro tutela e protezione. Solo così, si è pensato, si poteva condividere un’assunzione di responsabilità nell’elaborazione di progetti di aiuto.

Tale modalità offre, come qualsiasi altra modalità relazionale, sia svantaggi che svantag-gi: una vicinanza eccessiva può indurre più facil-mente alla delega e ad un ritiro dell’impegno, ma anche una maggiore libertà di parola, in grado di consentire, in un contesto mai vissuto come giudicante ma collaborativo, di discutere senza silenzi e ritiri strategici di tutti gli elementi che concorrono a definire una situazione di disagio di minori. L’azione condivisa che deriva dalle ampie, diacroniche ed approfondite conoscenze degli operatori scolastici (un minore frequenta la scuola per 200 gg/anno!) coniugata alle com-petenze, conoscenze e funzioni professionali del SPTM, assume in tal modo la miglior prospettiva di efficacia ed efficienza.

Diversamente, una maggiore separazione delle funzioni protegge di più gli operatori del SPTM, esime loro da confronti talvolta anche forti con gli operatori scolastici, non richiede a volte pesanti forme di contrattazione, assicura una maggior purezza dell’azione derivante da processi valutativi specialistici. Di contro, tut-tavia, pecca nell’ingaggio degli operatori scola-stici, può addirittura indurre una ostilità verso il ‘saccente’ operare di operatori, non è in grado di assicurarsi la disponibilità di tutte le infor-mazioni relative alla situazione, coinvolge solo parzialmente la comunità territoriale.

Il maggiore orientamento verso l’una o l’altra modalità dipende da vari elementi, tra cui l’indo-le del direttore, la volontà/capacità di ‘rischiare’ atteggiamenti che possono comportare il rischio di fusioni con altri contesti (comunità, ammini-strazione comunale, forme di associazionismo territoriale), e anche, perché no, la sua dimesti-chezza nell’interazione con le altre istituzioni sovente coinvolte.

Il Progetto

In tale ottica, quindi, è stato dato avvio ad un progetto di intervento che seguisse le citate considerazioni e, sinteticamente, assumesse due elementi: “informativo generale” e “tecnico-formativo”.

Il primo livello si è sviluppato in due fasi.1. In qualsiasi contesto si desideri entrare è buo-

na norma conoscere la struttura, la gerarchia ed i ruoli che i diversi membri di quel contesto rivestono, nonché le funzioni e le responsa-bilità che li caratterizzano. Si è provveduto pertanto a incontrare i dirigenti scolastici

dei 9 Istituti Comprensivi per presentare il SPTM, esplicitarne le funzioni e i mandati, collocarlo nel corretto contesto normativo, istituzionale e giuridico e illustrarne le moda-lità operative nonché lo spirito gestionale che lo contraddistingueva. Si è quindi proceduto ad acquisire il consenso ad accedere presso le diverse scuole e le azioni che vi si intendevano svolgere, in termini informativo e propositi-vo. I dirigenti hanno accolto l’invito ed è stato quindi realizzato un accesso in tutte le scuole per la presentazione del servizio, attraverso semplici slide che fungessero da base per lo sviluppo successivo della conoscenza/colla-borazione: sono stati esposti gli aspetti orga-nizzativi del servizio, dei riferimenti norma-tivi ed alcune questioni che sarebbero state successivamente sviluppate. Si è chiesto di promuovere la presenza del maggior numero di insegnanti possibile, partendo dalla consi-derazione che una presentazione diretta e che potesse anche dar la possibilità di alcune inte-razioni avrebbe avuto un impatto migliore;

2. Dopo la conoscenza, si è passati al “fare”, richiedendo che per ogni Istituto Compren-sivo individuasse un docente dedicato all’in-terazione con il SPTM, che potesse altresì divenire la cerniera tra le due istituzioni, rac-cogliendo le perplessità, i dubbi e le richie-ste dei colleghi della scuola, recapitandole al servizio, e portando all’interno della scuola le indicazioni del servizio stesso, o anche solamente per affiancare i colleghi coinvolti in situazioni specifiche dove il SPTM era già coinvolto o doveva/poteva esserlo. I docen-ti referenti quindi sono stati coinvolti per co-costruire una scheda sperimentale di segnalazione, corredata da alcuni indicatori di rischio e per illustrare alcuni aspetti giuri-dici inerenti la segnalazione, quali l’obbligo di denuncia ed il consenso informato (con particolare attenzione a quelle situazioni in cui vi è un presunto reato addebitato a una e/o ad entrambe le figure genitoriali e per cui si rende doveroso non informare gli stessi genitori dell’invio della segnalazione).

In questa seconda fase del primo livello, oltre al lavoro svolto con il gruppo dei referenti degli Istituti comprensivi, si è promosso anche la nascita di un nucleo di docenti all’interno di ogni Istituto che potesse, all’interno della scuo-la, affrontare tematiche inerenti la protezione e tutela dei minori.

Il secondo livello, di carattere più tecnico-formativo, si è articolato nell’individuazione delle azioni da effettuare per favorire l’accesso di specifiche situazioni al SPTM, ponendo l’accento su elementi quali:

raccolta segnali di disagio; •consenso informato; •valutazione e aggiornamento della scheda di •segnalazione.

Per questo secondo livello sono stati svolti tre incontri nell’anno 2009/2010, volti ad analizzare la scheda di segnalazione e due incontri, nell’an-no 2010/2011, per verificarne l’utilizzo.

Potendo considerare quanto descritto come attivazione del progetto, lo stesso è divenuto

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Infanzia e adolescenza

strutturale, cioè una buona prassi che ha visto incontri almeno a frequenza annuale tra gli operatori del Servizio e i docenti, finalizzati a mantenere un costante confronto sulle modalità operative e, in particolare, sull’appropriatezza dell’utilizzo della scheda di segnalazione.

Utilizzando la pertinenza delle segnalazioni inoltrate al servizio dalla scuola dal 2010 ad oggi quale indicatore di efficacia, si è presa in conside-razione la casistica comune, riscontrando come:• nel2010sonostateeffettuate13segnalazioni

di cui 8 prese in carico (5 non prese per non informazione dei genitori e per difficoltà dei bambini e non dei genitori);

• nel2011/2012lesituazionisegnalatesonostate 14 di cui 12 prese in carico (2 no per pre-sa in carico servizio di base);

• nel2012/2013lesituazionisegnalatesonostate 17 di cui 14 prese in carico.

elemeNtI rIlevaNtI

Il lavoro svolto ha consentito, fino ad ora, di far emergere rilevanti aspetti che inducono non solo a proseguire nel lavoro intrapreso, ma anche a enucleare specifici filoni di attività da proget-tare insieme.

La scuola è interessata a conoscere a inizio anno le situazioni in carico al servizio, così da consentire un tempestivo monitoraggio della situazione. È noto, infatti, che “rincorrere” le situazioni critiche comporta dispendiose e dan-nose perdite di tempo e di efficacia, mentre la conoscenza tempestiva e possibilmente contem-poranea all’inizio della scuola delle stesse, con-sente il mantenimento su di loro di una vigilanza e di un supporto costanti.

È apparso opportuno individuare, nel caso in cui la scuola si trovi nella necessità di comuni-care alla famiglia l’invio di una segnalazione al SPTM, una figura “altra” rispetto agli insegnanti di classe.

È altresì risultato fondamentale, sia sul piano operativo che su quello della relazione istituzio-nale, il desiderio da parte della scuola di essere aggiornata, nel rispetto della privacy, su even-tuali rilevanti cambiamenti nel progetto di presa in carico della situazione.

L’investimento della scuola sul tema propo-sto talvolta si correla con i referenti individuati: lungi dal voler effettuare valutazioni su profes-sionisti chiamati a svolgere il loro lavoro, può essere interessante rilevare come sia importante che detto operatore sia fortemente inserito nella scuola di appartenenza, in grado di portare il sen-so dei percorsi svolti dai minori che attengono al presente tema, non oberato da innumerevoli altri impegni e magari in possesso di una “storia” di presenza nell’Istituto comprensivo.

valUtazIoNe

Per concludere con una parte “valutativa”, ancorché piuttosto artigianale e derivante più da modalità customer satisfacion che da appro-fondite analisi quali-quantitative, pare inte-ressante segnalare il gradimento dimostrato dai partecipanti ai vari momenti del progetto,

derivante dall’assidua e consistente presenza degli insegnanti ai vari incontri, oltreché dal-le diverse richieste di confronto su numerose situazioni dubbie. Il costante intento è stata la condivisione, in specifici spazi ed occasioni, in presenza di un clima relazionale collaborativo, di confronti volti ad assumere le migliori decisio-ni su specifiche situazioni, come l’opportunità dell’invio della segnalazione o del mantenimen-to di un assetto osservativo, procrastinando la segnalazione.

