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LA COMUNITÀ TERAPEUTICA COME AMBIENTE DI HOLDING1

Anno 13, n. 55, Settembre 2013M. Gerard Fromm

Traduzione a cura di Matteo Biaggini [email protected]

Note biografiche sull’autore in calce all’articolo.

1. Premessa: Note introduttive sul tema dell’autorità

Freud indicò la traiettoria clinica della psicoanalisi con il suo famoso commento: “Là dove era l’Es, deve venire l’Io (1923, p.80). Questo orientamento della psicoanalisi preparò il terreno alla psicologia dell’Io, portando ad un ricco sviluppo di concetti teorici, e ad un punto di vista specifico riguardante la tecnica clinica. I contributi concettuali includevano la neutralizzazione potenziale degli impulsi, con un approccio tecnico che metteva in primo piano il sostegno all’Io nei suoi importantissimi sforzi di acquisire sintesi e padroneggiamento, due importanti funzioni implicate nel perseguire gli obiettivi della comunità terapeutica.

Nel contesto del suo “radicale ritorno a Freud”, Jacques Lacan attinse al testo originale in tedesco di Freud, e ritradusse la sua basilare affermazione in “L’Io deve avvenire, là dove era” (1977, p.129). Egli quindi spostò il piano del discorso avente al centro le forze e il loro controllo – i proverbiali cavallo e cavaliere di Freud – verso le dimensioni della soggettività e dell’autorità. Riconobbe che fu il genio di Freud a scoprire un modello di trattamento psicologico che rovesciò le originarie posizioni di medico e paziente. All’interno di un modello medico tradizionale, il paziente era destinato ad adattarsi alla condizione di oggetto della conoscenza e delle cure del medico. Ma

1 Nella traduzione si è preferito mantenere il termine inglese holding ormai entrato nell'uso corrente dei testi di psicoanalisi. Per definire il concetto di Holding riportiamo alcune annotazioni di Anna Ferruta: Il termine holding, introdotto da Winnicott, si è diffuso nell’uso corrente, fino al punto di perdere la sua specificità e il suo potenziale terapeutico. Ritengo che sia importante riflettere sul significato di questo strumento utile per chi cura la sofferenza mentale con una metodologia psicoanalitica, in modo da espanderne l’efficacia terapeutica e il potenziale conoscitivo sul funzionamento della mente umana. Il concetto e il termine significano tenere: tenere un oggetto tra le mani o tra le braccia, mantenere in uno stato. L'holding indica una condizione continuativa nella quale un bambino è tenuto saldamente da una persona, in genere la madre, senza essere sospinto e senza essere trattenuto, come precondizione necessaria per muoversi liberamente verso gli oggetti del mondo in un ambiente mentale sicuro nel quale può fare esperienza di sé. Quindi l'holding nella clinica significa un essere tenuti saldamente nella mente del terapeuta o del gruppo curante, condizione che trasmette la sensazione di non doversi preoccupare di tenersi insieme, ma di potersi muovere verso nuove esperienze contando su questa condizione continuativa salda, con una mente sgombra da   pesi relativi a pressioni o a freni provenienti dall'ambiente, in vista di una crescita psichica personale." Quindi, ogni volta che il lettore incontra nel testo il verbo “tenere” in corsivo, nelle sue diverse declinazioni, ci si riferisce all’esercizio della funzione di “holding”.

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Freud – anche se talvolta ebbe delle difficoltà con il suo paradigma di enorme portata innovativa – definì una situazione di cura nella quale egli era destinato a diventare l’oggetto delle tendenze inconsce del paziente. Attraverso l’interpretazione graduale di questo transfert che affonda nella storia passata, Freud sarebbe giunto a conoscere l’origine della malattia del paziente, prima di allora rimasta predominio dell’inconscio.

Lacan indirizzò l’attenzione della psicoanalisi clinica verso una sfida diversa: la patologia è il riflesso di uno stato di oggettivazione, e la terapia crea i presupposti per la nascita del soggetto. Per Lacan l’essenza della condizione umana è la nostra immersione nei significati – primo fra tutti quello che significhiamo per l’Altro imprescindibile - e l’essenza dell’agire umano è il nostro sforzo di afferrare significati per noi stessi. In questa visione, la situazione psicoanalitica risponde esattamente a questo scopo: scoprire, nel contesto di una relazione terapeutica, i significati inconsci custoditi dal paziente, connessi alla sofferenza psichica. La tecnica della psicoanalisi clinica si articola così su questa concezione, che colloca l’autorità all’interno del trattamento in modo radicalmente differente. Al riguardo, in un mio precedente scritto (Fromm, 1989), ho evidenziato da un lato il ruolo dell’analista nel definire la cornice del trattamento, che riflette la sua autorità, e dall’altro il ruolo del paziente nell’usare l’analista come un tramite per la comunicazione emotiva, che riflette l’autorità del paziente.

Questo ci conduce direttamente al problema della “resistenza al trattamento”. Con questa espressione, non mi sto riferendo alla resistenza comunemente intesa in psicoanalisi, ovvero la resistenza a sperimentare ansia, o in relazione a pensieri e sentimenti inaccettabili, né alla resistenza in quanto aspetto specifico del transfert verso l’analista. Piuttosto, su di un piano empirico, la resistenza al trattamento si riferisce semplicemente ai risultati negativi della terapia nel corso del tempo, e su un piano clinico, si riferisce alle difficoltà del paziente nel coinvolgersi veramente in un’alleanza terapeutica. Mi sembra che la resistenza al trattamento possa essere considerata la risposta di alcuni pazienti alle terapie che non prendono in considerazione le questioni problematiche della soggettività – ovvero, di quella dimensione cruciale dell’esperienza umana che consiste nell’attribuzione di significati - e dell’autorità.

Naturalmente, molti trattamenti non perseguono questa strada, per ragioni che acquistano un senso all’interno delle rispettive cornici di riferimento. La psicofarmacologia opera nell’ambito di un modello medico tradizionale e si prefigge di definire una valutazione obiettiva dei sintomi, che saranno oggetto del conseguente intervento terapeutico. Il trattamento cognitivo-comportamentale invita il paziente a isolare i pensieri che lo ostacolano e ad applicare un modo più costruttivo di pensare, nelle situazioni di ansia in cui emergono i ricorrenti pensieri disadattivi. Questi approcci ormai piuttosto diffusi non provengono dalla cultura psicoanalitica e confidano nella disponibilità dei paziente a essere al tempo stesso partner e “oggetto” del processo terapeutico, e possono funzionare bene per coloro che possono garantire di mettere a disposizione la propria soggettività al servizio della terapia, al tempo stesso dando per scontate le buone intenzioni del medico. Ma è probabile che molti pazienti, che in seguito a numerosi fallimenti terapeutici sono stati definiti resistenti al trattamento, non siano in grado di fare nessuna delle due cose. Non possono giovarsi pienamente di trattamenti che non prendono in piena considerazione il ruolo ricoperto dal significato nei loro sintomi, e dalle relazioni nell’origine dei loro disturbi; e non sono in grado di sottomettersi all’autorità del curante se non è riconosciuta la loro personale rappresentazione dell’autorità, che è inevitabilmente disfunzionale e confusa.

La direzione ideale della cura concepita da Freud, così come la riformulò Lacan, chiama in causa l’autorità del paziente: l’Io (in quanto soggetto) deve diventare capace di stare nel posto dove era

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(in quanto oggetto) , ovvero deve diventare soggetto dell’esperienza; l’“essere” (in quanto oggetto) – o, potremmo dire, il trovarsi - si riferisce all’esperienza affettiva non integrabile, a prescindere dal fatto che origini nella vita impulsiva o dallo scontro con la realtà esterna. Nella misura in cui un’esperienza affettiva di questo tipo sopraffà le capacità dell’Io, entriamo nel dominio del trauma. Ai fini della nostra discussione, è sufficiente sottolineare che un’esperienza che può non essere traumatica per una persona che ha sviluppato un senso del sé coesivo, può esserlo in misura sensibile per una persona che ne è priva. Per questa tipologia di pazienti, le fantasie correlate all’area traumatica sono concretisticamente vissute nella realtà, come se fossero la realtà. Essendo in loro compromessa la capacità di utilizzare le parole per tradurre in termini simbolici l’esperienza, essi hanno bisogno di uno spazio interpersonale per mettere in scena il proprio mondo interno, potendo in questo contesto apprendere attraverso il rimando degli altri e il lavoro interpretativo della terapia. Questo è il tipo di spazio che una comunità terapeutica psicodinamica può mettere a disposizione, ed è anche uno degli scopi dell’ intervento terapeutico in questo tipo di istituzioni, se orientate in senso psicodinamico.

