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Conferenza ESPAnet Università degli Studi di Salerno, 17 - 19 Settembre 2015 Welfare in Italia e welfare globale: esperienze e modelli di sviluppo a confronto La cittadinanza urbana in contesti marginali. Analisi intersezionale di genere e di diversità e azioni di policy Autore Alba Angelucci *Università di Urbino Versione preliminare. Non citare senza il consenso dell’autore

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Conferenza ESPAnet

ITALIA Università degli Studi di Salerno, 17 - 19 Settembre 2015

Welfare in Italia e welfare globale: esperienze e modelli di

sviluppo a confronto

La cittadinanza urbana in contesti marginali. Analisi

intersezionale di genere e di diversità e azioni di policy

Autore

Alba Angelucci

*Università di Urbino

Versione preliminare. Non citare senza il consenso dell’autore

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La cittadinanza urbana in contesti marginali.

Analisi intersezionale e di genere di diversità e azioni di policy

Introduzione

Quanto e in che modo l’intersezione delle caratteristiche della crescente diversità urbana e quelle

dello spazio urbano in cui è calata, influenza pratiche e modelli di cittadinanza locale in contesti

marginali? Quali politiche e interventi (e con quali risultati) vengono messi in atto dalle

amministrazioni locali e dalla società civile per far fronte alle nuove sfide imposte dalle suddette

intersezioni in questi contesti?

Il presente lavoro, illustrando i principali risultati di una ricerca empirica, mira a rispondere a queste

domande adottando la lente del genere come prisma attraverso il quale guardare a rapporti di forza,

definizioni identitarie e impatto delle azioni di policy sulla descrizione di una nuova “morfologia

urbana” (Martinotti, 1993).

Posizionandosi all’interno del paradigma dell’Intersectionality Theory (Crenshaw, 1989), questo

lavoro declina le due dimensioni sopramenzionate della diversità urbana e dello spazio urbano in

categorie, al fine di analizzare i processi e le interazioni che avvengono al loro incrocio.

In particolare, con diversità urbana qui ci si riferisce alla varietà di caratteristiche legate al

background migratorio, al genere, all’età e alla classe sociale, che è possibile riscontrare nella

popolazione delle città contemporanee; lo spazio urbano, invece, è caratterizzato da tutti gli elementi

materiali e simbolici nel quale la diversità è calata e vissuta dai cittadini.

La diversa intersezione di queste caratteristiche, inserita in un particolare contesto di policy, definisce,

come sarà argomentato, quattro modelli di cittadinanza urbana (o locale) distinti da peculiari pratiche

partecipative, costruzioni di senso di appartenenza e livelli di accesso a diritti e responsabilità.

Questo lavoro integra i risultati dell’analisi di dati preesistenti sulle policies e gli interventi

implementati dall’amministrazione locale e dalla popolazione civile nell’area oggetto di studio, con

una ulteriore indagine qualitativa sulla popolazione target di tali interventi. Questa si è svolta fra

agosto 2014 e marzo 2015 e il suo campo di indagine è stato una zona marginale di Milano, inclusa

nella zona di decentramento amministrativo numero 2. In particolare l’attenzione è stata focalizzata

nell’area di Viale Padova e strade limitrofe, essendo una delle zone di Milano con la più alta

concentrazione di diversità in termini di provenienza geografica, classe sociale e condizioni abitative.

Nello specifico, l’indagine sulla popolazione è stata condotta attraverso 24 interviste semi-strutturate

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somministrate a persone corrispondenti a diversi “profili di intersezioni” in relazione alle categorie

sopra menzionate.

I principali risultati a cui la ricerca ha portato evidenziano che lo sbilanciamento fra l’azione pubblica

e quella della società civile in merito alle iniziative che tengano in considerazione le diverse

intersezioni della diversità urbana sopra menzionate, con un ruolo preponderante dell’iniziativa

civile, ha conseguenze particolari e talvolta perverse sulla definizione di spazi di partecipazione e di

appartenenza. La frammentazione e la dimensione micro degli interventi, dovuta in molti casi alla

mancanza di un forte supporto pubblico e alla mancanza di coordinamento dei singoli attori, porta

alla conseguente frammentazione delle capacità dei singoli di vivere appieno gli spazi fisici e

relazionali della città, capacità che risulta essere fortemente dipendente dalla dimensione di genere e

dalla particolare intersezione di alcune delle categorie prese in analisi. Proprio l’interazione fra queste

categorie e il contesto di policy (e non-policy) porta alla definizione di quattro diversi modelli di

cittadinanza urbana che costituiscono da una parte il tentativo di apporto teorico di questo lavoro

all’argomento, dall’altra il possibile punto di partenza per il ripensamento di azioni di policy

partecipate ed inclusive che tengano conto dell’aspetto intersezionale dell’odierna diversità urbana.

L’articolo sarà diviso in due parti: la prima presenterà le premesse teoriche dell’intero lavoro,

soffermandosi sulla definizione dei concetti chiave, e descriverà il contesto di policy così come

emerso dalla analisi preliminare dei dati preesistenti; nella seconda saranno illustrati i principali

risultati dell’indagine empirica sulla popolazione, presentando i modelli di cittadinanza urbana emersi

e integrandoli con la lettura del contesto di policy.

Parte I: Premesse teoriche e contesto di policy

Prima di presentare i risultati della ricerca è necessario esplicitare i concetti chiave e le premesse

teoriche alla base del lavoro. Il prossimo paragrafo sarà, pertanto, dedicato alla definizione del

concetto di cittadinanza a cui fa riferimento la ricerca. Il successivo si soffermerà sulla descrizione

del paradigma teorico di riferimento – l’Intersectionality Theory – e sulle nuove applicazioni che di

questo paradigma il presente lavoro tenta di fare, collegandolo con gli studi urbani e, in particolare,

con la dimensione dello spazio urbano. L’ultimo paragrafo di questa prima parte è di collegamento

ed introduzione alla parte empirica del lavoro e si basa sul lavoro di ricerca svolto nell’ambito di un

progetto europeo dal titolo “DIVERCITIES – Governing urban diversity: creating social cohesion,

social mobility, and economic performance in today’s hyperdiversified cities” 1 . In esso verrà

1 Per maggiori informazioni http://www.urbandivercities.eu/ . I dati sono stati raccolti fra la fine del 2013 e i

primi mesi del 2014 attraverso interviste ad osservatori privilegiati sia in ambito pubblico che privato.

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descritto il contesto di policy e micro-policy locale relativo alla città di Milano e, in particolare, alla

zona presa in analisi.

Cittadinanza Urbana

Fulcro di questo lavoro è una particolare prospettiva rispetto al concetto di cittadinanza, il quale viene

inteso e declinato su scala urbana. Nelle prossime pagine si cercherà di rendere conto di questa scelta,

e di dare una definizione della cittadinanza così intesa. Nelle prossime pagine si espliciteranno le

motivazioni di questa scelta, descrivendone brevemente le radici teoriche. Infine saranno fissati i

punti cardine della definizione di cittadinanza alla base dell’analisi proposta.

Anche se non esiste una definizione univoca di cittadinanza vi sono dei punti che è senz’altro

possibile ritenere validi e che serve tenere presenti in una discussione di questo genere:

1. Il concetto nasce in Grecia nel IV secolo a.C. ed è originariamente legato alla polis, cioè alla

città, cosa che, con le dovute differenze di contesto, resta sostanzialmente invariata fino a tutto

il Medio Evo;

2. Con le due rivoluzioni Americana e Francese, alla fine del XVIII secolo, e con la conseguente

fioritura degli stati-nazione, la cittadinanza viene fortemente associata alla dimensione

nazionale che acquista sempre più forza e importanza;

3. Fin dalle sue origini il concetto di cittadinanza è indissolubilmente legato a quello dei diritti e

doveri del singolo nei confronti del suo gruppo di appartenenza (sia esso la polis greca o lo

stato-nazione moderno);

4. La nascita e l’espansione dei sistemi di welfare hanno consolidato il legame cittadino-stato,

ampliando la gamma dei diritti goduti e dei doveri cui assolvere (con una sempre maggiore e

più strutturata tassazione, ad esempio);

5. Globalizzazione, migrazioni internazionali e società sempre più differenziate al loro interno, a

partire dalla fine del XX secolo, hanno fortemente messo in crisi questo affermato modello di

cittadinanza, tanto dall’esterno dello stato-nazione, quanto dal suo interno.

La crisi di questo importante dispositivo di integrazione ha portato numerosi studiosi a provare ad

elaborare nuovi modelli e definizioni che tenessero conto della sempre maggiore complessità dei

fenomeni legati alla cittadinanza e al suo contesto di riferimento. Contesto i cui confini diventano

sempre più sfocati e sembrano implodere sotto la spinta delle nuove sfide associate alla tarda

modernità.