Tutto quanto esposto è stato un lavoro che ha coinvolto esclusivamente la scuola statale. Nel territorio del Distretto sociosanitario Sud-est dell’uLSS 6 sono tuttavia presenti anche nume-rose scuole paritarie, soprattutto dell’infanzia che, venute a conoscenza dell’iniziativa, hanno espresso il convinto desiderio di essere coinvol-te nel percorso intrapreso. Nel 2011, pertanto, è stato realizzato un incontro con le referenti di ognuna di queste scuola, che si sono presentate al completo. Anche con loro si sono condivise informazioni sul SPTM circa la sua mission, le sue prassi operative e quanto di positivo si era già costruito ed attivato nel lavoro intrapreso dal 2009 (ad es. la scheda di segnalazione). Queste scuole, quindi, sono state inserite a pieno titolo nel gruppo di riferimento

IN ProsPettIva

Gli esiti positivi di tale progetto hanno portato gli operatori e la direzione a prendere in consi-derazione l’opportunità di estendere la stessa metodologia di lavoro ad altri soggetti rilevanti nella rete dei servizi preposti alla realizzazio-ne dei progetti di tutela. Ad esempio si ritiene importante coinvolgere i pediatri di libera scel-ta e, dove di competenza, i medici di medicina generale. Potrebbe sembrare un impegno in più, stante la loro formale condivisione e responsa-bilità sui temi di salute, ma numerosi contatti personali e professionali con questi operatori ha evidenziato come strutturare uno specifico piano di contatti consenta all’argomento di esse-re “identificato”, di assumere cioè una valenza attentiva molto più elevata di consuete e routi-narie informazioni mediate attraverso i normali canali (riunioni generali, in sede uVMD, attraver-so comunicazioni cartacee).

Il coinvolgimento del servizio sociale comu-nale non è stato preso in considerazione nel presente articolo non per mancata convinzione circa la sua fondamentale importanza, di cui nes-sun servizio di tutela può fare a meno, ma perché l’assistenza sociale di base, nel Distretto Sud-est, è gestito direttamente dall’Azienda, attraverso il distretto stesso, ed addirittura attraverso l’uOC Infanzia, Adolescenza e Famiglia, dove trova collocazione anche il SPTM. I contatti e la colla-borazione con gli operatori di questo servizio, pertanto, è strutturale e non richiede particolari sforzi per mantenerlo, se non, naturalmente, sui temi di qualità. A tal proposito, infatti, appare interessante segnalare come detti operatori sia-no direttamente coinvolti, attraverso un apposi-to calendario, nella supervisione professionale a disposizione del SPTM. #

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affido e adozione

sostegno aLLa faMigLia Di origine neLL’affiDo etero-faMiLiare

Milena B. M. Brunetti Psicoterapeuta

Andreana OlivieriPedagogista

CBM, Milano

Il Progetto

Il progetto “Promuovere e sostenere reti per l’af-fido familiare nel Comune di Milano”, finanziato da un bando CARIPLO, ha visto coinvolto, insie-me all’ente pubblico, anche il terzo settore.

I macro-obiettivi del progetto riguardavano: poter mettere a sistema un modello di inter- •vento a rete pubblico e privato,l’implementazione e il miglioramento dei •servizi di cura l’accompagnamento di minori e famiglie. •

Il progetto prevedeva azioni con interventi diversificati rivolti sia ai minori in affido, sia alle famiglie affidatarie, ma anche alle famiglie di origine.

Perché è ImPortaNte Il lavoro coN le famIglIe d’orIgINe?

Nell’affido molto tempo è dedicato al percorso di valutazione e preparazione della coppia/singolo che fa domanda di affido, del/dei loro figli e del contesto di appartenenza.

Si affronta inoltre con molta cura la parte dell’abbinamento del minore che è già in carico ai servizi e che può aver effettuato o potrebbe avere in corso un percorso di sostegno o terapia.

Ma i genitori naturali? Si tratta di una coppia o genitore solo in difficoltà, certamente proble-matici, già valutati dai servizi, con una serie di interventi ancora da mettere in atto nella spe-ranza di un percorso di implementazione delle capacità genitoriali, percorso tale per cui si possa arrivare ad un ricongiungimento con il figlio, ma potrebbe essere anche una di quelle situazioni con una prognosi negativa.

Il lavoro fatto con la famiglia di origine prima dell’allontanamento o dopo la valutazione spes-so viene lasciato in secondo piano dopo l’affido del bambino.

Si trascura così un elemento importante che è quanto i genitori naturali possano diventare

sostenitori, pur se con fatica, della buona riu-scita dell’affido.

L’esperienza ci mostra infatti che se essi vengono coinvolti in tutte le fasi, come sogget-ti attivi e non spettatori che subiscono il pro-getto, possono diventare motori di un efficace cambiamento.

Possiamo affermare che la valenza del geni-tore naturale può essere recuperata come se lo stesso potesse diventare co-terapeuta nel per-corso di cura e attivatore di una miglior relazione con il figlio, lavorando per un riavvicinamento al minore. Per un bambino, infatti, è importante poter vedere che i propri genitori non solo rico-noscono le proprie mancanze e si attivano per porvi rimedio, ma comprendono i suoi bisogni. Inoltre che i genitori riconoscano sia il valore degli affidatari sia che il loro bambino possa giovarsi di un contesto “buono” che lo aiuti ad affrontare le fatiche e le sofferenze, permette al bambino di vivere con maggior serenità la dop-pia appartenenza insita nell’affido.

All’interno del progetto e in relazione al tema della famiglia d’origine, il CBM1 ha partecipato all’azione “Potenziamento e strategie di soste-gno della famiglia d’origine”.

L’azione prevedeva “un percorso con la fami-glia d’origine del minore o nel periodo di affi-do, al fine di favorire il rientro del minore in un contesto più equilibrato, o nella fase di rientro del minore, per evitare dinamiche preesistenti o nuove che potrebbero compromettere il buon esito del progetto di affido”.

In sede di progettazione tra Comune di Mila-no e terzo settore, rappresentato da diverse cooperative, tra cui la nostra, è stato dettagliato il percorso in oggetto che si sarebbe declinato come segue:1. il Servizio sociale della Famiglia, individua-

ta la situazione da seguire, la presentava al Servizio Affidi, che l’avrebbe assegnata a una cooperativa durante una riunione; il Ser-vizio Affidi attivava la rete che coinvolgeva

L’articolo illustra l’esperienza di lavoro con le famiglie di origine dei bambini in affido all’interno di un più ampio progetto di intervento tra pubblico e privato del Comune di Milano. La casistica non è stata ampia, ma le considerazioni conclusive ci fanno ritenere che sia un lavoro da riproporre e rendere parte di un percorso di affido, specie se l’esito finale previsto è quello di un rientro graduale del minore in famiglia. Non abbiamo volutamente trattato temi teorici, ma abbiamo voluto condividere un’esperienza che è stata positiva e gratificante anche per noi operatori.

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affido e adozione

gli operatori invianti e gli operatori della cooperativa;

2. il Servizio sociale presentava la famiglia agli operatori della cooperativa;

3. gli operatori della cooperativa programmava-no i successivi incontri con i genitori.

A garanzia del percorso di sostegno alle famiglie erano previste: reti, contatti telefonici, relazione finale e supervisione in itinere.

Il percorso con la famiglia di origine prevede-va un massimo di otto incontri.

In sede di progettazione è stato valutato qua-le modello di colloquio più efficace la conduzione congiunta psicologo e pedagogista/educatore.

Gli operatori del CBM che hanno seguito ope-rativamente il progetto sono state la dottoressa M. Brunetti, psicoterapeuta, e la dottoressa A. Olivieri, pedagogista.

coNtesto dI lavoro e obIettIvI

Per ogni situazione il lavoro è cominciato con una rete di presentazione del caso, alla presen-za degli operatori del CBM, del Servizio Affidi, dell’operatore del Servizio sociale di riferimento e di eventuali altri operatori coinvolti (psicologa, educatrice). Dopo la messa in comune delle cri-ticità del caso e della formulazione della doman-da da parte del Servizio, venivano condivisi gli obiettivi da perseguire.

