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243 Il 1 maggio del 1990, nel corso di una grande manifesta- zione indetta in un teatro di Milano per celebrare il cente- nario dellistituzione della Festa dei Lavoratori, il Presi- dente della Repubblica Francesco Cossiga 1 pronunciava un discorso di grande apertura politico-culturale e di straor- dinaria valenza sociale. Destinato ad avere una grande e positiva eco negli ambienti politici, sindacali e dellinfor- mazione di tutto il Paese. Vedere riconosciuto alla classe lavoratrice il ruolo dessere «classe generale» nella strut- tura sociale del Paese e, soprattutto, dessere divenuta garante, insieme alle altre istituzioni della Repubblica, della democrazia e dellordine costituzionale del nostro Stato, era certamente un apprezzamento pubblico di notevole portata. Si trattava infatti dun riconoscimento che andava ben al di l del semplice aspetto celebrativo. Con il suo discorso il Presidente Cossiga aveva liberato la classe lavoratrice da quel ruolo di subalternit sociale e di sovversivismo classista che le era stato attribuito da gran parte della cultura conservatrice e codina del Paese. Ed aveva ricono- sciuto ai lavoratori quel ruolo di centralit sociale, nella difesa dellordine democratico, per cui lottavano da oltre un secolo. Il fatto, poi, che quel riconoscimento fosse venuto dalla massima autorit dello Stato, allinterno di un discorso ufficiale di alto contenuto intellettuale (certamente il piø socialmente e politicamente ispirato del settennato dello statista sassarese), aggiungeva ancora maggiore valenza politica. Si L ritenuto di ricordare questo evento proprio perchØ in esso aveva trovato consacrazione ufficiale lideologia sin- dacale che la CISL, per prima, aveva proposto ai lavora- CAPITOLO 10 La CISL sarda/6: dalla concertazione politica al patto tra i sardi tori del Paese fin dal maggio del 1950. Dando vita ad una libera organizzazione di lavoratori che, andando ben ol- tre la lotta e la contrapposizione di classe, si facesse cari- co, nella difesa della democrazia repubblicana, delle sorti generali del Paese, per far conseguire un miglior benes- sere allintera comunit nazionale 2 . Per meglio inquadrare il peso di quel discorso, non biso- gna dimenticare che era stato pronunciato allindomani di profonde mutazioni che avevano interessato il conte- sto internazionale e nazionale. Lanno prima (1989) era caduto il muro di Berlino, provocando la fine del mondo del cosiddetto «socialismo reale». La scomposizione avve- nuta nelle tante repubbliche dellURSS, tenute insieme dal collante della dittatura comunista, aveva annullato quel- lo che veniva chiamato «lo spirito di Yalta», cioL la divi- sione (politica, economica e militare) del mondo in due blocchi contrapposti. Tutto questo aveva avuto incidenza sulla situazione in- terna italiana, ove aveva operato il piø forte partito co- munista dellOccidente e dove il fronte opposto aveva trat- to una forte valenza elettorale dallopzione anticomuni- sta. Infatti nel marzo di quello stesso 1990 Achille Oc- chetto aveva proposto al congresso del PCI 3 di abbando- nare il vecchio nome e di avvicinarsi ideologicamente alla sinistra progressista dei Paesi occidentali. Anche il leader sindacale Bruno Trentin aveva annunciato il graduale scio- glimento della corrente comunista allinterno della CGIL 4 . Gli stessi simboli storici del proletariato rosso la falce ed il martello sembravano essere divenuti anacronistici in una societ di pochi contadini che non usavano piø la falce e di operai che il martello avevano sostituito con i robot. «Pu un partito avere come simbolo due strumen-

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Il 1° maggio del 1990, nel corso di una grande manifesta-zione indetta in un teatro di Milano per celebrare il cente-nario dell�istituzione della Festa dei Lavoratori, il Presi-dente della Repubblica Francesco Cossiga1 pronunciava undiscorso di grande apertura politico-culturale e di straor-dinaria valenza sociale. Destinato ad avere una grande epositiva eco negli ambienti politici, sindacali e dell�infor-mazione di tutto il Paese. Vedere riconosciuto alla classelavoratrice il ruolo d�essere «classe generale» nella strut-tura sociale del Paese e, soprattutto, d�essere divenutagarante, insieme alle altre istituzioni della Repubblica, dellademocrazia e dell�ordine costituzionale del nostro Stato,era certamente un apprezzamento pubblico di notevoleportata.Si trattava infatti d�un riconoscimento che andava ben aldi là del semplice aspetto celebrativo. Con il suo discorsoil Presidente Cossiga aveva liberato la classe lavoratriceda quel ruolo di subalternità sociale e di sovversivismoclassista che le era stato attribuito da gran parte dellacultura conservatrice e codina del Paese. Ed aveva ricono-sciuto ai lavoratori quel ruolo di centralità sociale, nelladifesa dell�ordine democratico, per cui lottavano da oltreun secolo.Il fatto, poi, che quel riconoscimento fosse venuto dallamassima autorità dello Stato, all�interno di un discorsoufficiale di alto contenuto intellettuale (certamente il piùsocialmente e politicamente ispirato del settennato dellostatista sassarese), aggiungeva ancora maggiore valenzapolitica.Si è ritenuto di ricordare questo evento proprio perché inesso aveva trovato consacrazione ufficiale l�ideologia sin-dacale che la CISL, per prima, aveva proposto ai lavora-

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tori del Paese fin dal maggio del 1950. Dando vita ad unalibera organizzazione di lavoratori che, andando ben ol-tre la lotta e la contrapposizione di classe, si facesse cari-co, nella difesa della democrazia repubblicana, delle sorti�generali� del Paese, per far conseguire un miglior benes-sere all�intera comunità nazionale2.Per meglio inquadrare il peso di quel discorso, non biso-gna dimenticare che era stato pronunciato all�indomanidi profonde mutazioni che avevano interessato il conte-sto internazionale e nazionale. L�anno prima (1989) era�caduto� il muro di Berlino, provocando la fine del mondodel cosiddetto «socialismo reale». La scomposizione avve-nuta nelle tante repubbliche dell�URSS, tenute insieme dalcollante della dittatura comunista, aveva annullato quel-lo che veniva chiamato «lo spirito di Yalta», cioè la divi-sione (politica, economica e militare) del mondo in dueblocchi contrapposti.Tutto questo aveva avuto incidenza sulla situazione in-terna italiana, ove aveva operato il più forte partito co-munista dell�Occidente e dove il fronte opposto aveva trat-to una forte valenza elettorale dall�opzione anticomuni-sta. Infatti nel marzo di quello stesso 1990 Achille Oc-chetto aveva proposto al congresso del PCI3 di abbando-nare il vecchio nome e di avvicinarsi ideologicamente allasinistra progressista dei Paesi occidentali. Anche il leadersindacale Bruno Trentin aveva annunciato il graduale scio-glimento della corrente �comunista� all�interno della CGIL4.Gli stessi simboli storici del proletariato rosso � la falce edil martello � sembravano essere divenuti anacronistici inuna società di pochi contadini che non usavano più lafalce e di operai che il martello avevano sostituito con irobot. «Può un partito avere come simbolo due strumen-

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ti ormai obsoleti che non sono più simbolo di nulla?»,s�era domandato un giovane iscritto scrivendo al giorna-le comunista, l�Unità. Lo stesso termine �socialdemocra-tico� � in passato utilizzato come insulto quasi al pari di�fascista� � ora era divenuto l�aggettivo più utilizzato perdefinire la nuova politica del PDS di Occhetto che, con ildissolvimento del mito sovietico, intendeva ispirarsi ai va-lori della socialdemocrazia tedesca o del New Labour bri-tannico di Tony Blair. E molti leader di quello che era sta-to il partito più antiamericano dell�Occidente si ispirava-no senza imbarazzo alcuno agli ideali liberal dell�Americakennediana della �nuova frontiera�.Venuto meno quel �fattore K� con cui i politologi indica-vano la pregiudiziale comunista nelle alleanze di gover-no, e caduto il baluardo che gli si ergeva contro, era statonecessario comporre un «altro mosaico, un altro atlantedelle affinità e delle differenze», provando a smantellarequella rigidità del sistema elettorale del Paese che avevavietato dal 1948 in avanti effettive alternanze tra le forzepolitiche al governo. La crisi dei vecchi partiti aveva col-pito anche gli stessi punti di riferimento dei sindacati che� per dirla con un osservatore attento come Sergio Turo-ne5. � sembravano aver perduto «i rapporti di comoda�cuginanza� con i partiti politici».La consacrazione cossighiana di garante della democra-zia, ottenuta dal movimento sindacale, era divenuta tale,nel momento dei grandi cambiamenti, da far assumerealle confederazioni un ruolo centrale per riuscire a porta-re il Paese fuori dalla confusione, difendendolo anche dal-le forze disgregatrici (come i fenomeni leghisti nel Nord)che sembravano mettere in discussione la stessa unità delPaese.

In Sardegna, al contrario, le elezioni regionali del giugno1989 avevano fatto registrare un forte ridimensionamentodel partito dei Quattro Mori che, unitamente al contem-poraneo calo del PCI, aveva posto fine all�esperienza dellegiunte �di sinistra�, con un ritorno al classico centro-sini-stra guidato in successione da esponenti della DC (MarioFloris) e del PSI (Antonello Cabras). Il voto elettorale ave-va infatti giudicato negativamente l�esperienza di gover-no dei rosso-mori, dimostratisi incapace di affrontare effi-cacemente la grave crisi recessiva attraversata dall�eco-nomia isolana.Ma era tutta la società economica nazionale ad apparire,in quell�alba dell�ultimo decennio del secolo e del secondomillennio, profondamente mortificata da una grave crisidi decelerazione (la crescita del PIL nazionale indicava unpericoloso rallentamento, essendo passata dal + 4 percento del 1988 al + 1,6 del 1990)6. Soprattutto il rallen-tamento della domanda interna aveva portato all�inter-ruzione di una tendenza espansiva dell�industria che du-rava ormai fin dal 1983, con una perdita occupativa didiverse centinaia di migliaia d�unità (esattamente 850mila). La perdita di produttività oraria del lavoro italiano(rispetto a quello dei paesi dell�Unione europea e di quelliindustrializzati)7 poneva il sistema produttivo italiano difronte a grossi problemi di razionalizzazione e di ottimiz-zazione per tenere il passo della competitività internazio-nale.Questi processi avrebbero influito a cambiare ancor più«il lavoro», cioè il modo di lavorare. Si andava abbando-nando quasi dovunque il taylor-fordismo � di cui il celebrefilm di Charles Chaplin Tempi moderni ci ha lasciato unavisione caricaturale indimenticabile e su cui s�era costru-

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ita nei decenni precedenti la �cultura� della fabbrica � percostruire processi lavorativi sempre più diversificati performe, modalità, tempi e rapporti. Un lavoro, come os-servano i sociologi, che richiedeva sempre più qualità esempre meno fatica, perdendo molte di quelle caratteri-stiche di work-labour per divenire sempre piùwork-activi-ty8. Queste trasformazioni trovavano peraltro il loro latonegativo nel minor tasso di occupazione per via di pro-cessi produttivi sempre più �robotizzati� e in fabbrichesempre più �snelle�. Dagli anni del Lavoro � per parafra-sare un noto saggio di Aris Accornero � sembrava si do-vesse entrare in quelli dei lavori e, soprattutto, del nonlavoro (visto l�accentuarsi di quelle caratteristiche negati-ve che, nel panorama sardo, potrebbero chiamarsi «inoc-cupazione ed emigrazione»).In questo scenario di grandi trasformazioni, la «classeoperaia», marxianamente intesa, aveva definitivamenteperso le caratteristiche del passato; sembrava essere di-venuta, in un processo di progressivo imborghesimento,quella classe «generale» di cui aveva parlato il PresidenteCossiga.Distanziandosi da quell�impostazione, lo storico SilvioLanaro � intellettualmente vicino alla sinistra socialista� così ne ha scritto nella sua �Storia dell�Italia Repubbli-cana�:

Anzitutto sono scomparse le classi generali. Parlare di bor-ghesia � se era già arduo prima � diventa assurdo quandoun�inflazione prolungata sposta quote gigantesche di ric-chezza da una mano all�altra, eccita all�individualismodifensivo, rinsalda le trincee della famiglia attraverso lacorsa agli investimenti immobiliari e degrada ad attesa

di indicizzazione ogni idea di miglioramento e di pro-gresso.A partire dal 1969 la stessa classe operaia va cambiandovolto. Imbaldanzita dai successi, sospinta dagli aumentisalariali verso stili di vita e consumi pseudo-opulenti �chi non ricorda i soprammobili che troneggiano nel sog-giorno proletario de La classe operaia va in paradiso diElio Petri? � essa si è gettata dietro le spalle ogni etica dellavoro per inseguire sempre più spesso un reddito sgancia-to dalla prestazione. Il socialismo non è più un risarci-mento: è diventato il regno di un egualitarismo dominatodalla legge delle aspettative crescenti e dal dogma dellarigidità delle retribuzioni verso il basso. Fomentati dallefollie della nuova sinistra i lavoratori più giovani ed irre-quieti miscelano addirittura ideologismi pararivoluzio-nari e adesione entusiastica ai feticci più clamorosi dellascena capitalistica, assiomi operaistici e imprestiti cultu-rali di tutt�altro segno9.

Su molte di queste osservazioni può anche non trovarsiconsenso, ma è certo che il contesto sociale su cui dove-vano operare le organizzazioni sindacali era profonda-mente cambiato. Diranno i sociologi che il movimentosindacale italiano, contrariamente a quel che era occorsoal momento della sua nascita e della sua affermazione, sitrovava ora ad operare «in un contesto sociale di ricchez-za»10. Per cui anche le confederazioni si erano trovate adover «abbandonare l�etica della miseria vissuta comevalore», per ricercare consenso e valenza interpretando leforti diseguaglianze, e le troppe incertezze, che accompa-gnano questa crescita del benessere. «L�espansione econo-mica � ha scritto il francese André Gorz11 � non ha porta-

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to né maggiore equità né maggiore serenità e gioia di vi-vere». L�emotività data dalle lotte dei lavoratori contro losfruttamento dell�uomo con il lavoro in fabbrica (spessomal pagato, talvolta anche mortificante sul piano uma-no) si andava modificando in una nuova emotività, quel-la dell�impegno dei sindacati per vincere la battaglia con-tro il non-lavoro, divenuto il morbo socialmente più dan-noso della società degli anni Novanta.Sarebbe stata questo dell�inoccupazione-disoccupazioneil punto centrale (la �nuova frontiera�) della battaglia so-ciale del sindacato sardo (e della CISL sarda in particola-re). Proprio perché nei decenni precedenti, e soprattuttonegli anni Settanta ed Ottanta, era riuscito a conquistarsiuna funzione di grande rilevanza sociale (spesso anche divera e propria supplenza nei confronti delle forze politi-che), proprio per le profonde diversità che fare sindacatoin Sardegna comportava con il fare sindacato nelle regio-ni del Norditalia12.Forse perché il sindacato (nel nostro caso la CISL sarda)era stato più pronto degli stessi partiti politici ad avverti-re i profondi cambiamenti avvenuti nel corpo sociale del-l�isola, ed a farsi carico delle necessità di promuovere svi-luppo. Aveva preso coscienza della disgregazione socialeche sembrava dover sboccare in una sorta di ribellismoantistatuale od anche in forme di asocialità integrale e diideologia eversiva spesso ridotta a soli slogan �gridati�13.La dirigenza regionale della CISL aveva avvertito la peri-colosità politica insita in quelle fughe �in avanti� (comequelle d�un separatismo/indipendentismo o del formarsidei Cobas, i comitati di base) e, soprattutto, dell�avventu-rismo insito in quell�ansia �del nuovo� che circolava ingiro e che spesso nascondeva vuoti profondi. Era divenu-

ta anche consapevole dell�avvenuto passaggio, in econo-mia, da uno sviluppo �largo e per tutti� ad uno molto�ristretto� ed estremamente selettivo.Forse questa sensibilità che la CISL sarda aveva maturatoin sé nasceva dai ripetuti travagli interni, proprio perchéaveva vissuto direttamente le discontinuità e le contrap-posizioni circolate nella società regionale. L�organizzazio-ne cislina ne era uscita anche arricchita, pur se taluneasprezze della dialettica avrebbero portato a dolorose se-parazioni e defezioni. In questo la CISL appare, alla lucedei documenti e delle testimonianze reperibili, molto piùattenta ed aperta alle problematiche isolane delle altre si-gle sindacali. In effetti, le dialettiche apertesi al suo inter-no per �ridiscutere� lo stesso ruolo dell�organizzazione deilavoratori alla luce dei cambiamenti avvenuti nella socie-tà sarda, ed ancora per �riformare� le modalità del dialogocon le forze politiche e con le rappresentanze imprendito-riali, o per riuscire a cogliere e ad interpretare i tanti fer-menti apertisi all�interno della condizione lavorativa dellecomunità locali dell�isola, non sono altro che segni di unavivacità �democratica� che rimane una positiva peculiari-tà della CISL sarda.Anche la stessa efficacia della �reale forza� delle azionimessein campo dal movimento sindacale regionale nell�affron-tare le diverse congiunture attraversate dall�isola, è sem-pre stata oggetto di dubbi, confronti ed anche di travaglinon solo dialettici all�interno degli organi dirigenti del sin-dacato �democratico�. Talvolta deviazioni personalistiche(fortunatamente assai rare) avrebbero portato anche adatteggiamenti critici ingenerosi se non proprio ingiusti.Tutti segni di quella libera circolazione di idee che avrebbecaratterizzato in positivo l�intera storia della CISL sarda.