La tematica riguardante il trauma fu indubbiamente quello che indusse Freud a riconsiderare le funzioni dell’Io “al di là del principio del piacere”, una riconsiderazione che fu indotta dall’esperienza dei danni psicologici determinati dalla Prima Guerra Mondiale. Gli studi sul trauma sono fioriti negli ultimi anni, e un tema che riscuote recentemente una considerevole attenzione è la trasmissione transgenerazionale del trauma (Coates, 2003; Davoine and Gaudilliere, 2004; Faimberg, 2005; Fonagy, 2003; Fromm, 2012; Volkan, 2002, 2004). Susan Coates e i suoi colleghi (2003), nel loro studio sull’impatto degli attacchi dell’11 settembre, sostengono con argomenti persuasivi l’esistenza di un rapporto inverso tra il trauma e i legami umani: il trauma è spesso un’esperienza caratterizzata da un’intensa solitudine e, d’altra parte, attraversare una situazione terribile con altre persone tende a mitigare i suoi effetti traumatici. La collega e il suo gruppo di collaboratori hanno anche illustrato in modo assolutamente efficace la sintonizzazione inconscia che si crea tra i bambini e i genitori, in particolar modo nelle situazioni traumatiche, e i modi in cui il bambino e il genitore possono vivere in uno stato di risonanza inconscia l’uno con l’altro, ma anche in una condizione di pericoloso e reciproco isolamento.

In un altro recente studio, Davoine e Gaudilliere (2004) presentano alcuni aspetti che sono emersi - nell’arco di molti anni - nella propria pratica psicoterapeutica con pazienti traumatizzati e psicotici. Gli autori sono convinti che il paziente psicotico stia conducendo, in modo folle, una ricerca sulla rottura avvenuta tra la sua famiglia e il tessuto sociale, una frattura causata dal trauma e dal tradimento. Suggeriscono che l’esperienza traumatica non pensabile della generazione precedente, vada a collocarsi nei frammenti caotici e potentemente investiti di cui si compone l’esperienza mentale dei pazienti, i quali, in un certo senso, stanno cercando di dare un senso e una pensabilità a quanto è stato tagliato via dalla dialettica sociale in cui erano immersi. Gli autori mettono fortemente in connessione la sfera della clinica con quella storica e politica, e illustrano efficacemente come l’esperienza del trauma debba essere comunicata, o quantomeno comunicabile, se si vuole che la persona traumatizzata possa sperimentare in futuro una condizione d’interezza. Quando non può essere comunicata in parole che esprimono un’emozione autentica, si trasmette attraverso l’agire – un tramite che è al tempo stesso non detto e indicibile – a qualcuno che inevitabilmente è lì in ascolto: i nostri bambini o, nel contesto clinico, i nostri pazienti.

Questi aspetti , nella mia mente, si ricollegano in modo vivido a un’altra affermazione di Freud: la sua straordinaria, misteriosa e del tutto non elaborata dichiarazione che “Ognuno possiede nel proprio inconscio uno strumento con il quale può interpretare le espressioni dell’inconscio in altre persone” (1913, p.320). Erikson notò dei fenomeni simili, quando mise in evidenza “I metodi sottili

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con i quali i bambini sono indotti ad accettare…modelli del bene e del male” e il modo in cui “minute esposizioni di un’emozione…trasmettono al bambino i contorni di ciò che realmente è importante” (1959, p.27-28). Mi sembra che la resistenza al trattamento per alcuni pazienti rifletta una questione complessa che riguarda l’autorità. I traumi indicibili dei genitori sono gli autori dell’esperienza di alcuni bambini. Alcuni di loro sono stati in modo speciale, per quanto inconsciamente, autorizzati a farsi carico, per il futuro, dei traumi dei loro genitori – un fenomeno a cui mi sono riferito altrove utilizzando il concetto di “cittadinanza inconscia” (Fromm, 2000). Questo “conosciuto non pensato”, citando l’appropriata definizione di Bollas (1987), deve diventare una comprensione emotiva se auspichiamo che il paziente si assuma l’autorità per la propria vita, distinta da quella del genitore traumatizzato. I trattamenti che minacciano di dissociare ulteriormente questa esperienza, o che minacciano la missione inconscia alla quale il paziente può essere molto fedele, fronteggeranno resistenze “fino alla morte”, a prescindere da quanto siano stati oggettivamente importanti ed efficaci per altri pazienti.

Indubbiamente esistono implicazioni determinate da questo modo di pensare, che riguardano le comunità terapeutiche così come la psicoanalisi individuale, alcune delle quali intendo chiarire nella parte successiva di questo lavoro.

2. Fattori che definiscono il setting

Nel suo lavoro del 1954 sulla regressione, Winnicott afferma in modo sorprendente che “Freud dà per scontata la primaria condizione di accudimento materno…si evidenzia nella sua disposizione del setting per la terapia” (1954a, p.284). Per Winnicott, non avrebbe potuto essere altrimenti; Freud non avrebbe potuto mettere a disposizione, né i suoi pazienti avrebbero potuto usare un setting che offre una holding così intensa, se le esperienze primarie nella relazione madre-bambino non fossero state “sufficientemente buone”, e in quanto tali in grado di essere date per scontate. Ma con pazienti più gravemente disturbati, che hanno fatto esperienza di un ambiente primario che ha in qualche modo fallito, e per i quali la regressione a una condizione di dipendenza è essenziale per l’agire terapeutico, il setting della terapia assume una connotazione cruciale.

L’avviso di Winnicott rivolto agli analisti che fossero interessati a trattare questa tipologia di pazienti è di “osservare l’azione esercitata dai fattori costituenti il setting; osservare gli esempi minori di regressione che si manifestano nel corso delle sedute analitiche e che si risolvono spontaneamente, e osservare e utilizzare gli episodi regressivi che compaiono nella vita del paziente al di fuori dell’analisi” (p. 293).

In questo scritto, prenderò in esame un programma terapeutico di comunità in quanto ambiente di holding, tendando di illustrare l’importanza di alcuni concetti di Winnicott ai fini della comprensione delle situazioni cliniche, e prendendo in considerazione il ruolo del setting in quanto sistema, le cui dinamiche possono portare a “fallimenti” nell’esercizio della funzione di holding, con conseguenti fenomeni regressivi problematici nei pazienti.

Il particolare programma terapeutico di comunità2 che intendo trattare ha luogo in un contesto di trattamento completamente aperto e volontario, nel quale la psicoterapia psicoanalitica intensiva è sostenuta da una varietà di attività cliniche. Al momento dell’ammissione, i pazienti riconoscono la responsabilità verso se stessi e, nell’ambito di una valutazione professionale e accurata delle proprie difficoltà, sanno che saranno considerati tali, usufruendo di un sostegno da parte dello staff. Entrano in un setting che non utilizza serrature, restrizioni o sistemi di privilegi, e possono andare e venire

2 L’autore fa riferimento al Programma di Trattamento Comunitario dell’Austen Riggs Center

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come desiderano. Né è loro imposto di prendere parte alle sedute di psicoterapia, alle riunioni o a qualsiasi altro aspetto del programma. L’obiettivo è sempre che i pazienti si alleino con il trattamento, piuttosto che vi aderiscano o vi si adattino. La struttura sostiene i pazienti nel proprio compito di autogestirsi, offrendo loro operatori sensibili e adeguatamente formati, e costruendo con loro un programma terapeutico di comunità nel quale possano collettivamente organizzarsi, coinvolgendosi con i membri dello staff nel gestire i compiti gestionali, e riflettendo in gruppo sul funzionamento della comunità.

