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1 LA COMPOSIZIONE DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA Cosa vuol dire “comporre” una immagine fotografica? Di primo acchito, ci viene in mente qualcosa di artificioso, una forzatura della realtà quando assai spesso la realtà non è né modificabile né forzabile. Potremmo pensare quindi che “comporre” sia un concetto che si adatti solo a fotografie di un certo tipo, come per es. la natura morta o il ritratto, e che sia assolutamente fuori luogo parlarne quando invece si fotografa un paesaggio, un avvenimento sportivo, la colonna Traiana. Ciò non è vero: in realtà “comporre” significa dare alla fotografia che ci apprestiamo a scattare i connotati più adatti a trasferire successivamente all’osservatore (io stesso o più probabilmente altri) il messaggio che intendiamo comunicare con quella immagine. E qui ci troviamo di fronte a una prima considerazione fondamentale: la fotografia è comunicazione e perché funzioni al meglio devo avere ben chiaro in testa cosa voglio comunicare, cosa voglio dire con il mio scatto. Avere qualcosa da dire. E’ sempre necessario? Ovviamente sì, ma in realtà noi abbiamo sempre qualcosa da dire nel momento in cui scattiamo una fotografia, sia che riprendiamo piazza S. Marco (volevamo fissare l’enormità dello spazio? la bellezza degli ori?) sia che riprendiamo il 5° compleanno di nostro figlio (volevamo rievocare l’emozione del momento? immortalare i nonni felici?) oppure la gente alla fiera di S. Antonio (volevamo esemplificare la confusione? la concitazione del comprare? I colori dello zucchero filato?) e così via. Il fatto è che spesso, a posteriori, riguardando alcune fotografie che abbiamo scattato, ci domandiamo (se abbiamo un po’ di senso critico) “Perché l’ho fatta?”, mentre i parenti/amici a cui stiamo infliggendo la visione dei nostri ultimi scatti si trincerano dietro banali considerazioni annoiate. Questo accade perché un soggetto che sembrava interessante e pieno di significati dal vivo risulta poi del tutto insignificante una volta rivisitato sotto forma di stampa fotografica o di proiezione o di immagine su un monitor. La ragione è semplice: il cervello umano e l’obiettivo fotografico vedono la realtà in modo del tutto diverso. In poche parole, è necessario che il fotografo impari a “vedere fotograficamente” il soggetto, secondo la felice espressione di Andreas Feininger. La “visione fotografica” “Se un fotografo vuole superare con successo la frattura esistente tra la visione naturale e quella fotografica, deve imparare a vedere così come “vede” la sua fotocamera” (A.F.). A questo proposito, facciamo alcune considerazioni. Il cervello vede in tre dimensioni, mentre la stampa fotografica è bidimensionale, così come la pellicola o il sensore digitale. Ed anche la visione su monitor, per quanto ci dia una sensazione di maggiore tridimensionalità/profondità è pur sempre bidimensionale. Questa banale osservazione ha alcune conseguenze non proprio banali che esamineremo dopo, qui basti dire che, proprio per questo, i pittori si sono dovuti inventare la prospettiva. L’obiettivo riprende impietosamente tutto quello cade nel suo campo, mentre il cervello umano assai spesso rimuove alcuni particolari (per es. i fili elettrici aerei che non avevamo “visto” nell’inquadratura o il cartello stradale che incombe sulla testa dello zio Michele). La fotocamera “inquadra” la realtà in un formato, rettangolare o quadrato, di ben definite dimensioni, cosa che non accade all’occhio umano: ciò in qualche modo concentra l’attenzione solo su una parte della realtà. Il risultato (negativo) è che possiamo correre il rischio di perdere parti importanti del contesto, mentre d’altra parte (e questo è positivo)

