La Chiesa sacramento di...

9
1 LA CHIESA, SACRAMENTO DI SALVEZZA Breve percorso storico 1 La comprensione teologica del pluralismo religioso dal punto di vista cristiano, è diventata una delle sfide più significative per la teologia non solo cattolica, ma anche protestante e ortodossa. Il pluralismo religioso caratterizza infatti in modo crescente le società contemporanee, gli studi sulle religioni non cristiane sono diffusi e approfonditi più che nel recente passato, i rapporti concreti tra persone appartenenti a religioni diverse si moltiplicano e divengono spesso parte della vita ordinaria. Si tratta perciò di comprendere e di esprimere a partire dal dato biblico e dalla Tradizione, ricompresi a partire dal contesto presente, quale sia il rapporto tra la fede cristiana e la salvezza che essa annuncia e le altre religioni professate da miliardi di uomini. In questa riflessione teologica l’aspetto soteriologico, ovvero la questione della salvezza, costituisce un nodo centrale. L’interrogativo odierno verte infatti essenzialmente non tanto sulla natura della salvezza cristiana, quanto sull’accessibilità a tale salvezza da parte dei seguaci di altre religioni e, più specificamente, sull’eventuale ruolo positivo che le religioni svolgono nel dare accesso alla salvezza. Il tema della salvezza dei non cristiani e del ruolo delle tradizioni religiose non cristiane nella storia della salvezza non è di per sé nuovo nella storia della teologia e ha avuto nel corso della storia tre grandi tipologie di risposte. Nella riflessione teologica proto-patristica non sono mancati teologi che, prendendo atto della presenza di valori positivi nelle tradizioni filosofiche del mondo greco-romano, hanno ritenuto che essi fossero non solo frutto dell’attività riflessiva e morale umana, ma riflesso della grazia del Verbo che illumina gli uomini, anche in modo “eccedente” rispetto alla rivelazione indirizzata al popolo d’Israele. Si tratta della dottrina dei semina Verbi, abbozzata soprattutto da Clemente d’Alessandria, ma pure da Giustino, che parla del Logos spermatikos (Verbo seminatore). La stessa considerazione veniva estesa da Clemente anche alle religioni dell’India, mentre ne erano escluse le religioni pagane coeve, su cui cadeva la condanna come forme di idolatria. La dottrina dei semina Verbi, proponendo un’attività rivelatoria del Verbo di Dio, per quanto parziale e limitata, al di fuori - quasi come eccedenza - rispetto alla rivelazione storicamente rivolta a Israele, permetteva di pensare a un influsso operante della grazia anche all’interno di altre culture e tradizioni religiose. È interessante notare come il contesto culturale e il percorso spirituale dei due antichi teologi abbia influenzato la loro riflessione sulle tradizioni spirituali non cristiane. Entrambi gli autori divengono cristiani in età adulta, al termine di un percorso di ricerca religiosa che passa attraverso la filosofia. Per entrambi il cristianesimo costituisce la novità che risponde in modo autentico alla loro ricerca, ma questo li porta a valorizzare anche le tappe intermedie percorse, di cui notano la positività - per uno parziale - in ordine alla formazione della coscienza e alla sua preparazione in vista dell’accoglienza della verità evangelica. Tale positività parziale ma reale è dunque ricondotta a un’azione preparatoria del Verbo divino, che come ha preparato Israele in vista del mistero dell’incarnazione, così ha attuato in modo multiforme un’azione di “preparazione evangelica” attraverso i valori morali e spirituali positivi presenti nelle culture e tradizioni religiose delle genti. Si tratta di “semi”, di elementi parziali rispetto alla consistenza della rivelazione a Israele, ma pur sempre frutto dell’azione dell’unico Verbo di Dio che prepara gli uomini alla sua piena rivelazione nel mistero di Gesù Cristo, unico salvatore universale e centro della storia salvifica. Questa impostazione teologica, per altro non sufficientemente sviluppata al tempo della sua formulazione, cedette però il passo a partire dal IV-V secolo a interpretazioni più restrittive, che vincolavano la fruizione della salvezza all’appartenenza visibile alla Chiesa e ai suoi sacramenti, mentre il giudizio sulle tradizioni spirituali non cristiane diventa più nettamente negativo. Tuttavia la prospettiva teologica dei semina Verbi 1 ANDREA PACINI, «Salvezza e religioni non cristiane», Vita pastorale, 8/2012, 22-23.

Transcript of La Chiesa sacramento di...

1

LA CHIESA , SACRAMENTO DI SALVEZZA

Breve percorso storico 1

La comprensione teologica del pluralismo religioso dal punto di vista cristiano, è diventata una delle sfide più significative per la teologia non solo cattolica, ma anche protestante e ortodossa. Il pluralismo religioso caratterizza infatti in modo crescente le società contemporanee, gli studi sulle religioni non cristiane sono diffusi e approfonditi più che nel recente passato, i rapporti concreti tra persone appartenenti a religioni diverse si moltiplicano e divengono spesso parte della vita ordinaria. Si tratta perciò di comprendere e di esprimere a partire dal dato biblico e dalla Tradizione, ricompresi a partire dal contesto presente, quale sia il rapporto tra la fede cristiana e la salvezza che essa annuncia e le altre religioni professate da miliardi di uomini. In questa riflessione teologica l’aspetto soteriologico, ovvero la questione della salvezza, costituisce un nodo centrale. L’interrogativo odierno verte infatti essenzialmente non tanto sulla natura della salvezza cristiana, quanto sull’accessibilità a tale salvezza da parte dei seguaci di altre religioni e, più specificamente, sull’eventuale ruolo positivo che le religioni svolgono nel dare accesso alla salvezza. Il tema della salvezza dei non cristiani e del ruolo delle tradizioni religiose non cristiane nella storia della salvezza non è di per sé nuovo nella storia della teologia e ha avuto nel corso della storia tre grandi tipologie di risposte. Nella riflessione teologica proto-patristica non sono mancati teologi che, prendendo atto della presenza di valori positivi nelle tradizioni filosofiche del mondo greco-romano, hanno ritenuto che essi fossero non solo frutto dell’attività riflessiva e morale umana, ma riflesso della grazia del Verbo che illumina gli uomini, anche in modo “eccedente” rispetto alla rivelazione indirizzata al popolo d’Israele. Si tratta della dottrina dei semina Verbi, abbozzata soprattutto da Clemente d’Alessandria, ma pure da Giustino, che parla del Logos spermatikos (Verbo seminatore). La stessa considerazione veniva estesa da Clemente anche alle religioni dell’India, mentre ne erano escluse le religioni pagane coeve, su cui cadeva la condanna come forme di idolatria. La dottrina dei semina Verbi, proponendo un’attività rivelatoria del Verbo di Dio, per quanto parziale e limitata, al di fuori - quasi come eccedenza - rispetto alla rivelazione storicamente rivolta a Israele, permetteva di pensare a un influsso operante della grazia anche all’interno di altre culture e tradizioni religiose. È interessante notare come il contesto culturale e il percorso spirituale dei due antichi teologi abbia influenzato la loro riflessione sulle tradizioni spirituali non cristiane. Entrambi gli autori divengono cristiani in età adulta, al termine di un percorso di ricerca religiosa che passa attraverso la filosofia. Per entrambi il cristianesimo costituisce la novità che risponde in modo autentico alla loro ricerca, ma questo li porta a valorizzare anche le tappe intermedie percorse, di cui notano la positività - per uno parziale - in ordine alla formazione della coscienza e alla sua preparazione in vista dell’accoglienza della verità evangelica. Tale positività parziale ma reale è dunque ricondotta a un’azione preparatoria del Verbo divino, che come ha preparato Israele in vista del mistero dell’incarnazione, così ha attuato in modo multiforme un’azione di “preparazione evangelica” attraverso i valori morali e spirituali positivi presenti nelle culture e tradizioni religiose delle genti. Si tratta di “semi”, di elementi parziali rispetto alla consistenza della rivelazione a Israele, ma pur sempre frutto dell’azione dell’unico Verbo di Dio che prepara gli uomini alla sua piena rivelazione nel mistero di Gesù Cristo, unico salvatore universale e centro della storia salvifica. Questa impostazione teologica, per altro non sufficientemente sviluppata al tempo della sua formulazione, cedette però il passo a partire dal IV-V secolo a interpretazioni più restrittive, che vincolavano la fruizione della salvezza all’appartenenza visibile alla Chiesa e ai suoi sacramenti, mentre il giudizio sulle tradizioni spirituali non cristiane diventa più nettamente negativo. Tuttavia la prospettiva teologica dei semina Verbi 1 ANDREA PACINI, «Salvezza e religioni non cristiane», Vita pastorale, 8/2012, 22-23.