3. Il Setting Aperto

Nel suo scritto sulla regressione, Winnicott getta uno sguardo sul setting terapeutico utilizzato da Freud ed elenca quali sono, dal suo punto di vista, alcune delle sue caratteristiche più evidenti (1954b, p.285). Winnicott era un teorico delle evidenze che passano inosservate, e questo si coglie come non mai nelle sue dodici osservazioni sul setting terapeutico di Freud. La sua descrizione cattura le qualità essenziali di presenza, confine e spazio. Per esempio, la stanza: “una stanza, non un luogo di passaggio”, “quieta…ma non di una quiete mortifera”, “in cui possibilmente non si avvertano rumori imprevedibili e improvvisi, eppure… non del tutto isolata dai consueti rumori che si producono in casa”, “adeguatamente illuminata, ma non da una luce puntata sul viso”, “confortevolmente riscaldata” (p.285). Il setting di Winnicott non è troppo in un modo o troppo poco in un altro; piuttosto, è piacevolmente nel mezzo, sia speciale che ordinario. Offre l’affidabile solidità e la spaziosità nella quale possono emergere movimento, gioco, e gesto spontaneo.

Quando fu chiesto a una paziente cronicamente disturbata, nel mezzo di una fase molto difficile, cosa la convinse a voler continuare la terapia in questa specifica comunità terapeutica, ella rispose senza esitazione: “Perché si trova in Main Street!”. Quest’affermazione spontanea colse di sorpresa i membri dello staff. Rendeva l’idea del modo in cui l’apertura di questo setting terapeutico non sia semplicemente un fatto fisico. È anche un profondo e paradossale intervento strutturale, sia per i pazienti che per l’èquipe curante. In un certo senso, consiste in un amorevole rifiuto da parte dell’équipe di prendersi cura dei pazienti in modo tradizionale, almeno nella misura in cui quella tradizione prevede di barattare le risorse dei pazienti in cambio delle cure degli staff. Per le stesse ragioni per cui non esiste “il bambino”3 (1957, p. 137), afferma Winnicott, non esiste paziente senza curante, né un paziente cronico senza un’istituzione collusiva.

Nel rifiutarsi di intervenire, il setting aperto può essere frustrante, e fa emergere la distruttività allo scopo di testare le proprie capacità di sopravvivenza a fronte delle pressioni esercitate. Ma i suoi vantaggi sono molti. Mette a disposizione uno spazio in cui il paziente può trovare la propria distanza e il ritmo ottimali. Inoltre definisce un sistema di valori – ad esempio, valori di libertà, responsabilità e negoziazione – che possono rivelarsi fattori potenti nel migliorare la patologia narcisistica. Infine, anche se il giungere in questo contesto implica il fatto di essere andati incontro ad alcuni breakdown nelle fasi primarie di presa in carico nel corso dello sviluppo, esso offre anche al paziente molto problematico una scelta di coinvolgimento ben definita e sperimentata. L’ambiente che offre holding non può essere dato per scontato come se fosse un rifornimento unidirezionale di cure; piuttosto, invita i pazienti a partecipare per creare le condizioni che rendano possibile il farsi carico dei bisogni di ognuno e delle finalità stesse del trattamento. Questa necessità di coinvolgersi – di coinvolgersi in un’impresa sempre incerta che comporta sia l’esposizione di sé che la negoziazione tra differenze - non è semplice, anche se è terapeutica. E d’altra parte è

3 Winnicott, in questo frangente, sottintende “senza la madre”.

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particolarmente difficile per persone traumatizzate o che vivono perennemente in conflitto nelle relazioni. Da qui l’importanza del programma terapeutico di comunità.

4. La Comunità Terapeutica

I concetti di Winnicott, come ogni buona teoria, aiutano a svelare il significato degli accadimenti che si succedono nell’esperienza clinica del quotidiano, e perciò costituiscono essi stessi un contesto di holding che tenendo quest’esperienza, preserva e incrementa la coerenza nel setting. Voglio suggerire inoltre che un setting di trattamento residenziale può mettere a disposizione, attraverso le differenti competenze impiegate (psicoterapia, sostegno nel quotidiano, attività, amministrazione, ecc.) una serie d’interventi ambientali per intercettare e facilitare i processi evolutivi primari che Winnicott descrisse così bene. Con questi interventi, le relazioni oggettuali problematiche possono riattualizzarsi in un ambiente sociale relativamente sicuro. Questo permette di ridistribuire il transfert, rendendo più gestibile il carico di affetti intollerabili, e creando le condizioni per la traduzione in parole delle relazioni oggettuali della vita passata del paziente, così cariche di significati ma che non hanno mai trovato modalità espressive se non attraverso l’agire.

Prima che questa drammatizzazione possa avere luogo, comunque, è necessario verificare le potenzialità del paziente di esserci e di esserci con, e le forze collettive della comunità devono dispiegarsi così da creare un terreno sociale stabile e in grado di accogliere e tenere gli episodi regressivi.

Winnicott (1945) identificò nell’holding, l’handling e l’object presenting4 (con successiva sopravvivenza dell’oggetto), le tre funzioni offerte dall’ambiente necessarie per il primo fondamentale sviluppo dell’integrazione, della personalizzazione e della relazione oggettuale (e successivamente dell’utilizzo degli oggetti). La comune sollecitudine esercitata dagli operatori, ad esempio, può divenire la straordinaria disponibilità a “esserci nel momento giusto”. L’atelier, con le attività artistiche e artigianali, diventa uno spazio in cui cogliere lo sviluppo del sé nel corso del tempo - il che corrisponde a una funzione di holding – o dove poter utilizzare la mediazione dei materiali al servizio dei tentativi del sé di coinvolgersi con l’altro (Milner, 1957). Lo psicofarmacologo, nel modo in cui parla al paziente della terapia, maneggia con cura5, nella definizione data da Winnicott, la relazione tra il sé e il corpo. E così via. Non intendo suggerire qui una schematizzazione secondo la quale, ad esempio, la personalizzazione si ottiene attraverso le cure di uno specifico reparto, ma piuttosto che queste e altre specifiche e differenziate pratiche quotidiane, offerte da tutto lo staff, aggiungendosi una all’altra, rappresentano gli equivalenti simbolici di quei primari processi di sviluppo che facilitano il ricomporsi di un sé unito in un contesto condiviso con altri. La concettualizzazione di questa offerta terapeutica ci aiuta a cogliere le tematiche cruciali implicate nel processo evolutivo, e il loro destino. Che sono poi le questioni in cui i pazienti si dibattono quotidianamente.

4 Per quanto riguarda la funzione di Holding fare riferimento alla nota 1. L’Handling è il modo in cui il neonato è manipolato e accudito dal punto di vista fisico, e favorisce l’integrazione psicosomatica. L’Object presenting è la presentazione del mondo al bambino in modo da favorire l’illusione che gli oggetti siano creati da lui stesso (oggetti soggettivi)

5 N.d.t: nella traduzione, per rendere l’idea di questo specifico esercizio di handling, è stata scelta l’espressione “maneggiare con cura” che, a differenza di “manipolare”, non possiede risvolti semantici negativi che potrebbero creare un fraintendimento

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La comunità terapeutica enfatizza un setting che si fonda sull’apertura all’altro, così da poter includere i pazienti e tutto lo staff. Essendo una forma di trattamento psicologico, tuttavia, è divenuta nel tempo sempre più rara in America, di pari passo con lo stesso trattamento ospedaliero, nel contesto attuale che enfatizza l’efficienza gestionale, e in cui prevale la contrazione delle spese e una visione riduttiva della produttività. La speranza e l’apprendimento, che ebbero inizio in quell’entusiasta era post bellica per iniziativa di Maxwell Jones (1953), Thomas Main (1946), Karl Menninger (1936-37) e Marshall Edelson (1970), sopravvivono ora solo in una manciata di programmi terapeutici che raramente giungono all’attenzione dei professionisti che oggi, lavorando in solitudine e individualmente, sono assillati dai problemi.

E tuttavia tutto attorno a noi sentiamo parlare di comunità: comunità alloggio per pazienti deistituzionalizzati, strane comunità sorta di paradisi millenari per soggetti socialmente decaduti, polizia della comunità come principale fattore di riduzione della frequenza dei reati, coesione della comunità come elemento che distingue i quartieri sicuri da quelli insicuri, a prescindere dai livelli di povertà, affiliazioni comunitarie che finanziano con forme di capitale sociale il processo democratico. In effetti, la comunità può essere un antidoto ai malanni sociali e forse persino a quelli strutturali associabili al capitalismo del ventunesimo secolo: vale a dire, i conflitti intrapsichici e intergenerazionali alimentati da avidità e invidia, lo stato di deprivazione degli altri che ne consegue, ivi inclusi i membri della famiglia, e l’effetto sullo sviluppo del Super Io, sia in termini di coscienza che di ideale dell’Io.