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Gli stessi segnali sarebbe ben difficile coglierli altrove.Ad esempio, un sindacalista �storico� della CGIL sarda comeDaverio Giovannetti14 in un libro di memorie pubblicatodi recente, tende a mitizzare acriticamente le lotte ed isuccessi della sua monolitica organizzazione, senza porsidubbi o perplessità sull�efficacia degli indirizzi nel tempoperseguiti, ed imputando solo agli altri gli errori com-messi e le sconfitte subite.Questamanifesta problematicità �culturale� all�interno delgruppo dirigente della CISL sarda ne rappresenta una va-lenza oltremodo significativa. Proprio perché il succederedegli atteggiamenti assunti via via dal sindacato non puòche essere collocato, e correttamente interpretato, dentrole differenti derive culturali e sociali dell�ambiente umanoin cui quegli eventi sono stati vissuti. Per questo, ed an-che per questo, questa ricostruzione ha assunto talvoltapiù l�aspetto dell�interpretazione dei fatti che quello delracconto cronachisticamente accurato. Così le tensioni, inodi e le inquietudini vissute negli anni dalla CISL sardahanno trovato, fin qui, un�attenzione che spesso è anda-ta anche al di là della loro effettiva consistenza quantita-tiva. Ma esse, nel loro dipanarsi, hanno permesso di farciincontrare un�organizzazione viva, estremamente liberae dinamica nei suoi comportamenti, mai prigioniera dilegami o di steccati ideologici o confessionali.Forse, queste eccessive disponibilità verso le tensioni e gliumori �esterni� non sempre ne avrebbero rappresentatouna forza, tanto da avere determinato molte delle con-traddizioni e dei contrasti interni. Nessun altro sindacato(nè la CGIL nè tampoco la UIL) avrebbe �vissuto� come laCISL i travagli di quell�extrasindacalismo infiltratosi neinuovi nuclei operai nel 1968-69, nè ancora quelli origi-

nati dalle velleità separatiste del decennio successivo. Era-no aspetti di un radicalismo classista, per certi versi an-che d�intonazione rivoluzionaria, del tutto estraneo al-l�ideologia delle industrial relations ed a quella coscienzasolidaristica su cui Pastore e Romani avevano edificato ilsindacato democratico. Letta da quest�angolazione l�espe-rienza della CISL sarda appare quindi ancor più originale,e convalida quell�immagine d�essere stata sempre, nel benee nel male, uno specchio fedele della società isolana (con isuoi difetti, le sue contraddizioni, le sue fragilità ed anchele sue virtù).Non è questa, si badi bene, una valutazione del tutto po-sitiva, perché avrebbe comportato il pericolo (non del tuttoevitato) d�un allineamento dell�azione sindacale su quelleche erano le chiusure di molta società regionale nell�af-frontare la modernità del futuro.C�è poi dietro l�angolo, un altro aspetto che merita di es-sere affrontato per una corretta interpretazione dell�espe-rienza CISL nell�isola. Ed è quello che le assegnerebbe unruolo subordinato nei confronti della CGIL.Come se la CISL avesse sofferto del complesso del cadetto(o del secondo) in una famiglia sindacale in cui vigeva ilprimato della primogenitura. Tanto che anche le fughe inavanti (nelle lotte) o all�indietro (negli accordi con il pa-dronato), sono state lette � spesso tendenziosamente �come effetto di questo complesso. Ma, molto più spesso,si sarebbe parlato di un sindacato che avrebbe navigato �atraino�, più vagone che locomotore. Anche molta lettera-tura storica di casa nostra avrebbe fatto propria la tesi diquesta pretesa �dipendenza�.Eppure ci sono molti esempi che avvalorerebbero il con-trario. Dalle battaglie per le �gabbie salariali� a quelle per

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l�autonomia dai partiti e per l�abolizione delle marginali-tà territoriali; da quelle per l�affermazione dell�incompa-tibilità tra mandati politici e incarichi sindacali agli accor-di per la produttività aziendale e per gli interventi control�inoccupazione e l�insicurezza pubblica, vi è tutta unalunga casistica in cui l�azione della CISL avrebbe trascina-to dietro di sè � talvolta anche diffondendo lo stesso lessi-co per le rivendicazioni � le altre due confederazioni. An-che se per certi organi di informazione pareva rimasta laconvinzione che la CGIL fosse il sindacato (l�unico e ilvero movimento organizzato dei lavoratori). Tant�è cheassai raramente capitava di dover leggere il sindacato co-munista (anche quando il legame di cinghia di trasmissio-ne e di subordinazione operativa ed ideologica al PCI eraorganicamente provato), mentre per la CISL15 s�utilizze-ranno aggettivazioni improprie e le si attribuiranno erra-te sudditanze (con i partiti, con i padroni, ecc.).Non si intende comunque disconoscere che ci siano statianche esempi di segno contrario, proprio perché su alcu-ne vicende � come in quelle interessanti il bacino minera-rio � la CISL avrebbe sofferto dell�esuberanza ideologica,politica ed organizzativa della CGIL (e del PCI).Questa autonoma identità della CISL sembrerebbe deriva-re anche dalla sua interpretazione della �sardità�. Che laporterà, anche attraverso non facili passaggi, ad espri-mere forti diversità nei confronti delle altre due organiz-zazioni regionali ed anche delle originali differenze neiconfronti della stessa confederazione nazionale.In questo avrebbero avuto un�influenza ed un peso im-portanti gli ampi spazi di libertà interna sempre esistitinel sindacato e, soprattutto, l�assimilazione della culturanata attorno all�autonomia regionale. L�autonomia, con i

suoi valori del presente e le sue aspirazioni per il futuro,sarebbe stata sempre una componente importante nellaformazione di una cultura �originale� della CISL sarda.C�è certamente, in questa notazione su una �via sarda� alsindacato, come percorsa dalla CISL, una profonda veri-tà. Al di là della effettiva rilevanza delle esperienze fatte,quel che serve qui sottolineare � proprio per dare conte-nuti a quel raffronto � è la grande sensibilità dimostratadal sindacalismo democratico sardo nel collegarsi stretta-mente con la società che l�aveva espresso. Lo stesso di-staccarsi, fin dai primi anni, da strategie limitativamente�operaiste� (in una regione ove l�operaio in tuta era unamosca bianca) per diventare strumento associativo e so-lidaristico per l�avanzamento sociale delle comunità dilavoro locali (con il diffondere, anche attraverso il patro-nato, dei diritti del bracciante, del manovale, del giovaneapprendista, ecc.), avrebbe rappresentato un�originalitàcislina esemplarmente e correttamente intesa.In questo, l�esperienza �sarda� del sindacato nuovo avreb-be segnato profonde differenze da quella �continentale�.La stessa scelta d�una diffusione territoriale (attraverso leUnioni comunali) rappresenterà l�antitesi isolana al sin-dacato �verticale�, strutturato per categorie, nato per con-trastare e contenere l�egemonia del sindacalismo comu-nista nelle fabbriche.Rileggendo quindi l�intera esperienza sarda si potrebbeconcludere che sarebbe stato proprio il sindacato a creareil Lavoro (quello con l�iniziale maiuscola che lo nobilita),come viceversa era accaduto nelle regioni continentali delPaese.Nell�individuare questa �via sarda� nei comportamenti sin-dacali, ha avuto peraltro un�influenza notevole lo stesso

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Antonio Uda).

La delegazione sarda di CGIL-CISL-UILche ha partecipato a Milano allemanifestazioni sindacali per l�unità delPaese e contro la secessione voluta dalla

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impianto ideologico su cui era nata la CISL. Che era piùculturale (lavorare a fianco dei lavoratori per costruirenel nostro Paese l�ambiente sociale d�una democrazia in-dustriale moderna) che politico-partitico, come sostegnoad interessi elettorali che potevano risultare estranei almondo ed ai problemi del lavoratore.Da qui sarebbe scaturita una importante novità che sem-brerebbe essere stata poco considerata dagli osservatoridelle vicende sarde. Vi è infatti da rimarcare, come segnodistintivo di questo lungo itinerario compiuto dal sinda-cato CISL attraverso le leadership che l�hanno guidatoregionalmente (Lay, Pirarba, Uda e, oggi, Medde), l�affer-marsi del convincimento che solo attraverso l�innalza-mento delle condizioni generali dell�economia isolana � equindi attraverso un ruolo �interventista� del sindacatoper accelerare uno sviluppo �diffuso� � si potesse raggiun-gere l�auspicata emancipazione sociale del popolo sardo.Di qui proviene quella scelta di sindacato come «soggettopolitico», che la CISL sarda sposerà fin dall�inizio comemodello del proprio operare all�interno della società re-gionale. In quella visione �orizzontale� dei problemi dei la-voratori che è l�essenza stessa d�una politica sindacale voltaall�emancipazione �civile� dell�intera comunità regionale.L�elenco di questi �ancoraggi forti�, che la cultura dellaCISL ha capitalizzato nella sua esperienza, non è breve: leva dato merito innanzitutto della riproposizione in chia-ve attuale della questione sarda; ed ancora dell�intelligenteimpegno posto nel rafforzare l�autonomia regionale perbattere la dipendenza; ed a seguire il merito di avere creatocon il sindacato una forza popolare al servizio di tutti isardi. Sono tutti aspetti che premiano la CISL sarda per ilsuo «protagonismo innovatore» e le capacità di essere di-

venuta un efficace strumento politico dotato di autono-me capacità d�elaborazione, di proposta e di lotta.Forse ha molta ragione chi sostiene che se è possibile par-lare e scrivere, oggi, di un�originalità della CISL sarda,analoga notazione sarebbe assai difficile per la storia re-gionale della CGIL (nè diversamente lo sarebbe per la UIL).Proprio perché le vicende legate all�azione dei tre sindacaticonfederali nell�isola sono profondamente differenti, tan-to che non sembrerebbe possibile comprendere ed inter-pretare correttamente la storia del sindacalismo sardo sen-za valutare il ruolo, certamente significativo ed originale,che vi ebbe la CISL (così come, su diversa lunghezza d�on-da, lo ebbero la CGIL e la UIL)16.Si deve quindi dare atto alla CISL sarda d�avere fatto pro-pria una strategia che, uscendo dalla fabbrica o dall�uffi-cio, abbracciava la globalità dei problemi della società sar-da. Infatti, nella crisi generale attraversata dall�economiaregionale (non diversamente da quella dell�intero Mezzo-giorno) non era più sufficiente un sindacato che si facessecarico della tutela o dei problemi dei soli lavoratori dipen-denti; doveva attivarsi con un ruolo decisamente �inter-ventista� sul fronte dello sviluppo globale.Ora, su questo protagonismo del sindacato come �sog-getto politico� si sono dette, e lette, molte cose. Giudizipositivi e negativi si sono alternati nelle osservazioni deipolitologi e degli osservatori, neutrali o meno. Leggendole vicende sarde, soprattutto di questi ultimi anni, si èinfatti rilevato come questo bisogno di «confronto politi-co» tra sindacato e istituzioni di governo sia cresciuto.Perché in una società economica come quella sarda, stret-tamente �dipendente� dalla sfera pubblica (nel capitale, perle assistenze, per le protezioni, ecc.), il sindacato non può

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che ritenere il potere regionale o nazionale quello a cuirivolgersi, con cui interloquire e contrattare. Per questo levertenze finiscono sempre più in viale Trento od a Palaz-zo Chigi. Tutto questo non può che elevare il sindacalistaa protagonista politico. Certo i tempi dagli anni Cinquantasono estremamente cambiati. Se per Gianfranco Chiap-pella o per Enzo Giacomelli la controparte era rappresen-tata quasi esclusivamente da dirigenti confindustriali comeMichele Sirchia e Giuseppe Dalmasso17, per i sindacalistidegli ultimi decenni del secolo gli interlocutori vertenzialisaranno sempre più i presidenti e gli assessori della Regio-ne.Ma questa �politicità� dei comportamenti ha aiutato odanneggiato il sindacato? Non è una domanda retorica,anche perché riguarda un giudizio sugli atteggiamentiassunti e, soprattutto, sulla capacità dimostrata nel man-tenere un�effettiva autonomia dalla politica. Certo, inquesti cinquant�anni di vicende sarde ci sono state diverse�invasioni di campo� (politici nel terreno del sindacato,sindacalisti nel terreno dei partiti), anche perché i confinidegli interessi reciproci sono stati sempre molto labili. Ilpolitico ha spesso avuto bisogno del sindacalista, comequest�ultimo ha dovuto molte volte ricorrere alle arti edal potere del primo. Quel che però interessa premetterealla risposta (il sindacato ha effettivamente tratto van-taggio ed immagine sociale dalla sua politicità), è che oc-corre verificare se il sindacato sia andato, o meno, �a ri-morchio� degli interessi della politica, non che si sia do-vuto servire della politica.Il discorso, così impostato, si fa obiettivamente difficile.Perché nella semplificazione dicotomica della storia poli-tica italiana le due maggiori confederazioni � CGIL e CISL

� sono state identificate come di colore rosso la prima, ebianco la seconda. D�indirizzo comunista l�una, democri-stiano (e anticomunista) l�altra.Andando però ai fatti concreti, non si può negare che ilgrado di autonomia dai partiti conquistato dai due sinda-cati sia stato estremamente diverso. Certo, nella CGIL viera insita la radice d�una profonda ideologizzazionemarxi-sta-leninista che l�aveva eletta a �cinghia di trasmissione�degli interessi politici del partito della classe operaia. Percontro, nella CISL, già nel suo atto costitutivo era statoindicato l�obbligo-dovere di separare le responsabilità delsindacato da quelle dei partiti politici.Nel concreto, se appare assai difficile � ripercorrendo lastoria � trovare difformità d�indirizzo e di azione (nei fat-ti economici ed in quelli politici) tra CGIL e PCI, ancheperché l�obiettivo finale rimaneva comune18, non altret-tanto capita verificando i rapporti tra CISL e DC.Non era questo, come taluno aveva obiettato, un sovrap-porsi ai partiti politici, ed al ruolo a loro assegnato in unasocietà democratica. Si cercava al contrario, presentandouna sintesi dei bisogni sociali, di offrire alle forze politicheun contributo di indicazioni utili per meglio esercitare laloro funzione di governo. E questo senza affidare a nes-suna forza partitica, vecchia o nuova che fosse, alcunadelega politica.Le stesse esperienze di partecipazione-concertazione allescelte dello sviluppo sarebbero state sempre assunte � nel-l�ambito della CISL sarda � senza mai cadere nel vincolodella �cogestione�, ma, al contrario, mantenendo integrala propria autonomia (di giudizio e di azione). Per noncadervi, esistevano � è vero � spazi d�azione molto ri-stretti. Proprio perché entrando sempre di più nei mecca-

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nismi dell�economia, il rischio di vedere istituzionalizzatoquesto intervento era nelle cose possibili. Anche in passa-to, e lo si è ricordato, era stato questo un motivo di divi-sione interna, ma vi era l�esigenza, se non la necessità,che fosse proprio il movimento sindacale a portare la po-litica verso scelte confacenti ad una strategia generale disviluppo che, per una crescita generale, vedesse coinvoltetutte le forze presenti nella società regionale.«Essere sindacato oggi è complesso, perché complesso è ilsistema nel quale si opera», aveva dichiarato Angelo Var-giu19 parlando ad un convegno CISL, per cui occorrevache la solidarietà sociale, che era stato il collante cislinoper quarant�anni, divenisse un progetto compiuto a fortevalenza generale, «per essere punto aggregante e rappre-sentativo di interessi diffusi».Ed Antonio Uda � segretario generale � era stato ancorpiù deciso su questa dimensione �supersindacale� da im-primere all�azione del movimento dei lavoratori:

Occorre in questa emergenza che tutto il sindacato sardoabbia una concezione confederale, più che categoriale, a tuttii livelli. Quindi una disponibilità a lavorare insieme, senzapensare che ci sia una gerarchia con uno in testa e tutti glialtri ad ubbidire, ma invece creare una sorta di simbiosicomplessiva di sforzi, conoscenze e cultura per fare in modoche ci sia una risultante comune, cioè quella piattaformacomprendente tutti i settori economici della nostra Regioneda portare poi al confronto con le controparti. Una grandeunità � aggiungeva � è oggi ancor più necessaria: quandosono in crisi le istituzioni, lo Stato in generale, la RegioneAutonoma e i partiti politici, l�unico soggetto collettivo al-l�interno della nostra società rimane il Sindacato, a tutti ilivelli, nazionale e regionale20.