Una volta presa coscienza della debolezza dei confini nazionali, i primi contributi dedicati a una

riconcettualizzazione della cittadinanza si sono rivolti al livello sovranazionale, o addirittura globale.

Nascono così i modelli di cittadinanza cosmopolita (Linklater 1998; Hutchings and Dannreuter,

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1999), cittadinanza transnazionale (Smith 1999), cittadinanza differenziata e multiculturale (Young,

1995; Young 1999; Kymlicka 1999; Kymlicka and Norman, 2000).

Tutti questi modelli, seppur ponendo l’accento su aspetti diversi, tentano di superare la visione dei

legami di cittadinanza come legati all’appartenenza allo stesso stato-nazione, proponendo al loro

posto valori a carattere universale, come l’uguaglianza dei diritti per tutti gli esseri umani nel rispetto

delle loro differenze.

Una delle principali e più evidenti debolezze di questi modelli di cittadinanza è la loro eccessiva

fiducia nella naturale predisposizione di uomini e Stati nel considerare il legame umanitario con il

resto della popolazione mondiale come principio cardine e ispiratore di un nuovo modello di

cittadinanza. L’ulteriore indebolimento del legame di appartenenza con lo stato-nazione che ne

deriverebbe non viene adeguatamente considerato da questo tipo di modelli che pongono in primo

piano il (supposto) legame umanitario che lega tutti e ognuno in una più ampia comunità che

abbraccerebbe il mondo intero. Questi modelli sovranazionali, inoltre, sembrano non tenere nel

dovuto conto tutti i livelli che vengono interessati dalle nuove geografie della cittadinanza, che se da

un lato eccedono i confini nazionali dall’altro delimitano spazi e comunità di appartenenza sempre

più piccole e orientate localmente.

L’indebolimento dei legami di appartenenza nazionali associati alla sempre maggiore iperdiversità

(TasanKok et al., 2014) delle città contemporanee rende il livello locale sempre più complesso e ricco

di specificità e bisogni diversificati che devono essere declinati in termini di diritti e doveri legati alla

cittadinanza.

In questo senso, un contributo importante viene dalla teoria femminista e dagli studi di genere

(YuvalDavis, 1997; Bell & Binnie, 2000; Lister, 2003; Fenster, 2005). Questi lavori, mettendo in

discussione la divisione fra pubblico e privato, hanno eroso da prospettive diverse l’associazione del

concetto di cittadinanza con la sfera pubblica, ponendo sempre più in primo piano l’importanza della

sfera privata nelle pratiche di cittadinanza. In queste elaborazioni, la cittadinanza rimane legata allo

status giuridico personale e ai diritti e le responsabilità ad esso collegati ma altre dimensioni del

vissuto personale quali il genere, l’orientamento sessuale, il senso di appartenenza e la partecipazione

politica e civile sono presi in forte considerazione come parte costitutiva dell’essere cittadina/o. In

questa direzione va, ad esempio, il contributo di Ruth Lister (2005), la quale elabora il concetto di

Lived Citizenship, per definire un modo di pensare alla cittadinanza che consideri anche gli aspetti

del vissuto delle persone e le loro pratiche quotidiane.

Questa prospettiva soggettiva e micro-sociologica permette di concentrarsi sui processi di

negoziazione e sul significato che "essere cittadino" assume per i cittadini stessi a diversi livelli,

consentendo di includere nell’analisi aspetti della vita di tutti i giorni che il dibattito tradizionale sulla

cittadinanza non aveva tenuto nella dovuta considerazione.

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Per di più, legittimando l’analisi degli aspetti riguardanti la quotidianità dei cittadini, questa

concettualizzazione permette di superare la falsa dicotomia tra sfera pubblica e privata (Lister, 2003):

se una visione tradizionale della cittadinanza equipara quest’ultima alla sfera pubblica (maschile e

patriarcale), tendendo a considerare tutti gli aspetti relativi alla "sfera privata" come qualcosa di

esterno ad essa, l'attenzione alle pratiche di tutti i giorni lascia emergere l'importanza del privato in

relazione al pubblico, il forte ruolo politico della vita privata nella costruzione dei modelli di

cittadinanza e delle identità dei cittadini.

Così, gli aspetti quotidiani, personali e intimi della vita delle persone assumono sempre maggiore

rilevanza in questo filone di studi: aspetti quali il genere, l'età, l'origine, l’orientamento sessuale, sono

in discussione al fine di comprendere i rapporti di potere che sono alla base della cittadinanza

tradizionalmente intesa. Molti autori e molte studiose femministe e queer utilizzano concetti come

cittadinanza sessuale (Bell & Binnie, 2000), cittadinanza di genere (Fenster, 2005) o cittadinanza

biologica (Rose & Novas, 2003) per mettere in discussione l’elemento corporeo (anche se

socialmente costruito), e il punto di vista dei soggetti emarginati, al fine di contestare le definizioni

tradizionali (potremmo dire egemoni) di cittadinanza. Tenendo presente quanto detto finora, è

possibile ridefinire il concetto di cittadinanza collegandolo alla dimensione urbana, attraverso i

seguenti punti:

1. La cittadinanza è costituita da diritti e doveri, ma anche da pratiche di partecipazione nella vita

politica e/o civile da cui discende il senso di appartenenza alla comunità di riferimento;

2. La cittadinanza così intesa è per questo slegata dall’effettivo status giuridico di cittadino e si

manifesta al livello delle suddette pratiche;

3. Ne consegue che la cittadinanza è frutto tanto di processi top-down quanto bottom-up, i quali

assumono sempre maggiore importanza quanto più indeboliti risultano essere i legami di

affiliazione nazionale;

4. All’interno dei legami di cittadinanza sono sicuramente presenti forme di cooperazione e di “agire

comunicativo”, ma lo sono altrettanto (e rivestono altrettanta importanza) forme anche acute di

conflitto che possono svilupparsi tanto nella negoziazione di interessi, diritti e doveri, quanto in

quella della stessa definizione di cittadinanza che resta un concetto processuale, dinamico e

tutt’altro che univoco.

5. Il soggettivo e il quotidiano rivestono grande importanza in questi processi di negoziazione e

definizione della cittadinanza, che sempre più si allontana da una definizione puramente giuridica

di status.

6. La città è lo spazio dove queste pratiche quotidiane hanno luogo, ed è proprio in relazione

all’urbano che nascono nuove forme di socialità dovute all’interazione fra gruppi diversi di

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persone (che diventano sempre più diversificati fra di loro e al loro stesso interno, quanto più la

città diventa iperdiversificata)

7. Il livello di benessere che si può esperire in una città (ad esempio in termini di livelli di reddito

o di diseguaglianza o coesione sociale) influisce fortemente sullo sviluppo e sulla capacità delle

persone di mettere in atto pratiche di cittadinanza.

Così, la città riveste un ruolo attivo di spazio politico (Isin &Wood, 1999; Painter, 2005), tale da

legittimare la concettualizzazione di un modello di cittadinanza urbana che tenga conto di tutte le

caratteristiche sopramenzionate e che le integri in maniera coerente. Numerosi autori (Holston, 1999;

Isin, 2002; Bouregard & Bounds, 2000; Painter, 2005) hanno definito ed utilizzato questo modello,

enfatizzando di volta in volta aspetti diversi, ma concordando sull’assunto di base che tanto la

dimensione nazionale quanto quella sovranazionale risultano ormai insufficienti per descrivere la

complessità dei processi che coinvolgono la cittadinanza. Il fatto che siano insufficienti, comunque,

non sta a significare che siano inutili o da rifiutare completamente. Alcuni autori, pur soffermandosi

sull’analisi dei processi che coinvolgono la cittadinanza urbana, sostengono che sia possibile

integrare la prospettiva locale con quella nazionale (e globale) attraverso un approccio multiscalare

(Bouregard & Bounds, 2000; Glick Schiller & Çaglar, 2015).

La prospettiva dalla quale il presente lavoro considera la cittadinanza è quella soggettiva e

microsociologica, che pertanto è intimamente legata al contesto locale. Un modello di cittadinanza

urbana che comprenda tutte le sopramenzionate dimensioni risulta, infatti, essere il più adeguato a

sondare gli aspetti della vita quotidiana delle persone e la relazione che intercorre fra le loro peculiari

posizioni all’interno della società, frutto di intersezioni multiple di caratteristiche di varia natura, e

gli spazi (sociali e geografici) che vivono. Come accennato in apertura, i tre elementi chiave della

cittadinanza così intesa – diritti e doveri, partecipazione e senso di appartenenza – saranno articolati

ed analizzati in un’ottica intersezionale. Le prossime pagine saranno dedicate proprio a una breve

presentazione del paradigma teorico alla base di questa prospettiva e alle modalità della sua

applicazione nell’ambito del presente lavoro.