2

non scomparve del tutto, sopravvivendo sia nell’arte cristiana sia nella liturgia. Nell’arte per tutto il Medioevo continua a essere rappresentato sia in Oriente sia in Occidente l’albero di Iesse, che raffigura la genealogia di Gesù narrata dai vangeli di Luca e di Matteo: ma è interessante che il canone iconografico dell’albero di Iesse preveda che su un lato si sviluppino i tralci nei cui medaglioni sono raffigurati i volti degli antenati storici di Gesù Cristo - così come narrati dalle genealogie evangeliche - mentre sull’altro lato vengono raffigurati tralci nei cui medaglioni sono rappresentati i filosofi dell’antichità classica, riconosciuti analogicamente come “antenati” di Cristo sul piano del loro insegnamento morale e spirituale. In modo simile nelle Chiese alla raffigurazione dei quattro evangelisti spesso corrispondeva quella delle quattro Sibille, alle quali, benché rappresentanti della religiosità pagana, veniva attribuito di aver annunciato il Cristo futuro. Questa comprensione si esprime sul piano liturgico nella nota antica sequenza della messa dei defunti che, annunciando l’ultimo giorno e il giudizio escatologico, porta quale testimonianza la profezia di Davide (dunque dell’Antico Testamento) e della Sibilla: «Dies irae, dies illa, solvet saeculum in favilla, teste David cum Sibilla». La prospettiva teologica prevalente nell’epoca medievale riceve formulazione autorevole dal concilio di Firenze (1439), in cui nella bolla Cantate Domino si dice che solo il battesimo nella Chiesa cattolica dà accesso alla salvezza, mentre i non cattolici e, a maggior ragione, i non battezzati sono esclusi da essa. Questa dottrina dipendeva ancora una volta dall’influenza che il contesto esercitava sull’interpretazione della rivelazione biblica: in un’epoca di “cristianità”, in cui si riteneva che il Vangelo fosse stato ormai ufficialmente “promulgato” - cioè annunciato in modo compiuto ed espresso in strutture che permeavano il vissuto sociale - la non accettazione del Vangelo era interpretata come colpa personale, come rifiuto esplicito della salvezza di Cristo espresso a livello soggettivo: di qui l’esclusione dalla salvezza dei non battezzati. Il fatto che l’unica religione “altra” con cui la cristianità medievale avesse contatti reali e frequenti fosse l’islam contribuì a rafforzare il giudizio negativo sulle religioni. L’islam si presentava come religione post-cristiana e attivamente polemica verso i dogmi fondamentali, quali l’identità trinitaria di Dio, il mistero dell’incarnazione che si compie in Cristo, la stessa salvezza. Questo contribuisce a gettare una luce negativa sulle religioni non cristiane, viste come veicolo di errore, e dunque a ritenere colpevole l’appartenenza a esse in un’epoca in cui il cristianesimo si percepisce come ampiamente strutturato e diffuso. Alla fine del secolo XV la scoperta delle Americhe apri interrogativi nuovi sulla questione e la teologia ebbe poi modo di investigare ulteriormente il problema, creando le premesse di quanto avrebbe dichiarato il Concilio Vaticano II.

La centralità di Cristo: fondamento del dialogo int erreligioso 2

I crescenti rapporti tra le diverse tradizioni religiose, la compresenza di membri appartenenti a religioni diverse nella stessa società, la stessa conoscenza più approfondita che – almeno nei paesi occidentali – si è sviluppata riguardo alle grande religioni mondiali, costituiscono certamente il contesto socio-culturale in cui, negli ultimi decenni, è maturata l’esigenza di sviluppare il dialogo interreligioso nelle sue varie forme al fine di favorire la pacifica e creativa convivenza tra i membri e le istituzioni delle diverse religioni. La scelta in favore del dialogo interreligioso è stata attuata in modo fermo dalla Chiesa cattolica al Concilio Vaticano II, e si è ulteriormente definita e concretizzata nei decenni successivi. Non solo all’indomani del Concilio è stato istituito il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, incaricato di attivare il dialogo tramite iniziative direttamente promosse dalla Santa Sede, ma lo stesso papa Giovanni Paolo II si è fatto personalmente promotore di grandi iniziative di dialogo, quali la preghiera di Assisi nel 1986 e nel 2002. Iniziative di dialogo interreligioso si sono anche sviluppate a livello di conferenze episcopali, di diocesi, e anche di movimenti e associazioni: particolarmente sensibili e attivi in questo campo sono sia il Movimento dei Focolari sia la Comunità di Sant’Egidio. Allo stesso livello parrocchiale si sono moltiplicate iniziative di formazione al dialogo e di informazione sulle altre religioni. A fronte di questo diffondersi di iniziative di dialogo, e di istituzioni di centri che – anche a livello ecclesiale locale – se ne fanno carico, si può a ragione affermare che la cultura del dialogo con le altre religioni è entrata a far parte del diffuso sentire e operare ecclesiale. Naturalmente non si può che valutare positivamente questa evoluzione, senza però dimenticare che il dialogo è strumento efficace solo se sorretto da una consapevolezza teologica approfondita. In altre parole le iniziative di dialogo non possono prescindere da una corretta teologia delle religioni che costituisce il fondamento stesso del dialogo e l’orizzonte di riferimento del suo sviluppo. Il rischio altrimenti è che si finisca non solo di concepire il dialogo in modo piuttosto superficiale – come un insieme di relazioni amichevoli di scambio reciproco, magari senza mai affrontare i nodi scottanti che pur esistono – ma che la stessa prassi