Il prevalere di una valenza �orizzontale� (per lo sviluppodel territorio) su quella �verticale� (per la contrattazionecategoriale) nelle politiche sindacali farà parte di quelladifferenza che una ricerca effettuata da Bruno Manghi21

individuerà tramodello settentrionale emeridionale del faresindacato. Secondo quella ricerca, infatti, era risultato chenelle regioni del Nord la priorità assoluta tra le azionisindacali veniva attribuita alla contrattazione aziendale(con i temi dello sviluppo generale tra gli ultimi posti),mentre in Sardegna (ancor più che nel Sud) era la mobili-tazione dei lavoratori sui temi generali dello sviluppo adavere, con la tutela individuale, la priorità (con agli ulti-mi posti le contrattazioni collettive). Era la controprovadella tesi di Uda d�una sostanziale differenza tra il model-lo sardo della CISL e quello lombardo o veneto, e della con-seguente esigenza, per il sindacato, di «stare pienamenteall�interno della storia della Sardegna».Tesi sulla quale c�era stata la convergenza del SegretarioSergio D�Antoni, eletto alla massima carica confederalenell�aprile del 1991 in sostituzione di Franco Marini. Par-lando proprio alla CISL sarda, a Chia, D�Antoni avevaposto il dito sull�esigenza che il sindacato, come compo-nente importante della società civile, affrontasse in primapersona il confronto istituzionale e, soprattutto, si faces-se carico dei differenti problemi delle diverse comunità,entrando «in campo con forza ed autonomia per rinno-vare le regole delle rappresentanze democratiche, per ri-dare vitalità ad un sistema politico sclerotizzato e per ri-lanciare la nostra democrazia perché non cada nella mor-ta gora di movimenti che la frantumano22».Da quanto si è fin qui detto, appare chiaro come non sia

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facile dare una univoca �lettura� di quei primi anni No-vanta. Su quest�argomento non sono pochi gli osserva-tori che hanno parlato d�un declino, d�una perdita dicentralità, dei sindacati italiani23. Sembrerebbe però piùgiusto, osservando le vicende dalla finestra isolana, par-lare d�un sindacato profondamente cambiato. Il movi-mento dei lavoratori, nell�ultimo decennio del secolo, nonsembra avere più alcuna somiglianza � nel linguaggio,nel lessico, negli atteggiamenti � con le prime organizza-zioni sindacali sorte nel dopoguerra. A questi profondicambiamenti ha anche corrisposto l�acquisizione di un�peso� sociale differente, inimmaginabile in quegli annilontani. Si potrebbe dire che il cambiamento ha procedu-to lungo il percorso da movimento rivoluzionario di lottaoperaia a forza sociale responsabile. Con risultati che, tuttosommato, testimoniano più segni positivi che negativi.In quel processo di cambiamento avrebbe anche influitol�intensità dei movimenti tellurici avvertiti nelle diversecomunità (internazionale, nazionale e regionale). Trala-sciando per un attimo quel che andava avvenendo nelmondo dell�Est, con la scomposizione di quello che erastato il grande monolito delle dittature sovietiche (maanche le federazioni d�Jugoslavia e di Cecoslovacchia s�an-davano dividendo non sempre pacificamente), non an-drebbe dimenticato il �bubbone� medio-orientale rappre-sentato da Saddam Hussein e da quell�evento che la storiaricorderà come la guerra del Golfo.Ma anche sul fronte interno la situazione del Paese appa-riva scossa da forti e drammatiche turbolenze (dalla crisidella politica e dei partiti24 e dall�escalation della mafia25

fino all�aprirsi della vicenda politico-giudiziaria di Tan-gentopoli26), che sembravano intaccarne la stessa strut-

tura democratica. Analizzando la situazione sociale delPaese sull�annuale Rapporto del CENSIS, Giuseppe De Ritane avrebbe tracciato un quadro esemplare:

gli eventi di questi ultimi mesi sono stati tanti e moltoimpressivi, se solo si pensa a quante cose sono accaduteintorno:� all�aggravarsi della minacciosità civile della criminali-tà organizzata;

� ai fenomeni di corruzione/concussione portati alla lucedalla magistratura;

� alla crisi di legittimazione dei partiti;� al distacco tra società e Stato con la crescita della pres-sione fiscale e la contemporanea riduzione delle presta-zioni dello stato sociale;

� alle affermazioni, anche elettorali, di spinte più o menosottilmente antistatuali;

� ai non facili problemi di controllo/riduzione della spesapubblica;

� alla svalutazione della nostra moneta ed all�indeboli-mento della posizione e dell�immagine del nostro Paeseall�esterno.

Questo complesso intrecciarsi di eventi di diverso spessoreha prodotto un�inquietudine che ci pervade tutti quasi chenella società nazionale sia avanzata l�ombra, la parte oscu-ra ed incerta della nostra cultura collettiva27.

Vi era poi da rilevare che con il 1° maggio del 1993 si erachiusa la lunga stagione dell�intervento pubblico �straor-dinario� per le regioni del Mezzogiorno continentale e delleIsole, inaugurata con l�istituzione della CASMEZnegli anniCinquanta e proseguita sostanzialmente senza soluzione

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di continuità fino alla legge 64 del 1986.L�abolizione del sostegno alle regioni �deboli� del Paese nonera stato comunque determinato dal fatto che ne fosserostati rimossi i nodi del non-sviluppo. Di fatto si sarebbetrattato � per usare la terminologia di un attento analista� di una vera e propria �rimozione�, determinata in granparte dall�atteggiamento di insofferenza delle aree più ric-che del Paese verso politiche giudicate o troppo accondi-scendenti, o inutili od addirittura sprecone.Nella particolare condizione sociale della Sardegna quellarimozione sarebbe avvenuta allorché il confronto con ilresto del Paese era ancora pesantemente deficitario. In-fatti:� la Sardegna � per il PIL pro capite � era distanziata dal-l�Italia di quasi 30 punti percentuali (ma la provincia diOristano segnava un ritardo pari al 37 per cento);

� la Sardegna � per il tasso di inoccupazione � sopravan-zava il dato nazionale di 9 punti percentuali (20,5 con-tro 11,5);

� la Sardegna � per gli addetti all�industria (ogni milleabitanti) � presentava un deficit del 52 per cento (55contro 113)28.

Ma altri fattori negativi andrebbero aggiunti a questoquadro già abbondantemente preoccupante. Riteniamo didoverne fare, almeno per memoria, una rapida sintesi:� la caduta verticale dell�occupazione nei due compartiproduttivi (agricoltura e industria) con circa 30 milaunità in meno sul 1980 e, per contro, una forte crescitadella spirale della disoccupazione con quasi 50mila unitàin più sempre sul 198029;

� l�aggravarsi della crisi del settore industriale, testimo-niata da una caduta del valore aggiunto maggiore di

quella registrata nel Paese, per via della forte dipenden-za esistente con i gruppi delle Partecipazioni statali, edel progressivo disimpegno da questi mostrato nei con-fronti delle iniziative esistenti nei campi della metallur-gia, della chimica e delle miniere30;

� l�inadeguatezza e l�insufficienza dei soggetti istituzio-nali locali (la Regione) nell�organizzare risposte efficacie pronte a fronte di una forte domanda di sviluppo enell�affrontare e governare i diversi stadi di crisi dellasocietà locale;

� le preoccupazioni derivanti dalla �rimozione� dell�inter-vento straordinario (Cassa per il Mezzogiorno e legisla-zione speciale), di cui s�è già detto, nel momento in cuipermaneva il forte differenziale di reddito tra i sardi equello medio degli italiani31.

In particolare, gran parte delle misure presenti nell�eco-nomia isolana erano misure che divenivano, nel raffron-to, sempre più piccole. Sembrava così allungarsi il distac-co dalle regioni del Centro Nord.Erano infatti divenuti più piccoli i numeri dell�occupa-zione in agricoltura (poco più di 60 mila), nell�industria(125 mila) e nei servizi destinati alla vendita (poco più di165 mila). Per contro s�era incrementato notevolmentel�esercito dei senza lavoro, con un tasso di disoccupazioneche, al netto della C.I.G., sembrava viaggiare verso il 25 percento (uno su quattro della forza lavoro regionale)32.Di fronte a tutti questi eventi, dalle tinte così forti e in-quietanti, quel che occorreva fare era di trovare idee edenergie valide e sufficienti per ridare spazio a processi dicorrezione e sviluppo della struttura socio-economica dellasocietà reale. Che per il sindacato non poteva che esserequella del lavoro. Cioè di come intervenire per ridurre il

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preoccupante gap esistente tra forze lavoro ed occupati.Ed è su questo fronte che occorre sviluppare alcune rifles-sioni. Proprio perché bisognava tenere conto delle pro-fonde differenze intervenute nelle richieste di lavoro ri-spetto alle qualità della domanda. I processi di modifica-zione delle procedure e dei modelli produttivi (con i robot,l�automazione, i pannel di controllo, ecc.) avevano reso illavoro sempre più �cognitivo� e sempre meno �manipola-tivo�. Nel contempo si assisteva ad un aumento a dismi-sura degli skill (dei profili) dei lavoratori.Osserveranno gli esperti che il �convoglio� delle professio-ni s�era andato allungando, giacché il numero delle nuo-ve professioni era divenuto assai maggiore di quelle scom-parse. Erano spariti, ad esempio, i linotypisti ed eranoapparsi i vigilantes ed i softwaristi. Per diretta conseguen-za si assisteva ad una perdita sempre maggiore di generi-cità (il lavoro non qualificato) e all�affermarsi, spesso conmicronizzazioni anche esagerate, della specializzazionedelle prestazioni lavorative33. La stessa offerta di lavoronon si presentava più come in passato standardizzata odomogeneizzata nei requisiti richiesti, ma richiedeva mag-giore selettività con skill sempre più articolati e persona-lizzati.Di fronte a questa evoluzione della qualità del lavoro siinnesterà anche il cambiamento del modo e dei luoghi delprodurre. Con l�introduzione di forme di part-time34 e l�av-vio del cosiddetto lavoro interinale (in affitto). Con fab-briche che diverranno sempre più �leggere� sul fronte del-l�occupazione spostando all�esterno molte produzioni in-termedie e alimentando il settore dei �terzisti�. Dove co-mincerà peraltro ad allignare la mala pianta del lavoroirregolare.

Se queste linee di tendenza attengono al nuovo modelloindustriale europeo degli anni Novanta, è indubbio cheesse avrebbero avuto un�influenza differente sul «sistemaSardegna». Proprio perché il sistema produttivo locale erarimasto �vecchio�, come ingessato nei preesistenti canonitaylor-fordistici delle grandi fabbriche, nei modelli paleo-artigianali di molte delle piccole e medie imprese. E poichénon sembrava esserci più spazio per nuovi investimentiindustriali �pesanti� (ad alta intensità d�occupazione), vi-sto che la divisione internazionale della nuova industria-lizzazione era orientata diversamente, l�adeguamento aquei �nuovi� canoni appariva come l�obiettivo primariosu cui marciare.Comunque i profili professionali di gran parte dei sardi inattesa d�occupazione erano rimasti quelli d�un mercatodel lavoro non più attuale. Infatti il convoglio isolanodelle professioni non si era per niente allungato, tanto datrovare forti difficoltà nell�offrirsi alle imprese innovative.Ed a questo proposito c�è ancora un�ulteriore riflessioneche attiene al sistema industriale esistente nell�isola. Dovele scelte del passato avevano creato un indirizzo produt-tivo legato strettamente alle prime lavorazioni (di base),minerarie e petrolifere. E dove ormai era l�ENI ad essererimasto l�unico protagonista, perché controllava quasitotalmente il settore chimico-metallurgico e quello mine-rario. Questa posizione dominante dell�ente pubblico ri-sulterà pericolosamente punitiva per l�economia sarda.Perché nella strategia di razionalizzazione/privatizzazio-ne delle industrie di Stato il sistema chimico-metallurgi-co-petrolifero dell�isola era stato individuato come estraneoal core business del gruppo ENI (e, quindi, da dismettere).Il settore minerario appare emblematico di questo atteg-

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giamento. Anche perché la caduta verticale dell�occupa-zione del settore (dai quasi 25 mila addetti del 1950 ci siera ridotti ad un migliaio), era localizzata in un territoriolimitato che da più di un secolo �viveva� solo di miniera. Edove l�unica occupazione possibile era rimasta concen-trata in quell�attività.La chiusura definitiva dei pozzi e la cessazione delle pro-duzioni per l�esaurimento dei giacimenti avrebbero quin-di collocato i luoghi minerari tra i cimeli di un�epopea dalglorioso passato, tanto da farli divenire valori solo ar-cheologici. L�abbandono tout-court dell�esercizio minera-rio, senza alcun ammortizzatore, decisa unilateralmenteda un�azienda di Stato, era comunque un�ipotesi che nonpoteva essere accettata, a cui ci si doveva ribellare.Il sindacato si era trovato come prigioniero in questo tri-ste viale del tramonto d�una nobile aristocrazia operaia,tanto da farsi padroneggiare più dalla nostalgia e dal ri-spetto del passato che dal pragmatismo dell�agra e tristerealtà. Quel che scottava soprattutto era che nessuno �nè l�azienda pubblica nè le istituzioni politiche regionali estatali � si fosse preoccupato di individuare misure corretti-ve, progetti di riconversione, interventi di salvaguardia.Così, si sarebbero ripetuti i rituali antichi delle lotte con-tro l�ing. Rostand, contro l�ing. Audibert, contro il rag.Giasolli o contro l�avv. Einaudi: con l�occupazione deipozzi, i blocchi stradali, le marce degli elmetti gialli e bian-chi, gli assedi agli uffici delle direzioni, ecc. Si lottava percontinuare a rimanere minatori, anche se vere minierenon ce n�erano più. E perché quei lavoratori si sentivanovittime incolpevoli di una politica fatta di promesse nonmantenute, di interventi di brevissimo respiro, di conti-nui rimandi e di innumerevoli voltafaccia. Così si richie-

devano interventi tampone, continui rimandi per quellafine annunciata, per proroghe che divenivano sempre piùbrevi. Di quella situazione, lo stesso sindacato ne era di-venuto, da protagonista che ne era stato negli anni Ses-santa e Settanta, una vittima.

Si poteva essere contro un intervento atto a prolungare an-che di un solo anno l�occupazione di un�industria decotta �è la domanda retorica che pone un dirigente sindacale �quando s�aveva di fronte la disperazione di tanti lavorato-ri? Certo, non si poteva che accettare, anche per necessità, ilrimedio contingente. Ma quel che accresceva in noi la preoc-cupazione � aggiunge � è che nessun�azione veniva messa inatto per trovare una soluzione definitiva, riconvertendomagari cicli o settori produttivi, in modo che noi sindaca-listi non fossimo più costretti a rivedere la disperazione sulvolto di quei nostri compagni. Rimanevano solo le promessemai mantenute, e passato quell�anno s�era nuovamentedaccapo35.

Era evidente come la fine del lavoro minerario fosse statascritta dalla natura, prima ancora che dagli uomini. Mail dramma era tutto degli uomini, più che d�una naturaormai divenuta sterile, da prolifica che era.Ora, su quel dramma, come vissuto dai lavoratori, ci sonodelle belle pagine in un piccolo libro-testimonianza che ilgiornalista Marco Corrias ha pubblicato recentemente36:

Ai primi di maggio del 1992 ci annunciarono che non c�erapiù bisogno di uomini col casco, nel ventre della Sardegna.Che si arrangiassero quei mille che erano rimasti e le lorofamiglie. Potevamo sopportare tutto questo? Potevamo ac-

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Lega di Bossi.

Un gruppo di lavoratoridella CISL della Sardegnapartecipa a Roma ad unamanifestazione unitariaper richiedere un maggiorimpegno del governonazionale sui problemi

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cettare di essere cancellati dalla storia perché nei loro contii ragionieri di Roma ci avevano verniciato di rosso?La guerra di resistenza cominciò subito dopo l�annuncioufficiale del Piano di Chiusura. Le miniere furono occupate,da San Giovanni a Campo Pisano, da Acquaresi a Su Zur-furu. I dirigenti sindacali tentennarono qualche giorno pri-ma di dare il loro consenso all�occupazione. Pensavano for-se di trattare ancora. È il loro compito quello di trattare, lamediazione una regola. Stavolta, però, c�era poco da me-diare. Tornare indietro non si poteva più. I dirigenti sinda-cali si schierarono in questa estrema forma di lotta...Arrivò giugno e tutti i tentativi di convincere l�ENI a trat-tare continuavano a fallire. Restammo chiusi nelle nostreminiere [finché] l�ENI non firmò un nuovo accordo. La pro-duzione non avrebbe subito riduzioni. Si sarebbero cercatenuove vie di sviluppo, alternative alle miniere. Quella tre-gua sarebbe durata solo sei mesi. Poi, all�inizio di febbraio,la Società ItalianaMiniere annunciò che il giorno 19 avrebberiunito il consiglio di amministrazione per scioglierlo. Laparola data non ha davvero senso per questi signori. Tor-nammo a occupare i cantieri. Tornarono i giorni della ten-sione, della paura e della disperazione. Giorni tutti uguali,passati nell�attesa di un incontro che non arrivava. Ci la-sciarono marcire sui nostri materassi di polistirolo, su cuiogni sogno si trasforma in incubo...Il 28 aprile del 1993 finì l�occupazione. L�ENI aveva final-mente firmato un accordo che ci garantiva lavoro per altridue anni. Poi avrebbe abbandonato tutto.