Intersectionality Theory: quali nuove applicazioni?

Analizzare le categorie inerenti lo spazio urbano, il genere, il background migratorio ecc. in un’ottica

intersezionale significa posizionare la propria ricerca nell’alveo dell’Intersectionality Theory2. È

necessario quindi introdurre, seppur brevemente, i punti fondamentali di questo paradigma teorico,

rimandando ad altri lavori per un approfondimento (Angelucci, forthcoming).

2 È da notare che la definizione stessa dell'Intersectionality quale “teoria” è controversa. Alcune studiose la

ritengono un paradigma, altre una pura metodologia. Comunque la stessa Kimberlé Crenshaw sostiene che

questo dibattito perde di importanza di fronte alla natura puramente pragmatica dell'Intersectionality che

mira a “fare intersectionality”.

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L’Intersectionality Theory nasce alla fine degli anni ottanta del secolo scorso nell’ambito degli studi

giuridici, con lo scopo di fronteggiare alcune peculiari forme di discriminazione che sfuggivano alla

legislazione statunitense (Crenshaw, 1989). L’assunto di base è che quando una persona è

contemporaneamente soggetta a più forme di discriminazione queste non si sommano semplicemente

fra di loro, ma interagiscono creando forme di discriminazione nuove.

Affondando le radici nel femminismo nero, questo nuovo paradigma nasce per svelare la posizione

di svantaggio che le donne afro-americane vivono all’interno della società americana. I particolari

effetti discriminatori causati dall’intreccio delle due vulnerabilità (l’essere donna e l’essere nera)

rimanevano, infatti, completamente invisibili al sistema legislativo, che talvolta si dimostrava

impotente anche soltanto nel riconoscere la peculiare discriminazione in atto.

Quando Patricia Hill Collins utilizza l’espressione Intersectionality Theory per sostituire il concetto

di “black feminist thought” (Collins 1990), intende aprire questa prospettiva anche ad altre categorie

di svantaggio che non riguardino necessariamente il colore della pelle.

Così, nell’arco di un decennio, l’Intersectionality Theory si svela nella sua vocazione

interdisciplinare, tendenzialmente empirica, ed approda in Europa dove conosce largo impiego

soprattutto negli studi sulle migrazioni femminili (Kofman, 1999; Knudsen, 2007; Anthias, 2012).

La sempre più alta visibilità e il sempre maggiore impiego dell’Intersectionality ha fatto sorgere la

necessità di elaborarne delle classificazioni e sistematizzazioni. Due risultano particolarmente utili a

definire il campo e le modalità di applicazione di questo paradigma.

La prima è la distinzione che propone Knudsen (2007) fra additive intersectionality e transversal

intersectionality. Questa distinzione fa riferimento alla prospettiva in cui le categorie vengono

analizzate ed interpretate. La prima prospettiva considera le categorie sociali e culturali in esame

come dei sistemi chiusi che di volta in volta possono interagire avendo effetti sui soggetti portatori

di tali categorie. Questa prospettiva non considera l’impatto che le categorie hanno l’una sull’altra e

la loro capacità di modificare vicendevolmente le rispettive strutture di potere. È questo invece il

modo di interpretare le categorie della seconda prospettiva, quella trasversale, che analizza non

soltanto la loro interazione ma anche l’intra-azione reciproca che le coinvolge, creando, a volte,

categorie di svantaggio (ma anche, eventualmente, di vantaggio) nuove.

La seconda classificazione, proposta da McCall (McCall, 2005) fa riferimento alle modalità in cui le

categorie e la loro complessità possono essere interpretate e distingue tre approcci: (1) anti-

categorical complexity, (2) intra-categorical complexity e (3) inter-categorical complexity. Ognuno

di questi approcci ha un differente grado di “fiducia” nelle categorie. Il primo approccio, tipico del

femminismo decostruttivista e post-strutturalista, è il più diffidente nei confronti delle categorie: la

loro natura di costrutto sociale le rende di per sé strumenti di potere e dominio e sono per questo da

decostruire e rifiutare. Il secondo approccio, nato agli albori dell’Intersectionality Theory con

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Kimberlé Crenshaw, ha una posizione più morbida rispetto alle categorie: pur considerandole dei

costrutti sociali vettori di dominio, chi adotta questa prospettiva ritiene più utile utilizzare le categorie

per svelare ed affrontare le particolari intersezioni di svantaggi e discriminazioni esperite da alcuni

gruppi, piuttosto che eliminare la possibilità di parlare di categorie tout court. Il terzo approccio,

elaborato dalla stessa Leslie McCall per descrivere la sua personale prospettiva, può essere

considerato l’approccio categoriale par excellence. A differenza dei primi due questo approccio

utilizza strumenti quantitativi per analizzare sistematicamente in maniera comparativa le categorie

analitiche.

Come accennato sopra, uno dei campi maggiormente interessati dall’analisi intersezionale è stato, fin

da subito, quello delle migrazioni femminili. Questa cosa non risulta sorprendente se si considera

l’origine dell’intersectionality Theory, cioè l’ambito delle discriminazioni razziali e di genere. Con il

tempo, però, il range di categorie prese in analisi da questa prospettiva si è sempre più allargato, fino

a comprendere la classe sociale, l’orientamento sessuale, la disabilità e in genere tutte le categorie

che possono essere portatrici di una qualche forma di svantaggio. Insieme alle categorie si sono

moltiplicati anche i campi di applicazione: esistono esempi di analisi intersezionale delle politiche

pubbliche contro la discriminazione e lo svantaggio (Verloo 2007; Lombardo e Verloo 2009), dei

conflitti sul lavoro (Mulinari & Selberg, 2013), della genitorialità transnazionale (Phoenix & Bauer,

2012) e, non ultimi, esempi di analisi intersezionale delle pratiche di cittadinanza (Epstein & Carillo,

2014; Longman et al., 2013).

Oltre alla prospettiva intersezionale, il presente lavoro condivide con questi ultimi la prospettiva

microsociologica, la definizione di cittadinanza non soltanto in termini giuridici ma in termini di

pratiche, e, ovviamente, la prospettiva di genere. Da questo punto in poi, però, cominciano le

differenze.

Ciò che di nuovo questo lavoro vuole proporre è un utilizzo dell’intersectionality che permetta di

analizzare il ruolo che lo spazio urbano ricopre nella definizione di pratiche e modelli di cittadinanza,

all’interno delle sempre più diversificate città contemporanee. Più nello specifico: l’intersectionality

sarà usata in modo da analizzare come queste pratiche vengano negoziate, definite e rimodellate

dall’intersezione delle categorie relative allo spazio urbano e quelle relative alla diversità urbana.

Per diversità urbana qui si intende principalmente la convivenza di persone con differenti background

migratori, ma anche con differenti condizioni socio-economiche, differenti fasce di età, differenti

stili di vita, il tutto in un’ottica che tenga presenti le differenze di genere.

Questo significa proporre un’analisi che consideri il rapporto che intercorre fra gli individui, portatori

id specifiche intersezioni di caratteristiche, e gli spazi che essi abitano all’interno della loro città, e

quindi la reciproca costruzione fra socialità e spazi. Questi spazi, che sono tanto materiali quanto

simbolici, non sono infatti neutrali: essi prendono parte in maniera attiva alla costruzione e al

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mantenimento (o al sovvertimento) delle strutture di potere, creano e al contempo sono creati dalle

forme di socialità che ospitano. In questo rapporto circolare di co-determinazione entrano in gioco

diversi fattori che dovranno poi essere declinati in categorie. In questo lavoro le categorie relative

allo spazio saranno così declinate:

(1) marginalità/centralità, (2) stigmatizzazione spaziale/riconoscimento positivo, (3) utilizzo

abitativo/utilizzo lavorativo o ludico. La prima dicotomia si riferisce all’elemento spaziale e

geografico entro i confini del quale si articolano i percorsi abitativi della popolazione urbana presa

in analisi; la seconda è intimamente correlata alla prima, ma sottolinea la dimensione simbolica e

relazionale del contesto abitativo, su scala di quartiere; la terza dicotomia, infine, prende in carico la

distinzione fra i city users, intesi in una maniera più generale rispetto a quella di Martinotti (1993), e

i city dwellers.

In secondo luogo, è importante posizionare il lavoro rispetto alle classificazioni di cui si è parlato

sopra. Questo soprattutto perché a diversi approcci corrispondono diversi strumenti di analisi, e un

posizionamento all’interno del paradigma al contempo determina e giustifica metodologie e

prospettive. Dunque, il lavoro si posiziona in una prospettiva trasversale, ed adotta un approccio intra-

categoriale. Gli strumenti di analisi saranno quindi di stampo qualitativo e le categorie saranno

utilizzate in maniera funzionale alla definizione di nuovi modelli di cittadinanza urbana.