2 L’articolo riprende due contributi di ANDREA PACINI: «Attenti alle facili scorciatoie», Vita pastorale, 6/2004, 22-23; «Un paradigma che fa sparire le differenze?», Vita pastorale, 7/2004, 22-23.

3

del dialogo possa indebolire una corretta comprensione della propria fede cristiana e, di conseguenza, anche delle altre tradizioni religiose, il cui ruolo è sempre da comprendersi alla luce della rivelazione cristiana. A questo proposito è importante ricordare che la fede cristiana e la teologia da cui è espressa, costituiscono una fonte di conoscenza della realtà, dunque offrono una comprensione anche delle altre religioni e del loro ruolo. Non si tratta quindi di ridurre la fede cristiana alle supposte esigenze del dialogo, ma, al contrario, di discernere alla luce della fede sia le modalità con cui attuare il dialogo sia i suoi contenuti. D’altra parte le stesse letture teologiche oggi in fase di elaborazione non sono tutte coerenti con il dato rivelato: il rischio di riduzione della fede cristiana è in atto anche in ambito teologico proprio in rapporto al dialogo interreligioso. Nell’attuale intenso dibattito contemporaneo sulla teologia delle religioni la posizione teologica denominata come “pluralista” o “teocentrica” riduce drasticamente il contenuto della fede cristiana. Per questa posizione il dialogo può essere efficace solo tra eguali, per cui ogni pretesa del cristianesimo di vivere e trasmettere il culmine della rivelazione salvifica di Dio compiutasi in Gesù Cristo deve essere superata in favore del riconoscimento di tutte le religioni come vie parallele di salvezza, dotate della stessa efficacia salvifica. In questo quadro lo stesso Gesù Cristo viene compreso non come l’unico mediatore universale di salvezza, ma come persona dotata di particolare carisma profetico alla stregua di altri fondatori di religioni. È facile comprendere come questa impostazione si allontani dai contenuti centrali della fede cristiana: negando l’unicità universale della mediazione salvifica di Cristo si nega anche la sua identità di Figlio di Dio; muta anche il significato della salvezza, che non riguarda l’essere più profondo dell’uomo, bensì assume piuttosto una valenza gnostica. La salvezza equivale cioè a una forma di conoscenza veicolata dalle religioni che rende l’uomo consapevole della sua identità e gli fornisce una dottrina riguardante le modalità con cui avere rapporti con la divinità e la dimensione etica. Il dramma del peccato e il mistero della redenzione non vengono presi in considerazione. L’impostazione teologica “pluralista” finisce dunque per tradire la verità della fede cristiana e, in definitiva, non rende neanche giustizia alla specificità delle diverse tradizioni religiose. Il fatto di affermare che Dio è il comune denominatore di tutte le religioni, che trovano in Dio l’unica fonte, è già tradire la specificità di una grande tradizione quale il buddhismo, che non si presenta come teista. Di fronte a questa critica alcuni teologi della corrente pluralista hanno allora identificato nello “spirito” il comune denominatore e l’origine delle religioni o, come nel caso del teologo protestante John Hick, nella “realtà assoluta” non meglio identificata. Anche in questo caso non si può non notare come lo sforzo logico e astratto di individuare ciò che è comune alle religioni arrivi a delle astrazioni che nulla dicono dell’essere di Dio e della sua volontà rispetto agli uomini. Certamente non viene più colta la ricchezza della rivelazione biblica, in cui Dio non è una realtà assoluta anonima, ma è il Dio vivente, che si rivela come Padre, Figlio e Spirito Santo. L’impostazione pluralista non è dunque coerente con la verità della fede cristiana, e imposta anche il dialogo in maniera errata, perché tenta di negare le identità differenti, piuttosto che assumere la differenza per identificare spazi di unità. D’altra parte questa impostazione è più diffusa di quanto si creda anche a livello di base, all’interno di quell’insieme diffuso di iniziative di dialogo interreligioso su base locale cui prima si è fatto riferimento. La tentazione di prendere delle scorciatoie è infatti allettante, perché sembra condurre facilmente alla soluzione di ogni problema, mentre, al contrario, non solo non offre soluzioni reali ma porta all’impoverimento della stessa fede cristiana. Valga come esempio l’opinione diffusa che la paternità di Dio possa costituire un elemento di unità per tutte le religioni. A parte il fatto che la paternità di Dio è categoria prettamente biblica, in cui altre religioni non si riconoscono, il rischio cui conduce tale affermazione è di comprendere la paternità di Dio solo sul piano cosmologico, a partire dalla creazione – dimensione questa accettabile anche da altre religioni, con qualche variante –, dimenticando che in prospettiva cristiana è la redenzione che rivela in modo pieno e peculiare la paternità di Dio. L’uomo è costituito figlio non in forza della sola creazione, ma della redenzione in Cristo Gesù. La centralità di Gesù Cristo dunque non può essere messa tra parentesi, non solo perché l’evento Gesù Cristo è il cuore e l’orizzonte di senso di tutta la rivelazione biblica, ma perché valorizzare Gesù Cristo e l’unicità universale della sua mediazione salvifica non implica affatto negare il suo rapporto con gli uomini appartenenti ad altre religioni e con le tradizioni religiose stesse. Al contrario, la valorizzazione della centralità di Gesù Cristo permette da un lato di discernere il ruolo e i contenuti delle altre religioni in una vera prospettiva cristiana, dall’altro di fondare il dialogo non sul puro volontarismo o su processi astratti di elaborazione teologica, ma sull’unitarietà dell’opera salvifica di Dio che in Cristo “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tm 2, 4). La teologia pluralista delle religioni, che pure ha degli esponenti anche in ambito cattolico, non riesce a dare ragione della fede cristiana nella sua essenza più profonda, perché relativizza in modo netto sia la persona di Gesù Cristo sia il significato della salvezza da Cristo comunicata e dalla Chiesa annunziata. Essa fornisce inoltre un paradigma per il dialogo che tende a fare scomparire le differenze sul piano teologico, alla ricerca di minimi comuni denominatori che finiscono per svuotare di significato le diverse religioni, in quanto tale