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LA COMPOSIZIONE DELL’IMMAGINE FOTOGRAFICA Cosa vuol dire “comporre” una immagine fotografica? Di primo acchito, ci viene in mente qualcosa di artificioso, una forzatura della realtà quando assai spesso la realtà non è né modificabile né forzabile. Potremmo pensare quindi che “comporre” sia un concetto che si adatti solo a fotografie di un certo tipo, come per es. la natura morta o il ritratto, e che sia assolutamente fuori luogo parlarne quando invece si fotografa un paesaggio, un avvenimento sportivo, la colonna Traiana. Ciò non è vero: in realtà “comporre” significa dare alla fotografia che ci apprestiamo a scattare i connotati più adatti a trasferire successivamente all’osservatore (io stesso o più probabilmente altri) il messaggio che intendiamo comunicare con quella immagine. E qui ci troviamo di fronte a una prima considerazione fondamentale: la fotografia è comunicazione e perché funzioni al meglio devo avere ben chiaro in testa cosa voglio comunicare, cosa voglio dire con il mio scatto. Avere qualcosa da dire. E’ sempre necessario? Ovviamente sì, ma in realtà noi abbiamo sempre qualcosa da dire nel momento in cui scattiamo una fotografia, sia che riprendiamo piazza S. Marco (volevamo fissare l’enormità dello spazio? la bellezza degli ori?) sia che riprendiamo il 5° compleanno di nostro figlio (volevamo rievocare l’emozione del momento? immortalare i nonni felici?) oppure la gente alla fiera di S. Antonio (volevamo esemplificare la confusione? la concitazione del comprare? I colori dello zucchero filato?) e così via. Il fatto è che spesso, a posteriori, riguardando alcune fotografie che abbiamo scattato, ci domandiamo (se abbiamo un po’ di senso critico) “Perché l’ho fatta?”, mentre i parenti/amici a cui stiamo infliggendo la visione dei nostri ultimi scatti si trincerano dietro banali considerazioni annoiate. Questo accade perché un soggetto che sembrava interessante e pieno di significati dal vivo risulta poi del tutto insignificante una volta rivisitato sotto forma di stampa fotografica o di proiezione o di immagine su un monitor. La ragione è semplice: il cervello umano e l’obiettivo fotografico vedono la realtà in modo del tutto diverso. In poche parole, è necessario che il fotografo impari a “vedere fotograficamente” il soggetto, secondo la felice espressione di Andreas Feininger. La “visione fotografica” “Se un fotografo vuole superare con successo la frattura esistente tra la visione naturale e quella fotografica, deve imparare a vedere così come “vede” la sua fotocamera” (A.F.). A questo proposito, facciamo alcune considerazioni. Il cervello vede in tre dimensioni, mentre la stampa fotografica è bidimensionale, così come la pellicola o il sensore digitale. Ed anche la visione su monitor, per quanto ci dia una sensazione di maggiore tridimensionalità/profondità è pur sempre bidimensionale. Questa banale osservazione ha alcune conseguenze non proprio banali che esamineremo dopo, qui basti dire che, proprio per questo, i pittori si sono dovuti inventare la prospettiva. L’obiettivo riprende impietosamente tutto quello cade nel suo campo, mentre il cervello umano assai spesso rimuove alcuni particolari (per es. i fili elettrici aerei che non avevamo “visto” nell’inquadratura o il cartello stradale che incombe sulla testa dello zio Michele). La fotocamera “inquadra” la realtà in un formato, rettangolare o quadrato, di ben definite dimensioni, cosa che non accade all’occhio umano: ciò in qualche modo concentra l’attenzione solo su una parte della realtà. Il risultato (negativo) è che possiamo correre il rischio di perdere parti importanti del contesto, mentre d’altra parte (e questo è positivo)