Ecco, c�è in questo racconto l�amara verità di una durabattaglia di sopravvivenza, che non era in difesa dellaminiera, di un�attività produttiva da salvaguardare o da

salvare, ma che era in difesa del salario e del lavoro, fossepure quello «duro e sporco» nelle gallerie profonde, chenon era amato «per quello che è, ma per ciò che dà». Per-ché era ancora l�unico possibile in quel territorio tra Ar-bus e Gonnesa, un tempo isola felice in una Sardegna deibraccianti e dei pastori.Come detto, il disegno di progressivo disimpegno dell�ENInon avrebbe riguardato solo il settore minerario: avrebbeanche riguardato quello petrolchimico. Il sindacato (inparticolare la CISL) era stato tra i primi a cogliere la pocaconvinzione dell�ente che fu di Enrico Mattei nel gestireindustrialmente il settore chimico-petrolifero. Dalla bre-ve alleanza con l�Occidental Petroleum nel dopo Rovelli alleturbolente e pasticciate intese con il gruppo Ferruzzi epoi, via via, fino ai partenariati con diversi gruppi inter-nazionali, era stato tutto un succedersi di eventi che avreb-bero confermato la mancanza di vocazione industriale diquel gruppo pubblico, rimasto invece attaccato al suooriginario core business, come grande �mercante� del pe-trolio internazionale (oggi l�ENI può essere consideratal�ottava o la nona �sorella� delle multinazionali petrolife-re). Quasi a confermare che l�unico vero �industriale� del-la chimica sarda sarebbe rimasto, nonostante tutto, NinoRovelli.Il panorama industriale dell�isola appariva quindi domi-nato da due grossi ed immanenti problemi: come salvaree rilanciare l�apparato produttivo esistente e come impo-stare ed avviare una nuova politica di sviluppo imprendi-toriale (ed industriale in senso stretto). Anche perché, purnon volendo dare alla sola industria una valenza salvificaper le sorti dell�isola, era evidente come il gap occupazio-nale fosse condizionato in largamisura dalle sorti del com-

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parto industriale.Ed è proprio in questo contesto � che per certi versi de-nuncia, fin dall�inizio di quel decennio, una situazione dipericolosa involuzione � che il sindacato sardo cercherà dimobilitare tutte le sue energie e le sue risorse al fine diinvertire gli andamenti dell�economia e ridare opportuni-tà e indirizzi di sviluppo all�intero «sistema Sardegna».Dentro questo preoccuparsi delle vicende generali dellasocietà locale, c�è infatti gran parte dei contenuti di quellache potremmo chiamare una «via sarda al sindacato».Cioè quel voler essere sempre di più soggetto politico, in-terventista più che garantista nel lavoro; quel voler svol-gere una tutela generale dei sardi preoccupandosi di comediffondere il lavoro, più che assicurare una garanzia par-ticolare ai lavoratori già occupati. Trovando in questoanche originali accordi con quella che era la storica con-troparte, la rappresentanza padronale37, nell�intento dipromuovere, insieme, politiche �attive� per il lavoro; disollecitare, facendo pressioni insieme alle autorità di go-verno, iniziative utili per rilanciare l�occupazione e favo-rire nuovi investimenti.Ed è proprio da questa angolazione che appare importan-te riportare il discorso verso quell�identità sarda del sin-dacato di cui s�è già detto. Che trova esplicitazione, nellaCISL, nella formazione di una classe dirigente che mo-strerà profonde differenze, d�analisi e di comportamenti,da quei sindacalisti continentali della �prima leva� (comeTurconi, Pagani o Chiappella), che erano giunti a pro-muovere il sindacato nell�isola provenendo «da altrimondi,dove l�operaio era veramente operaio». La maturazionedei dirigenti della �seconda e terza leva� (come Piquered-du, Porcu, Cocco, Vargiu o Manca) avverrà infatti in un

contesto � politico, sociale, economico � molto differentee dove i valori dell�autonomia regionale (delle specificitàsarde) assumeranno un peso preminente nelle strategie enelle azioni sindacali.Non ci sarebbe stata infatti una specificità sarda nel sin-dacato senza che fosse emersa una classe dirigente au-toctona, cresciuta all�interno del mondo del lavoro isola-no. Si sarebbe trattato di una dirigenza sindacale di �nuo-vo tipo�, differente dagli stereotipi del sindacalista classi-co dell�operaismo ottocentesco. Non bastava più difende-re gli interessi ed i diritti dei lavoratori; occorreva saperpadroneggiare una nuova e più vasta conoscenza dei pro-blemi, in modo da poter divenire protagonisti della vitasociale dell�isola, preparati nel portare avanti i problemidel mondo del lavoro, e quelli più generali della societàcivile, all�attenzione ed all�esame dei palazzi del poterepolitico.In questa metamorfosi di interessi e di impegni, il diri-gente sindacale della nouvelle vague regionale avrebbe ac-quisito sempre maggiori capacità ed autorevolezza, inmodo da mettere in rapporto il mondo dei lavoratori conle autorità di governo, verificando gli indirizzi e le deci-sioni della politica sul tavolo della concertazione (conquesto termine del lessico sindacale si fa riferimento allanecessità di un preventivo accordo tra forze sociali e poli-tiche nell�assunzione di decisioni).La classe dirigente della CISL sarda degli anni Novanta siera quindi formata con piena rispondenza a questi nuoviprofili. Al sindacalista vociante dei comizi e delle agita-zioni (spesso anche un po� demagogo) si era sostituito ildirigente sindacale capace di argomentare, di discutere edi presentare temi di economia e di politica nelle stanze

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della politica e nei convegni dell�economia. D�altra partein unmondo del lavoro ove la componente manuale (ed iltaylor-fordismo della fabbrica) perdeva sempre più spazioe peso, l�azione del sindacalista non poteva che arricchirsisempre più di contenuti tecnico-culturali per parteciparealla gestione delle evenienze sociali.E la CISL sarda si sarebbe omologata appieno, per capaci-tà ed impegno dei suoi dirigenti (centrali e periferici), aquesta dimensione di sindacato divenuto soprattutto «sog-getto politico». Anche perché erano i problemi politici (odella politica) a sopravanzare quelli prettamente sindaca-li. Erano infatti emerse diverse aree di crisi nel rapportoelementare dell�uomo-lavoratore con le realtà che lo cir-condavano38. Si era così manifestato un quadro di diffi-coltà, in cui emergevano:� l�acuirsi delle contrapposizioni territoriali,� le distorsioni degli equilibri socio-ambientali nei pro-cessi di sviluppo,

� l�esplodere di vecchi e nuovi corporativismi,� l�emergere di una �questione� sociale, per via del non-lavoro e delle nuove povertà,

� la crisi di spopolamento-estinzione per molte comunitàminori.

Per un sindacato popolare come la CISL affrontare questeproblematiche era apparso come un dovere-diritto. D�al-tra parte il progetto iniziale di voler realizzare una mo-derna democrazia industriale non poteva che essere ac-compagnato da un�opera costante, e soprattutto intelli-gente, per riuscire ad interpretare, con la cultura del sin-dacato, la difficile congiuntura attraversata dalla societàregionale. Sembra giusto rilevare come, sotto quest�aspet-to, il sindacato sia andato più avanti della classe politica

regionale, essendo riuscito a creare ed a diffondere al suointerno una autonoma ed efficace cultura dello sviluppo(e dell�organizzazione dello sviluppo)39.In quest�opera di preparazione e di attrezzamento cultu-rale dei dirigenti, gli indirizzi formativi della scuola diFirenze (che avrà come direttore negli anni Novanta UgoPirarba) ed il voler sempre confrontarsi ed attingere adesperienze e culture esterne, sarebbero risultate determinantiper dare una specifica identità all�organizzazione e per ca-ratterizzare quello che appare uno degli aspetti distintivi delmodo scelto per �essere sindacato popolare� in Sardegna.Non deve infatti far meraviglia come � in uno scenariocome quello sardo � potessero passare in second�ordinegli aspetti contrattuali e normativi dei lavoratori. Per l�ap-parato produttivo si avvertivano maggiormente i pericolidi instabilità e di continuità di quelli legati ai rapporti cheregolamentavano il lavoro. Le stesse dinamiche salarialiche andavanomodificando nell�Italia continentale40 i rap-porti tradizionali della retribuzione del lavoro, continua-vano a rimanere marginali all�ambiente sindacale sardo:gran parte delle imprese locali non erano infatti mature(ed in gran parte troppomicronizzate) per permettere l�in-troduzione di nuove formule di flessibilità retributiva (c�erapoi come deterrente la demonizzazione effettuata neglianni Quaranta sul metodo Bedoux, in vigore nei cantieriminerari).Le cronache sindacali saranno infatti sempre meno ricchedi vertenze con il padronato e più fitte di incontri e scon-tri a livello politico. Per proclamare agitazioni e sciopericontro l�immobilismo o le inadempienze delle istituzionidi governo. Le esperienze maturate dalla confederazioneregionale avrebbero così permesso al movimento dei la-

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voratori di porsi come promotore «di un�idea di sviluppocome divenire capace d�inverare una società industrialematura»41.In questo disegno la cultura popolare della CISL si diffe-renzierà notevolmente dalla tradizione del sindacalismooperaio soprattutto francese, a cui s�era rifatta fin dalleorigini la stessa CGIL. Perché favorire lo sviluppo e la cre-scita della società doveva essere inteso come un doverecivile prima ancora che un privato interesse del sindacato.L�idea base della costruzione d�una democrazia economi-ca moderna o, meglio, della diffusione di una cultura in-dustriale di taglio occidentale, sarebbe infatti rimasta sem-pre l�idea-guida di tutta l�azione della confederazione sar-da. Una cultura moderna fondata sull�impresa, intesacome modello d�organizzazione per l�agricoltura, l�arti-gianato, la pastorizia, ed ancora nei servizi e nelle pubbli-che amministrazioni. Perché questo appariva il passaggioobbligato per realizzare l�emancipazione sociale dell�iso-la, per conquistare con l�autonomia la non-dipendenzadall�esterno e per costruire anche nell�isola una modernasocietà del lavoro.Era questo, a dir la verità, l�obiettivo �politico� che avreb-be presentato più difficoltà per il sindacato. Perché il defi-cit di cultura industrialemoderna (qui intesa, quindi, comecultura dell�efficiente gestione delle risorse e come cultu-ra generale per un benessere diffuso) appariva ancora pe-sante nelle classi dirigenti isolane, ovunque fossero situa-te: dalla politica all�imprenditoria, dalla cultura allo stes-so sindacato.Il lavoro, quindi, inteso come componente essenziale d�unawelfare area. D�altra parte nell�isola l�ampliamento del-l�esercito dei senza lavoro (nelle due grandi categorie: di

quelli che lo avevano perso e di quelli che erano alla ricer-ca di un primo lavoro) era diventato ormai un aspettodrammatico del �caso� sardo42. Dove cominciavano a pre-sentarsi segnali preoccupanti di devianze, per l�affacciarsi«d�un lavoro nascosto tra gli interstizi di un sistema chestenta a garantire opportunità, diritti e trattamenti inmaniera diffusa e tende invece ad incentivare meccanismidi adattamento fuori dalle regole, sia da parte della do-manda che dell�offerta di lavoro»43.Su questo fenomeno, e sulla sua effettiva entità, il Gover-natore della Banca d�Italia Antonio Fazio avrebbe lanciatoun forte ammonimento: nel settore edile � affermerà44 �si stima che sia irregolare un rapporto di lavoro su tre; inquello manifatturiero uno ogni dieci. Nelle regioni meri-dionali e insulari � aggiungeva � il fenomeno è ancorapiù allarmante e cresce sempre più, alimentato dal rista-gno dell�economia. Esso alimenta un�economia sommer-sa, dove salari e costi più bassi permettono il sopravvive-re di imprese e produzioni marginali, ma arrecando rischigravi, se non veri e propri abusi, per i lavoratori. «Questotipo abnorme di flessibilità di fatto � era il suo ammoni-mento � è inaccettabile e dannoso, per cui dovrebbero es-sere previste ed incentivate forme regolari di flessibilitànell�utilizzo del lavoro e del salario»45.Per poter meglio inquadrare il fenomeno del cosiddetto«lavoro sommerso», occorre precisare che esso attiene allavoro (saltuario, part-time ed anche fisso) svolto da per-sone che percepiscono la retribuzione in nero, sono irre-golari dal punto di vista contributivo, si dichiarano uffi-cialmente disoccupate mantenendo così le loro iscrizionipresso gli uffici del collocamento. Si tratta di un�attivitàche procede underground, che risulta essere invisibile ad

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ogni rilevazione, ma che si propaga a macchia d�olio, cre-ando notevoli disturbi al formarsi d�un tessuto organicodi attività �visibili�.Anche il sindacato sardo avvertirà tutta la pericolosità diquesta illegittima formazione di occupazione �sommer-sa�. Che non solo è di danno a chi vi si trova impegnato,ma che, distorcendo le regole d�una sana economia, fun-ziona da freno al sorgere ed all�affermarsi di nuove im-prese. Le �aperture� che la CISL ha inteso dimostrare, an-che nazionalmente, alla ricerca di nuove forme di flessibi-lità nei rapporti contrattuali fra impresa e lavoratore di-pendente, rispondono a questa preoccupazione. Al di là diogni considerazione, non può che preoccupare l�ampliar-si di un fenomeno che nell�isola sembrerebbe aver inte-ressato, già da allora, non meno di 50/80 mila unità (eche oggi supererebbe le 100 mila unità).Se il fenomeno dell�irregolare e del sommerso è, come ècerto, caratteristica peculiare delle economie in galleggia-mento (per ragioni di sopravvivenza), occorreva per con-trastarlo ed eliminarlo riprendere la navigazione, facendorotta verso lo sviluppo.L�urgenza più sentita e condivisa era quella � fatta pro-pria dal sindacato regionale � di dover riallacciare il filodel progresso e della crescita dell�economia. Che non si-gnificava un semplice ritorno al modello utilizzato neidecenni passati, quanto quello di individuare e percorrerenuove rotte per raggiungere una soglia di benessere piùadeguato alle aspirazioni ed ai bisogni collettivi.S�avvertiva ancora il bisogno d�una guida autorevole edesperta, mentre, dalla fine degli anni Ottanta in avanti,l�azione di governo della Regione sembrava capace di sa-per navigare soltanto a vista, miglia dopo miglia, giorno

dopo giorno, senza una rotta prevista od un obiettivo daraggiungere. Si può ben intendere come questo modo diguidare la società isolana rappresentasse, per un movimen-to sindacale che richiedeva nuovo sviluppo e nuova occu-pazione, il terreno di confronto più ostico e difficile. Perchélo poneva di fronte a dover passare dal tavolo della verificadelle scelte a quello della formulazione delle proposte.D�altra parte sapere verso quale futuro dirigersi apparivaun�esigenza imprescindibile per chi aveva inteso darsi ca-rico delle sorti dei lavoratori isolani. Una politica regio-nale immiserita nel contingente sarebbe così divenuta unodei grandi bersagli per la battaglia sindacale della CISLguidata da Antonio Uda: «occorre avere � diceva � undisegno generale sul quale attestarsi, e piegare i bilanciannuali e triennali ad esso, governando con un passo di-rettamente proporzionale agli indici economici e socialidella crisi, individuando le procedure straordinarie capacidi intervenire sul funzionamento della macchina ammi-nistrativa, ed eliminando le farraginosità e le lotte di po-tere che bloccano o rallentano la spesa pubblica». Era unchiaro atto d�accusa alla Regione, ma non ad una giuntaperché guidata da Mario Melis anziché da Angelo Rojch,ma ad una Regione come centro di governo politico-am-ministrativo della Sardegna. Una Regione che sembravaessere naufragata nell�inefficentismo burocratico e sem-brava essere sempre più lontana dalla gente comune, daiproblemi dei sardi.Ha scritto giustamente Salvatore Mannuzzu che

quando in Sardegna si sente ripetere che Cagliari, per direla capitale dell�istituzione regionale, è più lontana di Roma,e la querela ha dei fondamenti, si capisce che è mancato

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finora [all�autonomia regionale] il più importante risul-tato ... L�autonomia, nella fase in cui si è giunti regge, comesostanza democratica, se non solo è autonomia da qualco-sa ma autonomia di far qualcosa: se riesce a darsi un pro-getto, se diventa strumento d�una costruzione capace di coin-volgere collettivi e partecipazione popolare46.

La CISL sarda s�era riconosciuta in questo disegno, ed èproprio questo l�incipit di quel «patto tra sardi» che saràl�appello lanciato dal movimento per rifondare la Regionee l�Autonomia attraverso la partecipazione e l�impegno ditutti (perché tutti diano qualcosa anziché solo chiederla).C�è anche in questo la verifica di quella sardità della CISLche ne caratterizza gran parte delle sue azioni. Una sardi-tà che la porta ad essere, sempre, al servizio della comu-nità dei sardi, strettamente legata � per dirla con un con-cetto caro a Mario Medde � a quelli che sono gli �habitat�più naturali ed interni alla gente, come le istituzioni, lapolitica, il sociale.Questo modo diverso di far sindacato, di essere sindacatodei lavoratori, come dice la sigla confederale, era la sceltaeffettuata per rimanere ed essere sempre più un sindacato�popolare�, vicino quindi ai bisogni ed alle attese della gentecomune, di tutti i sardi che attendono la vera rinascitadella loro terra.Sembrava infatti necessario che i singoli problemi sinda-cali (le stesse vertenze aziendali) trovassero una nuovadimensione in un quadro generale dell�economia dell�iso-la. Perché i singoli problemi non divenissero antagonistima sinergici e complementari tra loro. La CISL, che avevafatto della �concertazione� con le istituzioni di governo ilmodo di legittimare la sua presenza nel contesto politico,

si era trovata spiazzata da una Regione inconcludente eprigioniera dell�immobilismo, indebolita da troppi ma-lanni. Per la verità si trattava, come dice la storia, d�unapatologia antica, la cui progressione in aggravamento erastata peraltro direttamente proporzionale ai rimedi messiin atto dopo la sua prima diagnosi47. E si trattava, diràancora la storia, d�un male non solo sardo, ma che avevaormai colpito l�intera società nazionale.Il sindacato sardo aveva cercato di rivitalizzare quell�azionedi guida e di governo portando l�analisi della vertenzaSardegna su di un tavolo di decisioni ancora più alto, sta-bilendo un�intesa tra Stato-Regione-Sindacati. In quest�ot-tica deve essere letto l�importante accordo raggiunto dal-le organizzazioni sindacali con il Governo nazionale e conla Giunta regionale nel dicembre del 199048. In esso siponevano alcuni punti fermi per riavviare lo sviluppodell�isola, particolarmente importanti anche per la lorovalenza innovativa. Antonio Uda ne ricorda gli aspettipiù qualificanti:� innanzitutto l�avvio di un primo esempio di «patto ter-ritoriale» in cui i tre contraenti dell�intesa (Stato-Regio-ne-OO.SS.) si impegnavano nel realizzare, utilizzandole risorse disponibili, «un progetto per il riassetto terri-toriale della Sardegna centrale da realizzarsi con un ac-cordo di programma ai sensi della legge 64»;

� l�impegno del Governo nazionale di provvedere con ap-posito strumento legislativo ad «equiparare gli stan-dard qualitativi e quantitativi dei servizi della PubblicaAmministrazione in Sardegna ai livelli nazionali», inmodo da creare nuova occupazione e migliorando i ser-vizi pubblici isolani;

� l�assicurazione, data dal ministro delle Partecipazioni

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statali, che i tre grandi enti di Stato presenti nell�isola(ENI, EFIM e IRI) si sarebbero fatti carico del risana-mento e del rilancio delle loro fabbriche, sia nel campominero-metallurgico che in quello petrolchimico, im-pegnandovi in particolare l�Enimont (la discussa e pa-sticciata joint venture tra ENI e Montedison).