Il successivo incontro ha visto la convocazio-ne della famiglia presso il CBM, in cui l’assisten-te sociale del caso e gli operatori del CBM illu-stravano quanto concordato in rete. Si esplicita inoltre la natura del lavoro/progetto che si con-nota come sostegno alla genitorialità biologica dei genitori dei bambini in affido. Un aspetto importante e premessa fondamentale del per-corso è stato chiarire, infatti, che si trattava di un supporto alla genitorialità, non di un percorso di valutazione.

È stato ben chiarito, quindi, che i colloqui avrebbero rappresentato esclusivamente un intervento di rinforzo alla genitorialità, nel rispetto del diritto del ruolo genitoriale biolo-gico, che non avrebbero avuto alcuna valenza valutativa e che, dunque, non era in discussio-ne l’esito del progetto di affido già prestabilito dall’ente affidatario.

Abbiamo centrato il focus dell’intervento sulle competenze genitoriali, che non nascono con l’aver messo al mondo il bambino/a, ma che si costruiscono e si esplicitano nell’occuparsi o essersi occupati del proprio figlio per quanto riguarda gli aspetti materiali, accuditivi, affet-tivi, emotivi, relazionali.

metodologIa dell’INterveNto

Fondamentale e base del lavoro con i genitori naturali è stato il colloquio, che aveva valenze psicoeducative.

Il passaggio delle informazioni – anche clini-che – avvenuto nell’incontro di rete ci ha consen-tito di focalizzare la nostra attenzione sul pre-sente, pur avendo in mente la storia e le criticità della coppia genitoriale e gli aspetti di fragilità e vulnerabilità.

L’aspetto più clinico è rimasto nello sguardo dell’operatore: non abbiamo dunque ripercorso le storie e le cause del malfunzionamento fami-liare, ma utilizzato le criticità per implementare le risorse.

Come già detto, i colloqui sono stati co-con-dotti. La cadenza prevista era mensile, ma in alcuni momenti del percorso gli stessi genitori hanno chiesto di anticipare l’appuntamento per il sopraggiungere di dubbi o difficoltà nella rela-zione con il figlio.

Abbiamo scelto di non videoregistrare gli incontri per togliere ogni dubbio sugli aspetti valutativi.

La co-conduzione educativo-clinica è stata fondamentale per poter avere un duplice sguardo sulle persone e sugli obiettivi da raggiungere.

La doppia competenza è stata utilizzata per mettere in campo una sorta di griglia di lavoro che sollecitasse, attraverso domande aperte, un racconto ed una condivisione relativi a varie aree. Tali aree in fase iniziale hanno riguardato:

l’adesione al progetto/motivazione; •domande sui vantaggi del progetto; •domande sulle criticità riconosciute; •domande sulla percezione dei loro bambini; •domande sulla relazione con i loro figli; •domande sulle aspettative. •

Una seconda fase del lavoro ha comportato la narrazione da parte dei genitori della relazione con i figli, sia negli incontri di spazio neutro sia a casa (nel caso in cui i bambini facessero già dei rientri a casa), mettendo a fuoco le criticità, le “messe alla prova” sulla tenuta dei genitori e i loro vissuti di adulti legati al ruolo genitoriale. In questa fase i genitori portavano domande speci-fiche su come e cosa fare per migliorare la relazio-ne, nel timore di ricadere in vecchi errori.

Le nostre risposte non erano di contenuto rispetto all’agire, ma venivano espresse nell’ot-tica del riconoscimento e dell’attivazione delle loro potenzialità.

Note 1 Il CBM (Centro per il Bambino Maltrattato e la cura della crisi familiare) è una cooperativa so-

ciale, nata a Milano nel 1984 con lo scopo di intervenire sulle situazioni di pregiudizio dei mi-nori all’interno delle famiglie (maltrattamento e abuso intrafamiliare).

Il CBM è fondatore, con altre strutture specialistiche, del Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (CISMAI) che opera per la promozione delle competenze professionali nella protezione all’infanzia. È stato fondatore del CNCM Coordinamento nazionale delle comunità per minori, con sede a Firenze.

Il lavoro del CBM si colloca all’interno del movimento internazionale per la protezio-ne dell’infanzia in accordo con le linee espresse dalla International Society for Pre-vention of Child Abuse and Neglect (ISPCAN).

Gli psicologi sono specializzati in Psicoterapia Sistemico Relazionale e formati presso la Scuola di psicoterapia “Mara Selvini Palazzoli” di Milano. Il collegamen-to con il CRIDEE dell’Università Cattolica assicura il costante aggiornamento delle competenze.

Oltre alle due comunità attive in sede per bambini e mamme con bambini, i servizi socio-educativi e territoriali del centro operano a Milano, sui Comuni del distretto di Rozzano, nell’ambito di Seregno, a San Donato Milanese, a Corsico. Il CBM ge-stisce il servizio affidi nei territori di Rozzano e Seregno ed è partner nel progetto ATS affido professionale. Con la Fondazione don Gnocchi e il Comune di Milano il CBM gestisce il servizio Famiglie in gioco; con Fondazione Cariplo il progetto Rozzano Si.Cura e Slalom (dedicato al sostegno delle fragilità delle mamme pre e post par-tum); con il Comune di Locate il progetto Crescere insieme. La formazione, la super-visione e la consulenza specialistica fornita dal Centro è riferimento imprescindibi-le per i Servizi sociali e per enti pubblici e privati su tutto il territorio nazionale.

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affido e adozione

QUalI ProblematIche affroNtare?

Le tematiche sono varie, ma nel nostra espe-rienza si sono articolate secondo alcuni aspetti principali di seguito precisati.

La comprensione del progetto di affido è sicu-ramente un prerequisito per poter affrontare questo percorso.

Superato questo aspetto iniziale, è utile affrontare il tema dei vissuti di inadeguatezza genitoriale, per poter avere uno sguardo più pro-positivo sulla relazione.

Entrati nel merito del rapporto, emergo-no temi più connessi all’aspetto educativo e di recupero o di messa in campo dell’autorevolezza legata al ruolo genitoriale.

Conseguentemente i genitori affrontano la differenziazione dei ruoli nel superamento della parificazione spesso presente.

Aspetto complesso, ma fondamentale, è l’empatia e la comprensione dei vissuti del figlio che possono essere sgradevoli, ma che segna-no un’importante opportunità evolutiva della relazione.

Nel caso in cui non sia possibile un rientro a casa o un aumento dei tempi di incontro, diventa fondamentale aiutare l’adulto a non impedire al figlio di poter investire nella relazione con gli affi-datari e dunque a non essere colpevolizzante.

realIzzazIoNe

La conduzione congiunta dei colloqui ha rappre-sentato un punto di forza importante, in quanto ha permesso di dare in tempo reale alla famiglia delle indicazioni, in genere da parte della peda-gogista, che avessero la qualità del suggerimento concreto e operativo, ma con una motivazione e spiegazione, offerta in genere dalla psicolo-ga, del perché fosse opportuno comportarsi in quello specifico modo. Questo ha creato una migliore via di accesso alla collaborazione con i genitori diventati, a quel punto, parte attiva del processo di crescita e di responsabilizzazione e consapevolezza.

È stato altresì un modo per far sì che smet-tessero di affermare che l’affido del figlio, il non rientro tempestivo a casa ed altre questioni rela-tive alla genitorialità fossero colpa degli altri attori del processo.

La presenza della pedagogista ha inoltre con-sentito ai genitori di uscire dall’ottica di cura (già a lungo sperimentata negli anni della valuta-zione e dell’allontanamento), dando un nuovo punto di vista nello sguardo verso il bambino e verso il vedersi più come genitori protagonisti che come persone in difficoltà.

Con il procedere dei colloqui abbiamo potu-to vedere come i genitori siano anch’essi, come i loro figli, in preda a emozioni e sentimenti ambivalenti e a volte confusi. Le loro intenzioni e i loro desideri sono sinceri, ma spesso avulsi dalla realtà concreta, sia materiale sia emotiva, del proprio figlio/a.