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il soggetto emerge più forte e senza “rumori” di fondo che distolgano l’attenzione dell’osservatore. Di tutte queste considerazioni dobbiamo tenere buon conto nel momento in cui “qui ed ora” decidiamo di scattare una fotografia. Il soggetto e il contesto Immaginiamo di aver inquadrato mentalmente quella parte di realtà che, a nostro avviso, contiene elementi (emotivi, culturali, estetici, ecc…) degni di essere trasmessi ad un osservatore. Immaginiamo, cioè, di “avere qualcosa da dire” e di volerlo esprimere attraverso un certo contesto. A questo punto sarà necessario individuare in questo contesto l’elemento forte, ossia il “soggetto”, che sia in grado di comunicare con chiarezza espressiva il messaggio. L’approccio del fotografo al soggetto è, qui, fondamentale. Approcciare il soggetto vuol dire entrare in sintonia con esso in termini emotivi, culturali, estetici, (già, sono gli elementi visti prima), vuol dire cercare di capire a fondo ciò che esso esprime, in rapporto a ciò che noi vogliamo esprimere. Per fare un esempio, se decidiamo che sarebbe “interessante” fotografare la processione di S.Anna a Roccacannucciasuperiore con esposizione di sacre figure portate a spalla, sarebbe opportuno, prima dell’evento, assistere ai preparativi (e naturalmente fotografarli), parlare con qualche portatore, cercare le inquadrature migliori lungo il percorso, vivere le ragioni culturali dell’evento, in funzione di quello che noi vogliamo rappresentare: la fatica? l’estasi religiosa? Il radicamento culturale/religioso nei piccoli borghi? ecc…. Se è possibile, concediamoci del tempo prima di sparare la prima fotografia, sia che stiamo guardando un tramonto, un mercatino o il Colosseo. Immaginiamo ora di avere individuato il soggetto. Esso sarà in relazione con il contesto circostante, cioè con una pletora di oggetti, forme, colori, luci che lo circondano, sarà in relazione, cioè, con uno sfondo. (Con “sfondo” intendiamo tutto ciò che fa da cornice al soggetto, non necessariamente, perciò, solo ciò che sta “dietro”.) A questo punto è necessario fare una piccola digressione sulla percezione: il nostro cervello non è in grado di percepire contemporaneamente nella sua interezza tutta una immagine, e questo è tanto più vero quanto più complessa è l’immagine. Osservando "La ronda di notte" di Rembrandt, opera di grandi dimensioni (4,3mx3,6m) noi percepiamo gradatamente la situazione e i personaggi: la luce e i diversi piani ci aiutano a percorrere con un movimento circolare tutto il quadro fino a registrarne i particolari. Ecco: la luce e i piani.

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Noti test psicofisici ci indicano che il nostro sguardo passa continuamente da un particolare all’altro dell’immagine alla ricerca di un punto d’ancoraggio, un focus che in qualche modo dia ordine a tutto l’insieme. Il disequilibrio ci angoscia, la mancanza di una gerarchia (questo è più importante di quello) ci disorienta, se l’immagine che stiamo osservando non ha almeno un punto cospicuo non ne arriviamo a capire il significato e spesso passiamo oltre con un senso di fastidio (in mare, il punto cospicuo è un elemento della costa svettante a cui fare riferimento per tracciare la rotta). Tutto questo ci dice che, al fine di rendere efficace la lettura della fotografia, e cioè al fine di trasmettere per intero e senza distorsioni il messaggio in essa contenuto, il rapporto tra il soggetto e il suo contesto (lo sfondo) è cruciale. “Impastare” il soggetto nello sfondo, e cioè annegarlo in particolari che distolgono da esso la nostra attenzione è uno degli errori più comuni. A volte, addirittura, un particolare dello sfondo attira di più l’attenzione del soggetto, sostituendosi ad esso e modificando perciò in maniera definitiva il significato della foto. I due esempi che seguono illustrano assai bene quanto detto: il medesimo soggetto è stato ripreso con due aperture di diaframma diverse ottenendo due ben diverse evidenze del soggetto.

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Come possiamo allora rendere meno ingombrante lo sfondo, in poche parole, come possiamo “addomesticarlo”? Da quanto detto sopra sulla percezione: le linee semplici, una inquadratura essenziale che elimini particolari inutili o fuorvianti, un giusto dosaggio delle luci al fine di dare più evidenza al soggetto rispetto allo sfondo, l’uso di una focale o apertura adeguata con la quale per es. sfocare volutamente lo sfondo sono tutte scelte che favoriscono la lettura della nostra fotografia.