A queste intese, indirizzate a ridare vitalità agli interventistatali a favore dell�isola, dovevano seguire, tra le ammi-nistrazioni e gli enti interessati, la predisposizione di ap-positi «contratti di programma».Non vi è dubbio che quel tavolo della concertazione, for-temente voluto dalla CISL sarda (e unitariamente con CGILe UIL), aveva offerto alla Regione un indirizzo ed un me-todo di impegno e di lavoro di grande interesse immedia-to e di straordinaria utilità per il futuro. Per il sindacato,che era stato l�efficace levatrice (ed insieme il notaio) diquell�intesa Stato-Regione, c�era tutta la soddisfazione peravere individuato non solo il metodo per far sentire auto-revolmente la propria voce nelle decisioni della politica,ma anche lo strumento per affrontare la risoluzione dialcuni dei più drammatici problemi esistenti nel mondodel lavoro dell�isola.Il metodo degli accordi di programma (o dei patti territo-riali o di quant�altro si poteva riferire ad un �patto� socia-le concertato tra diversi) era parso come uno strumentoutile per calarsi nelle differenti realtà territoriali, affron-tarne i problemi non eludendo le specificità esistenti. Comeconquista sindacale era poi la controprova dell�efficaciadella cultura dell�organizzazione dei lavoratori nell�affron-tare le difficoltà dell�economia.Uda prova oggi grande sconforto nel constatare che quellaimportante conquista si fosse poi vanificata per i gravis-

simi ritardi consuntivati e le diverse inadempienze regi-strate (della Regione e dello Stato), in cui ancor oggi èdifficile capire se le maggiori responsabilità sono da ricer-carsi all�interno od all�esterno dell�isola. Il solo �patto�nuorese � ricorda � sarebbe giunto al traguardo solo gra-zie alla tenacia (che era poi un misto di caparbietà e digrinta) di Angelo Serra, Segretario generale di quella Unio-ne territoriale, che se ne fece carico come impegno quasipersonale.Ma sarebbe stato proprio il terribile orco della foresta bu-ropolitica49 ad impedire la realizzazione delle azioni o deiproponimenti assunti. Permaneva infatti sempre, comeproblema centrale della capacità autonomistica, l�efficienzadell�amministrazione regionale, la sua adeguatezza (percapacità, disponibilità ed impegno) nell�affrontare i tantinodi presenti nell�economia isolana in un indirizzo chefosse prospettico e non limitato ai soliti rappezzamenticontingenti. Efficienza ed adeguatezza che apparivanocome incombenti grandezze in negativo. Per cui ogni in-tervento era diretto sempre a rappezzare il passato piùche a costruire il futuro.Sembrava disattesa l�efficace metafora dell�evangelistaMarco che, prendendo spunto dalla provata inutilità d�ap-plicare una toppa di panno grezzo su un vestito vecchio esfilacciato (dato che il rattoppo avrebbe squarciato il vec-chio formando uno strappo peggiore), indicava come fossepiù giusto intendimento per il uomini saggi quello di ado-perarsi per il nuovo anziché cercare di rattoppare il vec-chio già consunto.Così molti degli interventi regionali assunti sotto l�emer-genza erano destinati a non risolvere, ma spesso anche adaggravare, un�economia che appariva ormai sfilacciata e

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della Sardegna.

Antonio Uda è stato segretariogenerale della CISL sarda dal1989 al dicembre 1998. Daquesta data entra a far partedella segreteria nazionale

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consunta.La CISL sarda, su questo argomento, aveva indicato laRegione come vera e propria controparte, non per un an-tagonismo politico (peccato in cui sarebbe caduta spessola CGIL), ma per �stanarla� da un pericoloso immobili-smo, che era poi un fatto collegabile ad una patologia dasclerosi, da cui sembravano essere stati colpiti soprattut-to gli uffici regionali. Anche le prime esperienze di giuntedi diverso �segno� politico, con la DC all�opposizione e lesinistre alla guida della Giunta regionale, erano destinatead impantanarsi nelle sabbie infide di quella palude buro-cratica. Nè sarebbero riuscite a provocare alcun cambia-mento positivo.

In molti avevano predetto che il cambiamento del quadropolitico della Regione, con l�alternanza democratica � ave-va detto Uda ai quadri della CISL sarda riuniti per l�as-semblea organizzativa del 1987 � potesse avviare final-mente la riforma dell�amministrazione regionale. Continua-no a mancare i progetti le idee, le volontà politiche. Ogniassessore pensa per sé. Non c�è un coordinamento ed un di-segno di sviluppo economico complessivo50.

Per troppi aspetti, e per troppi segnali, anche l�entrata algoverno della sinistra comunista (o ex comunista) nonaveva modificato il tasso complessivo dell�efficienza (odell�inefficienza) della burocrazia regionale. Forse (ed èquesto un refrain che avrebbe accomunato le diverse mag-gioranze ed i diversi presidenti succedutisi alla guida dellaRegione51) il male era da imputarsi alle ripetute ed insisti-te �invasioni di campo� che la politica (i partiti, le correntidei partiti, i capi delle correnti) avrebbe effettuato negli

stessi ranghi dell�amministrazione, svilendola di capacitàautonome ed arricchendola invece di fastidiose discrezio-nalità (da clientela elettorale o da affinità partitica). An-che la stessa formazione di una efficiente tradizione am-ministrativa aveva dovuto fare i conti con il privilegia-mento, praticato da ogni parte politica, della �lottizzazio-ne� sulla valutazione obiettiva delle qualità di prepara-zione e di capacità52.Il professor Vanni Lobrano, divenuto Assessore regionale�alla riforma� nella prima Giunta Palomba (in rappresen-tanza dei �popolari�) aveva efficacemente indicato le stra-de per vincere quell�inefficienza, progettando il cambia-mento.

L�obiettivo della riforma istituzionale può essere sintetica-mente così formulato: trasformare l�apparato regionale da�oligarchico� (cioè chiuso nello logiche del proprio Palazzo)e, quindi, inefficiente-inefficace, quale è oggi rispetto alleesigenze ed alle aspettative della comunità regionale, in �de-mocratico�, cioè aperto alla partecipazione della comunitàregionale e, quindi, efficiente-efficace rispetto alla volontàdi questa. L�apparato regionale, in quanto preposto alla ese-cuzione della volontà della comunità, deve inoltre essere,nel proprio operare, fedele a tale volontà53.

In effetti � parafrasando un�espressione di Mario Medda,uno dei segretari regionali con Uda � la richiesta di rifor-ma della Regione veniva da troppi anni recitata quasi fos-se una giaculatoria, sottolineandone l�urgenza e l�impre-scindibilità, ma annullandole subito dopo con i rimandi,le inadempienze e le impossibilità54.A Cagliari come a Roma il distacco tra «paese reale» e

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«società politica» tendeva ad allargarsi sempre di più, esembrava diventato incolmabile. Per cui s�intuiva ancheun�indistinta, irrazionale, confusa ed allo stesso tempoinsistente �voglia� di cambiare tutto della politica. Di rin-novarne soprattutto quel mondo che aveva perduto or-mai ogni diritto al primato, tanto da apparire, a detta dialcuni, infrequentabile, o � secondo altri � colpevolmentelontano dai reali bisogni della gente.Sembrava farsi strada un po� d�ovunque quel voto �diprotesta�, o, peggio, quel desiderio d�astensionismo elet-torale che, pur nelle evidenti contraddizioni, indicavano iprofondi mutamenti (d�orientamento e di scelta) interve-nuti nell�elettorato. Erano quindi diversi i segnali che av-vertivano sul fatto che il primato della politica era ormaiposto in discussione, mentre prendeva sempre più valorela centralità del �sociale�. Con tutte le sue negatività (comele esasperate micronizzazioni e gli eccessi di corporativi-smo) ma anche con tutte le valenze positive, come le for-mazioni di volontariato, le reti interelazionali tra indivi-dui, gruppi, culture, e ancora le iniziative per arginare lenuove povertà, ecc.Con la crisi di identità dei vecchi partiti di massa (il PCIera diventato il partito democratico della sinistra, la DCera ritornata alle origini sturziane di partito popolare) ilvoto elettorale era andato sparpagliandosi per tanti rivo-li: se nell�ottava legislatura repubblicana (1979) PCI e DCavevano monopolizzato circa il 70 per cento dei consensi,nell�undicesima (1992) s�erano ridotti a poco più del 45per cento55.L�entrata in campo di formazioni politiche �alternative�,come la Lega Nord, i Verdi, i Radicali, la Rete, la stessaRifondazione comunista nata da una costola del partito

comunista � liste a cui nel voto del 1992 sarebbero andatiquasi il 25 per cento dei consensi � avevano reso più va-riegato e molto più complesso il quadro politico generale.Ci si trovava di fronte ad una sorta di discontinuità con ilpassato che poteva anche avere, come qualcuno ha scrit-to, connotati di rivoluzione (morale, referendaria, politi-ca o giudiziaria che fosse), ma che tutto sommato appa-riva più virtuale che reale. Anche se bagnata da diversosangue (peraltro anch�esso virtuale).In quest�ottica di �voglia� di cambiamenti, andrebbe valu-tato il grande successo del referendum popolare per lariforma elettorale, voluto e sostenuto tenacemente daMario Segni, che testimonierà quell�inconscia e genericavolontà di trovare discontinuità con il passato, che attra-versava gran parte della società italiana. Nell�intento diandare incontro, seppure fideisticamente, a quella che ipolitologi immaginavano potesse essere la �Seconda Re-pubblica�.Il 27 marzo del 1994 si sarebbero svolte le prime elezioninazionali con il nuovo sistema (uno studioso attento edautorevole come Giovanni Sartori l�avrebbe irriso, dalnome del suo proponente, come un matarellum, ibridoconnubio tra maggioritario e proporzionale). Il primoesame dei dati56 avrebbe mostrato un quadro completa-mente rinnovato per la geografia politica del Paese, con ilsuccesso di un nuovo protagonista della scena politica,Forza Italia di Silvio Berlusconi, capace di conquistare alsuo esordio il 21 per cento dei voti validi (esattamente4.402.267).In realtà solo pochi mesi sarebbero stati sufficienti percomprendere che, in quell�eterogeneo nuovismo, eranorimaste intatte «le vecchie frammentate identità politico-

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partitiche (in buona parte salvate grazie alla quota pro-porzionale) che avrebbero portato ad una precaria convi-venza tra vecchia e nuova politica. Il governo, che si for-merà all�insegna del nuovo, fu affidato a Silvio Berlusco-ni, ma la sua compagine governativa risulterà il fragilerisultato di una sintesi post-elettorale destinata a durarepochi mesi 57».Quel terremoto elettorale avrebbe avuto un seguito an-che in Sardegna, ove, nel maggio dello stesso 1994, sisarebbe eletto l�undicesimo Consiglio Regionale. Anchenell�isola il voto �delle politiche� aveva evidenziato nonsolo la crisi dei due �grandi� partiti storici (DC e PCI), mal�entrata in campo di un agguerrito contendente come ilmovimento berlusconiano di Forza Italia.Una nuova legge elettorale regionale � anche questa estre-mamente pasticciata e soprattutto figlia, come disse qual-cuno, di troppi padri e d�una madre libertina � avrebbedovuto segnare la separazione tra vecchio e nuovo, tra laprima e la seconda Regione. I risultati diranno che nienterisulterà più vecchio di quel nuovo annunciato e auspica-to.L�elezione a Presidente della Giunta del magistrato Federi-co Palomba (un cattolico da tempo impegnato nel socialee sostenuto dai Progressisti del PDS, divenuto forte per leoltre 90 mila preferenze conquistate58), porterà alla for-mazione di una eterogenea coalizione (diessini, popolari,pattisti e sardisti), più antiberlusconiana che omologatapoliticamente. Questo ibridismo darà avvio ad una sta-gione politica contrassegnata da un�eccezionale litigiositàe da continui spostamenti di consiglieri all�interno dei di-versi schieramenti (oltre che da un frequente turn-overtra i gruppi di maggioranza)59.

Le vicende politiche regionali, come qui ricordate, servi-ranno da scenario ad una stagione sindacale di particola-re intensità. Non v�è dubbio che l�indeterminatezza delcambiamento avvenuto, e � ancormeglio � l�allungamentodella fase di transizione tra vecchia e nuova Regione, avreb-bero acuito le difficoltà di essere e fare sindacato. Proprioperché la società economica sarda presentava per l�attivi-tà di governo di questa malassortita coalizione di gover-no un quadro di emergenze da affrontare particolarmen-te impegnativo.Non sarebbe stato, anche per motivi obiettivi, un bancodi prova facile per nessuno, ma sarebbe divenuto ancorpiù difficile perché continuava a mancare alla classe poli-tica sarda (in indifferenza di schieramento) una capacitàed una volontà (oltre che solidi ancoraggi culturali e ide-ologici) per disegnare la nuova Regione.Nei secoli andati era parso che il solo nodo da scioglierefosse quello esistente tra agricoltura e pastorizia (attra-verso il ripopolamento delle campagne con uomini e noncon pecore) per raggiungere il �rifiorimento� fisiocraticodell�isola; nei decenni più vicini il vero dilemma era statoindicato da molti nella scelta tra ruralismo ed industria-lizzazione (tra sviluppo soft e hard), dando alla fabbrica ilcompito di modernizzare ab imis fundamentis la societàsarda.In verità le complessità ambientali e sociali dell�isola del-l�Ottocento e di quella del Novecento andavano ben oltrequeste semplificazioni e queste contrapposizioni. Ma sulfinire del XX secolo il modello di riferimento non potevapiù essere l�indicazione fisiocratica del Piemonte sabaudoo l�industrialismo forzato dei neo-keynesiani del meri-dionalismo tecnocratico.

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Non bisognava dimenticare che la stessa autonomia re-gionale, da strumento istituzionale per autogovernarsi,sembrava essersi ridotta ad un inutile oggetto d�antiqua-riato, se non, talvolta, anche a tema per pedanti ed inutilidiscussioni filologiche sulla sua possibile omologazionecon quella magnificata identità nazionale dei sardi. Con ilrisultato di fare diventare �virtuale� (cioè puramente no-minalistico) un valore �forte� e reale come quello racchiusonell�autonomia �speciale� ottenuta dalla Sardegna nel 1948.La seconda Regione avrebbe infatti accentuato gran partedei mali presenti da tempo nella politica isolana: dalla li-tigiosità all�inconcludenza, dall�indecisionismo alla far-raginosità (delle leggi, dei regolamenti, delle decisioni), dalclientelismo alla lottizzazione. Una Giunta che se era ap-parsa debole nelle votazioni consiliari (per via dei franchitiratori), doveva dimostrarsi ancor più fragile ed insicuraper l�incapacità e l�inconcludenza dimostrate nell�indivi-duare e nel dettare efficaci indirizzi di governo.Secondo la valutazione del sindacato, nessuno sforzo erastato compiuto per elaborare un piano generale di svilup-po (che tenesse conto delle tante contraddizioni presentinel tessuto produttivo isolano) nè era stata assunta alcu-na iniziativa atta ad affrontare l�attesa riforma dell�enteregionale e, soprattutto, a mettere ordine nell�intricatobosco degli enti strumentali.Il giudizio di Antonio Uda era stato, su questa stagionepolitica regionale, estremamente drastico.

La nostra Regione � aveva dichiarato � sta attraversandoil periodo più buio della sua storia autonomistica, sia poli-ticamente, sia socialmente, sia culturalmente, sia � infine� dal punto di vista del lavoro e dell�occupazione. Abbiamo

infatti una disoccupazione che viaggia ormai al 26 per cento;la forza lavoro non solo non cresce ma addirittura diminu-isce; gli investimenti sono in caduta libera; vi è un aumentodi mortalità delle imprese; vi è ancora il ritorno di un feno-meno da anni sconosciuto nell�isola: l�aumento della po-vertà, quella vera. A questo si aggiunge l�altro fenomenodelle nuove povertà, che è formato da molte pensioni socia-li, al minimo, dagli ex cassintegrati utilizzati nei lavorisocialmente utili. È ripreso un forte flusso migratorio di cuisembra nessuno voglia accorgersi. Ed in più sono molti, acominciare dai Vescovi sardi, ad accorgersi che il momentoattuale è drammaticamente di grande emergenza sociale60.