È attraverso un continuo raffronto tra desi-deri e possibilità di realizzarli che i genitori han-no cercato di attivare risorse empatiche verso i loro figli e hanno maturato la consapevolezza

che la vicinanza non può essere declinata solo come vicinanza fisica (“voglio mio figlio a casa, lo voglio, lo voglio, lo voglio”), ma anche come vicinanza affettivo-emotiva, che permetta al bambino/a di vivere appieno una relazione genuina col proprio genitore. Genuina nel sen-so che il genitore si può permettere di sgridarlo senza la paura che il bambino/a pensi di essere mal-trattato, o che lo stesso possa mettere in atto alcuni comportamenti senza pensare che i genitori li vivano come un rifiuto o una messa in discussione del loro ruolo genitoriale.

Per i genitori che da tempo non hanno con sé i figli, non serve solo comprendere i motivi, le cause e le conseguenze dei loro agiti e dell’allon-tanamento, ma anche poter riparare attraverso i gesti con i loro bambini (che da tempo vivono altrove e che loro incontrano solo in momenti protetti o dedicati) legami interrotti o trascura-tezze o maltrattamenti inflitti ai figli stessi .

La possibilità di riparare dà una risposta con-creta al desiderio di genitorialità e un ingaggio reale verso una relazione piena e appagante. Particolare attenzione, però, abbiamo dedicato al fatto che la relazione con i figli non può essere solo riparativa, cosa che li metterebbe costante-mente in una posizione di scusa e di sudditanza, ma anche costruttiva di un nuovo modo di stare insieme, superando i sensi di colpa e i sentimenti di incompiutezza genitoriale e quindi filiale.

La lontananza ha spesso fatto idealizzare le reciproche figure e le relazioni. La mancanza del-la quotidianità delle piccole ma significative cose che si fanno e condividono insieme, ha fatto per-dere a genitori e figli la capacità di riconoscersi e di capirsi. Poter sperimentare la possibilità di conoscersi di nuovo e la consapevolezza di que-sta riscoperta, riavvicina genitori e figli, ma non è esente da difficoltà nel continuo misurare le vicinanze e le distanze, le concessioni e i confini, le cose buone e le cose meno buone, il riconosci-mento degli errori e la tolleranza degli stessi.

Sollevare i genitori dal senso di fallimento dovuto all’errore educativo, per esempio, dà loro spinta e forza per continuare nella ricerca di una relazione educativa maggiormente sicura che sempre più si connota come relazione affettiva.

coNsIderazIoNI sUl Progetto dI affIdo

Ogni progetto di affido dovrebbe prevedere alla fonte un lavoro mirato e intenso con i genitori naturali che abbia differenti obiettivi e modalità come, per esempio:

comprendere il progetto di affido; •avvicinarli di più al figlio (non necessaria- •mente in termini di quantità di tempo, ma di qualità di sguardo);lasciar andare il figlio; •non essere colpevolizzanti; •non essere rancorosi. •

In fase di rientro non è sufficiente avere un gran-de, legittimo, desiderio di ricongiungersi, ma si aprono le porte a molte criticità spesso sottova-lutate o celate dietro ai sentimenti di amore e del diritto al ritornare insieme.

I sentimenti sono spesso ambivalenti e diffi-cilmente espressi: per esempio il forte desiderio

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affido e adozione

di riavere il figlio, ma anche la paura di non esse-re in grado di gestirlo; oppure la paura di non essere riconosciuti, di essere messi a confronto con gli affidatari, di sentirsi colpevoli per l’allon-tanamento (ambivalenza tra mettere all’ester-no le cause dell’allontanamento e sentirsene in colpa).

Abbiamo rilevato come fondamentale il poter avere un luogo dove parlare di questo senza sen-tire il peso del giudizio o della valutazione, cosa che permette ai genitori di esprimersi con sin-cerità, senza trincerarsi dietro il dover apparire necessariamente adeguati e corrispondenti a quanto tutti si aspetterebbero idealisticamente da loro.

Altro aspetto importante è aiutare i genitori ad esprimere dubbi o paure, così da permette-re loro di mettersi in una posizione critica e di mettersi in gioco e sperimentarsi in una nuova relazione col figlio.

Poter avere un luogo di condivisione che dà paradossalmente per scontato che riavvicinarsi sia difficile, che metta alla prova e dunque ren-da “traballante” la tenuta dei genitori, fa si che questi si sentano incoraggiati ad osare: sbagliare infatti permetteva loro, nel percorso di aiuto, di confrontarsi e rivedere le difficoltà in un’ottica di crescita e non di frustrazione e rimessa in discus-sione del progetto finale.

Prevedere una parte di lavoro con i genito-ri naturali dovrebbe dunque rispondere a tutti questi punti al fine di rinforzare il progetto pre-visto, per sostenere il/i genitori negli incontri o per il previsto rientro a casa.

Se il rientro a casa non è previsto dal progetto, affrontare tutti i punti sopra descritti con empa-tia e comprensione dovrebbe comunque permet-tere ai genitori una migliore condivisione degli incontri e di gustare maggiormente il tempo trascorso insieme ai figli. È, però, per gli opera-tori una sfida, poiché devono anche restituire a questi genitori che il miglioramento nella rela-zione non significa un rientro a casa, aiutandoli a tollerare l’ambivalenza e la frustrazione.

Il lavoro coN le famIglIe dI orIgINe

Abbiamo scelto di illustrare nello specifico due casi: il primo che non prevede il rientro del bambino dal genitore; il secondo che invece ha l’obiettivo finale del rientro definitivo presso la famiglia d’origine.

1ª situazione

Signora A., madre sola di Aisha, in affido a tempo pieno già da due anni con un progetto a lungo termine, per gravi difficoltà della signora che hanno portato a una valutazione negativa della genitorialità.

L’obiettivo con la signora A. era quello di sol-lecitarla a una maggior attenzione nei confronti della figlia, in modo da rendere la loro relazione in spazio neutro più ricca di contenuti.

La signora si è presentata a noi, fin dal primo colloquio, come è stata descritta dall’assistente sociale: richiedente tempi maggiori di vicinanza con la figlia ed il suo ritorno a casa; pareva non

avesse compreso il senso del progetto di affido.É stato chiarito che non ci sarebbe stato un

aiuto da prevedere in quella direzione, mentre si sarebbe tentato un avvicinamento empatico alla figlia e ai suoi bisogni, sia proponendo di descriverci la sua bambina e gli incontri con lei, sia attraverso il cercare delle modalità e qualche argomento per dare maggior contenuto al tempo passato con la figlia. La signora, pur mostrandosi contenta di fare questo percorso, di fatto non ha mai espresso alcun pensiero, né è riuscita auto-nomamente a trovare contenuti di interesse per la bambina.

Anche la sua partecipazione al percorso è sta-ta stereotipata: la signora ci risponde a monosil-labi, non sollecita argomenti, non è propositiva su nulla.

Le difficoltà linguistiche non l’hanno certo facilitata. La figlia non parla l’arabo e lei fatica a comprendere termini complessi o discorsi un po’ articolati in italiano. Peraltro la signora, a fronte di quanto rilevato nei colloqui e che le è stato anche rimandato come spunto di riflessione, ha sempre affermato che con la bambina va molto bene, che insieme giocano e fanno i compiti, che non capisce come mai non la rimandino a casa.

Ancora oggi si domanda come mai Aisha sia stata allontanata, negando così la possibilità di un pensiero critico e l’elaborazione delle loro vicende; anche la vicinanza emotiva alla figlia pare messa in discussione, dal momento che è la madre a sentirsi vittima di un’ingiustizia subi-ta, misconoscendo le sofferenze che la bambina ha patito.

A nulla sono valsi i tentativi di aiutarla a con-testualizzare l’allontanamento e di come questo fosse importante sia per le risposte da dare alla figlia, sia per dare un senso all’affido.

La negazione del problema non permette un lavoro di avvicinamento della signora alla bam-bina, la relazione rimane quindi su un piano superficiale e formale.

Sempre in accordo con il servizio sociale inviante e concordandolo con l’educatrice di spa-zio neutro, abbiamo provato a spostare i piani e a lavorare quindi sul qui ed ora, concentrandoci sul contesto di spazio neutro, sulla visita alla sua bambina e su quel che può succedere dentro a quel momento.

