La chiave è: rendi il tuo acquirente un eroe. - 8 · di Gian Luca Pisacane 20 Luna Nera....

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INCHIESTE Lo sport nel cinema italiano ANNIVERSARI A 50 anni da La caduta degli Dei FOCUS Il cinema di Hong Kong RICORDI Andrea Camilleri Luciano De Crescenzo MARKETING E CINEMA. COME RIACCENDERE LA VOGLIA DI FILM? n°47 novembre 2019 € 5,50

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INCHIESTELo sport nel cinema italiano

ANNIVERSARIA 50 anni da La caduta degli Dei

FOCUSIl cinema di Hong Kong

RICORDIAndrea CamilleriLuciano De Crescenzo

Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale -70% - Aut. GIPA/C/RM/04/2013

Nulla è più necessario del superfluo.(da La vita è bella di Roberto Benigni)

La chiave è: non importa quale storia racconti,

rendi il tuo acquirente un eroe.(Chris Brogan)

MARKETING E CINEMA.COME RIACCENDERE LA VOGLIA DI FILM?

n°47 novembre 2019 € 5,50

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sul prossimo numero in uscita a dicembre 2019

ScenariIl cinema e l'industria italiana

InchiesteCassee cassiere

FocusIl cinemain Indonesia

AnniversariA 50 anni da...Metti una sera a cena

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Lo scorso anno era toccato a Bohemian Rhapsody. Quest’anno a Joker. Flussi improvvisi di in-namoramento collettivo. Passa-parola enfatizzante e contagioso. Meccanismi di inclusione e ri-partizione sociale fra i sostenitori (tantissimi) e i detrattori (molti meno, ma tenaci) dei predetti film. Quando capitano fenomeni simili, quando le sale sempre più desolantemente disertate all’im-provviso si riempiono, e vedi code fuori dai cinema, e senti che del film ne parlano al bar, e capita perfino che la portinaia o il ben-zinaio ti chiedano se vale davvero la pena di vederli (“vale la pena?”, mi hanno chiesto proprio così…), allora vuol dire che un film tra-scende i confini pur nobili dello spettacolo cinematografico e di-venta a suo modo un sismografo sociale. Lo scorso anno, nel caso di Bohemian Rhapsody, il successo si poteva spiegare almeno in parte (ma solo in parte…) con il culto carismatico e transgenerazionale di un’icona intramontabile come Freddy Mercury. Quest’anno, con Joker, il fenomeno è più comples-so: quando un film funziona così vuol dire che intercetta fantasmi epocali, che fruga nelle anse na-scoste dell’immaginario collet-tivo, che porta in primo piano e offre una valvola di scarico a pul-

QUANDO UN FILM OFFRE OCCHIALI NUOVI

sioni profonde. Non c’è marketing che tenga: qui è il prodotto-film – innanzitutto – che funziona, che piace tanto alla giuria della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia quanto al pubblico popolare, e che sa dialogare in profondità con il proprio tempo, anticipandone i bisogni e offrendo a tutti nuovi occhiali emozionali per vedere meglio il mondo. Il problema è che un tempo molti film erano costruiti così, o avevano quanto meno questo obiettivo di fondo, mentre ora Joker sembra una rara avis, un gioiello isolato in mezzo a una produzione che ormai o in-segue i solipsismi di certo cinema d’autore o si adagia nella sciatte-ria di un cinema popolare confe-zionato senza passione e senza convinzione. In questo numero di 8½ ci occupiamo di marketing del cinema, di come innovare i modi e le forme con cui i film vengono promossi e comunicati. È una riflessione importante e non più procrastinabile. Ma a condizio-ne di non dimenticare mai che il marketing può ben poco se non c’è, prima, un prodotto da offri-re, se non ci sono film capaci di accendere la fantasia e di incre-mentare l’esperienza emotiva del pubblico che dovrebbe comprare il biglietto per entrare al cinema. In Italia più che altrove.

editoriale

di GIANNI CANOVA

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cover

EDITORIALE

01 Quando un film offre occhiali nuovi di Gianni Canova

sommario

SCENARI

06 Perché non ci sono premi per chi comunica meglio il cinema e i film? di Gianni Canova

08 Come eravamo di Silvana Annicchiarico

12 “Incastrati” nella Rete di Franco Montini

14 Ho fatto due etti e mezzo, lascio? di Andrea Guglielmino

16 Why So Serious? Questo (non) è un video-gioco da ragazzi di Matteo Bittanti

18 I trucchi del mestiere: quattro casi di strategie di successo

Avengers: Endgame. Dai cosmetici alla Coca-Cola di Ang

8½NUMERI, VISIONI E PROSPETTIVE DEL CINEMA ITALIANO

Bimestrale d’informazione e cultura cinematografica

Iniziativa editoriale realizzata da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con ANICA e Direzione Generale Cinema

Direttore ResponsabileGiancarlo Di Gregorio

Direttore EditorialeGianni Canova

Vice Direttore ResponsabileCristiana Paternò

Capo RedattoreStefano Stefanutto Rosa

In RedazioneCarmen DiotaiutiAndrea Guglielmino

Coordinamento redazionale DG CinemaIole Maria Giannattasio

Coordinamento editorialeNicole Bianchi

Hanno collaborato Alberto Anile, Silvana Annicchiarico, Andrea Bellavita, Matteo Bittanti, Federico Bondi, Alice Bonetti, Nicola Calocero, Oscar Cosulich, Steve Della Casa, Claudio Fontanini, Iole Maria Giannattasio, Andrea Gropplero di Troppenburg, Oscar Iarussi, Stefano Locati, Anton Giulio Mancino, Andrea Mariani, Rocco Moccagatta, Franco Montini, Gian Luca Pisacane, Emanuele Rauco, Ilaria Ravarino, Giampaolo G.Rugo, Monica Sardelli, Fabiana Sargentini, Caterina Taricano, Alessandra Tieri, Hilary Tiscione, Bruno Zambardino, Winnie L.M.Yee

Progetto Creativo19novanta communication partners

Creative DirectorConsuelo Ughi

DesignerGiulia Arimattei, Valeria Ciardulli, Martina Marconi,Lorenzo Mauro Di Rese

Stampa ed allestimentoArti Grafiche La ModernaVia Enrico Fermi 13/1700012 Guidonia Montecelio (Roma)

Registrazione presso il Tribunale di Roma n° 339/2012 del 7/12/2012Direzione, Redazione, AmministrazioneIstituto Luce-Cinecittà SrlVia Tuscolana, 1055 - 00173 RomaTel. 06722861 fax: [email protected]

Chiuso in tipografia il 22/10/19

19 Juno. Gravidanza con hamburger di Gian Luca Pisacane

20 Luna Nera. Wunderkammer con vista di Ang

21 Loro 1 e Loro 2. La chiave è nel titolo di G.L.P

22 La ricetta che non c’è di Ilaria Ravarino

Interviste

Francesca Cima Andrea Cuneo Gabriele D’Andrea Barbara Pavone

26 A.A.A. Cercasi influencer disperatamente di Alessandra Tieri

28 Il concerto dei dettagli di Nicole Bianchi

Interviste

Paolo Balestrazzi Federico Mauro Edoardo Massieri

30 Jeeg piglia-tutto a cura della redazione

31 Il fascino (in)discreto delle locandine di Alice Bonetti

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SCANNER

68 Il mercato dei film europei fuori dall’Europa di Iole Maria Giannattasio, Monica Sardelli, Bruno Zambardino

FOCUS HONG KONG

77 In cerca di identità alle porte della Cina di Stefano Locati

82 La scena indipendente post-handover: documentare il territorio di Winnie L.M. Yee

CINEMA ESPANSO

84 La Formula rossa di Cronenberg di Hilary Tiscione

86 Ritratti in Polaroid, il lato mistico della Mostra di Carmen Diotaiuti

88 L’apocalisse a Roma di Cristiana Paternò

GEOGRAFIE

90 Sophia Loren e la magia di Santo Spirito di Oscar Iarussi

COMPLEANNI

92 Gli 80 anni di Maurizio Ponzi di Caterina Taricano

RACCONTI DI CINEMA

56 Compagni di scuola Il momento di Giampaolo G. Rugo

REPRINT

58 Piccola storia del cinema sportivo di Mario Verdone da “Centrofilm”, n. 41, 1964, pp. 54-60

di Andrea Mariani

ANNIVERSARI

60 a 50 anni da La caduta degli Dei

61 Capitalismo e massacro (in guêpière) di Alberto Anile

latestrewind

94 Il compleanno di Marco Bellocchio. La vocazione per la sfida è sempre “ot-tanta” di Anton Giulio Mancino

RICORDI

96 Mattia Torre (1972-2019) Godere della vita di Fabiana Sargentini

97 Ilaria Occhini (1934-2019) Una “Gemma” fragile e determinata di Federico Bondi

98 Carlo Delle Piane (1936-2019) Molto più di un caratterista di Steve Della Casa

INTERNET E NUOVI CONSUMI

100 Italy for Movies, l’Italia che si gira con un’app di Carmen Diotaiuti

PRO E CONTRO

102 La solitudine dei numeri 1 di Emanuele Rauco

104 BIOGRAFIE

INCHIESTE

36 L’epica nel pallone di Gianni Canova

37 Questione di “sacro furore” di Stefano Locati

40 Cinema da campioni di Claudio Fontanini

Interviste

Andrea Lucchetta Rosalia Pipitone Patrizio Oliva Adriano Panatta

44 Un calcio al cinema di Nicola Calocero

46 Non solo “due calci ad un pallone” di Oscar Cosulich

IMMAGINARI

48 Andrea Camilleri e il suo universo ..io canto di Andrea Bellavita

50 Così parlò De Crescenzo di Rocco Moccagatta

CINE GOURMET

52 Lo sponz di Rocco Papaleo di Andrea Gropplero di Troppenburg

voci

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voci - inchieste

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coverSCENARI

06 Perché non ci sono premi per chi comunica meglio il cinema e i film? di Gianni Canova

08 Come eravamo di Silvana Annicchiarico

12 “Incastrati” nella Rete di Franco Montini

14 Ho fatto due etti e mezzo, lascio? di Andrea Guglielmino

16 Why So Serious? Questo (non) è un video-gioco da ragazzi di Matteo Bittanti

18 I trucchi del mestiere: quattro casi di strategie di successo

Avengers: Endgame. Dai cosmetici alla Coca-Cola di Ang

19 Juno. Gravidanza con hamburger di Gian Luca Pisacane

20 Luna Nera. Wunderkammer con vista di Ang

21 Loro 1 e Loro 2. La chiave è nel titolo di G.L.P

22 La ricetta che non c’è di Ilaria Ravarino

Interviste

Francesca Cima Andrea Cuneo Gabriele D’Andrea Barbara Pavone

26 A.A.A. Cercasi influencer disperatamente di Alessandra Tieri

28 Il concerto dei dettagli di Nicole Bianchi

Interviste

Paolo Balestrazzi Federico Mauro Edoardo Massieri

30 Jeeg piglia-tutto a cura della redazione

31 Il fascino (in)discreto delle locandine di Alice Bonetti

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cover - scenari Marketing del cinema. Come riaccendere la voglia di film?

scenariscenari

Ormai lo dicono in tanti: in Italia la comunicazione e il marketing sono il tallone d’Achille di tutto il sistema cinema.

Quello che si fa non basta. In ogni caso non funziona, o funziona poco. Perché? Cosa si potrebbe fare subito per migliorare la situazione?

di GIANNI CANOVA

Qualche anno fa, in uno dei primi numeri di questa rivista, ragio-navamo sull’ipotesi che il vero anello debole della filiera cine-matografica, in Italia, fosse la co-municazione. Brutti titoli. Brutti poster. Trailer scadenti. Banner discutibili. Scarsa capacità di ac-cendere la fantasia. Di innesca-re curiosità. Di generare attesa. E un’attività di comunicazione gestita per lo più nella routine, quasi accettando come inelut-tabile il progressivo declino. La-mentavamo una sorta di afasia comunicativa del cinema italiano e – salvo poche, meritorie ecce-zioni – la sua sostanziale incapa-cità di comunicare efficacemente se stesso. Lo scenario è cambiato in questi tre/quattro anni? Sono anni – è bene ribadirlo – in cui la comunicazione si è finalmente affermata come pratica centrale

e strategica nella consapevolezza del sistema industriale e finanche politico italiano. I premi per la comunicazione d’impresa si sono moltiplicati, sono cresciuti in nu-mero e in autorevolezza. I leader politici costruiscono sulla comu-nicazione (e spesso, purtroppo, solo su quella) le loro fortune e – a volte – anche le loro catastrofi. Le strategie comunicative sul web hanno fatto passi da gigante in tutti i settori e il marketing non è più guardato come la Cenerentola del sistema produttivo. Questo rinnovamento ha coin-volto anche il nostro cinema? Più no che sì. L’impressione è che non si possa ancora parlare, da noi, di marketing del cinema. E che – so-prattutto – non ci sia la consape-volezza che comunicare un film è importante almeno quanto pro-durlo. Da noi le risorse investite

sulla comunicazione del prodot-to-film sono infinitamente infe-riori a quelle di cui dispone non solo il cinema hollywoodiano, ma su cui possono contare ormai anche tante altre cinematografie al mondo. Sono poche le produ-zioni, da noi, che fanno un serio lavoro di branding, che studiano e progettano strategie per imporre il proprio brand e il suo posiziona-mento sul mercato dell’intratte-nimento, ancora meno le pratiche e le tattiche transmediali di lan-cio del prodotto, cioè la capacità di costruire alleanze e sinergie, come ogni industria sana e consa-pevole di sé dovrebbe saper fare o, quanto meno, impegnarsi a fare. La maggior parte delle volte siamo sempre lì: la conferenza stampa e poi la coda per andare in Tv, con tutto il cast, da Fazio o da Vespa, nella pia illusione che la transu-

stanziazione del film sub specie ca-todica possa fare il miracolo. Non è così. Non funziona così. Bisogna avere l’onestà intellettuale di ca-pire che non funziona così. E in-terrogarsi senza pregiudizi su cosa riesce oggi ad accendere i sogni e la fantasia del pubblico. C’è qual-cuno che ha provato a fare un’a-nalisi seria del perché Unposted, il film su Chiara Ferragni, ha in-cassato al cinema più di 500.000 euro il primo giorno di program-mazione, battendo blockbuster come IT-Capitolo II e Il re leone, e poi tallonando l’attesissimo C’era una volta… a Hollywood di Taran-tino? La Ferragni ha 18 milioni di followers su Instagram, va bene, ma non sempre chi ha seguito sul web porta la gente al cinema. Bi-sogna ragionare. Riflettere. Forse bisognerebbe ripartire da qui. Da un’indagine seria e approfondita

PERCHÉ NON CI SONO PREMI PER CHI COMUNICA MEGLIO IL CINEMA E I FILM?

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dei bisogni del pubblico. E da un ragionamento non improvvisato su come accendere sogni che an-cora non ci sono. Ma poi basterebbe poco. Baste-rebbe ricordarsi del fatto che ogni film è un mistero. E che sull’idea di mistero qualche vol-ta si potrebbe provare a lavorare. La rivoluzione digitale, da questo punto di vista, potrebbe aprire possibilità infinite. E la massa critica formata da un’infinità di corsi universitari che si occu-pano non solo di cinema ma di comunicazione potrebbe offrire un laboratorio permanente di ricerca e di sperimentazione. Ba-sterebbe la voglia di provarci. Di svecchiare. Di inventare nuove professioni. Di uscire dalla rasse-gnazione e dalla routine.E servirebbe, soprattutto, che chi gestisce il sistema dei premi del cinema italiano si decidesse una buona volta a riconoscere che il cinema è anche industria, oltre che arte, e quindi a prevedere di incentivare – con opportuni pre-mi e riconoscimenti – anche la creatività applicata alla comuni-cazione. Ci rivolgiamo ad esem-pio a chi ha la responsabilità di grandi e autorevoli premi (i David di Donatello, o i Nastri d’argento), ma anche ai tanti direttori di fe-stival nazionali e internazionali: ma è così impossibile pensare di istituire un premio anche per il miglior marketing di un film ita-liano? È così eretico, così scanda-loso riconoscere anche la natura industriale del cinema? E così impensabile l’idea di spingere chi produce film e li distribuisce a inventare e sperimentare nuo-ve forme di comunicazione che sappiano accendere di nuovo il desiderio di cinema e il bisogno di film? Possibile che fra tanti piccoli festival spesso difficilmente di-stinguibili uno dall’altro non ci sia nessuno che voglia provare a lan-ciare una manifestazione anche competitiva legata alla comuni-cazione del cinema e dei film? 8½ il sasso l’ha lanciato, ora stiamo a vedere se qualcuno lo raccoglie.

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cover - scenari Marketing del cinema. Come riaccendere la voglia di film?

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DI SILVANA ANNICCHIARICO

Gli stili, i colori e la grafica della comunicazione cinematografica degli Anni ‘60.

Dove sono finite questa eleganza e questa efficacia nel cinema italiano di oggi?

Milano è disegnata con un in-chiostro azzurro che tratteggia con stilizzata eleganza i simboli e le icone della città: il Duomo, il Pirellone, le auto. L’immagine scontornata dei due attori prota-gonisti, in bianco e nero, è collo-cata in basso, a destra, sopra un “piedistallo” a sua volta azzurro che separa la parte iconica del manifesto da quella che contiene invece il titolo del film (Una storia milanese) e i nomi degli attori che compongono il cast. Siamo negli

Anni ’60 (il film di Eriprando Vi-sconti esce per la precisione nel 1962) e la modernità si vede anche nella grafica, nel ricercato equili-brio dei dettagli, nella scelta del lettering: vedi un manifesto come questo e senti che il film che pub-blicizza è un oggetto contempo-raneo, assolutamente presente al proprio tempo. Dove sono finite questa eleganza e questa efficacia nella comunicazione del cinema italiano di oggi?

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Basta prendere un magazine pro-mozionale di quegli anni come “CineSpettacolo” per restare me-ravigliati: le pagine sono ormai un po’ fanées, i colori hanno perso ni-tidezza, qua e là c’è qualche graf-fio, ma il “progetto” comunicativo si intravede forte e chiaro.

Chi “promuoveva” quei film sa-peva che anche la comunicazione è invenzione di forme. Che una comunicazione parassitaria e di-dascalica non va da nessuna par-te, e che anche in questo mestiere servono immaginazione, visione e fantasia. Qualche esempio? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Il film La rossa (1962), con Ruth Leuwerik, Rossano Brazzi e Gior-gio Albertazzi, rinuncia perfino ai nomi degli attori e usa solo due colori, il rosso e il nero, per enfa-tizzare la capigliatura della prota-gonista che metonimicamente dà il nome al personaggio e al film.

Rosso e nero dominano anche il manifesto de Le mani sulla città (1963) di Francesco Rosi, dove il disegno traccia scheletri di ar-chitetture sullo sfondo di una sagoma umana che richiama la silhouette dell’attore protago-nista, Rod Steiger. Nient’altro. Come se la comunicazione – nel combinato disposto di titolo, grafica e colori – sapesse di po-ter essere autosufficiente, di non aver bisogno d’altro per colpire il pubblico.

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cover - scenari Marketing del cinema. Come riaccendere la voglia di film?

Una scelta analoga era già, del re-sto, anche nel manifesto dell’altro capolavoro del primo Rosi, Salva-tore Giuliano (1962), dove il nero assoluto dello sfondo faceva risal-tare il disegno tracciato in bian-co di un uomo prono, forse un cadavere, con una pistola a terra davanti a lui. Anche qui: nient’al-tro. Un titolo, un’atmosfera. Un modo di sentire. Una suggestione. Il manifesto de L’intrigo di Vitto-rio Sala lavora invece per analogia col titolo (e col tema del film), riproducendo su fondo nero un intricato groviglio di fili grigi e ros-si, senza alcuna fotografia ripresa dal film. L’idea che accomuna tutte queste strategie promozio-nali è che per comunicare il film serve qualcosa di diverso dal film stesso, e che qualche immagine – per quanto emblematica – for-se funziona meno di un artefat-to progettato appositamente a fini comunicativi.

Un caso di rara eleganza è ad esempio il manifesto di Tutto l’oro del mondo di René Clair, giocato esclusivamente sulla tripartizione cromatica nero-oro-rosso divisi per larghe strisce orizzontali che contengono le parole del titolo: senza immagini, senza foto, senza slogan, una sfida ardita che prova a lavorare solo sul lettering per essere attrattivo e per incuriosire.

Agli antipodi, ma analogamente efficace, la scelta comunicativa de Le italiane e l’amore, documentario collettivo in 11 episodi realizzato nel 1961: qui tutto lo spazio rettan-golare del manifesto è occupato dai volti in primo piano delle don-ne protagoniste, riprese con an-golazioni e dimensioni diverse, a comporre un collage, una sorta di mosaico volutamente corale della condizione femminile nell’Italia del boom. Solo i volti, niente corpi né ammiccamenti sessuali.

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Solo 10 anni prima il manifesto di Peccato che sia una canaglia (1954) di Blasetti puntava a un gusto marcatamente popolare, fatto di colori accesi e luminosi, a esalta-re il corpo disegnato di una Loren ignuda ma coperta maliziosa-mente da una staccionata che si sovrappone proprio alle parti più intime e le nasconde. Anche qui: niente nomi, niente cast, solo il titolo e - in questo caso - il corpo dell’attrice, trasformato in icona della bellezza italiana.

A volte si trovano anche interes-santi casi di promozione non di un film ma di un marchio editoria-le o distributivo: la CEI-Incom, ad esempio, per lanciare il suo listino 1959-60 prende in prestito il titolo di un bellissimo film di Billy Wil-der del 1951 (L’asso nella manica) e propone un raffinato impianto grafico che usa le carte da gioco per suggerire in che mani sta la carta vincente. Forse, se si voles-se davvero provare a rinnovare il marketing e la comunicazione del cinema italiano, bisognerebbe ri-partire da qui e provare a studiare un modello che ha contribuito a fare del nostro cinema, in quegli anni, uno dei più belli e innovativi del mondo.

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cover - scenari Marketing del cinema. Come riaccendere la voglia di film?

“Il risultato di un film dipende dal film, non dal marketing”. Se a pro-nunciare la perentoria affermazio-ne è il direttore marketing di Uni-versal, Massimo Proietti, c’è da credergli. “Il marketing – prosegue Proietti - può aiutare un film, ma non ne determina l’esito commer-ciale. Il marketing sta al film, come l’allenatore sta ad una squadra di calcio: per quanto bravo possa es-sere il tecnico, la differenza sostan-ziale la fanno le qualità degli atleti. Con una squadra di schiappe non si vincerà mai lo scudetto”.E tuttavia, la pubblicità cinema-tografica è esistita fin dagli albori del cinema, assumendo, di volta in volta, forme diverse e utilizzan-do variegati mezzi di comunica-

zione. Dall’affisso murale, una sorta di cartellone del cantastorie in epoca pre-televisiva, alla flani-stica, al trailer distribuito in sala e programmato in tv. La più recente rivoluzione nel settore è stata de-terminata dall’avvento del digitale e della Rete. “Oggi la maggior par-te delle risorse pubblicitarie di un film - ricorda Sonia Dichter, re-sponsabile marketing di 01- ven-gono destinate alla promozione sui social media. Attraverso Face-book e piattaforme analoghe, con il coinvolgimento di community, si ha, infatti, la certezza di arrivare a colpire il target individuato per il film in questione. In questo modo si abbatte il costo contatto”. Si tratta di una scelta ormai condi-

Il rito dell’uscita del film: stanche strategie di promozione. Il punto di vista di Massimo Proietti - Universal, Sonia Dichter - 01 Distribution e Diamiano Ricci - BIM.

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visa da tutte le distribuzioni, nella consapevolezza che i social media non siano uno strumento utilizza-to solo dai giovani. “Le nostre in-dagini - spiega Damiano Ricci, di-rettore marketing di BIM - hanno dimostrato che anche il pubblico adulto, perfino gli over 65, è mol-to attivo sulla Rete. Si tratta di indi-viduare la piattaforma più conge-niale per ogni singolo film: oggi un prodotto per giovanissimi va pro-mosso su Instagram, per adulti su Facebook”.Le difficoltà maggiori nell’attivi-tà di marketing cinematografico riguardano piuttosto la specifici-tà del prodotto film e l’esiguità del pubblico di riferimento. “La tem-pistica del consumo - ricorda Pro-ietti - si sta progressivamente ri-ducendo e, a determinare l’esito commerciale, è sempre più spesso il risultato del primo giorno: non ci sono possibilità di recupero. Inol-tre, il pubblico si è molto ridotto rispetto al passato. Le indagini di-cono che gli italiani che vanno al cinema almeno una volta all’an-no, su una popolazione di 60 mi-lioni, non sono più di 10 milioni. Una volta esisteva solo la sala cine-matografica, oggi il cinema si con-suma in moltissimi modi e i con-sumatori hanno una conoscenza cinefila molto più approfondita che in passato. Le opportunità di visione hanno reso obiettivamen-te sempre più complicato portare lo spettatore in sala”.“Per riuscirci - fa eco Sonia Dichter – il marketing deve puntare sulla novità, con la realizzazione di ma-teriali creativi sorprendenti, cosa tutt’altro che semplice, e cercando di coinvolgere i talent. La dispo-nibilità di attori e registi a seguire il proprio film in sala, intervenire sulla comunicazione in Rete con contenuti speciali anche utilizzan-do i propri canali personali sta di-ventando sempre più essenziale”. “È necessario – conferma Ricci - cercare di uscire da una facile e per certi versi inevitabile routine. Il fatto è che, cambiano i mezzi, ma i contenuti della comunicazio-ne cinematografica in buona parte e, non potrebbe essere altrimenti, sono sempre gli stessi: manifesto e trailer. Ieri si veicolavano attra-verso l’affissione e la televisione,

oggi si utilizza la Rete. Distribuen-do un cinema di qualità cerchia-mo di diversificare l’offerta in Rete pubblicando anche recensioni, di-chiarazioni di attori e autori, di fat-to ampliando la cassa di risonanza della carta stampata”.Quanto ai budget, le risorse a di-sposizione di un film sono pro-porzionali alle attese commercia-li: una logica del tutto razionale da una parte e irrazionale dall’al-tra. Infatti, se è naturale spende-re in promozione cifre importanti per film destinati a grandi incassi, sarebbero, però, i film più deboli, privi di immediati richiami, ad aver bisogno di maggiore promozione. C’è poi da considerare che, anche per il sempre minor peso specifico del mercato italiano rispetto agli altri, in particolare le major stanno aumentando gli investimenti sui territori in crescita, sottraendoli a quelli in recessione, come è il ca-so dell’Italia, un tempo il maggior mercato europeo ed oggi relegato in posizioni di rincalzo.Ed essere molto importante resta l’attività di marketing all’interno della sala cinematografica, perché colpisce un pubblico evidente-mente interessato al prodotto film. Le maggiori società di distribuzio-ne hanno creato appositi team che si occupano della pianificazione dei trailer e degli allestimenti nel-le sale. Tuttavia, il rapporto con i circuiti d’esercizio è spesso pro-blematico per la richiesta di paga-mento degli spazi sullo schermo e nel foyer da parte degli esercen-ti e soprattutto dei grandi circuiti. Una richiesta contestata dalle di-stribuzioni, perché, a trarre i van-taggi dalla proiezione di un trailer o dall’esposizione di un cartonato, è anche la stessa sala.Infine, a complicare le cose, è in-tervenuta la crisi economica, che ha molto penalizzato la presenza di sponsor nel lancio di un film. Una serie di attività più libere e fantasiose, come concorsi e distri-buzione di gadget, di recente sono molto diminuite perché le aziende hanno preferito abbassare il prez-zo dei propri prodotti, piuttosto che impegnare risorse in attività promozionali, cinematografiche e non solo.

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cover - scenari Marketing del cinema. Come riaccendere la voglia di film?

DI ANDREA GUGLIELMINO

H O F A T T O D U E E T T I E M E Z Z O ,

L A S C I O ?

Guardare un film nell’era del digital marketing: anche l’industria dell’audiovisivo si rivolge alle tecniche

dell’influencer marketing, con l’individuazione di figure adatte alla promozione, in cui non è il blogger più seguito a fare la differenza

ma quello più in target con la linea del prodotto da promuovere; fondamentali sono la conoscenza del territorio e la padronanza

di gusti e abitudini degli spettatori.

Quando si parla del concetto di “digitale” applicato al cinema si pensa immediatamente alle con-seguenze che le nuove tecnologie hanno sulla produzione (effetti speciali e realtà aumentata) e all’esperienza di fruizione dello spettatore, meno legata alla pro-grammazione (in sala o in tv) e più libera grazie alle piattaforme on demand che la rende possibi-le in qualsiasi momento e fram-mentata su più schermi. Ma per l’industria, “digitalizzazione” è anche sinonimo di acquisizione di strategie di comunicazione e promozione che vivono di di-mensione social e condivisione, tipiche degli ambienti 2.0. Que-sto significa che anche l’industria

dell’audiovisivo si rivolge alle tecniche dell’influencer marke-ting, con l’individuazione di figure adatte alla promozione tra blog-ger, vlogger e YouTuber che siano disponibili a parlare del prodotto in maniera più comunicativa che prettamente critica, soprattutto con una certa potenza di fuoco sulla dimensione locale, che al-trimenti sarebbe difficile raggiun-gere. Non si tratta solo di numeri. Non è il blogger più seguito a fare la differenza ma quello più in tar-get con la linea del prodotto da promuovere, e diventa allora fon-damentale la conoscenza del ter-ritorio e la padronanza di gusti e abitudini degli spettatori in un po-sto specifico. In generale, sembra

che la presenza dei canali digitali non abbia particolarmente stra-volto l’iter promozionale che si seguiva prima dell’arrivo del web 2.0. Si parte con uno screening, con lo staff che vede il film in proiezione privata raccogliendo le istanze principali su cui basare la campagna, la sezione strategica in cui vengono decisi i dettagli, come la data di uscita, il competi-tive, il budget a disposizione per la promozione e infine il tipo di campagna da svolgere, per finire con la pianificazione operativa. Nelle sei settimane prima dell’u-scita, di solito, si concentra tutta l’attività “fattiva”: anteprime, interviste, eventi, presentazioni ai festival dirette a social media,

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stampa e televisione. E a decretare il successo del film è ancora la pri-ma settimana al botteghino. Idee a buon mercato possono essere la presenza di cosplayer alle ante-prime dei film adatti (ad esempio quelli di supereroi) che favorisco-no la condivisione di foto, stories e contenuti speciali sui social, o l’organizzazione di eventi e gio-chi particolari in cui gli influen-cer locali si muovono all’interno di scenari che richiamano quelli del film, magari invitandoli a postare il tutto con un #hashtag dedicato. Chiaramente le cose vengono agevolate se il prodotto è legato a un marchio che ha già una forte fan-base, di qui la so-vrabbondanza di sequel, reboot o riduzioni da libri e fumetti, che “garantiscono” l’interesse base da chi conosce il prodotto d’origine. Si tratta del cosiddetto fan labour: la passione dei fan che, attraver-so la produzione di fiction, foto, filmati o contenuti nati sponta-neamente, di fatto permette un grandissimo margine di rispar-mio sul materiale promozionale, che viene realizzato a costo zero o semplicemente in cambio di un invito a un’anteprima o a un evento esclusivo. Da un punto di vista artistico-crea-tivo, il rischio è quello che sem-pre più spesso si arrivi a finire di voler soddisfare quelli che sono i gusti degli spettatori in maniera sicura, senza il tentativo di voler ricevere il loro apprezzamento per qualcosa di nuovo e originale. Ma è proprio nel marketing che si sperimentano oggi le massime vette di creatività del settore. Gli specialisti stessi si sono trasfor-mati in creativi e artisti che atti-rano gente grazie alle loro idee ingegnose. Non è più sufficiente – anche se ancora irrinunciabi-le – il rilascio del trailer o del sito dedicato. Il contenuto deve esse-re condivisibile e portare i poten-ziali spettatori ad emozionarsi già prima dell’uscita in sala. Può essere un gioco digitale, un’App specifica o una gara a chi inseri-sce più foto o scova più citazioni. Si può usare l’umorismo, la paura o l’amore a seconda del genere di film, purché crei impatto e reazio-ne. Perfino una scena ambigua,

un’imprecisione o un eventuale “buco di sceneggiatura” – termine oggi molto in voga – possono di-ventare argomento di discussio-ne ed essere creati ad arte per far parlare del film. Pensiamo all’e-sempio estremo di Rogue One – A Star Wars Story che su un leggendario “buco” ha costruito la sua stessa essenza, spiegando finalmente, a tanti anni di distan-za, come mai fosse così facile accedere alla Morte Nera, l’im-penetrabile arma di distruzione di massa dell’Impero Galattico. Se una parte di promozione 2.0 è minuziosamente programmata, l’altra, quella che segue l’uscita e contribuisce all’eventuale tenitu-ra, nasce spontaneamente dalle reazioni delle migliaia di utenti che commentano sui social quel-lo che ieri si commentava al bar sotto casa, rendendo la cosa pub-blica e potenziando virtualmente all’infinito il “buzz” sul film.