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Abituiamoci pertanto a considerare con occhio critico il contesto, cerchiamo di “vederlo fotograficamente”; se possibile, spostiamoci di un metro (a volte basta meno) se l’inquadratura è troppo piena, aspettiamo una luce più favorevole o spostiamo il soggetto se la luce non ci convince, usiamo appropriatamente lo zoom o cambiamo obiettivo per aggiungere/togliere o dare maggiore o minore importanza a certi particolari. Anche la scelta dell’uso del colore o del b/n è un elemento assai importante di composizione. Ci sono messaggi che vengono veicolati meglio con il colore, altri che sembrano nati per il b/n. Senza voler entrare nel merito della questione, che meriterebbe molto spazio, possiamo limitarci ad accennare che il b/n “valorizza” in genere le linee, le forme, le luci, i contrasti, dà maggior drammaticità al contesto, induce nell’osservatore una visione più intimista e metafisica, laddove il colore privilegia il “reale”, il fisico, la totalità dell’immagine, il clamore. Il tutto, naturalmente, con le dovute eccezioni. E’ certo però che il colore o il b/n hanno comunque un significato nella nostra composizione, di questo bisogna tener conto per evitare di aggiungere elementi inutili (o togliere elementi preziosi) al nostro messaggio. La disposizione degli spazi Come abbiamo detto sopra, le informazioni contenute in una fotografia sono “inquadrate” in uno spazio ben definito, tradizionalmente rettangolare o quadrato, retaggio del formato delle pellicole. Scegliere il formato rettangolare (24x36 mm era il formato "Leica") o quadrato (60x60 mm era il "medio formato" immortalato dalla Hasselblad) del fotogramma è di per sé il primo passo della composizione. In genere, siamo portati ad attribuire maggior dinamicità (attenzione! questo è un codice percettivo, cioè una abitudine che il nostro cervello ha appreso) al formato rettangolare, specie se posto in verticale, mentre attribuiamo una maggior staticità al formato quadrato, forse perché più bilanciato, equilibrato, inscrivibile in un cerchio.

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Oggi, la maggior parte delle fotocamere digitali utilizza un formato del fotogramma “tipo” 24x36 mm, e di questo ora ci occuperemo. I sensori, cioè, piccoli o grandi che siano, forniscono un file "rettangolare" che imita il formato 24x36mm. Le cosiddette reflex "full frame" hanno addirittura un sensore che misura fisicamente 24x36mm. Questo formato ha una caratteristica curiosa: il rapporto tra i suoi lati è di 1,5 e si avvicina in maniera sorprendente al rapporto della sezione aurea di un segmento, che è di 1,618… Volendo semplificare, potremmo dire che le misure di questo fotogramma sono, grosso modo, quelle del rettangolo aureo (cioè il rettangolo i cui lati stanno tra loro in proporzione aurea). E’ una cosa importante? Sì, perché da millenni siamo abituati a considerare certi rapporti dimensionali come privilegiati, portatori di un ordine e di una armonia quasi divina, tant’è vero che la sezione aurea veniva in passato chiamata anche la “divina proportione”. Il rapporto base/altezza della piramide di Cheope è vicino alla sezione aurea, la pianta del Partenone è un rettangolo aureo, il rapporto tra le aree dei due cerchi di Stonehenge è di 1,6, in molte opere di insigni pittori e architetti del Rinascimento (e moderni) troviamo proporzione auree, ecc….

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Se si considerano i lati del rettangolo aureo come segmenti e si tracciano le perpendicolari passanti per i loro “punti aurei” si ottengono 4 linee (2 orizzontali e 2 verticali) che formano una griglia di 9 rettangoli e 4 punti di incrocio. (Grosso modo, lo stesso risultato lo otteniamo se pensiamo idealmente di dividere semplicemente i lati del rettangolo IN TERZI ). Ebbene, i nostri antenati artisti constatarono che le figure (o gli oggetti) posizionate lungo queste linee (dette linee di forza) o, meglio, posizionate nei punti di intersezione (punti di forza), assumevano una particolare rilevanza espressiva nella composizione dell’opera. Le linee di forza e i punti di forza, chiamati anche incroci dei terzi, sono decentrati rispetto al centro del rettangolo. Una composizione basata su questa “regola dei terzi” appare mossa e dinamica, giustamente asimmetrica, con il soggetto ed eventuali altri elementi importanti nel giusto rilievo. Seguono alcuni esempi.

