La Cina e la campagna d’occidente

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La Cina e la campagna d’occidente Settembre 2015

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La Cina e la campagna d’occidente

Settembre 2015

Fare dell’Italia un ambiente più accogliente per gli investimenti stranieri e invertire quella tendenza che ha portato l’Italia a perdere il 58% degli investimenti esteri dal 2007 è tra i principali obiettivi del Governo per ridare slancio al Paese in termini di competitività.

Gli investimenti esteri in Italia: - 57% dal 2007

+ 3,5% dal 2014, ma a ben guardare…

€ 281,3 miliardi

sono gli Ide (Investimenti diretti esteri) in entrata nel nostro Paese nel 2014. Rispetto all’anno precedente, sono aumentati di € 9,5 miliardi (+3,5%), il risultato migliore tra i Paesi dell’eurozona. Ma la quantità totale di Ide in percentuale al PIL italiano rimane molto bassa. Con un misero 17,4%, anche nel 2014, l’Italia si trova in coda alla graduatoria europea. Solo la Grecia registra una situazione peggiore della nostra (8,5%).

Italia: 65° posto nella graduatoria mondiale della capacità attrattiva

«L’eccessivo peso delle tasse, le difficoltà legate a una burocrazia arcaica e farraginosa, la

proverbiale lentezza della nostra giustizia civile, lo spaventoso ritardo dei pagamenti nelle transazioni

commerciali, il deficit infrastrutturale e il basso livello di sicurezza presente in alcune aree del paese

da sempre scoraggiano gli investitori stranieri a venire in Italia» CGIA di Mestre.

L’Italia occupa il 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori determinanti la capacità attrattiva di capitali per un Paese, considerando le procedure, i tempi e i costi necessari per avviare un’impresa, ottenere permessi edilizi, allacciare un’utenza elettrica business o risolvere una controversia giudiziaria su un contratto.

A dispetto di ciò, gli investimenti cinesi in Italia hanno seguito un trend di crescita continua.

Fino al 2012 erano pari a € 147 milioni. Nel 2014, sono stati di quasi € 3 miliardi.

L’Italia, per la Cina, è oggi il secondo mercato di riferimento in Europa (dopo il Regno Unito)

e il quinto a livello mondiale. Nell’ottobre 2014, il Presidente del Consiglio Renzi e il Primo Ministro cinese Li Kequiang hanno firmato, a Roma 20 accordi, per altrettanti investimenti diretti e indiretti in attività imprenditoriali italiane, dal valore complessivo di € 8 miliardi.

La Cina è vicina...

Una passione per l’Italia, sì ma non a tutti i costi

Singolo maggiore investimento: dal 2003, il colosso cinese Hutchinson Wampoa, guidato dall’ormai mitico Li Ka-shing, ha investito oltre € 13 miliardi nell’azienda di telefonia 3 Italia. HW ha anche acquistato (per € 100 milioni) la società che gestisce il terminal container del Porto di Taranto. Ha però recentemente fatto causa all’Autorità Portuale per i mancati investimenti necessari allo sviluppo del porto e sta dirottando il traffico container sul Porto del Pireo.

Singola maggiore acquisizione: è attualmente in corso un’OPA obbligatoria totalitaria, lanciata dalla Marco Polo Industrial Holding sul 76,58% del capitale del Gruppo Pirelli. La Marco Polo, controllata al 65% dal colosso dell’industria chimica cinese ChemChina, possiede, ovviamente, le restanti quote del Gruppo Pirelli.

Singolo maggiore investimento in aziende di Stato: nel novembre 2014, State Grid Corporation of China, la più grande società di distribuzione elettrica del mondo, ha acquistato il 35% di CDP Reti da Cassa Depositi e Prestiti. CDP Reti detiene una partecipazione del 30% del capitale di SNAM e di Terna, aziende che gestiscono rispettivamente le reti di distribuzione del gas e dell’energia elettrica in Italia.

... e il secondo: nel maggio 2014, Shangai Electric ha acquistato dal Fondo Strategico Italiano, una holding di Cassa Depositi e Prestiti, il 40% di Ansaldo Energia per € 400 milioni. Ansaldo Energia è tra i maggiori produttori al mondo di impianti elettrici e turbine a gas.

Non si bada a spese

Nel settembre 2014, il Corriere della Sera scrive di aver avuto modo di leggere un rapporto riservato del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), preparato per il Governo. Riporta che il rapporto evidenziava come gli investimenti cinesi nei settori della difesa, delle tecnologie avanzate e delle grandi infrastrutture critiche dovessero essere valutati dal Governo con estrema attenzione.

Caveat!

Se si escludono il marchio del lusso Krizia, comprato nel febbraio 2014 da Shenzhen Marisfrolg Fashion, una partecipazione dell’8% in Ferragamo, gli yacht Ferretti e l’olio di oliva Sagra&Berio, Pechino ha preferito evitare i brand di nicchia dell’eccellenza Made in Italy e dedicarsi ai settori strategici di energia, telecomunicazioni e industria.