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WHY SO SERIOUS? QUESTO (NON)

È UN VIDEO-GIOCO DA RAGAZZI

Quando il marketing diventa ludico.

di MAT TEO BIT TANTI

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Videogiochi e cinema s’incon-trano spesso al crocevia tra narrazione transmediale, ludi-cizzazione e marketing virale. Il sodalizio assume sovente la forma dell’alternate reality game (gioco di realtà alternativa), im-postato sul modello della caccia al tesoro che si svolge in Rete. Navigando su siti Internet fit-tizi, realizzati ad hoc dallo stu-dio, gli utenti collaborano inten-samente per risolvere una serie di enigmi. L’archetipo dell’ARG ludo-cinematografico è The Be-ast sviluppato da Microsoft per promuovere A.I. Artificial Intel-ligence (Steven Spielberg, 2001). I partecipanti assumono il ruolo di detective che, insieme all’al-trettanto fantastica “terapeuta dei cyborg” Jeanine Salla (cita-ta nei credits del poster ufficia-le), tentano di risolvere il miste-ro della morte dell’amico, Evan Chan. Ambientata nel 2142, a quarant’anni di distanza dagli eventi narrati dal film, l’inve-stigazione si svolge interamen-te sullo schermo del computer: i fan setacciano oltre cinquanta siti creati da Warner Bros., inter-pretando criptici indizi dissemi-nati nei materiali promoziona-li (trailers, comunicati stampa, messaggi telefonici, locandine etc.). Costato oltre un milio-ne di dollari e ideato da Jordan Weisman, The Beast coinvol-ge per mesi quasi un milione di giocatori, assurgendo a ben-chmark di un nuovo genere di marketing transmediale.La Rete cambia completamente aspetto dopo l’introduzione di Facebook, YouTube e Twitter. Attorno alla metà degli Anni Ze-ro si afferma il Web 2.0: il marke-ting si aggiorna di conseguenza. Diversi autori di The Beast riuni-tisi sotto l’egida della società di marketing ludico 42 Entertain-ment lanciano l’innovativa cam-pagna promozionale del Cava-liere oscuro (Christopher Nolan, 2008). Nel 2007, prendendo spunto dallo slogan del film “Why So Serious?”, 42 Enter-tainment crea il sito “ufficiale” del candidato Harvey Dent alle

elezioni di Gotham City e duran-te l’annuale ComicCon di San Diego, presenta WhySoSerious.com, invitando i fans a prende-re parte a una caccia al tesoro virtuale per sbloccare un teaser e una foto del Joker (Heath Le-dger). Nell’autunno del medesi-mo anno, il sito web ufficiale del film innesca un’altra colossale caccia al tesoro con messaggi si-billini che sollecitano i fan a sco-prire indizi sparsi in alcune lo-calità delle principali città degli Stati Uniti e a documentare fo-tograficamente la loro scoperta. Completando con successo le varie “missioni”, i fan sono pre-miati con un’altra fotografia del Joker e una clip audio del film che dice: “E stasera, infrange-rai la tua unica regola”. Si tratta dell’ennesimo rompicapo: i fan sono indirizzati a un altro sito web intitolato Rory’s Death Kiss, dove possono scattare selfie ma-scherati da Joker. Inviando la fo-to allo studio, il fan riceve per posta una copia del fittizio quo-tidiano The Gotham Times, ricco di indizi per proseguire la ricerca online. In tutti i casi, l’esperien-za ludica comincia ben prima dell’uscita del film e continua anche dopo l’uscita nelle sale.Una tendenza più recente del marketing ludo-cinematografi-co consiste nel creare social ga-mes per attrarre giocatori occa-sionali. I giochi per Facebook e le app per smartphone e tablet raggiungono infatti un pub-blico potenziale più ampio ri-spetto a quello dei videogiochi per console e possono genera-re quella frenesia che trasforma un film in un fenomeno di co-stume. Un esempio paradigma-tico è la campagna di marketing ideata da Tim Palen (Lionsga-te) per promuovere la trilogia di The Hunger Games (2012-2015). Palen e il suo team sfruttano sa-pientemente le piattaforme di social media (allora) dominan-ti, Facebook, Twitter e Tum-blr, invitando i fans a registrar-si sul sito ufficiale The Capitol.pn, la capitale del fittizio Stato di Panem, per poi competere

(virtualmente) con i giocatori di altri distretti. Altre iniziative prevedono un social game per Facebook (The Hunger Games Adventures, 2012) e un tour vir-tuale su internet sviluppato in collaborazione con Microsoft. Oggi la maggioranza delle cam-pagne promozionali di Hol-lywood include componenti videoludiche. Una delle strate-gie più diffuse è il cross-marke-ting, con l’inserimento di con-tenuti narrativi e iconografici di un film all’interno di un vide-ogioco di successo. È il caso di Roblox, un gioco di costruzio-ni ispirato a Minecraft che vanta oltre 80 milioni di utenti attivi al mese. Nel marzo 2018, War-ner Bros. collabora con l’azien-da produttrice, Roblox Corpo-ration, per promuovere Ready Player One (Steven Spielberg, 2018) con l’obiettivo di attrarre giovani e giovanissimi. Gli svi-luppatori lavorano con il regista creando un’esperienza paralle-la alla trama del film: i giocatori sono invitati a scovare tre chia-vi nascoste in differenti loca-tion, usarle per sbloccare altret-tanti cancelli e impedire a Mega Corp di prendere il controllo di Roblox. L’iniziativa riscuote un enorme successo: gli utenti gio-cano all’evento per oltre 47,2 mi-lioni di ore pari a 181 milioni di sessioni ludiche, documentate da circa 700 video su YouTube, 30.000 post su Twitter e 16,2 mi-lioni di visualizzazioni dei video di Ready Player One. Warner Bros sfrutta Roblox per promuove-re altri film, tra cui Animali fan-tastici: I crimini di Grindelwald (David Yates, 2018) e Aquaman (James Wan, 2018). In tutti questi casi, le strategie di marketing applicano la logica dell’outsourcing: de facto, il fan “lavora” per promuovere il film, in modo relativamente autono-mo e collaborativo, ottenendo gratificazioni puramente sim-boliche, come la sensazione di far parte di un universo finzio-nale esteso, il cui fulcro coinci-de, appunto, con il prodotto ci-nematografico.

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I TRUCCHI DEL MESTIERE: QUATTRO CASI DI STRATEGIE

DI SUCCESSO

AVENGERS: ENDGAME. DAI COSMETICIALLA COCA-COLA

Campione di incassi mondiale e storico, capace di scalzare Avatar dal trono grazie anche a una stra-tegica riproposta in sala con sce-ne inedite, Avengers: Endgame è stato anche un campione di in-vestimenti, dato che la campagna promozionale del film è costata oltre 200 milioni di dollari, supe-rando di gran lunga quelle utiliz-

ed eliminando avversari, come in un videogioco. Poi la collabo-razione con il programma di be-neficenza Stand Up to Cancer, con uno spot specifico, e con co-lossi come McDonald’s, Google e Coca-Cola, con la distribuzio-ne di giocattoli esclusivi e conte-nuti digitali, speciali sticker AR – ovvero personaggi 3D in real-tà aumentata che, tramite l’app della fotocamera, possono essere posizionati nell’ambiente che cir-conda l’utente - e linee di lattine appositamente realizzate dall’ar-tista Tom Whalen per 57 Pae-si del mondo. Mindy Hamilton, SVP of Partnership Marketing per The Walt Disney Company, ha commentato in una nota: “Siamo cresciuti ben oltre il nostro tradi-zionale pubblico di appassionati; ora abbiamo coinvolto Millennial, adolescenti in un pubblico multi-culturale di famiglie. Cerchiamo partnership che ono-rino e celebrino ognuno di que-sti segmenti. Per qualsiasi brand che desideri rafforzare la pro-pria presenza sugli scaffali o rag-giungere un nuovo pubblico col-laborare con Marvel è un sogno: si stima che i brand che si asso-ciano al MCU vedano una cre-scita del 50% delle vendite per la linea specifica di prodotti che promuovono su base trimestrale. Quando hai un primo contatto con i fan Marvel, non vedono l’o-ra di condividere la propria espe-rienza e passione per i nostri film e personaggi. Quella passione li fa diventare brand ambassador, il che si traduce in nuove vendite e vicinanza ai nostri partner”.

di ANGzate per tutti gli altri progetti del Marvel Cinematic Universe, stan-ziando quasi il doppio rispetto al predecessore Avengers: Infini-ty War. A partire da una fan-base solidissima, molti brand si sono messi in gioco cercando di rag-giungere ogni genere di obietti-vo, anche i più impensabili fino a qualche anno fa. Basti pensare che Ulta Beauty ha lanciato a te-ma Avengers una collezione di co-smetici, andata immediatamen-te sold-out, il che ha rinsaldato e confermato il legame – di matri-ce molto recente – con il pubblico femminile, che fino a pochi anni fa non apprezzava poi così tan-to i film di super eroi. Altra part-nership degna di nota quella con Audi, che si è concentrata sul-la linea di modelli di auto elettri-che Audi e-tron Sportback e Audi e-tron GT, coinvolgendo l’inter-prete di Iron Man, Robert Downey Jr., in un video dove guida gli ap-passionati alla scoperta di questi specifici veicoli, e ideando un’e-sperienza in realtà virtuale dove i passeggeri, sul sedile posteriore, potevano vivere il tragitto con la visuale dell’astronave dei Guar-diani della Galassia, schivando

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“Se qualcuno può raccontarmi un’idea cinematografica in meno di venticinque parole, può venir fuori un bel film”, parola di Ste-ven Spielberg. Mettiamoci alla prova con Juno di Jason Reitman: una sedicenne resta incinta, deci-de di dare il bambino in adozione. Ma seguirà la coppia a ogni passo, per assicurarsi che siano dei buo-ni genitori. Sono “venticinque pa-role”, che introducono un trionfo del cinema indipendente. Ha gua-dagnato più di 200 milioni in tut-

sti telefoni a forma di hamburger, come quello della protagonista, per invogliarli a recensire il film. Il diffondersi della notizia scatena il merchandising da parte di azien-de esterne, con la corsa all’acqui-sto del gadget da parte dei fan, or-mai in attesa di poterlo vedere. Le recensioni positive sono sul cartellone: “Una commedia inu-suale, fresca e intelligente”, “Il miglior film dell’anno”. Viene ri-lasciato un primo poster molto semplice: una maglietta a righe bianche e rosse, il pancione da mamma, la targhetta con sopra “Juno”, i nomi degli attori e la

JUNO. GRAVIDANZA CON HAMBURGERdi GIAN LUCA PISACANE

to il mondo, pur essendo costato meno di 10mln. Chissà se anche la sceneggiatrice Diablo Cody (bal-lerina, blogger e poi storica colla-boratrice di Reitman) ha applica-to la regola di Spielberg quando ha presentato il suo progetto?Ma come ha fatto una futura ra-gazza madre a stravincere al bot-teghino? Qualità e Marketing. Successo di pubblico e di critica al Toronto Film Festival, dialoghi brillanti, passaparola assicura-to. Il film è riuscito a soddisfare le

scritta che rimanda alle vacanze (Due This Holiday Season), per-ché l’uscita nelle sale è fissata per il periodo natalizio. Intanto viene aperto un sito web, ed esce un trailer accattivante (l’accen-to è sulle battute, sul lavoro di scrittura molto lodato dagli ad-detti ai lavori). Le nomination piovono a cascata: BAFTA, Gol-den Globe, e poi anche gli Oscar, dove Juno vince, non a caso, per la sceneggiatura originale e sfio-ra anche il premio per Miglior Film, Regia e Attrice. E il gioco è fatto: diventa uno dei titoli più importanti del 2008.

quattro esigenze dello spettatore che sono alla base di un modello di promozione cinematografica: funzionali (relax e divertimento), educative, emozionali e socia-li. E non solo. Per Juno, la Fox ha messo in atto un’originale guerri-glia marketing. Una strategia “ag-gressiva”, secondo gli esperti, co-me era avvenuto nel 1999 con la campagna virale per The Blair Wi-tch Project – Il mistero della strega di Blair. Durante le proiezioni stam-pa, la Fox distribuisce ai giornali-

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Siamo abituati a vedere film e serie tv tratte da romanzi di successo, e ormai anche l’Italia si spinge a livello di grande distribuzione internazio-nale ottenendo risultati importanti come ad esempio nel caso de L’ami-ca geniale, serie di Saverio Costanzo che traspone i romanzi della miste-riosa scrittrice Elena Ferrante. È particolare però Luna Nera, terza serie originale italiana Netflix - pro-duzione Fandango - che sarà dispo-nibile da inizio 2020 in tutti i Paesi in cui il servizio è attivo. Il serial è infat-ti basato sul romanzo (destinato a diventare una saga) Le città perdu-te. Luna Nera di Tiziana Triana, che verrà pubblicato a novembre 2019 da Sonzogno Editore. Il progetto è stato dunque acquisito sulla base delle bozze, che preludono a una tri-logia parallela (tre stagioni televisive per tre romanzi, sei puntate ciascu-

LUNA NERA.

WUNDERKAMMER CON VISTA

di ANG

na, poi si vedrà). La stessa scrittrice, che sostanzialmente esordisce così, ha contribuito alla sceneggiatura degli episodi insieme a Francesca Manieri (Il miracolo), Laura Pao-lucci (L’amica geniale) e Vanessa Picciarelli (Bangla). È già questa una forma di marketing intrecciato molto particolare, perché un pro-dotto conta di vendere unendo le forze con l’altro, sulla base non tan-to dei contenuti, ma del concetto stesso di condivisione multimedia-le, di saga e di universo complesso e condiviso che tanto piace al pub-blico dei cinecomic e dei kolossal americani. Per promuoverla e ini-ziare a creare “buzz”, è stata orga-nizzata una visita sul set negli stu-di di Cinecittà, dove è realizzata parte della serie, unitamente a lo-cation vere e proprie come Cana-le Monterano, Celleno, il castel-

lo di Montecalvello appartenuto negli Anni ‘60 al celebre artista pa-rigino Balthus, la Selva del Lamo-ne, Sorano, Sutri e il Parco degli Acquedotti di Roma adiacente agli Studios. È una serie corale che parla di streghe, in un 1600 immaginario al confine tra realismo e fantasy, con una forte componente teen drama e una storia d’amore tra appartenenti ad opposte fazioni. Ci sono appun-to le fattucchiere, caratterizzate, da quello che abbiamo potuto vedere e ascoltare, anche come ricercatrici e scienziate, e che proprio per la lo-ro sapienza sono bandite dalla cul-tura dominante, tendenzialmente bigotta e maschilista. Ci sono i Be-nandanti, cacciatori di streghe al soldo della Chiesa, e ci sono delle ragazze che scoprono di avere dei poteri particolari. Nella visita i gior-nalisti hanno potuto vedere all’o-

pera la regista Paola Randi su del-le scene ambientate nella casa delle streghe al confine con il bosco, un luogo magico protetto dalla fore-sta, invisibile dall’esterno, dove la natura e la cultura si incontrano e si confondono. Alberi s’intrecciano nei muri, ci sono molti libri e ogget-ti di scienza reali, ad esempio i clas-sici planetari, ma anche elementi di fantasia, come palle di vetro ripiene di tessuti, e dalla libreria si accede a una Wunderkammer dalle atmo-sfere uterine e acquatiche, con me-duse e stelle appese a mezz’aria. Ma si preannunciano anche roghi ed elementi spettacolari, scene action e colpi di scena, facendo leva su un immaginario fantasy che deve tan-to al nostro folklore, come a quel-lo reimmaginato da serie di grande impatto come Game of Thrones.

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Avviso per gli spettatori in ritardo: “Non ti permetto d’imbrogliare te stesso. Devi vedere Psycho dall’i-nizio, perciò non aspettarti di po-ter entrare in sala dopo l’inizio del film. Vale per chiunque, perfino per il fratello del direttore, il presiden-te degli Stati Uniti e la regina d’In-ghilterra (che Dio la benedica)”. Già nel 1960 Hitchcock faceva del marketing innovativo. A suo modo, aveva trovato la via per promuove-re un capolavoro, che è stato anche un grande successo commerciale. Nuove tecniche di “vendita”, gran-de ingegno, ieri come oggi. In Italia ad aver stupito esperti e pubblico è stato Loro di Paolo Sorrentino. La chiave è già nel titolo: Loro, plurale, che si contrappone a Lui, singolare. Differenti visioni per un dittico in-solito a livello distributivo. Loro 1 e Loro 2. Storia di Silvio Berlusconi e non solo, di come noi lo vediamo, lo dipingiamo. Dividendola in due parti. La prima è uscita nelle sale il 24 aprile 2018, la seconda il 10 mag-

gio, a poco più di due settimane di distanza. Sono i due capitoli di una stessa riflessione, è un avvicina-mento progressivo al protagonista. Per poi analizzarlo nel profondo, portando alla luce l’uomo, prima che il politico. Il budget era di 18 milioni di euro. L’incasso: Loro 1 poco più di 4 milio-ni e Loro 2 ne ha portati a casa quasi 2 e mezzo (ma l’argomento box of-fice avrebbe bisogno di una rifles-sione a sé). Nei cinema, in cartel-lone, negli stessi giorni si potevano vedere i poster dei due film vicini, magari anche di sala. Uno tutto ne-ro, l’altro tendente al rosa. Forse si tratta di un caso unico per il nostro Paese, ma anche per le grandi pro-duzioni d’Oltreoceano. La trilogia de Il Signore degli anelli, girata tut-ta in contemporanea, ha raggiunto gli spettatori scaglionata in tre an-ni. Kill Bill, che Tarantino conside-ra come un’opera unica, ha seguito la stessa linea (Kill Bill: Volume 1 nel 2003 e Kill Bill: Volume 2 nel 2004).

Anche in Italia non sono mancati i film lunghi divisi in due: negli Anni ’40, Noi vivi e Addio Kira! di Goffre-do Alessandrini, negli Anni ‘60 No-vecento di Bertolucci.Loro ha riscritto le regole attuali, ha sfidato ogni possibile proiezione di mercato. E non è finita qui. Da Lo-ro 1 e Loro 2 è poi nato Loro, rimon-tato per essere mandato al Festival di Toronto (anche con l’obiettivo di essere pronto per gli Oscar). La durata totale era di 145 minuti, con-tro i 104 di Loro 1 e i 100 di Loro 2. Da 204, in fase di montaggio si so-no ridotti a due ore e mezza scar-se, pronte per un nuovo passaggio nelle sale. Strategie all’avanguar-dia, capaci di tenere per mesi un film sulla cresta dell’onda. Loro parlava di noi, e noi sui gior-nali non smettevamo di parlare di Loro. Tante facce di una stessa vi-cenda perché, come dice Servil-lo/Berlusconi: “La verità è frutto del tono e della convinzione con cui la affermiamo”.

LORO 1 E LORO 2. LA CHIAVE

È NEL TITOLO di G.L.P

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LA RICETTA CHE NON C’Èdi ILARIA RAVARINO

Le distribuzioni italiane e le loro strategie di lancio: la parola a Francesca Cima, Andrea Cuneo, Gabriele D’Andrea, Barbara Pavone

FRANCESCA CIMA, produttrice (Indigo Film)

Chi decide il lancio di un film?Il distributore insieme al produt-tore. Ma in teoria dovrebbe deter-minarlo la stessa tipologia di film e il pubblico in target. Certamente si tratta di un campo di studi che andrebbe approfondito, anche se ritengo sia un errore attestarsi solo sui dati delle ricerche. Da un lato avremmo bisogno di arricchi-re le conoscenze in quel settore, dall’altro diffiderei delle formule magiche, perché il pubblico vuole essere sempre sorpreso. Ripetere la stessa ricetta non funziona mai.

Un lancio sbagliato può rovi-nare un buon film, e viceversa?In teoria no, se tutti avessero le stesse possibilità. In pratica oggi molti film non possono ‘sbagliare’ un lancio perché non ce l’hanno proprio, il lancio. Penso a film ita-liani, anche buoni, liquidati così

ed estromessi dal mercato in po-chi giorni.

Quali sono oggi i canali privile-giati per comunicare un film?Si sta spostando tutto nella sfera digitale. La cosa migliore, oggi, sarebbe pensare a un sistema in-tegrato, personalizzato il più pos-sibile. Ma per me uno dei luoghi migliori per comunicare resta la sala. In sala parli a un pubblico abituato ad andare al cinema, af-fezionato.

Quanto incide il lancio sul budget di un film?Anche qui la situazione è cambia-ta negli anni. Per catturare l’at-tenzione del pubblico oggi devi spendere molti soldi, almeno per farti largo tra le decine di uscite e ambire a essere uno dei primi tre film. Ci sono film che hanno un budget molto alto per il lancio e poi, senza vie di mezzo, quelli che ne hanno pochissimo ed escono

in tre, quattro copie. È un circolo vizioso: se resto solo tre giorni in sala, perché dovrei spendere tanti soldi per il lancio?

Quanto incide il dating sul lancio del film?Avendo una stagione di otto, nove mesi, le uscite si concentrano e il meccanismo della scarsa perma-nenza in sala si amplifica. Speria-mo che con Moviement si riesca a invertire la tendenza. Fermo restando il problema culturale dell’Italia, un Paese che per tre mesi l’anno chiude per ferie.

Un esempio di lancioriuscito bene?Direi il progetto de Il ragazzo in-visibile, che ha abbracciato film, graphic novel e romanzo. È stato un prototipo.

FRANCESCA CIMA

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ANDREA CUNEO, marketing director (Twentieth Century Fox)

Chi decide il lancio di un film?In una major la decisione è globale. L’internazionale dà alcune linee guida che sono oggettivamente strette. Le possibilità di intervento, per quel che riguarda la data, ricadono all’interno di alcuni range. Nella campagna di marketing si possono fare delle negoziazioni per andare un po’ fuori dal posizionamento internazionale, se il territorio ha delle peculiarità tali per cui quel posizionamento rischia di entrare in conflit-to con la cultura nazionale. Ma le politiche marketing e commerciale si muovono all’interno di confini prestabiliti.

Un lancio sbagliato può rovinare un buon film, e viceversa?Un cattivo marketing può danneggiare un prodotto, un buon marketing non può far diventare bello un prodotto pessimo. Un ottimo marke-ting può bluffare, ma l’inganno ha vita brevissima: il consumatore se ne accorge subito, e se il film è già uscito in altri Paesi le informazioni filtrano velocemente.

Quali sono oggi i canali privilegiati per comunicare un film?Per memorizzare meglio il messaggio, il consumatore deve essere sol-lecitato non da parte di un solo media, ma da più parti: quella che fun-ziona davvero oggi è una stimolazione che permetta il rimbalzo delle informazioni. Una campagna integrata è più efficace di una esclusiva, che iper-copra un solo mezzo di comunicazione. Fermo restando che ogni media ha un suo linguaggio che deve essere adattato.

Quanto incide il lancio sul budget del film?Incide tanto su un film internazionale come su uno italiano. Anche l’uso dei festival, che è una leva forte per gli internazionali, ha il suo costo. Un Festival come Venezia ha costi che quasi equivalgono quelli del piano di marketing.

Quanto incide il dating sul lancio del film?La data può essere sbagliata, e fare danni. E può esserlo sia per un erro-re umano, se per esempio posiziono il film in un contesto competitivo che ho calcolato male, che per fattori esogeni al sistema. Per esempio, un film a target maschile piazzato in un weekend di calcio molto forte, oppure il primo weekend di sole dopo quattro di pioggia.

Un esempio di lancio riuscito bene?Bohemian Rhapsody: la data di uscita è stata perfetta, subito dopo gli altri Paesi per cavalcare l’onda del probabile successo, e in scia, even-tualmente, per ‘prendere’ il Natale. Azzeccato anche il piano marketing, realizzato coinvolgendo prima gli appassionati di musica, poi quelli di cinema.

ANDREA

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GABRIELE D’ANDREA, head of theatrical distribution and marketing (Lucky Red)

Chi decide il lancio di un film?Intanto dobbiamo distinguere tra film stranieri, di cui licenzia-mo i diritti per l’Italia, e film di produzione italiana. Nel caso dei film di acquisizione, cioè quei film prodotti all’estero di cui ac-quisiamo i diritti per il nostro Pa-ese – che è il nostro core business come distribuzione – è Lucky Red che decide il lancio del film e come posizionarlo. Possiamo lavorare con indipendenza e cre-atività sull’adattamento del mar-keting e della comunicazione per i film che compriamo per l’Italia, cercando di dare libero sfogo alle nostre idee. Che comunque vengono sottoposte all’approva-zione delle società che ci hanno venduto i diritti.

Un lancio sbagliato può rovi-nare un buon film, e viceversa?Il lancio che non va può fare dan-ni. La magia del cinema è nel rap-porto tra opera e spettatore, e noi ci mettiamo in mezzo. Se sbaglia-mo, intacchiamo la forza del film

e lo indeboliamo. Il lancio può ge-nerare un interesse che altrimenti non ci sarebbe? Spero di sì. Ma l’esperienza mi dice che se un film non interessa, è molto raro che un lancio marketing lo aiuti. Il mar-keting non può inventarsi qualco-sa che non c’è. Specialmente oggi, un’epoca in cui le informazioni sono accessibili a tutti e il pubbli-co è più informato.

Quali sono oggi i canali privile-giati per comunicare un film?In termini generali in Italia fun-ziona bene Internet e tutto ciò che è digitale: la Rete è il mezzo che meglio si adatta ad arricchire il contenuto marketing. Un altro mezzo che funziona bene è la sala. Poi, ovviamente, ogni film ha un suo pubblico e ogni pubblico ha la sua dieta mediatica. La comu-nicazione va calibrata secondo le modalità di fruizione del pubblico di riferimento.

Quanto incide il lancio sul budget di un film?È una voce di spesa molto impor-tante nell’economia di distribu-zione di un film. Tanto che oggi esiste, per i film italiani, la possi-

bilità di fruire di agevolazioni sugli investimenti per la promozione dei film. Specialmente se l’autore non è conosciuto bisogna creare conoscenza, interesse, motivare il pubblico: è un processo lungo ed economicamente impegnativo.

Quanto incide il dating sul lancio del film?Ci sono varie filosofie di pensiero. Io credo che la data sia importan-te, e che una data sbagliata possa fare danni. È difficile invece che una data crei il successo di un film. Ci sono film che si prestano a determinati periodi - scuole chiu-se, vacanze - e ci sono date che hanno quelle caratteristiche. Ma il successo non arriva perché metti il film in una certa data.

Un esempio di lancio riuscito bene?Tra gli italiani Lo chiamavano Jeeg Robot, che ha consacrato un gran-dissimo autore e nuovo modo di fare cinema in Italia. Tra gli stra-nieri Van Gogh – Sulla soglia dell’e-ternità, con cui abbiamo fatto il miglior risultato al mondo.

GABRIELE

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BARBARA PAVONE, senior vice president of joint marketing (Warner Bros. Pictures)

Chi decide il lancio di un film?Nel caso dei film internazionali, per quanto riguarda Warner, produtto-re e distributore coincidono. Warner Bros. Pictures, basata a Burbank, prepara il piano di lancio di una campagna da condividere con i vari territori locali. Quei territori hanno poi la possibilità di localizzare la strategia sulla base delle caratteristiche del mercato locale. E quando dico ‘localizzare’ intendo in tutti i sensi, dalla strategia di marketing alla decisione della data – fatto salvo qualche blockbuster, che si decide di lanciare day & date con l’America, l’Italia ha la libertà di valutare la mi-glior strategia per stagionalità e competition. Dato il trailer internaziona-le, data l’outdoor e gli asset digitali, c’è tutto un lavoro fatto a livello lo-cale per rendere la campagna più affine al pubblico. Anche il titolo, per dire: a volte viene mantenuto in originale, a volte tradotto o leggermente cambiato per renderlo più vicino alla sensibilità culturale.

Un lancio sbagliato può rovinare un buon film, e viceversa?Mai come nel mondo del cinema, è la qualità del film a determinarne il successo. Il marketing non può cambiare il destino di un film. Una buona campagna di lancio può fare da amplificatore del successo di un buon prodotto o permettere a un film di ottenere un risultato migliore su un certo mercato rispetto ad altri.

Quali sono oggi i canali privilegiati per comunicare un film?Per il lancio di un film l’investimento marketing più importante, almeno una metà del totale, va ancora sulla tv: Rai, Mediaset o Sky. I program-mi importanti, quelli live, di sport o di intrattenimento, sono ancora quello che gli inglesi definiscono ‘the talk of the town’. Quelli cioè che raggiungono la mass audience e fanno parlare le persone. Ma cresce il peso del canale digitale, con i grandi player della comunicazione come Facebook, Instagram, Google o YouTube. In questo contesto di volta in volta, a seconda del target e del prodotto, l’influencer dà un apporto sempre più importante. L’influencer fa una comunicazione che non è nemmeno più percepita come pubblicitaria, ma ‘da utente a utente’, da consumatore a consumatore. L’influencer marketing va usato però con intelligenza. È importante che si senta coinvolto e che sia davvero ap-passionato al film: non può essere una cosa imposta, altrimenti si per-cepirebbe l’artificialità dell’operazione. Gli influencer vengono perciò coinvolti sulla base dei loro interessi, delle loro passioni e dei fan cui si rivolgono. E sono ormai fondamentali. Onestamente altri mezzi, come la stampa, oggi sono considerati più tattici. La radio serve ancora molto a far parlare dei film, anche per quella forma di dialogo diretto che c’è tra lo speaker e suoi ascoltatori.

Quanto incide il lancio sul budget del film?La voce più importante ovvia-mente è quella della produzione, seguono i costi di distribuzione e infine la campagna marketing. Il fatto che la comunicazione stia diventando sempre meno massi-ficata e sempre più personalizzata ci aiuta a rendere i budget più ef-ficienti. È una voce di investimen-to importante, ma permette di sostenere il valore del film attra-verso tutte le sue finestre di sfrut-tamento. Ha una valenza efficace per tutto il ciclo di vita del film.

Quanto incide il dating sul lancio del film?La scelta della data è molto im-portante. In un mercato relativa-mente piccolo come il nostro, è strategico non sovrapporsi a un film diretto allo stesso pubblico.

Un esempio di lancio riuscito bene?A Star Is Born o The Mule. Film che non nascevano come blockbuster, non appartenevano a un franchise affermato, all’universo dei supe-reroi o alle saghe fantasy. Qui la bellezza dei film, unita a una buo-na campagna di marketing, hanno fatto la differenza.

BARBARA

PAVONE

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A . A . A . C E R C A S I I N F L U E N C E R

D I S P E R A T A M E N T E

DI ALESSANDRA TIERI

Non c’è piano di lancio pubblicitario, oggi, che non dedichi una parte del proprio budget alla ricerca e all’uso di questi personaggi. Che si tratti di una bolla destinata a scoppiare in tempi brevi

o di un fenomeno destinato a durare, amati e odiati al tempo stesso, sono di fatto una realtà imprescindibile.

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A.A.A. Cercasi influencer dispe-ratamente. Il più efficace, il più moderno, il più adatto, al minor prezzo possibile. Nel periodo in cui la critica cinematografica non sembra riuscire a colmare la frattura con il pubblico e a com-battere la spirale negativa in cui è caduta negli ultimi anni, il sugge-rimento su cosa andare a vedere al cinema arriva sempre di più dagli influencer, personaggi di varia no-torietà che - lo dice la parola stes-sa - sono in grado di influenzare e spingere all’azione un pubblico più o meno nutrito di persone, in virtù del proprio carisma o della propria autorevolezza in determi-nati ambiti.Il fenomeno degli infuencer ha in realtà radici lontane. L’uso di talent per i suggerimenti all’ac-quisto è uno strumento del mar-keting da molto tempo. Certa-mente è però il web, con i social network, che ne ha fatto esplo-dere le potenzialità, facendo in modo che attorno a questa figura si costruisse una vera e propria professione. Il termine influen-cer è entrato oggi nel linguaggio comune di chiunque si occupi di comunicazione. Il loro uso è diffusissimo, in tutte le aree mer-ceologiche. E il cinema non fa ec-cezione. Non c’è piano di lancio pubblicitario, oggi, che non dedi-chi una parte del proprio budget (più o meno cospicua a seconda dei casi) alla ricerca, alla selezio-ne e all’uso di questi personaggi. Che si tratti di una bolla destina-ta a scoppiare in tempi brevi o di un fenomeno destinato a durare, amati e odiati al tempo stesso, gli influencer sono di fatto una real-tà imprescindibile.Come si sceglie l’influencer più giusto nell’oceano di possibilità che il mercato offre? L’impresa è tutt’altro che semplice. Gli esper-ti ormai concordano sul fatto che il numero di Like non sia un me-tro di giudizio sufficiente. Pren-dere in considerazione il dato numerico come fattore unico è un errore ormai riconosciuto dai più e non a caso le grandi mac-chine dei social si stanno adope-rando per eleminarne la visibilità. Molta attenzione va riposta sullo studio delle interazioni, sulla

partecipazione attiva, che più dei Like può dare conto dell’effettivo interesse dell’utente. È il cosid-detto engagement che porta spes-so a pescare nel mare di medio e micro-influencer. Accanto a vere e proprie celebrità dello star sy-stem, infatti, c’è un nutrito grup-po di influencer che non hanno un numero di follower da capo-giro, il cui nome è magari meno noto al grande pubblico, ma la cui attività può essere anche più efficace, in quanto legata a nic-chie specifiche, più omogenee. Si spiega così il ricorso ad agenzie di aggregazione, che di volta in volta studiano il profilo di influencer più adatti alla promozione, di un prodotto come di un film.Esistono dunque gli influencer nel cinema? Vuoi per l’affinità in termini di linguaggio e orizzonte, vuoi per il fascino e l’attrattiva che il grande schermo esercita, il legame tra influencer e cinema è molto forte. Basti solo pensare a quanti personaggi nati sul web – YouTuber e blogger – abbiano poi deciso di fare il salto e tentare la strada cinematografica. Da Frank Matano a Maccio Capatonda, dai The Pills ai The Jackal, Guglielmo Scilla, Greta Menchi e molti altri. Non sempre con esiti fortunati, a dimostrazione del fatto che click e Like non corrispondono necessa-riamente a biglietti staccati. Chia-ramente la situazione è diversa se ad andare al cinema è la regina incontrastata degli influencer, Chiara Ferragni, protagonista di un documentario presentato alla Mostra di Venezia, che nei suoi tre giorni (feriali) di programma-zione in sala – prima di approdare su Amazon Prime - ha addirittura battuto ogni record di incasso per un’uscita-evento.Per la promozione cinematogra-fica sono numerosi i nomi ricor-renti: Barbie Xanax, Dario Moccia, Claudio Di Biagio, Yotobi, Viktor Lazlo, Violettarocks, i Me contro te. Molta ricerca è orientata nel campo dell’entertainment, ma non ci sono regole in merito. Il cinema individua gli influencer guardando al target del film, agli argomenti, al racconto, ai perso-naggi coinvolti. Questo significa molto spesso allargare lo sguardo.