Per pazienti seriamente disturbati, un programma terapeutico di comunità, arricchito da un complesso d’interventi psicodinamici, può mettere a disposizione un ambiente di holding essenziale per il trattamento, e permettere al proprio interno di raggiungere un considerevole approfondimento dei processi di apprendimento. All’inizio della storia psicoanalitica di questa comunità terapeutica, quando le crisi che si sviluppavano così rapidamente con i pazienti stavano indicando chiaramente agli staff esperti che la neutralità psicoanalitica non era assolutamente indicata per amministrare un ospedale, “fu presa una decisione storica: discutere la situazione assieme ai pazienti” (Christie, 1964, p.458). Questo “discuterne con i pazienti” divenne il cuore del programma. Rappresenta un’importante partnership tra i pazienti e gli staff, finalizzata alla risoluzione condivisa dei problemi e al prendere in esame la vita.

Inaugurata nei primi anni ’50 come parte di un movimento internazionale finalizzato alla creazione di comunità di recupero per il trattamento di pazienti psichiatrici, questa comunità terapeutica si sviluppò molto bene inizialmente, basandosi sui principi legati alla psicologia dell’Io: l’importanza attribuita alle risorse dei pazienti o alla sfera libera dai conflitti nel funzionamento dell’Io, la neutralizzazione dell’aggressività attraverso compiti concreti e reali interazioni tra le persone, l’importanza dell’apprendimento sociale, il potere dei ruoli multipli nel prevenire la patologica espropriazione dell’identità, e l’importanza della sublimazione attraverso la creatività. Winnicott era uno psicologo dell’Io almeno quanto era un teorico delle relazioni oggettuali (Fromm, 1989a), e molti dei suoi interessi e delle sue scoperte concettuali sull’età evolutiva vanno in parallelo e coincidono con quelli di Erik Erikson, durante i dieci anni nei quali lo psicanalista di origine tedesca diede il suo apporto a questo programma.

In un setting aperto, la comunità terapeutica tiene (e quindi esercita holding) favorendo l’incontro e la prossimità, piuttosto che tenendo da parte, e fa leva sul desiderio di ogni paziente, per quanto conflittuale o scisso, allo scopo di sviluppare un senso di appartenenza e delle relazioni gratificanti. Si tratta di uno spazio di gioco, ovvero di uno spazio potenziale (Winnicott, 1971e; Fromm, 2009), come la stanza di Winnicott, posta al di fuori ma non isolata dal mondo esterno al luogo di cura. Al suo interno, i pazienti possono portare in luce sia gli aspetti problematici che hanno segnato lo sviluppo della propria personalità, che le competenze che via via affiorano.

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In questo processo, le dinamiche proiettive entrano inevitabilmente in gioco; da qui l’importanza di considerare l’emergere dei sintomi in termini sistemici e gruppali. L’acting out di qualsiasi membro della comunità non solo influisce sulla comunità nel suo complesso (il che è a pieno titolo importante); può anche essere significativo per ognuno, essendo qualcosa che si è dissociato dal dialogo conscio e che, a maggior ragione, è fondamentale per comprendere in che modo il gruppo ha perso di vista il proprio compito. L’acting out interpretato in termini di sistema, ripristina l’ambiente di holding nello stesso momento in cui lo mette alla prova (Shapiro and Carr, 1991). Questa prospettiva può condurre a un potente apprendimento, nel qui e ora, sulla comunità. Può anche portare a un potente apprendimento per il paziente (o talvolta per lo staff) che potrebbe trovarsi a farsi carico di una questione per conto del gruppo, con un più o meno alto grado di stress personale e di compromissione del funzionamento. Si potrebbe quindi concepire la comunità terapeutica come una “democrazia interpretativa”, orientata a scoprire il significato all’interno di ogni espressione di cittadinanza inconscia e dissociata (Fromm, 2000).

Questo punto di vista amplia chiaramente il concetto di azione terapeutica contenuto nello scritto “Forme cliniche del transfert” (1955-56), nel quale Winnicott descrive un’ironia essenziale nel processo terapeutico: l’affidabilità della situazione terapeutica fa emergere la vulnerabilità del paziente ai fallimenti nell’holding; alcuni di questi fallimenti sono vissuti in modo molto personale perché evocano i fallimenti delle prime fasi dello sviluppo nell’infanzia, e possono essere presi in attenta considerazione in questo contesto. Tali fallimenti rievocati e riattualizzati nel qui e ora, compresi e interpretati dall’analista e vissuti dal paziente con significativi sentimenti di rabbia, non solo riparano, ma rafforzano l’ambiente di holding approfondendo al tempo stesso la comprensione della vita del paziente nel suo complesso.

Questo particolare programma di comunità terapeutica si concretizza in una serie di piccoli e grandi gruppi tra loro integrati, il cui snodo è costituito dalla Riunione di Comunità giornaliera, condotta da un paziente che è eletto per un periodo di otto settimane dalla comunità dei pazienti. Alcuni dei piccoli gruppi sono focalizzati sul compito (ad esempio, le attività ricreative o l’integrazione dei nuovi membri), e rappresentano un aspetto importante della vita comunitaria, di cui i pazienti hanno accettato la responsabilità, assegnandovi il loro principale interesse e le proprie migliori competenze. Altri gruppi si fanno carico di finalità supportive-riflessive; ad esempio, un gruppo di pazienti inclini all’abuso di sostanze si riunisce regolarmente per mantenere l’astinenza dei membri, e per riflettere sugli aspetti del contesto sociale che possono determinare la ricaduta. Muovendosi attraverso la quotidianità della vita comunitaria, i singoli pazienti non solo mettono in scena le parti problematiche e non integrate della propria personalità, ma intersecano le proprie vicende problematiche con le dinamiche sovrapersonali dell’istituzione.

5. Scene Cliniche

A.

Una sera, il cuoco della comunità se ne stava andando dopo aver lavorato fino a tardi e notò in un angolo buio del parcheggio un’auto col motore acceso. Una paziente aveva attaccato un tubo di gomma allo scarico e stava seriamente considerando di suicidarsi. Il cuoco intervenne e l’accompagnò dagli operatori. Il giorno seguente, la maggiore preoccupazione della Riunione di Comunità era quella di mettere il resto in secondo piano per parlare con la paziente. Lei riferì “cosa le era capitato”, utilizzando un linguaggio che il gruppo fece difensivamente proprio, fino a quando un membro dello staff fece un commento sul processo in corso e ridefinì l’affermazione della

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paziente mettendone in luce il risvolto attivo. Siamo “parlati” dal linguaggio più di quanto noi stessi lo parliamo; con il suo commento, l’operatore stava tenendo l’autodeterminazione e l’aggressività della paziente, mentre lei stava invitando il gruppo ad appoggiarla nel rinnegarla. Ne risultò un confronto molto più autentico. La comunità dei pazienti era turbata, scossa e arrabbiata con questa paziente. Il suo comportamento li aveva colpiti, suscitando diverse reazioni emotive: dal riconoscimento profondo del trauma che un effettivo suicidio genererebbe, all’ammirazione per gli sforzi sostenuti da questa specifica paziente nel vivere le sofferenze passate, al dispiacere che questo cuoco così amato e stimato potesse scegliere di non voler più affrontare questo tipo di eventi stressanti.

Nel corso della discussione, la conoscenza che il gruppo aveva di questa paziente portò ad una ricostruzione degli eventi precedenti l’episodio anticonservativo: in effetti la sua compagnia di assicurazione le aveva recentemente detto: “trova un modo di andartene; altre persone hanno bisogno di questi soldi”. Inoltre la sua terapeuta era via, in attesa di un nuovo bimbo. Infine, proprio prima del suo tentativo, essendo angosciata aveva chiesto a un membro dello staff di parlare con lei (dopo aver escluso di appoggiarsi ad altri pazienti). L’operatore rispose di aspettare mentre stava terminando la procedura d’inserimento di un nuovo paziente.