Molto faticosamente siamo riuscite a prepa-rare i contenuti di alcune visite: come rispondere alle domande della bambina sul padre biologico, raccontarle del suo Paese di origine anche attra-verso immagini (preparate da noi), raccontarle la sua nascita, di quando era piccola, ecc. nel ten-tativo di farle recuperare un rapporto più ricco con Aisha che, come ci viene riferito in rete, non vuole stare con la mamma in quanto la stessa non le propone niente e lei si annoia.

La signora, però, davanti alle sollecitazioni, si è spesso trincerata dietro i presunti divieti, ricevuti dall’assistente sociale, di poter parlare di certi argomenti, divieti che ha assunto senza alcun pensiero personale o spinta motivaziona-le/genitoriale (per esempio non voleva rispon-dere alle domande di A. sul padre perché l’assi-stente sociale, a suo dire, non voleva!).

Dopo quattro incontri, visti gli scarsi risulta-

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affido e adozione

ti, abbiamo convenuto con l’assistente sociale e con l’educatrice dello spazio neutro di interrom-pere il percorso. La signora, però, si è rifiutata di chiuderlo, dicendo che ci teneva a continuare e che era contenta di incontrarci. Effettivamente è sempre stata puntuale e bendisposta, pur dan-do spesso l’idea di una partecipazione formale e adesiva.

Il perdurare dell’immobilismo della signora, benché le abbia dato qualche spunto per prepa-rare qualche gioco o conversazione da mettere in atto, non ha però consentito un riavvicinamento emotivo alla figlia.

Seppure gli incontri siano apparsi più pro-positivi, i feedback avuti dallo spazio neutro e i rimandi che ci dava la signora hanno fatto rite-nere che non si siano registrati cambiamenti tali da essere assimilati dalla mamma quali momenti di crescita nella relazione con la figlia.

2ª situazione

Coppia genitoriale con un figlio, Biagio, di 12 anni, in affido etero-familiare da due anni.

I signori D. si sono sempre presentati in cop-pia, puntuali e contenti di poter godere del sup-porto alla genitorialità.

L’obiettivo previsto e concordato era quello di rinforzarli nel ruolo genitoriale nella fase di riavvicinamento al figlio e di offrire spunti di tipo pedagogico per rafforzare la relazione, in preparazione del rientro definitivo.

Biagio usufruiva anche del supporto di un’educatrice, all’interno del progetto del Comu-ne di Milano “accoglienza diversificata”, che lo seguiva principalmente per l’aspetto scolastico; i genitori sono stati molto contenti dell’educa-trice, dei miglioramenti e dei risultati scolastici raggiunti dal figlio.

Per il nucleo D. abbiamo lavorato molto in rete con tutti gli operatori e servizi coinvolti con buoni risultati.

Durante il percorso il bambino ha incremen-tato i rientri a casa e i genitori si sono dovuti misurare con il bambino reale che è Biagio e non solo con il figlio desiderato e idealizzato.

Il lavoro con i signori è stato ricco e articolato e i temi trattati hanno riguardato vari aspetti:

le loro aspettative rispetto al figlio; •le aspettative rispetto ai tempi di ricon- •giungimento e le emozioni conseguenti (per esempio la rabbia per i tempi, secondo loro troppo dilatati);le risposte da dare al bambino alla domanda •“come mai sono in affido” (domanda che Bia-gio aveva fatto più volte e che stava ripropo-nendo in questa fase di riavvicinamento);le risposte alle domande “come mai avete •avuto dei problemi” (tossicodipendenza di entrambi di cui il bambino è a conoscenza);le loro paure rispetto al futuro di Biagio (che •possa diventare come loro);la paura che il figlio non li volesse, ovvero il •confronto tra loro e la famiglia affidataria;la genitorialità riferita alle regole e all’autore- •volezza e le diversità educative nella coppia;i compiti dei genitori nel quotidiano; •il contenimento del bambino; •

il ruolo dell’adulto e il ruolo del bambino; •l’organizzazione familiare e la gestione degli •spazi (la preparazione del posto in casa); l’empatia verso i sentimenti di Biagio, diviso •tra due famiglie;la relazione di coppia come forza per una buo- •na relazione genitoriale.

I signori hanno sempre portato molti spunti sui quali lavorare, si sono esposti e messi in gioco senza paura del giudizio, si sono affidati e hanno utilizzato al meglio il supporto offerto (le paure ed i timori sono comunque stati esplicitati nei primi colloqui, soprattutto dal padre).

II loro sincero e profondo amore per il figlio sicuramente li ha guidati, anche se non sono mancate le difficoltà. La principale è stata l’in-sofferenza della signora rispetto ai tempi di rien-tro, dove l’impazienza manifestata e la pretesa del “tutto subito” sembrava da ricondurre al disturbo borderline sottostante alla tossicodi-pendenza. Tale fatica ad accettare la gradualità, a rispettare i tempi anche del bambino, oltreché dei servizi, si è smorzata con la gratificazione per “avere avuto Biagio di più” e averlo portato in vacanza per una settimana durante l’estate.

I genitori sono ambivalenti, da un lato vor-rebbero Biagio subito a casa, dall’altro capiscono che sia importante per il figlio finire la scuola dove l’ha iniziata. Capiscono anche che il loro è un percorso tutto in salita, anche se le cose stanno migliorando. In questo periodo hanno anche usufruito appieno dei supporti terapeu-tici offerti dal SERT.

Sicuramente sono molto motivati e questo li ha aiutati ad essere ricettivi e attivi. La relazio-ne col loro bambino è migliorata, la paura che lui non li volesse qualora avessero posto rego-le e limiti è stata superata, anche se ancora, un po’ per debolezza, un po’ per godere meglio del poco tempo che hanno a disposizione, tendono a cedere alle richieste pressanti del bambino. Ammettono una sorta di “risarcimento” impli-cito nel faticare (ora sempre meno) a non cedere alle molte e varie richieste del figlio.

La positività del percorso ha consentito ai genitori di Biagio di sentirsi più forti e non solo genitori di un figlio in affido da riavere a casa, ma anche di sperimentare il senso di aver recuperato il tema della coppia che può, al di là di Biagio, avere una vita e una storia.

coNclUsIoNI

Dalle esperienze sopra descritte possiamo dedurre che il progetto è utile se si riescono a condividere con la famiglia di origine gli obiettivi di questa presa in carico.

Non è stato mai messo in discussione con i genitori l’aspetto affettivo, in quanto lo si è dato come requisito della genitorialità; il focus è stato dunque il potenziamento delle risorse individuate.

Abbiamo evidenziato una serie di punti di forza e di punti di debolezza del nostro progetto quale traccia di intervento per il lavoro con le famiglie di origine.

Sicuramente è stata per noi operatori un’espe-rienza positiva e interessante, soprattutto rela-

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Libri

Marco fumagalli, fabrizio arrigoni (a cura di)dove l’acQUa sI fermala cura e il benessere degli anziani fragili con il metodo gentlecareMaggioli, sant’arcangelo di romagna (rn), 2013Presentando un testo collettaneo spesso si usano metafore come quelle del puzzle, del mosaico, del patchwork, sottintendendo che i singoli saggi siano appunto ritagli, tessere, riquadri di un unico disegno che apparirà al termine della lettura. Nel caso di questo volume gli Autori intendono presentare compiutamente un meto-do, il Gentlecare, finalizzato alla cura delle persone colpite da demenza attraverso modificazioni sostanziali della relazione con loro e del contesto di vita quotidiana. (Silvia Vitali, Presentazione).