Molte le celebrities attive, mol-tissime le communities che di volta in volta vengono chiamate in causa. Nel mondo della musica e dell’arte, ma anche nel mondo della moda o del make up, in quel-lo sportivo, televisivo, scolastico, politico. Da segnalare poi la tendenza cre-scente a utilizzare gli influencer nel doppiaggio. È sempre più diffusa la scelta di nomi noti per dare voce ai personaggi dei film. Tendenza non nuova ma che oggi porta a coinvolgere, appunto, an-che le webstar. A vincere, come sempre, sono creatività, originalità e autentici-tà. E allora spiccano operazioni come quella messa a punto per Smetto quando voglio, con la rico-struzione di una puntata di Un Giorno in Pretura, o l’intervista di Franca Leosini a Paolo Virzì come fosse una puntata di Storie Maledette, o il cartoon realizzato da Makkox per Cafarnao.In sostanza, partendo dal pre-supposto che un piano promo-zionale implica molto altro e cer-tamente non può esaurirsi nello sfruttamento di un endorsement, direi che tutto sta nell’uso che degli influencer viene fatto, nella capacità di scegliere la qualità, di diversificare, di non farne una pura moda ma un vero strumen-to promozionale, in modo che possano rappresentare un valo-re aggiunto e non, come troppo spesso accade, la copia sbiadita di qualcosa che non possono né potranno mai essere.

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IL CONCERTO DEI DETTAGLI

di NICOLE BIANCHI

“Decalogo” del trailer sbagliato.Il punto di vista di tre professionisti del settore: Paolo Balestrazzi, Federico Mauro, Edoardo Massieri.

Paolo Balestrazzi – amministratore unico P&B Communication

“Regole non ce ne sono, ma accortezze, sia artistiche che di marketing, che pos-sono diventare dei vantaggi, se studiati ad hoc. Il trailer ti deve far sentire l’atmo-sfera, ti deve far entrare dentro quel mondo, ‘suggerendo’ le possibili chiavi di svi-luppo. La principale accortezza è non svelare troppo. È sempre fondamentale la collaborazione con il distributore per avere l’input di partenza sul target: troppe volte si realizzano trailer a target unico (solo uomini/solo donne) e difficilmente si riesco-no a realizzare film multi-target (escludendo i film per famiglia e i cartoni ovviamente). A volte anche una sola frase all’apparenza innocua svela troppo e toglie sorpresa allo spet-tatore. Ma ci sono alcuni trailer che iniziano con il finale del film, diventando super attratti-vi. La musica, poi, è sempre la parte fondamentale, è la chiave con cui si guida lo spettatore nell’atmosfera del film: può facilmente diventare un errore da non fare. Una pecca poi è sna-turare un film, trasformare un dramma in una semi-commedia, richiesta fatta più volte e una delle sfide più difficili: può risultare molto controproducente se non si trova un equilibrio. Ci sono alcuni elementi, nei trailer dei film drammatici soprattutto, che bisogna evitare: scene troppo crude o troppo violente, che nel film sono giustificate dalle sensazioni che lo spetta-tore vive, sul trailer risulterebbero repulsive. E poi, bisogna cercare di raccontare il film dal punto di vista registico, ovvero inserire elementi o situazioni che sono ‘intime’ dell’autore. Pensando agli ultimi titoli da box office, i trailer delle commedie sono spesso scontati, al contrario i film più ‘d’autore’ osano formule inedite e d’impatto emotivo. Invece, anche se non è sempre così, gli horror hanno ‘il limite’ di dover svelare le scene migliori con il trailer. Lo spettatore ha già vissuto i momenti più importanti e potrebbe non avere la curiosità di vedere il film.Noi cerchiamo sempre di tirare fuori il cuore dai film. Il trailer è da sempre importante per il distributore, ha una valenza superiore al film stesso, porta lo spettatore al cinema il primo we-ekend, e da lì partirà il passaparola. Con l’era digitale, questo passaparola arriva in meno di 24 ore. Se il film è bello, sarà un ottimo risultato. Se il film è mediocre lo salvi solo con un trailer che porti un buon primo incasso al box office, per poi morire. Quindi il trailer è diventato ancora più fondamentale”.

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Federico Mauro - creative director Vertigo*

“La prima cosa da non fare è tradire il film. Biso-gna selezionare le parti migliori, calibrare i regi-stri, intervenire sul ritmo senza mai prendere in giro il pubblico. Non bisogna usare ‘schemi’ trop-po rigidi di montaggio. Ogni film possiede so-stanze visive diverse e un racconto autonomo. Un’altra cosa da non fare è usare le ‘tendine’ con gli ‘sswish!’sonori per accorciare le scene ed arrivare alle battute. È una cosa tipicamente Anni ’90 che si usa ancora troppo nelle commedie. I cosiddetti ‘cartelli’ - le grafiche del trailer - sono importantissimi e richiedono attenzione ed elabora-zione: un cartello testuale deve legare con il raccon-to, con i fotogrammi che precedono e seguono, con la fotografia del film. La scelta del font, del colore, delle animazioni del testo sono tutti ‘segni’ che con-tribuiscono alla codifica e alla costruzione del trailer. Poi, non bisogna mai usare la musica a caso. Spesso vediamo trailer costruiti con una lunga, unica trac-cia sonora e sopra si montano con continuità tutte le scene del film. Il risultato è un effetto ‘piatto’ che sbiadisce i registri. Può funzionare per un teaser, ma per un trailer no. La musica, così come gli effetti sonori sono impor-tantissimi e possono essere considerati come la vera punteggiatura del trailer, in grado di richiamare pau-se, anticipare e rafforzare battute, sottolineare la for-za di una scena. Il cinema è linguaggio e per questo è soggetto a mu-tamenti. Questa cosa vale anche per i trailer. Basta guardare i materiali promozionali di 10 anni fa per ac-corgersi della differenza. Il punto è cercare di essere sempre in linea con queste evoluzioni del linguaggio. Oggi bisogna fare i conti anche con le nuove modalità di fruizione del contenuto e delle dinamiche imposte dai nuovi mezzi di comunicazione. I media principa-li su cui si visiona un trailer sono gli Smartphone (o i PC). Questa considerazione ha ovviamente delle conseguenze dirette su come si costruisce un con-tenuto. L’applicazione di questi difetti si registra con una certa frequenza. Un po’ perché c’è l’abitu-dine a fare sempre gli stessi film e, di conseguenza, a promuoverli allo stesso modo. Un po’ perché chi fa questo lavoro non si aggiorna o non investe in nuo-ve energie che sono preziose per essere al passo con i tempi e quindi riesce ad offrire poco di ‘nuovo’ ai propri clienti”.

*www.vertigocinema.it

Edoardo Massieri - direttore creativo Filmdesign

“Scelte e modalità inefficaci derivano da molti fattori, che non sono total-mente attribuibili ad un trailer sbagliato. La sintesi tra le ragioni dell’ar-te e quelle del mercato è un fattore fondamentale ed imprescindibile, la perfetta sintonia tra strategia marketing e creatività, la chiave per incurio-sire la porzione di pubblico individuata. Se i due fattori non collimano, il rischio di vanificare una campagna promozionale è molto alto. Quando mi viene assegnata una campagna, che oltre il trailer comprende spot tv, spot radio, contenuti web, ma che si avvale anche di altri mezzi non diret-tamente realizzati da me, ho bisogno di comprendere la ‘totalità’ di ciò che avviene intorno al film per poter essere perfettamente allineato e creare valore aggiunto. Questo è il primo passo fondamentale per limitare al mi-nimo la possibilità di errore. Chi ritiene un trailer un prodotto a se stante commette un grande errore. Non trovo ci siano generi che inducano più facilmente ad un errore nella realizzazione di trailer, forse ci può essere un po’ di inesperienza su generi che tradizionalmente in Italia affrontiamo con meno frequenza. Ma, ripetendomi, dico che anche in questo caso la perfetta sintonia tra le parti in campo ed un tempo adeguato per la realiz-zazione di tutti i materiali possono limitare la possibilità di grandi errori. Difficile dire quale film italiano o straniero abbia subìto l’onta del peggior trailer possibile, posso sicuramente dire che un trailer che non trasmette emozione è sbagliato. Per realizzare un trailer emozionante sono necessa-rie molte competenze perfettamente coordinate tra di loro. Idea, montag-gio, capacità di sintesi, scelte musicali, sound design, grafica, copywriting. La mancanza di attenzione o competenza per uno solo di questi fattori può vanificare il risultato”.

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a cura della REDAZIONE

JEEG PIGLIA-TUTTO

10 critici indicano il film italiano meglio lanciato negli ultimi 20 anni: Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti ottiene ben 4 nomination.

Pedro ArmocidaLo chiamavano Jeeg Robot (2015) di G. Mainetti

Max BorgLo chiamavano Jeeg Robot (2015) di G. Mainetti

Steve Della CasaCado dalle nubi (2009) di G. Nunziante

Beatrice FiorentinoLa grande bellezza (2013) di P. Sorrentino

Giorgio GosettiGomorra (2008) di M. Garrone ma in assoluto, La vità è bella (1997) di R. Benigni

Annamaria PasettiSulla mia pelle (2018) di A. Cremonini

Cristiana PaternòLo chiamavano Jeeg Robot (2015)di G. Mainetti

Angela PrudenziL’ultimo bacio (2001) di G. Muccino

Boris SollazzoNotte prima degli esami (2007) di F. Brizzi

Stefania UliviLo chiamavano Jeeg Robot (2015) di G. Mainetti

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di ALICE BONET TI

IL FASCINO

(IN)DISCRETO

DELLE

LOCANDINE

Abbiamo mostrato a 50 persone

30 locandine iconiche, senza titolo del film e senza

nomi degli interpreti, per verificare la

riconoscibilità immediata. Ecco la classificadelle prime 10.

Stare in coda alla cassa di un ci-nema. Nessun cellulare con cui giocare, nessuna distrazione. Solo l’odore dei popcorn e, affissi a muri dagli intonaci scrostati, de-cine di manifesti di film in uscita tra cui far indugiare lo sguardo. Sembra fantascienza, eppure l’epoca delle locandine (quelle belle) non è poi coì lontana. Era il tempo in cui gli studios spende-

vano tempo e denaro per realizza-re un poster che potesse attirare gli spettatori in sala. Operazioni di marketing, certo, ma spesso il risultato era una vera opera d’arte. Quali sono allora le locandine più indimenticabili della storia del cinema? Per scoprirlo abbiamo scelto 30 manifesti di film celebri (15 italiani e 15 stranieri), abbiamo rimosso dalla grafica il titolo e i

riferimenti al cast e al regista, e li abbiamo sottoposti a un gruppo eterogeneo di 50 persone per ca-pire quali venissero più facilmen-te riconosciuti. Oltre a permet-terci di stilare la classifica delle 10 locandine più iconiche del cinema, questo sondaggio è stato soprattutto un viaggio attraverso la storia di questo straordinario mezzo pubblicitario.

10. La dolce vita (1960). Disegnata da Giorgio Olivetti con la tecnica dell’acquerello, cattu-ra perfettamente la decadenza della società italiana presentata nel film. Il volto dominante di Mastroianni raffigurato in fredde sfumature di blu mentre guarda la Ekberg danzare è, a nostro avviso, una delle illustrazioni più belle ed emozionanti di sempre.

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9. Perfetti sconosciuti (2016). La locandina del film di Genovese è costruita da copione per clas-sificare il film – già dal suo poster – all’interno del genere delle com-medie italiane corali romantico/brillanti. In quasi tutti i poster di questa tipologia lo sfondo è neu-tro per far concentrare l’occhio dello spettatore sugli attori prota-gonisti, disposti in linea orizzonta-le, in ordine di notorietà.

8. Full Metal Jacket (1987).Il famoso elmetto con la scritta “Born to kill” è stato riconosciuto da molti dei nostri intervistati e associato con facilità al capolavoro di Kubrick. La locandina di Full Me-tal Jacket - disegnata dall’illustrato-re Philip Castle, lo stesso di Arancia meccanica - è l’esempio per eccel-lenza dell’estetica modernista del regista ed evidenzia il dualismo del film. Bene e male; luce e tenebre; razionalità e irrazionalità.

7. Alien (1979). Quando si cercò un modo per pro-muovere Alien era imperativo mo-strare poco o nulla dell’ormai cele-bre creatura che oggi conosciamo come “xenomorfo”. Ridley Scott decise che sulla locandina venisse raffigurato solamente l’uovo della mostruosità aliena con il celebre slogan: “Nello spazio nessuno può sentirti urlare”.

6. Il silenzio degli innocenti (1991). Salvador Dalì e Jonathan Demme sono stati uniti da una locandina. E non una qualsiasi, ma da una di quelle rimaste nell’immaginario collettivo, come dimostra il risul-tato del sondaggio. Il manifesto, disegnato da Dawn Baillie, vede Jodie Foster in primo piano con la bocca coperta da una Death’s-He-ad Hawkmoth, una particolare fa-lena nota per il suo motivo a forma di teschio. Non tutti sapranno che il particolare motivo della falena fu sostituito con una foto di Dalì composta da alcuni corpi femmi-nili, posizionati in modo da ricor-dare un teschio.

5. Fight Club (1999). Tutto in questo poster è stato studiato con ingegno minuzioso. Sfondo nero, quattro foto qua-drate geometricamente disposte a creare un quadrato più grande, il titolo che - impresso nel celebre sapone del film - ha caratteri scol-piti, imperativi e virili, nonostante il rosa della saponetta. Una com-

posizione semplice ma capace di comunicare violentemente il disa-gio che trasuda nel film.

4. Ritorno al futuro (1985) /La vita è bella (1997). Diciamolo pure, la locandina de La vita è bella non è esattamente un capolavoro di grafica. I volti di Benigni e della Braschi “galleg-giano” in uno sfondo blu notte costellato da fiocchi di neve. Una composizione basilare e didasca-lica - utile a richiamare la data na-talizia di uscita del film - che però ha decisamente fatto breccia nella memoria degli intervistati. Stesso numero di voti anche per Ritorno al futuro, il film Anni ‘80 per an-tonomasia. Il poster fu disegnato dal prolifico Drew Struzan, la cui ultima creazione per il primo epi-sodio della serie di Harry Potter fu purtroppo anche una delle ulti-me locandine illustrate di tutta la

produzione cinematografica degli ultimi anni.

3. Star Wars (1977). La saga delle saghe conquista il podio. Lo sappiamo, tutto l’uni-verso creato attorno a Star Wars ha fatto scuola. Anche la locandina di Guerre Stellari fu rivoluzionaria dal punto di vista visivo. Il cattivo sullo sfondo e i personaggi in pri-mo piano posti su un sistema pi-ramidale sancirono il successo di una costruzione grafica utilizzata ancora oggi.

2. Il Padrino (1972). Ogni battuta, ogni sequenza, ogni singola nota de Il Padrino è entrata a far parte della memoria visiva e sonora del pubblico. Non ci stu-pisce quindi che il poster origina-le del film sia stato il secondo più

Pulp Fiction

Lo Squalo

Ritorno al Futuro

La Vita è Bella

Fight Club

Il Padrino

Star Wars

Alien

Il Silenzio degli Innocenti

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45riconosciuto dagli intervistati. La locandina rappresenta il ritratto a due colori del profilo di Marlon Brando ma la vera chicca è la mano stilizzata del burattinaio del titolo, metafora del potere del boss ma-fioso protagonista e omaggio evi-dente all’illustrazione di Saul Bass per L’uomo dal braccio d’oro.

1. Lo squalo (1975) / Pulp Fiction (1994). L’immagine (tratta dalla coperti-na disegnata da Roger Kastel per l’omonimo libro) dello squalo che

emerge nella parte inferiore del po-ster sotto un’ignara bagnante è una delle più iconiche della Storia del cinema. Un primato però che il film di Spielberg deve inevitabilmente condividere con Pulp Fiction. La locandina del film di Tarantino – che riprendere nei colori e nel font utilizzato lo stile di tutta di pellicola – mostra in primo piano la tormen-tata femme fatale Mia Wallace (alias Uma Thurman) con il suo iconico caschetto nero. C’è qualcuno al mondo che non la riconoscerebbe? Sono tante le considerazioni che si potrebbero fare analizzando questo sondaggio. Innanzitutto, i poster dei film stranieri sono stati più identificati di quelli dei film italiani. In secondo luogo, il fatto che la maggior parte dei ma-nifesti di oggi siano tutti molto simili, con i volti degli attori che fluttuano nell’etere, provoca una certa confusione negli spettatori, che spesso scambiano un film per un altro (Perfetti sconosciuti o Saturno contro?).

Vertigo

Il Tè nel Deserto

Il Buono, il Brutto, il Cattivo

Inception

Gran Budapest Hotel

Full Metal Jacket

Io Non Ho Paura

La Grande Bellezza

Suspiria

Caro Diario

Dogman

Fargo

Mean Streets

Ladri di Biciclette

I Mostri

Nuovo Cinema ParadisoNovecento

Jeeg Robot

V per Vendetta

Perfetti Sconosciuti

La Dolce Vita

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vociINCHIESTE IMMAGINARI CINE GOURMET

36 L’epica nel pallone di Gianni Canova

37 Questione di “sacro furore” di Stefano Locati

40 Cinema da campioni di Claudio Fontanini

Interviste

Andrea Lucchetta Rosalia Pipitone Patrizio Oliva Adriano Panatta

44 Un calcio al cinema di Nicola Calocero

46 Non solo “due calci ad un pallone” di Oscar Cosulich

48 Andrea Camilleri e il suo universo ..io canto di Andrea Bellavita

50 Così parlò De Crescenzo di Rocco Moccagatta

52 Lo sponz di Rocco Papaleo di Andrea Gropplero di Troppenburg

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voci - inchieste

inchieste

di GIANNI CANOVA

L’EPICA NEL PALLONE

Il cinema italiano, da sempre, fatica a raccontare lo sport. Non è a suo agio con l’epica del gesto atletico. Preferisce la parodia, la satira, la nostalgia. E raramente riesce a trasferire sul grande schermo la passione sportiva che anima la società.

I tedeschi hanno Leni Riefenstahl, i cinesi hanno Zhang Yimou. La prima ha trasformato le Olim-piadi di Berlino del 1936 in un poema epico-lirico che fra slow motion, carrelli, ralenti e audaci angolazioni di ripresa ha celebra-to la bellezza dei corpi impegnati nel gesto atletico fino a fare di Olympia un film che cattura an-che chi ha un’avversione radicale e un’incompatibilità assoluta con il Terzo Reich e con tutto ciò che rappresenta. Il regista di Lanterne rosse ha fatto invece delle cerimo-nie d’apertura e di chiusura delle

Olimpiadi di Pechino del 2008 un kolossal dal vivo magniloquente e mirabolante, con migliaia e mi-gliaia di comparse, intriso di epi-cità e di un gusto spudoratamente neobarocco. E noi italiani? Noi, pur essendo tifosi e appassionati di sport più di qualsiasi altro po-polo sul globo terracqueo, al ci-nema dobbiamo accontentarci di L’allenatore nel pallone o di Il pre-sidente del Borgorosso Football club. Siamo talmente refrattari all’epi-ca, noi italiani, che perfino quan-do portiamo sullo schermo un’at-tività intrinsecamente epica come

lo sport, finiamo per spogliarla di ogni epicità e per farla scivolare nella commedia, nella farsa o nel-la parodia. Poco sport, allora, nel-la cassaforte del cinema italiano? Per nulla. Al contrario, il discorso sullo sport e da Bar Sport, la chiac-chiera, il blablabla da talkshow calcistico sono ben presenti nel cinema italiano, ma sempre sen-za alcun empito epico, cioè senza quella modalità del racconto che potrebbe fare dello sport il terri-torio d’elezione di quel racconto condiviso che non siamo riusci-ti a costruire in ambito storico,

sociale o politico. Da noi non c’è un regista capace di celebra-re l’atletica come ha fatto Hugh Hudson in Momenti di gloria, ma non c’è neppure chi abbia saputo filmare il calcio, sport nazionale per eccellenza, come hanno fatto a Hong Kong con Shaolin Soccer, in Gran Bretagna con Il maledetto United o in America con Fuga per la vittoria. In America, sì: perché gli americani magari sapranno anche poco del calcio (loro pre-feriscono rugby e baseball, e li rendono più appassionanti di un thriller), ma insegnano a noi euro-pei come raccontare l’“oggetto” di tante nostre passioni. Il problema è sempre lo stesso: il racconto, il ritmo, il punto di vista. E in que-sta prospettiva – sportivamente parlando – a Hollywood restano imbattibili. Perché? Nelle pagine che seguono proviamo ad appro-fondire il rapporto fra sport e ci-nema italiano. Nella certezza che troveremo qualche sorpresa.

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di STEFANO LOCATI

Breve storia dello sport nel cinema italiano dai forzuti degli Anni ’10 al nuoto sincronizzato di Cloro.

allontana dagli allenamenti e pre-ferisce far la corte a una giovane americana, ma in seguito torna nei ranghi e aiuta la sua squadra a vin-cere una partita. Probabilmente grazie al clima en-fatico-salutista del fascismo, nel film vi sono inedite riprese di gio-vani a petto nudo in pieno impeto agonistico. Più defilato è Cinque a zero (Mario Bonnard, 1932), che se-gue le tribolazioni del presidente di una squadra di calcio, preoccupato dal fatto che il capitano si sia inna-morato di una cantante di varietà. Pur mostrando i giocatori sul cam-po, il film è interessato al dietro alle quinte del club sportivo. Il calcio ha un ruolo da comprimario anche in Contessa di Parma (Alessandro Blasetti, 1938), in cui un calciatore si innamora di una modella che crede una nobildonna.Un boom di film sul calcio si ha nel secondo dopoguerra, quando gra-dualmente tifoseria e campionato diventano un rituale della ripresa economica. Inizia 11 uomini e un pallone (Giorgio Simonelli, 1948), sui tentativi di combinare l’ultima partita di campionato. Con questo film si sedimenta l’usanza di coin-

Il cinema italiano degli albori è lega-to a doppio filo al gesto atletico, se non proprio allo sport, grazie ai film dei “forzuti”, che spopolano tra gli Anni ’10 e i primi Anni ‘20, portan-do alla ribalta una serie di corpi at-toriali plastici e nerboruti. È il caso ad esempio di Bartolomeo Pagano, che in Cabiria (Giovanni Pastrone, 1914) interpreta Maciste, o di Alfre-do Boccolini, protagonista della se-rie Galaor, iniziata nel 1918. Le gesta acrobatiche di questi superuomini fantasiosi sono d’altra parte spesso legate ad attori-atleti, come il cam-pione di lotta Carlo Aldini e il gin-nasta circense Luciano Albertini, che esordiscono in Italia e trovano fortuna anche all’estero.L’interesse per un cinema ginnico, basato sull’espressività dei corpi durante lo sforzo fisico più che sull’intreccio, è però di breve du-rata. In seguito, il cinema italiano non mette volentieri in scena lo sport e quando lo fa preferisce un approccio laterale, in cui lo sport è un pretesto, è secondario, o è ri-preso in senso spettatoriale e non agito in prima persona. Tra le ec-cezioni, Stadio (Carlo Campogal-liani, 1934), che segue un rugbista che dopo un piccolo infortunio si

QUESTIONE DI

“SACRO FURORE”

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voci - inchiestevoci - inchieste

riti (Giorgio Bianchi, 1960), in cui approfittano dell’assenza delle mogli per abbordare due turiste te-desche giunte in città per l’evento sportivo. Più collaudata la coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia: in Don Franco e Don Ciccio nell’anno della contestazione (Marino Girola-mi, 1969), una farsa religioso-poli-tica, inseriscono un calcio di rigore girato come fosse uno spaghetti western, mentre in I due maghi del pallone (Mariano Laurenti, 1970) mettono in scena una pochade sul calcio e le sue idiosincrasie.Gli Anni ‘70 e ‘80 rappresentano il culmine dei film comici sullo sport (in prima fila il calcio). Ad esempio, ne L’arbitro (Luigi Filippo D’Amico, 1974) Lando Buzzanca dà vita a un arbitro sessuomane che in preda a deliri da anfetamine si rifiuta di fischiare la fine di una partita. Su tutti domina però l’incarnazione del ragionier Fantozzi di Paolo Vil-laggio, che ritrae con ferocia e com-piacimento le bassezze della classe media del tempo. In molti episodi della saga riemerge la passione per il tifo e i sotterfugi per vedere le par-tite più importanti in qualsiasi con-dizione, ma già nel primo Fantozzi (Luciano Salce, 1975) si vede il rito

volgere reali giocatori di Serie A in parti secondarie. Proseguono su questa strada L’inafferrabile 12 (Mario Mattoli, 1950), con Walter Chiari nel doppio ruolo di due ge-melli che non si conoscono, uno dei quali portiere della Juventus, e Parigi è sempre Parigi (Luciano Em-mer, 1951), sui sogni della piccola borghesia esplorati durante la tra-sferta francese di alcuni tifosi della nazionale italiana. In Gli eroi della domenica (Mario Camerini, 1952) l’ex calciatore Raf Vallone veste invece i panni di un giocatore cor-ruttibile di una squadra in ascesa.Già da questi primi esempi è evi-dente come a dominare sull’im-presa sportiva sia il tono solare del-la commedia, in cui la passione è al servizio delle gag dei comici. Senza aver prima costruito un’epica dello sport, il cinema italiano è intento nella smitizzazione forzata dello sforzo atletico. Non è un caso che in ogni decennio siano i maggiori attori comici a incarnare gli ideali dello sport. Totò prende di mira il ciclismo in Totò al Giro d’Italia (Mario Mattoli, 1949), in cui vende l’anima al diavolo pur di vincere la corsa, e il calcio in Gambe d’oro (Turi Vasile, 1958), dove interpre-ta il presidente di una squadra. Alberto Sordi si dedica alla corsa in Mamma mia, che impressione! (Roberto Savarese, 1951), in cui destruttura i movimenti accen-tuati della marcia con il suo fisico dinoccolato, mentre affronta il cal-cio prima in un episodio di Un gior-no in pretura (Steno, 1954), dove lo si ritrova tifoso romanista sfegata-to, e poi soprattutto in Il presidente del Borgorosso Football Club (Luigi Filippo D’Amico, 1970). Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi prendono a pretesto le Olimpiadi di Roma per il farsesco Le olimpiadi dei ma-

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della partita di calcetto amatoria-le tra scapoli e ammogliati, teatro delle ripicche tra colleghi di lavoro. Il concetto è poi ripreso da tanti altri film, espanso ad esempio nel più recente Amore, bugie e calcetto (Luca Lucini, 2008).Oltre ai film con riferimenti spor-tivi dell’ex nuotatore Bud Spencer – da Lo chiamavano Bulldozer (Mi-chele Lupo, 1978), in cui è un ex campione di football americano, a Bomber (Michele Lupo, 1982), in cui è un ex campione di pugila-to – il periodo è dominato da Lino Banfi e la sua corte. Film come Al bar dello sport (Francesco Massaro, 1983) e L’allenatore nel pallone (Ser-gio Martino, 1984) restituiscono macchiette sincopate di devozione al gioco (più d’azzardo che di squa-dra) costruendo mitologie di serie B, come l’allenatore Oronzo Canà. Un tipo di messa in scena sganghe-rata ripreso da film coevi come Pau-lo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento (Nando Cicero, 1983), Il diavolo e l’acquasanta (Bruno Cor-bucci, 1983) o Mezzo destro, mezzo sinistro (Sergio Martino, 1985).Se ci si allontana dal registro comi-co, i film che rimangono utilizzano lo sport come momento filosofico, esistenziale, nostalgico, camera-tesco in cui diventa allegoria della società e dei rapporti interperso-nali, più che studio sulla forma-zione e sulla crescita individuale. Esemplare da questo punto di vista Palombella rossa (1989) di Nanni Moretti, in cui la pallanuoto assur-ge a metafora della crisi delle ideo-logie e dello spaesamento di fronte alla società. Lo sport d’altra parte ritorna spesso in Moretti, fino alla clamorosa partita di pallavolo in Habemus Papam (2011). Colmi di

nostalgia sono invece i ritratti di Italia-Germania 4 a 3 (Andrea Bar-zini, 1990) o Figurine (Giovanni Robbiano, 1997), in cui lo sport è solo una cornice da osservare.Più che al gesto esemplare di corpi domati e plasmati dall’esercizio, il cinema italiano sembra così in-teressarsi al contorno, al contesto che accompagna il lavoro quoti-diano di allenamento. Persino Un ragazzo di Calabria (Luigi Comen-cini, 1987), in cui il giovane prota-gonista è costretto a vivere la corsa come un amore proibito, coltivato di nascosto da un padre che lo vor-rebbe valente studioso, la passione podistica è funzionale a un discor-so di classe sociale. Sistemo l’Ame-rica e torno (Nanni Loy, 1974) è una dura e talvolta didascalica presa di posizione contro il razzismo ne-gli USA ai danni di un giocatore di pallacanestro afroamericano che Paolo Villaggio vorrebbe ingaggia-re perché giochi in Italia. Bim Bum Bam (Aurelio Chiesa, 1981) segue le vicissitudini di tre amici della riviera romagnola che sognano di diventare calciatori professionisti. Ultimo minuto (Pupi Avati, 1987) è la rivisitazione amara dei film sui dirigenti sportivi alle prese con gli alti e bassi del campionato. L’uomo in più (Paolo Sorrentino, 2001) mette a confronto le esi-stenze di un calciatore sulla via del tramonto e un cantante attem-pato. In Cloro (Lamberto Sanfeli-ce, 2015) il nuoto sincronizzato è il mezzo tramite cui la giovane pro-tagonista cerca di sfuggire all’im-placabile inabissamento della sua condizione familiare.Il cinema italiano affronta insom-ma lo sport sempre o quasi dalla distanza. Sembra esserci una dif-fidenza di fondo verso la messa in scena del gesto atletico in sé e per sé; a dominare è piuttosto l’aspet-to discorsivo/descrittivo – da cui deriva la preminenza da un lato della comicità, dall’altro del taglio sociologico. Permane uno scarto netto tra tifo sullo sport (spesso ri-preso nei film) ed epica dello sport (poco considerata nelle produzio-ni italiane). In questo forse il cine-ma si arrende al linguaggio della presa diretta televisiva: un pecca-to, perché, come suggeriva Béla Balász, il linguaggio cinematografi-co è potenzialmente in grado di ri-creare il “sacro furore” dello sport fino a esaltare la bellezza dei corpi in movimento.

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di CLAUDIO FONTANINI

CINEMA DA CAMPIONI

Quattro interviste a sportivi di ieri e di oggi che ci svelano il loro rapporto con la Settima Arte. Andrea Lucchetta, Rosalia Pipitone, Patrizio Oliva e Adriano Panatta raccontano il loro amore per i film.

Che rapporto ha col cinema?Parte da lontano, da quando ero bambino a Tre-viso e usavo i miei pochi risparmi per comprarmi il biglietto per il cinema di quartiere. Mi affasci-navano l’interpretazione, la voce degli attori e la loro gestualità. Poi, da adulto, ho scoperto linee parallele con lo sport dal punto di vista del lavoro di squadra e della collaborazione generale alla ri-uscita di un progetto.

Quale è il suo genere cinematografico preferito?Sono cresciuto col mito di Jena Plissken in 1997: Fuga da New York e oggi mi sento un cavaliere Jedi che combatte con la forza del sorriso, quindi non posso fare a meno della fantascienza. Mi piaccio-no le grandi saghe e quella di Guerre stellari è il top. Anche se un’autentica rivelazione è stato The Wall: per me, che sul campo ero un centrale di muro, davvero il massimo.

Esiste un rapporto tra divismo cinematogra-fico e sportivo?I veri campioni si misurano sull’esempio e non sul-la vittoria. Dallo studio e dall’affinità della tecnica non si può prescindere. Oggi mi sembra che in tutti e due i campi prevalgano invece i nuovi mostri da social che non possiedono lo spessore e la prepara-zione necessari.

Nel cinema lei ha anche lavorato come pro-duttore, autore e doppiatore.È successo con Spike Team, una serie animata di tre stagioni su sei ragazze che partecipano ad un campionato scolastico di pallavolo allenate da Lucky, un ex campione rappresentato su misu-ra per me. È stato importante trasmettere valori come impegno, sacrificio, rispetto delle regole e determinazione. Nel 2013 e nel 2018 abbiamo an-che avuto il riconoscimento del Moige nell’am-

bito dell’abbattimento delle barriere fisiche e culturali e per aver mostrato lo sport come mo-mento di crescita ed unione tra persone cultural-mente diverse. E con Il sogno di Brent, il film d’a-nimazione tratto dalla serie, sono stato il primo a parlare di disabilità nello sport.

Dica la verità, le piacerebbe fare l’attore?In questo momento della mia vita sento che ci starebbe bene una forzatura artistica e anche se non so recitare, perché sono come la gente mi vede, il mio sogno sarebbe quello di lavorare con Pupi Avati. Mi affascinano le sue atmosfere e mi ha incuriosito il suo ritorno all’horror gotico.

È un frequentatore di sale o vede i film su al-tre piattaforme? Anche se non ho molto tempo libero confesso di non aver mai visto un film sul pc. Adoro la conta-minazione col pubblico e il Dolby surround delle grandi sale. Il cinema è un rito collettivo e per le sensazioni autentiche e non virtuali c’è ancora bisogno della sala.

C’è un film sportivo che preferisce?Il migliore di Robert Redford, Fuga per la vittoria e Quella sporca ultima meta ma il discorso sulla filosofia del centimetro di Al Pacino alla squadra nello spogliatoio in Ogni maledetta domenica lo trovo indimenticabile e ho voluto in parte ripren-derlo quando Lucky parla alle ragazze prima della partita della vita.

E la pallavolo al cinema?Ho trovato geniale la partita tra prelati filmata da Nanni Moretti in Habemus Papam ma la scena in-dimenticabile è l’inizio di Top Gun con Tom Cruise in jeans e occhiali Ray-Ban che gioca a torso nudo a beach volley in spiaggia. Davvero un’icona.

Andrea Lucchetta – pallavolista “Il mio sogno? Lavorare con Pupi Avati”

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Che rapporto ha col cinema?Mi piace moltissimo ma purtroppo riesco raramente ad andare in sala. Vedo tutti i film su Sky e Netflix e quando sono in ritiro con le mie compagne, a differenza dei calciatori che preferiscono giocare alla PlayStation, scegliamo un film e lo vediamo tutte insieme nella sala tv.