Durante la riunione, attraverso questo dialogo che incrementava il grado d’integrazione e coerenza, esercitando quindi una funzione di holding, emerse un tema con chiarezza: la paziente si era sentita messa da parte da nuove persone - rimpiazzata, abbandonata e piena di rabbia. Questo incremento di consapevolezza sul contesto in cui lei aveva agito, servì a gettare un seme nella psicoterapia di questa paziente, traducendosi nella possibilità di analizzare più profondamente le proprie esperienze di vita nell’infanzia, e il transfert. Comunque c’era dell’altro, oltre a questo tema, che chiamava in causa il gruppo. Si evidenziò che l’argomento previsto in agenda per la riunione, che era stato messo da parte, riguardava il Gruppo degli Sponsor, un gruppo condotto dai pazienti il cui compito era di favorire l’ingresso dei pazienti nella comunità, facendoli sentire ben accolti e dando loro dei punti di riferimento. Il referente degli sponsor aveva previsto di confrontare la comunità dei pazienti, e di affrontare una discussione sulla recente indisponibilità manifestata nel sostenere i nuovi arrivati.

In altre parole, la rabbia della paziente, nascosta da una caricaturale manifestazione di disponibilità verso i nuovi pazienti e i nuovi bambini, si manifestò in un ambiente caratterizzato dal desiderio rabbioso del gruppo di rifiutare queste nuove persone, e forse stava proprio veicolando questo sentimento. Quando alla fine questa discussione poté svolgersi apertamente, il gruppo riconobbe che rigettare i nuovi pazienti corrispondeva realmente a un modo di rigettare i cambiamenti ai quali sentivano che il setting terapeutico stava andando incontro, nel tentativo di adattarsi a una nuova realtà - indotta da necessità finanziarie - caratterizzata da un maggior numero di pazienti ammessi per trattamenti più brevi. Mentre il gruppo stava richiamando la paziente a ritornare a far parte di una cittadinanza conscia, stava anche riconoscendo la sua condotta come già determinata da una sorta di cittadinanza inconscia (Fromm, 2000), nel senso della sua natura inconsciamente rappresentativa, che in questo caso esprimeva la protesta contro il cambiamento indesiderato. Inoltre, una volta che questa dinamica divenne chiara, gli staff presero più seriamente in considerazione i problemi della comunità ad accettare gli inserimenti con tempi ridotti, ed anche il modo in cui potevano aver contribuito inconsapevolmente al dispiegarsi di questa dinamica.

B.

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Una paziente alta, forte, abile e aggressiva, si distingueva per un’instabilità che, nella sua vita lavorativa e relazionale, durava da molto tempo, ed i colleghi psichiatri ritenevano che presentasse un disturbo borderline di personalità. Dopo un po’ di tempo dall’inizio del programma di comunità, fu eletta alla carica di tesoriere nel comitato che gestisce i fondi per i progetti ricreativi per i pazienti. Un altro aspetto del ruolo del tesoriere, per ragioni che si perdono nella storia passata del programma, era l’appartenenza al gruppo pazienti-staff che è impegnato ad affrontare e gestire i problemi sociali che si vivono nella comunità dei pazienti. Poco tempo dopo essere stata eletta, questa paziente mise in discussione in modo aggressivo aspetti del proprio lavoro, in particolare nel prendere parte al gruppo sulle problematiche sociali. Dopo la discussione, i referenti principali tra i pazienti acconsentirono a rivedere la definizione delle funzioni del ruolo, ma questi sviluppi non erano abbastanza per lei. Rifiutò di essere presente a tutte le riunioni e di mettere a disposizione fondi per i progetti in corso, fino a quando le sue richieste non fossero state accolte, in questo modo mettendo una parte delle attività ricreative della comunità in una condizione temporanea di stallo.

Dopo una serie di sforzi per riaprire un dialogo con lei, messi in atto sia individualmente che nelle riunioni appropriate, la questione fu portata all’attenzione dell’Assemblea di Comunità per trovare una soluzione. Visto che un’ampia discussione e gli sforzi di riflettere onestamente con tutte le parti coinvolte non portarono a nessun miglioramento, la comunità, di fronte all’escalation di paura creata da questa paziente, votò per rimuoverla dal suo ruolo. Un nuovo tesoriere fu eletto e alla paziente fu richiesto di rendere disponibili i fondi. Fu impressionante come la paziente rimase cieca all’impatto determinato dalla sua rabbia e dalla sua denigrazione, e in seguito provò orrore e umiliazione quando la comunità votò, sostanzialmente, per proseguire senza di lei.

Durante quella cruciale riunione di comunità, i pazienti le parlarono per farle comprendere com’era stata intimidatoria e arrogante. La sua prima replica fu che stavano mentendo, che nessuno era realmente intimorito da lei e che gli operatori non la vedevano come una che intimidiva gli altri. A qual punto un’operatrice parlò, con toni cauti ma con franchezza: “Sono d’accordo con questi pazienti. Sei stata rabbiosa e hai suscitato paura ultimamente. Ieri sera, quando mi hai detto che se non ti fossi stata accanto, non potevi essere responsabile di te stessa, mi sono sentita come se fossi stata tenuta in ostaggio. Sono sorpresa che tu non ti renda conto di come metti paura agli altri. Penso che tu abbia bisogno di renderti conto che talvolta ti mostri in quel modo.” Altri pazienti e operatori riferirono le proprie percezioni recenti, ricordando alla paziente altri aspetti di lei di cui avevano fatto esperienza, al di là della rabbia. Il clima della riunione virò quindi bruscamente, passando dalla tensione del confronto a un tono più conciliatorio, in cui i pazienti iniziarono a parlare della sua solitudine e di come si fosse isolata da tutti. Più tardi, durante la pausa caffè della sera, i pazienti fecero dei movimenti di apertura nei suoi confronti. Lei mostrò di apprezzarli intrattenendosi con loro, e subito dopo iniziò a dare una mano per sistemare alcuni aspetti tecnici di una rappresentazione teatrale che la comunità stava preparando.

In seguito, nel corso del trattamento, all’interno e all’esterno del setting, questa paziente non riattualizzò le proprie difficoltà con le consuete modalità estreme. Piuttosto, questa esperienza nella comunità terapeutica assunse il carattere di un evento simbolico per lei, al quale lei fece spesso riferimento durante la psicoterapia ogniqualvolta si trovò a voler imporre i propri bisogni psicologici alla realtà esterna. La sua reazione immediata, che si mantenne nel tempo, fu l’enorme sollievo nel realizzare che non era più necessariamente quella persona irresistibilmente potente e distruttiva che temeva di essere, e giunse a comprendere questo aspetto di sé come il risultato di una dinamica di tipo “controlla o sei controllata” che aveva segnato la sua infanzia.

Per raggiungere questo livello di comprensione e accettazione, il terapeuta della paziente dovette mantenere fermamente uno stato di connessione empatica con lei, al tempo stesso preservando una connessione simbolica con la comunità. La tendenza difensiva della paziente consisteva nel scindere il terapeuta dalla comunità, e ricreare una relazione diadica più empatica e accomodante,

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rispetto alla sua relazione con la comunità intransigente. La paziente giunse a vedere queste due relazioni come rappresentative di aspetti appartenenti alla sua vita infantile, caratterizzata da esperienze nettamente scisse della madre e in seguito della coppia genitoriale. L’interpretazione che il terapeuta diede al riguardo di questa dinamica triangolare, ivi compresa la pressione a scegliere da che parte stare piuttosto che scegliere di capire, aiutò infine la paziente a vedere lo sfondo familiare da cui originavano i suoi sentimenti così intensi, ma solo dopo che la situazione concreta che riguardava il suo rapporto con la comunità era stata tenuta e superata in modo empatico.

I pazienti problematici minacciano regolarmente di agire in modo distruttivo, ma sono anche piuttosto sensibili ai limiti di chi è loro vicino. Nonostante giochino frequentemente con quei limiti al fine di alleviare la tensione affettiva e per consolidare un senso di sé, trovano anche dei modi, come fece questa paziente, per modulare i propri sentimenti e preservare così le relazioni e la propria appartenenza nella comunità. Nell’interazione tra il paziente e la comunità, gli aspetti della personalità del paziente che sono stati dis-integrati a fini difensivi, sono tenuti assieme dal processo stesso e messi in evidenza, divenendo così più consciamente disponibili per una potenziale re-integrazione. I ruoli assegnati a questa paziente nel comitato ricreativo e nel comitato che si occupa delle problematiche sociali, prevedeva una disponibilità a dare (rispettivamente denaro e attenzione) agli altri. Non solo questa donna prevaricante non poteva sopportare di adattarsi a procedure già stabilite, ma non riusciva a tollerare l’invidia che la componente di generosità del suo lavoro stimolava in lei.

