La camera oscura

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La camera oscu Elton Varfi ura

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Racconto breve a scopo promozionale. Pubblicato da Elton Varfi

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Elton Varfi

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La camera oscura

di Elton Varfi

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2012 © Elton Varfi Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: Elton Varfi: [email protected]

NOTA DELL’AUTORE La presente novella è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Blog dell’ autore www.varfielton.blogspot.it

L’immagine usata per la copertina è di pubblico dominio.

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i piace la fotografia. Mi piace tanto. Sono un appassionato. Mi interessa fotografare uomini e donne, i loro volti. Volti che parlano, dicono tutto

delle persone cui appartengono. A volte non dicono niente, perché non c’è niente da dire. Maschere di una disfatta, impassibili, senza anima. Di solito fotografo i vagabondi o, se preferite, i barboni: chiamateli pure come volete. Sono indifferenti verso tutti e tutto, verso la vita stessa. Sono di poche parole, a volte di nessuna. Eppure i loro volti parlano. Raccontano tutto: la vita passata, presente e certe volte anche quella futura. Basta saper leggere nei loro occhi vuoti e vedere il nulla della loro esistenza. Ma perché mai perdo tempo a parlare dei barboni? Se proprio devo, preferirei parlare dei miei “ferri del mestiere”. Ho una Reflex a rullino. Non che non mi piacciano le digitali ultimo modello: la mia però, oltre ad essere un gioiello delle tecnologia, prevede il rito dello sviluppo della pellicola, e per farlo ho creato una camera oscura. Adoro la mia camera oscura. Dalla carta fotografica bianca, immersa nelle soluzioni, emerge pian piano l’immagine impressa. Mi piace il silenzio, l’odore del bagno, la tenue, innocua luce rossa che delinea il profilo delle cose. C’è qualcosa di magico. Il mese scorso, forse di domenica, uscii da casa alla ricerca di soggetti da fotografare. Mi aggirai per la città come un predatore sulle tracce della sua preda. Non trovavo nulla che mi intrigasse e, quando stavo perdendo le speranze, eccolo là. Era seduto su una panchina del parco. Un senzatetto o barbone, chiamatelo come volete, stava bevendo beato dalla sua bottiglia. Mi avvicinai senza timore e lo salutai. Inaspettatamente, anche lui mi salutò. Di solito sono burberi e diffidenti. Mi fece quasi simpatia.

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Gli chiesi se voleva guadagnare qualche spicciolo. Ovviamente per lui la prospettiva di un'altra bottiglia di liquore era allettante e così accettò. Lo fotografai a lungo. Si metteva in posa e mi faceva ridere. Trovavo buffo quel suo fissare l’obiettivo della macchina fotografica con i suoi occhi spenti, senza vita. La sua faccia, però, era un vero capolavoro. Era brutto, ovviamente, ma il suo viso mi diceva tutto di lui. Mi diceva che in passato aveva avuto un lavoro e una moglie ma che, rimasto sopraffatto dalla loro banalità, aveva deciso di far finta che non esistessero affatto. Un giorno lo licenziarono. Un altro, scoprì che la moglie lo tradiva con un uomo banale. Lo scoprì grazie ad un post-it attaccato sul frigo. Iniziò a bere, perdendo l’ultimo barlume di ragione che aveva. Ora è un vagabondo, e per lui è una liberazione. Anzi ora è libero come mai lo era stato prima. Ma cosa sto dicendo? Mi piace volare un po’ con la fantasia. Mi piace inventare storie sulle persone di cui fotografo i volti. E diciamo la verità, il suo volto era quello di un barbone qualunque, la sua storia avrebbe potuto essere la storia di chiunque altro. Arrivato a casa, entrai nella mia camera oscura e sviluppai il rullino. Mentre stavo stampando la foto del barbone, notai con mia grande sorpresa che non assomigliava per niente allo scatto che avevo fatto solo poche ore prima. L’uomo era lo stesso, ma era immerso in una pozza di sangue. Aveva la gola tagliata e diverse coltellate sul corpo. Mi chiesi cosa stesse succedendo e se, per caso, non fossi impazzito. “Eppure ho fotografato un tranquillo barbone. Non ricordo affatto questa scena orribile.” Presi la foto, la misi nella tasca interna della giacca ed uscii di corsa da casa. Arrivai nello stesso posto dove avevo incontrato l’uomo; lo vidi tranquillo, intento a bere dalla solita bottiglia. “Diamine!” pensai “Forse sto impazzendo.” Tirai fuori dalla tasca la foto e la guardai. Era quella che avevo scattato a quel