C’è un film che la rappresenta come donna?Soldato Jane con Demi Moore. Non posso fare a meno di vederlo una volta l’anno. Mi identifico con il modo di affrontare le battaglie della protagonista, nell’andare oltre gli schemi precostituiti e nella guerra al maschilismo. A 16 anni mi avevano detto che per un problema alla cartilagine del ginocchio non avrei più dovuto fare sport ma non mi sono arresa e oggi a 34 anni difendo ancora i pali della Roma.

Che attori preferisce?Denzel Washington, Will Smith e Julia Roberts.

Il calcio è lo sport più seguito in Italia ma di film sull’argomento non se ne vedono molti. Perché? È molto difficile far rivivere sullo schermo il realismo di una partita di calcio e poi credo che non ci siano attori di spicco capaci di essere credibili come giocatori. Molto meglio i documentari sulla stagione intera di una squadra. L’ultimo che ho visto e mi è piaciuto è stato quello sul Manchester City di Guardiola.

Divi cinematografici e grandi calciatori. Chi è più popolare oggi?Credo i calciatori perché fanno un uso sfrenato dei social e purtroppo oggi fa più notizia una foto postata su Instagram di un calciatore che beve il caffè piuttosto che la promo-zione di un bel film. La gente vuole tutto e subito e l’apparenza trionfa sulla sostanza.

Che ne pensa di Sognando Beckham, il film più famoso sul calcio femminile?Non mi ha entusiasmato, l’ho trovato un po’ scontato. In realtà mi piacerebbe un film che analizzasse il cambiamento in atto nel nostro sport. Magari se ne potrebbe fare uno proprio sulla crescita della nostra Nazionale agli ultimi mondiali.

Le attrici si lamentano di paghe inferiori a quelle degli uomini. Anche voi vi sentite figlie di un Dio minore nel vostro sport?È un problema culturale e in Italia c’è ancora tanto da fare. Prima della parità sala-riale bisognerebbe investire su professionismo e leggi. Occorrono nuovi impianti e agevolazioni fiscali e forse anche noi un giorno arriveremo a guadagnare 200.000 euro all’anno come accade all’estero in squadre come il Barcellona o il Psg.

Rosalia Pipitone – calciatrice “Le mie battaglie come quelle di Soldato Jane”

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Campioni dello sport e divi del cinema. Oggi chi è più popolare?Purtroppo, di questi tempi si bada poco alla sostanza e spesso ci troviamo di fron-te a campioni da social, più che ad atleti o artisti veri. Io non ho mai ostentato i miei successi e all’apparenza ho sempre preferi-to la sostanza.

Dal ring allo spettacolo. È stato impe-gnativo il passaggio? Ho fatto l’attore di cinema ne Il flauto e in-terpretato con grande successo Pulcinella in Due ore al’alba a teatro cinque anni fa e ora porto in scena la mia vita in Patrizio vs. Oliva tratto da Sparviero, la mia autobio-grafia. È molto dura mettersi a nudo in un ruolo molto impegnativo per un non at-tore come me. Non è semplice rivivere la tua vita ogni sera, dialogare con un fratello morto e combattere per 3’ mentre si recita, ma io amo il teatro perché sulle tavole del palcoscenico si sfida ogni sera il pubblico. La boxe mi ha abituato alla lotta e il rumo-re del gong che dà inizio al combattimento somiglia un po’ all’alzata del sipario.

Il pugilato è lo sport più rappresentato al cinema, come lo spiega? La boxe è la storia di persone di strada che tentano la scalata al successo attraverso il sacrificio. Sono storie di riscatto e spesso di sconfitte che si coniugano bene con le emozioni richieste sul grande schermo.

Il suo film preferito?Lassù qualcuno mi ama. Aiuta a capire come lo sport, già negli Anni ’50, possa aiutare a salvare i ragazzi dalla strada attraverso la cul-tura della disciplina e dello spirito di gruppo che poi si tramutano in senso civico.

Da napoletano, che rapporto aveva con Massimo Troisi?Speciale. Ha incarnato una comicità malin-conica e mai volgare che si traduceva attra-verso una mimica unica supportata da testi intelligenti che hanno ribaltato l’immagine del napoletano da cartolina. Mi manca mol-tissimo e non vedo purtroppo all’orizzonte attori che possano raccoglierne l’eredità.

Patrizio Oliva – pugile “Il gong sul ring, come un sipario che si alza”

Cosa pensa della serie Gomorra?Da napoletano dico che non ci aiuta. Mentre Saviano ha avuto il merito di sco-perchiare un pentolone e il film è stata un’operazione unica e salutare, la serie ti bombarda ed esporta il degrado in 60 Pae-si nel mondo. Poco tempo fa ho fatto par-te dell’organizzazione delle Universiadi a Napoli e molti si stupivano di non trovare nella realtà quella città rappresentata. La serie mi sembra sinceramente sin troppo romanzata. Non si vede una macchina della polizia e si viaggia in quattro sulle moto con mitra e pistole in mano. Ma dove le vedono queste scene? E poi si è portati a fare il tifo per i delinquenti, con la gente che spera che Ciro non muoia. La mitizzazione dell’eroe negativo è molto pericolosa e diseducativa per i ragazzi che non cercano scorciatoie malavitose. La criminalità ha paura della scuola e la cultura è l’unica arma a disposi-zione per non essere sottomessi a vita.

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Che rapporto ha col cinema?Sono un appassionato da sempre. Amo frequentare le sale ma non di-sdegno nemmeno i film in tv o sulle piattaforme digitali. Sul genere non ho preferenze, spazio dai film d’azione a quelli sentimentali ma quello che detesto è perdere tempo e se un film non mi emoziona o mi lascia dentro qualche riflessione potente le considero due ore buttate.

Quali sono i suoi film preferiti?Tutti quelli dell’Alberto Sordi in bianco e nero che hanno fotografato con precisione assoluta l’italiano medio ma quello che considero il più bello mai visto è C’era una volta in America di Sergio Leone, un genio assoluto che ha segnato l’era moderna della cinematografia mondiale.

Ne La profezia dell’armadillo ha interpretato se stesso in maniera esilarante.È stata un’idea del produttore Domenico Procacci e all’inizio nemmeno volevo accettare. Abbiamo girato solo due ciak e non ho fatto nessuna fati-ca perché sono semplicemente stato Adriano Panatta e in quel monologo diventato un piccolo cult ho detto quello che penso sui nostri tempi.

La filosofia del poff…Nel rumore della pallina da tennis colpita di piatto c’è tutto un mondo. C’è il senso del gioco, dell’armonia e di una musicalità che oggi il nostro mondo, tutto social e caos, ha paurtroppo colpevolmente perso. Non bisogna mai perdere di vista il senso della vita e nella bellezza di un ge-sto tecnico si può racchiudere la sintesi di tutto questo.

Il tennis al cinema è stato più rappresentato del calcio, come lo spiega?Mette in scena un raffinato duello psicologico che può diventare una facile metafora di differenti personalità. Ultimamente mi è piaciuto molto Borg McEnroe soprattutto per l’impressionante aderenza fisica dell’attore che interpreta il campione svedese. Comunque, non è mai facile rappresentare lo sport al cinema. Quello che è difficile è saper rendere al meglio il gesto tecnico che spesso risulta falso ad un com-petente come me.

Lei ha frequentato negli Anni ’70 e ’80 molti attori italiani. Oggi si è persa questa comunanza tra intellettuali e sportivi?Il torneo di tennis che organizzava Ugo Tognazzi a Torvaianica era un appuntamento fisso e irrinunciabile. C’era una bellissima atmosfera, ci si divertiva tanto e nessuno voleva mai perdere, Vittorio Gassman su tutti. Oggi conosco e ho giocato con molti attori ma sembra che tutti vadano di fretta per aggiornare le loro pagine social. Certo, gli impegni di oggi non sono quelli di 50 anni fa ma mi piacerebbe che si tornasse a fare squadra.

Adriano Panatta – tennista“Quei tornei con Ugo Tognazzi”

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voci - inchieste

di NICOLA CALOCERO

UN CALCIO AL CINEMA

Perché gli americani riescono a costruire un’epica del baseball e gli italiani non ce la fanno con lo sport nazionale?

La sera del 4 marzo 2018 Kobe Bryant sale sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles a ritirare l’Oscar per Dear Basketball, pre-miato Miglior Cortometraggio d’Animazione. Il campione dei Lakers, la squadra simbolo della città delle stelle, ha scritto, pro-dotto e realizzato - con la compli-cità del maestro dell’animazione Disney Glean Keane - un breve short che ha illustrato le intense parole della sua lettera d’addio dai campi di gioco. Bryant è sta-to il giocatore di pallacanestro di maggior talento della sua genera-zione e per uscire di scena si rivol-ge direttamente al suo sport, per ringraziarlo per tutta la strada che hanno fatto insieme. Il tratto del cartoon è semplice, leggero, qua-si astratto; sospeso tra l’onirico e l’evocativo. Si apre con l’immagi-ne di Kobe bambino che arrotola dei calzini per lanciarli nel cesto della biancheria e le illustrazioni di questa lettera d’amore lo ac-compagnano fino ai più prestigio-si successi destinati ad un cam-pione del parquet. Bastano pochi minuti per essere epici, perché l’eleganza del cinema amplifica quei toni emozionali che ruota-no su un elemento cardine dello storytelling a stelle e strisce: la pas-

sione pura che spinge a migliorarti per realizzare il sogno della vita. Tut-to questo collocato su uno sfondo melò ed edificante, per evidenziare i tratti simbolici del campione sportivo: esempio puro e romantico di self-made man. In America sport e cinema sono perfettamente integrati nella stessa logica dell’entertainment: attraverso la costruzione di stelle e campioni si alimentano da decenni i sogni del pubblico e quando gli sport d’oltreoceano vengono portati sullo schermo si seguono dei pre-cisi codici di messa in scena. Se il basket, al cinema, rappresenta la possibilità di riscatto per i ragaz-zi di colore (che trovano sempre nell’allenatore il proprio mentore), lo sport nazionale degli States è pur sempre il baseball, e intorno al suo “diamante” si è costruita molta epica americana del secolo breve. Basti pensare alla storia d’amore tra Joe Di Maggio, il più grande battitore di tutti i tempi, e Marilyn Monroe. Il baseball incarna un sistema di valo-ri, completamente estraneo alle nostre coordinate europee, che si tra-smette per via patriarcale. Come ci racconta perfettamente L’uomo dei sogni, con un ispirato Kevin Costner che, ricavando un campo da gioco dalla sua piantagione, rievocherà lo spirito del padre.

Il nostro cinema non è mai riuscito, raccontando il calcio, a raggiungere queste vette epiche. Prima di tutto perché prevale, nel nostro modo di vivere la passione sportiva, lo spirito di fazione tipico dei Paesi latini. La nostra comme-dia allora si è divertita a leggere il nostro calcio attraverso delle figure di sfondo e così alcuni dei nostri maggiori interpreti del genere sono an-cora oggi ricordati per le loro caratterizzazioni riuscite del tifoso (Die-go Abatantuono), dell’arbitro (Lando Buzzanca), dell’allenatore (Lino Banfi) e del presidente (Alberto Sordi). Due film che hanno raggiunto la vetrina di festival internazionali come Berlino e Venezia, ovvero Ultrà e L’uomo in più, si sono dedicati invece a raccontare il calcio in una chiave amara, per offrire uno sfondo ancora più tragico alla sconfitta umana degli outsider protagonisti di questi film. Il calcio è diventato il nostro sport nazionale solo dopo la tragedia del Grande Torino del 1949, un episodio che occupa nelle vicende dello sport italiano lo stesso ruolo simbolico e fondante del Neorealismo nel-

la Storia della nostra cinemato-grafia. Prima tale primato spetta-va al ciclismo, lo sport più amato durante l’età dell’oro della radio.La passione verso il calcio, in Italia, è cresciuta e si è diffusa in-sieme all’evoluzione del mezzo televisivo. Con la diretta tv, che ci offre la possibilità di vivere im-mediatamente l’evento sportivo attraverso un linguaggio ed una tecnica sempre più accattivante, il nostro cinema non è riuscito mai a trovare un modello altret-tanto forte capace di raccontare le dinamiche complesse del calcio all’interno della nostra società. Eppure, le partite più amate, quel-le che esaltano maggiormente il momento corale e la componen-te identitaria del tifo, sono quelle che vivono di colpi scena tali da rendere il climax agonistico as-similabile a quello di un sapiente intreccio cinematografico. Non a caso la partita più impressa nell’immaginario di noi italiani è la semifinale di Messico 1970 tra Italia e Germania che, per la successione dei suoi episodi, sembra uscita dalla penna di un grande sceneggiatore. Italia Ger-mania 4 -3 è anche il titolo di un film di Andrea Barzini, tratto dalla omonima commedia di Umberto Marino. Il calcio giocato nel film è quasi completamente assente e la partita è usata come sfondo e pretesto per raccontare le speran-ze deluse di un gruppo di sessan-tottini. Ancora una volta prevale il lato amaro.

Curiosamente i film più epici di due sport decisamente europei come il calcio ed il rugby sono stati realizzati da due registi ame-ricani: sicuramente animati da un differente modello di fair play rispetto al nostro approccio. Una-nimemente Fuga per la vittoria di John Huston è ritenuto il miglior film sul calcio mai realizzato, mentre Clint Eastwood in Invictus ci ha raccontato il mondiale di rugby vinto dal Sudafrica davanti agli occhi emozionati del presi-dente Mandela.

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voci - inchieste

di OSCAR COSULICH

10 nomi autorevoli raccontano qual è il loro film sportivo nazionale

preferito e perché. Ma il binomio

sport-cinema italiano non evoca particolari

colpi di fulmine.

“Il mio film sportivo favorito è Toro Scatenato. Non vale? Volete un titolo italiano?”: con poche varianti (Ogni maledetta dome-nica, Quella sporca ultima meta), la prima risposta della maggior parte degli interpellati è stata più o meno questa. Il binomio sport-cinema italiano non evo-ca particolari colpi di fulmine. Stimolati ad approfondire, gli in-terpellati hanno però sciorinato un vasto repertorio dimostrando come il tema sportivo sia un sot-to-testo costante nella nostra ci-nematografia.

Fausto Brizzi, raggiunto sul set a Praga, dove sta ultimando le riprese di La mia banda suona il pop, non ha dubbi: “Non esiste la cultura di film sportivi in Italia. La tv invece ci ha abituato a biografie di grandi atleti, da Coppi a Bartali, a Mennea. Ma il cinema latita di storie, vere o inventate che siano, ad eccezione delle commedie. La migliore di queste continua ad essere Lo chiamavano Bulldozer di Michele Lupo”. È su una posizio-ne simile, ma con sfumature di-verse, Francesco Patierno, che per la sua scelta evoca un ricordo personale: “Era la prima volta che andavo a Venezia da spettatore e lì vidi Palombella rossa in sala grande. C’erano Nanni Moretti e Silvio Orlando, alla fine erano in piedi commossi a raccogliere gli applausi: una cosa davvero emozionante. Per me l’emozione è stata doppia perché dopo aver visto Bianca avevo capito che non sarebbe stata l’architettura la mia strada e che volevo fare cinema. Tornando a Palombella rossa noto

NON SOLO “DUE CALCI AD UN PALLONE”

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è sportivo Antonio Monda, che ha risposto al telefono da New York mentre faceva i suoi esercizi mattutini sulla cyclette e, senza esitare, ha ricordato “Un ragazzo di Calabria di Luigi Comencini, con Diego Abatantuono. Un film che mi piace e che di fatto raccon-ta la storia di Mennea: è davvero un film sullo sport italiano negli Anni ’60”. Alessio Maria Federici deve recuperare emozioni ado-lescenziali, prima di scegliere il suo film di riferimento: “Essendo cresciuto e avendo passato tutta la mia adolescenza ascoltando il calcio alla radio, per me Ultimo minuto di Pupi Avati è un vero cul-to. Tra l’altro ricordo che c’era an-che un cammeo di Enrico Ameri, il radiocronista di Tutto il calcio mi-nuto per minuto, inquadrato nella cabina radio della Rai durante la diretta della partita. Un mito!”. Antonietta De Lillo premette “io e lo sport siamo due oggetti

come in Italia non ci sia una tra-dizione di cinema sportivo, non a caso il film di Nanni Moretti è memorabile perché ha qualcosa d’‘altro’ che lo fa funzionare. Da noi lo sport puro e semplice sullo schermo non regge”. È più recente il film sportivo di riferimento per Laura Delli Colli, che segnala “Veloce come il vento, un film etico perché, nel raccontare come da una sconfitta possa uscire una rinascita e un riscatto, unisce allo sport un importante inse-gnamento di vita”. Si schermisce Piera Detassis, prima di segnala-re un film, o forse due: “Premesso che non so niente di sport, quindi non so se questo si possa consi-derare un film sportivo, ricordo bene Ultrà di Ricky Tognazzi, che è stato anche un fenomeno di costume. Naturalmente ci sareb-be poi Palombella rossa, ma pos-siamo davvero definirlo un film sullo sport? Mah”. Sicuramente

che non si incontrano e mi dispia-ce, mi piacerebbe essere spor-tiva”. Poi prosegue osservando che “lo sport è un grande veicolo narrativo adatto al film d’autore come a quello più commercia-le. Veloce come il vento di Matteo Rovere è sicuramente il mio film d’autore preferito a tema sporti-vo, ma vorrei ricordare anche un film dove mi ha trascinata una delle mie due figlie (loro hanno gusti diversi, mi danno consigli che mi permettono di confrontar-mi con realtà che altrimenti potrei sottovalutare). Grazie a mia figlia così ho visto Il campione di Leo-nardo D’Agostini che, nell’am-bito del cinema popolare, mi è piaciuto molto: è un film di buoni sentimenti, senza alcuna volga-rità e ben interpretato. Si passa-no due ore con personaggi ben raccontati e questo non è poco”. Mario Martone segnala “due film di argomento automobilisti-co. Veloce come il vento di Matteo Rovere mi ha sorpreso: aspettavo la prevalenza dei motori e invece sono stato coinvolto dagli esseri umani che li maneggiavano, tutti interpretati da attori bravissimi e su tutti un grande Stefano Ac-corsi, Matilda De Angelis, Paolo Graziosi. Di motore in motore ricordo poi l’esordio di Daniele Vicari, Velocità massima, che con-tribuii con entusiasmo a premiare al Festival di Annecy dove ero in giuria. Anche in quel caso cinema a tutto tondo. Come le ruote del-le macchine, che evidentemente conoscono il segreto di sfrec-ciare sui nostri set”. La scelta di Andrea Purgatori cade invece su “Idoli controluce di Enzo Battaglia,

che aveva per protagonista Omar Sivori ed era stato prodotto da mio padre. È interessante perché è stato il primo film che racconta-va Sivori appunto in ‘controluce’, è un film sparito dalla circolazio-ne, molto cupo, dove si vedeva anche Sivori giocare, ma parlava di più della sua vita privata, quasi una sorta di Joker ante-litteram”. La scelta più sorprendente è però quella di Alessia Barela che, evitando con eleganza Velocità massima di cui era protagonista femminile, sceglie “Ginger e Fred: per il tip tap di Mastroianni e della Masina. La danza è uno sport fat-to di grazia: io ho fatto dieci anni di danza classica ed è stata la mia prima delusione. Non andavo sul-le punte perché non avevo il collo del piede abbastanza sviluppato. L’emozione di stare sul palco di legno che scricchiola è simile nel-la danza, dove usi solo il corpo e nella recitazione, che permette di sfruttare la voce. In Ginger e Fred si fondono la mia antica passione di ballerina e il mio lavoro d’attrice”.

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voci - immaginari

immaginari

Le donne…Femminile sembra essere, prima di tutto, la pagina scritta di Camil-leri: donne desiderate e che non temono i loro desideri, dissemi-nate in tutti gli scritti, sempre per far cadere gli uomini, esibirne la meschineria. Molte abitano, in tutti i tempi, a Vigata (basterebbe-ro le due raccolte Gran Circo Tad-dei e La Regina di Pomerania per averne un catalogo sensazionale) e quindi incrociano la strada di Montalbano: dalla svedese Ingrid de Il campo del vasaio (funzionale a dichiarare fedeltà all’eterna fi-danzata, Livia) fino all’ariostesca fanciulla che lo fa soccombere in vecchiaia ne Il sorriso di Angelica, passando almeno per l’esotica Dolores Alfano de Il campo del va-saio e l’Adriana de La vampa d’ago-sto. Sullo schermo saranno Isabell Sollman e Margareth Madè, Sere-na Rossi e Barbora Bobulova, ma anche Belen Rodriguez e France-sca Chillemi. Attrici, comparse di passaggio, modelle e starlette. Ma sempre protette dal furto voyeuri-stico sul corpo della donna. Per-ché sempre amate, anche nello/con lo sguardo.

…i cavalier, l’arme…Due, su tutti, i fedeli cavalieri del Montalbano televisivo. Luca Zin-garetti, che a Salvo ha dato un cor-po talmente esatto da assorbirne i tratti anche nello sviluppo lette-rario: racconto dopo racconto, la creatura di Camilleri assomiglia sempre di più al suo interprete, ringiovanisce anche, acquisisce la prossemica e i tic comporta-mentali. A lui si concede il lusso di un’indignazione polemica (e politica) che nelle pagine rimane sempre controllata dal genere: ne Il giro di boa (2005) Zingaretti si scaglia esplicitamente contro gli agenti della Diaz (il romanzo è del 2003), è amminchiato. Va all’arme più del suo alter ego ori-ginale. L’altro è Alberto Sironi, mai abbastanza celebrato, nemmeno da morto (sempre, ironicamente, dopo Camilleri): è a lui che si deve l’intuizione di una regia televisiva completamente inedita alla fine degli Anni ’90. Profonda, calda, avvolgente e affascinante. Sempre in grado di fermarsi un passo pri-ma della cartolina, ma anche ca-pace di assecondare il pubblico di Rai Uno. E poi di tutto il mondo. È al regista di Montalbano, in fondo, che si deve la fortuna internazio-nale della serie.

…gli amori…Molti ne ha avuti Camilleri. Per la letteratura naturalmente, ma corrisposto solo in età avanzata, come in un matrimonio tardivo, per metà riparatore e per metà di convenienza. Passioni di gioven-tù, focose e poi sempre rinfoco-late, per il teatro (nasce regista, adattatore geniale di testi di altri: porta in Italia, per primo, Fina-le di partita di Beckett) e per la politica. E poi uno, meno noto, ma essenziale, per la televisione. Quella fatta da lui, e per gli altri, prima che quella che gli altri han-no costruito intorno a lui. Come amava ricordare fallì un primo concorso da funzionario Rai nel 1954, perché comunista, ma poi ci entrò e divenne uomo di macchi-na, si occupò di produzione: dalle commedie di Eduardo De Filippo a Le inchieste del commissario Mai-gret. Del racconto televisivo, lo sceneggiato, intuiva il potenziale di pedagogia culturale per il grande pubblico: una biblioteca per im-magini, più accessibile e dome-stica, in grado anche di spingere gli editori a ristampare i libri, in un circolo virtuoso.

. . IO CANTO

di ANDREA BELLAVITA

Andrea Camilleri e il suo universo.

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…le cortesie…La cortesia più grande l’ha forse rivolta alla sua terra, la Sicilia, che gli ha dato i natali, il carattere, e l’ha formato, da Pirandello in giù. Ad essa ha restituito una celebra-zione nella forma del realismo magico, un imbellettamento af-fettuoso. Sempre condotto un po’ di sguincio. A partire dalla città di Vigata, in provincia di Montelusa, che insieme è, e non può essere, la sua Porto Empedocle. Sottraen-dola alla maledizione del ricono-scimento, componendola negli scorci (che poi sarebbero diven-tate vedute) presi dall’esperienza di una vita, l’ha miracolosamente trasformata in una città visibile. E poi la lingua, addomesticata, lasciata onesta, come se fosse parlata, ma resa comprensibile, leggibile ed ascoltabile, pratica-bile anche da chi non l’aveva mai masticata prima, a patto di farci un po’ l’orecchio, e l’attenzione. Di questa arcadia della parola, ha lasciato inalterato ogni sfregio del comportamento umano, dal tra-dimento personale (l’ipocrisia, la vigliaccheria, la violenza) a quel-lo sociale (la mafia). Ma, prima di tutti, ha saputo tratteggiarne il grottesco, il comico anche, che non è disinnesco, ma prova di li-bertà, di potere, di affrancamento.

…l’audaci imprese…Una su tutte: aver compreso, da intellettuale, e poi rafforzato, da creatore, l’importanza della cul-tura popolare. Nella forma: il racconto breve, agevole e agibile da un mezzo all’altro, ibrido di tante origini (il comico, il giallo, l’indagine sociale), non come combinazione postmoderna, ma lascito della tradizione classica. Nel potenziale indiziario: la sua è una Storia d’Italia illustrata e a puntate, un diario nazionale, anche se compilato guardando sempre dalla stessa finestra. Men-tre Oltreoceano si cristallizzava il character dell’antieroe, Camilleri codificava i tratti di un eroe criti-co, forte delle sue convinzioni e di un’etica, ma anche delle proprie debolezze, consapevole di poter conquistare una battaglia dopo l’altra, ma non di vincere la guerra. Fuori da ogni epica, ha rivitalizza-to un genere e una casa editrice (il giallo all’italiana di Sellerio, con tutti i suoi epigoni), ha rafforzato il turismo televisivo, ha influenza-to tormentoni e modi di dire. Ha reso sostenibile la produzione di fiction Rai in epoche ben meno felici di quelle odierne. È stato popolare, prima che fosse neces-sario essere pop.

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di ROCCO MOCCAGAT TA

COSÌ PARLÒ DE CRESCENZO

Quale eredità culturale ci ha lasciato Luciano De Crescenzo (1928-2019), rimasto sempre ’O professore qualunque medium abbia frequentato.

voci - immaginari

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Divulgatore autentico, quando ancora il termine aveva un senso prima di perderlo completamen-te come oggi, De Crescenzo è sempre stato “’O professore” qua-lunque medium abbia frequenta-to, dall’editoria al cinema alla tv. Ovvio, con quell’aspetto da sex symbol sui generis (nella rassegna degli uomini della sua vita, Moana Pozzi gli dà un bel 7…), lo sguardo blu, barbuto e brizzolato da sem-pre, un po’ faceva pensare a uno degli amati filosofi greci più che a un ingegnere IBM (che pure è sta-to per vent’anni, anche se addetto alle pubbliche relazioni). O ma-gari persino a un Padreterno sor-nione e ironico, che è il ruolo affi-datogli da Renzo Arbore nel film calembour Il pap’occhio (1980). Sostenuto da Maurizio Costan-zo, che, ospitandolo a Bontà loro, aveva contribuito a rendere un best seller il suo romanzo d’esordio Così parlò Bellavista, ha azzeccato da subito un carattere perfetto nel quale manteneva e sublima-va molti ingredienti della propria amatissima napoletanità, facen-done un incrocio di alto e basso affascinante e divertente per il pubblico. Vicino alla banda Arbo-re, ma con una propria fisionomia autonoma e autorevole (che la carriera di scrittore gli garantiva, passando dai romanzi ai saggi di agile divulgazione, sulla filosofia greca antica e non solo), De Cre-scenzo apparteneva a una genera-zione di eclettici e talentuosi, non condannati alla mono-specializ-zazione come oggi. Le frequenta-zioni arboriane (anche sul piccolo schermo, nel seminale Tagli, rita-gli e frattaglie, un pre-Blob di spez-zoni comici televisivi proposto dalla seconda rete Rai nel 1981) gli hanno aperto le porte del cinema, via il produttore-regista Mario Orfini, con Emilio Bolles già die-tro le intemerate de Il pap’occhio e di “FF.SS. - Cioè: “… che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene?” (1983), dove era di nuovo attore. Poco dopo l’apocrifo felliniano, quindi, cade anche l’esordio alla regia di De Crescenzo, che non poteva che interpretare il Bellavista del suo best seller tradotto al cinema: ex professore di filosofia in pensione

che tiene famiglia, ma anche un cenacolo di discepoli da condo-minio, ovviamente selezionati tra il fior fiore dei teatranti e caratte-risti napoletani (Benedetto Casil-lo, Sergio Solli, Gerardo Scala) ai quali impartire lezioni semiserie e paradossi ironici. Puro De Cre-scenzo, insomma. E, infatti, ha ripetuto questo ruolo, contem-poraneamente di personaggio dentro la storia ma anche di com-mentatore “esterno”, nei film suc-cessivi, quasi una messa in scena del se stesso mediatico, si tratti del terzetto psichiatra/confesso-re/astronomo (ma forse è sempre la stessa persona) negli episodi di 32 dicembre (1988) o del consulen-te storico frustrato sul set in Croce e delizia (1995). Quest’ultimo film, con il quale prende congedo dal cinema (almeno come regista, visto che è poi ancora stato attore in piccoli ruoli soprattutto in Tv), è insieme un ritratto buffonesco e smitizzante del set cinematografi-co “all’italiana”, con una Traviata in trasferta a Parigi continuamen-te tradita, e un atto d’amore alla “sua” Marina Confalone. Secondo molta critica, è pure l’esito miglio-re da regista, perché finalmente capace di superare quella ten-denza alla “coriandolizzazione” dei titoli precedenti. Rivisto oggi, il fenomeno Bellavista (David di Donatello e Nastro d’argen-to a De Crescenzo come regista esordiente e a Marina Confalone come attrice non protagonista nel 1985) resta sempre frammentario e discontinuo, costruito com’è attorno a scene(tte) e (stereo)tipi del mondo partenopeo, ap-pena tenuto insieme da un labile plot (l’arrivo nel condominio di Bellavista del milanese Cazzaniga, un sublime Renato Scarpa, per-fetto come “alieno” dal Nord). E neppure può dirsi più compiuto, nel 1985, il sequel Il mistero di Bel-lavista, realizzato un anno dopo il successo dell’esordio e, rispetto a quello, maggiormente infiltrato di maschere arboriane (Luotto, Laurito), nonostante il pretesto giallo di fondo (che sembra quasi una versione buffa di certe osses-sioni depalmiane). Il terzo film, 32 dicembre, come il precedente ricavato dal romanzo Oi dialogoi,

è addirittura una “commedia me-tafisica” in 3 episodi, ciascuno dei quali si apre a continue digressio-ni, parentesi e storie-nelle-storie (come la memorabile “mezz’ora” nella quale il disoccupato Enzo Cannavale, Nastro d’argento come non protagonista per il ruo-lo, accetta di subire insulti e con-tumelie dal fratello per racimolare i soldi necessari a comprare i botti per Capodanno e non deludere i figli). Forse al De Crescenzo cine-asta (che ha quasi sempre avuto al proprio fianco come co-sceneg-giatore, e attore, il sodale arboria-no Riccardo Pazzaglia, già regista in passato dei film di Franco&Cic-cio e piccolo artigiano del cinema popolare) questa svagatezza si confaceva in modo particolare. Anche perché contigua all’af-fabulazione sorniona di molte delle sue esperienze televisive da divulgatore, non importa che si trattasse dei miti greci (Zeus-Le gesta degli Dei e degli Eroi, nel 1991 su Rai1) o addirittura dei rudi-menti dell’informatica (Bit, nel 1984 su Italia1). Multa paucis, si di-ceva una volta, e sicuramente De Crescenzo si è sempre attenuto a questo principio. D’altronde, co-noscete qualcun altro in grado di spiegare brillantemente (e a tutti, sia al colto sia all’inclita), come fa lui in 32 dicembre, l’imprendibilità sfuggente del presente tra passato e futuro o la relatività del concetto di tempo nel breve spazio di uno sketch comico?

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voci - cine gourmet

cine gourmet

di ANDREA GROPPLERO DI TROPPENBURG

LO SPONZ DI ROCCO PAPALEO

Quinta cine-ricetta della rubrica di 8½ dedicata al rapporto tra cinema e cucina.

Rocco, tre film da regista, una sessantina da attore, quali sono gli ingredienti fondamen-tali della sua cucina d’autore?

Certamente la musica è un po’ la linea principale, sia esplicita che nascosta. Poi ho sempre cercato di creare un mondo non com-pletamente realistico, anche se il realismo alla fine è il registro che uso, cercando però di uscire dal documentarismo, dal riprendere la realtà per come è, cerco di cre-arne una nuova, di fantasia.

Dove fa la spesa?

Non ho una regola, diciamo che in quasi quarant’anni di attività ho fatto solo tre film… Non ho un indirizzo, un mercato o un su-permercato, a seconda delle sug-gestioni che mi abitano cerco di ispirarmi, in realtà è un percorso strano, per esempio in Basilicata coast to coast, si tratta di una ricer-ca ventennale, rispetto alla mia terra e al percorso fatto nell’am-bito del teatro canzone, una sorta di sliding door della mia vita. Un film più autentico e spontaneo

rispetto ai due successivi che ho fatto innanzitutto perché era an-dato bene il primo, ero in qualche modo obbligato a fare ancora un film. Quando ho fatto il primo film non pensavo di iniziare una carriera da regista, ne avevo sem-plicemente l’urgenza, avevo una storia da raccontare e lo avevo in parte fatto nei vari spettacoli. Per quanto concerne gli altri due, di spontaneo non c’era nulla, ho proprio cercato l’idea da svilup-pare nei film e direi che in buona parte ci sono riuscito. Oggi pen-so di fare un altro film, mi hanno chiesto di raccontare la storia di un personaggio realmente esisti-to, come vede non ho un luogo vero e proprio dove fare la spesa.

E la preparazione, quali sono per lei le fasi più importanti della preparazione?

Ammesso e non concesso che io abbia uno stile, cerco di rifarmi a questo, a una narrazione musi-cale, che ha comunque quel tipo di coordinate, a dire il vero parto sempre da una letteratura, non scrivo in modo tecnico, voglio che

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quello che scrivo abbia già una sua forma letteraria, sia già gradevole da leggere, che abbia una musi-calità, anche se non tutto finirà nel film.