Il fallimento a fronte di queste difficoltà ebbe degli effetti concreti sugli altri, immettendo nel gruppo il conflitto che la paziente stava vivendo. Sarebbero stati in grado di reggere la tensione, di tenere in considerazione le sue istanze, trovando un modo di accogliere la sua richiesta speciale, di riflettere su cosa tutto questo poteva significare per loro, e di affrontare l’aggressione senza ricorrere alla dissociazione? Queste domande mettono in piena luce il legame esistente tra l’holding e il contenimento (Ogden, 2005d). Un ruolo primario per gli staff che lavorano nel programma comunitario consiste nell’aiutare la comunità nel suo complesso a tenere questa situazione difficile e nel facilitare il processo di contenimento: il che significa aiutare il gruppo a indirizzare la sua attenzione alle questioni in sospeso, sostenendolo nel poter esplicitare sia la resistenza che il compito; aiutare a rintracciare il significato dei sentimenti personali di un qualsiasi membro; contrastare le pressioni che portano alla frammentazione del gruppo, stabilendo una “continuità di situazioni” attraverso qualsivoglia risoluzione il gruppo possa mettere in atto (Stern e al, 1986, p.30).

Lavorare su questo tipo di situazioni nel programma di comunità pre-suppone la capacità della comunità nella sua totalità di assorbire l’aggressività, mantenendo tuttavia relazioni differenziate (ad es. le alleanze informali e una varietà di punti di vista) con il paziente disturbato e disturbante. Talvolta, come in questo caso, il tutto si conclude con un gesto riparativo del paziente e una fiducia più profonda, alla luce di quanto accaduto, che la comunità è in grado di gestire i problemi che possono emergere. Come aveva compreso Winnicott (1969), non è un risultato da poco per la comunità, e non è poca gioia per il paziente, scoprire che l’oggetto dell’attacco distruttivo del/la paziente è sopravvissuto, è passato attraverso tanti temi che hanno comportato una tempesta emotiva, ed è genuinamente disponibile a ri-unirsi con lui/lei. L’esito in termini psichici per il paziente potrebbe a tutti gli effetti essere una variazione di quell’esperienza decisiva alla quale Winnicott si riferisce quando tratta la sopravvivenza dell’oggetto, ossia, che il sé onnipotentemente distruttivo, isolato in un mondo abitato da proiezioni, evolve verso un sé potenzialmente riparativo in un mondo abitato da altri.

C’è, comunque, un altro insieme di domande che è utile porsi al riguardo di questa situazione. Come è stata possibile una crisi del “funzionario responsabile delle finanze” della comunità in

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quello specifico momento? Come mai la comunità ha eletto una persona determinata a dire di “No” in ruoli che richiedono anche di dire “Si”? Come mai si creò tensione nel rapporto tra i problemi sociali e i progetti ricreativi? Questa paziente esprime altro, al di là delle proprie difficoltà personali, che può riguardare la fase attuale attraversata dalla comunità o la dinamica organizzativa?

Analizzando la questione in questi termini, la situazione della paziente non avrebbe potuto raggiugere un culmine così drammatico e rischioso se fossimo stati in grado di scoprire noi stessi in lei. Con questo intendo dire che potrebbe non essere stato una sventura che questioni riguardanti il denaro e l’invida siano emerse nelle persona di questa paziente. La visione manageriale della cura stava facendo le sue prime serie irruzioni nel trattamento psichiatrico, e un certo numero di pazienti aveva subito improvvise interruzioni dei finanziamenti. Improvvisamente si crearono differenze notevoli nella vita conscia della comunità, tra quei pazienti che usufruivano di risorse private e relativamente sicure per il pagamento del programma terapeutico, e coloro che si appoggiavano a finanziamenti provenienti da polizze assicurative, i quali divennero improvvisamente piuttosto insicuri. L’invidia era inevitabilmente presente in questi problemi riguardanti il denaro, e le attività ricreative apparvero tutto a un tratto come un lusso.

Questa situazione non solo suscitò una condizione di ansia nei pazienti, ma determinò forti differenze nello staff sul come rispondere ai momenti di crisi che si stavano succedendo sempre più frequentemente. Le dichiarazioni portate da questa paziente nello svolgere il proprio ruolo di tesoriere - come “Io ho il potere perché ho in mano il denaro” e “Se mi lasci andare, farò qualcosa di distruttivo” - condensavano al proprio interno la portata dello stress, delle fantasie e dei dilemmi clinici che i membri dello staff stavano affrontando in questo periodo specifico. Questa situazione estese pertanto il tema della sopravvivenza a un livello che comprendeva la cornice del trattamento e la mission stessa dell’istituzione. Da un punto di vista organizzativo, psicoanaliticamente orientato, avremmo potuto vedere il disturbo di questa paziente come al contempo un sintomo di, e una consulenza a, i processi di sopravvivenza dell’istituzione stessa.

6. Democrazia

Nel suo scritto sulla democrazia, Winnicott (1965b) sostiene che “una democrazia costituisce un progresso, in un dato momento, di una società che possiede alcuni confini naturali”. Continua quindi affermando che “una vera democrazia potrebbe essere definita anche in questo modo: in questa società, in un dato momento, c’è un grado di maturità sufficiente nello sviluppo emotivo di una proporzione sufficiente degli individui che la compongono, perché esista un’innata tendenza verso la creazione, la ri-creazione e il mantenimento del processo della democrazia” (p.157-158). Winnicott aggiunge poi che “l’essenza dell’apparato democratico è il voto libero… Il punto è che questo assicura la libertà delle persone di esprimere sentimenti profondi, a prescindere dai pensieri consci. Nell’esercizio del voto segreto, l’individuo si assume l’intera responsabilità per l’azione, se è sufficientemente sano da assumersela. Il voto è espressione dell’esito della lotta che l’individuo sperimenta al proprio interno”(p.157). Le questioni che appartengono al mondo esterno sono così “rese personali” (p.157), attraverso una graduale identificazione con tutte le parti tra loro in lotta, rendendola così una reale lotta interna, e risolvendola, per il meglio ma a volte anche per il peggio, in un momento che è decisivo e necessariamente depressivo.”

In contrasto con l’individuo “maturo” che è in grado di “rintracciare l’intero conflitto all’interno del sé” ed è quindi “capace di diventare depresso a causa di ciò” (p.158), Winnicott descrive in primo luogo quegli individui con una tendenza antisociale, nati in condizioni di deprivazione che ha generato in loro una spietata e aggressiva protesta contro l’autorità; quindi tratteggia l’“antisociale nascosto” (p.158), insicuro nella propria identità personale e che adotta l’autoritarismo che lo

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circonda per mantenere una condizione di pace interna. Per Winnicott, l’“intero fardello della democrazia” (p.159) ricade su quella massa critica di individui relativamente maturi. Egli individua una tendenza antidemocratica in molte istituzioni della società, e suggerisce “ai dottori dei criminali e dei folli… di essere costantemente in guardia nel caso si trovassero ad essere usati, senza rendersene conto in un primo momento, come agenti della tendenza anti-democratica” (p.160). Cosa alimenta la tendenza democratica? Winnicott fa semplicemente riferimenti alle “comuni buone dimore” (p.160), focalizzandosi esclusivamente sulle possibili interferenze esercitate dalla società sul buon senso e la naturale autorità dei genitori.

Come sono applicabili tutti questi aspetti alla vita della comunità terapeutica? Nella misura in cui la comunità terapeutica è costruita su principi democratici – come la convinzione che la voce di tutti è importante e che rintracciare la voce autentica di ognuno è terapeutico, così come il riconoscimento che la partecipazione nel prendere le decisioni che ci riguardano è sia giusto che salutare – essa conta sulla maturità collettiva di persone assediate, deprivate e insicure. Nella misura in cui la comunità terapeutica esiste all’interno di un modello medico, è vulnerabile alle tendenze nascoste di tipo antisociale e autoritario, che entrano in gioco nella localizzazione e nel controllo della malattia. Eppure, si potrebbe anche sostenere l’idea che, un programma di trattamento in comunità terapeutica che renda possibile vivere secondo principi democratici, sia intrinsecamente terapeutico, e che i suoi successi incrementino il grado di maturità collettiva dell’insieme.