4

ricerca è condotta non solo sul piano etico – su cui sarebbe giustificata – ma sul piano più esigente della fede dogmatica. Il rischio conseguente è di volere definire un volto di Dio che non è da Lui rivelato, ma che risulta piuttosto dallo sforzo umano di definirlo a partire da un’opera di riduzione rispetto a quanto espresso dalle religioni, in particolare rispetto a quanto manifestato dalla rivelazione cristiana. Come si diceva su queste pagine, il punto di arrivo è spesso un Dio anonimo, che non ha un volto preciso, cui si dà il nome di “realtà assoluta” o di “spirito”. Ci si può allora chiedere se esiste un paradigma teologico che riesca a coniugare da un lato l’offerta di una prospettiva seria di dialogo con le altre religioni, dall’altro un fermo radicamento nella fede cristiana ricompresa senza riduzionismi alla luce dell’attuale contesto caratterizzato dal pluralismo religioso. Tale paradigma teologico esiste, da anni è in corso di elaborazione e di progressiva precisazione, e viene denominato paradigma cristologico inclusivista. Questo paradigma prende sul serio la duplice affermazione di 1Tm 2, 4-5, che attesta per un verso l’universale volontà salvifica di Dio, per l’altro verso l’unicità della mediazione salvifica universale di Gesù Cristo. Lo sviluppo di una teologia cristiana delle religioni deve radicarsi in tale duplice esigenza per rimanere fedele alla rivelazione. È in questa prospettiva che si muove il paradigma cristologico inclusivista, che afferma l’identità di Gesù Cristo quale unico salvatore universale, ma, nello stesso tempo, considera l’azione salvifica di Cristo – in modo del tutto corretto – in prospettiva trinitaria, ovvero in relazione con la volontà salvifica del Padre e l’azione salvifica dello Spirito Santo. Se dunque solo Gesù Cristo è il Figlio unigenito del Padre, unico salvatore del mondo, la sua salvezza viene però universalizzata nel corso della storia dall’azione dello Spirito Santo, che rende accessibile il rapporto con il Cristo e con il mistero pasquale a ogni uomo (cfr Gaudium et Spes 22). Ogni uomo dunque è salvo grazie a Cristo e in rapporto a Lui, e ogni salvezza è “cristiana” sul piano della sostanza. Sul piano però della consapevolezza personale dei singoli individui la situazione può essere diversa, nel senso che i non cristiani, pur salvati da Cristo, non lo riconoscono storicamente come loro salvatore, ma ottengono la salvezza da lui donata tramite l’adesione del loro cuore e della loro coscienza al bene conosciuto. Le religioni non cristiane svolgono un ruolo in ordine alla conoscenza del bene, alla conoscenza di Dio? La risposta offerta a questa domanda dai teologi inclusivisti è positiva: le religioni, in quanto espressioni di esperienze religiose autentiche, svolgono un ruolo efficace per partecipare agli uomini una qualche conoscenza e esperienza di Dio e del bene spirituale e morale. Il ruolo positivo delle religioni è però definito da due elementi ben precisi: in primo luogo ciò che di autentico le religioni contengono è frutto della presenza del mistero di Cristo, che tramite l’azione dello Spirito Santo esercita un’azione efficace negli uomini anche fuori dei confini della Chiesa. In secondo luogo le altre religioni conoscono solo aspetti parziali di quella pienezza di rivelazione che è accessibile solo nel cristianesimo, e, inoltre, contengono accanto ad elementi buoni anche elementi negativi, espressione del peccato dell’uomo e di visioni puramente umane e non discendenti dalla rivelazione. Ne consegue in modo urgente l’importanza di discernere i contenuti delle religioni non cristiane, per identificarne i valori positivi, ma anche quelli negativi, che non possono non essere soggetti a critica e considerati non conformi, se non in conflitto, con la rivelazione. In definitiva il criterio ultimo di discernimento resta il Vangelo: solo i valori evangelici sono infatti frutto della rivelazione e resi presenti dal mistero di Cristo nelle altre culture e religioni. Da questa impostazione derivano conseguenze importanti: le altre religioni contengono elementi buoni, ma non tutto quello che insegnano è buono. Il dialogo deve coniugare dunque al rispetto un atteggiamento di critica franca e costruttiva, al fine di purificare quello che le religioni insegnano alla luce del mistero cristiano. La missione cristiana resta poi necessaria, perché solo in Cristo sia ha la pienezza della verità rivelata agli uomini, di cui le religioni non esprimono che echi parziali. È importante d’altra parte notare come il dialogo non sia mai una purificazione a senso unico: nel dialogo anche il cristianesimo è chiamato a purificare se stesso, e i valori che sostengono l’esperienza religiosa vissuta all’interno delle religioni non cristiane possono non di rado essere di stimolo per approfondire il loro riconoscimento, la loro valorizzazione e esperienza in ambito cristiano. Da questa presentazione sintetica emerge come il paradigma cristologico inclusivista permette di fondare correttamente un dialogo interreligioso in prospettiva cristiana, in grado di coniugare sia un’apertura sincera alle altre religioni – esse stesse incluse, sia pure in modo più frammentario quanto ai loro contenuti, nel piano salvifico di Dio in Cristo – sia un radicamento senza cedimenti e riduzionismi nella fede cristiana e nella centralità della persona di Gesù Cristo che rivela in modo pieno e vero il volto di Dio: “Dio nessuno l’ha mai visto; proprio il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, lui ce l’ha rivelato” (Gv 1, 17). Nello stesso tempo tale impostazione teologica permette di distinguere, ma anche di coniugare, il dialogo con la missione della Chiesa, che non può non testimoniare e annunciare il volto di Dio rivelato pienamente e definitivamente in Cristo.