Intendevo chiederle, qua-li sono le fasi più importanti nella preparazione della sua cinecucina, per esempio Mat-teo Garrone dice che per lui è il montaggio, per Francesco Bruni la ricerca, per Renato de Maria il set, per lei qual è il mo-mento in cui sente che sta com-ponendo il film?

La scrittura, a monte: direi che parte tutto da lì. È più un work in progress, diciamo che comincio con un soffritto e dato che non sono così deciso all’inizio magari mi tengo vago, comincio col met-tere un aglio a soffriggere e, detto anche un po’ malinconicamente, la mia non è una dispensa fornitis-sima, quindi parto con alcuni in-gredienti e confido nella genero-sità degli ospiti e negli ingredienti che porteranno da aggiungere al mio piatto.

La seconda ricetta di Basilica-ta coast to coast, che poi non ho fatto, è la pasta e fagioli sfrit-ta, un piatto che si mangia solo dalle mie parti perché serve lo ‘zafarano sinese’, una specie di paprica ottenuta dai peperoni cruschi polverizzati:

lessare 400 grammi di fagioli con battuto di sedano, aglio, ci-polla e carota

cuocere della pasta corta preparare a parte un misto di 5

gr di zafarano sinese e 60 gr di pe-corino

unire la pasta e i fagioli soffriggere un aglio in padella e

con l’olio molto caldo fare sfrigo-lare per qualche attimo il compo-sto di pecorino e zafarano sinese e unire il tutto alla pasta e fagioli.

Tra la cucina dell’autore e quella dell’attore, quale sente più sua?

Naturalmente apprezzo moltis-simo la cucina degli altri perché è più saporita: però, fare ‘l’ingre-diente’, a lungo andare mi ha un po’ annoiato, quindi oggi preferi-sco la mia cucina anche se non è saporitissima, ma mi dà il gusto di averla messa in tavola. Intanto ho imparato a cucinare un po’ meglio e quindi mi sento di poter imban-dire una tavola con un piatto più elaborato. Allo stesso tempo mi piace andare a cena dagli altri, ma preferisco cucinare io.

Qual è il suo piatto preferito?

Le melanzane alla parmigiana di mia madre. Sono la sintesi perfetta di gusto e potenza… mi viene l’acquolina in bocca solo a pensarci… La parmigiana di mia mamma si fa pressappoco così, la conosco non solo perché l’ho vista fare tante volte ma perché ho messo la ricetta anche in un disco… Si affettano le melanzane molto sottili, si lasciano per tutta la notte sotto sale per eliminare l’amaro e i liquidi, poi si infarina-no e si friggono, nel frattempo si prepara una salsa di pomodoro e poi si compone uno strato di me-lanzane e uno di pomodoro; mia madre la faceva molto ricca e ci metteva sia della carne tritata che del prosciutto, del parmigiano e della mozzarella: poi s’inforna per una mezz’ora abbondante ed è buona, buona, buona.Anche in Basilicata coast to coast ci sono due ricette, il pane e frit-tata che è una cosa semplice ma deve fare lo sponz.‘Sponzare’ significa impregnarsi, quando due elementi o due per-sone rimangono a contatto per un tempo lungo, sponzano. Si tratta di un’unione che non fa perdere la propria cifra ma la fa amalgamare con gli altri elementi fino a perde-re i confini e diventare un’unica cosa. Nel pane e frittata lo sponz fa sì che non capisci dove finisce il pane e dove comincia la fritta-ta. Nelle cose che faccio cerco lo sponz, ce l’ho come attitudine.

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voci - inchieste

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rewindRACCONTI DI CINEMA REPRINT ANNIVERSARI

56 Compagni di scuola Il momento di Giampaolo G. Rugo

58 Piccola storia del cinema sportivo di Mario Verdone da “Centrofilm”, n. 41, 1964, pp. 54-60

di Andrea Mariani

60 a 50 anni da La caduta degli Dei

61 Capitalismo e massacro (in guêpière) di Alberto Anile

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racconti di cinema

rewind - racconti di cinema

COMPAGNI DI SCUOLA

IL MOMENTO

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Da uno scaffale di vetro, retroil-luminato da una luce arancione, pieno di bottiglie, ne prende una di forma ovoidale; la apre sulla scri-vania e riempie un bicchiere largo e panciuto. È un rum millesimato, una riserva speciale, da aprire in un’occasione speciale. Quale occa-sione più speciale di quella? Col bicchiere in mano raggiunge la scrivania, si lascia cadere sulla poltrona in pelle e apre l’humidor in legno. Controlla sull’igrometro incastonato all’interno che il valore dell’umidità sia quello giusto, poi scorre con la mano la fila di sigari fino a quando trova quello che cer-ca. Sulla fascetta, la “anilla” come la chiamano gli esperti, il profilo di un indio con una coda di cavallo stiliz-zato in oro e la scritta Cohiba. Pren-de il sigaro, se lo gira tra le mani, lo bagna nel rum; fa girare sui pantalo-ni la rotellina zigrinata dello zippo e con la fiamma accende il sigaro; appoggia i piedi sulla scrivania, ab-bassa lo schienale della sedia e tira una lunga boccata.

Quante regole sta infrangendo? Sta bevendo un alcolico, fumando un sigaro e mettendo i piedi su una scrivania in ebano intarsiata di fine Ottocento. Sono cose che non si dovrebbero fare in un posto di la-voro, in quel posto di lavoro. Ma in quel posto di lavoro è lui che detta le regole agli altri, non viceversa. - Piermaria? – La voce di Valentina arriva metallica dall’interfono.- Dopo!Non aggiunge altro perché non c’è altro da aggiungere. Deve festeggia-re il momento e qualsiasi altra cosa deve aspettare. Valentina è l’unica

di tutta la grande banca, che lo può chiamare per nome. È solo una segretaria, ma lui ha deciso così. Quando gli altri la vedono, nello splendore dei suoi venticinque anni, pensano che sia la sua aman-te; che “se la scopi”. Il sessantacin-quenne che sbava per la ventenne: che cliché. Quanto sono ingenui gli altri, quanto sono banali. Quanto non capiscono nulla delle donne; come non riescono nemmeno a immaginare che il potere è vero se non aderisce ai cliché, se li rovescia.

Si passa l’anilla tra le mani. Sono esattamente 31 anni, 7 mesi e 12 giorni che ha comprato quel sigaro. 31 anni sette mesi e 12 giorni che aspetta di poterlo fumare. Era un venerdì, lo ricorda ancora, era sce-so dalla macchina, quella vecchia Renault 5 con quelle ridicole bande celesti, azzurre e blu scure; aveva ancora i cerchioni delle ruote spor-che della terra e del fango di quella maledetta villa. Sapeva solo una cosa: da lì in poi tutto sarebbe cam-

biato. Era entrato in un tabaccaio storico del centro e aveva chiesto il sigaro cubano più costoso. Si era fermato a una cabina telefonica e aveva chiamato Luisa per chiederle di sposarlo. Era l’unica persona che nella vita era stata dalla sua parte, per questo aveva deciso di premiar-la. Gli avrebbe regalato una vita in-finitamente migliore di quella che lei si sarebbe potuta minimamente immaginare. Arrivato a casa aveva messo il sigaro in una scatola sa-pendo che tutta la sua vita sarebbe stata la lunga attesa del momento in cui se lo sarebbe finalmente goduto.

COMPAGNI DI SCUOLA

IL MOMENTOdi GIAMPAOLO G. RUGO

Era partito dallo sportello, dal rap-porto coi clienti; aveva scalato tutte le posizioni, come in un film ame-ricano in bianco e nero degli Anni ‘50. Gradino dopo gradino, piccolo favore dopo piccolo favore. Non aveva sbagliato una mossa né un’a-micizia; sempre in maniera felpata, non lasciando nulla al caso, ci aveva messo 25 anni ed era riuscito ad ar-rivare in cima. E aveva cominciato.In una conversazione con un uffi-ciale della Guardia di Finanza ave-va lasciato cadere che quel centro carni sull’Appia da cui si era servito più volte non si era mai degnato di rilasciare uno scontrino. Un paio di ispezioni fiscali scoprirono un giro di fatture gonfiate: il centro carni aveva dovuto chiudere la-sciando in braghe di tela quel fasti-dioso macellaio. Per il cantante aveva fatto capire a un produttore in difficoltà che era un suo protégé, gli aveva promesso un ingente finanziamento a patto che l’avesse fatto lavorare. Il pro-

duttore aveva disegnato un musical addosso al cantante, 150 repliche nei maggiori teatri italiani pur di ac-cedere a quei soldi che gli avreb-bero garantito la sopravvivenza. Quando Piermaria pochi mesi dopo, gli aveva detto che purtrop-po per quel finanziamento non c’era niente da fare, il produttore era impazzito e gli aveva giurato e spergiurato che per vendetta il suo protégé non avrebbe mai più lavorato, né in Italia né altrove. Con il ginecologo era stato più dif-ficile, aveva dovuto aspettare un po’, ma quando anche lui aveva

sbagliato una diagnosi, i parenti del paziente avevano potuto contare sul migliore avvocato sulla piazza, pagato da uno sconosciuto benefat-tore. L’avvocato aveva vinto la causa milionaria, una causa milionaria per la quale non era bastata l’assicu-razione professionale. Il ginecologo era finito sul lastrico.Li aveva stanati uno ad uno, di-struggendogli la seconda metà della vita come loro gli avevano distrutto la prima.Ne era rimasto uno solo. Appena avrebbe chiuso con lui, avrebbe chiuso con tutto. Quello sarebbe stato il momento, che aveva imma-ginato da 31 anni 7 mesi e 12 giorni.E il momento era stato dieci minuti prima quando, appena quello era entrato dalla porta, ancora prima che lui gli dicesse, nella maniera la-terale e paludata attraverso la quale da sempre si esprime il potere che, purtroppo, per quella cosa, mal-grado la telefonata del direttore, del presidente e del segretario non c’era niente da fare. Ancora prima di avergli fatto capire in un colpo solo le due cose fondamentali della esistenza. Cioè che: uno, la vita è una maratona, non sono i cento metri, se bruci tutte le tue energie all’inizio non te ne restano per il resto della gara; e che: due, ciò che fa girare il mondo non è la politica e le decine di partiti che quello aveva cambiato negli anni per mantenere un posto al sole, sono i soldi. Soltanto i soldi. Il momento preciso era stato quan-do entrando dalla porta mentre allargava le braccia in attesa di un abbraccio che non avrebbe mai ri-cevuto, quello aveva detto:- Ti trovo in grande forma, il tempo sembra non passare mai per te caro Fabris.E lui, Piermaria Fabris, aveva allar-gato a sua volta le braccia, lo aveva squadrato dall’alto in basso, aveva inclinato la testa e aveva risposto:-Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa. Se non mi avesse detto Valentina che eri tu non ti avrei mai ricono-sciuto. Come sei invecchiato male, Va-lenzani.

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reprint

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Piccola storia del cinema sportivodi Mario Verdone da “Centrofilm”, n. 41, 1964, pp. 54-60

rewind - reprint

Mario Verdone non è soltanto un “uomo di cinema”: il suo archivio, recentemente valorizzato dalla Bi-blioteca Luigi Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia, conferma la varietà dei rapporti con l’intero sistema della cultura e delle arti italiane e internazio-nali. L’interesse per il cinema non si appagava esclusivamente della forma filmica, ma andava a sedi-mentarsi sull’ampio spettro della cultura visuale moderna, nelle generiche e varie infrastrutture della riproducibilità tecnica au-diovisiva, nelle forme dello spet-tacolo e dell’intrattenimento po-polare. Le traiettorie euristiche e le spinte speculative della carriera intellettuale di Mario Verdone ci danno testimonianza di un per-corso discontinuo, sperimentale, intermittente che disegna un avvi-cinamento a un medium (quello cinematografico) e a un sistema mediale (quello delle arti popola-ri) che è tra i più originali del do-poguerra. Quello che pubblichia-mo su Reprint è un intervento dedicato ad un genere – anche se la categoria di genere sfugge dalle righe dello stesso Verdone – che riflette questa tensione vivace tra cinema e spettacolo popolare: il cinema sportivo. Verdone, all’e-poca in procinto di assumere l’in-carico di libera docenza di “Sto-ria e Critica del Film”, pioniere dell’insegnamento universitario di cinema, aveva anticipato que-sta pubblicazione sulla rivista del Centro Universitario Cinemato-grafico dell’Università degli Studi di Torino, “Centrofilm”. L’inte-resse per lo spettacolo popolare, il circo, il pre-cinema trovano nel genere sportivo un campo di

indagine di cui Verdone sarà tra i pochi conoscitori e tra i primi formalizzatori. La dimensione di genere, si diceva, sembra tuttavia eccedere i limiti della sua inter-pretazione, perché se da una parte lo studioso tenta una ricostru-zione filmografica dell’incidenza del “forzuto”/atletico nel cinema di finzione, dalle origini ai giorni nostri, dall’altra è attratto dalla relazione tra cinema e allena-mento fisico del corpo; Verdone ha certamente in mente il cinema didattico a sfondo atletico o spor-tivo, da circolare nelle scuole e pensato precipuamente per l’alle-namento e l’educazione fisica dei più piccoli, tuttavia a provocarlo è anche il nesso stretto tra il cinema e la corporeità dello spettatore, gli effetti del cinema sulla corporeità dello spettatore: “si deve ritenere come efficace scuola di ginnastica la proiezione fotodinamica. Per mezzo di questa vengono suggeri-ti movimenti utilissimi all’acqui-sto della forza fisica”. Riprende e fa sue le parole dello scrittore Gio-vanni Bertinetti, dai cui soggetti vennero tratti film “atletici” come Sansone contro i Filistei (1919), già citato nell’articolo pubblicato su “Centrofilm”: “Noi arriveremo certamente a questa applicazione del cinematografo quando si sia diffusa la convinzione dell’enor-me potere suggestivo dello scher-mo, non solo moralmente ma anche fisicamente”. Nella lettura di Verdone permane la funzione decisiva dell’“attrazione” impres-sa dall’eredità del cinema delle origini sullo sviluppo di questo “genere”, e sopravvissuta in que-sta particolare tendenza, che pure per Verdone sta già esprimendo

una nuova sensibilità: sono gli anni del declino del genere Pe-plum, che, come ci ricorda Fran-cesco Di Chiara (Peplum, Donzelli 2016) aveva introdotto i bodybu-ilder, i cui corpi “rimandano alla cultura del corpo della California […] richiamano evidentemente l’assimilazione della cultura ame-ricana da parte di quella italiana” (Di Chiara 2016, 67-68). Non sia-mo più ai forzuti popolari e po-polani, provenienti dal mondo agricolo o operaio o dall’ambiente del pugilato: i nuovi colossi sono il prodotto del consumismo del boom, della cultura della bellezza e della cosmesi e l’espressione del loro corollario narcisistico. Negli stessi anni, ad accorgersi di que-sto mutamento nella percezione del corpo atletico è un altro gio-vane critico, Lino Miccichè, che nel 1960 dirige il cortometraggio documentario I maggiorati, scrit-to da Cecilia Mangini e Lino Del Fra: un esempio di film atletico, fotografato in uno splendido te-chnicolor, che sarebbe piaciuto a Verdone. Non è più la potenza dei forzuti, ma la bellezza dei Mister Universo con le acconciature da rockstar a condizionare il divismo del nuovo film “atletico”: sono, come Miccichè riassume icastica-mente con la scelta del titolo del suo documentario, la controparte plastica del divismo delle maggio-rate del cinema italiano degli Anni ‘50. Una massa di carne unta e to-nica che, tuttavia, si fa carico an-che del senso storico di un’epoca: i film Peplum degli Anni ‘50 e ‘60 portano sullo schermo i culturisti americani, “liberatori” di una so-cietà oppressa, come gli america-ni del piano Marshall.

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IN QUESTO NUMERO UN ARTICOLO ESTRATTO DA

“CENTROFILM”1964

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anniversari

rewind - anniversari a 50 anni da La caduta degli Dei

Le foto della sezione ‘Anniversari’ sono state gentilmente concesse dall’archivio fotografico ©

Si ringraziano dott. Marcello Foti, direttore Cineteca Nazionale; dott.ssa Daniela Currò, conservatore della CN; dott.ssa Viridiana Rotondi, responsabile Archivio fotografico della CN;

dott. Alessandro Andreini, ricerca e elaborazione immagini Archivio fotografico della CN.

a 50 anni daLA CADUTA DEGLI DEI

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a girare la sequenza della notte dei lunghi coltelli. Gli dissi: ‘Come va con Visconti? Quello è matto...’. ‘No, io sto tranquillo perché il film lo giro tutto a Cinecittà, tranne questa sequenza’. Bene: Visconti gli mangiò tutti i 600 milioni solo per quella sequenza e Notarianni si ritrovò senza una lira e con il film che doveva essere condotto a termine. All’Italnoleggio si com-

late a giornalisti felici di avere una leggenda da stampare. Per La ca-duta degli dei qualche verità invece c’è, anche se non sempre la re-sponsabilità può essere addossata al regista. Scriveva Gaia Servadio, in un’antica biografia a lungo di-sprezzata perché ritenuta gossip-para e invece preziosa nel raccon-tare senza troppi imbarazzi vita e carriera di Luchino, che “da Roma

portarono da delinquenti: No-tarianni chiese un’integrazione, ma dissero no; per fronteggiare la troupe rimasta senza soldi dovet-te ipotecare la casa dei genitori, dopodiché cedette i diritti del film ad Haggiag, un produttore legato agli americani, il quale combinò con la Warner Bros, che prese i diritti per lo sfruttamento su scala internazionale. Il film ha portato

i soldi non arrivavano e capitava che non ce ne fossero nemmeno abbastanza per pagare l’albergo. In un’occasione l’intera troupe fu chiusa a chiave nelle camere (…) dall’albergatore. L’organizzazio-ne era spaventosa: Bogarde se ne stette in ozio a Roma per tre set-timane, prima di essere chiamato; la Thulin dovette aspettarne cin-que. A volte perfino Visconti non

Pochi anni prima della sua scom-parsa, Mino Argentieri mi rac-contò di come Pietro Notarianni, storico organizzatore cinemato-grafico, perdette la casa. “Per La caduta degli dei fu Notarianni in origine a fare da produttore, con 500 o 600 milioni dell’Italnoleg-gio come minimo garantito. Ricor-do che lo incontrai al cinema Cor-so, mentre Visconti era in Austria

soldi a Haggiag, all’Italnoleggio, alla Warner, l’unico buggerato è stato Notarianni: rimasto senza una casa e senza una lira è dovuto andare a vivere in un residence”. Su Visconti e le sue bizzarrie spen-derecce si è esagerato. Alcune ma-nie (come quelle dei fiori freschi portati tutti i giorni da Sanremo per il ballo del Gattopardo) erano in realtà abili Lucherinate propa-

CAPITALISMO E MASSACRO (IN GUÊPIÈRE)di ALBERTO ANILE

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rewind - anniversari a 50 anni da La caduta degli Dei

lavorava, come protesta perché non veniva pagato”.La lavorazione fu complicata an-che dal fatto che le autorità tede-sche, poco entusiaste del proget-to, mettevano i bastoni fra le ruote negando i permessi. L’invasione di camicie brune e bandiere con le svastiche sul lago austriaco dove si girava il festino nazista fece addirittura una vittima, un ebreo colpito da infarto mentre passava in auto nelle vicinanze. La gestazione stessa del film fu lunga e piena di evoluzioni, nella concezione, nella scrittura, nella scelta degli interpreti. Per il ruolo di Sophie era prima prevista Va-nessa Redgrave, poi Visconti volle Ingrid Bergman che però rifiutò (e si sarebbe pentita del rifiuto) per la sgradevolezza del personaggio, e infine Ingrid Thulin, che prima di riuscire a entrare nel ruolo fece un bel po’ di problemi. Ma il risul-tato commerciale fu deflagrante: il film andò bene in Europa e pure in America, e Visconti ne uscì in-sieme rafforzato e condizionato. Il periodo “tedesco” di Visconti proseguì con altri due capitoli della trilogia germanica, Morte a Venezia e Ludwig.

ucciso quella notte stessa per mano di Freidrich (Dirk Bogarde), amante di Sophie (Ingrid Thulin), la vedova dell’unico figlio del barone, e l’omicidio viene fatto ricadere su Herbert. Il quale è costretto a fuggire mentre la moglie (Charlotte Rampling) e le figlie vengono deportate a Dachau. All’omicidio ha assistito Martin (Helmut Berger), figlio di Sophie, ragazzo viziato e perverso che ama una prostituta (Florinda Bolkan), adesca bambine e stuprerà la madre; il giovane viene manovrato da Aschenbach, che punta su di lui per sbarazzarsi di tutti gli altri, e mettere le acciaierie al servizio delle SS e del Führer. La vittima successiva è Kostantin, trucidato nella “notte dei lunghi coltelli” in cui le SS massacrarono le SA, divenute invise a Hitler. D’accordo con Aschenbach e ormai divenuto

LA NOTTE DEGLI ORRORIL’impianto de La caduta degli dei è corale. Il film si apre il 27 febbraio 1933, quando l’anziano barone Joaquim von Essenbeck (Albrecht Schönhals), festeggiato per il suo compleanno, annuncia di aver deciso di affidare strategicamente le sorti delle acciaierie di famiglia al nipote Kostantin (René Koldehoff ), membro delle Squadre d’Assalto naziste, al posto del dissidente Herbert (Umberto Orsini), che è inviso al regime. E infatti: per un complotto ordito dal cugino Aschenbach (Helmut Griem), che fa parte delle SS, von Essenbeck viene

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sadomasochismo in uniforme, provocazione omosex e sbriglia-mento dionisiaco nel contesto più repressivo immaginabile; ed è sopravvissuto fino a ieri, con Senso ’45 di Brass, annata 2002 (è la ri-presa di un’altra opera di Visconti, così il cerchio si chiude). Malgra-do le giustificazioni di Visconti, la sua personale propensione per il fascino malato, per la decadenza morbosa era evidente fin nel pro-getto Pensione Oltremare, storia di un giovane arrestato dai nazifasci-sti e avviato alle Fosse Ardeatine, che risale addirittura al ’44.

LA LETTERADI PASOLINIMa La caduta degli dei ha prodotto anche discendenze più pregevoli: oltre all’ovvio Il portiere di notte (’74) di Liliana Cavani (che recu-pera Bogarde e Rampling dal cast viscontiano), anche Il conformi-sta (’70) di Bertolucci e perfino il Salò (’75) di Pasolini mi paiono consanguinei, nella ricostruzione

nazista pure lui, Martin spinge la madre e Friedrich al suicidio e nell’ultima inquadratura alza il braccio a salutare la nascita di una nuova epoca di orrori.

Uscito nell’ottobre 1969 il film ebbe molte lodi e pure ottimi in-cassi, anche in America, “forse per gli omicidi multipli”, ha scritto la Servadio, “le molte scene sadiche e l’inizio di un’ondata nostalgica nei confronti dell’era nazista. In effetti il film di Visconti fu il primo di una lunga serie sull’argomento: nazismo, sadismo, omosessualità in uniforme furono lanciati e resi rispettabili sotto il velo di una critica compiacente”. In un’inter-vista dell’epoca a “La Stampa”, Visconti spiega che “c’è un’ac-centuazione sulla perversione sessuale proprio per dare una sot-tolineatura quasi scandalosa, nel senso giusto, alla instaurazione del nazismo perché il film finisce quando il nazismo comincia. (…) Il nazismo era negativo in tutto, ma facendo un film sul nazismo bisogna prendere uno di questi lati negativi, non si può metter-li tutti, altrimenti avrei dovuto scrivere la storia del Terzo Reich. Io ho voluto prendere un piccolo nucleo e ho preso una famiglia, in essa ho voluto scatenare gli istinti più bassi, gli istinti meno nobili, ed è un esempio, non è che tutto il nazismo sia lì; il nazismo ha avuto anche altri aspetti, ed io ho con-siderato questo lato tralasciando gli altri, perché altrimenti avrei dovuto scrivere la storia del Terzo Reich. E non era possibile”. Come contraddirlo? Però poi quello che si ricorda di più è Helmut Berger in parrucca bionda e guêpière che rifà Marlene Dietrich, e canta con voce un po’ chioccia che vuole “un uomo vero”; una Ingrid Thu-lin michelangiolesca che si copre con un braccio perché il figlio le ha strappato di dosso i vestiti; i giovanotti desnudi delle SA che spogliano una contadinotta terro-rizzata, e poi si ritroveranno a let-to macchiati di vernice rosso vivo per le smitragliate delle SS. Il filo-ne naziexploitation nasce proprio qui, dal mélange di rosso e nero, eros e thanatos, divise corvine e fiotti di sangue, carne e svastica,

storica, anche meticolosa, ibri-data con l’analisi psicoanalitica e poi volta in metafora, e nell’at-trazione/repulsione per il conte-sto nazifascista, da evocare e poi esorcizzare. Pasolini, per la verità, ebbe molto da criticare, in una lettera aperta a Visconti sul setti-manale “Tempo” rimasta celebre: “il tuo film (che ha codificato il nuovo e riconfermato il vecchio) si presta, oggettivamente, a un’o-perazione di restaurazione. (…) Ti avrà, spero, insospettito il coro dei consensi, che vanno, come per il Satyricon, da destra a sinistra.

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Tutti, infatti, hanno diabolica-mente interesse alla restaurazio-ne”. Gianni Rondolino, nel suo fondamentale studio sul regista, ha rilevato il distacco e addirittu-ra il disinteresse di Visconti per “le novità ideologiche e politiche, cioè la profonda revisione dei va-lori alla luce delle nuove esigenze morali e sociali”, che “parvero ri-manere estranee alla sua sensibi-lità, più ancora che ai suoi interes-si”. In altri termini: concepita nel ’67 e uscita nel ’69, La caduta degli dei avrebbe attraversato il fatidico anno di mezzo senza che questo aggiungesse linfa dialettica alla poetica del regista. Anzi, a detta di Pasolini, l’antico artista devoto alla giustizia sociale avrebbe pro-dotto un’opera utile ai reazionari di tutte le bandiere.Il fatto è che Visconti non è mai univoco. L’uomo di sinistra militò sempre, pur senza tessera, nel par-tito di Togliatti, ma il cineasta era multiforme e ambiguo, capace di passare dall’affresco neorealista (Bellissima) al saggio teatrale (Le notti bianche), dal verismo gram-sciano (La terra trema) al cocktail di Mann & Proust (Morte a Vene-zia). Ne La caduta degli dei i numi tutelari, dichiaratissimi, sono ancora Mann, con i Buddenbrook, e Shakespeare, con Macbeth, e i due riferimenti erano ancora più evidenti nel trattamento origina-rio. Nell’evoluzione del progetto entrarono poi altri amori: Dostoe-vskij, Musil, Wagner, Freud, Marx, tutta la letteratura storica sul Terzo Reich, in un amalgama non sempre fluido e convincente ma ovviamente ricco di stimoli. Il tono è in fondo esplicito, e a tratti, dalla fascinazione per il proprio passato di aristocratico, dai privatissimi rovelli sulla deca-denza della propria famiglia, dal culto di memoria e nostalgie, ri-sorge l’antico compagno di strada del Pci, che apre e chiude la pelli-cola con immagini di lavoratori fra le scintille degli altiforni (le riprese furono girate a Terni, nel-le acciaierie oggi ThyssenKrupp, cioè proprio gli eredi delle dina-stie industriali alluse nel film), a ricordare anche iconicamente ciò che il film dice peraltro più volte: che il nazismo è cresciuto insieme

e grazie alle ambizioni dell’avidità capitalista. Anche se al montaggio non c’è più il compagno Serandrei ma Ruggero Mastroianni, l’ulti-ma inquadratura è chiarissima, esplicita, eizensteiniana: il saluto nazista di Helmut Berger va in so-vrimpressione sulle scintille delle acciaierie: l’ideologia hitleriana che si sovrappone alla produzione del capitale.

ANCHE GLI DEI QUALCHE VOLTARIDONO

La caduta degli dei è un coacer-vo di vecchi progetti e di nuove ibridazioni, un saggio engagé sul connubio tra ideologia fascista e arroganza capitalista, una variante delle tante autobiografie familiari che Visconti sottese nei suoi film, e una ricostruzione storica dell’in-tera parabola nazista lumeggiata per sommi capi, dall’incendio del Reichstag ai suicidi finali nel bun-ker di Berlino. Dentro le due ore e mezza del film c’è letteratura, me-moria nostalgica, impeto socia-lista, gusto decadente, autobio-grafismo perverso, melodramma frollato e andato a male. Però forse l’elemento più sor-prendente del film è la forma, curiosamente poco analizzata nei tanti studi sulla pellicola: su sce-nografie (di Pasquale Romano), arredi (di Enzo Del Prato) e costu-mi (di Piero Tosi e Vera Marzot) assai precisi, lo stile di ripresa non è quello composto del Gattopardo o di Morte a Venezia; l’approccio è moderno, apparentemente dis-sonante, si nutre molto di primi piani, non disdegna zoomate e az-zarda perfino brevi correzioni sul movimento della panoramica. I pranzi di casa von Essenbeck sono allestiti con tutta la cura che l’ag-gettivo “viscontiano” può sugge-rire, i tagli di luce irrorati da Nan-nuzzi e De Santis sono sontuosi, la

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messa in scena è irrealistica e tea-trale, e invece il lavoro degli ope-ratori (Nino Cristiani, Giuseppe Berardini, Mario Cimini) appare prosaico e realistico, a volte quasi sciatto e “sbagliato”. È forse una conseguenza del progetto origi-nario, che prevedeva l’inclusione di materiale di repertorio, a petto del quale riprese realizzate pla-cidamente in studio avrebbero creato un contrasto eccessivo; in moviola però Visconti si accorse che fiction a colori e documento in bianco e nero avrebbero co-munque prodotto troppo stridore e ne fece a meno. Ma forse la scel-ta di filmare in modo meno classi-co fa anche parte di un approccio consapevolmente disturbante, aggressivo, per portare più vicini allo spettatore, a una sensibilità moderna, fatti e ragionamenti ambientati in un’epoca di trenta e passa anni prima (qualcosa del

genere si è visto in Une vie, 2016, di Stéphane Brizé, dramma ottocen-tesco da Maupassant girato tutto macchina a mano). Come a dire: non crediate che questo sia il pas-sato, tutto ciò che qui si racconta può continuare, ripetersi, tornare. E indubbiamente vengono i brivi-di a sentire l’SS dire all’imprendi-tore “Siamo vicini alle elezioni. E dobbiamo vincerle a tutti i costi se vogliamo che siano le ultime”; perché pure nei tempi presenti la più distorta delle dittature può nascere da un’accorta manipola-zione del voto democratico.Quello che semmai oggi nuoce al film è il doppiaggio: anche se si tratta di voci sublimi (Luigi Van-nucchi, Anna Miserocchi, Sergio Graziani, Giancarlo Giannini), e la sovrapposizione di dialoghi in studio su corpi in libero mo-vimento ha un effetto di strania-mento non lontano da certi effetti

“teatrali” cercati da Visconti, il film indubbiamente respira a pie-ni polmoni solo nella naturalezza della presa diretta, dove si passa (incongruamente) dal doppiag-gio italiano alla colonna sonora in lingua tedesca. Soprattutto nei quindici minuti filati di deboscia e massacro della Notte dei lunghi coltelli, versione corrotta e crimi-nosa del ballo gattopardiano. E anche se il titolo che avrebbe vo-luto Visconti, il wagneriano Gött-erdämmerung, è sempre indicato fra parentesi dopo quello italiano, non esiste una versione originale in lingua tedesca perché i dialoghi del cast principale avvennero in un terzo idioma, l’inglese. Umber-to Orsini raccontò a Goffredo Fofi e Franca Faldini dei suoi sforzi per tener testa in scena ad attori ma-drelingua o che l’inglese lo cono-scevano comunque meglio di lui, e del suo abituale escamotage –

farsi recitare le proprie battute in inglese da un membro del cast e registrarle per impararle con agio e con la benevolenza di un colle-ga che si sentiva anche investito di un incarico di “insegnante” (in questo caso si trattò di Bogarde). “Durante la mia sparata a tavola nella Caduta degli dei - raccontava Orsini - c’era Nora Ricci seduta davanti a me e se ne uscì con una battuta che poi Luchino, diverti-to, si faceva sempre ripetere. Dis-se, nella sua voce inconfondibile: ‘Come sono carini questi grandi attori stranieri, come sono educa-ti, poverini, stanno ad ascoltare il cinese di Umberto come se fosse inglese’. Luchino si divertì da mo-rire a questa battuta di Nora. Ogni tanto se la faceva ridire, quando gli piaceva un’arguzia era persino noioso”. Anche gli dei, qualche volta, ridono.

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latestSCANNER GEOGRAFIE

COMPLEANNI

RICORDI

PRO E CONTRO

CINEMA ESPANSO

FOCUS HONG KONG

INTERNET E NUOVI CONSUMI

68 Il mercato dei film europei fuori dall’Europa di Iole Maria Giannattasio, Monica Sardelli, Bruno Zambardino

77 In cerca di identità alle porte della Cina di Stefano Locati

82 La scena indipendente post-handover: documentare il territorio di Winnie L.M. Yee

84 La Formula rossa di Cronenberg di Hilary Tiscione

86 Ritratti in Polaroid, il lato mistico della Mostra di Carmen Diotaiuti

88 L’apocalisse a Roma di Cristiana Paternò

90 Sophia Loren e la magia di Santo Spirito di Oscar Iarussi

92 Gli 80 anni di Maurizio Ponzi di Caterina Taricano

94 Il compleanno di Marco Bellocchio. La vocazione per la sfida è sempre “ot-tanta” di Anton Giulio Mancino

96 Mattia Torre (1972-2019) Godere della vita di Fabiana Sargentini

97 Ilaria Occhini (1934-2019) Una “Gemma” fragile e determinata di Federico Bondi

98 Carlo Delle Piane (1936-2019) Molto più di un caratterista di Steve Della Casa

100 Italy for Movies, l’Italia che si gira con un’app di Carmen Diotaiuti

102 La solitudine dei numeri 1 di Emanuele Rauco

104 BIOGRAFIE

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scanner

IL MERCATO DEI FILM EUROPEI FUORI DALL’EUROPADI IOLE MARIA GIANNAT TASIO, MONICA SARDELLI, BRUNO ZAMBARDINO

Solo un film su 10 prodotti in Europa arriva a varcare i confini

del Vecchio Continente e nel 2017 si conta un totale di 671 titoli.