Contesto di policy locale: quali attori e iniziative nell’ambito della diversità urbana?3

Il rapporto fra spazio urbano e diversità urbana non può ritenersi indipendente dal contesto di policy

nel quale è calato. Rimanendo fedeli all’impostazione “locale” di questo contributo, nelle prossime

pagine si tenterà di delineare i contorni e le caratteristiche delle azioni di policy e micro-policy che

riguardano questi due aspetti, implementate nella città di Milano e, in particolare, nella zona oggetto

di analisi. Si procederà dunque con la descrizione dell’importanza che le tematiche relative alla

diversità urbana rivestono nell’indirizzare le azioni dell’amministrazione locale e della società civile,

facendo particolare attenzione agli ambiti di policy che più interessano questo lavoro: l’ambito delle

differenze di genere, quello inerente la presenza e la partecipazione di persone con background

migratorio e quello inerente la gestione e l’organizzazione dello spazio urbano.

La prima distinzione da fare è fra i diversi attori che sono convolti a vario titolo nel processo di policy

making. Distinguiamo così il livello pubblico dell’amministrazione locale da quello della società

civile formato dalle varie forme associative presenti nel territorio in analisi.

3 Tutte le informazioni presentate in questo paragrafo provengono dall’elaborazione secondaria dei dati

provenienti dal sopramenzionato progetto europeo DIVERCITIES.

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Partendo dall’ambito pubblico, ciò che è utile sottolineare è il ruolo e l’importanza che gli ambiti di

policy sopramenzionati rivestono nell’agenda dell’amministrazione locale. Questo significa

analizzare il grado di consapevolezza rispetto alla crescente diversità urbana, la presenza, la coerenza

e l’organicità di azioni esplicitamente rivolte a limitare i suoi effetti negativi e/o a favorirne gli aspetti

positivi.

Come più approfonditamente argomentato altrove (Barberis et al., 2014), le azioni di policy

dell’amministrazione comunale di Milano in materia di diversità urbana non sono caratterizzate da

una elevata coerenza interna. Manca una definizione condivisa della “diversità” e, conseguentemente,

una comune esplicita linea di priorità e di azioni strategiche in relazione a questo tema. Manca un

programma strutturato e trasversale ai diversi assessorati e per questo motivo le misure adottate

risultano frammentate. Al livello dei singoli assessorati, inoltre, sembra esserci un sensibile

scollamento fra il piano dei discorsi e quello delle pratiche: spesso gli obiettivi che le azioni di policy

si propongono non vengono raggiunti e/o vengono fraintesi dalla popolazione target suscitando

dissenso. C’è, comunque, una implicita tendenza a considerare il tema dell’immigrazione come il

principale aspetto della “diversità” urbana da tenere in considerazione. La convivenza di persone con

origini e background culturali differenti viene vista come una potenziale problematicità

dall’amministrazione, che con il proprio intervento tenta di controllare questo fenomeno.

Ed è in questo senso che si muovono gran parte delle azioni di policy dell’amministrazione comunale.

I progetti inerenti la riqualificazione urbana e di edilizia residenziale pubblica, ad esempio, prestano

particolare attenzione al mix abitativo fra inquilini con origini diverse, temendo in caso contrario la

formazione di sacche di segregazione che potrebbero diventare dei ghetti 4 . Altre iniziative

implementate dall’amministrazione (talvolta avvalendosi della collaborazione di enti privati o non

profit) sono rivolte in maniera ancor più diretta alla presenza straniera a Milano, come sportelli

dedicati o laboratori mirati al coinvolgimento e al sostegno dei cosiddetti immigrati di seconda

generazione.

Per quanto riguarda l’utilizzo degli spazi pubblici e del patrimonio demaniale del comune di Milano,

la linea di policy adottata dal relativo assessorato è quella della concessione di un numero sempre

maggiore di spazi e di edifici pubblici. A fronte di una sempre più forte richiesta di utilizzo di questo

patrimonio da parte della cittadinanza, la concessione di spazi in cambio di manutenzione e/o

riqualificazione e/o a canoni di affitto molto bassi è una scelta di valorizzazione sociale più che

economica del patrimonio demaniale. Quanto poi queste linee di policy si traducano in effettivi

4 È da notare che nonostante la preoccupazione dell’eventuale formazione di zone ad elevata concentrazione

di gruppi minoritari e/o svantaggiati sia estremamente diffusa, Milano resta una città con livelli di

segregazione molto bassi, che al più possono essere definiti come micro-segregazione a livello di quartiere.

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interventi e nella effettiva possibilità da parte dei cittadini di fruire del patrimonio demaniale, è un

punto che, come accennato poco sopra, resta critico e che sarà maggiormente discusso nella seconda

parte del lavoro.

La dimensione di genere viene trattata dall’amministrazione comunale nell’ambito della lotta alle

violenze di genere attraverso un ruolo di coordinamento dei servizi offerti dagli attori del terzo settore

che compongono la Rete Antiviolenza. Se si fa eccezione per questo ruolo di regia che

l’amministrazione ricopre, attraverso l’assessorato alle Politiche Sociali e Cultura della Salute, il

genere non sembra essere considerata un’asse lungo la quale indirizzare specifiche azioni di policy.

Passando adesso all’ambito dell’intervento della società civile presente sul territorio, è possibile

innanzitutto dire, che il mondo associativo a Milano è molto sviluppato e quasi capillarmente presente

su tutto il territorio. Più che fornire una descrizione dettagliata degli interventi implementati da

associazioni e attori del terzo settore nell’area oggetto di indagine – cosa che è possibile reperire

altrove (Angelucci et al. 2014) – qui si vuole dare una visione di insieme delle tendenze generali di

questi interventi e fornire una descrizione delle principali aree di policy interessate da questi

interventi. Più avanti nel corso del lavoro sarà possibile tornare su specifiche iniziative in relazione

al loro impatto sull’oggetto di questo studio.

Le iniziative implementate da questo tipo di attori, risultano essere molto spesso esplicitamente mirate

alla creazione di coesione sociale. Pur essendo comprensibilmente molto forte il peso che la tematica

dell’immigrazione riveste all’interno di queste iniziative, i target molto ristretti o specifici vengono

evitati. Anche qui la fiducia che viene data ai due strumenti del mix (abitativo, ludico o lavorativo) e

della gestione e controllo dell’interazione è basilare alla maggior parte degli interventi implementati.

Molte delle iniziative implementate sul territorio in analisi si fondano su articolate reti di collaboratori

piccoli e medi, che raramente riescono a coinvolgere anche il settore pubblico. In genere, comunque,

questi interventi hanno un carattere micro, frammentato, e non possono garantire continuità. È proprio

però questo carattere micro, molto vicino alla popolazione target, che risulta essere al contempo il

maggior fattore di successo di queste iniziative.

Si è detto che molte delle iniziative implementate hanno come obiettivo principale quello di favorire

la coesione sociale e l’interazione fra diversi gruppi. L’incontro tra persone con diverse caratteristiche

e background viene favorito attraverso la creazione (o la gestione, la manutenzione, ecc.) di spazi di

incontro. Questi spazi sono luoghi fisici dove le diversità si trovano a convivere grazie a progetti di

housing sociale e mix abitativo, oppure dove ci si incontra per prendere parte ad attività ludiche,

ricreative o a scopo sociale e culturale.

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In molti casi, la gestione e l’organizzazione degli spazi della città in un’ottica che tenga presente le

differenti caratteristiche e necessità della popolazione target (potremmo dire, in un’ottica

intersezionale), risulta essere una caratteristica chiave per il successo di queste iniziative.

Le potenzialità di questi interventi vengono indebolite dalla mancanza (o dalla scarsità) di

coordinamento e supporto pubblico, cosa che non favorisce la loro continuità ed evoluzione.

La mancanza di coordinazione, come accennato in precedenza, è anche la debolezza degli interventi

pubblici nelle aree di policy prese in esame.

Tenendo presente questo quadro di sintesi riguardo il contesto di policy, nelle prossime pagine si

presenteranno i risultati della ricerca.

Parte II: La ricerca

Introduzione: contesto e disegno della ricerca

Come già accennato in precedenza la ricerca focalizza l’attenzione su una specifica area della

municipalità di Milano. Quest’area è inclusa amministrativamente nella zona di decentramento

numero 2 e corrisponde grossomodo al quartiere che si sviluppa lungo Viale Padova. Questo quartiere

presenta delle oggettive problematicità di accesso data la grossa attenzione che ha ricevuto nel corso

degli anni da ricercatori e giornalisti e dalla sovraesposizione mediatica più o meno subita.