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Viceversa, un soggetto posto in posizione "mediana", come nell'esempio qui sotto, dà una sensazione di maggiore staticità.

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Ma torniamo a un concetto precedentemente appena accennato, e cioè l’influenza della cultura e dei codici “appresi” sulle modalità di osservazione. Quanto diremo qui di seguito, e per sommi capi, non rappresenta (come del resto l’incrocio dei terzi appena esaminato) una raccolta di “regole” o peggio leggi sulla “corretta composizione”: in realtà, vuole essere un argomento di riflessione, se mai, sulla “comunicazione efficace”. Anzi, se regole le vogliamo considerare, possiamo anche dire che spesso proprio la rottura di queste regole genera capolavori (fotografici e non). Cominciamo col dire che, abituati come siamo a scrivere da sinistra a destra, siamo portati a scandire le immagini con questo stesso criterio. Per ragioni evidenti di peso visivo e di codificazione della prospettiva, siamo portati inoltre ad osservare prima ciò che sta in primo piano , che in genere in termini volumetrici ha più peso, e ci facciamo guidare dalle linee di fuga verso il punto di fuga della composizione (se c’è un punto di fuga, evidentemente). Alcune figure geometriche, in primo luogo il triangolo e il cerchio, inducono in noi percezioni ben codificate. Il triangolo, base in basso, viene percepito come elemento di stabilità, sicurezza, solidità. Se invece ha il vertice in basso, cioè ci si presenta come una V , ecco che introduce un certo senso di instabilità. Il cerchio, o comunque una composizione che abbia un centro di simmetria nel punto centrale della foto, genera sentimenti di stabilità, euritmia, tranquillità, ordine. La diagonale, a scendere o a salire, ci induce un senso di dinamicità, di evoluzione della situazione, di proiezione anche al di fuori dello spazio della fotografia. Quanto alla (nostra) cultura, la diagonale a “salire” va verso il cielo, e perciò genera per lo più attese positive, mentre la diagonale a “scendere” ci riporta sulla terra, in basso, è una specie di chiusura. Il concetto di "salire" o "scendere" è un codice acquisito del nostro mondo occidentale solo perchè noi leggiamo da sinistra a destra. Come si vede, tutto è relativo.

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La stessa foto con una evidente diagonale, se capovolta, dà due differenti sensazioni. Spesso le diagonali sono più di una.....

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Una linea orizzontale che divida a metà il fotogramma, non contribuendo a definire quale delle due parti (la superiore o l’inferiore) è più importante, genera ambiguità nella lettura dell’immagine. L’esempio classico è quello dei riflessi, quando la linea di separazione tra immagine reale e immagine riflessa attraversa a metà il fotogramma.

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Naturalmente altro effetto ha la linea orizzontale se taglia in maniera asimmetrica l'immagine, dipende sempre da quello "che si vuole dire".

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Si è detto che la stampa fotografica (come i quadri e gli affreschi) è bidimensionale mentre la realtà è tridimensionale e che quindi è stato giocoforza “inventarsi” un modo di rappresentare un surrogato di tridimensionalità: la prospettiva. La prospettiva è un altro “codice appreso” che mette in moto la parte destra del nostro cervello (quella delle forme, della immaginazione e della creatività), nell’intento di riprodurre in piano, attraverso linee oblique (linee di fuga) convergenti in un punto (punto di fuga), l’illusione della tridimensionalità. Giocare con la prospettiva in una foto significa utilizzare linee convergenti esistenti nel contesto per guidare l’osservatore verso quella parte della fotografia che meglio trasmette il nostro messaggio, e cioè il soggetto.

Ma ci sono altri modi per guidare l’osservatore nella visione della foto: per esempio, incorniciare il soggetto in una “quinta” simile a quella dei teatri. La quinta , per dare importanza al soggetto e spesso per conferire alla foto una maggiore profondità, è rappresentata da un arco, una fronda, una roccia, un oggetto in genere, in primo piano, che serva da cornice al soggetto stesso.