Winnicott una volta disse come una battuta di spirito che un adulto è una persona con un punto di vista. Una cornice democratica di riferimento invita le persone a scoprire il proprio punto di vista, a dichiararlo pubblicamente, ad ascoltare i punti di vista degli altri e, nel fare questo, ad apprendere maggiormente, abbassando le armi o restando irremovibili. Mette i suoi membri di fronte alla necessità di affrontare i problemi della differenza, del conflitto e del compromesso, con momenti di decisione che determinano separazioni e ricongiungimenti, e con la richiesta di ri-unirsi, dopo la battaglia, per così dire, al fine di farsi carico di qualcosa di più grande del sé, ovvero la vita della comunità nella sua totalità. Questo terreno – tra l’unità e la duità (sulla strada verso le treità) – è l’equivalente politico di quel territorio evolutivo che conduce fino alla posizione depressiva, che Winnicott prese in esame per spiegare l’insorgenza dei gravi disturbi di personalità.

I pazienti che svolgono questo tipo di programma terapeutico di comunità sono messi alla prova nel luogo di cui più hanno bisogno per crescere, ovvero per giungere ad assumere autorità in un mondo di altri, piuttosto che essere semplicemente soggetti all’autorità di altri, o cercare di dominarli. Il setting aperto per una comunità terapeutica riconosce strutturalmente l’autorità distinta del gruppo dei pazienti, l’autorità di un cittadino-consumatore piuttosto che di un semi-dipendente, in alternativa al ruolo di paziente in cui l’autorità è semplicemente delegata passivamente allo staff. Richiede una partnership tra un gruppo di pazienti cui è riconosciuta autorità, e un gruppo di operatori ricettivi, allo scopo di mantenere il suo funzionamento e massimizzare i benefici del trattamento. Richiede inoltre la leadership dello staff per mantenere questa differenziazione dell’autorità, per lavorare con questa e per condurre una riflessione sulle dinamiche tra gruppi che intaccano la democrazia.

7. Crisi Culturale

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Ad una riunione di comunità, una giovane donna, coreana americana di prima generazione, sfidò la candidatura di un uomo più anziano che stava aspirando al ruolo di Presidente della Comunità, una carica della durata di otto settimane. Lo confrontò a proposito di una sua simpatia verso una nuova paziente, e sui pericoli di un coinvolgimento sentimentale durante il periodo di trattamento. Giustificò le sue insistenti domande dicendo: “Non è che non voglia che tu diventi il presidente. Il punto è che mi aspetto che tu desideri veramente questa carica, che l’ami, in modo che tu non sia poi scoraggiato da qualsiasi cosa io o altri potremmo dirti”. Il membro dello staff consulente6 in questa grande riunione si trovò, nel corso della discussione, a commentare un tema che si collegava alla questione delle differenze culturali. Il candidato stava argomentando quella che poteva essere recepita come una posizione tipicamente Americana. In ballo c’era il bisogno di leadership vissuto dalla comunità, ma anche la personale “ricerca della felicità” di quest’uomo con questa nuova paziente. Egli sottolineò il buon lavoro che avrebbe potuto fare per la comunità, ma anche quanto questo lavoro si sarebbe rivelato d’aiuto per la sua terapia. La sua sfidante stava parlando con passione opponendosi a questo sé diviso, partendo da una posizione in cui il ruolo e la persona potevano essere concepite come un’unica entità, dove può succedere di doversi dedicare al ruolo in modo completo, a tal punto che diverrebbe irrilevante e anche motivo di distrazione e banalizzazione, il fatto di preoccuparsi della terapia di una persona specifica, in quanto in qualsiasi modo separato da questo impegno verso la comunità. Da questa posizione più “orientale”, e quindi meno individualistica, il fatto di “amare la carica” significava non preoccuparsi per nulla di qualsivoglia capriccio riguardante un desiderio personale, in quanto distinto da quello della comunità.

Il tema risuonava profondamente nella storia della paziente. La sua vita prese forma come conseguenza di eventi che precedettero la sua nascita. Suo padre aveva rispedito il suo primo figlio al suo villaggio di origine, perché lui e la moglie non erano in grado di occuparsi di un bambino mentre stavano completando i propri studi in legge in città. In seguito, durante la prima infanzia della paziente, la rabbia e il senso di colpa di sua madre per aver accondisceso a questa separazione, portarono il padre a rinunciare al proprio ruolo con la seconda figlia, e a lasciarla a una madre divenuta intensamente possessiva. La lotta adolescenziale della paziente per separarsi poté essere vista dalla madre solo come un tradimento pieno di cattiveria da parte della figlia, o come un’infiltrazione maligna della cultura americana determinata a sottrarle la seconda figlia. Per queste ragioni, di pari passo con la sua feroce battaglia per l’autonomia, che per altro induceva in lei un profondo senso di colpa, la paziente provò anche un enorme desiderio e paura di arrendersi al tempo stesso. La posizione di Presidente della Comunità alla fine esercitò un’importante funzione di compromesso per lei. Durante la successiva sessione, con sorpresa di tutti, questa donna piuttosto giovane dichiarò fermamente la propria candidatura, e assunse la carica e l’autorità con un grado di spontaneità maggiore di chiunque l’avesse ricoperta recentemente. Senza ambivalenza si consegnò non a un’altra persona, bensì all’espressione migliore del sistema americano, e grazie a quello che apprese sull’autorità scoprì un modo di fare chiarezza a proposito della propria vita nella sua famiglia.

Come in un microcosmico studio contenuto nel lavoro di Eikson “Life History an the Historical Moment” (1975), fece attraversare alla comunità un periodo affascinante. A causa delle dimissioni di un certo numero di pazienti più esperti, la leadership dei nuovi pazienti stava faticando a svilupparsi, alcune cariche per i pazienti erano vacanti, e alcune funzioni, che i pazienti avevano svolto abilmente, aspettavano di essere assegnate. Gli operatori divennero ansiosi, essendo condizionati inconsciamente dal desiderio di riaffermare la loro passata cultura di trattamento a 6 I membri dello staff rivestono un ruolo di consulenza ai pazienti quando questi sono impegnati nell’esercitare funzioni che implicano assunzione ed esercizio dell’autorità, come - ad esempio - condurre una riunione, gestire un gruppo specifico, ricoprire le diverse cariche previste dall’organizzazione comunitaria.

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lungo termine, con minore turnover di pazienti. Iniziarono, anche in questo caso inconsciamente, a dirigere i pazienti come se fossero degli impiegati. Questa paziente, nel ruolo di Presidente della Comunità, avvertì vivamente che questa possessività poggiava su di una cultura potenzialmente superata, e vi pose termine con ammirabile chiarezza distinguendo l’autorità del paziente da quella dello staff. Tradotto nei termini utilizzati da Bion (1961), questa donna introdusse in comunità una potente “valenza” inconscia appartenente alla sua dinamica familiare, che divenne una risorsa disponibile a fronte di un processo inconscio che vedeva coinvolti pazienti e operatori, e che minava la democrazia. Forse rappresentando il Terzo (Muller, 1996), che è un derivato della funzione paterna, i membri dello staff consulenti sostennero fermamente lo sforzo di mantenere la distinzione tra l’autorità del paziente e quella dell’operatore.

Invece di accondiscendere al bisogno degli staff smarrendo così l’autorità dei pazienti nel processo, la Presidente si rivolse al suo elettorato. Si rese conto che avevano tralasciato, volenti o nolenti, queste funzioni della comunità che rischiavano di perdersi, ed ebbe la forza di non opporsi a questa tendenza, piuttosto che persuadere o costringere le persone a mantenerle in essere per amore della tradizione. Portò la comunità ad affrontare il rischio che molte pratiche comunitarie tradizionali potessero non sopravvivere, allo scopo di scoprire, al proprio interno, cosa la comunità potesse effettivamente desiderare per sopravvivere. In un certo senso, condusse un processo che Winnicott (1945) un tempo definì “realizzazione”, ovvero, il processo evolutivo attraverso il quale le illusioni necessarie – in questo caso, l’illusione dei pazienti che la comunità sia solo uno spazio di gioco, e l’illusione degli staff che la comunità realizzi i loro sogni – lasciano spazio ad un apprezzamento della realtà esterna.