Cionondimeno la scelta è caduta su questa zona in quanto particolarmente interessante per il tipo di

analisi che si voleva proporre in questo lavoro. Innanzitutto è un’area con una fortissima presenza

migratoria, fra le più alte di Milano. Dei circa 36000 abitanti del quartiere il 34% è composto da

cittadini non italiani e la percentuale sale al 49% se si considerano soltanto i minori5. La cifra è molto

più elevata rispetto alla (già alta) percentuale di presenza straniera a Milano: se si considera l’intera

area metropolitana (3,2 milioni di abitanti), la percentuale di presenza straniera si attesta al 13,1 %,

mentre su 1,3 milioni di abitanti della sola municipalità la percentuale e del 17,4 % 6 . Questa

caratteristica ha permesso di focalizzare l’attenzione su una varietà di profili e percorsi migratori,

tanto sulla “prima” quanto sulla “seconda generazione”, su nuovi arrivati e residenti di lungo periodo

e così via. L’altra caratteristica peculiare a questa zona che ha spinto la ricerca in questa direzione è

la sua particolare posizione tra marginalità e stigmatizzazione (simboliche) e vicinanza (geografica)

e collegamento (infrastrutturale) rispetto al centro. Questo carattere di ambiguità, presumibilmente,

lascia più spazio alle costruzioni e percezioni personali rispetto agli spazi simbolici e materiali in cui

5 Fonte: http://dati.comune.milano.it/index.php?option=com_rd&view=item&id=29, 31 dicembre 2013

6 Fonte: demo.istat.it; 1 gennaio 2014.

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si è calati, e permette quindi di osservare con maggior chiarezza le intersezioni delle categorie

analitiche al lavoro.

Il lavoro sul campo è stato portato a termine fra agosto 2014 e marzo 2015 mediante la conduzione

di 24 interviste semi-strutturate ad abitanti della zona. Data la natura qualitativa della ricerca, non si

è proceduto con l’identificazione di un campione rappresentativo, ma si è scelto di focalizzare

l’attenzione su particolari profili di persone da intervistare. I profili sono stati scelti in un’ottica

intersezionale, facendo, cioè, attenzione allo specifico incrocio di caratteristiche (che possono essere

portatrici di svantaggio o vantaggio) nel quale le persone intervistate si posizionavano. La conduzione

e l’analisi delle interviste, condotta secondo i principi della Critical Discourse Analysis (Fairclough,

1995; Fairclough, 2003) e il supporto di software (CAQDA), sono state precedute dall’analisi

secondaria di dati preesistenti relativi al contesto di policy, come sopra descritto. Questo ha permesso

di integrare l’analisi delle interviste con dati contestuali importanti, e di arrivare alla definizione dei

modelli di cittadinanza che saranno descritti più avanti.

Intervistati: profili e metodo di individuazione

Il bisogno di entrare in contatto con persone anche molto diverse fra loro, ha reso necessario l’utilizzo

di diversi gatekeepers, in grado di aprire a fasce di popolazione differenti. Una volta intervistate le

prime persone, si è proceduto con l’individuazione di profili che differissero in tutto o in parte dai

precedenti. Il metodo di individuazione può essere in parte definito come uno snowball sampling.

Sebbene questo metodo sia utilizzato generalmente per individuare casi molto simili fra loro, è stato

possibile ovviare a questa tendenza implicita nel metodo, attraverso l’utilizzo di più punti di accesso

e le indicazioni esplicite fornite agli intervistati riguardo ai profili cercati.

Il gruppo così individuato di persone intervistate è composto per metà da maschi e per metà da

femmine. Sono state intervistate soltanto persone maggiorenni ma il range delle età è vasto: va dai

18 ai 75 anni. Fra di loro 12 sono italiani per ascendenza, 5 italiani per acquisizione, il resto possiede

altre nazionalità. I paesi di origine degli intervistati sono i seguenti: Cina, Egitto, Eritrea, Filippine,

Giappone, Italia, Perù, Somalia. Per quanto riguarda l’anzianità di residenza delle 12 persone non

italiane per ascendenza, al momento delle interviste 1 persona era in Italia da circa otto mesi, 1 da

due anni, 2 da 5 anni, un’altra da 7 anni e 4 da più di 10 anni. Tre, pur avendo genitori di origine non

italiana, sono nate e cresciute in Italia (cosiddetti immigrati di seconda generazione). Oltre a genere,

fascia d’età, origine e anzianità di residenza, sono state prese in considerazione altre caratteristiche,

quali la classe sociale e di reddito e l’orientamento sessuale.

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Lo strumento di rilevazione: l’intervista semi-strutturata

L’intervista semi strutturata è stata articolata in 5 tematiche, che sono state suggerite all’intervistato/a

cercando poi di lasciare il più possibile spazio al suo racconto personale. Le tematiche sono le

seguenti:

1) Caratteristiche sociodemografiche: sebbene in parte queste venivano definite a priori, in virtù

della selezione dei profili, la prima parte dell’intervista è stata dedicata al racconto personale che

l’intervistata/o voleva proporre di sé, per lasciare spazio alla sua auto-descrizione e avere così la

possibilità di analizzare la percezione che l’intervistata/o ha di sé, dei suoi affini e della sua situazione

(abitativa, relazionale, ecc.)

2) Situazione occupazionale: anche se è possibile comprendere questa tematica nella precedente,

si è cercato di prestarle un’attenzione particolare. Soprattutto nel caso di intervistati/e occupati fuori

casa, parte delle domande sono state rivolte all’approfondimento della collocazione del posto di

lavoro, della capacità di raggiungerlo senza problemi o meno e di tutta la dimensione sociale e

relazionale legata all’occupazione (o, in caso di intervistati/e non occupati, alla disoccupazione).

3) Reti sociali: con questa sezione si è tentato di ricostruire la rete di relazioni dell’intervistata/o,

facendo particolare attenzione al rapporto fra la dimensione di quartiere e quella della città. Sì è

tentato di capire cioè, se la vita sociale e relazionale dell’intervistato/a fosse maggiormente compresa

all’interno del quartiere di residenza, se si svolgesse altrove nella città o fuori dalla città. Sotto questa

tematica si è cercato, in altre parole, di ponderare il livello di coesione sociale percepito

dall’intervistato su più scale: quella del quartiere e quella della città.

4) Utilizzo degli spazi pubblici: questo è l’argomento centrale dell’intervista, attraverso cui si è

provato a ricostruire il rapporto che l’intervistato/a ha con gli spazi pubblici nell’ottica intersezionale

di cui si parlava prima. Attraverso le domande poste in questa sezione si è cercato di indagare le

categorie di analisi relative allo spazio, così come definite nel precedente paragrafo e di capire le

interrelazioni di queste con le categorie più propriamente riferibili alle caratteristiche personali

dell’intervistato. Ancora una volta ci si è concentrati tanto sul livello di quartiere quanto su quello

della città e sulla relazione che esiste fra questi due spazi vitali nella percezione di chi li vive.

5) Public Policies: questa tematica è l’anello di congiunzione con il lavoro preliminare fatto sui

dati preesistenti e derivanti dal progetto DiverCities. Attraverso questa sezione si è cercato di capire

l’importanza e l’impatto che le iniziative implementate nel quartiere, così come quelle implementate

su scala cittadina, hanno sulla vita delle persone e sulle loro patiche quotidiane di cittadinanza.

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Principali risultati

In questo paragrafo saranno presentati i principali risultati emersi dall’analisi di interviste e dati

preesistenti. Innanzitutto si introdurranno quattro modelli di cittadinanza che si connotano mediante

diverse pratiche di partecipazione (che comprendono processi di inclusione e di esclusione), differenti

livelli di senso di appartenenza (giocati in ambiti e su scale diverse) e diverse capacità di godere di

diritti e di adempiere a doveri. Queste tre dimensioni caratterizzano, come argomentato in apertura,

il concetto di cittadinanza urbana cui il presente lavoro si riferisce e pertanto, differenze sostanziali

in questi ambiti legittimano, a parere di chi scrive, una specifica classificazione. La definizione di

questi modelli terrà conto, in un’ottica intersezionale, dell’interazione fra le varie caratteristiche degli

intervistati e le modalità di utilizzo degli spazi pubblici. Il lavoro si conclude fornendo uno sguardo

d’insieme sulle azioni di policy e i modelli di cittadinanza presentati, provando a suggerire una

possibile strada per l’implementazione di iniziative che valorizzino la diversità contrastandone i

possibili effetti negativi.

1. Cittadinanza urbana puerocentrica e micro-partecipativa

Il primo modello di cittadinanza proposto si articola intorno a due caratteristiche: è un modello

spaziospecifico e ruota intorno alla pratica genitoriale. Per la formazione di questo modello risulta

molto importante la presenza associazioni e l’implementazione di iniziative che coinvolgano le due

dimensioni sopramenzionate. Infatti, in questo modello la dimensione partecipativa è vissuta in

maniera intensa, ma è limitata alla scala del quartiere o, meglio, a delle aree specifiche del quartiere,

che diventano familiari e accoglienti proprio in virtù della intensa partecipazione. L’essere genitori,

o più in generale, accudire dei bambini, diventa elemento di auto ed etero riconoscimento in questo

gruppo che costituisce un microcosmo all’interno del quale si sviluppano legami forti e forte senso

di appartenenza. L’importanza della pratica genitoriale e la dimensione spazio-specifica di questo

modello sono strettamente correlate in quanto gli spazi di condivisione ruotano intorno alla principale

scuola (materna, elementare e media) del quartiere, la quale è collocata all’interno di un parco (chiuso

al pubblico durante le ore scolastiche).