Eppure il «sistema-Sardegna» richiedeva interventi urgentie tempestivi di chiarificazione e di scelte. Si era giunti adun punto che il timing politico � cioè l�inadeguatezza deitempi d�intervento al manifestarsi dei problemi � era di-venuto il primo disvalore per l�efficacia dei provvedimenti.L�economia isolana continuava a vivere in quella fase digalleggiamento che per molti è l�anticamera della reces-sione. Perché galleggiamento economico si omologa qua-si sempre in non-sviluppo (e non-sviluppo in non-lavo-ro). Ma quello stesso galleggiamento era reso sempre piùprecario dall�incombere di tempeste provenienti dai quat-tro punti cardinali. Da cui sarebbe occorso allontanarsi alpiù presto.La prima era rappresentata dall�avvicinarsi del disimpe-gno azionario, e di smobilitazione produttiva, delle Parte-cipazioni statali dalle attività sarde (e si trattava di unfatto interessante il 59,3 per cento dell�occupazione delsettore industriale in senso stretto).La seconda perturbazione riguardava l�assetto da dare al

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settore energetico dove esistevano due opzioni industrialidisomogenee anche geograficamente: una sudista, legataalla gassificazione del carbonsulcis, e l�altra nordista, in-dirizzata allo sviluppo della metanizzazione. E se ne intu-iva ancora una terza, legata al petrolio, per via della vertica-lizzazione energetica proposta dalle raffinerie SARAS.I metereologi avevano anche avvertito che, per scongiu-rare i pericoli recessivi, non si sarebbe dovuto continuarea tenere a bagnomaria il piano telematico regionale, unostrumento che più d�ogni altro avrebbe potuto portare laSardegna entro i domini della modernità (eppure esso gia-ceva da quasi una decina d�anni nel limbo dell�indecisio-nismo legislativo e amministrativo).Un�altra emergenza proveniva dal settore delle acque. Per-ché la necessità d�un piano regolatore delle risorse idricheisolane era sempre più indilazionabile. Quel piano giace-va da tempo fra gli impegni presi e mai portati a terminedalla Regione, con alcuni momenti di �sveglia� (in occa-sione delle siccità) che interrompevano peraltro i tempilunghi del sonno, in cui continuavano a riemergere i vec-chi istinti del più retrivo conservatorismo (perché si con-tinuassero a mantenere le diverse decine di organizzazio-ni che nell�isola vi vivono attorno).C�era inoltre un�ultima fonte di pericolo da cui occorrevadifendersi, affrontandola con decisione. Era quella legataal sistema creditizio regionale. La critica posizione (instand-by) della Banca di Sassari (l�ex Popolare), posta sot-to tutela del Banco di Sardegna; la scomparsa di un isti-tuto di credito �speciale� per i finanziamenti industrialicome il CIS61, a seguito della fine della legislazione straor-dinaria per il Mezzogiorno; l�indirizzo della legge Amatosulla privatizzazione delle banche pubbliche che avrebbe

coinvolto l�assetto proprietario dello stesso Banco di Sar-degna, apparivano tutte delle emergenze che richiedeva-no un�appropriata �visione� regionale per il credito.Si trattava, come è facile comprendere, di nodi che occor-reva affrontare per cercare di uscire dalla pericolosa e pre-caria fase di galleggiamento in cui s�era caduti.Sarebbe occorsa quindi una politica regionale forte edautorevole (qui intesa come il complesso di forze che for-ma l�esecutivo ed il legislativo), capace di esprimere, negliatti concreti, una guida efficace e condivisibile. Purtrop-po, ci si sarebbe trovati, invece, di fronte ad una politicadebole e in perenne crisi di identità, incapace di sollevarsiin volo, più adatta a razzolare nel pollaio delle clienteleche a raggiungere vette d�osservazione per orizzonti piùvasti e più generali.Lo avrebbe denunciato con forte autorevolezza GiovanniLilliu, Accademico dei Lincei, intervenendo al convegnodella CISL sarda del luglio 1996: «la Regione come entitàpolitica ha oggi perduto l�anima, si è ridotta a mero eser-cizio di potere, a una officina di meccanismi programma-tori via via escludenti partecipazione di territori, di orga-nismi e soggetti di base, a una struttura succursalista del-lo Stato». Erano espressioni forti che l�autorevolezza delpersonaggio (forse il più alto esponente dell�intellettuali-tà sarda attuale) rendeva ancor più pesanti.Questo distacco sempre più profondo tra �realtà� della cri-si della società regionale e �virtualità� delle manovre poli-tiche, apparirà come il segnale originante le profonde in-quietudini che, dai primi anni del decennio, attraverse-ranno l�intera comunità regionale. Sia sul versante socia-le, come su quello economico che politico.La CISL sarda � in ossequio alla sua vocazione di voler

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essere prima d�ogni cosa il sindacato dei sardi � avevaritenuto di dover continuare il suo percorso di patrimo-nializzazione culturale attraverso il rafforzamento del-l�autonomia regionale (e quindi delle capacità d�autogo-verno e di non-dipendenza) e la ricerca di forme semprepiù strette di solidarietà con la società nazionale (e innan-zitutto con il movimento nazionale dei lavoratori).La CISL sarda avrebbe quindi vissuto tutti questi scon-volgimenti (negli assetti dei partiti, nella loro scomposi-zione, nella fragilità delle maggioranze, nel riapparire diun revanchismo neoconservatore) con la preoccupazionedi dover assistere ad un ulteriore aggravamento della si-tuazione sociale della Sardegna. Erano davvero molte leprevisioni atmosferiche che suscitavano allarme per chisentiva la necessità di uscire fuori dalla tempesta, mentresembravano modificati o spariti i tradizionali punti di ri-paro utilizzati nei fortunali del passato.Il sindacato si sentiva del tutto solo in queste vicende; soloquindi, ma compreso della responsabilità di poter essere,per i suoi iscritti e per la società isolana, un punto fermodi riferimento (e di orientamento) fortunatamente rima-sto immodificato.Questa ci pare una giusta chiave di lettura per inquadra-re, e comprendere, il grande sforzo effettuato dall�UnioneSindacale Regionale e da Antonio Uda per costruire unaproposta di interventi per far riprendere alla Sardegna ilcammino dello sviluppo. D�altra parte, con una contro-parte che era divenuta sempre più �la politica�, e di frontealla sua palese debolezza nel guidare la ripresa, sembravanecessario predisporre un pacchetto di proposte e di indi-cazioni utili ad attivare un confronto ed un dibattito. Lastessa agenda delle emergenze aperte nell�isola, e che si

sono appena ricordate, era tale da richiedere una dinami-cità politica nell�azione di governo che sembrava latitare.L�iniziativa �politica� della CISL sarda troverà sostanza nelconvegno Quale sviluppo con quale Regione, in cui, nel lu-glio del 1996, il sindacato avvierà un confronto su alcunitemi interessanti lo sviluppo dell�isola.

L�iniziativa non è un contributo generico ed ordinario, mavuole essere � sono le parole di Uda introducendo i lavori� una vera proposta per ridisegnare l�ammodernamento edil futuro dell�isola. Certo, è una proposta della CISL chedeve essere confrontata con gli altri soggetti istituzionali,imprenditoriali, culturali e sociali. Ma per noi ha un vin-colo, quello temporale.Infatti il fattore tempo non è oggi una variabile indipen-dente ed indifferente dallo sviluppo economico e occupazio-nale ed in linea di continuità col passato per la partecipa-zione democratica alla programmazione. Siamo stati in-dotti a questo confronto perché troppi segnali ci fanno com-prendere che siamo in assenza di una vera politica di svi-luppo, di una vera politica industriale, di una vera politicaenergetica, di una vera politica turistica.Di fronte a queste assenze il nostro è, e vuol essere, solo uncontributo di idee seppure � permettetemi � importante. In-fatti in questo nostro lavoro siamo stati aiutati da illustridocenti universitari, Giovanni Lilliu, Giuseppe Usai e Gio-vanni Lobrano, autori di relazioni che arricchiscono que-st�incontro, ma anche da autorevoli personalità che vi hannocontribuito attraverso documenti e suggerimenti, dai pro-fessori Vittorio Dettori, Bachisio Scarpa e Vittorio Bona aidue ex segretari generali della CISL sarda Giannetto Lay eUgo Pirarba.

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Con questo convegno vogliamo dimostrare che questo sin-dacato è uno dei pochi soggetti collettivi ancora vivo in que-sta società, forte ed all�altezza di governare i processi dicambiamento, e si candida a difendere gli interessi dei la-voratori saldandoli con quelli dei disoccupati e dei pensio-nati in uno sforzo di solidarietà con le nuove povertà delterzo millennio. Difende sì lo stato sociale, ma propone an-che una linea di sviluppo e di occupazione.Questa è la nostra sfida. Ed è una sfida con due diversestrade davanti: o quella della responsabilità o quella dellalotta. Ma questo non dipende più da noi62.

Uda aveva anche indicato una serie di opzioni sulle qualisi poteva lavorare per costruire un progetto per la ripresadello sviluppo. Era, in effetti, l�interpretazione di quel ruoloche il sindacato sardo aveva cercato di ricoprire, passandoda movimento della contrapposizione a quello della concer-tazione. E su questo indirizzo il sindacato aveva inteso

ribadire quello che da tempo continuava a dire in ogni oc-casione ed in ogni sede: lo sviluppo della Sardegna passaattraverso una serie concomitante di azioni positive che,partendo da ciò che resta del vecchio modello di sviluppo(agropastorale, petrolchimica, minerometallurgico), rivisi-tato alla luce dei cambiamenti mondiali dell�economia dimercato, si saldi con i nuovi investimenti nell�agroindu-stria, nell�artigianato, nel turismo e soprattutto in quel-l�economia �del sapere� che il professor Usai ritiene essere la�terza ondata� dei rivolgimenti economici63.

Se il primato della politica non riusciva più a manifestar-si con decisione ed autorevolezza (per cause interne, cer-

tamente, ma anche per valenze esterne), sembrava neces-sario che riemergesse la centralità del sociale e, soprattut-to, di quelle organizzazioni che erano più adatte ad inter-pretarne bisogni ed attese.Con le giunte �di sinistra� (Rais, Melis e Palomba), infatti,la CGIL smetterà di incalzare e contestate la Regione nellesue scelte, e questo nonostante fossero rimasti aperti pro-blemi e vertenze che lo avevano portato ad osteggiare vio-lentemente i precedenti esecutivi di altra colorazione.Nel caso della CISL questo divario di comportamenti nonrisulterebbe, dato che diversi presidenti DC della Regionedovettero fare i conti con le critiche (o la contrapposizio-ne) anche di dirigenti sindacali come Giannetto Lay, UgoPirarba ed Antonio Uda, personalmente �vicini� al partitodello scudo crociato.Anche per questo l�azione dei sindacati avrà momenti diconvinta unità allorché l�obiettivo della lotta era la Regio-ne a guida DC e, al contrario, registrerà momenti di diva-ricazione, per responsabilità della CGIL, allorché si tratta-va di incalzare una Giunta rossa: «le nostre critiche allagiunta Melis � affermerà ad esempio Uda64 � per averedisatteso gli accordi Regione-OO.SS in tema di lotta alladisoccupazione e di sostegno all�economia, furono giudi-cate dai colleghi cigiellini come un atto di �lesa maestà�;fummo anche accusati di fare l�opposizione per conto dellaDC».Ma, a dire il vero, tutto questo riguarderebbe non la �po-liticità� del sindacato quanto la sua �politicizzazione�. Cheè, a ben vedere, differente discorso.Quel bisogno di �politicità� dei comportamenti era in granparte giustificato dallo stato generale della società civiledel Paese oltre che della Sardegna. Le difficoltà dell�econo-

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Nel gennaio 1999 Mario Meddeviene eletto Segretario Generale

della CISL sarda (nella foto con icolleghi della nuova Segreteria:partendo da destra, EsandroConcas, Mario Medda, MarioMedde, Mario Moro, EgidioMurgia, in occasione della

Conferenza Regionale dei Servizi).

Dirigenti della CISL sardapartecipano ai lavori dellaConferenza Regionale dei ServiziCisl tenutasi ad Arborea il 9novembre 1999.

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mia nazionale degli anni Novanta avrebbe reso necessa-rio un forte arretramento nella quantità degli interventi�esterni� (gli aiuti e le assistenze disposti dalla legislazionestatuale) disponibili per favorire lo sviluppo dell�isola. Lanecessità di contenere la spesa pubblica nazionale, con lasua obbligata riqualificazione (dopo troppi anni di prati-che spendaccione e sprecone), metteva fine all�euforia neo-keynesiana dei decenni precedenti. Che era ritenuta re-sponsabile, per molti osservatori, d�avere portato il Paesea due passi dalla bancarotta (l�escalation del rapporto de-bito pubblico/ PIL era stata impressionante: nel 1994 eraarrivato quasi al 120 per cento, raddoppiandosi rispettoa dieci anni prima).Quello che era stato il tradizionale �salvagente� delle diffi-coltà sarde (l�intervento di flussi d�investimento dall�ester-no) non era quindi più possibile nè proponibile. Occorre-va, quindi, trovare all�interno le risorse necessarie pervenire fuori dalla crisi. Era questo il retroterra intenzio-nale da cui sarebbe nata l�iniziativa del «patto tra i sardi».Si trattava di un�evoluzione di quella rilettura dell�auto-nomia come non-dipendenza, come assunzione di respon-sabilità dirette, che era stato l�impegno della CISL sardadegli anni Ottanta. Era un nuovo passo in quell�itinerarioall�interno della �sardità� dei comportamenti che può es-sere intesa come una delle chiave di lettura più utili percomprendere l�identità del movimento sindacale sardoformatosi sotto le bandiere bianco-verdi della CISL. An-tonio Uda lo aveva lanciato nel congresso regionale del-l�aprile 1997 perché tutte le comunità dei sardi si trovas-sero insieme «per far pesare la loro presenza in un Paeseche si evolve e nella costruzione dell�Europa»65. Lo si sa-rebbe chiamato Patto sociale e politico tra comunità e ugua-

li, proprio per sottolineare che tutti i sardi, con pari di-gnità, dovessero impegnarsi per far rinascere l�isola.L�appello era stato lanciato allorché la Sardegna, come granparte delle regioni �povere�, era stata chiamata a soppor-tare i maggiori sacrifici nelle politiche di risanamentomesse in atto dai governi nazionali (con Giuliano Amatoe Carlo Azeglio Ciampi). Ci sono molti indicatori che se-gnalano le lentezze della ripresa sarda e, contestualmen-te, il progressivo ritardo che l�economia isolana mostrerànei confronti di quella nazionale, e soprattutto di quelladelle regioni più favorite come quelle del Centro Nord (neldecennio il prodotto regionale pro capite, a valori costan-ti, era cresciuto del 21,4 per cento contro il 31,6 delleregioni centrosettentrionali). Il PIL regionale era ormaistaccato dal trand di quello nazionale (lo 0,7 contro l�1,8per cento), mentre la disoccupazione cresceva in manieracostante (circa 5 mila unità in più per anno) con fortidifferenze territoriali. Anche gli investimenti industrialicontinuavano a mostrare una forte decelerazione, in con-tro tendenza sui dati nazionali (e soprattutto del Nord) oves�erano verificate interessanti percentuali d�incremento.Continuava infatti a manifestarsi nell�isola una forte pro-pensione del risparmio delle famiglia a confluire nell�areadella rendita (come quella passiva sui titoli del debito pub-blico che assicuravano interessi netti superiori anche alladecina66), anziché su quella del profitto o dell�investimen-to produttivo (nuove abitazioni, attività d�impresa, ecc.).A favorire questa tendenza dava una grossa mano la for-te incidenza del �valore aggiunto� derivante dal settore pub-blico che, da solo, appariva superiore alla somma di quel-lo riveniente dalle attività produttive dell�agricoltura e del-l�industria (il terziario complessivamente valeva il 70 per

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cento del valore aggiunto regionale)67.Con un reddito pro capite che diveniva sempre più in-fluenzato dai trasferimenti dall�esterno (stipendi pubbli-ci, pensioni, ecc.). «Si pensi � ha scritto recentementeMarcello Tuveri � che oggi il 44 per cento degli stipendidei sardi è prodotto dalla pubblica amministrazione, con-tro il 25,7 del Centro Nord ed il 30 per cento dell�Italia inte-ra. Cioè senza i trasferimenti dalla finanza pubblica allarga-ta il nostro reddito sarebbe molto ma molto più basso68».Ad un�economia di così basso livello faceva pendant unaclasse dirigente (politica, imprenditoriale, sociale) anch�essadi minor profilo. Nei discorsi e negli interventi fatti indiverse sedi, si metteva in discussione tutto, quasi che,come si dice in gergo, fosse utile e producente fare d�ognierba un fascio. Non cercando di separare la gramignadall�oglio, le erbe buone da quelle nocive. Le esperienzecompiute nei decenni precedenti, con i loro insuccessi maanche con alcune effettive valenze positive, non sembra-vano altro che vecchie scorie da gettare nelle discariche.Mario Medde ha accennato giustamente, analizzandoquesta situazione, al fatto che la società isolana era en-trata in uno stato di grande spaesamento, quasi avesseperduto la bussola. Il suo male sembra essere una sorta diforma acuta di labirintite, un male destinato a privaretutti, e ciascuno, di validi punti di riferimento.I valori di ieri � quelli su cui si è costruita la crescita socia-le dell�isola � sembrano essere divenuti dei disvalori, nè sitrovano o si propongono valori sostitutivi. Si pensa sianecessario, ed urgente, riscrivere lo Statuto regionale, manon se ne indicano i nuovi possibili contenuti (e questomentre non si riesce neppure a recepire la produzione ri-formista messa in atto dal Parlamento). Molti politici iso-

lani, che sembrano essere affascinati dalle novità rivolu-zionarie della new economy (e citano le performance di �Ti-scali� e del suo patron), nell�aula consiliare di via Romacontinuano a votare � come se nulla fosse accaduto �leggi perché si costruiscano marciapiedi, come cin-quant�anni fa accadeva per i muretti a secco (cioè i piùtriti esempi della very old, old economy)69. La rilettura digran parte della produzione legislativa regionale di questiultimi dieci anni indica come si sia perseverato nel volerprivilegiare la legislazione «dello scambio» (cioè dei favorie delle clientele) a quella dei progetti. L�unico aggiorna-mento avrebbe riguardato l�aggettivazione, che da �so-ciale� (tra organizzazioni bianche e rosse) è divenuto �ter-ritoriale�, distribuendone i benefici spesso più per clienteleelettorali che per ragioni economiche.Non vi è dubbio che anche il movimento sindacale eradestinato a trovare grandi difficoltà ad affrontare i pro-blemi d�una società condizionata da quella che, parafra-sando il CENSIS, potrebbe chiamarsi una legislazione«d�ipertrofia regionale» (cioè quella sovrabbondanza di attie di leggi che ha lo scopo principale di dare un sempremaggior potere alla politica).

L�ipertrofia pubblica e la sovrabbondanza giuridica � hascritto De Rita nell�annuale rapporto del CENSIS70 � por-tano fatalmente ad una sovrapposizione delle leggi, ad unaloro fatale lentezza, ad una loro frequente cannibalizza-zione, ed al potere arcano dei loro sinedi, scribi e sacerdoti.In questo ci si riconosce sempre meno e si reagisce o per de-vianza evasiva o per adattamento passivo o per indifferen-za. In tutti e tre i casi con la ricerca di salvezza nella mi-crodimensione della propria sfera particolaristica. Se si vuole

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evitare un tale pericolo bisogna riaffermare l�importanzadi un equilibrato confronto dialettico, ed anche antagoni-stico, fra dimensione politica e dimensione sociale.