Il testo si apre con un contributo medico (Daniele Villani) che, chiarendo gli aspetti patolo-gici e le incertezze attuali in termini di terapia per la malattia di Alzheimer, pone le pre-messe per comprendere il valore della ricerca di forme alternative al modello strettamente sanitario. A questo primo contributo ne seguono diversi, tutte tessere del mosaico finale: un capitolo che dipana e collega tra loro i temi delle medical humanities, della medicina narrativa e del modello protesico (Fabrizio Arrigoni) con l’obiettivo di stimolare la riflessio-ne sulla centralità della persona malata e sulla crucialità della relazione tra curante e cura-to; un secondo (Elena Bortolomiol) in cui si specificano le attività a promozione e a soste-gno del benessere della persona colpita da demenza in una visione decisamente “attiva” e non assistenziale; un terzo contributo (Laura Lionetti) che punta in modo prioritario all’aspetto delle relazioni, siano quelle poste in atto dagli operatori, siano quelle dei fami-liari che, a loro volta, necessitano di informazioni, formazione e sostegno. Rispetto, accet-tazione, visione positiva e globale della persona malata, valorizzazione dei sentimenti ed emozioni: parole chiave messe in luce nel capitolo, accompagnate implicitamente dall’in-vito a lavorare su di sé per poterle tradurre nella pratica. La prima parte si chiude con un messaggio di Enzo Angiolini, architetto: la filosofia del Gentlecare che punta a forme pro-tesiche – di aiuto, sostegno, creazione di benessere - per chi ha perso o va perdendo capa-cità di autonomia, deve guidare l’architettura in quanto scienza ambientale chiamata a rispondere a bisogni non solo di anziani fragili, ammalati, ma a quelli di tutti noi. La secon-da e la terza parte sono costituite da due ampi capitoli strettamente connessi: il primo esa-mina il funzionamento delle residenze per anziani riprendendo il pensiero sulle istituzioni totali di classici, tra i quali Goffman, Foucault, Miller e Gwanne, per arrivare alla proposta attuabile, non utopistica, di cambiamenti culturali e organizzativi da parte del “corpo curante” (gli operatori tutti) unito nella realizzazione di un “progetto globale di cura” (Fabrizio Arrigoni). È sui diversi filoni della traduzione pratica del progetto con il metodo Gentlecare che lavora Marco Fumagalli in “Biografia, non solo biologia”. Troviamo una par-te dedicata all’importanza della storia/scrittura di vita, una parte che fornisce strumenti appropriati per poterla realizzare con la persona colpita da demenza, ma anche molte pagine dedicate allo spazio quotidiano e ai cambiamenti radicali richiesti a una struttura residenziale per divenire “contesto dotato di senso”. Il lettore è aiutato da una documenta-zione fotografica che mostra il difficile – e tuttavia possibile - salto di qualità di una resi-denza che da “deposito” diventa ambiente “protesico”. Una domanda a conclusione: le tes-sere del mosaico si sono composte per far comparire i contorni del metodo Gentlecare nella sua peculiarità? Mi sento di dare una risposta positiva, accompagnata dalla segnalazione di qualche limite di tipo formale: si tratta del ripetersi di alcuni concetti in più di un capito-lo, della riproposizione di esemplificazioni, di qualche appesantimento nelle parti teori-che. Nell’insieme l’utilità del contributo non viene inficiata, diminuisce soltanto il piacere di una lettura agile e completamente gradevole. Il volume, quindi, raggiunge lo scopo di arricchire la conoscenza anche di chi non è nuovo al tema e, soprattutto, stimola a ripensa-re ai propri sistemi del prendersi cura di persone colpite da demenza, nel contesto abitati-vo, ma ancor più nelle residenze per anziani.

patrizia taccani

affido e adozione

tivamente all’esclusivo lavoro di sostegno avulso da compiti valutativi.

Il lavoro si è rivelato utile e proficuo per il rin-forzo della genitorialità in presenza di risorse personali e di situazioni che hanno visto la col-laborazione tra gli attori della rete e soprattutto che ha cercato, non sempre con facilità, la con-divisione delle criticità.

Questo progetto e questa esperienza di lavo-ro potrebbero concretizzarsi in un percorso da proporre nei servizi. Potrebbe diventare un momento di crescita di cui si avvantaggerebbero molti genitori i cui figli sono in affido, principal-mente nella fase di rientro presso la famiglia di origine.

Anche se non sempre soddisfacente, ritenia-mo comunque sia importante valutare il con-creto utilizzo per quei genitori che invece non hanno questa previsione di ricongiungimento, in quanto pensiamo che potrebbe essere un significativo strumento di implementazione delle residue risorse genitoriali nell’uso degli spazi di condivisione con i figli.

Il lavoro individuale potrebbe essere inter-grato da un lavoro di gruppo delle famiglie di origine, così come sperimentato da alcuni Ser-vizi con progetti provinciali, con ottimi risultati, in modo da far confrontare i genitori con altre persone che vivono le stesse vicende e le stesse emozioni. Il gruppo, infatti, rinforza, sostiene, e trova maggiori strategie per affrontare le diffi-coltà, le insicurezze e i dubbi. Il gruppo, inoltre, principalmente per le famiglie che riaccolgono i loro figli, funge da palestra per la partecipazione alla vita sociale, scolastica e gruppale che inevi-tabilmente si troveranno a frequentare. #

bibliografia:Cirillo S., Il cambiamento nei contesti non terapeutici,

Cortina, Milano, 1990Cirillo S., Berrini R., Cambiaso G., La famiglia del

tossicodipendente, Cortina, Milano, 1996Di Blasio P. (a cura di), Tra rischio e protezione, la

valutazione delle competenze parentali, Unicopli, Milano, 2005

Ghezzi D., Vadilonga F., La tutela del minore, Cortina, Milano, 1996

Greco O., Iafrate R., Figli al confine, Franco Angeli, Milano, 2001

Levine M., A modo loro, Mondadori, Milano, 2005

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Povertà ed emarginazione

iL terzo escLusocosa ci dicono i numeri sulla povertà in italia

Annamaria Simonazzi, Paola Villa

Il 29,9% degli italiani è a rischio di povertà ed esclusione socia-le. Condizione che riguarda il 24,8% della popolazione Ue. Da noi, a rischio soprattutto bambini, giovani e quanti vivono in affitto. Ma l’Europa che ha fatto dell’inclusione sociale il perno della strategia 2020 rischia di fallire l’obiettivo. Mentre in Ita-lia non regge più l’unico cuscinetto che ammortizzava i colpi: la famiglia

124,5 milioni di persone. Questo è il numero di quanti a rischio di povertà o esclusione sociale nell’Unione europea (UE28) nel 2012: il 24,8 % dell’intera popolazione, uno su 4 (si veda la tavola 1). Il dato ha fatto scalpore soprattutto perché ha rivelato che l’Italia è al secondo posto nell’eu-rozona, dopo la Grecia, per la percentuale di “persone a rischio di povertà o esclusione sociale”: il 29,9%, ovvero 18.200.000 persone. Per capire cosa significhino queste cifre, cominciamo con la definizione dei concetti utilizzati dall’Eurostat per quantificare il fenomeno.

Il concetto di “rischio di povertà o di esclusione sociale” (indicatore ARPE, at-risk of poverty or social exclusion) adot-tato in ambito comunitario, si riferisce a persone che si trovano in almeno una delle seguenti tre condizioni: i) sono a rischio di povertà monetaria (il loro reddito risulta infe-riore al 60% del reddito mediano equivalente calcolato a livello nazionale); ii) soffrono di severa deprivazione mate-riale (non hanno risorse sufficienti per sostenere alcune spese di base come affitto, mutuo, riscaldamento, un pasto adeguato, ecc.); iii) la famiglia in cui vivono è a bassa inten-sità di lavoro (ovvero, in media nell’anno risulta occupato meno del 20% del potenziale lavorativo totale).1 Il primo indicatore è utilizzato per identificare le persone a rischio di povertà monetaria. Si tratta di persone che vivono in famiglie con un reddito monetario relativamente basso (inferiore alla soglia del 60%). Si tratta quindi di una misura di povertà relativa; ovvero, qualsiasi sia il livello del reddito mediano nazionale, ci sarà sempre una quota della popo-lazione che vive al di sotto di questa soglia. Ma ciò implica anche che se il livello assoluto del reddito nazionale muta per effetto di un impoverimento generale (come è accaduto in molti Paesi dell’Unione europea nell’ultimo quinquen-nio) il livello assoluto della povertà tende ad aumentare. Il secondo e il terzo indicatore, da intendersi come misure complementari, colgono altri aspetti del fenomeno.

Il rischio di povertà monetaria può essere calcolato prima o dopo i trasferimenti sociali: la differenza misura l’incidenza ipotetica delle politiche sociali (erogazione di prestazioni sociali) sulla riduzione del rischio di povertà.2 Per valutare la generosità (e l’efficacia) dell’intervento pubblico si possono confrontare gli indicatori di rischio di povertà prima e dopo i trasferimenti sociali (tavola 2). Nel 2012 i trasferimenti sociali hanno ridotto il tasso di rischio di povertà tra la popolazione dell’UE28 dal 26% al 17%, portando al di sopra della soglia di povertà quasi il 37% della popolazione che altrimenti sarebbe stata esposta a tale rischio. Il confronto tra i Paesi mostra che l’incidenza delle prestazioni sociali è stata minima in Italia e Grecia

(oltre a Romania e Bulgaria), con una riduzione inferiore ai 5 punti percentuali. Al contrario, l’intervento pubblico è stato efficace, quasi dimezzando la quota di popolazione esposta al rischio di povertà, in Irlanda, Ungheria, Dani-marca, Svezia, Finlandia, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Lussemburgo.