“Prima la mia vita si svolgeva altrove, sempre molto a ridosso del centro, non frequentavo

molto il quartiere, poi quando sono nate le mie figlie ho cominciato a frequentare il parco,

perché ho frequentato subito "il tempo per le famiglie" che era un servizio del comune offerto

ai bambini da 0 a 3 anni che con i genitori o le tate potevano frequentare uno spazio

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all'interno della scuola materna, uno spazio però proprio adibito...proprio pensato per loro

e quindi da lì poi sono entrata nel parco…” Federica7

“…non so se è nell'ambito del quartiere che c'è la rete o è nell'ambito della scuola, del parco.

Per dirti, io fino a quando non sono entrata nella scuola ero al di fuori e non ho avvertito di

trovarmi in un quartiere particolare, con delle relazioni particolari, o una rete di aiuto, non

avevo questa sensazione... Non mi interessava trovarla, forse, e comunque non è che fosse

così evidente. Mentre invece, entrando nella scuola e nel parco, ti accorgi che lì c'è. Sì, lì c'è:

tra persone ci si aiuta.” Giovanna

L’appartenenza a questo gruppo risulta avere un tale peso da influenzare talvolta decisioni abitative

e scolastiche per i propri figli e, più in generale, da coinvolgere l’intera vita sociale di coloro che ne

fanno parte.

“…poi quando ho preso una mia casa, proprio mia ho detto qua! in via Padova! In Via

Padova, nel senso qua è la zona che mi piace abitare, dove mi sento più sicura, mi sento

molto... poi c'è, per me... io definisco sempre il [nome del Parco] una piccola comunità

accogliente, dove mi trovo benissimo da questo punto di vista e amo proprio stare in questa

zona!” Aisha

“…Poi tre anni fa ho deciso anche di trasferirmi qui con il lavoro, perché sono un'insegnante,

ho chiesto il trasferimento qui e me l'hanno dato per cui ora praticamente sono incastrata

qua dentro [ride]…” Federica

La dimensione comunitaria che si crea all’interno di questo gruppo fa anche in modo che gli insider

godano di una solidarietà inter-gruppo relativamente alta, tale talvolta da sopperire alla mancanza o

alla inaccessibilità di supporti nel lavoro di cura.

“…io conosco persone che portano i figli di altre qui... nonne finte, cioè acquisite, che fanno

da nonne a bambini anche non di origine italiana, e quindi li portano a scuola... di queste

cose ne sono a conoscenza” Federica

Si crea quindi una sorta di micro-cittadinanza tutta rivolta verso le pratiche associative del gruppo,

che pur ruotando intorno alla presenza di bambini, non si limita alla sola condivisione di spazi

scolastici e ludici per questi. La possibilità di andare oltre questi ambiti di condivisione è data dalla

presenza di un’associazione di volontariato che gestisce le attività che si svolgono all’interno di questi

spazi condivisi, e che alimenta in maniera forte la creazione del senso di comunità e di appartenenza.

7 Per garantire l’anonimato i nomi degli intervistati sono stati sostituiti con nomi di fantasia

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In alcuni casi la partecipazione in queste attività e la presenza di questa associazione permettono di

superare barriere nella fruizione di diritti (come nel caso del supporto nella cura) e nell’adempimento

di doveri (aiutando, ad esempio, nello svolgimento di pratiche burocratiche), che rendono

particolarmente importante per alcune categorie di persone l’appartenenza al gruppo.

Allo stesso modo la presenza di forti legami inter-gruppo e della implicita barriera di accesso al

gruppo che costituisce la pratica di cura di bambini, alimenta anche il carattere escludente della

dimensione comunitaria, che emerge dalle impressioni degli outsider.

“Perché ecco se c’è una cosa che a me proprio mi fa imbestialire è che abbiamo questo parco

meraviglioso che in realtà non possiamo sfruttare. È una roba che a me manda ai nervi.

Perché capisco l’esigenza della scuola e tutelare i bambini e tutto quello che si vuole, però

mi sembra allucinante avere uno spazio di questo tipo e poterci andare dalle 4 e mezza alle

9. Soprattutto poi in primavera e d’estate, insomma, è una follia. […] Secondo me un modo

per sfruttare quello spazio a prescindere sarebbe importante. […] gira tutto quasi unicamente

in funzione dei bambini. Che è una cosa che non è positiva perché comunque non ci sono solo

i bambini: ci sono delle persone che vivono questo posto e se si potessero sentire integrati

non solo perché hanno dei figli… Sinceramente, sarebbe molto meglio.” Clara

Oltre alla caratteristica di avere (o di accudire) dei bambini, coloro che è possibile identificare in

questo gruppo sono persone al di sopra dei 30 anni, sia autoctoni che immigrati di lungo periodo,

appartenenti ad una delle classi sociali che vanno dalla medio-bassa alla medio-alta.

Come intuibile anche dalle interviste citate, questo modello ha una forte caratterizzazione femminile.

Essendo, infatti, la pratica genitoriale l’elemento caratterizzante, in queste pratiche si riproduce in

ambito pubblico lo sbilanciamento di genere presente in ambito privato. Se il lavoro di cura, che

coinvolge in maniera più consistente le donne, diventa uno strumento di integrazione e di

partecipazione, dall’altro lato questa partecipazione rimane comunque limitata all’ambito micro della

comunità afferente al parco e alla scuola. La forza di questo modello di cittadinanza, capace di creare

forti legami e pratiche di solidarietà (così come, dall’altro lato, di esclusione), è dunque limitata nella

capacità politica di influire su scala più ampia, con il risultato di ricreare una sorta di ambiente ibrido:

un “privato” fuori dalle mura domestiche, nel quale confinare l’azione delle donne e dei bambini nel

quartiere.

2. Cittadinanza urbana dinamica ed interculturale

Gli elementi caratterizzanti il secondo modello sono l’apertura alla diversità e la partecipazione

dinamica di coloro che si posizionano al suo interno. Le persone che è possibile identificare come

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afferenti a questo modello sono giovani, generalmente al di sotto dei 30 anni, italiani per ascendenza

o figli di immigrati internazionali cresciuti e scolarizzati nell’ambiente multiculturale del quartiere

preso in analisi. Spesso il loro percorso scolastico è cominciato proprio all’interno del parco

sopramenzionato, per poi uscire dal quartiere con l’inizio del ciclo secondario superiore. In questo

modello non si posiziona un gruppo omogeneo di persone che si riconosca come tale, ma una

costellazione di profili anche molto diversi fra loro accomunati dall’alta familiarità con la diversità

urbana.

“…Io ricordo quando ero piccolo alle elementari in classe mia... cioè era una delle zone di

Milano in cui già alle elementari avevamo già 4 o 5 migranti in classe che, adesso in realtà

sono metà della classe o più della metà delle classi sono formate da bambini migranti, e

ricordo le prime recite scolastiche dove affrontavi alcuni temi, raccontavi alcune culture.

Ricordo di aver scoperto il capodanno cinese perché alle elementari avevamo dei cinesi e

comunque poi ti segnano queste cose perché comunque rimani a contatto con quelle comunità

migranti. Cresci con mille culture, con diversità sotto molti punti di vista che cresci che fanno

parte della tua quotidianità e quindi…” Mattia

“[...]ti confronti quotidianamente con il diverso e mi rendo conto che non è una cosa scontata.

Mi rendo conto per esempio che quando viene il mio ragazzo lui si stupisce di questa grande

quantità di stranieri ma di tutti i tipi, c'è dal cinese al brasiliano al nord africano ed

effettivamente per me è una cosa che è scontata e la vedo anche come un segno che Milano è

anche un'attrazione per gli altri popoli anche da un punto di vista lavorativo e poi la maggior

parte delle persone che sono qui sono persone molto semplici che non hanno pregiudizi che

stanno bene e che non hanno alcun tipo di problema.” Maura

Le elevate competenze interculturali sviluppate da questo tipo di cittadini/e fa della loro

partecipazione sociale un processo dinamico e sempre rivolto all’esterno del quartiere (e della città).

Di frequente sono coinvolti in attività sociali politiche e culturali su base tanto di quartiere che

cittadina.