L’Italia si posiziona al quinto posto dopo Francia e Gran Bretagna

che insieme costituiscono il 52% del totale film esportati fuori

dall’Europa, seguono Spagna e Germania.

Le misure di sostegno alla circolazione delle opere italiane

all’estero sono imperniate su tre strumenti: agevolare

le coproduzioni internazionali; aumentare gli interventi

sullo sviluppo e creare strumenti ad hoc per promuovere

le opere all’estero.

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Un recente rapporto dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo dal titolo “The circulation of European films outside Europe. Key figures 2017” fa un’approfondita analisi del mercato dei film europei che cir-colano al di fuori del Vecchio Continente. I mercati extra-europei presi in considerazione sono 12 e spaziano da Nord America, America Latina, Australia-Nuova Zelanda e China-Sud Corea. L’analisi fa riferimento, tra le altre cose, al numero di film europei usciti al cinema nel 2017 nei pa-esi del campione, alle admissions, ovvero il numero di biglietti generati dai film, e ai ricavi al botteghino.

I FILM EUROPEI ESPORTATI FUORI DALL’EUROPA

L’Osservatorio europeo dell’audiovisivo stima in 6.885 i film europei usciti al cinema in tutto il mondo. Di questi, il 48% ha avuto una diffu-sione solo nazionale, mentre il restante 52%, consistente in 3.567 film, è stato esportato. Si tratta della cifra più alta degli ultimi 5 anni. La maggior parte dei film europei del 2017 è uscito in almeno un merca-to europeo (98%) mentre solo il 10% dei film europei ha ottenuto diffu-sione fuori dall’Europa, in linea con quanto accaduto nel quinquennio precedente.

Film europei usciti per regione (2013-2017)

Fonte: Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore

L’analisi conta dunque 671 film europei usciti al cinema nel 2017 in al-meno uno dei 12 mercati del campione: sebbene in crescita rispetto agli ultimi 5 anni, solo un film su 10 prodotti in Europa arriva a varcare i con-fini del Vecchio Continente.

Film usciti 2013 2014 2015 2016 2017 Media 5 anni

Nel mondo 4.973 6.261 6.297 6.719 6.855 6.221

Europa 4.826 6.137 6.190 6.583 6.714 6.090

Fuori Europa 566 589 599 650 671 615

Quota Europa 97% 98% 98% 98% 98% 98%

Quota fuori Europa 11% 9% 10% 10% 10% 10%

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Se si considerano solo i film in pri-ma visione, ovvero che non sono mai usciti al cinema fuori Europa prima del 2017, il numero stimato di film è 435, un dato che indica che il 65% dei film europei usciti fuori dal nostro continente viene visto per la prima volta nel 2017, il restante 35% è stato posticipato o riproposto.

I 671 film europei rappresentano il 19% dell’offerta di film fuori dall’Europa, su un totale di circa 3.500. Questo significa che un film ogni 5 usciti al cinema fuori dall’Europa è europeo. La per-centuale varia dal 25% dell’Ame-rica Latina all’11% dell’Asia rap-presentata da Cina (5%) e Corea del Sud (23%). Se si considerano solo le prime uscite, la percentuale dei film eu-ropei nei paesi extra Europa sale al 21% su un totale di 2.391.

ADMISSIONS

I film europei hanno generato 470 milioni di admissions totali, per un guadagno stimato che si aggira in-torno ai 3,1 miliardi al box office. Il 79% dei biglietti è stato stac-cato nei mercati europei e anche la maggior parte dei guadagni, il 78%, è avvenuta in Europa.I 671 film esportati hanno gene-rato, invece, cumulativamente, 97 milioni di biglietti nei mercati extra-europei. Questo numero è superiore alla media degli ultimi 5 anni e rappresenta il 21% del tota-le admissions dei film europei.

I 97 milioni di biglietti rappre-sentano solo il 3% del merca-to dei biglietti venduti fuori dall’Europa, che, in termini assoluti, vale 3,69 miliardi di bi-glietti. La quota sale al 30% in Europa, dove i biglietti per i film europei sono stati 374 milioni su un totale di 1,25 miliardi.

Grazie ad una crescita del 69% sul 2016 e al declino delle admis-sions dei film europei nel mer-cato nordamericano, nel 2017 la Cina è per la prima volta il primo

I film europei usciti fuori dall’Europa, 2013-2017 (stime)

Admissions film europei fuori dall’Europa, 2013-2017 (stime)

Fonte: Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore

Fonte: Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore

566

2013

2013

2014

2014

2015

2015

2016

2016

2017

2017

12%10% 10% 10%11%

589 599650 671

615

Film europei usciti fuori dall'Europa

Share film usciti fuori dall'Europa sul totale film europei

10%

Media 5 anni

80

20% 18% 24% 21%19%

82

108

82

97

90 min

Admissions film europei usciti fuori dall'Europa (mln)

Share admission mondiali dei film europei generate fuori dall'Europa

20%

Media 5 anni

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I PAESI DI ORIGINE

Nel 2017 Francia e Regno si con-fermano al primo posto in termini di uscita di film fuori dall’Euro-pa. La Francia guida la classifica dei primi rilasci con 147 film su un totale di 201 film usciti in uno dei 12 paesi campione. Segue il Regno Unito con 103 primi rilasci su un totale di 147 film esportati. Entrambi contano, cumulativa-mente, per il 52% del totale film esportati fuori dall’Europa.

Al terzo posto si piazza la Spagna, che ha totalizzato 47 primi rilasci su un totale di 61 film. Seguono Germania con 36 primi rilasci su 45 e Italia con 34 primi rilasci su un totale di 43 film. L’Italia, dun-que, si posiziona al quinto posto dopo Francia, Gran Bretagna, Spagna e Germania, con una per-centuale del 6% sul totale di 671 film europei.

I due paesi dominano anche il mercato dell’esportazione dei film europei, totalizzando, assie-me, il 66% delle admissions totali di film europei che finiscono fuori dal continente sebbene si intrave-dano moderati segni di diversifi-

paese importatore di film euro-pei, passando dai 21,2 milioni di biglietti del 2016 ai 35,8 milioni del 2017 e rappresentando il 37% delle admissions dei film euro-pei fuori dall’Europa. Il declino delle admissions nel Nord Ame-rica si traduce in 27,1 milioni di biglietti, con una quota del 28%, sebbene, a causa del costo più alto dei biglietti, il mercato ri-manga il più grosso in termini di ricavi al box office, contando per il 41% del totale.

Ragionando in termini di titoli, quelli che generano un numero si-gnificativo di biglietti staccati fuo-ri dall’Europa sono pochi. 63 film su un totale di 671 film europei distribuiti fuori Europa raccolgo-no il 90% delle admissions fuori dal vecchio continente: in pratica 9 biglietti su 10 tra quelli staccati fuori dall’Europa fanno riferi-mento solo a 63 film europei, che, cumulativamente, hanno vendu-to 86,9 milioni di biglietti. 8 film su 10 (81%) hanno venduto meno di 50.000 biglietti fuori dall’Europa mentre il 30% ne ha venduti meno di un migliaio. 5 film (due in più del 2016) hanno venduto più di 5 milioni di biglietti.

RICAVI AL BOX OFFICE

Facendo una media dei prezzi locali di vendita, l’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo stima che i film europei hanno generato ricavi al botteghino per 528 mi-lioni di euro fuori dall’Europa. In percentuale, il 18% dei guadagni dei film europei è stato ottenu-to fuori dall’Europa. In testa tra i paesi importatori di film europei troviamo il Nord America, a causa di un costo dei biglietti più alto. La stima dei ricavi è di 216 milio-ni di euro, ovvero il 41% del totale ricavi extra-europei. Crescono Cina e Corea del Sud, che contano per il 36%, corrispondente a 192 milioni, l’America Latina ha fatto guadagnare ai film europei 68 mi-lioni, Australia e Nuova Zelanda seguono a distanza, totalizzando insieme 52 milioni di euro.

41%

82%

13%

41% Usa e Canada € 216 milioni36% Cina e Sud Corea €192 milioni13% America Latina €68 milioni10% Australia e Nuova Zelanda €52 milioni

82% Diffusione solo nazionale13% Diffusione europea4% Diffusione extra-europea

36%

13%

10%

Ricavi al box office per area geografica, 2017 (€ e %)

cazione. Nel 2017 il Regno Unito ha venduto infatti 31,7 milioni di biglietti fuori dall’Europa e si po-siziona di poco dietro alla Francia, con 31,8 milioni. Segue a distanza la Spagna, le cui produzioni han-no generato 12,1 milioni di bigliet-ti (13%), la Russia (5,1 milioni), la Germania (4,5 milioni), il Belgio e la Polonia (3,4 milioni ciascuno).L’Italia si posiziona nona dopo Francia, Gran Bretagna, Spagna, Russia, Germania, Belgio, Polo-nia e Irlanda, tutte con admissions superiori al milione. Il nostro pa-ese ha infatti totalizzato 874.628 admissions (l’1% del totale) di cui 862.233 relative a film di prima uscita. La percentuale di admis-sions italiane fuori dall’Europa rispetto al totale è di appena il 4%, contro il 13% di film italiani ammessi in altri paesi europei e il restante 82% con diffusione solo nazionale. Il dato è piuttosto significativo se si pensa che il pa-ese con la percentuale più alta di admissions in Europa è il Regno Unito, con il 44% ma che ben tre paesi (oltre a Gran Bretagna an-che Belgio e Spagna) hanno gene-rato più di un terzo delle proprie admissions al cinema proprio fuori dall’Europa.

Quota admissions film italiani, 2017 (%)

Elaborazioni su dati Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore Elaborazioni su dati Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore

528 milioni di euro

874.628admissions

4%

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Film italiani usciti nei 12 paesi extra-europei, 2017

Elaborazioni su dati Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo/Lumière, Comscore

14Brasile

Argentina

USA

Australia

Messico

Colombia

Sud Corea

Cile

Venezuela

Canada

N. Zelanda

Cina

12

10

9

4

4

3

3

2

2

1

0

di Paolo Genovese, uscito in 3 paesi, 188.344 admissions di cui 107.184 in America Latina e 81.160 in Australia/Nuova Zelanda.Il paese tra i 12 del campione in cui sono usciti più film italiani è il Brasile, con 14 film, seguito da Argentina e Stati Uniti. In Brasile l’Italia è quarta tra i paesi europei che esportano più film dopo Fran-cia, Regno Unito e Germania con una percentuale dell’8% sul totale film europei usciti nel paese e del 2% sul totale film usciti.

Nella classifica dei film che han-no staccato più biglietti bisogna scendere in trentatreesima po-sizione per trovare un film che abbia l’Italia come paese di ori-gine: si tratta di Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino, co-prodotto assieme alla Francia nel 2017, uscito in 4 mercati, 455.607 admissions fuori dall’Europa, la maggior parte (439.186) nel Nord America, il resto (16.421) in Australia e Nuova Zelanda. Al sessantacinquesimo posto un film del 2016, Perfetti sconosciuti,

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Gli Stati Uniti sono il primo pa-ese importatore di film italiani sia per quanto riguarda i biglietti venduti che per ricavi al box of-fice. I biglietti venduti sono stati 436.976, il triplo di quelli venduti del secondo classificato, ovvero il Brasile. L’Italia è il sesto paese

Admissions film italiani nei 12 paesi extra-europei, 2017

Fonte: Elaborazioni su dati Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo

436.976USA

Argentina

Australia

Brasile

Messico

Canada

Colombia

Cile

Sud Corea

Venezuela

N. Zelanda

Cina

146.519

106.570

50.812

40.122

28.022

26.108

21.779

9.107

7.463

1.150

0

europeo per admissions e ricavi in USA, dopo Regno Unito, Francia, Spagna, Germania e Polonia. In termini percentuali, i biglietti per film italiani rappresentano il 2% del totale biglietti europei e l’1% del totale biglietti staccati al ci-nema negli States.

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I film italiani hanno guadagnato, negli Stati Uniti, poco più di 3,4 milioni di euro, il triplo rispetto ai ricavi ottenuti in Australia. In termini percen-tuali i ricavi dei film italiani rappresentano il 2% del totale ricavi di film europei fuori dall’Europa.

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Ricavi al box office dei film italiani nei 12 paesi extra-europei, 2017 (€)

Fonte: Elaborazioni su dati Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo

3.449.577

1.029.196

769.257

221.218

211.862

95.763

89.847

68.192

57.477

26.470

8.787

0

USA

Australia

Argentina

Canada

Brasile

Cile

Messico

Colombia

Sud Corea

Venezuela

N. Zelanda

Cina

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LE MISURE ITALIANE PER FAVORIRE LA CIRCOLAZIONE INTERNAZIONALE DELLE OPERE NAZIONALI

L’analisi dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo, rimarcando le potenzialità ancora non pianamente sfruttate dalla produzione italia-na, conferma la necessità di misure di sostegno alla circolazione delle opere nazionali all’estero. La legge 220/2016 ha fortemente incrementato l’investimento sull’in-ternazionalizzazione del settore per far crescere l’industria, renderla competitiva sul mercato globale e capace di rappresentare il pluralismo di voci e di storie che la cultura italiana custodisce e coltiva.

In particolare le azioni si sono imperniate su tre strumenti:

1. agevolare le coproduzioni internazionali; 2. aumentare gli interventi sullo sviluppo;3. creare strumenti ad hoc per promuovere le opere all’estero.

È noto che le opere in coproduzione hanno una marcia in più sul merca-to internazionale anche al di fuori dei paesi d’origine. L’Italia è uno dei paesi europei ad alta capacità produttiva. Ogni anno il numero di lun-gometraggi cinematografici prodotti aumenta. Nel 2018 si è arrivati alla cifra record di 273 film. Eppure, in proporzione, il numero di coprodu-zioni è ancora troppo basso, anche se si registra finalmente una crescita nei valori assoluti. Nel 2018, sui 273 film prodotti, 26 sono coproduzioni maggioritarie, 1 paritaria e 13 minoritarie, ossia meno del 15% della produzione com-plessiva di film.D’altro canto, analizzando i dati sulla circolazione internazionale del quinquennio 2014-2018, si nota che su 38 film italiani venduti in almeno 10 paesi, 31 sono coproduzioni, ossia oltre l’80%. E più il numero di pa-esi raggiunti aumenta, più il tasso di coproduzioni sale fino a diventare il 100%.È evidente quindi che il provvedimento più lungimirante da attuare è fa-cilitare questo tipo di assetto produttivo che naturalmente gode di mag-giori opportunità e attrattività al di fuori dei nostri confini. Nel nuovo sistema di aiuti statali che da due anni sostiene la produzione italiana, è stato messo in pratica questo obiettivo con una moltitudine di misure, le quali, oltre a dare vantaggi economici, favoriscono la realizzazione di opere che per loro natura presentano sfide più grandi di quelle pura-mente nazionali.Il fondo statale per l’audiovisivo ha un budget annuale di almeno 400 milioni di euro. Un’ampia porzione di questa dotazione è destinata alla produzione e, in tutti gli schemi di aiuto, sono previsti vantaggi, facilita-zioni e bonus per le coproduzioni alle quali è anche dedicato un fondo ad hoc per le minoritarie, diversi fondi bilaterali destinati al co-sviluppo e due nuovi fondi bilaterali per la coproduzione, uno con la Francia già in vigore, e uno col Brasile di prossima apertura.

Sempre in favore delle coproduzioni e della collaborazione con paesi extra-europei, strategica è stata l’entrata dell’Italia in Ibermedia, il fon-do che sostiene le coproduzioni ibero-americane. L’Italia è il primo pae-se non di lingua spagnola o portoghese ad avere accesso a questo fondo, grazie alla vicinanza culturale e storica ai paesi dell’America latina dove per altro la presenza di cittadini di origine italiana è considerevole.

Guardando a est, la Cina emerge dal rapporto dell’Osservatorio come un mercato chiave e l’Italia ha attivato da anni un progetto di collaborazione in cui sono coin-volti anche il Ministero degli affari esteri e della cooperazione inter-nazionale, l’ANICA, l’Istituto per il commercio estero e l’Istituto Luce Cinecittà.

Se il sostegno alla coproduzione è evidentemente la prima e la più scontata delle azioni per promuo-vere la circolazione delle opere all’estero, questa da sola non ba-sta a garantire la capacità di attrat-tività sui pubblici internazionali. Un altro decisivo strumento è quindi l’investimento sullo svi-luppo. La fase dello sviluppo è essenziale a garantire la qualità fi-nale dell’opera, per l’opportunità di sperimentare linguaggi e gene-ri, cimentandosi in linee creative diverse e innovative. Attraverso questa ricerca l’industria accre-sce la propria capacità di offrire una varietà di prodotto che possa intercettare i bisogni culturali di tutte le fasce di spettatori nazio-nali e internazionali.

Con questo in mente, è stato at-tivato un aiuto selettivo dedicato alla scrittura ed erogato diretta-mente agli sceneggiatori. È un aiuto per gli autori che ancora non hanno un produttore e che grazie a questo sostegno possono mettere a punto autonomamente un progetto creativo da proporre a chi sarà poi in grado di portarlo sullo schermo. Ma anche i produttori stessi pos-sono avvalersi di una linea di so-stegno dedicata allo sviluppo e pre-produzione, congegnata per le società alle prese con le pri-me cruciali fasi di lavorazione di nuovi progetti. Questi fondi per lo sviluppo, pe-raltro, non impongono condizio-ni riguardo alla effettiva realizza-zione dell’opera, ma puntano a incoraggiare i filmmaker indipen-denti nell’esplorazione di raccon-ti originali adatti ai vari formati e generi che gli spettatori di tutto il mondo, sempre più raffinati nel loro gusto, cercano.

Inoltre, unendo i due obiettivi, os-sia l’impegno nello sviluppo e le partnership internazionali, sono stati creati dei fondi che sosten-gono i produttori nel partecipare ai più prestigiosi laboratori e wor-kshop dove essi possono avvalersi di assistenza professionale di alto livello per far maturare i progetti sia sul piano artistico sia sul piano produttivo.

L’altro cruciale tassello, una volta realizzate opere attraenti per ter-ritori diversi, è quello di facilitare l’accesso in tali aree. A questo sco-po sono stati istituiti i fondi per l’internazionalizzazione che aiu-tano a portare i progetti ai princi-pali festival e mercati internazio-nali e garantiscono contributi ai distributori italiani e ai venditori esteri che diffondono i film italia-ni su altri mercati.

È evidente che le azioni per agevo-lare la circolazione delle opere ita-liane all’estero devono combinare strumenti diversi che sciolgano le eventuali strozzature presen-ti nelle varie fasi del ciclo di vita dell’opera in maniera sinergica e siano guidate da una visione pro-spettica di ampio raggio.

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FO

CU

S H

ON

G K

ON

G

CAPITALEHong Kong

POPOLAZIONE 7.482.500 circa

DENSITÀ6.777 persone per km2

SUPERFICIE 1.108 km2

VALUTA dollaro di Hong Kong

NOME UFFICIALE中華人民共和國香港特別行政區,

Regione ad amministrazione speciale della Repubblica Popolare Cinese

CHIEF EXECUTIVECarrie Lam (dal 2017)

LINGUA mandarino/cantonese e inglese

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DI STEFANO LOCATI

IN CERCA DI IDENTITÀ ALLE PORTE DELLA CINA

Negli ultimi decenni del XX se-colo, Hong Kong è stato una delle più stupefacenti fucine dell’immaginario popolare a li-vello mondiale. Il cinema – in particolare quello di genere – ha trasformato gli spazi formicolanti di umanità della città-stato in un crogiolo di miti. Dai film di cava-lieri erranti di King Hu negli Anni ‘60 agli scontri marziali di Bruce Lee negli Anni ‘70, dai sanguinosi balletti con pistole di John Woo negli Anni ‘80 alle complicate geometrie sentimentali dei film

di Wong Kar-wai e Stanley Kwan nei ‘90, l’industria cinematografi-ca di Hong Kong è stata in grado di creare, talvolta persino incon-sapevolmente, un’estetica e un linguaggio inconfondibili e unici, negli anni successivi ripresi (o ba-nalmente copiati) in tutto il mon-do – in primo luogo a Hollywood.

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Il cinema di Hong Kong di questi anni evoca un’idea di scanzonata anarchia in cui le uniche rego-le sono la sorpresa costante e la sovversione delle aspettative dello spettatore. I film sono ani-mati da un ricorrente gruppo di attori, volti sempre più noti che si trasformano in icone: le smor-fie gommose di Stephen Chow, le pistole fumanti di Chow Yun-fat, le contorsioni tra kung-fu e slap-stick di Jackie Chan, i voli in rotta con qualsiasi legge fisica di Jet Li e Michelle Yeoh, le struggenti emozioni evocate da Anita Mui e Leslie Cheung, il carisma sgua-iato di Sandra Ng – sono solo gli esempi più immediati di un’in-dustria incontenibile, che ha co-niugato impunemente quantità e qualità media. In questo con-testo, i generi cinematografici si confondono e intersecano, uno stesso film può passare dalla comicità alla tragedia nel giro di un’inquadratura, i movimenti di macchina più studiati possono convivere con ingenuità sperico-late sul piano narrativo, il tutto raccordato da colonne sonore melense di cantopop.

Questo sistema produttivo iper-trofico è arrivato a sfornare cen-tinaia di pellicole all’anno, spesso in attivo ancora prima di essere distribuite nelle sale, grazie alla vendita dei diritti nei Paesi della diaspora cinese, da Taiwan alla Malesia, fino alle Chinatown dis-seminate in ogni dove. Un terri-torio infinitesimale è arrivato a essere la terza industria cinema-tografica dopo Stati Uniti e India. Si tratta però di un sistema desti-nato all’implosione, con una data di scadenza ineludibile: il 1997 è il limite del passaggio da colonia britannica a regione speciale del-la Repubblica Popolare Cinese, secondo la formula “una nazio-ne, due sistemi” (yiguo liangzhi) voluta da Deng Xiaoping. In que-sto modo la città e i territori cir-costanti dovrebbero mantenere l’alterità rispetto alla madrepatria, almeno fino al fatidico 2046.

Per definire il 1997 e la fine del periodo coloniale, sono state uti-lizzate due parole contrastanti: in inglese handover (ovvero “cessio-ne”, “consegna”), in cinese huigui (ovvero “ritorno”). La differente

accezione semantica dei due ter-mini rivela la distanza tra i punti di vista: un allontanamento o un avvicinamento, a seconda della sponda da cui si osserva il feno-meno. In entrambi i casi Hong Kong è guardata dall’esterno. La data della riconsegna/ritorno era conosciuta almeno fin dal 1984, quando Margaret Thatcher e l’al-lora premier cinese Zhao Ziyang si trovarono a un tavolo (a cui non erano presenti rappresentanti hongkonghesi) per firmare lo sto-rico accordo che prevedeva la gra-duale normalizzazione del territo-rio. Da allora il 1997 ha cominciato a rappresentare uno spartiacque psicologico anche per l’industria cinematografica. Si possono così distinguere due momenti per il cinema di Hong Kong, uno ante-cedente e uno successivo al 1997.

Nel descrivere il prima, Ackbar Abbas ha parlato di déjà disparu, ovvero di un cinema-in-vista-del-la-fine che rincorreva qualcosa in realtà di “già scomparso”. Nel momento in cui il cinema inizia a diventare consapevole dei propri mezzi e della propria specificità, deve arrendersi all’idea di non esserci più, perché il ritorno alla Cina significherà una metamorfo-si dai toni apocalittici e definitivi (secondo la visione corrente). Il cinema degli Anni ’80 e ‘90 è per-vaso così dal fantasma dell’han-dover: gli eccessi bulimici, sia a livello produttivo che narrativo, sono un effetto emergente di que-sta fantasmagoria. L’ossessione di Takeshi Kaneshiro per le scatolet-te di ananas scadute in Hong Kong Express di Wong Kar-wai (1994) può essere letta anche così: rin-corriamo perennemente ciò che non c’è, animati dall’idea illusoria di poterlo raggiungere.

Nel descrivere il dopo, invece, Vi-vian Lee ha parlato di “immagina-zione post-nostalgica”, intenden-do un cinema rivolto all’indietro che rimpiange un costrutto in re-altà mai realmente compiuto, che ricostruisce e mette in scena una nozione di Hong Kong mai espli-catasi. Sospesa tra la pressione co-loniale inglese e la forte ingerenza cinese, Hong Kong sperimenta

un post-colonialismo atipico, o “post-colonialismo liminale”, come lo ha chiamato John Nguyet Erni, in cui è negata l’indipen-denza, e questo si riflette natural-mente anche sul tipo di cinema prodotto. Dopo il 1997 i film locali sono dilaniati da diversi istinti, si muovono in diverse direzioni che ne trasformano profondamente la natura – tanto che si è sempre più spesso parlato della morte del cinema di Hong Kong, per come inteso tradizionalmente.

In questo processo di mutazione, diminuisce drasticamente il nu-mero di film prodotti, di conse-guenza frammentandosi la forza del cinema medio, che si livella verso il basso, anche per la perdi-ta di appeal sui Paesi circostanti come Taiwan e Malesia, un tem-po grandi importatori di pellicole hongkonghesi e ora impegnati nel tentativo di rilancio delle proprie cinematografie nazionali. Qual-che anno fa, insieme a Emanue-le Sacchi, abbiamo ragionato su questo scenario inedito, raggrup-pando gli sviluppi del “nuovo” cinema di Hong Kong in tre dire-zioni complementari.La prima direzione riguarda le grandi produzioni, con budget consistenti, sempre più orienta-te verso il mercato continentale cinese. Il prototipo di questo svi-luppo è il successo internaziona-le del ricercato e pretenzioso film storico Hero (2002), diretto dal regista cinese Zhang Yimou, ma costellato di star hongkonghesi e co-prodotto a Hong Kong. Le pellicole successive si adegua-no al modello produttivo e alle tensioni censorie proprie della Repubblica Popolare, in special modo da dopo il 2004, quando vengono firmati gli accordi bila-terali CEPA (Closer Economic Partnership Arrangement). Gli accordi facilitano le co-produ-zioni e quindi consentono di considerare i film hongkonghesi come autoctoni, in grado di esse-re liberamente distribuiti su tutto il territorio cinese. Con il mec-canismo delle co-produzioni il cinema di Hong Kong guadagna l’accesso diretto al più vasto mer-cato nazionale del mondo, in ter-

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mini di potenziali spettatori, in un momento storico tra l’altro in cui le maestranze di Hong Kong sono considerate fondamentali anche per la rinascita e il rilancio del cinema cinese – come Hero aveva reso evidente. Se da un lato questo amplia le possibilità e lo scopo dei film, dall’altro snatura la specificità hongkonghese.Oggi, a oltre vent’anni dall’hando-ver e a quindici da CEPA, è sempre più difficile distinguere tra i cine-ma dei due blocchi sinofoni. Da imprenditori accorti, ad esempio, sia il comico Stephen Chow che il funambolo ormai maturo Jackie Chan hanno trasferito le loro basi operative in Cina, producendo film pantagruelici per le masse. La commedia fantastica in costu-me Journey to the West: Conquering the Demons (2013) e il suo seguito Journey to the West: Demon Chapter (2017), o la favola ecologista The Mermaid (2016), ricostruiscono la comicità stralunata e nonsense di Chow per un pubblico diverso. Le ultime fatiche attoriali di Chan a produzione cinese, da Dragon Blade (2015), Skiptrace (2016) e Bleeding Steel (2017) al più recen-te The Knight of Shadows: Between Yin and Yang (2019) lo riposizio-nano come saltimbanco rassicu-rante e carismatico che ha tirato il freno a mano. Rispetto all’inizio del nuovo millennio, quando ad esempio la sontuosa trilogia noir di Infernal Affairs (2002-2003) diretta da Andrew Lau e Alan Mak trovava difficoltà con la censura – tanto che per il primo film si è do-vuto girare due finali diversi, uno internazionale e uno per il mer-cato cinese – è cambiato tutto: c’è stata una saldatura completa tra blockbuster di Hong Kong e cine-si; questi ultimi escono rafforzati e ringiovaniti dal confronto con tecnici e idee dell’ex colonia. Ven-gono prodotti decisamente meno film, ma con una grandeur prima impensabile. Tra i più grandi in-cassi del mercato cinese nel 2018 figurano ad esempio film come l’action guerresco Operation Red Sea di Dante Lam e il sornione-in-vestigativo Project Gutenberg di Felix Chong, che sono appunto l’evoluzione di questo percorso di innesti reciproci.

lare Gippone, Thailandia e Corea del Sud. Nascono così l’omnibus horror Three (Peter Chan, Nonzee Nimibutr, Kim Jee-woon, 2002) e il suo seguito Three: Extremes (Fruit Chan, Miike Takashi, Park Chan-wook, 2004), oltre a suc-cessi internazionali come la saga horror di The Eye (Danny e Oxide Pang, 2002). Ci sono stati altri tentativi, come lo storico-filosofi-co A Battle of Wits (Jacob Cheung, 2006), che vede la partecipazione di Cina, Corea e Giappone, ma con il passare degli anni Hong Kong perde attrattiva e terreno,

rimanendo importante solo come hub di conoscenze. Oggi è fonda-mentale ad esempio il ruolo di networking di HAF (Hong Kong Asian Film Financing Forum), attivo dal 2000 e che da allora, in concomitanza con l’Hong Kong International Film Festival, riuni-sce i maggiori produttori dell’area per trovare finanziamenti e facili-tare co-produzioni.Infine, la terza direzione è quella di un cinema sempre più aper-tamente locale, in cui a budget striminziti corrisponde un’at-tenzione prima impensabile per

La seconda direzione è quella della co-produzioni panasiati-che. Da polo finanziario della re-gione, Hong Kong ha cercato di mantenere una centralità negli interscambi interasiatici anche dal punto di vista cinematografi-co. In questa direzione si è speso in special modo il regista-pro-duttore Peter Chan, che nel 2000 fonda Applause Pictures con il preciso intento di produrre un cinema asiatico che coinvolga fondi, maestranze e idee non solo dal mondo sinofono, ma da tutta l’Asia orientale, in partico-

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il contesto sociale, economico e culturale dell’anomala Hong Kong. La presa di coscienza da parte di Hong Kong e del suo ci-nema della propria identità non è un effetto immediato dell’han-dover: matura a partire dal 2003, a sei anni di distanza, dopo un iniziale spaesamento. A portarla allo scoperto è il malgoverno di Tung Chee-hwa, chief executive della regione ad amministrazione speciale, incapace di arginare la crisi economica, colto imprepa-rato dall’epidemia di SARS (Seve-re Acute Respiratory Sindrome) diffusasi tra febbraio e maggio del 2003 e inizialmente sminuita, se non occultata, dalle autorità, e soprattutto sfiancato dal dibatti-to intorno al prospettato Articolo 23, che si sarebbe dovuto appro-vare a breve e che di fatto avreb-be introdotto nel territorio ad amministrazione speciale regole repressive per i reati di pensiero. Proprio l’ipotesi di questo cam-bio legislativo viene contrastata il 1° luglio 2003 da una manife-stazione di proporzioni oceani-che, raramente vista nel periodo coloniale. Gli abitanti di Hong Kong sono spinti a mettere in di-scussione la mentalità pragmati-co-quotidiana adottata durante il dominio inglese: molti iniziano a interessarsi del destino della pro-pria città – e di conseguenza alla loro identità ibrida.È solo il primo passo di una lotta estenuante, dagli obiettivi flui-di, in divenire, che si ripropone invariata prima nel 2014, con le proteste del cosiddetto Umbrella Movement, per la caratteristica presenza di ombrelli durante le manifestazioni a protezione dai gas lacrimogeni, e poi più di re-cente nel 2019, con la dramma-tica escalation in opposizione a una proposta legislativa che avrebbe permesso l’estradizione degli indiziati su suolo cinese. Tale progressivo cambiamento di mentalità influenza la percezione del cinema. Rimangono alcuni registi, fortemente legati alla pe-culiare realtà cantonese di Hong

Kong, che continuano a produrre piccoli film incentrati sui proble-mi quotidiani e sulla prospettiva locale. Ann Hui, storica regista della new wave hongkonghese di fine Anni ‘60, dirige alcuni dei più spietati e al contempo amorevoli ritratti delle zone più proletarie e dismesse della città in The Way We Are (2008), Night and Fog (2009) e nel toccante A Simple Life (2011). Herman Yau, paladi-no di un cinema di genere a basso budget capace di confrontarsi con le grandi produzioni, alterna mi-cro-blockbuster a film più intimi come Cocktail (2006), Whispers and Moans (2007) e Sara (2015), che ritraggono amorevoli perden-ti da una prospettiva stradaiola, colmi di riferimenti locali. Anche le commedie, orfane di Stephen Chow, ripiegano su una comicità sguaiata, sbruffona e sovente ir-riverente, radicata nel territorio e difficilmente esportabile – dal ta-glio nostalgico di Golden Chicken (Samson Chiu, 2002) alle intem-peranze verbali dei film più sboc-cati di Pang Ho-cheung, come Vulgaria (2012).