5

L’annuncio evangelico oltre il relativismo ANDREA PACINI, Vita pastorale, 9/2009, 22-23

Nonostante le nuove forme di pluralismo religioso caratterizzino ormai da decenni in modo crescente la società europea e italiana, sembrano continuare sia nella società, sia nel dibattito politico-culturale, sia negli stessi ambiti ecclesiali, letture riduttive del fenomeno, che si articolano normalmente su due versanti opposti: da un lato letture negative di tale pluralismo, da cui scaturiscono posizioni di tipo rigidamente assimilazionista, che tendono a negare o a ridurre la possibilità di esprimere la differenza culturale e religiosa; dall’altro posizioni di tipo multiculturale, che nell’affermare in modo unilaterale la qualità positiva della “differenza” culturale e religiosa tendono sul versante laico a sottovalutare il potenziale conflittuale pur insito nelle diversità - finendo per non porsi la questione di come gestire un’integrazione efficace - mentre sul versante ecclesiale assumono la forma di una bonaria accettazione della differenza. Quest’ultimo atteggiamento per un verso rinuncia a sua volta a identificare le tensioni pur esistenti, per l’altro giunge quasi a esimersi dal dovere di testimoniare la fede cristiana anche in termini di contenuto veritativo e dottrinale, riducendo la testimonianza alla sola prassi caritativa. Si tratta di questioni urgenti per il presente e il futuro delle nostre società, rispetto alle quali occorre elaborare percorsi adeguati: in tale prospettiva le Chiese locali sono chiamate in prima persona a dare il proprio specifico contributo a quel processo complesso che è l’integrazione in Europa e in Italia di ampie porzioni di residenti e nuovi cittadini di origine straniera, portatori di diverse culture e afferenti spesso a tradizioni religiose diverse da quella cristiana Il magistero della Chiesa a partire dal concilio Vaticano II fino ai molti interventi in proposito di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI si è occupato in modo costante e approfondito di questa insieme di tematiche, e invita fondamentalmente a sviluppare i rapporti con i fedeli di religioni non cristiane nel quadro di due grandi prospettive tra loro correlate: dialogo e annuncio, che implicano la correlazione dinamica tra carità e verità. Il dialogo interreligioso viene proposto come la dimensione fondamentale per sviluppare rapporti con fedeli e comunità di altre religioni. È bene però ricordare che secondo il magistero della Chiesa, che ha trovato sintesi illuminata su questo tema specifico nel documento Dialogo e annuncio (Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso - Congregazione per la propagazione della fede), il fine del dialogo è da un lato conoscere l’altro in modo costruttivo e non ambiguo, dall’altro anche di farsi conoscere nella propria identità religiosa. Il dialogo consiste dunque in un processo critico e approfondito di conoscenza reciproca, che ha l’obiettivo di individuare convergenze soprattutto nell’ambito dei valori morali e spirituali per costruire una convivenza comune il più possibile partecipata superando le conflittualità. Il documento Dialogo e annuncio ci ricorda che il dialogo interreligioso è molto impegnativo, e richiede a chi lo pratica una vera ascesi intellettuale e spirituale: esso implica sia il superamento di concezioni identitarie rigide - che facilmente veicolano il pregiudizio negativo sull’altro - sia l’attenzione a evitare posizioni acritiche, aproblematiche o sincretistiche, che derivano facilmente da un pregiudizio “positivo” che finisce per produrre atteggiamenti di superficialità che non conducono a un dialogo reale ed efficace, in grado di gestire i problemi del vissuto. Entrambe le tentazioni sono ricorrenti, anche nel vissuto ordinario delle nostre diocesi e parrocchie, ma entrambe rendono il dialogo inefficace, perché, sia pure in modo diametralmente opposto, viene negato spazio al riconoscimento della diversità altrui. Nel caso dell’affermazione di un’identità rigida, l’altro/il diverso viene visto in modo ostile e non gli si propone in fondo niente altro se non la rinuncia alla sua diversità; nel caso di un approccio acritico al dialogo, si finisce in altro modo di incorrere nello stesso esito: la “diversità” reale - con i vari problemi che da essa inevitabilmente scaturiscono - non viene affrontata. Può accadere che entrambi gli approcci siano vissuti in buona fede: nel primo caso per tutelare la verità religiosa in cui crediamo, nel secondo caso per vivere la carità verso gli altri in modo gratuito. Ma queste due giustificazioni si fondano su una comprensione inadeguata sia della responsabilità verso la propria fede sia della carità che come cristiani siamo chiamati a vivere. Una serena adesione alla propria fede infatti non dovrebbe indurre ad atteggiamenti di rigidità: proprio la fiducia creduta e sperimentata nel rapporto con Gesù Cristo dovrebbe indurre a un atteggiamento dialogico verso gli altri, nella convinzione che tale atteggiamento è l’unico in grado di aprire un rapporto che sia da un lato umanamente costruttivo, dall’altro propositivo del bene che la fede ci fa conoscere e vivere. Non si può propone la verità senza vivere nel rapporto con l’altro una reale carità. La carità cristiana è “intelligente”: vede i problemi e s’impegna a risolverli senza mai negare la propria radice che è Cristo stesso. Non ci si può tuttavia nascondere che capita sovente anche l’esperienza opposta: quella cioè di incontrare fedeli cattolici impegnati, che in nome del rispetto verso l’altro sostengono che occorre limitarsi al dialogo e non procedere oltre con l’annuncio del Vangelo ai fedeli di altre religioni. Si è già fatto osservare su queste

6

pagine come tali atteggiamenti ripropongono a livello locale ed empirico una discussione ben più ampia e articolata sviluppatasi sulla missione ad gentes a partire dalla fine degli anni Sessanta. La questione molto sinteticamente si poneva in questi termini: se il concilio Vaticano II ha riconosciuto elementi positivi presenti nelle altre religioni, considerandoli addirittura come riflesso della luce del Verbo di Dio - dunque della grazia - è ancora possibile giustificare la missione evangelizzatrice della Chiesa verso i non cristiani seguaci di altre religioni? Sia la teologia sia il magistero hanno dato risposta affermativa al problema sollevato. Gli elementi della risposta si trovano già negli stessi documenti conciliari che, pur valorizzando gli elementi di bene e di grazia presenti nelle altre culture e religioni, specificano che essi sono però presenti in maniera iniziale, incompleta, frammisti a elementi negativi che sono frutto dell’ignoranza umana, del peccato, finanche dell’azione devastante del nemico. Compito precipuo del dialogo è discernere tra questi due aspetti, per valorizzare gli elementi di bene, ma anche identificare gli elementi negativi. In questa prospettiva l’annuncio missionario viene ulteriormente valorizzato, perché il suo scopo è portare a compimento i germi di verità e di santità presenti nelle altre religioni, testimoniando ai loro seguaci il Cristo, da cui quei germi di bene traggono origine e a cui conducono nel piano salvifico di Dio. L’esperienza del pluralismo religioso odierno deve confermare le comunità cristiane nella consapevolezza che solo in Cristo l’uomo trova la pienezza della vita, e la più grande carità che un cristiano è chiamato a vivere è la responsabilità di partecipare ai fratelli il dono di Cristo, perché tutti ne possano godere.

Testimoniare Cristo alle altre religioni ANDREA PACINI, Vita pastorale, 4/2006, 22-23.