Alcuni gruppi sociali sono più esposti di altri al rischio di povertà in termini monetari. E’ necessario tener presente che il rischio di povertà (qualsiasi sia l’indicatore utilizza-to) dipende dalle caratteristiche della famiglia in cui una persona vive. Ciò spiega perché il rischio di povertà dei bambini (prima dei trasferimenti) in tutti i paesi tende ad essere più alto di quello degli adulti: le famiglie con figli piccoli hanno un reddito monetario “medio” necessaria-mente più basso delle famiglie senza figli (sulla povertà dei bambini in Italia si vedano i recenti dati, drammatici, diffusi da Save The Children [6]). Ciò spiega anche perché il differenziale per sesso nel rischio di povertà monetaria sia relativamente contenuto (pari a circa 1,4 punti percentuali per l’UE28, per il totale della popolazione). Va considerato che la maggioranza della popolazione vive in famiglie di almeno due persone. Quindi, se una famiglia è classifica-ta come “povera”, tutte le persone di quella famiglia sono povere (indipendentemente dal sesso).3 Il differenziale nel rischio di povertà si allarga se le famiglie sono classificate secondo l’intensità lavorativa del nucleo, e le persone che vivono in famiglie con bassa intensità lavorativa sono par-ticolarmente esposte al rischio di povertà.

Come già ricordato, altri indicatori contribuiscono a definire il quadro di povertà e deprivazione. L’indice di deprivazione materiale, che include le persone in condi-zione di severa carenza di risorse (nel 2012 il 9,9% della popolazione nell’UE28, ma il 14,5% in Italia) comprende un indicatore che misura il rischio di vulnerabilità finanziaria (cioè l’incapacità di affrontare spese impreviste). Si trova in questa situazione il 40,2% della popolazione nell’UE28, contro il 42,5% degli italiani. Il limitato scarto tra i due dati può essere spiegato dalla proverbiale propensione al risparmio delle famiglie italiane (comune ai paesi dell’Eu-ropa meridionale) cui corrisponde un maggiore peso della ricchezza sul livello del reddito, e una maggiore capacità delle famiglie di sopravvivere alle avversità grazie ai pro-pri risparmi. Questo riflette non solo il maggior peso della casa sulla ricchezza totale, ma soprattutto il minor peso del welfare pubblico, alle cui carenze supplisce appunto il welfare familiare. Ma se il compito di contenere la povertà è largamente demandato alla famiglia, il progressivo rapi-do impoverimento delle famiglie (costrette ad attingere ai risparmi per difendere il livello dei consumi) sta minando

intercettazioni

tavola 1 Persone a rischio di povertà o esclusione sociale, Ue28 e Paesi selezionati. anni 2008 e 2012

% popolazioneVariazione %

in milioni 2012 2008 2012

eu28 23,7 24,8 +1,1 124,5italia 25,3 29,9 +4,6 18,2spagna 24,5 28,2 +3,7 13,1grecia 28,1 34,6 +6,5 3,8portogallo 26,0 25,3 -0,7 2,7francia 18,6 19,1 +0,5 11,8germania 20,1 19,6 -0,5 15,9fonte: Eurostat, “At risk of poverty or social exclusion in the EU28”, News Release, 184/2013, 5 December 2013

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Povertà ed emarginazione

intercettazionialla base l’unico strumento di riduzione di povertà.

Il ruolo della ricchezza viene sottoli-neato dal Fondo monetario (IMF, 2013), che ha provveduto alla valutazione della situazione economica dell’Italia, giungendo a conclusioni non molto più ottimiste. La sola nota positiva in un quadro tutto sommato assai fosco, sembra essere rappresentata dalla considerevole ricchezza netta delle famiglie, che contribuirebbe a lenire le conseguenze, per il sistema bancario, del peggioramento delle condizioni finanziarie indotte dalla caduta del reddito. Sono soprattutto le famiglie con capofamiglia giovani e le persone in affitto quelle a maggior rischio di povertà: l’indice di vulnerabilità (che tiene conto del reddito e della ricchez-za finanziaria netta) era nel 2010 pari a 8,8% per la collettività nel complesso, ma saliva a 15,2% tra le famiglie “giova-ni” e al 26,1% per le persone in affitto (Bartiloro e Rampazzi, 2013). E la situa-zione è assai diversa fra Centro-nord e Mezzogiorno: nel 2011 le famiglie a rischio di povertà e esclusione sociale erano il 46,2% nel Mezzogiorno rispetto al 17,3% nel Nord e al 23% nel Centro.

Che fare? L’obiettivo fissato dal Consiglio di Lisbona del marzo 2000 era di fare dell’Europa in dieci anni “l’econo-mia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica soste-nibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”. La nuova strategia Europa 2020 (appro-vata dal Consiglio nel giugno 2010) si pone più modesta-mente come uno degli obiettivi principali da raggiungere entro il 2020 quello dell’inclusione sociale, impegnandosi a fare uscire dalla povertà e dall’esclusione sociale almeno 20 milioni di persone nell’UE entro il 2020. Anche questo più modesto obiettivo, tuttavia, rischia di essere clamoro-samente e drammaticamente mancato se non si inverte il trend del reddito a livello europeo. La migliore politica di contrasto della povertà è la crescita e la piena occupazione, e la strategia 2020 rimarrà una vuota parola d’ordine se non verrà accompagnata da politiche macroeconomiche capaci di re-innescare la crescita in Europa. Senza crescita, non ci saranno risorse da redistribuire, né a livello dello stato, né a livello delle famiglie.

L’articolo è precedentemente apparso su InGenere il 12 dicembre 2013

bibliografiaBaldini M., Bosi P., Colombini S., Mesini D., Ranci Ortigo-

sa E. (2013), “Un reddito minimo possibile”, Lavoce.info, 14.06.13 www.lavoce.info/un-reddito-minimo-possibile/

Bartiloro L., Rampazzi C. (2013), “Italian Households’ Saving and Wealth during the Crisis”, Quaderni di Economia e Fi-nanza, Occasional Papers no. 148, Banca d’Italia, febbraio

Eurostat (2013a), “At risk of poverty or social exclusion in the EU28”, News Release 184/2013, 5 dicembre

Eurostat (2013b), Statistics explained http://epp.euro-stat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/Pe-ople_at_risk_of_poverty_or_social_exclusion [8]

IMF (2013), Italy Financial Sector Assessment Program, agosto 2013

Note 1 Per maggiori informazioni sulla metodologia adottata dall’Eu-

rostat per rilevare le persone rischio di povertà o esclusione sociale si veda Statistics explained nella pagina web: http://epp.eurostat.ec.europa.eu/statistics_explained/index.php/People_at_risk_of_poverty_or_social_exclusion

2 Le pensioni di anzianità e di reversibilità sono considerate co-me redditi, non sono quindi incluse nei trasferimenti sociali.