Il regista-autore che più di tutti probabilmente si fa carico di te-nere viva l’hongkonghesità è in ogni caso Fruit Chan. Fin dal fol-gorante Made in Hong Kong (1997), recentemente restaurato in 4K, tutto il suo cinema è una riela-borazione delle contraddizioni, aspirazioni, bassezze e slanci della città e dei suoi abitanti. Ai ritratti agrodolci dei vicoli e degli intar-si del caso presenti in Durian, Durian (2000) e Little Cheung (2000) si aggiunge un tono sem-pre più grottesco in Hollywood Hong Kong (2001), fino all’esplo-sione di allegorie politiche nei più recenti e incendiari The Midnight After (2014) e Three Husbands (2018). The Midnight After unisce i destini dei passeggeri di un mi-nibus notturno grazie a una svolta fantascientifico-apocalittica, con David Bowie come collante. Three Husbands è una gioiosa allegoria sessuale, sfrontata e diretta, che nonostante qualche dettaglio le-zioso di troppo, ha senso nel pre-sente clima di attesa e repressione che si respira nel quotidiano, col

suo parallelo tra famelica libera-zione sessuale e situazione locale.Questa terza strada è quella che conserva il sapore dei film di Hong Kong di un tempo, ma in un contesto completamente mutato. Il florilegio di generi proprio del passato – dal mèlo all’action, dal noir alla commedia, fino all’hor-ror e alle arti marziali – cambia di baricentro e si fa più intimo e riflessivo. Il che non vuol dire, nonostante le produzioni meno elaborate, che manchino grandi successi. L’esempio più sconcer-tante, anche e soprattutto per-ché scopertamente e fieramente politico, è l’omnibus Ten Years (2015), diretto da un quartetto di giovani semi-esordienti. Lo spun-to è quasi banale: le diverse storie immaginano come potrebbe esse-re Hong Kong tra dieci anni. Ma il particolare momento storico e la cura con cui è confezionato tra-sformano il film in un incredibile caso mediatico, fondato sul pas-saparola, tanto da spingerlo con-tro ogni previsione alle premia-zioni di gala degli Hong Kong Film Awards – con annesso incidente diplomatico con la Cina, che sce-glie di oscurare la diretta televisi-va in caso il film riceva dei premi. Ten Years dà anche il via a un pro-getto internazionale che si diffon-de in tutta l’Asia, con l’uscita nel 2018 di altre tre installazioni – Ten Years Taiwan, Ten Years Japan e Ten Years Thailand. Nonostante si tratti di film prodotti con la me-desima cura, e vi si trovino alcuni cortometraggi rigorosi, manca l’urgenza che ha reso l’originale significativo e indispensabile.

A tenere alto l’onore del cinema di Hong Kong in un momento tanto complesso sono soprattutto le nuove leve. Se a cavallo del nuo-vo millennio il destino dell’indu-stria locale, da un punto di vista qualitativo, era sostanzialmente nelle mani di Johnnie To e Wai Ka-fai – le due menti dietro alla casa di produzione Milkyway, che ha sfornato alcuni dei noir più roventi e formalmente innovativi degli ultimi decenni, da Too Many

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Ways to Be Number One (1997) a A Hero Never Dies (1998), da The Mis-sion (1999) a Election (2005) – oggi il testimone è passato a un pugno di registi che ha iniziato dopo l’handover e nel nuovo millennio. Non sono un movimento, né una nuova onda, lavorano isolati, in mezzo a continue difficoltà, ma stanno faticosamente costruendo un contesto condiviso. Innanzitutto, ci sono i due ex enfant terrible del cinema hon-gkonghese, Soi Cheang e Pang Ho-cheung. Il primo è passato dai perturbanti horror degli esordi a un film nichilista sulla disumaniz-zazione della violenza come Dog Bite Dog (2006), per approdare alle co-produzioni cinesi in gran-de stile con la trilogia fantastica di The Monkey King (2014-2018), di cui si salva solo il secondo episo-dio, un divertissement fracassone e al contempo empatico verso i personaggi. Pang Ho-cheung flirta sempre con le commedie giova-nilistiche, dai primi passi con gli sferzanti You Shoot, I Shoot (2001) e AV (2005) al recente, più affan-nato, Missbehavior (2019), anche se poi si è affermato grazie alla trilogia sentimentale iniziata con Love in a Puff (2010) e ha raggiunto la ma-turità con l’horror sullo sviluppo urbano Dream Home (2010). La ricerca formale del misogino e ac-cattivante Exodus (2007) rimane però a oggi insuperata.

Dopo di loro, hanno esordito molti altri registi promettenti, che purtroppo non hanno più il supporto di un sistema produtti-vo sano e solido e quindi possono girare con meno frequenza e con meno libertà. Derek Kwok ha ini-ziato con dei noir intimisti come The Pye-Dog (2007) e The Moss (2008), per proseguire con una irresistibile commedia nostalgica sulle arti marziali come Gallan-ts (2010, co-regia con Clement Cheng), mentre ora è passato a fanta-blockbuster con dispiego di effetti speciali come Wu Kong (2017), che nonostante tutti i di-fetti ha uno dei finali più destabi-lizzanti e antisistema degli ultimi anni. Wong Ching-po, dal canto suo, si è espresso al meglio nei noir Jiang Hu (2004) e Ah Sou (2005),

poi procedendo a fasi alterne, tra il raggelante Revenge: A Love Story (2010) e lo scoppiettante Let’s Go (2011). Un’altra storia di scalata al successo, questa volta però in-terna al sistema hongkonghese, è quella di Adam Wong: da un film che tratteggia con candore la sco-perta dell’omosessualità, When Beckham Met Owen (2004), arriva a sfondare con un film sulla dan-za, The Way We Dance (2013), che attrae numerosi spettatori locali grazie al passaparola. Oltre agli autori di Ten Years (Jevons Au ha ad esempio co-diretto anche l’in-teressante omaggio noir Trivisa, del 2016), ci sono poi registi per cui è ancora presto dire che siano autori, ma che hanno realizzato alcuni film promettenti, come nel caso di Mad World (Wong Chun, 2016) e Still Human (Chan Siu-ken, 2018), che affrontano la disa-bilità da prospettive diverse.

Tante anche le registe che si sono fatte notare negli ultimi anni. Dal calibrato e toccante esordio di Flora Lau con Bends (2013), al ci-nema misterico di Rita Hui (Dead Slowly, del 2009, e Keening Wo-man, del 2013), fino alla stralunata commedia sentimentale di Kea-ren Pang 29+1 (2017) e agli spleen

post-adolescenziali di Jody Luk con Lazy Hazy Crazy (2015). Mak Yan Yan ha invece esordito con l’etereo Ge Ge (2001), ma si è are-nata per il momento sul ritratto intricato e nostalgico di Merry Go Round (2010, co-regia di Clement Cheng), mentre Heiward Mak ha all’attivo l’esordio al fulmicotone High Noon (2008), cui sono segui-ti i purtroppo meno convincenti Ex (2010) e Diva (2012). L’indi-pendente Jessey Tsang, infine, che ha esordito con una serie di percorsi transmediali documen-

tari, si è poi cimentata nel mini-male Big Blue Lake (2011), salvo approdare nell’arena commer-ciale con la favola di educazione sessuale non troppo riuscita The Lady Improper (2019).

Il cinema di Hong Kong ha attra-versato una grande fase di ristrut-turazione. L’ammaliante abbrac-cio della Cina ha ormai inglobato il cinema commerciale e di genere con aspirazioni popolari, in per-corsi che stanno creando nuove ibridazioni, mentre il sogno pana-siatico rivive solo sporadicamen-te, in pochi selezionati progetti. A resistere è un inedito cinema locale sempre più efficace nel de-scrivere la quotidianità schizofre-nica degli hongkonghesi, con un taglio amaro e nostalgico.

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LA SCENA INDIPENDENTE POST-HANDOVER: DOCUMENTARE IL TERRITORIO di WINNIE L.M. YEE (University of Hong Kong)

Il cinema indipendente di Hong Kong ha avuto i suoi alti e bassi. Gli studiosi hanno approfondito la relazione tra la crescita dell’in-dustria cinematografica e gli spa-zi al di fuori dall’industria in cui sedimentano i film indipendenti. In un’intervista con Esther M.K. Cheung, il regista indipendente veterano Yuan Hu argomenta: “Il declino dell’industria cinemato-grafica di Hong Kong a metà Anni ‘90 ha significato anche la crescita di altre forme di cinema a Hong Kong”. Il cinema indipendente sembra rafforzarsi quando diven-ta necessario rispondere in modo diretto a sommovimenti sociali o storici. In effetti la fioritura del cinema indipendente di Hong Kong è avvenuta nell’era pre-1997, quando lo stress sociale e politico ha stimolato giovani filmmaker ad appropriarsi di nuovi mezzi per promuovere un nuovo discorso sul futuro di Hong Kong. Anche il supporto istituzionale ha aiutato a stimolare il loro successo: l’Hong Kong Arts Development Council ha giocato un ruolo importan-te nel finanziare progetti di film fin dalla metà degli Anni ‘90. Ma come nota Sebastian Veg, la scena indipendente ha tratto profitto anche da “festival, critici, collet-tivi di cooperazione e distributori, quali ad esempio Ying E Chi e Vi-sible Records”.

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Filo diretto da Hong KongIl punto di vista critico.

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Un altro snodo centrale del cine-ma indipendente di Hong Kong è legato ai movimenti sociali susse-guitisi nel periodo post-handover. Vivian Lee ha coniato il termine “post-nostalgia” per descrivere la “reinterpretazione del locale sullo sfondo di un repertorio di cliché (tra cui c’è) la cosiddetta grande narrazione della storia di succes-so di Hong Kong”. Veg ribadisce che l’osservazione di Lee aiuta a spiegare il passaggio dal cinema d’azione al ritratto del quotidiano e dell’ordinario in alcuni film indi-pendenti. I documentari formano una parte consistente della scena indipendente di Hong Kong: il loro numero è in crescita fin dai tardi Anni Duemila, quando som-movimenti epocali hanno inco-raggiato i filmmaker ad affrontare le ingiustizie sociali e i problemi sistemici presenti nel territorio.Per evidenziare la connessione tra documentari, consapevolezza sociale e territorio, basta guardare ad alcune opere che combinano questi elementi. Un esempio ec-cezionale è la serie sul territorio martoriato realizzata da V-artivist, un gruppo che ha reso esplicito l’uso del documentario per con-frontarsi con temi sociali: hanno creato dei documentari sul mo-vimento per salvare il villaggio di Choi Yuen dalla demolizione. Oltre a questi film, ci sono anche dei progetti più piccoli che han-no indirizzato l’attenzione sulle conseguenze del continuo rimo-dellamento urbano di Hong Kong alle spese della storia locale. È il caso di 1+1 (2010) e N+N (2012) di Mo Yan-chi, della serie sul vil-laggio Ho Chung di Jessey Tsang, di Ballad on the Shore (Ma Chi-hang, 2017) e di Rhymes of Shui Hau (Fredie Ho-lun Chan e Chloe Lai, 2017). Queste opere possono essere descritte come eco-docu-mentari. Anche se il loro scopo principale non è la consapevolez-za ambientale, la loro enfasi sul territorio e sulla memoria ci spin-ge a meditare sulla relazione tra natura e cultura umana. L’ascesa

L’importanza di questi documen-tari risiede nel loro ritratto di dif-ferenti prospettive sul futuro di Hong Kong, una sfida al discorso economico dominante. La preoc-cupazione ambientale che emer-ge nei documentari è presente anche in altri Paesi asiatici, come esplicita la presenza del filmma-ker giapponese Ogawa Shinsuke in The Way of Paddy e come han-no mostrato le proteste dei con-tadini coreani durante il summit dell’Organizzazione mondiale del commercio tenutosi a Hong Kong

nel 2005. La connessione di Hong Kong con il resto dell’Asia va dun-que al di là di interessi economici condivisi. Come sostiene Ursula Heise, è importante supportare l’eco-cosmopolitismo dato che la preservazione dell’ambiente e dei nostri territori richiede collabora-zione e compartecipazione.

degli eco-documentari rappre-senta un punto di svolta nella sce-na cinematografica indipendente di Hong Kong.L’attivismo a Hong Kong è stato ridestato da molti incidenti, il più controverso dei quali è la costru-zione della linea ad alta velocità tra Hong Kong e Guangzhou, og-getto di resistenza civile tra 2008 e 2010. Il villaggio di Choi Yuen, circa 500 abitanti, doveva essere abbattuto, in quanto si trovava sul tracciato. Nel novembre del 2008 gli abitanti hanno ricevuto una co-municazione in cui si diceva che avrebbero dovuto abbandonare le loro case entro il novembre del 2010. I residenti di Hong Kong si sono opposti: la protesta è partita da media activist che avevano già preso parte a diverse campagne, tra cui la lotta per la preservazione dello Star Ferry Pier nel 2006 e del Queen’s Pier nel 2007.L’attivismo ha spinto registi indipendenti come Benny Yin-kai Chan e Fredie Ho-lun Chan a sottolineare l’importanza di occuparsi dell’ambiente come parte integrante del proprio spa-zio vitale e a proporre un nuovo modo di immaginare l’identità di Hong Kong. Tra i documentari in difesa di Choi Yuen, i più rappre-sentativi sono The Way of Paddy (2012), Open Road after Harvest (2015) e Kong Rice (2015). Esplo-rano il conflitto ideologico tra l’attaccamento a un luogo e le tendenze eco-cosmopolite, le aree urbane e le campagne, gli individui e il governo, gli intel-lettuali e le masse. Tra questi, Kong Rice è un cortometraggio di Chan Yiu-hei che descrive una nuova generazione di contadini che vuole far rivivere l’agricol-tura a Hong Kong e supporta la preservazione del territorio dalla cementificazione, per protegge-re gli ultimi rifugi naturali dallo sfruttamento commerciale.

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cinema espanso

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di HILARY TISCIONE

L’ibrida collisione fra motori e cinema si dilata al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone. In occasione del Gran Premio di Monza, ha inaugurato Red Cars, l’esposizione di 200 immagini di Formula 1 estratte dal libro omonimo – edito da Volumina nel 2005 - del regista David Cro-nenberg. In principio, Red Cars nasce-va come sceneggiatura che il regista canadese scrisse più di vent’anni fa appena ultimate le riprese di Crash, lungometraggio peccaminoso ispirato al roman-zo di Ballard. Già dalla pellicola del 1996 era netta la fascinazione del regista per i motori e qualcosa celebrava in modo anticipatorio – volonta-rio o involontario che fosse – un

richiamo al ruggito sanguigno del-la Rossa più glorificata al mondo. James, il protagonista, non guida-va forse un’auto rossa poco pri-ma dello schianto? Rosso come il sangue dell’uomo ucciso sul col-po nell’impatto dell’incidente. Il rosso vivo della carne attraversata del metallo della protesi di James. Rosso come gli sfregi del corpo e il nucleo cromatico della lamiera. Un caso, magari, ma non senza il vantaggio del dubbio inesplicabi-le e il suo tornaconto profetico.Il film sui motori di casa Mara-nello – che voleva Mel Gibson nei panni del protagonista – non vide alcuna corrispondenza, ma prese forma, sempre dentro un’ottica conversiva, in un volume d’artista che venne presentato alla 62ma Mostra del Cinema di Venezia, al

LA FORMULA ROSSA DI CRONENBERG

Red Cars: David Cronenberg in mostra in occasione del GP di Monza e fino al 24 novembre a Lissone, per una collisione tra cinema e motori. 200 immagini di Formula 1 dal libro omonimo del regista, edito nel 2005.

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Palazzo delle Esposizioni di Roma e al Lucca Film Festival.Le rappresentazioni fotografiche mostrano l’ossessivo potere at-trattivo con cui le auto investono il regista. Ci sono dettagli di mo-tori, testimonianze dell’epoca, modellini, ritratti che richiamano un evento dove lo scontro, la scia-gura e la corporeità tornano quale assillo perpetuo dell’autore. La mostra – quintessenza di quel-le pagine, in esposizione - è curata da Domenico De Gaetano che fa riverbero sul Gran Premio di Monza del 1961, scrutando la controversa lotta fra i piloti Phil Hill e Wolfgang von Trips, en-trambi della scuderia Ferrari. Nell’intrisa identificazione pas-sionale del pilota americano e nella raffinatezza impalpabile del suo rivale e amico tedesco, rivive la trama – in uno sfondo di carattere cinematografico – libe-rata dalla corporeità degli attori carnali sostituiti dal mito della leggenda.

Alla celebre sentenza del trion-fo, sarà Hill a trattenere il titolo di campione mondiale di Formula 1, senza però affermare la propria eccellenza dove germina il tra-gico decesso del competitore tedesco e compagno di scuderia. Anche lui morto sul colpo come la vittima di Crash. Hill – che leggeva Jean-Paul Sar-tre per concentrarsi prima della corsa - fu il primo americano della Storia della Formula 1 ad essere dichiarato campione del mondo. Fra le immagini di Cro-nenberg, non mancano i profili delle inquietudini del pilota e il suo sogno vorace d’insaziabile affermazione.La vicenda – grazie a questa nar-razione per immagini organizzata da Volumia e Clarart – ormeggia in una dimensione domestica per la vicinanza al luogo d’origine, infatti Lissone non è una scelta marginale.

Le fotografie tratte dall’archivio Ferrari addentrano il visitatore nella dimensione di suspense rea-le sfoderata dai due piloti. Così, il tracciato documentativo diventa mito – per esempio nell’avvalo-rato smantellamento delle Shar-knose (Ferrari 156 F1) che Enzo Ferrari mise in atto a fine stagione proprio per la tragicità dell’acca-duto – e nelle mani allegoriche e traslative di Cronenberg acquisi-sce un’aura d’eccellente esalta-zione visiva. Una perfetta commistione fra arte e cinema. Fra fissità e movimento. Si tratta infatti di un esperimento, un mezzosangue che veste una metamorfosi lungo la careggiata con l’impianto di una pellicola e la resa di un’esposizione.Laddove la Formula rossa della pista di Cronenberg - sguarnita dallo strepitio filmico - trova edi-ficio più vigoroso nell’interpre-tazione per fotogrammi iconici, si scarcera il paradosso del più grande portavoce dell’alterazione corporale: la staticità ritrattista si addensa dove tutto è biologica-mente deformabile.

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di CARMEN DIOTAIUTI

RITRATTI IN POLAROID, IL LATO MISTICO DELLA MOSTRA

Nell’odierno panorama della riproducibilità digitale, in cui ogni contenuto è immediatamente replicabile e manipolabile, la mostra Ritratti (Opere uniche), che racconta i divi del cinema attraverso rare Polaroid giganti, restituisce alla fotografia l’esperienza dell’aura, propria dell’unicità dell’opera d’arte.

La riproducibilità tecnica, respon-sabile, secondo il filosofo tedesco Walter Benjamin, della perdita dell’aura sacrale dell’opera d’arte, ha ceduto oggi il posto alla ripro-ducibilità digitale. Nel panorama odierno tutto è immediatamente replicabile, modificabile, mani-polabile con filtri, post-prodot-to. La fisicità dell’analogico, che mantiene una corrispondenza stretta e, in qualche modo, fede-le con il soggetto rappresentato, una volta strappata alla materia si è virtualizzata e frantumata in se-quenze numeriche di zero e uno, ricombinabili a piacimento, in un processo fluido e democratico di trasmutazione e ridefinizione continua del reale. Da qui il fasci-no rovesciato e ribaltato di un’e-sposizione come quella allestita nello storico Hotel Des Bains del Lido di Venezia durante la 76ma Mostra, Ritratti (Opere uniche). 300 Polaroid giganti che raccon-tano star e protagonisti di nove anni di Mostra (dal 1996 al 2004), immortalati da una Giant Ca-mera, un’imponente macchina istantanea artigianale, prodotta negli Anni ‘70 dalla Polaroid in soli cinque esemplari al mon-do; uno dei quali in Italia, gestito

lo spettatore nella dimensione esterna allo shooting e nel retro-scena dell’opera. Ma anche le spe-rimentazioni con i fasci di luce di Chico De Luigi, che avvolgono di apparenza sfuggevole l’enigma-tico John Malkovich di Ripley’s Game e lo spiazzante Takeshi Kitano, a Venezia nel 2002 per il suo Dolls. Così come i giochi con i mosaici di Polaroid composti da Maurizio Galimberti, capace di danzare attorno al soggetto in un percorso introspettivo in cui il mito ritratto - da Javier Bardem a Benicio del Toro a Mario Mo-nicelli - quasi scompare.

Di fronte alla presenza materiale dell’esemplare unico e originale di Ritratti, lo spettatore non può che riprovare quella sensazione mistica o religiosa in senso lato che Benjamin definiva “aura”. L’hic et nunc delle Polaroid in mostra, non solo ha esplorato la soggettività privata dei divi del ci-nema, ma ha ridato alla fotografia quell’oggettività immutabile che le conferisce un potere di credibi-lità superiore al ritratto pittorico e, in parte, alle altre forme di rap-presentazione della realtà.

dall’agenzia Photomovie. Un gigante da cento chili di legno e metallo, capace di dar vita a im-magini uniche in grande formato e altissima definizione, dal costo produttivo importante, realizzate in un momento di tensione e con-centrazione condivisa tra fotogra-fo e soggetto ritratto, necessaria al pieno controllo di quell’unico scatto possibile.

Dopo il click, il successivo minuto e mezzo richiesto dallo sviluppo è un tempo sospeso di attesa, di passaggio dal nero al colore, di na-scita. A questo punto il negativo diventa inutilizzabile e muore, la-sciando solo positivi non riprodu-cibili né ristampabili. Pezzi unici su cui appare, arrestata nella sua durata temporale, l’anima vibran-te del soggetto ritratto, che lascia, poi, in calce all’opera appena re-alizzata, la sua firma e spesso una dedica, quasi a suggellare origine e unicità di quello scatto. La virtù estetica della Polaroid - tornata oggi nuovamente oggetto del de-siderio di massa - risiede proprio in questa rivelazione, nel transfert di realtà dal soggetto alla sua ri-produzione. Il mito è a disposizio-ne dello spettatore, cui viene of-ferta la possibilità di contemplare

la potenza evocativa dell’attimo fissato di verità; un tipo di sguardo che il cinema ha abolito con il suo rapido susseguirsi di immagini.

In un gioco di illuminazione e ombre, messe a fuoco e sfocato, aperture e chiusure di diafram-ma, l’ottica fissa della Polaroid è un meccanismo impassibile che restituisce l’oggettività essenzia-le delle star del cinema, liberate dalle contingenze temporali e strappate dalla corruzione del ri-tocco digitale. Da Bernardo Ber-tolucci a Zhang Yimou, Johnny Depp e Julianne Moore, divi e divine del cinema si sono affidati al genio creativo di alcuni dei più noti ritrattisti italiani, prestandosi come soggetti di un allestimento artistico più che di un photocall. Così sono nate le immagini rifles-se negli occhiali, unico elemento a fuoco che sposta il centro della composizione, dei ritratti di An-tonio Capuano e di Ettore Sco-la realizzati da Fabrizio Marchesi; lo scatto di Stefano C. Montesi ad un Antonio Banderas acro-batico, alle prese con un salto a mezz’aria tra sedie sospese, dove fa capolino l’errore di taglio, la mano che regge la sedia, che è come uno squarcio che proietta

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HOFF-MANDUSTIN

Yimou Zhang

PFEIFFERMICHELLEKitanoTakeshi

DUSTIN HOFFMAN. Venezia 1996foto di Fabrizio Marchesi/Photomovie

MICHELLE PFEIFFER. Venezia 2000foto di Fabrizio Marchesi/Photomovie

ZHANG YIMOU. Venezia 1999foto di Stefano C. Montesi/Photomovie

TAKESHI KITANO. Venezia 2003foto di Stefano C. Montesi/Photomovie

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di CRISTIANA PATERNÒ

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L’APOCALISSE A ROMA

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Un saggio di Matteo Santandrea, È stata Roma, pubblicato da Rubbettino, indaga in parallelo la storia criminale della Capitale e la rappresentazione che il cinema ne ha dato dal poliziottesco alle grandi saghe come Romanzo criminale e Suburra. “Ti prego di essere sempre calmo e retto, corretto e coerente, sap-pia approfittare l’esperienza delle esperienze sofferte, non scredita-re tutto quello che ti dicono, cerca sempre la verità prima di parla-re, e ricordati che non basta mai avere una prova per affrontare un ragionamento. Per essere certo in un ragionamento occorrono tre prove, e correttezza e coerenza. Vi benedica il Signore e vi protegga”.Con queste parole “pastorali” di Bernardo Provenzano, boss san-guinario quanti altri mai, Giancar-lo De Cataldo volle introdurre il suo Romanzo criminale (2002), il testo da cui un po’ tutto prende le mosse. Nasce da qui, dal racconto di come una banda di delinquen-ti di strada tenti di impossessarsi di Roma, una saga crossmediale tra letteratura, cinema e serialità sotto il segno della Banda della Magliana. Il film di Michele Placi-do (2005) e poi la serie di Sollima (2008-2010) hanno (ri)dato vita a un filone che tra crime all’ameri-cana e “poliziottesco” nostrano, continua a mietere successi, non solo con Suburra – poi diventato serie con la regia di Michele Pla-cido, Andrea Molaioli e Giusep-pe Capotondi, e ancora in fieri, ma anche con i tanti film legati a storie della mala romana nelle sue varie declinazioni, persino comics, con un successo inatteso e plebiscitario come Lo chiama-vano Jeeg Robot. “È stata Roma”,

si dovrebbe dire, espandendo a epigrafe e lapide mortuaria la frase del boss Samurai, data a spiegazione della morte di un ex militante neo-fascista al politico corrotto di turno. È stata Roma è anche il bel titolo del saggio di Matteo Santandrea, pubblicato da Rubbettino (pp. 213, 16 €), sottotitolo “La crimina-lità capitolina dal ‘poliziottesco’ a Suburra”. Un testo denso di infor-mazioni e ricco di spunti biblio-grafici ma al contempo di agile lettura che trova notevoli ragioni di interesse proprio negli intrecci tra finzione e cronaca nera di ieri e di oggi. Già nel primo capitolo, il giovane studioso, laurea ma-gistrale all’Università Roma Tre, deciso a coniare e argomentare la definizione di roman crime mo-vie, affronta un illuminante e af-fascinante excursus storico sulle trasformazioni del tessuto delin-quenziale romano, dalla rapina di via Gatteschi all’inchiesta di Mafia Capitale. Diabolici intrecci tra malavita organizzata, marsi-gliesi, Banda della Magliana, ma-fia, eversione nera e terrorismo, fanno sì che il crimine romano assurga a paradigma di un intero paese, l’Italia delle trame e dei misteri irrisolti, coinvolgendo fatti oscuri dalla sparizione di Emanuela Orlandi alla strage del-la stazione di Bologna. Vi sono due linee di narrazione che travasano nel cinema italia-

no e sono altrettanto feconde. Da una parte i piccoli delinquenti pa-soliniani con la loro aura di sotto-proletaria santità che sopravvivo-no negli eroinomani disperati di Claudio Caligari e in tutto il cine-ma d’autore contemporaneo con titoli come Cuori puri di Roberto De Paolis, Et in terra pax e Il conta-gio di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Fiore di Claudio Gio-vannesi, La terra dell’abbastanza di Fabio e Damiano D’Innocenzo e naturalmente in un capolavoro e summa del genere, che viene qui trasfigurato e reso universale, come Dogman di Matteo Garro-ne, che prende le mosse dall’o-micidio compiuto nel 1988 dal Canaro della Magliana, Pietro De Negri, per intessere un’au-tentica via crucis. L’altra linea è quella che si dipa-na dall’action e dal crime italiano degli Anni ’70 con i vari La poli-zia… - sono sei i titoli citati, da La polizia ringrazia di Stefano Van-zina a La polizia ha le mani legate di Luciano Ercoli - che l’autore approfondisce e studia alla luce degli eventi contemporanei, tra storia d’Italia e cronaca nera. Qui abbiamo un cinema a mano ar-mata e un epos malavitoso a tratti ambiguo per la sottesa tendenza alla mitizzazione del gesto crimi-nale. Se il mito fondativo di Roma è legato a un fatto di sangue come l’omicidio di Remo per mano del fratello gemello Romolo (Il primo

Re di Matteo Rovere), non deve sorprendere che l’identità della Città Eterna sia legata a doppio filo a gesti e “gesta” di inaudita violenza. La città dei Casamonica e di Carminati, di “Renatino” De Pedis e del clan Spada (Roberto Spada con la testata al reporter di Rai Due Daniele Piervincenzi è as-surto a anti-eroe della rete) diven-ta dunque “una Babilonia priva di innocenti, di polizia, di società civile, prossima al collasso, senza alcuna possibilità di salvezza”. Santandrea sviluppa, a partire dal cinema, una visione apocalittica della Capitale, città irredimibile, perduta, destituita di ogni grande bellezza e prossima alla catastro-fe, come del resto appare persino nel film di Paolo Sorrentino, a dispetto del titolo. “È insomma questa la sensazione che si ha as-sistendo alla stragrande maggio-ranza dei film ambientati a Roma dagli Anni Settanta sino ai nostri giorni e intenti a raccontarne con-traddizioni e ombre: che l’azione si svolga nei pressi del Colosseo o del Gianicolo, di Fontana di Tre-vi o di Piazza Navona, oppure nei paraggi di Tor Bella Monaca, del Corviale o di San Basilio, è un’im-magine in effetti apocalittica a venirne fuori, quella cioè di una metropoli decadente, cinica, alle volte desolata ma costantemente desolante, in cui si concentrano gli incalcolabili drammi del vive-re quotidiano”.

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geografie

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di OSCAR IARUSSI

SOPHIA LORENE LA MAGIA DI SANTO SPIRITO

Il borgo del cinema. È un quartie-re di Bari che si affaccia sull’Adria-tico felliniano, naturalmente più a Sud. Santo Spirito è il nome del villaggio che fino al 1928, quando divenne “frazione” del capoluogo regionale, era la marina di Bitonto assai cara, fra gli altri, al pittore Francesco Speranza. Un’altra ex frazione, Torre a Mare, fu eletta a residenza e luogo dell’anima da Nino Rota, che in una piccola casa a piano terra in via Leopardi compose le sue impareggiabili partiture per Fellini e non solo, nei decenni in cui dirigeva il Con-

Un quartiere di Bari è quasi un borgo del cinema, grazie anche ad Apulia Film Commission.

Ma la zona ha dato i natali a tanti personaggi e tante storie.

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primi anni ‘80 si trasferisce a Roma dove fonderà la Fandango Film, ma rimane molto legato al quartiere delle radici dove torna regolarmente, spesso per accom-pagnare registi e attori dei “suoi” film (per esempio Ligabue) nelle anteprime organizzate al Piccolo Cinema, la vivace sala parrocchia-le fondata da don Peppino Cutro-ne e adesso in restauro.

I trent’anni della Fandango, ce-lebrati al Biografilm Festival di Bologna e poi in ottobre alla Festa di Roma, hanno avuto un gioioso preludio in maggio a Giovinazzo, a sei chilometri da Santo Spirito, dove Procacci frequentava il liceo classico “Matteo Spinelli”. E da Giovinazzo partì un secolo fa per gli Stati Uniti il carpentiere Ni-cola Turturro, padre dell’attore e regista John Turturro, il quale a fine giugno - mentre Sophia Loren girava in zona - è “tornato a casa” con moglie e figli per ricevere la cittadinanza onoraria, in un tri-pudio di abbracci italo-americani. A proposito di oriundi, ricordate Meryl Streep, casalinga “paisà” dell’Iowa, che si innamora per-dutamente del fotografo Clint Ea-stwood? Il film è I Ponti di Madison County (1995) e Meryl commuove mezzo mondo quando Bari affiora sulle sue labbra, rimpianto della città natale e di quel piccolo por-to nel sole... Chissà che non fosse proprio Santo Spirito!

servatorio barese. Nel tempo Bari - Santo Spirito si è gonfiata di in-sediamenti urbanistici nell’entro-terra, costruiti al posto degli uli-veti sulla strada verso Bitonto, ma riserva ancora il porticciolo del primo ‘700 e intorno - come in un abbraccio senza tempo - le case basse della “marineria”. Al tra-monto rientrano due o tre coppie di paranze con la pesca del giorno, subito esposta sui banconi, men-tre prendono il largo una decina di gozzi, alcuni dei quali montano a prua la tradizionale “lampara” per le battute notturne in cui la preda viene abbacinata e fiocinata. Ad abbagliare i cittadini di Santo Spirito e i non pochi villeggianti è stata la sorprendente presenza di Sophia Loren che nell’area del porticciolo, agli inizi di luglio, ha girato alcune scene di La vita davanti a sé con la regia di Edoar-do Ponti, figlio della diva dei due mondi. Il film è prodotto da Carlo Degli Esposti e Nicola Serra per la Palomar, con l’apporto della Apulia Film Commission, e ha “ri-portato” Sophia per sei settimane in Puglia quasi trent’anni dopo Sabato, domenica e lunedì di Lina Wertmüller del 1990, girato a Tra-ni, dove stavolta Edoardo Ponti ha realizzato alcuni ciak in un palaz-zo della locale giudecca (c’è pure una sinagoga da poco riaperta grazie al pianista Francesco Lo-toro, impegnato ad antologizzare la musica concentrazionaria degli ebrei nei lager nazisti).

Il cast de La vita davanti a sé allinea Renato Carpentieri, Massimiliano Rossi, Babak Karimi, Abril Zamo-ra e il piccolo Ibrahima Gueye nel ruolo di Momo. Quest’ulti-mo è un turbolento dodicenne senegalese di cui si prende cura Madame Rosa / Sophia Loren, an-ziana ebrea reduce da Auschwitz ed ex prostituta che, dapprima riluttante e conflittuale rispetto al ragazzino, lo “adotterà” come amico. Una relazione struggente e profonda tra due anime affra-tellate da un destino comune... La vita davanti a sé aggiorna sullo schermo l’omonimo e popolare romanzo di Romain Gary, che nel

1975 fruttò allo scrittore francese di origine ebraico-lituana il suo secondo Premio Goncourt con lo pseudonimo di Émile Ajar, e nel 1977 diventò un film diretto dall’i-sraeliano Moshé Mizrahi, prota-gonista Simone Signoret nel ruolo di Madame Rosa. Nella “luce a cavallo” del tramon-to, sapientemente fotografata da Angus Hudson (Star Wars - Gli ul-timi Jedi e Assassin’s Creed), Sophia Loren si aggira tra le bancarelle del mercato ittico su una carrozzi-na per disabili spinta da Momo. A poche decine di metri di distanza, qualche mese prima è stata girata una sequenza clou di Il ladro di giorni di Guido Lombardi, con il pugliese Riccardo Scamarcio e un altro personaggio in erba, Augu-sto Zazzaro, che aveva solo cinque anni quando suo padre fu arresta-to. Ma quando Vincenzo (Scamar-cio) torna, eccolo intraprendere con il bambino un on the road dal Trentino verso il Sud, fino a Santo Spirito. Qui sul lungomare nella bella stagione risiede Mi-chele Mirabella, regista di teatro o d’opera e conduttore Tv, che cominciò da attore interpretando fra l’altro la scena-cult del viaggio da Napoli a Firenze in Ricomincio da tre di Massimo Troisi (1981). “Il professor Mirabella”, bitontino di nascita, è affezionatissimo al bor-go, cui di recente anche il giorna-lista Valentino Losito ha dedicato un libro di racconti.