Proseguendo nella riflessione, il crescente pluralismo religioso che caratterizza la società italiana ripropone in modo nuovo la missione evangelizzatrice della Chiesa. Si apre soprattutto per la Chiesa la prospettiva di sviluppare con i fedeli di altre religioni presenti in Italia relazioni positive ed efficaci tramite un dialogo serio che, proprio perché tale, includa in sé la testimonianza trasparente e consapevole del Vangelo. La sfida pastorale è elaborare itinerari per realizzare tale testimonianza, tenendo conto delle diverse tradizioni religiose. Bisogna subito dire che su queste prospettive il lavoro è agli inizi, vista sia la complessità intrinseca alla questione, sia considerando il fatto che si tratta di frontiere pastorali aperte in periodo recente. In termini generali si può innanzitutto dire che occorre evitare anche in Italia l’errore di assumere atteggiamenti sia aggressivi o dispregiativi verso l’"altro" sia acritici e rinunciatari rispetto all’annuncio cristiano, cercando invece di sviluppare rapporti maturi tramite un dialogo serio e costruttivo, che per lo più parte dal dialogo della vita. È questo il fondamento ineludibile e più normale attraverso cui trasmettere la prima testimonianza cristiana. Il dialogo della vita si esprime infatti nel vivere le circostanze normali di incontro con i non cristiani – a scuola, nei luoghi di lavoro, in ambiti associativi ecc. – in modo maturo e interessato all’altro e alla sua specificità culturale e religiosa, e manifestando in modo naturale la propria fede nei gesti e nelle parole del vissuto. Questo può avvenire sia a livello personale, sia a livello organizzato. A livello personale le situazioni possono essere le più diverse, ma il dato condivisibile che accomuna l’eloquenza della testimonianza cristiana è la carità, l’amore che si fa prossimo, accompagnato però da una parola che ne disveli la radice di fede da cui scaturisce. A questo proposito non si può non apprezzare quanto la Chiesa italiana ha effettuato nel corso degli ultimi due decenni in rapporto all’accoglienza degli immigrati, in gran parte non cristiani. Non sempre tuttavia questo impegno caritativo è stato discretamente ma esplicitamente accompagnato da una spiegazione delle motivazioni di fede per cui la Chiesa e i cristiani compiono determinate opere. In questo senso forse non si sono valorizzate in modo sufficiente le occasioni di dialogo e di annuncio iniziale offerte dal servizio caritativo, pur così capillarmente diffuso. Questo si può attuare tramite accorgimenti e atti semplici e, forse, minimali, ma che, se ripetuti con persistenza, possono essere efficaci nel destare interrogativi e domande interiori: d’altra parte non si può non approfittare degli spazi e dei momenti in cui già avviene l’incontro per seminare il Vangelo, perché altri momenti sono per ora ancora rari da individuare. Occorre d’altra parte considerare che i luoghi di incontro con i non cristiani si moltiplicano in ambito ecclesiale: si pensi alla presenza di bambini o ragazzi di origine immigrata negli oratori delle parrocchie o nelle scuole cattoliche, e dunque alla frequentazione che i loro genitori hanno di questi luoghi. Anche in questi casi occorre elaborare risposte efficaci, che permettano la condivisione del gioco, della formazione umana, dell’educazione scolastica, favorendo da un lato la conoscenza delle diversità culturali e religiose, ma promuovendo anche la conoscenza del cristianesimo nei suoi aspetti fondamentali. Quest’ultimo è un punto irrinunciabile, pena un venir meno del significato e scopo più vero dei nostri luoghi ecclesiali. La grande sfida è di riuscire a elaborare percorsi in cui tutto questo si faccia nel rispetto, nel dialogo, attraverso

7

una propositività efficace, valorizzando anche quegli aspetti delle altre culture e religioni che hanno consonanze con il cristianesimo. Sul piano concreto, parlare di membri di altre religioni in Italia significa riferirsi essenzialmente a musulmani, buddhisti e hindu. Ci si può quindi chiedere, almeno a livello teorico, quali sono gli elementi presenti in queste religioni per potere iniziare un dialogo che conduca all’annuncio del Vangelo. In termini generali bisogna fare una prima importante precisazione: il compito di discernere in modo preciso e articolato quali sono gli elementi di bene e di grazia presenti nelle singole religioni non cristiane, cui si riferiscono i documenti conciliari quali la Lumen gentium, la Nostra aetate, il decreto Ad gentes, è un lavoro che la teologia cristiana deve ancora effettuare e che è ai suoi inizi. Si tratta di un processo assai complesso, che implica non solo lo studio teorico della dottrina delle diverse religioni, ma anche conoscere gli itinerari spirituali dei loro membri entrando in contatto con gli altri "vissuti religiosi" sul piano esperienziale. Come si vede, la questione è dunque complessa. Può però sorgere la domanda a livello pastorale locale e nei rapporti quotidiani sugli aspetti che si possono valorizzare per introdurre alla conoscenza del Vangelo. Ci limitiamo a proporre qualche pista a livello iniziale. Nei rapporti con i musulmani è molto importante tenere presente che l’islam nel suo testo fondante – il Corano – offre una visione precisa del cristianesimo. Essendo una religione post-cristiana, il cui fondatore ha conosciuto, almeno parzialmente, l’ebraismo e il cristianesimo, l’islam offre del cristianesimo un’interpretazione specifica, in cui il credente cristiano non si riconosce, e che è caratterizzata da una chiara ambiguità. Da un lato infatti al cristianesimo è teoricamente riconosciuto lo statuto di "religione rivelata" – in quanto considerato come un anello dell’unica catena di rivelazione che si chiude con Muhammad – dall’altro lato il cristianesimo storico viene considerato una religione che si è allontanata dalla rivelazione originaria trasmessa da Gesù – che, secondo i musulmani, sarebbe sostanzialmente coincisa con il Corano, perché unica è la rivelazione di Dio. Le Scritture ebraiche e cristiane sono dunque ritenute falsificate, e le fondamentali dottrine rivelate cristiane quali il mistero del Dio trinitario (compreso per altro dal Corano in modo errato) e l’identità divino-umana di Gesù Cristo sono esplicitamente rifiutate e respinte come errori. L’ambiguità e il riduzionismo nei confronti di Gesù non è minore: viene riconosciuto come profeta, ma ben poco viene detto nel Corano del Gesù storico trasmessoci dai vangeli, soprattutto non viene riportato nessun aspetto del suo insegnamento, per cui la sua figura rimane piuttosto evanescente, fino a negarne la stessa morte di croce. Tali interpretazioni del cristianesimo in generale e di Gesù in particolare costituiscono una precomprensione diffusa tra i musulmani: essi credono di sapere già che cos’è il cristianesimo. Il grande lavoro da fare è di superare questa barriera e far loro capire che la fede dei cristiani è diversa. La figura di Gesù, che essi conoscono come nome, potrà essere l’avvio per un discorso che metta in luce il significato profondo che Gesù ha nella fede cristiana: cioè il fatto che in lui Dio entra personalmente nella storia per amore dell’uomo, per donargli la comunione con sé e, attraverso essa, aprirgli un rapporto liberante con sé stesso e con la storia. Così la parola di Dio che i musulmani ritengono sia divenuta "scritto su carta" nel Corano, è per la fede cristiana Parola vivente, come Dio è il vivente, e si è fatta uomo nel Signore Gesù, incarnato, morto e risorto. Questo filone può essere fecondo, soprattutto se gli interlocutori musulmani sono educati a forme di islam di tendenza sufi – diffuse anche popolarmente – quindi con una maggiore apertura e interesse per la vita spirituale e per il rapporto religioso esperienziale con Dio. Più difficile è l’approccio con le correnti di ispirazione fondamentalista o conservatrice, caratterizzate da un netto legalismo. Un altro elemento da valorizzare è la consapevolezza della trascendenza di Dio e dell’obbedienza che il credente gli deve: si può partire da questo per sviluppare l’idea che per conoscere l’obbedienza adeguata a Dio, l’uomo ha bisogno di essere istruito da Dio stesso, ed è quanto si compie al massimo grado nella persona di Cristo. È una prospettiva per far comprendere che la trascendenza di Dio e l’incarnazione possono essere coniugati. Il tema dell’amore del prossimo può essere valorizzato in modo analogo: se Dio ci comanda di amarci è perché ci ama e il suo amore è la regola cui sottometterci. Come si vede, i temi proposti portano a una decisa trasfigurazione cristiana del punto di partenza iniziale. Tuttavia anche i temi più lontani dalla dottrina islamica possono attirare l’attenzione dei cuori: è un dato di fatto che coloro che diventano cristiani provenendo dall’islam sono affascinati dal mistero del Dio comunionale che è la SS. Trinità e dal mistero di Cristo, in cui per puro amore Dio entra in comunione di vita con l’uomo. Sono anche profondamente attirati dal primato della carità – in Dio, che è amore, e nella vita di fede, che è vita nella carità – e dalla libertà di cui i "figli" di Dio godono grazie alla redenzione di Cristo (liberati dal giogo della legge). Per i buddhisti autentici l’elemento fondamentale su cui far leva è quello della compassione, che è centrale nel buddhismo, ma che offre la possibilità di sviluppare affinità con la fede cristiana. Gli stessi vangeli ci