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tipo nella sua posizione un po’ buffa. Non capivo. La foto con il barbone morto era solo frutto della mia fantasia? Tornai a casa pensieroso. Non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine che avevo visto sviluppando quella maledetta foto. Un uomo massacrato. Cercai di non pensarci più, di rimuovere dalla mente quella macabra visione. Non ci riuscii, ma percepivo anche di non volerlo: non volevo dimenticare. Il mattino dopo lessi sul giornale della morte del vagabondo. Capii che era lui dai particolari descritti con cura dal giornalista. Non ci potevo credere: la polizia aveva trovato il corpo senza vita esattamente come mi era apparso nella foto. Controllai nuovamente la fotografia e niente era cambiato. Il barbone era lì, nella sua posizione un po’ curiosa. Sembrava che si facesse beffe di me. Mi chiedevo come fosse possibile tutto ciò. Non avevo mai saputo di essere un veggente. Andare alla polizia? Mi avrebbero creduto? Decisi di non farne parola ad anima viva. Non si sarebbe mai ripetuto un episodio simile. Non volevo scoprire niente. Era e sarebbe rimasto un mistero. La foto la distrussi, per maggiore sicurezza. Dimenticare era la cosa più giusta. Perdonarmi per aver saputo, per aver visto. Un nuovo giorno. Di nuovo in strada a cercare di fotografare i miei soggetti preferiti. Volevo che la brutta esperienza rimanesse solo un lontano ricordo. Alla stazione ferroviaria vidi una donna che chiedeva l'elemosina. Mi avvicinai e le diedi qualche spicciolo. Lei ringraziò, ma appena le chiesi di poterla fotografare divenne nervosa e per poco non mi mise le mani addosso. Mi allontanai perché non volevo attirare l’attenzione dei passanti. Salii al piano superiore della stazione e mi sistemai sulla gradinata. Grazie al teleobiettivo riuscii a farle alcuni scatti. Al mio ritorno a casa, andai senza perdere tempo nella camera oscura. Sviluppai le foto. No! Non potevo crederci. In una immagine,

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sullo sfondo, la mendicante era sdraiata a terra con gli occhi cavati e il ventre squarciato a tal punto che si potevano scorgere gli organi interni. “Mio Dio, che cos’è questo orrore?” Restai affascinato da quella terribile sensazione. Disgustato per l’attrazione insana che sentivo crescere. Poi subentrò la nausea a farmi rinsavire. L’indomani sfogliai impaziente il giornale del mattino: Un altro mendicante morto. Questa volta si tratta di una donna. Il cuore mi batteva forte, mi mancava l’aria e avevo la bocca asciutta. Avevo bisogno di sapere cosa stesse succedendo. Per alcuni giorni rimasi chiuso a casa. Leggevo ogni mattina il giornale, ma niente. Delle morti dei barboni non c’erano più notizie. Avevo passato troppo tempo in casa privato della mia unica passione, punito. Decisi di uscire per tornare a fotografare. Non riuscivo a controllare il desiderio di farlo. Dovevo fotografare. Andai nei pressi di una mensa per i poveri. Diedi una buona mancia al primo barbone che incontrai. Lui non esitò a mettersi in posa. Corsi a casa e filai dritto nella camera oscura. L’immagine impressa sulla carta fotosensibile era quella di un clochard appeso per i piedi, anche lui con il ventre squarciato e gli organi interni sparsi per terra. Andai a dormire con un vuoto nello stomaco. L’indomani ero sicuro che avrei letto i particolari della morte del barbone sul giornale. Nella notte successe qualcosa. Erano le due del mattino. Fuori era buio pesto e io mi ritrovai in macchina. Non ricordavo bene come ci fossi arrivato e cominciai a farmi delle domande: “Dove sono diretto?” Alla mensa per i poveri, amico. “Cosa devo fare?” Oh, non ti preoccupare. Una volta arrivato ti sarà tutto chiaro.

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“Mio Dio, che sto facendo? Perché sono fuori a quest’ora di notte?” Avvertii il calore di alcune risposte alle mie insensate domande e le vene iniziarono a pulsare all’unisono. Sai cosa fare. Cosa aspetti? Arrivai alla mensa. Non mi fu difficile trovare il barbone. Stava dormendo per terra ed era solo. Dormiva nel pressi dell’entrata per fare in modo da essere il primo per la colazione del giorno dopo. “Pensano sempre a mangiare! Una vita senza senso”. Non ero sicuro di essere io a pensare che la sua vita non avesse senso, eppure lo legai con una corda trovata per caso. Non ero sicuro di volerlo, ma non feci nulla per impedire alla mie mani di ucciderlo miseramente e alla mia testa di smettere di pensare quanto fosse inutile la sua vita. Due giorni dopo mi ritrovai di nuovo in giro per la città. Eccone un altro. Un mendicante stava elemosinando qualche monetina ai passanti. Mi avvicinai. Finalmente ero guarito. Avevo sempre vissuto consapevolmente solo una parte di quello che ero. Sentivo il bisogno di dare voce a ciò che non capivo, al mio io più intimo e silenzioso, che per discrezione non amava parlare con me. Agiva e basta. Adesso la mia parte ignara finalmente riconosceva la sua ombra e io mi sentivo guarito. Entrando nella camera oscura, entrambe non vedevano l’ora di scorgere l’immagine impressa sulla carta fotografica. Era un vero divertimento, commissario, un vero spasso.

Fine

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Il fantasma di Margaret Houg

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Londra, ai giorni nostri. Muore la moglie di un potente e chiacchierato banchiere ma, un anno dopo il decesso, i figli della signora affermano di averne visto il fantasma aggirarsi per la villa.

E’ realtà? E’ un incubo? C’è qualcosa di torbido nella faccenda? Toccherà a Ernest Devon, un ex poliziotto di Scotland Yard ora investigatore privato ed al suo amico Roni, risolvere l’intricato caso, che si sviluppa tra ricatti, sospetti ed un efferato omicidio. Sullo sfondo si snoda la personale vicenda sentimentale del protagonista, che difende con tenera ostinazione il suo impossibile amore per la ex moglie.

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