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Ma attenzione a non esagerare... vedi effetto cartolina

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Un discorso a parte nella percezione sensoriale e quindi nella comunicazione meriterebbero i colori. La materia è estremamente vasta e per un maggiore approfondimento rimandiamo ai numerosi testi specialistici che si occupano della materia. Ci limiteremo qui ad alcune considerazioni sommarie. Superiamo subito la banale constatazione che una composizione basata su colori saturi, brillanti genera in noi sentimenti forti, di clamore, di dinamicità se non a volte di disequilibrio mentre una composizione basata su colori tenui, in nuances omogenee genera in noi sentimenti di pace, di equilibrio, di tranquillità.

La decisione quindi di utilizzare colori forti (in genere sottoesponendo e/o operando in piena luce solare) o tenui (in genere sovresponendo ed operando in luce più morbida) è già di per sé “composizione”.

Va detto inoltre che un colore ci appare più o meno “forte”, e cioè lo percepiamo con più immediatezza, a seconda del contesto che lo circonda: un particolare, anche piccolo, di un colore intenso in un contesto di colori tenui ci “apparirà” immediatamente attirando subito la nostra attenzione; se ciò è voluto, bene, se ciò viceversa non è voluto, può

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darsi che quel particolare tolga visibilità al soggetto, falsando il messaggio della nostra fotografia, quindi: attenzione ai contrasti.

Così come ci sono colori che sembrano allontanare o avvicinare il soggetto. Per esempio, tendiamo a considerare gli oggetti rossi “più vicini”, mentre gli oggetti verdi (colore complementare del rosso) ci sembrano “più lontani”. In genere, i colori caldi (rosso, arancio) “avvicinano” il soggetto, mentre i colori freddi (verde, blu) lo “allontanano”. Le virgolette sono d’obbligo, in quanto queste considerazioni, per forza generiche, vanno prese con le dovute cautele: abbiamo infatti detto più sopra che un colore va visto nel contesto degli altri colori che lo circondano, dai quali è influenzato e che esso a sua volta influenza. In fine. Abbiamo già accennato che l’uso di una focale piuttosto che di un’altra è già di per sé composizione. Vorremmo qui accennare ad un problema che ci si presenta quando usiamo una focale corta (grandangolo). Mentre non abbiamo nessuna remora a considerare “naturale” il fatto che in orizzontale ci siano delle linee convergenti verso lo sfondo, ci sembra innaturale che ciò accada anche in verticale, e cioè ci meravigliamo che ci siano, per esempio nella nostra foto del grattacielo Pirelli, delle linee che convergono verso il cielo e che ce lo fanno percepire come inclinato, pendente. Questo accade perché l’obiettivo ci ripropone semplicemente quello che vede, e cioè che il fenomeno della convergenza c’è in tutte e due le direzioni. Queste linee, dette “linee cadenti”, sono inevitabili con i grandangolo normali (ci sono obiettivi speciali assai costosi che le eliminano). Impariamo perciò a vedere fotograficamente il risultato della nostra foto: utilizziamo le linee cadenti se portano una parte del messaggio o cerchiamo di eliminarle cambiando inquadratura o focale : per esempio, potrei allontanarmi dal soggetto e usare un tele, oppure alzare il punto di ripresa rispetto al soggetto (salire su un muretto, uno sgabello,ecc…).

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Quando abbiamo fatto tutte le nostre elucubrazioni sulle linee di forza, i terzi, la luce, la focale ecc…. (nel frattempo lo scoiattolo se n’è andato, ma questo è un altro caso…….), diamo un’ultima occhiata al tutto onde evitare: orizzonte inclinato piedi tagliati persone dimezzate fili, pali, cartelli indesiderati ecc….. a meno che io coscientemente non decida di introdurli nella fotografia. Così come coscientemente potrei decidere di infrangere tutte le “regole” sin qui viste se il mio messaggio lo impone. Le fotografie sono di: De Lisi Gnecco Cartier-Bresson Hukkanen Alves Fallini Coletta Rodchenko Libsohn Sherman Adams Loranc Fontana Gursky Yanagi Santioli Ciclisti tratta da Wikipedia, fonte non citata