Alla debolezza della politica doveva quindi supplire unamaggiore forza del �sociale�. Ed era questa la ragione percui la CISL sarda aveva lanciato l�appello per il patto trasardi. Un tentativo per mettersi insieme, con pari impe-gno e pari dignità, per tracciare una rotta utile per �venir-ne fuori�. Perché attorno alla democrazia �politica� fossepossibile realizzare una compiuta e diffusa democrazia�sociale ed economica�. Perché un adeguato ed efficiente�capitale sociale� potesse essere messo a disposizione dellaripresa economica dell�isola.In questa direzione il sindacato si giocherà molta dellasua credibilità e del suo potere di trascinamento. Indub-biamente non sarebbero mancati le difficoltà e gli ostaco-li. In primo luogo per quell�accentuata �non-ricettività�all�impegno sociale di molte parti della società isolana.Secondariamente, per quell�ipertrofia del controllo politi-co dell�economia che tende a contenere ogni segnale dinuova vitalità nel tessuto economico-sociale (un�econo-mia Regione-dipendente). Allorquando, alla fine del 1998,Antonio Uda71 lascerà anticipatamente la segreteria gene-rale della CISL sarda per entrare a far parte della Segrete-ria confederale nazionale di D�Antoni, la situazione gene-rale dell�isola, apparirà ancora in mezzo al guado. Le per-sone in cerca di occupazione (che è poi il segnale rossodell�entità della crisi) erano indicate dall�ISTAT in 135mila,4 mila in più dell�anno precedente, con un tasso di disoc-cupazione che, nei giovani sotto i 25 anni aveva raggiun-to il 53,8 per cento (ma gli iscritti al �collocamento� erano

oltre 330 mila, ad indicare le anomalie di molte rilevazio-ni statistiche). I lavoratori occupati erano poco meno di550 mila, di cui però solo il 30 per cento nelle attivitàproduttive dell�agricoltura e dell�industria (sette punti per-centuali in meno del Centro Nord).Anche la crescita del PIL regionale era sempre ferma at-torno all�unità percentuale (indicatore di stagnazione), conun andamento molto più lento di quello che s�andavaregistrando nell�Italia continentale.All�interno di questo mondo così complesso e diseguale,tutto sommato mal conosciuto e mal guidato dalla poli-tica, Uda � magari con il suo pragmatismo alle volte unpo� ruvido ed anche eccessivo � s�era impegnato per rida-re centralità �politica� al movimento sindacale, facendolodiventare protagonista di quel che si potrebbe definire,parafrasando un pensiero di Sergio Turone, «il riformi-smo del possibile» (cioè una strategia per l�elaborazionedi nuove proposte atte a rivitalizzare la società civile). Ilsindacalismo orizzontale avrebbe trovato in lui un tenacee coerente interprete, nella percezione che fosse proprioquella forte caratura di �politicità� nelle iniziative sinda-cali lo strumento atto a temperare ed a marginalizzare leinsistenti spinte corporative e categoriali che sembravanoindebolire la credibilità �politica� del sindacato. L�azionedella confederazione sarda sembra quindi, negli anni No-vanta, indirizzata a tutelare i lavoratori in estensione (se-condo azioni più �diffuse�) più che in profondità (con azionipiù specifiche). Nell�intento di riuscire ad aggregare soli-darietà anziché alimentare sperequazioni. In quest�ottica,la stessa regionalizzazione della CISL (cioè l�attenuazionedelle rivalità localistiche) troverà in questo il suo effettivocompimento.

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Gli deve quindi essere assegnato il merito di avere colto,con giusta sensibilità, la necessità di dare vita ad un rin-novamento della strategia sindacale, adeguandola, con in-telligente flessibilità, al mutato ambiente sociale dell�iso-la. E, ancora, di avere maggiormente consolidato, con lesue iniziative e con il suo dinamismo, il legame solidari-stico stretto dalla CISL con il popolo sardo.Rispetto a quella praticata dai suoi predecessori (Giannet-to Lay ed Ugo Pirarba), la sua conduzione del sindacatoapparirà comunque, pur in un solco di sostanziale conti-nuità ideologica, ricca di differenze, talvolta anche signi-ficative. Ci sono diversi campi d�osservazione che con-sentono di individuare queste diversità, pur comprendendocome esse saranno �figlie� di mutate atmosfere politico-sociali.Innanzitutto il rapporto di unità (o, meglio, di unitari-smo) dell�azione sindacale con le altre due confederazioni(CGIL e UIL), tutto inteso, alla maniera privilegiata daD�Antoni, nell�orgoglio d�essere CISL (e cioè autrice princi-pale, e mai replicante, delle azioni di guida socio-politicadei lavoratori).In secondo luogo quello di voler essere, come sindacato,soggetto portato a divenire un protagonista �alternativo�alla società politica regionale, secondo gli indirizzi di quella�triplicità� strategica autonomamente interpretata, e rac-chiusa nello slogan elaborazione-contrattazione-concerta-zione.Ancora, nella concezione dell�autonomia regionale e, peraltro verso, della �sardità� delle politiche sindacali per losviluppo. Per Uda infatti, il sindacato, essendo patrimo-nio dei sardi, doveva essere visto come strumento per re-alizzare, attraverso il lavoro, l�integrazione con le più evo-

lute società �continentali�. Una sardità, quindi, sempre in-tesa come apertura verso l�esterno (al di là del mare), enon di chiusura all�interno.A sostituire Antonio Uda il consiglio generale dell�Unioneregionale eleggerà (gennaio 1999) Mario Medde, di Nor-bello, già segretario territoriale di Oristano e componentedella segreteria regionale. A lui spetterà il compito di gui-dare la CISL sarda verso il suo cinquantesimo anniversa-rio e, ancora, di traghettarla nel nuovo millennio. Ed an-che quello di realizzare un ruolo attivo del sindacato inuna società come quella regionale interessata da reiteratie pericolosi fenomeni sismici (di origine socio-economicama anche di corretta convivenza civile come i sequestri dipersona e le nuove povertà). Ed in più sempre caratteriz-zata da profonde differenziazioni territoriali.La sua segreteria si troverà immediatamente di fronte aduna delicata emergenza politica, non facile ed anche estre-mamente confusa come quella che precederà le elezionidella XII legislatura regionale. Dove le rivalità e le litigio-sità tra partiti (e candidati) sembravano prevalere sul-l�elaborazione di programmi e di impegni.La società sarda appariva infatti lacerata da mille frantu-mazioni, le cui cause andrebbero ricercate in uno scadi-mento di quelli che, nella coscienza dei tanti benpensanti,sono i �fondamentali� della nostra costituzione civile e lecertezze del nostro vivere civile (il lavoro, il benessere, lasicurezza pubblica, la giustizia �giusta�, la moralità deicomportamenti pubblici e quant�altro può servire a ren-dere ordinata e vivibile la società regionale).Il risultato della consultazione regionale sarà lo specchiodi quel disordine sociale (privo di fondamentali ancorag-gi) di cui s�è appena detto. Lo commenterà così lo stessoMedde:

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Le elezioni per rinnovare il Consiglio regionale della Sarde-gna non hanno avuto un esito tale da garantire una solu-zione lineare e certa nella definizione delle giunte possibiliper guidare l�isola nei prossimi cinque anni. Alla vittoriadel centro-sinistra nei collegi provinciali ha corrispostoquella del centro-destra nel listone regionale e nel ballot-taggio.È anzitutto la sconfitta della legge elettorale che va cam-biata a favore di nuove norme che, nel riflettere certamentela complessità e la pluralità delle opzioni politiche presentinella società sarda, siano capaci di determinare un governocerto, forte e stabile ed un�opposizione altrettanto definitae consistente72.

Ma era soprattutto la sconfitta della Sardegna (e del suofuturo), perché anche le differenti chiavi di lettura (possi-bili data la contraddittorietà degli esiti elettorali e le stra-ne migrazioni di eletti verificatesi tra i diversi schiera-menti) concorderanno su un giudizio assolutamente ne-gativo sull�efficienza e l�efficacia della classe dirigente dellapolitica regionale. In considerazione, soprattutto, dellagravità del �momento� da affrontare.Ed è da questa valutazione che prende spunto l�evoluzionedel rapporto sindacato/politica che Medde interpreta così:

Occorre pensare ad un sindacato nuovo per gli anni del 2000.Questo non significa che il rapporto con la politica saràquello descritto e voluto da Mario Romani e da Giulio Pa-store. Infatti i nostri fondatori hanno costruito un�orga-nizzazione e voluto uno statuto che rispondeva alle esigen-za della società, della politica, delle istituzioni e della loro

evoluzione nello specifico degli anni 50 e 60. La nostra opi-nione è che nella scelta di restare solo un sindacato si deb-ba comunque riscrivere il rapporto con la politica, con leistituzioni e contestualmente rivedere lo statuto della no-stra organizzazione73.

Un sindacato, quindi, che � conscio della propria matu-razione � si pone non solo come semplice incursore neidomini della politica (e dei partiti), ma che intende candi-darsi, in un domani più o meno lontano, come entitàsostitutiva per l�organizzazione elettorale del consensodemocratico? Si pensa quindi a dover ripensare il ruolodel sindacato e di ridefinirne il raggio d�azione e d�inter-vento nel futuro prossimo venturo?Si tratta, invero, di un problema che � nell�evoluzionecomportamentale del sindacato � da culturale diventa piùpolitico, perché tende a privilegiare le presenze nella so-cietà politica rispetto alle esigenze della società del lavoro.Queste domande nascono peraltro da quegli straordinaricambiamenti sociali da cui la società sarda è stata investi-ta in questi cinquant�anni. La CISL sarda si è fatta caricodi volerli interpretare con una forte carica di autonomia(dalle centrali romane, dai partiti, dalle tradizioni). Le ri-sposte possibili non sono facili nè, forse, univoche, pro-prio perché i tempi del cambiamento sono diventati cosìrapidi per cui le esperienze non solo dei decenni passati,ma anche quelle dell�altro ieri, possono essere inadeguateod inservibili.Il fatto però che siano anche questi i temi in discussionedimostra la grande vitalità culturale d�un sindacato po-polare come la CISL. Perché dalle risposte potrebbero aprirsiorizzonti e scenari nuovi per il sindacato (in Sardegna ealtrove).

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1) l�uomo politico sassarese era stato eletto alla massima magi-stratura dello Stato il 24 giugno del 1985 alla prima votazio-ne, con 752 voti su 977 votanti, succedendo a Sandro Pertini.La carriera di Cossiga somiglierà ad un vero e proprio cursushonorum: deputato dal 1958 quando ha appena 30 anni, sot-tosegretario di Stato nel 1966, ministro dal 1974 (si dimette-rà nel 1978 dopo l�assassinio di Aldo Moro), presidente delConsiglio dei ministri nell�agosto del 1979, presidente del Se-nato dal luglio 1983 fino alla sua elezione a Presidente dellaRepubblica.

2) alla segreteria confederale nazionale della CISL era nel 1990Franco Marini. Nella carica si erano succeduti: Giulio Pastore(1950-58), Bruno Storti (1958-77) Luigi Macario (1977-79),Pierre Carniti (1979-85). A Marini sarebbe poi succeduto � il30 aprile del 1991 � Sergio D�Antoni.

3) a Bologna s�era tenuto il XIX Congresso del PCI e la mozionedi Occhetto aveva ottenuto il 67% dei voti, mentre era andatain minoranza quella presentata da Cossutta ed Ingrao favore-vole al mantenimento della vecchia dizione comunista. Il 10ottobre lo stesso Occhetto presenterà ufficialmente il PartitoDemocratico della Sinistra (PDS) con il suo nuovo simbolo,sorto sulle ceneri del vecchio PCI.

4) all�interno della CGIL nel 1988 erano presenti sette distintecorrenti: comunista (PCI), socialista (PSI), amici di Occhetto(con Sergio Cofferati), amici di Garavini, amici di Ingrao (conFausto Bertinotti), terza componente (con Antonio Lettieri), eneosinistra socialista (con Giuliano Murgia). Vedi di S. TU-RONE Il Sindacato nell�Italia..., op. cit.

5) ibidem.

6) secondo l�analisi effettuata nel 1990 dal Banco di Sardegna lasituazione economica del Paese era ancora resa grave dal per-manere della fase inflativa, che influiva negativamente anchesulla capacità produttiva sempre in profonda stagnazione.

7) secondo i dati 1990 del Fondo monetario internazionale, rie-laborati dallo SVIMEZ nel suo Rapporto 1991, la produttivitàoraria era cresciuta in Italia nel periodo 1983-1990 dell�1,8per cento medio anno (nell�UE del 3,1 e nei paesi industrializ-zati del 3,5 per cento). Nel contempo i salari orari erano cre-sciuti in Italia del 7,3 per cento medio annua contro il 6,2 deipaesi UE e il 4,8 dei paesi industrializzati.

8) ci riferiamo qui al ragionamento che il sociologo Aris Accor-

nero ha svolto nel suo saggio Era il secolo del lavoro, Bologna1997, in cui si è interrogato sugli effetti del declino dellaprofessionalità come componente importante del lavoro del-l�uomo.

9) citazione tratta da S. LANARO Storia dell�Italia repubblicana,op. cit.

10) il giudizio è di Bruno Manghi, un sociologo con precedentiesperienze nel sindacato, ed è tratto dal volume Passaggio sen-za riti, Roma 1987.

11) la citazione è tratta dal volume Addio al proletariato, Roma1982, di A. GORZ.

12) l�affermazione è tratta dall�intervento del segretario generaledella CISL sarda Antonio Uda (assemblea organizzativa di Chia17-18 ottobre 1991). Il pensiero del massimo dirigente regio-nale della Confederazione era completato dall�affermazione«non ci risulta che CGIL, CISL e UIL, nelle province della Lom-bardia, dichiarino scioperi per lo sviluppo e l�occupazione alleprese come sono con una disoccupazione fisiologica del 3,4 percento. I nostri dati, purtroppo, sonomolto differenti: 218miladisoccupati pari a più del 20 per cento!».

13) quelli che imedia definivano gruppuscoli od avanguardie s�era-no costruiti un loro linguaggio ideologico gridato nelle piazzesotto forma di slogan come la rivoluzione non si processa, vo-gliamo tutto e subito, a salario di merda lavoro di merda, odanche ideologizzato con espressioni giocate sull�abolizione dellasintassi come ricomposizione di classe sul territorio, ribellione alcomando capitalistico, ecc.

14) si tratta del volumetto di D. GIOVANNETTI E le sirene smiserodi suonare..., Cagliari 1999.

15) è emblematico come in molti scritti (vedi ad es. il saggio diRuju sul volume Sardegna della storia einaudiana) la CISL ven-ga indicata come sindacato cattolico (vedi pag. 885), mentreper la CGIL non si usi mai il più pertinente, nel suo caso,aggettivo comunista (o socialcomunista). Nè sembrerebbe didover condividere l�osservazione, anche questa di Ruju, dellacarenza di democrazia di base nella CISL in confronto con laCGIL (l�elezione e non la nomina dei dirigenti e delle rappre-sentanze sta a segnare anche statutariamente la parzialità del-l�osservazione).

16) le scelte delle tre confederazioni in tema di autonomia regio-

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nale, sugli indirizzi della Rinascita, sugli investimenti indu-striali, sull�incompatibilità negli incarichi tra politica e sinda-cato, sugli accordi aziendali per la produttività, e quant�altroaccaduto nei 50 anni di Regione, evidenziano profonde diffe-renze strategiche. Ed in proposito appare ancor più deviante,per una corretta lettura della storia, continuare a leggere diuna pretesa vicinanza (o subordinazione) della CISL nei con-fronti della DC, senza che venga sottolineata la posizione del-la CGIL come cinghia di trasmissione dell�azione politica delPCI.

17) l�avv. Sirchia ed il dott. Dalmasso erano i segretari generalidelle Associazioni degli industriali di Cagliari e Sassari neglianni Cinquanta e Sessanta, e con loro le USP avrebbero af-frontato diverse sessioni vertenziali.

18) l�autore di questo saggio ricorda che in occasione di una delletante vertenze nel settore minerario, si riuscì ad ottenere daunministro DC dell�epoca, Flaminio Piccoli, una serie di prov-vedimenti e di investimenti in linea con quella che era la piat-taforma elaborata dalla Regione, attraverso l�Ente Minerario,con la concertazione coi tre sindacati (il pacchetto Piccoli).Quegli interventi invece furono poi, a seguito di un ordinepervenuto dal PCI, violentemente osteggiati dalla CGIL, cheaveva anche preteso di portare sulle sue posizioni CISL e UIL.

19) la citazione è tratta dall�intervento di Angelo Vargiu, allorasegretario regionale della confederazione, alla quinta assem-blea organizzativa il 17 e 18 ottobre del 1991 a Chia.

20) anche l�intervento di Antonio Uda alla stessa assemblea diChia è ora compreso nel n. 18 dei Quaderni trimestrali di studisardi, editi dalla CISL regionale.

21) vedi il volume di B. MANGHI, Passaggio senza riti, op. cit.Nella ricerca effettuata nel Nord, il sociologo individuava laseguente graduatoria: al primo posto la contrattazione col-lettiva aziendale, al secondo quella nazionale e poi, a seguire,la gestione dei contratti vigenti, le vertenze individuali, la mo-bilitazione sui temi generali, l�assistenza e infine il colloca-mento. Nel sondaggio effettuato al Sud le priorità del sinda-cato presentavano invece la seguente graduatoria: al primoposto la tutela individuale seguita dalla mobilitazione sui temigenerali, dall�assistenza, dal collocamento, dalla gestione deicontratti vigenti. Al penultimo posto la contrattazione collet-tiva nazionale ed all�ultimo quella aziendale.