8

mostrano spesso Gesù "mosso a compassione", e Gesù stesso è la "compassione" del Padre per l’uomo. Condividere la vita umana per redimerla è l’espressione più alta e concreta della "compassione" di Dio che si fa prossimo all’uomo per liberarlo. Anche il concetto di liberazione è fondamentale sia per il buddismo sia per l’hinduismo: liberazione dal ciclo delle rinascite, dalla sofferenza, dalle passioni, dai peccati. Può dunque costituire il punto di partenza per innestare l’annuncio del mistero di Cristo come la risposta al desiderio di liberazione. Naturalmente queste piste di annuncio devono fare i conti con la complessità delle altre religioni che offrono risposte diverse, cui è sottesa una diversa visione dell’uomo e del divino. Il buddismo è fondamentalmente una via di autosalvazione, per cui sul piano concreto bisognerà puntare sull’idea di liberazione, ma anche sull’esperienza della nostra personale insufficienza a raggiungerla, che apre la strada al discorso su Dio e sulla sua opera salvifica e liberante in Cristo. Si tratta di piste di dialogo certo non semplici, che ci introducono però all’esigenza di testimoniare il Cristo in modo comprensibile tenendo conto delle esperienze culturali e religiose altrui, secondo itinerari che lo stesso magistero e la teologia delle religioni ci invitano a percorrere. La sfida sta nel tentarne con intelligenza la sperimentazione concreta.

Una spiritualità del dialogo 1. Sebbene già vi fossero stati dei contatti fra cattolici e credenti di altre religioni, il concilio Vaticano II e in particolare la dichiarazione Nostra Aetate, possono essere considerati uno spartiacque in queste relazioni. Essi condussero al rinnovamento della visione della Chiesa riguardo alle altre religioni. Negli anni successivi, guidati dall’insegnamento del magistero pontificio e da alcuni documenti quali L’atteggiamento della Chiesa verso i seguaci di altre religioni (1984) e Dialogo e annuncio (1991), i cattolici hanno compiuto considerevoli sforzi per incontrare gli appartenenti ad altre religioni. Hanno intrapreso varie iniziative e, col tempo, queste sono cresciute di numero e si sono diffuse. Vi sono incontri con persone di altre religioni a livello di vita quotidiana, nella promozione comune di progetti sociali, nello scambio dell’esperienza religiosa, e in scambi formali fra cristiani e altri credenti per discutere elementi di credo o di pratica. I cattolici ed altri cristiani impegnati in tale dialogo interreligioso divengono sempre più convinti della necessità di una solida spiritualità che sostenga i loro sforzi. Il cristiano che incontra altri credenti non è coinvolto in un’attività marginale per la propria fede: siamo davanti ad un atteggiamento, piuttosto, che sorge dalle esigenze proprie della fede, sgorga dalla fede e deve essere nutrito dalla fede. Facciamo alcune considerazioni. 2. Dio è amore e comunione. Dio è amore e comunione. Come ci dice san Giovanni, Dio è amore (cf 1Gv 4,16). Il mistero della Trinità ci rivela che il Padre eterno ama il Figlio, il Figlio ama il Padre, e questo amore reciproco del Padre e del Figlio è la persona dello Spirito Santo. Perciò il Padre comunica se stesso interamente al Figlio che è Dio da Dio, luce da luce. Lo Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio è con il Padre e il Figlio un solo Dio che è comunione nella profondità del suo mistero. Questo mistero trinitario d’amore e comunione è il modello eminente per le relazioni umane e il fondamento del dialogo. 3. Dio comunica se stesso all’umanità. A causa del suo generoso amore Dio ha deciso di comunicarsi agli esseri umani che egli ha creato. L’Unico Figlio di Dio ha assunto la natura umana per «riunire i figli dispersi di Dio» (Gv 11,52), per restaurare la comunione fra l’umanità e Dio, per comunicare la vita divina alle persone e infine per riunirle insieme nella visione eterna di Dio. L’incarnazione è la manifestazione suprema della volontà salvifica di Dio. È la via scelta da Dio per andare alla ricerca dell’essere umano. L’incarnazione significa, da un lato, che il Figlio di Dio assume tutto ciò che è positivo nella natura umana; dall’altro, l’incarnazione prende la forma della kenosis, dello svuotamento. Come scrive san Paolo ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8). Questa è la via scelta nel piano divino per ristabilire la comunione fra l’umanità e Dio, per ricapitolare ogni cosa così che alla fine «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28; cf Ef 1,15). Così quando i cristiani incontrano altri credenti, sono chiamati ad avere gli stessi sentimenti di Cristo, a seguire le sue orme. 4. Conversione a Dio. Il cristiano che desidera entrare in contatto e stabilire una collaborazione con altri credenti deve cercare prima di tutto di convertirsi a Dio. In questo contesto la conversione a Dio è intesa come apertura all’azione dello Spirito Santo all’interno di se stessi, cercando in maniera positiva di