Eni, Enel, Mediobanca e Telecom Italia sono alcune tra le principali aziende italiane dove la banca centrale cinese, la People’s Bank of China, detiene una quota di poco superiore al 2%, soglia minima per dichiarare il possesso di titoli.

Poco fascion e molta ciccia

Nel pallone però no

Dopo alcuni tentativi non andati a buon fine per entrare nell’azionariato di Inter, Milan e, si dice, Roma, la Dalian Wanda Group, la holding del magnate cinese Wang Jianlin, è dallo scorso febbraio l’azionista di riferimento della svizzera Infront Sports&Media, la società che si occupa, tra l’altro, della commercializzazione dei diritti televisivi della Serie A.

Perché l’Italia?

Se Pechino non si è lasciata spaventare dalle difficoltà che normalmente gli investitori stranieri incontrano in Italia, è perché fine ultimo della sua strategia non sembra essere il profitto, ma l’acquisizione di know-how e tecnologia. L’obiettivo è di raffinare la propria produzione industriale – attualmente in gran parte focalizzata su materie prime, prodotti standardizzati e componenti intermedi – grazie alle competenze apprese in Italia.

La crisi economica, che ha messo in grave difficoltà molte aziende italiane, non ha fatto altro che spalancare le porte agli investitori cinesi, per nulla preoccupati da un ambiente generalmente poco accogliente per gli investimenti esteri, ma anzi pronti a cogliere al volo «dopo anni di crisi, il gigantesco cartello “Saldi” appiccicato sopra la Penisola», per citare un’anonima fonte bancaria.

È una peculiarità della presenza cinese in Italia la cosiddetta

“quota 2%”.

La People’s Bank of China ha nel suo portafoglio partecipazioni minime nella gran parte delle principali aziende del mondo.

Di solito però adotta un basso profilo, tenendosi sempre al di sotto della soglia da dichiarare pubblicamente.

In Italia invece, i suoi investimenti superano molto spesso di pochissimo la quota del 2%.

Quota 2%

Secondo una recente ricerca dello studio del think tank statunitense Pew Research, il 70% degli italiani non vede di buon occhio Pechino. Una percentuale altissima, superiore a quella di tutti i Paesi occidentali. Quello dei Cinesi appare quindi essere un messaggio di amicizia, ma anche di potere che, con un investimento minimo, dovrebbe rendere la Cina più amata nel nostro Paese.Non è un caso che le prime partecipazioni dichiarate, quelle in Eni ed Enel, siano arrivate subito dopo la strage in un’azienda tessile a Prato, dove persero la vita sette persone.

Lo scopo? Farsi notare!

I più importanti investimenti cinesi hanno finora avuto effetti positivi sui livelli occupazionali in Italia, e questa è sicuramente una buona notizia.

L’immissione di capitali cinesi ha consentito:di creare nuovi posti di lavoro, soprattutto per la forza lavoro giovane e qualificata;di preservare posti di lavoro esistenti, scongiurando la chiusura di imprese in gravissima difficoltà.

Inoltre, i Cinesi considerano fondamentale per l’assorbimento del know-how delle aziende target il mantenimento della produzione, tecnologie e competenze nel loro ambiente originario. Questo ha contribuito ad allentare l’iniziale percezione negativa nei confronti della strategia cinese in Italia.

E l’Italia cosa ci guadagna?

Se è vero che la Cina sta affontando difficoltà economiche piuttosto serie, la capacità di investimento di Pechino rimane pur sempre enorme.

Come proteggersi da possibili acquisizioni strategiche

o di infrastrutture critiche?

Nel 2012 l’Italia ha emanato una disciplina innovativa in materia di poteri di intervento dello Stato in caso di operazioni straordinarie per le imprese nei settori strategici.

I poteri dello Stato

Con la nuova regolamentazione: si abbandona il principio della “golden share” (attribuzione allo Stato di partecipazioni azionarie in specifiche aziende strategiche, munite di poteri speciali che consentono l’esercizio di prerogative in grado di influenzare le decisioni delle imprese interessate); si passa al sistema del conferimento allo Stato di alcuni “golden power” di carattere generale che lo Stato può esercitare in caso di operazioni straordinarie che riguardano questo tipo di imprese.

Questi poteri consentono, a seconda dei casi, la facoltà di opporsi, porre il veto o dettare condizioni...

Golden power

Il 22 settembre 2015, il Consiglio dei Ministri ha deciso di non esercitare i poteri speciali in relazione alla creazione di una Joint Venture tra Hutchinson Wampoa e la multinazionale delle Bermuda VimpelCom, per la fusione delle rispettive controllate 3 Italia e Wind. Tuttavia, il Governo ha raccomandato alle due società di:

evidenziare gli elementi puntuali della pianificazione strategica sotto il profilo industriale, degli investimenti e tecnologico e occupazionale;non prevedere lo spostamento al di fuori dei confini nazionali di funzioni di gestione e di sicurezza, tale da compromettere la sicurezza nazionale e la continuità dei servizi.

Ma verranno mai esercitati?