Presto la comunità dei pazienti avvertì il valore di queste funzioni comunitarie e le ripristinò con modalità più vitali. Anche i membri dello staff, con considerevole gratitudine, riscoprirono gli opportuni ruoli di partner dei pazienti in sostegno alla loro impresa terapeutica. Questo fu un vero rinnovamento culturale. Nel portarlo avanti, questa paziente sembrò aver rielaborato a proprio vantaggio importanti questioni familiari, mentre stava anche aiutando la comunità. Per esempio, la tendenza suicidaria nella vita di questa paziente, come giunse a realizzare nel corso della psicoterapia, esprimeva – tra le altre cose - un’estrema protesta indirizzata alla propria autorità personale, uno sforzo di uccidere un adattamento secondo un falso-sé (Winnicott, 1960), per scoprire cosa poteva sopravvivere in quanto suo autentico desiderio. Insistette, quasi a costo della propria vita, per poter essere realmente lasciata andare dalla madre (e per poter essa stessa lasciare andare la madre), così che potesse finalmente svilupparsi dall’interno un legame sentito e scelto con la sua cultura e con sua madre. In questo caso possiamo vedere come le crisi personali incontrano le crisi della comunità, e come una persona particolare può essere inconsciamente chiamata a un ruolo e a perseguire un obiettivo cruciale: ovvero, reindirizzare lo slittamento di tutta la comunità verso un adattamento secondo un falso sé, attraverso la riscoperta di quello che, semmai, poteva essere attivamente recuperato in quanto autenticamente apprezzabile all’interno della tradizione predominante.

8. Benessere psichico e vicinanza.

In analogia con la nozione di Winnicott (1965b) della “comune buona dimora”, la comunità terapeutica è stata definita come “una struttura di appartenenza al cui interno può esserci la possibilità per l’individuo di trovare la propria strada” (Cooper, 1991).

Un paziente psicotico, che era stato trasferito in un reparto ospedaliero chiuso durante un’acuta regressione, stava parlando alla Riunione di Comunità al riguardo della sua possibile riammissione, e rispose alla domanda di un paziente, che gli chiedeva cosa sperasse di ottenere tornando, dicendo:

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“benessere psichico e vicinanza”. Data la qualità della discussione che il gruppo ebbe con lui, apparve chiaro quello che egli intendeva. In effetti una paziente parlò delle sue passeggiate con lui, e di come si rendesse conto, durante le loro conversazioni, che quando lei lo capiva, egli diventava ansioso. “Può mettere paura avvicinarsi alle persone” - disse la paziente - e lui mostrò di essere d’accordo. In questo scambio si condensano benessere psichico e vicinanza. Il fatto che si siano manifestati così spontaneamente, determinando un coinvolgimento emotivo, in questa interazione tra pazienti, rende bene l’idea di un aspetto specifico della trama che costituisce la “comune buona” comunità.

Il concetto di Winnicott di “spazio potenziale” (1971e; Fromm, 2009) è rilevante per questo tipo di lavoro. La “comune buona” interpretazione - come la si potrebbe definire - nella Riunione di Comunità, al riguardo della probabile ansia del paziente rispetto alla vicinanza, fu fatta da un’altra paziente. I nuovi pazienti, i nuovi staff e i colleghi in visita, durante la Riunione di Comunità finiscono col chiedersi regolarmente: “era uno staff o un operatore che ha detto questa cosa?”. Si tratta di un momento potentemente e vantaggiosamente decentrante, nel corso del quale i pazienti assumono ed esercitano, nella loro partecipazione quotidiana, le qualità che altri riconoscono di consueto negli operatori. Possono talvolta giungere ad apprezzare, con un misto di sentimenti di eccitazione e umiliazione, che la condizione di paziente è un ruolo, non un aspetto intrinseco di una persona - una realizzazione fondamentale per il processo di assunzione di autorità.

Per contro, essendo parte del programma comunitario, i membri dello staff tentano con coraggio di rendere liberamente accessibili all’interpretazione i propri enactments7 inconsci che riguardano l’istituzione. Anche loro sono parte della comunità, in questo senso profondo. Prendono parte al reciproco scambio conscio che fa parte del processo democratico della comunità, aiutando i pazienti a raggiungere quel tipo di competenze nel vivere, alle quali Winnicott aveva attribuito così tanto valore. Al tempo stesso essi si concedono a una “democrazia interpretativa” nella quale ognuno – paziente o operatore – può facilitare lo sviluppo contribuendo allo svelamento dei significati. Essi quindi cercano di liberarsi da interpretazioni del proprio ruolo rigide e “occultamente antisociali”, e riconoscono in vivo l’”uguaglianza psicologica” (Kennard, 1998, p.27) di tutti gli esseri umani, facendo sentire il proprio peso in quella massa critica di maturità necessaria a mantenere in vita un processo terapeutico autenticamente democratico.

Un ambiente di holding al tempo stesso arricchisce il processo evolutivo e tiene i suoi vari elementi per una loro eventuale integrazione. “Il funzionamento dei fattori del setting” (Winnicott, 1954, p.293) può essere considerato uno sforzo per comprendere le dinamiche sistemiche dell’ambiente di holding. Winnicott spiegò che un setting affidabile facilita la regressione del paziente ai fallimenti dell’ambiente nell’infanzia, il che va considerato fondamentale per poter attribuire significato all’esperienza del paziente. Gli elementi raccolti in questo scritto suggeriscono che, nel riconoscere l’importanza di questo processo, sia possibile andare anche oltre la comprensione degli enactments all’interno della diade psicoterapeutica, e includere una comprensione della dinamica organizzativa particolare nella quale un dato paziente si è psicologicamente coinvolto. Questo è un altro aspetto di quella pratica essenziale che “prende in esame la vita”, che è parte integrante di ogni comunità terapeutica di successo.

7 N.d.T. - Definizione di Enactment: Comportamenti interattivi in cui il terapeuta e/o l'équipe terapeutica si accorgono a posteriori di avere vissuto nel rapporto con il paziente delle dinamiche inconsce. È possibile cogliere in questo complesso fenomeno uno sforzo inconscio del paziente non solo a comunicare qualcosa che forse non poteva essere detto in altro modo, ma anche una tendenza a cercare nell’interazione con l’analista esperienze “correttive” finalizzate al cambiamento. In altri termini l'enactment può definirsi anche come messa in gioco di ruoli interattivi che danno vita a configurazioni relazionali ricorrenti, guidata dai livelli procedurali impliciti.

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Terapia di ComunitàRivista bimestrale di psicologiawww.terapiadicomunita.org

M. Gerard Fromm, ricercatore (Ph.D), è Consulente Esperto dell’Erikson Institute for Education and Research dell’Austen Riggs Center. Precedentemente è stato direttore dello stesso Istituto ed anche Direttore del Programma Terapeutico di Comunità del Centro.Psicoanalista certificato dall’American Board of Professional Psychology (ABPP), fa parte della facoltà dell’Istituto di Psicoanalisi del Massachusetts ed è stato docente in più istituti psicoanalitici negli Stati Uniti, tra i quali l’Istituto Psicoanalitico del Berkshire, quello di Emory e quello della California del Nord. È anche un Professore Associato di Clinica al Centro di Studi sull’Infanzia di Yale.Il Dott. Fromm è attualmente il Presidente della Società Internazionale per gli Studi Psicoanalitici delle Organizzazioni (ISPSO). Presidente in passato del Centro per gli Studi sui Gruppi e i Sistemi Sociali di Boston (CSGSS), ha diretto per tre anni le Conference di Group Relations residenziali del Centro ed è stato membro dello staff delle Conferenze di Group Relations in Stati Uniti, Europa e Israele. È inoltre membro dell’Accademia per l’Analisi degli Eventi Accidentali Critici (ACIA)e dell’International Dialogue Initiative (IDI). Il Dr. Fromm ha relazionato in differenti contesti e ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali, in collaborazione con Bruce L. Smith, Ph.D,, L’ambiente che facilita: Appicazioni Cliniche della Teoria di Winnicott; Lost in Transmission: Studi sul Trauma Attraverso le Generazioni; Pubblicati recentemente, Assumersi il Transfert, Raggiungere i Sogni: Studi Clinici nell’Area Intermedia, e Uno Spirito Impellente: Gioco, Creatività e Psicoanalisi. Fa parte del Consiglio Editoriale di Psychoanalytic Psychology ed è stato Ricercatore Ospite del Dipartimento di Psicoterapia dell’University College di Londra.N.d.T.: Le traduzioni dei titoli dall’inglese, non corrispondono necessariamente alla pubblicazione dei volumi in italiano.

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