Del resto, Santo Spirito custodi-sce più d’una memoria cinemato-grafica. In un palazzo di via Gari-baldi che porta dalla ottocentesca chiesa dello Spirito Santo fino alla stazione ferroviaria, trascorreva l’estate Ricciotto Canudo, so-prannominato “le barisien” dai detrattori francesi (pare che il nomignolo-sfottò si debba a Guil-laume Apollinaire), il letterato di Gioia del Colle che a Parigi negli Anni ’10 del Novecento scrive i primi libri sulla Settima arte, cui offre lo statuto teorico, inco-raggiato da amici quali Braque, Picasso e Ravel. A Santo Spirito è nato ed è cresciuto il produtto-re Domenico Procacci che nei

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compleanni

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di CATERINA TARICANO

Da Fritz Lang a Ughetto Bertucci

“È mai riuscito un critico, diciamo di tipo tradi-zionale, a capire come un regista come quello di Metropolis abbia potuto girare Il grande caldo o Il covo dei contrabbandieri? Eppure, è sempre Fritz Lang, assolutamente. Questo, ovviamente senza fare paragoni inammissibili”. Risponde così Maurizio Ponzi, nel suo libro Al ci-nema da giovani a quella che viene notata da tutti i critici più attenti come la grande peculiarità del-la sua opera, ovvero essere passato dal cinema militante e impegnato alla commedia, attraverso quello che è stato lo studio e il racconto del regi-sta di Totò e dei più grandi comici italiani, ovvero Mario Mattoli. Infatti Mattolineide – documentario dedicato ap-punto a uno dei nomi più importanti del cinema comico in Italia - è un momento fondamentale per raccontare il percorso unico e originale di un cineasta che ha saputo unire due mondi che per tradizione nel nostro Paese non si sono quasi mai incontrati e che anzi spesso sono stati vissuti in contrapposizione (in que-sto senso, Ponzi si inserisce nella visione dello spettacolo proposta da Fellini e capace di coniugare rigore autoriale e contaminazione con le forme più popolari di spettacolo). Ed è proprio da questa immersione nell’universo della grande Commedia italiana che emerge il regista di Madonna che silenzio c’è stasera, Io, Chiara e lo scuro, Son contento, Qualcosa di biondo e altri film che hanno attraversato il cinema italiano con intelligenza, grazie e ironia, mostrandosi come l’esempio più concreto di come si possa fare intrattenimento senza che questo diventi automaticamente sinonimo

GLI ANNI DI MAURIZIO PONZI

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di bassa qualità. Piero Spila, nella sua prefazione del già citato libro firmato da Ponzi, lo sottolinea: “Se per I visionari si faceva il nome di Dreyer, per una commedia come Io Chiara, e lo scuro il paragone più plausibile sono certi film di Rohmer, per lo stile, e la misura, per il piacere di creare situazioni semplici e poi filmarle come il cinema classico pretende”. Maurizio Ponzi, a cinquant’anni dal suo esordio dietro la macchina da presa con I visionari - film ancora oggi capace di restituire pulsioni e tensioni degli anni intorno al ‘68 - e a 80 anni appena compiuti, ha ampiamente dimostrato che non ha mai accettato di farsi incasellare nello spazio angusto di un certo tipo di critica mani-chea, nelle cui maglie non è mai rimasto intrappolato nemmeno quando il critico lo faceva quasi di profes-sione (quasi, perché lo stesso Ponzi ci tiene a sottolineare che di cinema ha sempre scritto più per passione che per lavoro, visto che collaborava con “Filmcritica” e “Cinemasessanta” quando aveva ancora un impiego

all’Olivetti). L’amore per il cinema - quello divorato da bambino, la domenica, alla sala Apollo, così come quello scoperto da ragazzo, ricco soprattutto di tante pellicole americane - è sempre stato troppo

grande per le gabbie ideologiche. E proprio questo suo essere onnivoro gli ha permesso di amare alla follia i film di Douglas Sirk e di Jerry Lewis tanto quanto quelli di Luchino Visconti. Un

amore che gli ha consentito di percorrere strade poco battute senza paura, o di prendere anche, in qualche caso, posizioni nette; come quando per difendere le sue scelte dà le

dimissioni da “Filmcritica” e insieme ad Adriano Aprà, Enzo Ungari e Marco Melani fonda “Cinema & Film”, rivista che vede anche il coinvolgimento di Pier Paolo Pa-

solini. E proprio di Pasolini Ponzi diventa assistente, nel 1966, per La sequenza del fiore di carta, episodio del film Amore e rabbia; una collaborazione da cui nascerà

anche Il cinema di Pasolini, un critofilm, un’invenzione dello stesso Ponzi per raccontare i film con il linguaggio del cinema, e che in questo caso si presenta

come un vero e proprio antesignano del videosaggio, realizzato utilizzan-do gli stilemi del cinema pasoliniano. Di questi critofilm Ponzi ne girerà

altri tre, uno dedicato a Rossellini, un altro a Visconti, un altro ancora a Fellini. Poi, finalmente, il passaggio definitivo dietro la macchina da

presa, avvenuto, non ci stupisce, con la stessa urgenza che aveva gui-dato quelli che possiamo considerare un po’ i suoi fratelli maggiori - da cui certamente ha mutuato quell’approccio totale e totalizzante al cinema, che non vede differenze tra chi ne scrive e chi lo fa. Stia-mo parlando dei giovani critici dei “Cahiers du cinéma”, desiderosi di realizzare con la macchina da presa quello che facevano con la penna. Come per i giovani turchi della Nouvelle Vague, anche per Maurizio Ponzi fare “nuovo” cinema è stato un tutt’uno con la ri-scoperta della grande tradizione hollywoodiana che la critica uffi-ciale italiana aborriva o quantomeno disprezzava. Per Ponzi critica e pratica cinematografica sono sempre stati coincidenti: quando scriveva articoli militanti, quando dava spazio alle idee di rivolta, quando ha celebrato la grande tradizione del cinema comico ita-liano. Ponzi tiene dentro di sé saperi e capacità che solo in appa-renza confliggono, e li porta fino all’estremo infischiandosene di

ogni condizionamento, di ogni buonsenso fatto per calcolo. Volete vederlo appassionarsi? Potete citare Wilder, o Lubitsch, o Lang; ma

anche riconoscere Ughetto Bertucci (il caratterista principe del cine-ma di Mattoli) o – perché no – elencare con precisione certosina tutte

le linee tranviarie delle maggiori città italiane. Ponzi è tutto questo. Di conseguenza, è anche molto di più.

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Giovanni Veronesi una volta ha raccontato in un’intervista te-levisiva che accompagnandolo in taxi di sera si è sentito dire da Mario Monicelli: “Devo ricordar-mi di salire le scale senza fare i gradini due alla volta. Non ho mica più ottant’anni”. Ecco, in questo senso giungono a proposito gli ottant’anni di Marco Bellocchio, un autore tra quelli che maggior-mente hanno inciso sulla Storia del cinema non soltanto italiano ma mondiale, in termini di rottu-ra, slancio, ribellione a oltranza, ricerca stilistica. Marco Bellocchio ha dunque ap-pena ottant’anni. E lo dimostrano, se mai ce ne fos-se bisogno, non solo i suoi ultimi film ma in senso antiorario tutti. Ad esempio, l’energia, la potenza, la ricchezza di implicazioni de Il traditore rivelano un’età indefini-bile. Eppure, non sorprendono in un cineasta in grado di guardare da sempre direttamente negli occhi la Storia, anticipandola o segreta-mente decifrandola, i suoi snodi indicibili, le sue contraddizioni che ben si addicono a un tracciato provocatorio, paradossale, ironi-co. Il suo. La Storia, italiana e non, è spesso recitata in modo impres-sionante. È una Storia farsesca, imbarazzante, involontariamente comica o più correttamente tra-gicomica. Insomma, l’aggettivo “bellocchiano” si confà spesso e volentieri ai fatti stessi, già scrit-ti, rappresentati, messi in scena, prima ancora che a questi l’au-tore piacentino imprima il suo sigillo cinematografico o teatrale - o teatrale e cinematografico a un tempo. E che dire, senza necessa-riamente andare troppo a ritroso, di Sorelle Mai o Sangue del mio san-gue? Che, complice la fisiologica matrice memoriale e domestica donde il bisogno di eleggere la natia, “pia” Bobbio a caput mundi, vi si può ammirare come la rein-venzione low budget di uno spazio allusivamente allargato e allegori-co consenta di giocare appunto in casa ben altre pericolose partite. Con la Storia, con l’istituto della famiglia, con la politica, la religio-ne. Anzi, La religione della storia, per citare un suo emblematico

film di “montaggio”. Ha poi ol-tremodo ragione, nel 1984, il pro-tagonista finto pazzo interpretato da Marcello Mastroianni in Enrico IV, quando sulla falsariga del testo pirandelliano sbotta: “Non si può sempre avere ventisei anni!”. Ben detto. L’autore della personalissi-ma riscrittura di un capolavoro di Pirandello molto nelle sue corde, non può essere all’anagrafe quello dei tempi dell’esordio con I pugni in tasca, ma a livello interiore sì. Donde la voglia inesausta di ri-cominciare tutto daccapo in ogni film, mettersi alle spalle il passato, procedere in chiave verdiana a un reiterato e performativo Addio del passato, che è poi il titolo anche di un film chiave a metà tra fiction e non della sua diversificata filmo-grafia. Non è mancata occasione in oltre mezzo secolo di carriera di entrare nel merito delle cose, esplorare i fantasmi di una verità negata, pasticciata, trasformata in circo mediatico o babelica biblio-teca. O di accogliere magisteri, ideologie, modelli di pensiero, di terapia, di utopia, salvo poi distan-

di ANTON GIULIO MANCINO

LA VOCAZIONE PER LA SFIDA È SEMPRE “OT-TANTA”

Il compleanno di Marco Bellocchio

ziarsene, osservarli con la dovuta adesione e perplessità, insepa-rabili - adesione profonda e per-plessità estrema - l’una dall’altra. E quale migliore scena, del crimi-ne, del delitto, dello svuotamento del senso e del senno comune del caso Moro poteva irretirlo, incu-riosirlo, spingerlo a esporsi? Non una, con Buongiorno, ma due, con l’annunciato, televisivo Esterno notte. Il controcampo del beffar-do “buongiorno” si vede non dal mattino, secondo il proverbio, ma dal ripetersi in “esterno/i” della “notte” repubblicana, inaugurato dal più oscuro, diuturno e assur-do delitto eccellente della Storia dell’Italia contemporanea.Come accade nei quadri di Fran-cis Bacon riletti da Gilles Deleuze alla luce della Logica della sensa-zione, Bellocchio circoscrive la “Figura”, con la maiuscola, dentro forme precise per rifuggire il “fi-gurativo”. E questo gli consente con fervore visionario, surreale, surrealista, rifuggendo il registro realistico e con esso l’impianto narrativo tradizionale, ogni volta

di concepire un film, piccolo o grande, o uno spettacolo, di pro-sa o lirico, come un debutto. È un modo, il modo, inequivocabil-mente il suo modo, per mettersi in discussione. Senza sosta. Per istinto o per strategia, non fa dif-ferenza, l’approccio alla realtà, e al cinema di Bellocchio è quello di chi in generale I pugni in tasca, titolo e concetto di fondo, se li porta dentro e li tira fuori all’oc-correnza, a sorpresa, nei contesti più insospettabili, disparati. I venticinque anni, come gli 80, per ora solo 80, Bellocchio li reca scritti nel proprio codice geneti-co. I termini di confronto soste-nibili possono essere Carl The-odor Dreyer, Elia Kazan, Ingmar Bergman, Federico Fellini, Luis Buñuel, Lindsay Anderson. A ciascuno il suo. Fatto sta che per Bellocchio la tensione, il rigore, la passione, non diminuiscono, au-mentano invece a dismisura. Così anche la vocazione inveterata per la sfida. Che è sempre tanta. O per meglio dire “ottanta”.

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latest - ricordi

ricordi

di FABIANA SARGENTINI

Caro Mattia, sono giorni che cer-co il modo di rivedere in Rete le prime puntate di Boris, invano. Non che non lo ricordi ma volevo ritrovare fresca l’emozione del-le inquadrature iniziali, le prime battute, gli abbozzi dei personag-gi. Non sono riuscita. Immemore in me il ricordo nitido di come vedemmo quelle scene io e mio marito nei trentasei metri quadri dove vivevamo il nostro amore appena divenuto famiglia: nell’u-nica stanza salotto-studio-ca-mera da letto, accanto alla culla, sdraiati per terra, con una sola cuffia dal filo corto attaccata al te-levisore catodico, vicinissimi allo schermo con gli auricolari girati ognuno verso un orecchio, il mio sinistro, il suo destro, col volume al massimo ma appena percepi-bile da fuori, per non svegliare il pupo. Ricordo bene le risate sof-focate fino al pianto, le gomitate come fossimo in classe durante

il compito di latino, il desiderio che quello svago clandestino non terminasse mai. Ricordo quan-do mi parlasti per la prima volta della serie che stavi scrivendo, che non si chiamava Boris, come il campione di tennis Becker, ma Sampras, numero uno del mondo per sei stagioni consecutive nella medesima disciplina, che però dava già il titolo a qualcos’altro, con tuo sommo rammarico. Ri-cordo la fierezza a teatro davanti ai tuoi successi: dire “è mio ami-co” provocava gioia empatica e il piacere delle cose belle. Ricordo il tuo entusiasmo per lo champagne Crystal al nostro matrimonio: go-dere della vita era la tua missione, che ti veniva benissimo. Ricordo quando venisti a vedere un pre-montato di un mio documentario e mi dicesti che era potente: mi

stimavi con generosità sincera e credevi in me prima di altri, con mio sommo orgoglio. Negli anni diventasti apprezzato e ricono-sciuto, lavoravi con personaggi noti senza perdere l’umiltà e la mi-tezza di carattere che hanno fatto di te un grande sceneggiatore, un grande autore teatrale, un grande regista, un grande. Il tuo talento trapelava in ogni gesto, ogni cena, ogni gustoso scambio di opinioni su qualsiasi cosa. Quando ho sa-puto della tua malattia non ci ho creduto, non poteva essere, tu eri più forte, nessuno poteva spezzar-ti. Infatti, all’inizio hai vinto, hai continuato a produrre, a scrivere, a trovare meravigliose ragioni di vivere in tua moglie e nei vostri

Mattia Torre (1972-2019)

GODERE DELLA VITA

bellissimi bambini. Quando in tv è arrivato Dov’è Mario?, con mio figlio, di soli otto anni allora, non abbiamo perso un episodio. Ora che è più grande non vedo l’ora di fargli godere di Boris: che strazio pensare che - ahimè, ahinoi - sarà senza poterti telefonare e raccon-tare quanto abbiamo riso.

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di FEDERICO BONDI

UNA “GEMMA” FRAGILE E DETERMINATA

Nell’inverno del 2007 ero alla ri-cerca dell’interprete per il ruolo dell’anziana signora in Mar Nero, il mio primo film di finzione che avrei girato l’anno successivo. Quando Ilaria si presentò al pro-vino, stretta in un cappotto che non si tolse, tremava. Il volto in particolare, quella sua bellezza austera trasfigurata dalla tensio-ne, la voce rotta per l’emozione quando mi disse che non si sen-tiva pronta… Ma si fece coraggio: rimanendo in piedi, si portò con le spalle al muro come per sostener-si o mettersi alle strette da sola – la cosa mi colpì non poco! – e attac-cò con la scena che si era prepara-ta. Aveva scelto una delle più osti-che, un episodio dove Gemma, la protagonista, doveva apparire senza difese, piccola e vulnera-bile. Ilaria balbettava. Un’attrice di 74 anni che aveva lavorato con i più grandi, da Visconti a Ronco-ni, si sottoponeva allo strazio di un provino per l’opera prima di un trentaduenne. Alla fine, esau-sta, si mise a sedere, riprese fiato e con gli occhi chiusi sottolineò quanto tenesse a quella parte. Pri-ma di lasciare la stanza, mi salutò impacciata, come se si vergognas-se di aver tradito le mie aspetta-tive. Ilaria invece spazzò via ogni concorrenza ed ebbe il ruolo. Da grande professionista quale era, la dedizione fu totale. Non la pre-

occupavano lo studio sulla postu-ra di una donna con problemi di deambulazione (Ilaria era ancora in ottima forma) o l’estrazione sociale di Gemma, ispirata a mia nonna, così lontana dal suo am-biente. Aveva paura di non essere in grado di riappropriarsi di quel dialetto fiorentino per me ne-cessario. Ma non ebbe difficoltà, tornava alla sua calata d’origine con disinvoltura, come aveva di-mostrato in Benvenuti in casa Gori (1990) di Alessandro Benvenuti. Le chiacchiere nel suo attico ro-mano. Le prove costume col ma-rito, Raffaele La Capria, a cui non mancava mai di chiedere con-siglio. L’umiltà di mettere un’e-sperienza maturata in decenni di attività al servizio di un documen-tarista che non aveva mai diretto un attore! Ma lei aveva fiducia in me, si lasciava guidare perché, diceva, sapevo ascoltare. Sempre insoddisfatta e piena di incer-tezze sulla riuscita di una scena, Ilaria cercava costantemente l’intensità, a costo di “perdersi” e soffrire per poi “ritrovarsi” ogni volta. Così facendo, è riuscita a imprimere solidità e debolezze, rigidità e dubbi a un personaggio complesso come Gemma, fragile e determinata allo stesso tempo. La ricordo in questo modo, incre-dula e fiera con il Pardo in mano al 61° Festival di Locarno.

Ilaria Occhini(1934-2019)

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latest - ricordi

di STEVE DELLA CASA

Vittorio De Sica di ragazzini al ci-nema se ne intendeva. E pare sia stato proprio lui a indicare a Duilio Coletti, che stava preparando il ritorno di De Sica nel film Cuore come attore dopo i grandi succes-si neorealisti, che quel ragazzino con il naso storto presentatosi ai provini sarebbe stato un bravis-simo Garoffi. Come ben ricorda chi ha letto De Amicis, Garoffi ha un naso da civetta e passa il suo tempo a mercanteggiare, a fare traffici, dimostrando una vitalità non comune. Inutile dire che il bambino in questione era il do-dicenne Carlo Delle Piane, figlio di un sarto che risiedeva a Campo de’ Fiori. Avrebbe dovuto essere un’esperienza unica, invece Del-le Piane continuò, diventando prima il figlio di Totò in Guardie e ladri (con annesso un tema sul padre che sembra anticipare la famosa lettera di Totò, Peppino e la malafemmina), poi il figlio di Aldo Fabrizi nel fortunatissimo La fa-miglia Passaguai e poi il dinamico Cicalone amico e vittima di Sordi

in Un americano a Roma. A quel punto, la carriera di Delle Piane sembrava assolutamente disegna-ta: in virtù di quel suo vitalismo e del naso storto (dovuto probabil-mente a una pallonata ricevuta in tempi in cui le ferite dei bambini non venivano medicate), Delle Piane sarebbe stato un caratteri-sta. E così è stato. Ha lavorato con tutti i maggiori comici, ha parteci-pato a tantissimi film. Mai grandi parti, ma una presenza costante e riconoscibile, talmente riconosci-bile da portarlo anche a teatro nel ruolo di Bojetto, il figlio di Mastro Titta nel Rugantino. E tanti film con Marino Girolami, nato nel suo stesso quartiere di Roma e suo grande amico.

Poi, tra i ‘60 e i ‘70, qualche segna-le che Delle Piane vuole cambiare. Lavora con Skolimowski e con Polanski, i due grandi nomi del cinema polacco che si spostano entrambi in Occidente dopo aver ottenuto il successo. Ma poi so-prattutto con Pupi Avati. I due si

conoscono dopo che Delle Piane ha avuto un incidente d’auto che lo ha mandato in coma, e forse anche da quello Avati riesce ad estrarre l’anima malinconica che fino a quel momento era stata così nascosta. Come Gassman, che per passare alla commedia con I soliti ignoti ha dovuto balbettare e gon-fiarsi il viso con il cotone, anche Delle Piane deve mascherarsi: nelle foto per Una gita scolastica si esibisce con una parrucca bionda che lo rende irriconoscibile, per-ché il produttore non voleva nomi noti. Il resto è storia: con Avati, coppe Volpi e Nastri d’argento. Però, ai funerali, il cinema italiano era assente: forse, nessuno gli ha perdonato di essere molto più di un caratterista…

Carlo Delle Piane(1936-2019)

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MOLTO PIÙ DI UN CARATTERISTA

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internet e nuovi consumi

di CARMEN DIOTAIUTI

ITALY FOR MOVIES, L’ITALIA CHE SI GIRA

CON UN’APP

I luoghi del cinema italiano sono a portata di smartphone grazie a una nuova applicazione dedicata alle location italiane

per la produzione di film, serie tv e videogiochi: Italy for Movies, una guida tascabile e digitale

che accompagna tra i paesaggi memorabili del cinema. Rivolta a cine-turisti e operatori cinematografici,

l’app permette, con un solo clic, di scovare i più bei film girati nei paraggi o la location più adatta per ambientare una nuova storia.

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Esiste una nuova ed emotiva-mente coinvolgente modalità di esplorazione dei luoghi del cine-ma e del mondo circostante. È la fruizione mediata da dispositivi tecnologici che consentono allo spettatore di sovrapporre al livello del reale, fisicamente percepito, un nuovo livello rappresentativo, che rimane coerente con lo spazio in cui si muove, ma è amplificato artificialmente da informazioni e approfondimenti digitali custo-diti sul web. Una rivoluzione del reale in cui online e offline sono collegati, avviata già con l’intro-duzione dei QR Code, codici a barre bidimensionali stampati su carta, i quali veicolano un collega-mento a contenuti multimediali pubblicati online. La diffusione capillare, poi, di sensori per coor-dinate spaziali che permettono di individuare la posizione precisa di oggetti e persone (il GPS pre-sente oggi praticamente in ogni smartphone e tablet), ha definiti-vamente riscritto la pratica di frui-zione della realtà arricchendola di nuovi spazi di azione. Così succe-de che, grazie alla nuova app Italy for Movies, lo spettatore può avere un’esperienza curiosa e in-novativa dei film a partire dai veri luoghi in cui sono stati girati.

L’applicazione, disponibile per il download gratuito negli store digitali Apple e Google, sfrutta il GPS del telefonino per geo-loca-lizzare su mappa l’utente, che può così viaggiare in maniera curiosa e innovativa alla scoperta dell’Italia e dei luoghi che fanno cinema.

L’app ha un’interfaccia semplice e intuitiva, con un doppio accesso rivolto a turisti e operatori cine-matografici che, in base all’opzio-ne selezionata, possono scoprire i film più memorabili girati nei paraggi o le migliori location per il cinema disponibili nei dintorni. In questo modo produttori, lo-cation manager o registi, che si trovano nei pressi di una location e che sono interessati ai luoghi che stanno osservando per am-bientarvi un film, possono imme-diatamente scoprire l’esistenza di altre location poco distanti, accedere alle schede informati-ve corredate da dettagli tecnici, ottenere indicazioni di percorso per raggiungere il luogo, sapere se in zona sono già stati girati al-tri film, consultare gli incentivi disponibili per quell’area geogra-fica, contattare la Film Commis-sion di riferimento. Similmente l’appassionato di cinema, serie tv e videogiochi, può curiosare alla scoperta di cosa è stato girato nel luogo che sta visitando o nelle sue vicinanze, scoprire inaspetta-ti dettagli su set e ambientazioni, lasciarsi suggestionare da uno dei tanti e originali itinerari cine-turi-stici possibili, suggeriti, di volta in volta, a partire dalla regione in cui si trova. Un vero e proprio viaggio alla ricerca dei set, nella Storia e nelle storie del cinema, che lo por-ta sulle tracce dei borghi marinari del sud Italia e di quei luoghi po-polari e veraci raccontati da Lina Wertmüller, delle architetture esoteriche e monumentali filma-te dal maestro del brivido Dario

Argento, dei sentieri da favola dell’Abruzzo di Ladyhawke o del Lazio incantato de Il racconto dei racconti; ma anche di location ina-spettate, come le Dolomiti bellu-nesi e il Lago di Como che hanno fatto da sfondo agli scenari fan-tascientifici di Guerre stellari, o la Valle d’Aosta, che si scopre aver dato forma a Sokovia, l’immagi-nario paese dell’Europa orientale che appare nel sequel di Avengers.

Italy for Movies è una guida tasca-bile, completa ed aggiornata, de-dicata ai migliori luoghi italiani per la produzione cinematogra-fica e audiovisiva. Nasce dai con-tenuti dell’omonimo sito online già dal 2017, ma la novità nella sua versione smartphone è il ruolo attivo dello spettatore, a cui viene offerta un’esperienza perso-nalizzata in base al luogo fisico in cui si trova. Può, inoltre, muoversi sulla mappa digitale alla scoperta di altri luoghi e film, decidere se ricevere notifiche su contenuti di interesse nelle vicinanze, scattare direttamente dall’app fotografie di paesaggi per poi condivider-le su Instagram, utilizzando gli #hashtag automaticamente cre-ati. Viene così stimolato ad arric-chire la sua esperienza sensoriale con elementi multimediali che si muovono con lui nello spazio e con i quali può liberamente in-teragire. Con l’app, dunque, il di-gitale entra nel quotidiano come espansione dello spazio di azio-ne del soggetto, e ne valorizza il reale percepito.

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pro e contro

latest - pro e contro

di EMANUELE RAUCO

LA SOLITUDINE DEI NUMERI 1

Un gioco irresistibile tra cinefili, che mette spesso a dura prova la pazienza: le classifiche. Perché amarle? E perché no?“Preferire è il primo atto della vita intellettuale”, diceva Nicolás Gómez Dávila. Non ditelo a un cinefilo. La sua vita è costellata di preferenze, di scelte, e quale modo migliore di preferire che comporre una classifica? A leg-gere i quotidiani d’oltre Manica o d’oltreoceano, le riviste specia-lizzate e i siti Internet dedicati al cinema, sembra che non passi giorno senza una classifica di film. Ovviamente imperversano quelle che riguardano la fine dell’anno, ma riviste come “Sight & Sound” periodicamente aggiornano le proprie classifiche di tutti i tempi, oppure si fa la corsa per condivi-dere e commentare le classifiche di registi importanti su vari argo-menti, da Spike Lee al classifica-tore compulsivo Tarantino. Quest’estate, il movimento dei cinefili è stato incendiato dalla classifica di “FilmTv” dedicata ai migliori film del decennio (subi-to accusata di classificatio precox, tra chi diceva che alla fine del decennio mancassero 6 mesi, chi un anno e sei mesi), poco prima di venire rimpiazzata nell’inte-resse del cinefilo dalla classifi-ca redatta da “The Guardian” sui migliori film del XXI secolo, alla faccia della precocità. Già lo scorso anno la rivista settimana-le diretta da Giulio Sangiorgio aveva acceso i dibattiti con una classifica (ben più strutturata di questa, dalle intenzioni più ar-

ticolate e con la partecipazione non solo dei collaboratori della rivista, ma di studiosi, critici ed esperti non solo italiani) sui film migliori della storia del cinema italiano. “Quella era una classifica - ci dice Sangiorgio - fatta con un criterio storico e critico ben de-finito, per far conoscere la storia del cinema soprattutto ai lettori più giovani, mentre quest’ultima era più un gioco legato all’assen-za in estate di argomenti forti o film forti di cui parlare. Un gioco editoriale, certo, però rivendico l’importanza della classifica come strumento critico: penso che in questo periodo di stimolazioni infinite e poca memoria serva un canone, un modo per fare ordine, cercando di approfondire a parti-re dalla classifica e mi piace farlo mescolando tutte le sensibilità e le influenze diverse di chi scrive sulla rivista”.Tra questi Pedro Armocida, cri-tico e direttore della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, che ha sfruttato l’interesse per la classifi-ca per farne un tormentone, usan-do con la dovuta ironia i mezzi social: l’epopea dei commenti alla sua classifica e di tutti gli appunti che i cinefili fanno ai compilatori è stata uno dei risvolti più buffi della questione. “Eppure, sono una vittima - ci dice - perché a me le classifiche non piacciono molto, ho sempre l’impressione di essermi dimenticato qualcosa

di importante. In questo caso, ho rimandato fino all’ultimo e poi l’ho fatta di fretta, accorgendo-mi appunto di aver dimenticato cose notevoli. Per cui quando me l’hanno fatto notare ho pensato avessero ragione e ho riportato tutto su Facebook”. Il dibattito che già normalmente tra cinefili è acceso - lo diceva Pennac ben prima dei social network - con le classifiche si scatena, perché ogni critico o appassionato sceglie un metodo molto prima che un film, e ogni metodo si pensa sia il mi-gliore. È uno dei motivi per cui le classifiche fanno storcere il naso a più d’uno: “Ho sempre creduto che le classifiche di tipo artistico siano dannose per la creazione di uno spazio comune di con-fronto, polarizzano le opinioni e non aiutano in nessun modo la comprensione dell’opera”, ci dice Francesco Fusar Poli, studioso di estetica e filosofia alla Statale di Milano. È la critica che si è sempre fatta alle recensioni da parte di studiosi e analisti, il vero vulnus della critica semaforica, ma Ni-cola Calocero, cultore di Storia e critica del cinema a Tor Vergata, che collabora anche alla Festa del Cinema di Roma, tira fuori anche un altro aspetto: “Chi si applica nelle classifiche non fa lo sforzo di pensare a chi ha un gusto diver-so dal suo o ad ampliare il proprio sguardo verso altri tipi di sensi-bilità. È importante mettersi al

servizio del pubblico o del lettore e cercare di capire dove il cinema sta andando. Con le classifiche non avviene: sono un mezzo epi-gonale”.Tutto vero, tutto giusto, e sono in molti a condividere questo odio per la classificazione, da Alberto Crespi ad Anton Giulio Mancino fino a Dario Tomasi, critici e stu-diosi tra i più eminenti in Italia. Eppure, a volte il gusto ludico del cinema e della critica prende il so-pravvento, il bisogno, come dice Sangiorgio, di mettere ordine si mescola con la condivisione più o meno narcisistica di un pensie-ro e anche con la voglia di sentirsi al sicuro. Le classifiche di film - specie se intese come liste da cui prendere spunti di visione - sono importanti per chi le fa, ma prima ancora per chi le legge, perché aiutano a stabilire dei paletti, dei perimetri entro cui muoversi, che spesso si prendono come misura di partenza per allargarli, ridefi-nirli, rimuoverli. Dicono qualco-sa dei film che citano? Certo che no, specie se restano elenchi. Ma ricordano la differenza che passa tra il cinefilo e il critico (per non dire il teorico), una differenza che spesso sta proprio nella voglia di giocare prima che di elaborare. E ora vi lascio che devo mettere in ordine i film per la classifica di fine anno.

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biografie

latest - biografie

FEDERICO BONDI

ALESSANDRA TIERI

WINNIE L.M. YEE

GIAMPAOLO G. RUGO

Nato a Firenze nel 1975, nel 2008 debut-ta alla regia con Mar Nero, in Concorso al 61mo Festival di Locarno (dove vince il Pardo d’oro per la Migliore Interpre-te Femminile, il Premio della Giuria Ecumenica e della Giuria Giovani) e candidato al David di Donatello per la Migliore Attrice protagonista e al Na-stro d’argento per il Migliore Regista Esordiente. Dalla fine degli Anni ‘90 è regista di spot e documentari, tra cui So-ste (2001), Soste Japan (2002), L’uomo planetario. L’utopia di Ernesto Balduc-ci (2005), Educazione affettiva (2014). Dafne (2019), il suo secondo lungome-traggio di finzione, presentato alla 69ma Berlinale nella sezione Panorama, dove vince il Premio Fipresci.

Giornalista pubblicista e laureata in Lingue e letterature straniere, ha iniziato la sua attività di comunicazione in ambito cinematografico presso Istituto Luce, quando presieduto da Angelo Guglielmi: nel 2003 assume la guida dell’ufficio stampa. L’anno successivo le viene affidato il medesimo compito professionale presso Lucky Red. Circa 300 i titoli seguiti in questo ruolo, toccando i generi più diversi, senza rinunciare a occasionali incarichi di docenza in materia di comunicazione presso Ateneo Impresa, l’Università Cattolica, la Luiss e altri istituti universita-ri. E senza rinunciare a una doppia felice maternità.

Docente associata in Letterature comparate e coordinatrice del programma in Studi lette-rari e culturali alla University of Hong Kong. I suoi interessi di ricerca riguardano l’eco-critica e il cinema indipendente di Hong Kong. Sta la-vorando ad un libro che esplora la relazione tra poetiche ecologiste e la scena dei film indipendenti cinesi.

Nato a Genova nel ‘68, romano acquisito. Oltre alla narrativa ha scritto per la radio e il teatro. Per il cinema ha sceneggiato Governance insieme a Heidrun Schleef e Michael Zampino. L’uscita del film con la regia di Zampino, e interpretato da Massi-mo Popolizio e Vinicio Marchioni, è previ-sta per la prima metà del 2020.

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sul prossimo numero in uscita a dicembre 2019

ScenariIl cinema e l'industria italiana

InchiesteCassee cassiere

FocusIl cinemain Indonesia

AnniversariA 50 anni da...Metti una sera a cena

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INCHIESTELo sport nel cinema italiano

ANNIVERSARIA 50 anni da La caduta degli Dei

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RICORDIAndrea CamilleriLuciano De Crescenzo

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Nulla è più necessario del superfluo.(da La vita è bella di Roberto Benigni)

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MARKETING E CINEMA.COME RIACCENDERE LA VOGLIA DI FILM?

n°47 novembre 2019 € 5,50