9

discernere la volontà di Dio, e la prontezza a compiere questa volontà quando è conosciuta. Il cristiano è consapevole che ciascuno è destinato a cercare la volontà di Dio e a obbedirle quando questa sia resa manifesta da una coscienza consapevole. Ciascuno può, e deve, fare progressi nell’impegno di cercare e compiere la volontà di Dio. Quindi, più i credenti in dialogo «cercano il volto di Dio» (cf Sal 27,8), più vicino essi saranno gli uni agli altri e più possibilità avranno di comprendersi. Si può dunque vedere che il dialogo interreligioso è un’attività profondamente religiosa. 5. Identità cristiana in dialogo. Il cristiano che incontra altri credenti fa ciò in quanto membro della comunità di fede cristiana, e perciò in quanto testimone di Gesù Cristo. È importante che il cristiano abbia una chiara identità religiosa. Il dialogo interreligioso non richiede che il cristiano metta da parte alcuni elementi della fede cristiana o della pratica, mettendoli tra parentesi, e ancor meno mettendoli in dubbio. Al contrario, gli altri credenti vogliono chiaramente conoscere chi stanno incontrando. È nostra ferma convinzione che Dio vuole che tutti siano salvati (cf 1Tm 2,4) e che Dio dona la sua grazia anche al di fuori dei confini visibili della chiesa (cf Lumen Gentium, n. 16; Redemptor Hominis, n. 10). Allo stesso tempo il cristiano è consapevole che Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è l’unico ed il solo salvatore di tutta l’umanità, e che soltanto nella Chiesa che Cristo ha fondato si possono trovare i mezzi per la salvezza in tutta la loro pienezza. Ciò non deve in nessun modo indurre i cristiani ad assumere un atteggiamento trionfalista o ad agire con un complesso di superiorità. Al contrario, è con umiltà e con il desiderio di un arricchimento reciproco che uno incontrerà altri credenti, mentre si tiene saldamente alle verità della fede cristiana. Il dialogo interreligioso, quando è condotto in questa visione di fede, non conduce in nessuna maniera al relativismo religioso. 6. Annuncio e dialogo. Nel dialogo il cristiano è chiamato a essere testimone di Cristo, ad imitare il Signore nel suo annuncio del Regno, nella sua preoccupazione e compassione per ciascuno e nel suo rispetto per la libertà della persona. Vi è necessità di riscoprire lo stretto legame fra annuncio e dialogo quali elementi della missione evangelizzatrice della chiesa (cf Dialogo e annuncio, nn. 77-85). Si può vedere che questi elementi non sono intercambiabili, non devono essere neppure confusi, ma sono davvero correlati (cf. Redemptoris Missio, n. 55). L’annuncio conduce alla conversione nel senso della libera accettazione della buona novella di Cristo e dell’appartenenza alla Chiesa. Il dialogo, d’altro canto, presuppone la conversione nel senso di un ritorno del cuore a Dio in amore e obbedienza alla sua volontà (cf L’atteggiamento della chiesa verso i seguaci di altre religioni, n. 37). È Dio che attira a se le persone, inviando il suo Spirito che è all’opera nella profondità dei loro cuori. Alla verità e alla libertà, quindi, corrispondono, rispettivamente l’annuncio e il dialogo. 7. La necessità di comprendere altri credenti. Il cristiano che si impegna nelle iniziative interreligiose avverte sempre più la necessità di comprendere le altre religioni proprio per conoscere meglio i loro appartenenti. Si vedrà che vi sono molti punti di contatto: il credere in un unico Dio che è Creatore, l’aspirazione alla trascendenza, la pratica del digiuno e del ringraziamento, il ricorso alla preghiera e alla meditazione, l’importanza del pellegrinaggio. Le differenze, comunque, non devono essere sottovalutate. Una spiritualità cristiana del dialogo crescerà se si mantengono entrambe queste dimensioni. Pur apprezzando l’opera dello Spirito di Dio fra le persone di altre religioni, non soltanto nei cuori dei singoli ma anche in alcuni dei loro riti religiosi (cf RM 55), dovrà essere rispettata l’unicità della fede cristiana. 8. In fede, speranza e carità. La spiritualità che anima e sostiene il dialogo interreligioso è quella vissuta in fede, speranza e carità. Vi è la fede in Dio, che è Creatore e Padre dell’umanità intera, che abita in una luce inaccessibile e nel cui mistero la mente umana non è in grado di penetrare. La speranza caratterizza un dialogo che non pretende di vedere risultati immediati, ma si tiene saldo al credere che «il dialogo è un cammino verso il Regno e che certamente porterà frutti, anche se il tempo e le stagioni sono conosciute solo dal Padre (cf At 1,7)» (RM 57). La carità che proviene da Dio, e che ci viene comunicata dallo Spirito Santo, spinge il cristiano a condividere l’amore di Dio con altri credenti in maniera gratuita. Il cristiano è quindi convinto che l’attività interreligiosa sgorga dal cuore della fede cristiana. 9. Alimentata dalla preghiera e dal sacrificio. Questa spiritualità è alimentata dalla preghiera e dal sacrificio. La preghiera unisce il cristiano alla bontà e al potere di Dio senza il quale non possiamo niente (cf Gv 15,5). Senza l’azione vitale data da Dio, la sola attività umana non è in grado di ottenere nessun bene spirituale permanente. Il sacrificio rafforza la preghiera e promuove la comunione con gli altri. I cristiani imparano dalla loro fede ad amare gli altri credenti anche quando questi ultimi apparentemente non ricambiano, o almeno non immediatamente. L’insegnamento di Cristo è che noi dobbiamo amare in maniera disinteressata, che dobbiamo essere pronti a camminare un miglio in più, che non dobbiamo cercare vendetta se soffriamo a causa di azioni malvagie ma piuttosto cercare di vincere il male col bene. Questo non è un segno di debolezza, ma di forza spirituale.