3 Le differenze (per sesso) diventano palesi se si distingue per tipologia di famiglia: coppie (adulti) senza figli; coppie (adulti) con figli piccoli; coppie (adulti) con figli grandi; famiglie mono-parentali (capofamiglia, per sesso); singoli (anziani, per sesso).

tavola 2 Il rischio di povertà o esclusione sociale, prima e dopo i trasferimenti sociali, nei Paesi dell’Unione europea nel 2012 (% della popolazione totale)45

40

35

30

25

20

15

10

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28 *

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fonte: Eurostat, “At risk of poverty or social exclusion in the EU28” (codice dati online: ilc_li10, ilc_li02, ilc_li01). Note: * Stime Eurostat; ** Dati riferiti al 2011; ° Dati provvisori.

prima dei trasferimenti socialidopo i trasferimenti sociali

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Notizie

fotografIe

Iminori: solitudine e incontri intorno al web

Nel nostro Paese, 9 minori su 10 (l’87,8%) navigano in rete quotidianamente e 6 su 10 (57,6%) lo fanno in solitudine. I bambini dai 6 ai 10 anni che fruiscono del-la rete senza la presenza di un genitore sono il 31,2% e i ragazzini fra 11 e 13 anni sono addirittura il 72,5%. Lo studio del Moige (Movimento italiano genitori) sull’uso di Internet da parte dei minori, condotto su un campione di circa 1.000 studenti delle scuole elementari, medie e superiori, svela inoltre che l’utilizzo privilegiato della rete non avviene per motivi di studio, ma per divertimento e socializzazione. Il 26% degli intervistati utilizza Intenet per allacciare nuove amicizie, il 15% dei ragazzi afferma di possedere in egual numero ‘’amici’’ su Internet rispetto al mondo reale e addirittura l’8% afferma di possederne di più nel mondo del web. Preoccupanti, secondo il rapporto, i dati riguardanti gli “appuntamenti al buio”, che mostrano come il 14% degli intervistati abbia incontrato le persone conosciute in Internet. Infine, l’analisi ha svelato che 6 ragazzi su 10 appartenenti alla classe d’età 14-20 anni hanno utilizzato almeno una volta foto o video per prendere in giro qualcuno. Questo scenario è alla base del progetto “Per un web sicuro”, giunto alla terza edizione, che quest’an-no ha l’obiettivo di sensibilizzare oltre 40.000 persone tra ragazzi, genitori, nonni e docenti su un uso corretto e responsabile della rete.www.moige.it

famiglia: redditi in calo

Il reddito disponibile delle famiglie, tra il 2011 e il 2012, è diminuito in tutte le regioni italiane, soprattutto al Centro-Nord. Lo rivela l’Istat, che segnala come vi sia stata una flessione del -2% al Nord-ovest e al Centro, un calo del -1,8% al Nord-est e una riduzione più contenuta nel Mezzogiorno (-1,6%). Rispetto al 2009, anno di inizio della crisi economica, il reddito disponibile delle famiglie è invece cresciuto leggermente (+1%), con un andamento più favorevole nelle regioni settentrionali, (+1,6% nel Nord-ovest e +1,7% nel Nord-est). Le regioni dove il reddito disponibile è inferiore a quello del 2009 si trovano nel Mezzogiorno: Molise (-1%), Basilicata (-1,1%), Calabria (-1,2%) e Sicilia (-1,1%). Nelle regioni centrali la crescita complessiva è stata quasi nulla (+0,1%), con una variazione negativa in Toscana (-0,6%). Il calo maggiore tra tutte le regioni italiani si registra in Liguria (-1,9%). Lo studio segnala, infine, che nel 2012 il reddito monetario disponibile per abitante si attesta mediamente a 17.600 euro, con significative variazioni territoriali: 20.300 euro al Nord-ovest e al Nord-est, 18.700 euro al Centro e 13.200 euro al Sud e nelle Isole. www.istat.it/it/archivio/111473

Immigrazione: comunicazione e accesso ai servizi

Le difficoltà linguistiche possono costituire un vero e proprio ostacolo nell’ac-cesso ai servizi sanitari. Secondo lo studio dell’Istat “Cittadini stranieri: condi-zioni di salute, fattori di rischio, ricorso alle cure e accessibilità dei servizi sani-tari”, tra le persone straniere di età superiore ai 14 residenti in Italia, il 13,8% dichiara di avere difficoltà nello spiegare al medico i disturbi di cui soffre o i sin-tomi percepiti e il 14,9% riferisce di avere dei problemi nel comprendere ciò che il dottore dice. Le difficoltà comunicative appaiono più diffuse fra quanti pro-vengono dai paesi non comunitari (17,8%), soprattutto i cinesi, che nel 43,3% dei casi riferiscono di avere difficoltà a spiegare il proprio stato di salute al medico, seguiti dalle persone appartenenti alla comunità indiana (34,8%), filippina (28,7%) e marocchina (21,4%). Anche l’accesso ai servizi si presenta piuttosto critico. Il 12,9% degli stranieri indica di avere difficoltà nello svolgi-mento delle pratiche necessarie per accedere alle prestazioni mediche, in parti-colar modo coloro che risiedono nel Mezzogiorno (19,4%). A differenza di quanto accade per le difficoltà linguistiche, che diminuiscono costantemente al passare del tempo trascorso in Italia, la quota di cittadini stranieri che incontra-no problemi di tipo burocratico/amministrativo si mostra stabile. www.istat.it/it/archivio/110879

azIoNI

famiglia e minori

• Violenza e abusi sui minori: linee guida regionali. Sono circa 1.500, in Emilia-Romagna, i bambini e gli adolescenti in carico ai servizi sociali perché vittime di violenze o maltrattamenti, che nella maggioranza dei casi avvengo-no in famiglia (80,2%). Per fronteggiare questo problema, in larga parte som-merso, la Regione ha redatto le “Linee di indirizzo regionali per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento/abuso”, allo scopo di rendere omogeneo su tutto il territorio il percorso di accoglienza e cura. Il docu-mento è rivolto a tutti i soggetti istituzionali coinvolti: aziende sanitarie, servizi sociali comunali, scuola, servizi educativi, associazioni e strutture del terzo set-tore, forze dell’ordine, autorità giudiziaria.www.saluter.it/news/regione/linee-accoglienza-minori-vittime • Maltrattamento dei bambini: vademecum per i medici. Una guida per prevenire e identificare tutte le forme di maltrattamento dei bambini, rivolta al personale medico. L’ha realizzata Terre des Hommes Milano (in collaborazione con il Comune di Milano, ASL, Regione Lombardia, Clinica Mangiagalli, Ospeda-le Maggiore Policlinico, SIP, Ordine dei Medici di Milano e Università degli Studi di Milano) come strumento per orientare gli operatori sanitari nella gestione di casi di sospetto o effettivo maltrattamento a danno dei minori. Il documento fa seguito a un’indagine che aveva rivelato un forte bisogno d’informazione su questo tema. Il vademecum sarà seguito da una serie di momenti formativi.www.terredeshommes.it

Povertà ed esclusione sociale

• progetto Mense sociali a roma. I pasti distribuiti quotidianamente nelle mense scolastiche della città di Roma sono circa 150 mila. Moltissimi gli avanzi, sui tavoli o in cucina, che fino a poco tempo fa finivano direttamente nei casso-netti dell’immondizia. Con il nuovo capitolato d’appalto, attivo dalla fine di feb-braio, la frutta, il pane e il cibo cucinato, ma non servito, saranno distribuiti alle mense sociali che servono le persone in difficoltà e senza dimora. Diversi enti e associazioni, ad esempio Caritas, Sant’Egidio, Esercito della Salvezza, Banco ali-mentare, Centro Astalli, provvederanno alla distribuzione nelle rispettive men-se. Gli avanzi di cibo già servito, invece, saranno riutilizzati dai canili e dai gattili cittadini. www.redattoresociale.it • servizi ambulatoriali gratuiti a Milano. Un Poliambulatorio medico dove trovare un’assistenza sanitaria di qualità a prezzi contenuti. Lo ha realizza-to a Milano il Consorzio Frasi Prossimo, in collaborazione con Welfare Italia Servizi, Società Nazionale di Mutuo Soccorso Cesare Pozzo e la società coopera-tiva europea Fondo salute. Le famiglie in difficoltà possono accedere in forma gratuita e anonima a tutte le prestazioni, rivolgendosi a un Centro di Ascolto della Caritas Ambrosiana. Il costo delle prestazioni gratuite è sostenuto da un Fondo di Solidarietà alimentato dagli utili del poliambulatorio, donazioni da parte di fondazioni, associazioni, aziende, o singoli cittadini, e attraverso un sistema di sanità integrativa. www.poliambulatoriojenner.it

servizi. linee guida per l’integrazione sociosanitaria

Rafforzare il livello di integrazione socio sanitaria sul piano regionale e nazio-nale per migliorare la qualità dei servizi di assistenza, fornendo ai professionisti e ai policy makers indicazioni per l’impianto e la gestione dei più appropriati percorsi assistenziali. È l’obiettivo delle Linee guida elaborate nell’ambito del progetto Aida (Advancinc integration for a dignified ageing) da Regione Liguria, Regione Veneto, Inrca (istituto nazionale riposo e cura anziani), Anziani e non solo, Enea (Elaborare nuove esperienze di autonomia) ed Europcarers. Il documento sarà proposto al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per l’adozione su scala nazionale. www.projectaida.eu

accadde domania cura di Giselda Rusmini

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