“…Scrivo per un giornale locale finanziato dalla giunta del PD di zona e questo giornale

esce ogni 2 mesi si chiama " noi di zona 2" e io scrivo lì di letteratura attinente a questa zona

nel senso che vado un po’ a documentarmi e vedere quali scrittori hanno parlato un po’ di

questa parte di Milano…” Maura

“…faccio politica da quando ho 15 anni, praticamente, mi sono iscritto… a sinistra critica,

poi un collettivo di rifondazione comunista e poi sono uscito da rifondazione comunista,

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sinistra critica poi è stata sciolta adesso faccio parte della rete nazionale comune, da quando

ho 17 anni mi occupo di questioni LGBTIQ…” Mattia

Il carattere multiculturale del quartiere è anche l’elemento che più di ogni altro alimenta il senso di

appartenenza, molto forte, al quartiere stesso. Questa viene, infatti, orgogliosamente rivendicata come

una caratteristica europea che lo connota differentemente dal resto della città. L’orizzonte di questo

modello di cittadinanza è, quindi, contemporaneamente quello locale e quello europeo: locale in

quanto è al livello micro di quartiere che si sviluppano tanto il senso di appartenenza quanto la

partecipazione sociale e politica, spesso molto attiva e dinamica; europeo poiché è la direzione nella

quale questo tipo di cittadinanza guarda e si riconosce immediatamente dopo la dimensione di

quartiere (bypassando completamente la dimensione nazionale).

“Proprio per alcune considerazioni che possiamo fare, la vedo un po’ come… non dico

l’unica zona, però la zona che veramente identifica Milano come una città europea. […] Sono

comunque le città importanti che creano occasioni di cultura e occasioni di crescita. Quindi,

ci deve passare anche Milano. Sicuramente più lentamente, molti anni dopo, però in

prospettiva ci deve passare anche Milano. E in particolare credo che questa zona abbia tutto

da guadagnare.” Marco

“…è una zona che mi appartiene. Che sento mia, che sento vicina. Nonostante io su Milano

abbia lavorato in zone completamente diverse: un po’ più… fighette, no? Che in qualche

modo possono attirarti perché hanno più cose cool da fare ma questo quartiere che è un

quartiere popolare, dove puoi trovare la bottega, il negoziante ancora vecchio stampo,

secondo me ha il suo fascino. E poi c’è una diversità dove, io, per il mio aspetto fisico, per il

mio colore della pelle, posso mimetizzarmi. […] E quindi io la sento mia questa zona.”

Wanyika

Nonostante il marcato senso di appartenenza sopramenzionato, in questo modello non si riscontrano

dimensioni comunitarie o associative forti, ma una considerevole capacità dei singoli di essere

coinvolti in legami deboli. Questo, se da una parte garantisce una notevole capacità adattiva, dall’altro

non fornisce reti di solidarietà in grado di fornire un supporto effettivo.

3. Cittadinanza urbana auto-emarginante

Questo modello è caratterizzato da bassi livelli di partecipazione e da un approccio formalmente

tollerante nei confronti della diversità urbana. I profili di persone identificabili in questo modello

sono meno differenziati rispetto a quelli del precedente e generalmente si tratta persone dai 50 anni

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in su, italiane per ascendenza, talvolta immigrati interni, appartenenti a una classe sociale media o

medio-alta.

Sebbene la partecipazione in attività sociali, culturali e politiche sia molto bassa, se non inesistente,

questa categoria di persone ha risorse materiali e culturali tali per cui l’inattivismo sociale non si

traduce in isolamento, ma piuttosto in un basso livello di coinvolgimento e di senso di appartenenza

al quartiere. Questo, in particolare, è legato soprattutto all’anzianità di residenza nel quartiere: più

che di senso di appartenenza si può parlare in questo caso di attaccamento emotivo al passato.

“Sono 22 anni che vivo in questa casa però io da quando sono a Milano ho sempre vissuto, e

per questo mi ci sono affezionato, in questa zona qua, cioè allargando un po' la... passando

vicino piazzale Loreto e dintorni ecco...”

Giacomo

L’utilizzo degli spazi pubblici rimane legato ad attività individuali o di coppia e non si manifesta in

nessuna forma associativa formale, né informale.

In generale, i rapporti con i vicini, anche i più prossimi e ritenuti amici, sono improntati a un

mantenimento di relazioni civili e impersonali, che si limitano al rispetto e alla discrezione reciproca.

La relativa familiarità con la diversità urbana, dovuta alla quotidiana convivenza, talvolta forzata,

con essa, si traduce in una formale tolleranza e in un atteggiamento che ricorda quelle che Anderson

(2015) definisce civilty practices. La capacità di mantenere rapporti civili in un contesto fortemente

differenziato è basata, per questa categoria di persone, sulla limitazione dei contatti e sulla

dislocazione delle attività ricreative al di fuori del contesto del quartiere.

“No la frequentazione rimane qui, non sfocia in altri ambiti, o vacanze o passeggiate no no...

cioè rispettiamo ognuno... c'è molta amicizia ma c'è anche molta attenzione verso l'altro, le

sue esigenze, le sue diversità perché altrimenti non sarebbe amicizia...” Flavia

“Amici è difficile dirlo…perché avere un amico non è facile, però abbiamo buoni rapporti

con tutti nella casa e buoni rapporto con le persone che si trovano fuori, ci fermiamo a fare

la chiacchierata, abbiamo buoni rapporti.

All’interno del condominio e anche all'esterno.” Giulia

“Sì ci sono... diciamo non è che gente che... oddio ovviamente c'è sempre qualcuno che non

ti piace, una questione di pelle di comportamenti non è che sia... però non in un modo tale

da dire o porca miseria lo metterei fuori alla porta...” Giacomo

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Se questo da una parte garantisce bassi livelli di conflitto e una relativa vivibilità del quartiere,

dall’altra non fornisce delle reti di supporto effettivo sulle quali poter contare in caso di necessità, e

può anche risultare in una limitazione e in un indebolimento della capacità di accesso ai servizi forniti

dall’amministrazione pubblica e dalla società civile.

Una delle motivazioni della scarsa partecipazione sociale è la sensazione di non avere punti in comune

con gli altri abitanti del quartiere. Questo non è dovuto tanto alle differenze culturali o di origine,

quanto a stili e fasi della vita differenti.

“Avevi un collegamento. Cioè il collegamento di due bambini e poi ragazzi e questo ti

portava a uscire dalle tue mura di casa e invece adesso non abbiamo più questa cosa” Flavia

“Era come quando uno ha il cane, uno ha il cane va a portare il cane al parco e conosce le

persone di tutte le età che stanno facendo la stessa cosa e così è coi figli, li portavi al parco

o alla scuola e conoscevi le persone e questo mi portava più a interagire con la comunità che

avevo intorno...” Giacomo

Al contempo causa ed effetto della bassissima partecipazione sembra essere anche una generale

sfiducia nell’amministrazione pubblica (indifferentemente dal colore politico) e nel contesto sociale

in cui sono calati: la sensazione di abbandono da parte delle istituzioni e la percezione del ruolo

periferico e marginale del quartiere spingono in basso aspettative e speranze di miglioramento.

“No, sono totalmente sfiduciato [rispetto alle istituzioni pubbliche N.d.R.]. Può scrivere

"totalmente sfiduciato"!” Giacomo

“Beh ci sarebbero le strade soprattutto, i marciapiedi perché sono proprio trascurati, nella

nostra zona sono proprio trascurati. Cioè qui l’amministrazione potrebbe migliorare un

momentino, venire a vedere controllare, ma come le ripeto, le periferie qui a Milano.... No!”

Giulia

In sintesi, questo è un modello di pratiche di cittadinanza che evidenzia dei punti di debolezza e delle

possibili sacche di vulnerabilità: l’età dei rispondenti, la loro relativamente scarsa rete di relazioni

mista a una bassa capacità (o volontà) di accedere alle iniziative implementate dagli attori pubblici e

non, fa emergere la possibilità non remota che gli equilibri di cui gode oggi questa fascia di

popolazione possano venire meno in un futuro prossimo. Quello che oggi non è un isolamento vero

e proprio, potrebbe diventarlo presto con la progressiva erosione di quelle risorse materiali e

simboliche di menzionate in precedenza.

4. Cittadinanza urbana sospesa

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Il quarto ed ultimo modello è quello più problematico in quanto è caratterizzato da isolamento e

condizioni di vita precarie. La principale categoria di persone individuabile in questo modello è

quella degli immigrati internazionali arrivati da relativamente poco tempo in Italia (fino a tre anni),

con bassi livelli di scolarizzazione e di specializzazione lavorativa. La prima barriera di accesso alla

partecipazione è quella linguistica. Le scarsissima, se non nulla, conoscenza dell’italiano limita in

maniera drastica le loro possibilità di interazione sociale, e quindi anche le possibilità lavorative, nel

contesto di arrivo8. Questo isolamento è vissuto in maniera diversa da uomini e donne. Per i primi

generalmente la necessità impellente di lavorare è un fattore che accelera l’apprendimento e favorisce

i contatti con gli italiani, per cui la fase di completo isolamento può durare relativamente poco.