22) la sintesi del discorso di Sergio D�Antoni a Chia è disponibilenel n. 18 dei Quaderni.

23) A. ACCORNERO - La parabola del sindacato, Bologna 1992 �ha parlato senza mezzi termini d�una parabola in declino del-le organizzazioni sindacali.

24) la drammatica elezione di Oscar Luigi Scalfaro a presidentedella Repubblica dopo il lungo braccio di ferro per sterilizzarecon i franchi tiratori i candidati dei partiti (Forlani, Andreotti,Vassalli, Spadolini) avvenuta il 25maggio 1992, avrebbe por-tato alla costituzione di un governo istituzionale presiedutodal Governatore della Banca d�Italia Carlo Azeglio Ciampi (apri-le 1993). Nel gennaio del 1994, con la trasformazione dellaDC in Partito popolare sarebbe iniziata la scomposizione inpartitini di quello che era stato il maggior partito del Paese dal1946.

25) il 23maggio del 1992 era stato assassinato nei pressi di Capa-ci in un agguato tesogli dalla mafia il giudice palermitanoGiovanni Falcone, direttore generale per gli affari penali alMinistero della Giustizia. Il 19 luglio dello stesso anno, vitti-ma di un�autobomba piazzata da un commando mafioso neipressi dell�abitazione palermitana della madre, moriva il giu-dice Paolo Borsellino che con Falcone aveva fatto parte del fa-moso pool antimafia (con Borsellino rimase vittima dell�at-tentato anche una ragazza sarda, Emanuela Loi, che facevaparte della scorta del magistrato). Il 15 settembre del 1993sarebbe rimasto vittima di un attentato mafioso il sacerdotedon Giuseppe Puglisi, parroco di una borgata palermitana eda anni impegnato contro la criminalità organizzata.

26) dal 17 febbraio del 1992 con l�arresto a Milano del socialistaMario Chiesa sarà tutta una sequela di arresti, avvisi di ga-ranzia, autorizzazioni a procedere, ecc. che sconvolgerannotutta la classe politica ed economica del Paese, culminata congli arresti dell�esponente del PCI Primo Greganti (1.3.93), delpresidente dell�IRI Franco Nobili (12.5.93) e con i drammaticisuicidi di Gabriele Cagliari, presidente dell�ENI (20.7.93) e del-l�industriale-finanziere Roul Gardini (23.7.93).

27) la citazione è tratta dal 26° Rapporto sulla situazione socialedel Paese 1992 (a cura del CENSIS, con il patrocinio del CNEL),Milano 1992.

28) questi dati sono ripresi dalla pubblicazione del CENSIS Rapportosulla situazione sociale del Paese 1993,Milano novembre 1993.

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29) secondo i dati elaborati dalla SVIMEZ l�occupazione in per-centuale in Sardegna (con il raffronto Mezzogiorno e Italia)risultava essere (1990) la seguente:� Industria: 22,8 Sardegna - 23,2 Mezzogiorno - 32,1 Italia� Agricoltura: 14,1 - 15,0 - 8,9� Altre attività: 63,1 - 61,8 - 59,0Per quanto riguarda i tassi di disoccupazione e di attività essirisultavano, sempre in percentuale ed in raffronto:� Disoccupazione: 19,7 Sardegna - 19,7 Mezzogiorno - 11,0Italia

� Attività: 39,8 - 38,6 - 42,0In particolare gli inoccupati sardi risultavano oltre 130 mila(di cui 76 mila donne), con la seguente suddivisione provin-ciale: Cagliari 64.000 (donne 34.000) - Nuoro 18.000 (donne10.000) - Oristano 11.000 (donne 7.000) - Sassari 36.000(donne 25.000)

30) secondo il �Rapporto sulla situazione sociale ed economica dellaSardegna�, pubblicato dal Centro Regionale di Programma-zione nel n. 7/8 della sua rivista (marzo-giugno 1992) il va-lore aggiunto e l�occupazione dell�industria in Sardegna pote-va essere così scomposto:� prodotti energetici (raffinazione) V. A. 15,9% -Occupati 6,1%� costruzioni e lavori edili: V. A. 31,9% - Occupati 46,8%� prodotti manifatturieri V. A. 52,1% - Occupati 47,1%di cui il 29,7 di V. A. rappresentato da prodotti chimici e mi-nerometallurgici (occupazione il 38%).

31) secondo la SVIMEZ il prodotto pro capite dei sardi rappresen-tava (1993) il 64,9 % di quello dei cittadini del Centro-Nord (il74,5% dell�intero Paese).

32) secondo l�annuale rapporto SVIMEZ la situazione sarda nonera molto dissimile da quella delle regioni del Meridione (Sici-lia 26,1, Calabria 26,3, Puglia 19,1); ma fortemente negativasul Centro Nord (Lazio 13,6, Marche 9,2, Emilia 7,2, Trentino4,5, Friuli 8,5, Piemonte 9,5). In particolare, la media nazio-nale indica l�11,2.

33) nelle offerte di lavoro proposte dalla pubblicità dei grandi quo-tidiani nazionali le ricerche sono indirizzate prevalentementea giovani, conoscitori di una o più lingue estere, esperti ditecnologie informatiche, con buone capacità di interrelazioni,disposti a viaggiare od a trasferimenti. I profili professionalisono sempre più sofisticati: Digital designer, Sales Account,Buyer junior, Real estate Finance assistant, Bilingual secretai-

rie, Graphic developer, Call operator, Retail advisor, ecc. Nonpiù, come un tempo, giovane ragioniere, tornitore, autista,venditore, segretaria stenodattilografa, ecc.

34) sotto questo aspetto in Italia siamo ancora tra gli ultimi inEuropa (7,9 per cento sul totale occupati), contro il 38,8 del-l�Olanda, il 24,9 della Gran Bretagna, il 18,3 della Germaniaed il 17,3 per cento della Francia.

35) testimonianza raccolta ad Iglesias nel novembre 1999 da unex sindacalista CISL che ha chiesto di rimanere anonimo.

36) si tratta del volume Il pozzo Zimmerman: storia di un minatoredalla luce al buio andata e ritorno, Cagliari 1999 di M. COR-RIAS, in cui un minatore di Fluminimaggiore, Franco Farci,racconta � attraverso l�A. � la sua storia.

37) il 27 giugno 1988 era stato firmato tra le tre confederazionisindacali ed il presidente della Federazione regionale della Con-findustria, Romano Mambrini, un documento comune sullepolitiche per lo sviluppo, ricercando forme di relazioni indu-striali non più basate sulla conflittualità.

38) erano queste alcune indicazioni emerse nell�analisi della si-tuazione sarda e presentate dalla CISL sarda nel suo VII con-gresso regionale (11-12 aprile 1997).

39) in questo la CISL potrebbe vantare maggiori meriti delle altreconfederazioni perché esente, nella sua storia, da cooptazionidi dirigenti partitici.

40) si fa qui riferimento alle nuove formule di incentivi salarialicollegati alla retribuzione: productivity sharings basati sul fat-turato od anche sull�assenteismo; quality sharings basati sulrapporto fra margine operativo e costo del lavoro; profit sha-rings basati sull�utile lordo. Una dinamica retributiva colle-gata direttamente alle performance dell�impresa che oggi in-teresserebbe, secondo rilevazioni di Nomisma, oltre un milio-ne e mezzo di lavoratori.

41) la tesi è qui ripresa dalle osservazioni del sociologo A. AC-CORNERO sulla tradizione culturale della CISL (vedi il saggioLa parabola del sindacato, op. cit.).

42) nei primi cinque anni degli anni Novanta l�occupazione eradiminuita in agricoltura (meno 4 mila), nell�industria (meno5 mila) e nei servizi (meno 30 mila), mentre le ore di CIGerano passate da 5.600.000 ad oltre 9 milioni. Per quantoriguarda la disoccupazione/inoccupazione i dati disponibili,

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secondo le rilevazioni dell�ISTAT indicano in circa 130 mila lepersone in cerca d�occupazione (di cui circa 90 mila in attesad�un primo lavoro). Differente appare la situazione degli iscrittialle liste del Collocamento che sarebbero oltre 225mila (di cui118 mila donne).

43) così il CENSIS nel Rapporto sulla situazione sociale del Paese1997, definisce il lavoro sommerso o irregolare, di lavoratorinon registrati ai fini fiscali e previdenziali.

44) la citazione è tratta dalle Considerazioni Finali al Bilancio dellaBanca d�Italia del 1996 lette all�Assemblea dei Partecipanti il30 maggio 1997.

45) secondo quanto dichiarato dal Governatore Fazio gli �irrego-lari� in Italia potevano essere stimati in 2.400.000. Secondo ilCENSIS il numero di questi lavoratori invisibili doveva essereindicato attorno ai 4 milioni di unità, aggiungendo che anchealtre stime ufficiali concordavano su questa valutazione.

46) la citazione è tratta dal saggio di S. MANNUZZU �Finis Sar-diniae (o la patria possibile)� contenuto nel volume Sardegnadella Storia d�Italia � Le Regioni � dall�Unità ad oggi, op. cit.

47) già in occasione della prima assemblea organizzativa della CISLsarda (novembre 1979) Giannetto Lay aveva messo il ditosulle insufficienze della Regione come istituzione politico-amministrativa. «Spreco delle risorse,incapacità complessivaalla spendita, adozione del metodo di rinvio per sopperire al-l�incapacità politica ed alla mancanza di coraggio» erano, nel-la sua valutazione d�allora, gli aspetti più evidenti di questeinsufficienze di governo dell�autonomia regionale.

48) si tratta del protocollo d�intesa firmato a Roma, alla Presiden-za del Consiglio, tra il Sottosegretario di Stato Nino Cristofo-ri, i Ministri alle Partecipazioni Statali Prof. Franco Piga edagli interventi nel Mezzogiorno, prof. Giovanni Marongiu, ilPresidente della Regione Mario Floris e le segreterie nazionali eregionali delle organizzazioni sindacali CGIL-CISL-UIL.

49) con questo brutto neologismo si vuole intendere quell�ince-stuoso nodo tra interessi politici ed inefficienze burocraticheche s�era formato all�interno della Regione, in cui era difficilepoter distinguere se il problema fosse in una politica prigio-niera della burocrazia o in una burocrazia schiava della poli-tica.

50) il testo dell�intervento di Antonio Uda (nel 1987 segretarioregionale organizzativo) è tratto dal mensile della CISL sarda

Presenza dell�ottobre 1991.

51) nei primi trent�anni della Regione (1949-79) i presidenti era-no stati espressi dalla DC (10); dal 1979 in avanti sarebberostati presidenti Sandro Ghinami del PSDI (1979-80), FrancoRais del PSI (1980-82), Mario Melis del PSd�Az (1984-89),Antonello Cabras del PSI (1991-94), Federico Palomba dei Pro-gressisti (1994-99). Ora l�ex democristiano Mario Floris è acapo di una giunta di centro-destra.

52) su quest�argomento, nel corso di un importante convegnoorganizzato dalla CISL sarda nel febbraio del 1983, SalvatoreOppes, della Federazione Funzione Pubblica CISL, era statoparticolarmente incisivo, denunciando come «la mancata in-tuizione politica, la mancanza di volontà alcuna e il tempesti-vo intervento del legislatore avessero portato a situazioni pa-tologiche irreversibili». Gli atti di quel convegno sono statipubblicati nel Quaderno trimestrale di studi sardi n. 2/3.

53) questa citazione è tratta dall�intervento di G. LOBRANO alConvegno della CISL sarda del 1996. Il prof. Lobrano, infatti,dopo la prima crisi della Giunta Palomba non venne riconfer-mato. Avrebbe poi collaborato strettamente con la segreteriaUda per costruire un progetto CISL per il rilancio della politi-ca regionale.

54) in effetti, come sottolinea lo stesso Mario Medda, anche l�ac-cordo sottoscritto, dopo 6 mesi di trattative, tra l�AssessoreLobrano e le OO.SS. per la legge quadro della riforma buro-cratica, venne poi disatteso al cambio della guardia nell�asses-sorato «in quanto il nuovo inquilino dell�assessorato non loriteneva riferimento utile». Per cui ancor oggi la Regione sar-da non ha recepito molti degli aspetti semplificativi introdottidalla c.d. legislazione Bassanini.

55) nelle elezioni del 3 giugno 1979 la DC aveva ottenuto il 38,3per cento dei consensi ed il PCI il 30,4; nelle elezioni generalidel 5 aprile 1992 la DC aveva perso circa 10 punti percentualied il PDS, già PCI, 14 punti.

56) i risultati del voto daranno 366 seggi (su 630) al raggruppa-mento Forza Italia, Lega, e Alleanza Nazionale alla Camera(contro 213 dei Progressisti e 46 tra PPI e Patto Segni) allaCamera, mentre al Senato il rapporto sarà meno disegualecon 154 seggi all�alleanza di Berlusconi contro 161 (122 sonoi senatori progressisti).

57) la citazione è tratta dal saggio di M.S. PIRETTI Le elezioni poli-tiche in Italia dal 1848 ad oggi, Roma-Bari 1995.

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58) l�esito elettorale vedrà il leader di Forza Italia, Ovidio Marras,premiato con oltre 50 mila preferenze (nonostante il suo par-tito sia al primo posto) seguito poi da Massimo Fantola delPatto Segni (40 mila) e da Gianmario Selis dei Popolari con34.500. A F.I. era andato il 21 per cento dei voti, seguita dalPDS (18,1), PPI (16,2), AN (11), Patto Segni (9,2), Rifonda-zione Comunista (5,9) e PSd�Az. (5,1).

59) saranno ben 6 le crisi ed altrettante le Giunte regionali guida-te da Palomba (quasi un primato, perché solo nella VI legisla-tura erano state 7 le Giunte succedutesi tra il 1969 ed il 1974).Va anche ricordato che nessuna legislatura regionale rimaseimmune da crisi: nella prima si registrarono due Giunte gui-date da Luigi Crespellani e ancora 2 furono le giunte della III(Giuseppe Brotzu ed Efisio Corrias) e della IV, entrambe sottola guida di Efisio Corrias.

60) la citazione è tratta dall�intervento di Antonio Uda in apertu-ra del convegno Quale sviluppo per quale Regione (Cagliari 5luglio 1996) ora pubblicato nei �Quaderni trimestrali di studisardi� n. 21.

61) il CIS, Credito Industriale Sardo, era stato costituito nel 1955 aseguito della c.d. legge Campilli sulle istituzioni finanziarie in-caricate di supportare le iniziative incentivate dalla legislazionemeridionalistica. All�inizio degli anni Novanta si era trasfor-mato in Banca CIS, entrando nell�orbita della Banca Intesa.

62) il testo dell�intervento di A. UDA è tratto dal Quaderno trime-strale di studi sardi, n. 21 interamente dedicato al Convegno.

63) anche questa citazione è tratta dall�intervento di Uda al con-vegno del luglio 1996.

64) dall�intervento di Antonio Uda alla IV Conferenza organizza-tiva del 1987.

65) la citazione è tratta dal documento congressuale distribuitoin occasione di quel congresso.

66) nella primametà degli anni Novanta il Tasso Ufficiale di Sconto(TUS) di Bankitalia avrebbe avuto il seguente andamento:� dicembre 1991: 12%� luglio 1992: 13%� settembre 1992: 15%� novembre 1992: 13%� febbraio 1993: 11,50%� giugno 1993: 10%

� ottobre 1993: 8%� maggio 1994: 7%� agosto 1995: 9%.Il prime rate bancario avrebbe raggiunto il suomassimo (17%)nel settembre del 1992, mentre a fine 1995 era stato fissatodalle principali banche all�11,5%. Il rendimento dei BOT a 12mesi nel 1995 era pari al 10,96%, mentre i CCT rendevano,alla stessa data, l�11,598%.

67) secondo il Rapporto SVIMEZ 1997, il valore aggiunto regiona-le del 1996 presentava i seguenti indici percentuali:� agricoltura 6,3 per cento (nel 1980 il 6,6)� industria 24 per cento (nel 1980 il 28,4)� terziario e servizi 69,7 per cento (nel 1980 il 65)

68) il testo è tratto da un articolo diM. TUVERIAutonomia, un�espe-rienza tra luci ed ombre, apparso sul volume �Almanacco diCagliari 2000� (a cura di V. SCANO), Cagliari 2000.

69) aveva scritto Gianfranco Chiappella nel suo libro di memorie(Un sindacalista racconta 1947-1993, Orvieto 1994), che ilprimo impatto con la Sardegna, al suo arrivo a Nuoro comesegretario dell�USP (1958), lo portò a fare conoscenza con leattività lavorative favorite da una legge regionale che finan-ziava la costruzione di �muretti a secco�. Per lui, veronese dinascita ma sindacalmente lombardo, questo fatto aveva de-stato grande impressione, tanto da citarlo nel suo libro comesegnale d�arretratezza.

70) la citazione è tratta dalle �considerazioni generali� nel XXXIRapporto sulla situazione sociale del Paese,Milano 1997.

71) i dieci anni passati da Uda alla guida della CISL sarda eranostati caratterizzati da un intenso attivismo � propositivo edorganizzativo � del movimento. Che era ormai forte di oltre17 federazioni di categoria e di oltre 200 mila iscritti.

72) il testo è tratto dall�editoriale di Mario Medde (�La riformadella politica�) con cui si apre il n. 88 del periodico Presenzadel luglio 1999.

73) la citazione è tratta dall�intervento d�apertura di Medde al �se-minario� di aggiornamento ai dirigenti CISL, tenutosi a Chianell�estate 1999 e pubblicato su Presenza n. 89 del dicembre1999.

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confederale.

«Presenza» è il mensiledi informazionesindacale della CISLSarda e viene pubblicatodall�aprile 1985. Laredazione è coordinatada Mario Girau,responsabile dell�Ufficio