Acquisire competenze linguistiche basilari in grado di inserirli nelle fasce lavorative più umili non

significa però avere la capacità di interagire in contesti sociali extra lavorativi né riuscire ad accedere

facilmente a diritti (servizi, iniziative mirate, sostegni pubblici ecc.) o di riuscire ad adempiere

autonomamente ai propri doveri (ad esempio nello svolgimenti di pratiche burocratiche).

“Ho diciotto anni, sono arrivato qui da otto mesi, sto da mio zio qui abito con lui. Ancora

non ho trovato lavoro perché…. Anche la lingua… Ma anche perché non ce l’ho ancora i

documenti...” Baasim

“Sì sì, li ho fatti in poco tempo [gli amici] però parla italiano. Ho studiato due volte qui (corso

di italiano N.d.R.), quando ho trovato loro, per parlare con loro, per cercare lavoro, ma

anche per sentire loro... e così...”

Baasim

“I: come sono le persone che vivono qui?

hmmm non lo so perchè non esco tanto

[…]

I: vieni mai qui al parco?

hmm…Sì, vengo solo.” Rizaldo

Per le donne è più comune rispetto agli uomini arrivare in Italia a seguito di ricongiungimenti

familiari, o comunque accompagnate da marito, padre o altri tipi di legami familiari. Una volta in

Italia le difficoltà nel trovare lavoro sono spesso affiancate a modelli familiari tradizionali che

accettano di buon grado, se non favoriscono laddove possibile, il fatto che la donna si dedichi

8 Questa difficoltà è stata riscontrata anche nella conduzione delle interviste. Per superare questo ostacolo in

una delle interviste condotte per questa ricerca mi sono avvalsa della preziosa collaborazione di una

rilevatrice con competenze linguistiche in lingua Araba, Sarissa Napolitano (Università di Urbino).

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principalmente alla cura di casa e figli. Questa condizione limita in maniera drastica le possibilità di

apprendimento della lingua e, conseguentemente, di partecipazione di queste persone. La condizione

di isolamento può dunque permanere per molto più tempo, se non rimanere tale per tutta la vita.

“Mio marito lavora a Milano, parla la lingua italiana molto bene.

I: Con te non parla mai italiano?

R: No. Solo arabo.” Arwa9

Sia per gli uomini che per le donne, uno dei modi più semplici per superare queste difficoltà iniziali

è quello di relazionarsi principalmente a connazionali, raramente organizzati in associazioni o realtà

comunitarie che restano comunque di dimensioni micro. Questa può diventare un’arma a doppio

taglio perché fonte di ulteriore isolamento e barriere alla partecipazione.

“Nel giardino. Nel parco della scuola ho conosciuto delle amiche.

I: E chi sono le persone che hai conosciuto nel giardino?

Vengono dall’Egitto, sono egiziane. Le ho conosciute qui. Sono mamme di altri bambini che

vanno a scuola qui.” Arwa10

Portatori di quella che Sayad (2002) chiama la doppia assenza, queste persone non appartengono più

al contesto di origine e non sentono ancora nessun legame con quello di arrivo. Talvolta la condizione

abitativa e di vita presente è vissuta come temporanea, e questo limita ancora di più la partecipazione

e di conseguenza la creazione di legami con il contesto. Qualsiasi pratica di cittadinanza viene

sospesa, in attesa di un cambiamento. La condizione di isolamento ovviamente limita la possibilità

di accedere a quei diritti formali e informali che permetterebbe loro, almeno in parte, di migliorare le

loro condizioni di vita, cosa che rende questa fascia di popolazione estremamente vulnerabile.

Conclusioni

Public policies e iniziative civili: quale peso sulle pratiche di cittadinanza?

I quattro modelli sopra descritti sono influenzati e condizionati dal contesto di policy in cui sono

calati. Banalmente, la presenza o l’assenza di iniziative di policy mirate a un certo target, a una certa

problematica o a una certa intersezione di caratteristiche può influenzare in maniera decisiva pratiche

e modelli partecipativi. Un importante fattore, nella valutazione dell’influenza delle azioni di policy,

è il grado di consapevolezza e coinvolgimento della popolazione nelle iniziative – che, visto da un

9 Intervista tradotta dall’Arabo 10 Come sopra

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altro punto di vista, vale a dire il livello di efficacia delle iniziative nel raggiungere il loro target di

riferimento. Anche quando queste due dimensioni hanno esiti positivi, comunque, l’implementazione

delle iniziative può avere effetti collaterali, imprevisti, che possono influire sia positivamente che

negativamente sulle pratiche di cittadinanza.

Innanzitutto da quanto detto finora emerge un particolare sbilanciamento fra l’azione pubblica e

quella delle associazioni civili. In altre parole, il peso e l’efficacia del lavoro implementato dalle

associazioni presenti sul territorio nell’influenzare positivamente pratiche e modelli partecipativi di

cittadinanza, sono molto maggiori rispetto a quelli delle azioni implementate dal pubblico. La

vicinanza ai bisogni della popolazione e il dialogo diretto con questa tramite azioni estremamente

micro sono il punto di forza di questo tipo di azioni che riescono a rispondere a bisogni specifici,

sopperendo talvolta a mancanze del pubblico.

Un esempio di ciò è il ruolo che l’associazione ONLUS attiva nel parco che ospita la scuola del

quartiere ha nel creare spazi (sociali e fisici) di incontro, menzionati in relazione al primo modello di

cittadinanza. D’altro canto, però, le stesse iniziative micro e bottom-up di questa associazione, che

nella maggior parte dei casi sono rivolte ai bambini, hanno un effetto escludente per ampie fasce di

popolazione, risultando in una sorta di appropriazione di uno spazio pubblico da parte di una piccola

comunità. Questo, se alimenta la coesione e la solidarietà inter-gruppo, contemporaneamente può

alimentare forme di tensione e conflitto sociale verso l’esterno, difficilmente gestibili da parte di

associazioni operanti al livello micro.

Dal versante opposto, un accumularsi di iniziative pubbliche su scala cittadina riguardanti

l‘immigrazione (un esempio: l’immigration center), non riescono a raggiungere la popolazione target

di riferimento lasciando aperti i problemi di isolamento e di esclusione dalla partecipazione sociale

della parte più bisognosa e vulnerabile della popolazione immigrata.

Fra azioni pubbliche inefficaci e iniziative civili criticamente influenti, si posiziona un’area grigia di

nonpolicy, che suscita sfiducia e senso di abbandono in una fascia consistente di popolazione, come

si è discusso nella presentazione del terzo modello di cittadinanza. In un contesto estremamente

diversificato come quello del quartiere preso in analisi, possedere competenze sociali interculturali e

dinamiche è un elemento fondamentale alla partecipazione, che se manca può generare parziale

isolamento e vulnerabilità. Non a caso, il secondo modello di cittadinanza di cui si è parlato è l’unico

nel quale ha spazio la partecipazione politica in ottica micro-macro, capace cioè di fare da ponte fra

esigenze particolari e contesto generale. Anche qui, però, le competenze e le potenzialità di una

generazione nata e cresciuta nella diversità non vengono adeguatamente sostenute e supportate da

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azioni di policy mirate, correndo il rischio di alimentare gli effetti negativi più che quelli positivi

della diversità urbana.

In conclusione, il punto debole delle azioni di policy implementate nel contesto in analisi sembra

essere l’assenza di linee guida generali che strutturino l’azione pubblica e quella della società civile

in un’ottica di integrazione efficace ed efficiente. Anche se sono presenti delle forme di

collaborazione e supporto fra l’amministrazione e le associazioni operanti sul territorio, le iniziative

implementate risultano frammentate, la loro continuità minacciata dalla insicurezza del supporto

finanziario. In questo modo, anche se l’aspetto micro e grassroots delle iniziative è un punto di forza

che permette di fronteggiare le reali esigenze della popolazione, la mancanza di coordinazione degli

interventi in un’ottica più ampia lascia scoperti degli ambiti di intervento importanti che possono in

questo modo produrre effetti perversi.

I quattro modelli di cittadinanza presentati, con il loro portato di pratiche partecipative, di diverse

costruzioni del senso di appartenenza e diversi livelli di accessibilità a diritti e doveri, suggeriscono

altrettanti target di riferimento delle azioni di policy, con diverse esigenze e vulnerabilità. Adottare

un’ottica integrata e una linea di policy comune è necessario alla valorizzazione e allo sviluppo delle

potenzialità di un contesto altamente diversificato come quello analizzato, che altrimenti può

facilmente alimentare sacche di marginalità, rischio e bisogno sociale.

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